«Raccontami una storia. Fiabe e racconti di Locorotondo», di Leonardo Angelini

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Leonardo Angelini

Raccontami una storia Fiabe e racconti di Locorotondo Funzioni e significati del narrare orale in situazione


Indice

Premessa

9

Fiabe 1.

La storia del mortaio [Anna Angelini]

17

2.

Gnumerìdde [Angela Caramia]

24

3.

La storia di Viola [Anna Angelini]

27

4.

Le due sorellastre e la matrigna [Donata Guarnieri]

32

5.

Cudìcchie e la mucca zoppa [Colomba Leo]

37

6.

Cuzzulìcchie e la corona rubata [Leonardo Cardone]

43

7.

La storia di Marangella [Anna Angelini]

54

8.

La storia dell’uccel di Grifù [Leonardo Cardone]

56

9.

Il serpente a sette teste [Pasqua Lorusso]

64

10. Il furbo e lo scemo [Pasqua Lorusso]

71

11. Paoluccio e Maria [Pasqua Lorusso]

77

12. I tre gemelli [Cosimo Sarcinella]

86

13. Malpensiero [Giuseppe Sarcinella]

91

14. L’indovinello per la figlia del re [Cosimo Sarcinella e Giuseppe Convertini]

97

15. Quaranta compari a Napoli [Pasqua Lorusso]

100

16. La chioccia d’oro [Giuseppe Sarcinella]

109

17. La storia di Saverio [Giuseppe Sarcinella]

112

18. Apriti cicerchia! [Pasqua Lorusso]

116

5


Narrazioni non fiabesche 19. Comare Bianca [Colomba Leo]

125

20. La storia della formica [Colomba Leo e Donata Guarnieri]

126

21. Il fischietto [Colomba Leo e Donata Guarnieri]

128

22. I tre amici a caccia [Colomba Leo e Donata Guarnieri]

129

23. Tegamino! Scorzettino! [Angela Caramia]

130

24. Il contadinello che viene a Locorotondo per la prima volta [Leonardo Cardone]

130

25. Storielle varie di Gaetano di Sisto [Leonardo Cardone]

134

26. Tetè e il formaggio [Leonardo Cardone]

138

27. Tetè e la focaccia rubata [Leonardo Cardone]

141

28. Tetè e i fioroni [Leonardo Cardone]

146

29. Cristo, san Pietro e la pestilenza [Leonardo Cardone]

148

30. La storia di san Giorgio [Pasqua Lorusso]

152

31. La lumaca [Giuseppe Convertini]

155

32. Il testamento [Cosimo Sarcinella]

155

33. Il vero Maestro [Giuseppe Convertini]

160

34. San Pietro e il Maestro [Giuseppe Convertini]

161

35. La forza della scuola [Giuseppe Convertini]

162

36. Don Angelo [Cosimo Sarcinella]

163

37. Analisi delle urine [Cosimo Sarcinella]

164

38. Marito e moglie dall’avvocato [Cosimo Sarcinella]

166

39. Indovinello [Giuseppe Convertini]

167

40. La confessione [Cosimo Sarcinella]

168

41. Fratelli di religione [Cosimo Sarcinella]

169

42. I fioroni fasanesi [Cosimo Sarcinella]

170

43. Chi è più scemo [Cosimo Sarcinella]

171

44. Nicola lo scialacquatore [Cosimo Sarcinella]

173

45. La mucca rubata [Giuseppe Sarcinella]

175

46. Le mucche che diventano montoni [Concetta Palmisano]

177

47. Filastrocca di Cicirinella [Giuseppe Sarcinella]

180

48. Un testamento fatto in maniera fraudolenta [Giuseppe Convertini]

181

49. Storie di Donna Silvia [Giovanni Palmisano]

182

6


50. La luce mia [Pasqua Lorusso]

183

51. Il capitano Spacca [Cosimo Sarcinella]

184

52. La quaglia, il pettirosso e la tortora [Cosimo Sarcinella]

186

53. Il vino [Cosimo Sarcinella]

187

54. La volpe e la quaglia [Giuseppe Convertini]

188

55. Il gatto e il topo [Cosimo Sarcinella]

190

56. Le monache e il giovane inesperto [Cosimo Sarcinella]

191

57. La grazia [Pasqua Lorusso]

192

Funzioni e significati del narrare orale in situazione 1.

Ritornando nel regno delle fiabe

2.

Chi racconta le fiabe

3.

I luoghi e i tempi della affabulazione

4.

Le storie e i fatti: il rapporto tra fiaba e altre forme del raccontare orale a Locorotondo

4.1. Il termine ‘storia’: congruenze e affinità, p. 222 - 4.2. Le storie e i fatti: primi elementi per una distinzione, p. 224 - 4.3. Dal fatto rammentato alla fiaba, p. 226

5.

Le fiabe locorotondesi: quali identificazioni e quali abreazioni

5.1. I presupposti che producono l’identificazione, p. 229 - 5.2. Processi di identificazione e varietà delle culture, p. 232 - 5.3. Quali abreazioni, p. 235

6.

Locorotondo, paese e campagna

197

1.1. Riattraversamenti, p. 197 - 1.2. Rimaneggiamenti, p. 199 - 1.3. Misconoscimenti e dimenticanze, p. 200

202

2.1. Le ricerche sulle fiabe, p. 202 - 2.2. Le ricerche sulle fiabe in Italia, p. 204 - 2.3. Chi racconta le fiabe, p. 209

213

3.1. La definizione del luogo, p. 213 - 3.2. C’era una volta: la dimensione temporale delle fiabe, p. 216 - 3.3. La fiaba, il sogno, il mito: quali luoghi, quali tempi, p. 218

222

229

237

6.1. La specificità dell’ambiente, p. 237 - 6.2. Il processo di distacco fra paese e campagna, p. 240 - 6.3. Paese e campagna: due culture a confronto o una cultura double face?, p. 244

7


7.

8.

9.

Fiabe e racconti: dall’incanto dell’ascolto a bocca aperta al disincanto della lettura critica

246

7.1. Il linguaggio dimenticato delle fiabe, p. 246 - 7.2. Quali conflitti e quali angosce si celano nelle fiabe locorotondesi, p. 249 - 7.3. Funzioni difensive dei racconti non fiabeschi, p. 253

Varietà culturale e fine dell’antagonista

256

8.1. Che fine ha fatto l’antagonista? Parti cattive del Sé in paese e in campagna, p. 256 - 8.2. Diverse funzioni terapeutiche delle fiabe a fronte di diversi sistemi sociali di difesa, p. 259 - 8.3. Il processo di trasformazione della fiaba e la varietà delle culture, p. 262 - 8.4. Rivalità fraterna e varietà delle culture: l’esempio della fiaba de L’uccel di Grifù, p. 266

Il maschile e il femminile nelle fiabe locorotondesi

271

9.1. “Animus” e “Anima” nelle fiabe locorotondesi, p. 272 - 9.2. L’eroe maschio e “il femminile” nelle fiabe locorotondesi, p. 276 - 9.3. Il femminile e il maschile dal regno delle fiabe alla realtà di tutti i giorni, p. 279 - 9.4. Perché a Locorotondo il narratore era di sesso maschile?, p. 282

10. Problemi metodologici 10.1. Il rapporto fra osservazione e partecipazione, p. 285 - 10.2. Le fonti

285

orali, p. 288 - 10.3. L’interpretazione dei fenomeni sociali (gruppali), p. 292 - 10.4. Schema strutturale delle fiabe di Locorotondo, p. 294

11. Il materiale raccolto: dalla registrazione alla trascrizione e traduzione dei testi 11.1. Il dialetto, p. 296 - 11.2. La lingua delle fiabe popolari, p. 299 - 11.3.

296

Problemi e criteri di trascrizione e di traduzione, p. 301 - 11.4. Elenco delle registrazioni e degli informatori, p. 302

Bibliografia

305

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Premessa

Ad Antonia e Viola

Il primo ricordo che affiora alla memoria non appena penso alle fiabe della mia infanzia, e cioè di Locorotondo, è l’immagine del mio nonno paterno: Mèste Nàrde (Mastro Leonardo), come lo chiamavano in paese; Nonònno Maschio, come lo chiamavamo noi nipotini. Nonònno Maschio nel mio ricordo, infatti, è prima di tutto associato alle fiabe, alle “storie”– così lui le chiamava, e così tuttora usa dirsi dalle mie parti –, ed in special modo alle “storie di Tetè”. Queste storie, in verità, a guardarle adesso con gli occhi di adulto (che, per mestiere, lavora con i bambini e che quindi deve “farsi una cultura” sul loro modo di sentire e di comunicare), queste “storie”– dicevo – non sono delle vere e proprie fiabe, ma, se proprio vogliamo dar loro una denominazione, dei fatti rammentati; cioè racconti che, al contrario delle fiabe, si riferiscono a fatti realmente accaduti, a personaggi (Tetè, lo Zoppo, ecc.) realmente esistiti, ma che, come vedremo meglio in seguito, nella cultura locorotondese assolvono (o, almeno, hanno assolto in passato) funzioni Tetè simili, anche se non proprio uguali, a quelle della fiaba. Il ricordo che ho, per essere più precisi, è quello di mio nonno che d’inverno, intorno ad un braciere, racconta a me ed ai miei fratelli delle fiabe o delle “storie di Tetè”. Ricordo che noi lo ascoltavamo “a bocca aperta”, anche se lui ripeteva sempre le stesse storie. Ed infine ricordo che queste storie lui le raccontava in dialetto, anche se mio padre avrebbe preferito che noi bambini si parlasse in italiano anche quando si era in casa. Ora, problematizzando ogni aspetto di questo ricordo, veniamo a trovarci di fronte ad una serie di punti interrogativi la cui risoluzione ci aiuta a comprendere meglio cosa sono le fiabe, quali funzioni esse assolvono nelle diverse culture ed a quali bisogni tendono a dare una risposta.

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Cosicché le domande che via via mi porrò, interrogandomi sulle fiabe da me raccolte “sul campo” a Locorotondo nelle estati dell’82 e dell’83, sono le seguenti: – Chi racconta le fiabe? – Qual è il luogo e quali sono le condizioni in cui avviene il racconto? – A chi le fiabe sono dirette? – Qual è il rapporto tra fiaba, novella, fatto rammentato, ecc.? – Quali meccanismi di identificazione permettono l’ascolto “a bocca aperta” da parte del bambino? – Per quale ragione il bambino sembra non stancarsi mai dell’ascolto delle fiabe? – Ed infine: per quale ragione le fiabe ci riconducono cosi velocemente alla nostra “ lingua madre”? Per giungere poi a formulare una ipotesi sul significato cultural-specifico delle fiabe locorotondesi e, più in particolare, sulle differenze tra fiabe ascoltate dagli abitanti del paese e quelle che mi sono state raccontate dai contadini; nonché tra fiabe che hanno come protagonista un eroe e fiabe incentrate intorno alla figura di una eroina. Seguirà una rapida esposizione dei problemi metodologici incontrati ed un altrettanto rapido commento ai problemi derivanti dalla trascrizione e dalla traduzione dei testi, per giungere infine alla trascrizione ed alla traduzione di tutti i racconti da me ascoltati. Questo l’incipit del mio lavoro dell’ormai lontano 1989 sulle fiabe di Locorotondo, allora intitolato Le fiabe e la varietà delle culture. Funzione terapeutica e preventiva delle fiabe. L’esempio di Locorotondo, dalla cui revisione nasce il testo che il lettore ha ora sotto gli occhi. Si trattava di un testo che avevo scritto immaginando di rivolgermi ad un pubblico che comprendesse anche i miei concittadini, e più in generale i pugliesi. Il passaggio dal “lettore implicito” a quello “empirico” invece – anche grazie al fatto che il testo divenne una lettura facoltativa nel corso di Antropologia tenuto dal prof. Paolo Palmeri presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Padova – rivelò quanto lontano dal lettore reale fosse nella mia mente il lettore al quale mi ero rivolto durante la stesura del testo. Un lettore reale che alla fine comprese anche molti lettori che erano fuori dell’Accademia, ma pochissimi fra quei “lettori impliciti” per i quali avevo scritto. Per cui quando un editore pugliese, l’amico Piero Cappelli, mi ha spronato a ritornare sul testo ho accettato con gioia, anche se ero cosciente che nel frattempo (praticamente sono passati trent’anni dalla stesura iniziale del testo, e quasi trentacinque dalla ricerca sul campo che ha dato origine al testo) anche l’autore empirico (che poi sarei io) è cambiato; e che un ritorno sul testo avrebbe per forza di cose comportato una sua revisione che in certi casi – come poi è realmente accaduto – avrebbe potuto avere le caratteristiche della riscrittura. Il fatto poi che il testo pubblicato “allora” comprendesse solo la trascrizione e la traduzione in italiano di nove delle diciotto fiabe da me raccolte a Locorotondo

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nelle estati del 1982-83 e neanche uno dei trentanove racconti non fiabeschi, mentre quello attuale comprende trascrizione e traduzione di tutto il materiale “allora” registrato su nastro, unito al fatto che ora il mio pubblico implicito comprende a maggior ragione rispetto a ieri dei lettori pugliesi, mi ha portato a ulteriori revisioni, la più rilevante delle quali è il cambiamento del titolo del libro che ora il lettore empirico si appresta a leggere, cui segue una sorta di rovesciamento dell’impaginazione del vecchio testo che mi ha condotto a porre in primo piano la trascrizione e la traduzione delle fiabe e dei racconti, e solo a seguire i miei commenti di carattere etnologico ed analitico sul materiale raccolto. Il ritorno all’ascolto delle storie1 che i miei informatori avevano proferito in dialetto locorotondese nelle ormai lontane estati dell’82 e dell’832 per un verso mi ha ricondotto al mio popolo perché, come ha detto qualcuno, la voce del popolo è il popolo. Per altri versi mi ha fortemente emozionato poiché quelle voci provenivano da individui che si erano presentati a me con tutto lo spessore della propria individualità e come tali sono riemersi nel momento in cui li ho riascoltati. Ve li presento. Pasqua Lorusso innanzitutto: la più fantasmagorica delle mie informatrici. Nata a metà strada fra Locorotondo e Fasano, non solo si esprimeva in un dialetto ancora intriso di inflessioni fasanesi, ma lasciava trasparire una confidenza con il mare e un rapporto fra mare e campagna che nessuno degli altri informatori aveva. È sua la storia del Serpente a sette teste [9], che ha come protagonista il figlio di un pescatore. Ricordo che, dopo un intero pomeriggio passato a raccontarmi le sue storie, Pasqua mi diede appuntamento per il giorno successivo; e quando all’indomani pomeriggio andai a trovarla esordì Pasqua Lorusso dicendomi sorridendo che quella mattina, «con tutte quelle storie in testa», si era dimenticata a letto, venendo meno ai doveri domestici. Ricordo anche che fin dal primo giorno, insieme a me e a lei, si era accomodata sulla porta d’ingresso del suo trullo, nella frazione di Battaglini, una vicina di casa che «non stava bene di testa», come poi mi disse Pasqua di nascosto. All’inizio questa sua vicina era un po’ agitata, ma poi si calmò, e il giorno dopo era lì, puntuale, come per accedere ad una seconda seduta di psicoterapia. Anche Angela Caramia (Cum’Angiulìne) – un’altra delle mie raccontatrici contadine – aveva avuto qualche 1 Cercheremo di analizzare poi il significato che questo termine assume nella cultura della Murgia dei trulli 2 Voci che fra l’altro evocavano – e quasi mi riportavano – ad altre voci molto più distanti nel tempo: quelle dei loro nonni, dei loro zii, o in ogni caso dei narratori in situazione, vissuti per lo più fra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, che venivano rievocate giacché a ciascuno dei miei raccontatori chiedevo sempre da chi avessero ascoltato le “storie” che mi andavano raccontando.

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Angela Caramia

Colomba Leo

Donata Guarnieri

problema nel passaggio dalla maturità alla senescenza. Raccontava le sue storie con un andamento scoppiettante e con una mimica facciale volta molto seriamente a convincermi, ed a convincersi, della veridicità delle cose che andava narrando. O meglio – come avrei compreso dopo – a costruire una membrana gruppale (oltre a me, di solito, l’udienza comprendeva altre persone) capace di trasportarci tutti in un mondo “altro”, fatato. Di lei sono portato a ricordare soprattutto La storia di Gnumerìdde (Gomitoletto) [2] perché è di gran lunga la preferita di mia nipote Viola, che l’ha ribattezzata come “La storia di Tulì”, per via della filastrocca che Gnumerìdde canta ossessivamente per tutta la durata della fiaba: «Tulì, tulì! – tulì, tulì! / A figghie du rié à vogghie jie». Ho raccolto ben quattro versioni della storia di Cudìcchie (Codino) e la mucca zoppa [5], che così è risultata la più gettonata a Locorotondo. Nel testo il lettore potrà leggere la versione di Colomba Leo che, fra i miei narratori, è stata colei che più di tutti è riuscita ad arricchire il linguaggio parlato con tutta una serie di espressioni e di gesti di complemento che accentuavano la vis dramatica della storia. A lei si è aggiunta la figlia Donata Guarnieri che a sua volta, e quasi a completamento del racconto materno, mi ha comunicato un insieme di trame non fiabesche che poi ho ritrovato in tutti gli altri miei raccontatori. È stato Leonardo Cardone (Nardùzze a Stìzze), un altro dei miei narratori, a raccontarmi un insieme di fatti frammentati fra i quali quelli incentrati sulla figura di un certo Gaetano di Sisto, e soprattutto quelli di Tetè, che da bambino avevo già ascoltato da mio nonno. Da Nardùzze, amico d’infanzia di mio padre, ho ascoltato molte altre storie non fiabesche, fra le quali mi piace ricordare una novella religiosa a carattere scherzoso Cristo, San Pietro e la pestilenza [29]; ma soprattutto La storia dell’uccel di Grifù [8]: una fiaba che poi, come vedremo meglio più avanti, ho ritrovato – ovviamente con versioni diverse – sia a Reggio Emilia, città in cui vivo e lavoro Leonardo Cardone

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da oltre 45 anni, sia a Rovereto in una versione che risale al 1870, sia infine nelle storie siciliane del Pitré. Anche e ancora di più per Leonardo Cardone vale quanto dicevamo prima a proposito di Pasqua Lorusso: il suo dialetto, avendo egli vissuto per gran parte della sua vita in Argentina, appare intriso di termini e di inflessioni spagnoleggianti. Nonostante questa lunghissima assenza però la ricchezza del materiale che in lui si era sedimentato quand’era bambino, e che dentro di lui era sopravvissuto vivacissimo, nonostante il suo allontanamento dal paese, testimonia la profondità Cosimo Sarcinella del suo attaccamento alla terra natale. Dei fratelli Cosimo e Giuseppe Sarcinella, di Giuseppe Convertini e di Concetta Palmisano3, abitanti delle contrade intorno a San Marco, ricordo soprattutto una specie di jam session4 (di cui parlerò ampiamente nella seconda parte del volume) che comprendeva molti vicini, e che a mio avviso è stata una riedizione di quei racconti che d’estate avvenivano sull’aia, e d’inverno intorno al braciere, che hanno costituito la modalità principe con cui illo tempore venivano raccontate le storie dalle mie parti5. All’interno di questa specie di jam session, come avviene nell’improvvisazione Giuseppe Sarcinella jazz, ognuno dei quattro narratori, come sollecitato dal racconto che lo aveva preceduto, di volta in volta lanciava un nuovo racconto intorno al quale a catena, poi, si succedevano le altre storie. Giuseppe Sarcinella mi fa venire in mente anche un altro episodio: un giorno, mentre stavamo per finire di registrare un insieme di racconti, arrivò in auto una delle sue figlie che portava con sé alcuni nipotini. Alla vista dei bambini chiesi a Giuseppe se quelle storie le raccontasse anche ai suoi nipotini. Al che lui mi gelò con queste parole, che per i non pugliesi traduco in italiano: «No, a loro le storie gliele racconta la televisione». Anna Angelini Infine colei alla quale in effetti mi sono rivolto per primo: mia zia Anna Angelini (zia Ninnina) che era la storica della famiglia, cioè colei dalla quale ho appreso tutte le storie che riguardavano mio padre, i suoi fratelli, i miei Purtroppo mancano le foto di Giuseppe Convertini e di Concetta Palmisano. Dopo tanto tempo non sono ancora riuscito a ricostruire la loro rete parentale. 4 Jam session «è una riunione (regolare o estemporanea) di musicisti jazz che si ritrovano per una performance musicale senza aver nulla di preordinato» (Wikipedia). 5 La stessa cosa avveniva a Reggio Emilia all’interno della stalla, in mezzo alle mucche, e si chiamava filôss. 3

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nonni e i miei bisnonni. Afferma Cirese – uno dei padri degli studi demologici italiani – che in ogni famiglia c’è «un dolce aedo» che lascia in eredità alle generazioni successive le storie che, illo tempore, ha ascoltato. Ebbene, zia Ninnina, la dolce raccontatrice della mia famiglia, che pure mi aveva fatto dono in passato di tutta una serie di aneddoti familiari, non mi aveva mai parlato delle fiabe che invece, come mi disse quando me le raccontò nell’estate dell’82, aveva “passato” a tutte le sue nipoti femmine. La ragione di questa antica selezione di genere l’ho capita dopo avere ascoltato le sue storie: quasi tutte avevano come protagonista un’eroina. Ed è con il richiamo dell’attenzione del lettore ad una di queste storie – che successivamente ho utilizzato ampiamente con le mie giovanissime pazienti – che voglio chiudere: La storia del mortaio [1]. Questa storia, che come vedremo meglio in seguito significativamente è l’unica che all’inizio del Novecento fu passata a mia zia da una raccontatrice donna, presenta una caratteristica che la rende unica nel contesto delle fiabe da me raccolte: quella di trasmettere alla bambina “di allora” un messaggio liberatorio non iscritto, come in fondo avviene per tutte le altre fiabe, nell’ambito dell’universo patriarcale. Ringrazio ciascuno ancora una volta! La maggior parte di loro non è più materialmente con noi, ma penso che lo spirito che informava la loro propensione al racconto traspaia ancora vivissimo da tutte le pagine del testo; e ringrazio i loro familiari per la sensibilità dimostrata in occasione di questa riedizione. Un ringraziamento particolare infine va a Piero Cappelli per l’occasione che ha voluto generosamente concedermi e ad Angela Cardone per averla propiziata; a mia moglie Deliana Bertani e alla mia amica Arianna Migliari per il loro prezioso aiuto nella correzione e nella revisione del testo; a Simona Valcavi per aver contribuito a darmi la ricarica in un momento di stallo; alla Banca di Credito Cooperativo di Locorotondo per l’aiuto materiale fornito all’editore; e a Dudduzzo Pastore e Filippo Carrozzo per aver contribuito a mantenere vivo e caldo a Locorotondo e fuori il ricordo delle “mie” fiabe e dei “miei” racconti. Avevo dedicato il vecchio testo alla memoria di mia sorella Pernina e dei miei genitori Giovanni e Antonietta, allora da poco scomparsi, cercando istintivamente – l’ho compreso dopo! – nelle mie radici un motivo per reagire alla loro perdita. Dedico questo nuovo testo a mia figlia Antonia e a mia nipote Viola, nella speranza che in futuro qualcosa rimanga in esse di questa loro appartenenza meridiana.

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Convenzioni ortografiche Le convenzioni ortografiche usate per trascrivere il locorotondese delle fiabe e dei racconti che seguono sono desunte dal testo di don Peppino Rosato (1980), con qualche mia semplificazione e specificazione. La “e” in fine di sillaba o di parola, quando non è accentata, è muta. La “e” fonetica va sempre accentata. Es.: Gelète (gelato), pecceuatèdde (tarallucci). Gli accenti grafici della “e” sono quelli della lingua francese: grave “è” (scème = andiamo), acuto “é” (peccé = perché) Quando due vocali consecutive non costituiscono un dittongo e non appartengono alla stessa sillaba, la dieresi posta sulla prima è il segno dello stacco di pronuncia tra la prima e la seconda vocale. Es.: rïèle (regalo) si legge ri-èl(e). “à” vale “hai” “a” vale “a” (congiunzione), “alla” o “al”. “e’” vale “alle” o “le” (articolo). “i” vale “e” (congiunzione); “i”, “gli” o “li”. “o” vale “al”. “u” vale “il” o “lo” (articolo), oppure “lo” (pronome). Suoni espressamente locorotondesi, che non trovano riscontro nella lingua italiana, vengono rappresentati dalle consonanti che più si avvicinano a rappresentare quei suoni: es. “pegghiète” (preso), “sckitte” (soltanto), “surchiète” (succhiare), “chiànte” (pianta), “lucculègghie” (gridava), “iaddenère” (pollaio), “assùrme” (spavento, paura), “scìnne abbàsce” (scendi giù), “jrànne” (grande); “kusse”, “késse”, “kire”, valgono “questo”, “quello”, “quelli” o “quelle”. Da parte mia aggiungo: 1) che le parole bisillabi che non abbiano la “è” o la “é” non vanno accentate; 2) che, siccome ciascuno dei miei informatori parlava un proprio dialetto, frutto di diverse operazioni che potremmo definire di “micro-acculturazione linguistica”, dovute spesso a piccoli (Fasano) o grandi (Argentina) storie di tipo migratorio, ho cercato di lasciar traccia di queste diversità.


Fiabe

1. La storia del mortaio [Informatrice: Anna Angelini, a lei narrata da Michelina Curri, cugina del nonno paterno]

C’era una volta una famiglia di contadini. Questa famiglia era composta da una figlia e da suo padre. Il contadino aveva un orto, un orticello, e lì zappava, coltivava l’insalata, la portava al mercato, e da questo viveva. Mentre la figlia allevava delle galline, aveva una capra dal cui latte faceva la ricotta, la portava al mercato, la vendevano, e da questo vivevano. Un giorno il papà ha preso la zappa e se n’è andato nel suo fondo a zappare. Mentre zappava ha urtato un oggetto che risuonava. Ha detto: «Sarà una pietra!... ma pietra non è, perché sento un altro suono!». Allora, con delicatezza, è andato intorno a quest’oggetto, ha fatto un fosso e, quando ha finito, è venuta fuori una cosa che somigliava ad un mortaio. L’ha pulito, dato che era tutto pieno di terra, ed ha visto, con grande sorpresa, che questo mortaio era tutto d’oro!! «Ih!» ha detto «ora lo faccio vedere a mia figlia, così la faccio contenta!». Allora è ritornato a casa e, subito, ha chiamato sua figlia e glielo ha fatto vedere. Lei, quando lo ha visto: «Ih, papà!», ha detto, «quanto è bello...! però gli manca il pestello!». Ed il padre: «Beh, figlia mia! questo è quello che io ho trovato!». E lei: «Pensa, papà, noi che ne facciamo di questo oggetto di lusso nella nostra casa? Non ci starebbe bene! Sai che devi fare?», ha continuato, «portalo al re! Così quello ti farà un regalo e noi con quel denaro faremo qualcosa di utile!». «Beh!», ha detto il padre, «figlia mia, così dici tu e così io farò». Si è vestito in maniera più decente, ha preso la via del paese ed è andato fino al palazzo reale. Mentre saliva le scale del palazzo: «Dove vai?» gli hanno detto 17


le guardie. E lui: «Non vi preoccupate, ho da portare un regalo al re. Vorrei parlare col re!». Ed alla fine gli hanno permesso di parlargli. Non appena il re ha visto il mortaio: «Ih!», ha detto, «è bellissimo...! Però ci manca il pestello!». Ed il contadino: «Anche mia figlia ha detto la stessa cosa!». «Ah! Allora tua figlia è nella mia testa!», ha detto il re, «Beh! Assolutamente mi sia presentata tua figlia, poiché io voglio vedere come mai lei ha lo stesso mio pensiero!». Ed il contadino: «Ma quella non esce mai di casa! Viene qualche volta al mercato, ma di solito non esce mai». «No, no, no! Domani tu porti qua tua figlia! E non è finita! Ché tu la devi condurre da me né vestita né ignuda, né a cavallo né a piedi, né sazia né a digiuno!». E, visto che il contadino lo guardava mortificato: «Va’, va’!», gli ha detto, «ché in queste condizioni mi devi condurre tua figlia domani, altrimenti mando lì le guardie, ti faccio condurre qua io e ti uccido!». Il poveretto, figuriamoci, ha preso la via del ritorno tutto piangente. La figlia, che lo stava aspettando sopra il muricciolo della loro casa: «Chissà che cosa ha avuto di bello», diceva, «il mio papà dal re!». Quando il padre l’ha scorta l’ha abbracciata e: «Piccola mia!», le ha detto, «ma chi me l’ha fatto fare a trovare questo mortaio! Meglio non l’avessi...». «Perché?» ha detto la figlia. E il padre: «Perché... perché! Perché ora il re ti vuole alla reggia, ti vuol vedere!». «Embè? Ed io indosso il mio vestito migliore e ci vado!» «E no! Non è così facile! Il fatto è questo: lui ti vuole né vestita né ignuda, né a cavallo né a piedi, né sazia né a digiuno!» E la figlia: «Beh! Fammici pensare un attimo», ha detto, «per capire com’è che ci devo andare». E, dopo essersi posta a studiare: «Beh, beh, beh!», ha detto, «ho visto com’è il fatto, ho visto! Sai cosa devi fare... tu non sei amico di quel pescatore?». «Sì. Ma abita un po’ lontano!» ha detto il padre. E la figlia: «Beh! Mettiti subito in cammino e ritorna entro domani con una rete da pescatore!». Così il padre s’è messo in cammino ed è andato a prendergliela. All’indomani mattina la figlia si è coperta solo con questa rete da pescatore, se l’è messa un po’ da sopra, un po’ da sotto, s’è avvolta in essa una o due volte per coprirsi un poco e poi, presa la capra dalla stalla, ci si è messa sopra: «Così», ha detto, «non vado né a piedi né a cavallo». Poi ha preso una noce e se l’è messa sulla bocca, metà fuori e metà dentro: «Così non sono né sazia né a digiuno» ha detto. E così si sono messi in cammino. Ora il re, che la stava guardando dall’alto del suo palazzo, quando l’ha vista salire per le scale con questa rete: «È furba, la ragazza» ha detto, e, rivolgendosi a lei, ha detto: «Io ti voglio sposare. Mi piaci e ti voglio in sposa». «Sì, va bene!», ha detto lei, «io non sono impegnata e con te mi trovo bene». «Però», ha soggiunto il re, «i patti sono questi: che tu faccia la regina, ma che nei fatti del regno tu non ti ci metta! Perché quelli sono affari miei, e tu non ci devi mettere il becco, sia 18


se vedi le cose andare per il verso giusto, sia se vedi delle ingiustizie!». «Sì, sì!», ha risposto lei, «cosa vuoi che mi importi?! Basta che io diventi regina!». Allora si sono sposati. Ma in quel paese, in quel tempo, c’era una piazza proprio sotto il palazzo reale. In quella piazza c’era la fiera ed il re si stava divertendo a guardare questa fiera quando, ecco, arriva un birocciaio che si ferma con il suo biroccio proprio sotto il palazzo reale. E, poco dopo, ecco arriva un altro contadino con la sua asina che si ferma lì vicino. Mentre tutti erano indaffarati nei contratti che solitamente si stipulano nelle fiere, l’asina, che era incinta, partorì un’asinella. Ora, il padrone del biroccio diceva: «L’asinella è mia». «E, no!», diceva il contadino, «io l’ho tenuta per dodici mesi a casa mia e non ha partorito, ha partorito adesso, ma l’asinella è mia!». «No, è mia!» Insomma, stavano per venire alle mani, stavano per darsele l’un l’altro, quando un’altra persona, che aveva assistito alla scena, ha detto: «Beh! Non state a preoccuparvi, ché qui c’è il re! Andate dal re, e come dice il re così sia fatto!». Allora i due sono andati sotto alla finestra del re e gli hanno raccontato come erano andate le cose. «Ah!», ha detto il re, «l’asina è nata sotto il biroccio e quindi è del birocciaio!». E, Madonna! Allora l’altro, poveretto, se n’è andato via ed è scoppiato a piangere. Anche la regina, che aveva ascoltato tutto, era rimasta dispiaciuta, e lo voleva aiutare. Allora è andata presso un’altra entrata del palazzo ed ha detto al contadino: «Vieni, vieni! Io so quel che è successo. Però si può fare ancora qualcosa: domani prendi con te una barca con tutti i remi e vieni sotto al palazzo reale. Sappi che il re ogni mattina si mette sul belvedere del palazzo a prender l’aria. Tu vieni e mettiti a pescare. Guarda che lui dirà: “Scemo! Non sai che sotto il palazzo reale non si pesca, dato che non c’è il mare!”; e tu gli risponderai: “Sì, lo so, Maestà, che non c’è il mare, però ieri qui neanche il biroccio poteva partorire un’asinella, e tu, invece, hai sentenziato che era del birocciaio!”. Attenzione, però», continuò la regina, «non dire assolutamente che sono stata io a suggerirti questa risposta, poiché se lo viene a sapere il re per me c’è la pena di morte!». «No, no! Assolutamente» disse il contadino «non dirò nulla». Così il contadino se n’è andato ed il mattino successivo si è messo lì con una barca. Il re, nel vederlo: «Ma guarda quel cretino!», ha detto, «E qui vieni a pescare?! Non sai che non c’è il mare, qui?». «Sì, Maestà, lo so che non c’è il mare, però ieri anche tu hai detto che l’asinella era stata partorita dal biroccio, e neanche quello...» «Ah!», soggiunse il re, «chi ti ha suggerito questo pensiero?». «No! Il pensiero è mio!» diceva il contadino. «No, no, no!» tagliò corto il re e, detto fatto, mandò giù delle guardie che lo presero e lo portarono a palazzo. 19


Il contadino continuava a dire: «Ma l’ho pensato io!». Ed il re: «Non è vero! Tu mi devi dire chi te l’ha suggerito. O me lo dici o ti faccio prendere a schioppettate!». E, rivolto alle guardie: «Prendetelo subito a schioppettate se non vi dice il nome di chi gli ha suggerito questo pensiero!». Quando il poverino si è visto in mezzo ai fucili: «Beh», è sbottato, «è la regina che me l’ha suggerito!». «Bene, bene, bene! Vattene ora», ha detto allora il re, «prendi l’asinella che è tua e vattene!». E, chiamata la regina, l’ha così apostrofata: «Io ti avevo detto solo una cosa: di non metterti nei fatti del regno!». E la regina: «Ma a me dispiaceva che quel poveraccio fosse stato privato della sua asinella!». E il re, severamente: «Beh! Ora io dispongo che tu te ne torni a casa tua! Però, prima che te ne vada, faremo un pranzo al quale inviteremo tutti i consiglieri, tutti i capi di stato, tanta gente. Dopo di che tu sceglierai per te il più bel fiore che c’è nel palazzo, te lo porterai a casa tua e da quel momento noi due non ci vedremo più!». Allora lei che ha fatto? In primo luogo ha chiamato il vetturale di corte e gli ha detto: «Tu aspettami con la carrozza sotto l’arco, in modo che sia pronto quando io ti chiamerò!». Poi ha preso una bustina di sonnifero e si è messa a sedere a fianco del re ed a portata del suo bicchiere. Quando le è sembrato più opportuno ha messo furtivamente il sonnifero nel bicchiere del re, cosicché lui, non appena ha bevuto, ha perso i sensi. Lei, a sua volta, appena lo ha visto addormentato, ha detto: «Il re dorme. Immediatamente portiamolo nel suo letto». E, rivolta ai servi, ha intimato loro di obbedirle. Ma, appena usciti dalla sala, subito lei ha soggiunto: «Non nel suo letto. Via, mettetelo nella carrozza». E così se l’è portato via con sé. Lo ha portato nella sua campagna. Lo ha deposto nel suo letto e lei gli si è posta a dormire a fianco. Verso l’alba il re ha cominciato a voltarsi, a rigirarsi e, nel far così, ha sentito il galletto cantare: «Chicchirichì!». «Mah!», ha detto, «dove sarò?». Mentre stava in questi pensieri si è riaddormentato. «Chicchirichì!» ha sentito nuovamente. «Per la miseria!», ha detto allora, «a palazzo reale ora ci sono galli?!?». Al che la regina ha detto: «No! Qui non è palazzo reale. Siamo a casa mia». «Beh! Ed io come mai sono a casa tua?!» «Eh!», ha detto la regina, «tu non hai sentenziato: “Il più bel fiore portalo con te a casa tua”? Bene, il più bel fiore del palazzo reale sei tu! Cosicché io ti ho colto e ti ho portato qui!». «Beh!», ha detto infine il re, «adesso ho capito che non ce la faccio più a tenerti testa!». Ed ha soggiunto: «Torna con me a palazzo. Fai tu, regna tu! Ed io mi limiterò a firmare, poiché tu sei più capace di me». E così hanno vissuto il resto della loro vita felici e contenti.

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Trascrizione Jère ’na volte i jère ’na famìglie de contadìne. Questa famiglia era composta da ’na figghie i da n’attène. U contadìne ci aveva un orto, un orticello, e lì zappava... da lì viveva, inzòmme. Faceva dell’insalata, la portava al mercato; mentre la figlia c’aveva le galline, c’aveva una capra i fascève la ricotta, la portava al mercato e la vendeva. E da lì vivevano. Senonchè ’na digghie il papà se n’è andato inde o fonde a zappare, s’è pegghiète a zappe e se n’è andato a zappare. Mentre che zappava à urtète vicino a un oggetto che suonava. À ditte: «E questa sarà una pietra!... na piète nan jé! peccé sento un altro suono». Allore, con delicatezza, à gerète attùrne attùrne, ha fatto un fosso, quanne à viste é ’ssute na cose còme nu murtère. L’à pulezzète, ca stève tutte chine de térre, quanne à viste!! kusse murtère era di oro! «Ih!» à ditte «mu u porte a ffé vétre a fìggheme ca kère à sté cuntènde». Allore à sciùte a chèse, immandinènde à chiamète a figghie i l’à fatte avvedé! Késse quande l’à viste: «Ih! papà quand’é bèlle!» à ditte «ma però ci manca il pestello!» à ditte. «Beh!» à ditte «Peccénna mégghie! kusse so ’cchiète jìe!». Allore késsa ddò à ditte: «Ma u sé ce jé, tatà, ce ’nge n’ime a fé inte a chésa nòste» à ditte «de kusse oggètte ca jé de lùsse. Nan nge père bune... u sé ce à ffé?» à ditte «pùrtele da o rié! accussì kure t’à ddé nu rièle i néggue im’a ffé ngun’olta cose... cu kire solte fascìme n’olta cose!». «Béh!» à ditte a’ttène «peccénna mégghie, accussì disce tu, i accussì fazze...». S’à vestùte nu picche kiù decènte, à pegghiète a vigghie du paìse, i se n’è sciùte o palazze du rié. Mu à ’nghianète o palàzze rièle. Òne ditte: «Addò vé?» one ditte i wuardie. À ditte: «None! i purté nu rièle o rié. Vogghie parlé cu rié!». Allore l’one fatte parlé. Mèntre ca l’à viste u rié: «Ih! è bellissimo!» à ditte «però ci manca il pestello!!... u pesatùre!». À ditte: «Ca cussì à ditte pure fìgghieme!». «Ah!! Allore fìgghiete sté n’ghèpe a méje!» à ditte «Beh! jìe assolutamènte vogghie vedé figghiete! Peccé égghi’a vedé peccé késse tiène u stésse penzìre migghie!». À ditte: «Ca kère nan ge jèsse mé! Viéne o marchète, ma nan ge jèsse mé!». «No! No! No!» disce «crémmène a purté ddò fìlete!...». «Ma nan ge jé funùte u fatte!» à ditte kusse «tu l’à purté ni vestùte i ni spugghiète, ni a cavàdde i ni a piète, ni abbenghiète i ni a dasciùne». I kusse s’é murtefechète sùbete. «Vattìnne, vattìnne» à ditte «in queste condizioni m’a purté figghiete! Se no, ce non ge viène crémmène, manne i wuardie, te manne pegghiànne, i tu si murte!». Kusse poverìdde se n’é sciùte da figghie – fiùrete! – tutte chiangènne. A figghie u sté ’spettégghie da sope a murédde du frabbekète: «Mu ’m’à vedé» descève «tatà ce à ’vùte da u rié». Quande l’à viste kusse l’abbrazzète a figghie. «Peccénna mégghie» à dìtte «peccénna mégghie! Quande l’i sce acchiète kusse murtère jère mégghie ca n’avvisse...». À ditte: «Peccé?». À ditte: «Ca u rié te vuole vedé a téje». «Ih! i ’mbéh?! i m’i métte a vèsta buone i égghi’a venìje». «I none! nan jé accussi! Ca u fatte è kusse: ca cùre na te vuole ni spugghiète i ni vestùte, ni abbenghiète i ni a’dasciùne, ni a cavàdde i ni a piète.» «Beh! Famme penzé nu picche..» à ditte «ca égghie a penzé cume jé ca égghie

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a scìje». Allore kèsse s’é puste a studié... «Beh! Beh! Beh! Tatà!» à dìtte «u so viste u fatte cume jé. U so viste... Tu u sé ce à ffé? Tu na si amìche de kure pescatòre?». «Sine. Ma jé na ’nzìdde luntène» à ditte. «Beh» à ditte «mu t’à métte n’cammìne i à scìje, peccé sine a krémmène im’a scìe néggue... i fatte avé na rète de péscatòre». Accussì a’ttène s’é puste in cammìne: à sciùte! Acquanne jé venùte a demmène késse s’é puste a rète da sope a sotte, se l’é puste na volte, duò volte, pe cuprì nu picche; può à pegghiète a crèpe da inte a stadde i s’é mise sope: «Accussì» à ditte «i non ge voche a piète, i pite strascìnene pe ’ndérre! i accussì voche jìe». Mu s’a pegghiète na nòsce i se l’é puste n’mòcche: ménze da fuòre i ménze da inte: «Accussì nàn ge voche ni a ’dasciùne i ni abbengghiète». Accussì s’one ‘nviète. Mu u rié a sté vedégghie da sope. Quand’a viste de ’nghiané i skèle cu késsa rète «Kèsse é fine!» à ditte. «Beh! U sé ce jé?» à dìtte «io ti voglio per sposa. Mi piaci, i te vogghje per sposa». «Ih. Sine! Sine!» à ditte kère «ije na ne ténghe zìte i me jàcchie buone». «Però i patte so kisse» à ditte u rié «tu fa a régìne, a régenélle, ma inte é fatte du régne tu nan t’à mètte! Peccé jìe m’i vedé jìe i fatte du régne i tu na ng’ìntre; i tu, o vìte i cose torte o i vìte ’ndrétte, citte!!». «Sine! Sine!» à ditte kére «ca nge me prième a méje?!» à ditte «abbàste ca devènte régìne!». Allore s’one spusète. Mu ddé quand’ére prime facève na chiàzze sotte o palàzze rièle i jère na fière i u rié a sté tremendève da suse késsa fière. Si divertiva. Mu arrìve nu trainìre, arrìve nu trainìre i métte u traìne sotte u palazze rièle. Tanne stésse arrìve n’olte contadìne cu na ciuccie. Pigghie ’sta ciuccie i a métte ddé vecìne. Méntre sté facèvene i contràtte da fière a ciuccie parturìsce. Parturìsce i fèsce na ciucciarèdde. Mu u patrùne du traìne: «A ciucciarèdde é mégghie!». «I none» descégghie l’olte «ca jìe l’i tenùte dùdesce mise a kèsa mégghie in nan ge à parturìte. À parturìte mù» disce «ma a ciuccie jé mégghie!». «None! jé mégghie!» Allore venèvene a é mène, s’azzecchèvene a mazzète. À ditte n’olte crestiène: «Beh! Nan ve scète ’ngarecànne ca ddò ste u rié. Scéte da o rié, accùme fésce u rié accussì jé ben fatte!». Allore one sciùte sotte o rié, i kisse l’one cuntète u fatte. «None» a ditte u rié «a ciuccie é nète sotte o traìne i jé du trainìre!». I Madònne! Allore kusse poverìdde se n’é sciùte i s’é puste chiangènne chiangènne! A régenèlle à sendùte kusse fatte i li despiascève. U vulève aiuté! Allore é sciùte da un’altra entrata, a ditte: «Vine! Vine!» à ditte a kudde «so sendùte u fatte ìje» à dìtte, «però u sé ce a ffé? Krémmène pigghie na varche i vine cu i rème sotte o palàzze rièle. Kure, u rié, a demmène se mètte da sope ca pigghie jàrie da sope u béllevedé du palàzze. Tu vine i peschìsce. Vìde ca kure à dìscere: “Ih! ce scième! tu no sé ca sotte o palazze rièle nan se pésche ca nan jé mère!” à ditte, i tu u sé ce à discere? “Sine! u saccie, maestà, ca nan jé mère, però ajìre manghe u traìne putégghie fé a ciucciarédde i tu à ditte ca jère de kudde!” Però» descì kère «na sci descènne nudde ca so ìje, ca ci u vé sèpe u rié ca so jìe, kure, u rié, na vuole: jé pène de morte pe mèje!!!». «No, no, no, none! na diche nudde!» Se n’é sciùte. A demmène, kusse jé sciùte cu a varche. U rié: «Na! Quel cretìne» à ditte «i qui devi

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pescare! No sé ca non è mare qua!». «Sì Maestà!» à ditte «lo so ca non jé mère, però tu ajire pure descìste u fatte da ciucciarèdde ca l’ére parturìte u traìne! ca manghe kure...». «Ah!» à ditte. «Sali sopra!» à ditte «ca kusse non jé penzìre u tiggue! U saccie» à ditte «ce t’à ditte kusse penzìre!». «None! Jé penzìre u migghie» descève kure. «No, no, no!» Allore à mannète i wuardie i l’à mannète pegghiànne: da ’bbàscie l’one purtète suse. À ditte kusse crestiène, à ditte: «None! l’i penzète jìe». À ditte: «No, no, no! Tu l’à dìscere! O m’u disce o te fazze sparé!» à ditte. «Mu» à ditte a i wuardie «pegghiète kure i sparàtele figne tanne ca ve disce ce è stèté». I kure crestiène quande s’é viste accussì, ’minze e fucìle: «Beh! A régenélle m’à ditte!». «Ah! Beh, beh, beh! Vattìnne» à ditte «va pìgghiete a ciuccie, ca a ciuccie jé téggue, ca mu m’i vedé jìe!» à ditte. À chiamète a régenélle i ng’à ditte: «I ce te so ditte a téje, ca tu nan t’à métte inte é fatte mégghie?». «Beh!» à ditte kéra poverèdde «Me despiascève ca kure nan s’éra pegghié a ciuccie!». «Beh! I mu» à ditte «tu te n’à scìje a chèsa téggue stèsse. Però prime de te ne scìje im’à ffé nu prànze» à ditte «im’à ’mmeté tutti i consiglieri, tutte i képe de stète, ime ’mmeté tutte. Tu può skàcchiete u kiù bélle fiòre ce uìje ddò, i purtatille a chésa téggue i da tanne nan ne vedìme kiù». Mu chèssa ddò à pegghiète, à chiamète u carruzzìre i ng’à ditte: «Tu mìttete sotto l’arco ca jìe quanne te chième à sté pronte!». Mu késse à pegghiète na cartìne d’addubbie i à ditte: «U buckire du rié ddò!». Jédde s’ere azzitere vecìne o rié. Quanne l’è parùte a jèdde à pegghiète i à menète sta cartìne ddò. Kusse cume à vuvùte se n’è sciùte. Cume à viste ca jé appapagnète pi’ à ditte: «U rié sté dòrme. Mu, sùbete! sùbete! l’ime a purté inte o litte» à ditte késse. À ditte: «Pegghiàtele» à ditte a i sérve «ca l’ime a purté inte o litte!». Però mèntre ca kèsse se n’é ’ssute da inte a sèle: «Mo, manìscete! ’ddò l’ime a purté!» à ditte a i sérve «none inte o litte!». L’à fatte assì, l’à pegghiète inte a carròzze i s’a purtète! L’à purtète fuòre! L’à cuchète inte o litte siggue! Bérefàtte, i jédde s’a cuchète appìrse. Mu jé arrevète a demmène i u rié à ’ccumenzète a vultàrse, a geràrse, quande à sendùte il galletto di cantare: «Chicchirichì!!». «Beh!» à ditte «i jìe addò me jàcchie?». Méntre ca stève accussi s’é appapagnète n’ote picche: «Chicchirichì!!!???». À ditte: «Pe la madàngie! e a palazzo reale ci sono i galli!?!». À ditte a régenélle: «None! ca ddò non jé palàzze rièle! Dò jé chèsa mégghie». «I béh! I jìe accume me jacchie a chèsa teggue!?!» «None!» à ditte «tu na descìste: “u kiù bélle fiòre”? u kiù bélle fiòre du palazze rièle jìre tu! I jìe te so pegghiète i te so ’nutte ddò». «Beh!» à ditte «Mu n’a posse arrangé kiù!» à ditte «venatìnne cu méje» à ditte. «Fa’ tu! Regnìsce tu, ca jìe quande fìrme sckitte» à ditte «ca tu sì kiù brave de méje!». Così one stète felìsce e contenti!

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Capitolo 1

Ritornando nel regno delle fiabe «All’inizio era la favola» (Paul Valery)

Come ho cercato di dire nella Premessa, la presente ricerca rappresenta per me un ritorno nel regno delle fiabe dopo un intervallo di circa trent’anni. Perciò, nel cercare di analizzare le funzioni e i significati del narrare orale in situazione, mi è parso utile riflettere innanzitutto (e di conseguenza consegnare al lettore) sul significato che per me ha assunto il cammino di questa ri-flessione, fatta di riattraversamenti, rimaneggiamenti e nuove scoperte.

1.1. Riattraversamenti Mi sono riavvicinato da adulto e da psicoterapeuta al mondo delle fiabe all’indomani di due importanti eventi della mia vita: la nascita di mia figlia e, poco dopo, la scomparsa di entrambi i miei genitori. Più precisamente ho cominciato a raccogliere sul campo le fiabe e i racconti di Locorotondo – la mia terra natale – nell’estate del 1982, subito dopo la morte di mio padre: a raccoglierle ed a raccontarle a mia figlia che, insieme a me e a mia moglie, ritornava ogni estate a Locorotondo per le vacanze. Nel farlo mi costringevo a tradurle in italiano, poiché mia figlia non conosceva il dialetto locorotondese. Quest’opera di “traduzione”, insieme ai commenti che mia figlia, allora bambina, faceva dopo averle ascoltate1, mi permetteva di assumere un atteggiamento critico nei confronti del materiale raccolto; materiale che, come scoprii subito, non conteneva solo delle fiabe ma anche dei racconti appartenenti ad altri generi del narrare orale2. Era già questa operazione un ritorno a quel mondo delle fiabe nel quale mi aveva Commenti che, come potrà constatare chi si avventurerà nella lettura delle pagine che seguono, almeno in una occasione si rivelarono molto importanti da un punto di vista interpretativo. 2 Un’operazione di tipo classificatorio che – come scoprirò molti anni dopo venendo in rapporto con l’attuale editore pugliese – aveva fatto Saverio La Sorsa (2015). 1

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introdotto soprattutto mio nonno paterno quand’ero bambino: un riattraversamento (Napolitani, 1986) che – ora me ne rendo pienamente conto – avveniva nell’apparente contrasto fra l’esigenza di elaborare sotto il segno del lutto quelle pesanti perdite3, e quella di ribadire a me stesso sotto quale segno identitario si andava determinando il mio recente accesso alla paternità. Già sapevo – me l’avevano insegnato gli psicoanalisti che si sono occupati di fiabe – che i personaggi e le azioni fiabesche alludono alle nostre parti interne, anche a quelle più impresentabili e distruttive che, attraverso i meccanismi di travestimento ottenuti tramite i processi di simbolizzazione, di spostamento e di condensazione che la fiaba offre, possono emergere senza sconvolgerci4. Sapevo anche che il processo di individuazione non può che avvenire all’interno di una cultura che lascia il proprio segno indelebile (basti pensare alla lingua) anche nel più originale degli uomini. Lì per lì non me ne resi conto, ma il riattraversamento di quel mondo fatato della mia infanzia, avvenuto fra l’82 e l’89, sedimentò dentro di me un grumo di emozioni e, successivamente, un insieme di riflessioni che andarono ben al di là della produzione di un testo sulle fiabe, e che si concrezionarono nel tempo in altri due testi, frutto a loro volta di ulteriori contaminazioni legate al mio mestiere di psicoterapeuta dell’età evolutiva. Il primo, Affabulazione e formazione. Docenti e discenti come produttori e fruitori di testi (Angelini, 1998): nato da un raffronto che sul piano affettivo e comunicativo s’instaura da una parte fra il “buon raccontatore” di fiabe e la propria “udienza in situazione”, e dall’altra fra il docente e la propria classe “attuale”. E più recentemente il secondo, Il sole, la campana, l’orologio. Modelli di temporalità a Locorotondo. Una ricerca sul campo fra etnologia e psicoanalisi (Angelini, 2013): nato anch’esso da una ricerca sul campo, che è un tentativo di analisi dell’altro aspetto della temporalità rimasta fuori dalla ricerca sulle fiabe, quello legato al lavoro ed alla vita di tutti i giorni degli abitanti della mia terra natale, Locorotondo. Ma, al di là di ciò che si è andato addensando sul piano della scrittura, si può affermare che tutto il lavoro clinico – e soprattutto quello con i bambini – nasce in me da un insieme di tentativi di espansione sul piano del metodo interpretativo di quanto deriva da quel primo lavoro sulla fiaba; così come dalle mille contaminazioni tra i frutti di quella ricerca e ciò che andavo apprendendo dall’esperienza con i miei pazienti, i supervisori, e all’interno dei vari momenti formativi. Cosicché quando l’amico Piero Cappelli mi ha proposto di rieditare il testo di Che si aggiungevano ad un precedente trauma familiare: la precocissima e violenta morte di mia sorella. 4 Più tardi Käes (1997), sempre nel solco della ricerca psicoanalitica sulle fiabe, puntualizzerà ancora più precisamente la natura di queste trasformazioni, evidenziando – come vedremo meglio più avanti –, accanto ai processi di simbolizzazione, condensazione e spostamento, i processi di “diffrazione”. 3

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trent’anni fa un po’ ero conscio del fatto che stavo per rituffarmi in un mare profondo, affascinante e molto pescoso. Così come sapevo che, in base a tutte le successive contaminazioni, il vecchio testo andava rivisto. Non mi ero reso conto però del fatto che questo ulteriore riattraversamento avviene in una nuova età della mia vita in cui da una parte, come nonno, sono nuovamente preso dalla propensione a raccontare le mie storie alla mia nipotina Viola (che d’altro canto mostra di apprezzarle moltissimo!), dall’altra che il ritorno ad un materiale elaborato molto tempo fa comporta uno sforzo di rielaborazione molto maggiore di quello che avevo messo in preventivo. Anche perché è vero che nel frattempo mi sono arricchito, ma è altrettanto vero che l’ingresso nella senescenza (ho settantatré anni mentre scrivo queste righe) implica il fatto che il lavoro di riattraversamento s’incroci con quello dell’ulteriore e drammatico rimaneggiamento del mio mondo interno che la nuova età impone.

1.2. Rimaneggiamenti Erikson usa il termine “rimaneggiamento” per indicare il lavoro di riassetto del proprio mondo interno che ciascun individuo deve fare nel momento del passaggio da una fase all’altra della vita5. L’ingresso in senescenza implica una ulteriore – ed ultima – esigenza di riassetto che, secondo Erikson, può risolversi nell’alternativa fra il mantenimento dell’integrità dell’Io e il cedimento alla rassegnazione. Mentre in precedenza, durante la maturità, l’alternativa è quella fra generatività (ovviamente intesa in termini simbolici) e stagnazione. Nel momento in cui feci la mia ricerca sulle fiabe ero all’esordio della mia maturità che nella mia storia personale fu profondamente segnata dall’ingresso in un gruppo di lavoro – il Centro di Igiene Mentale di Reggio Emilia diretto da Giovanni Jervis – estremamente innovativo, che premiava e implementava lo spirito di ricerca e la creatività. Possiamo dire che questo fatto, unito ad una mia propensione ad affrontare la vita in maniera un po’ ipomaniacale, mi pose al riparo dalla stagnazione. Questo è il motivo per cui la mia maturità è satura di lavori di ricerca, fra i quali quello sulle fiabe e i due successivi, nati da questo interesse primigenio, rappresentano gli unici che ho fatto da solo: tutti gli altri sono lavori di gruppo, che hanno visto come co-protagoniste alcune mie colleghe di lavoro, e soprattutto Deliana Bertani, mia moglie. E non poteva essere altrimenti perché quei lavori sono figli di una coniugazione fra quello che personalmente e culturalmente ero e quello che sono: fra la Originariamente Freud usò il termine “rimaneggiamento” per indicare l’ultimo dei vari lavori del sogno: ovvero quello che il sognatore fa nel momento in cui racconta il proprio sogno, e che potremmo definire come un lavoro di riassetto del materiale sognato teso a renderlo, in linea di massima, coerente e comprensibile. 5

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mia identità originaria e le sue successive estensioni. Il ritorno alle fiabe perciò – me ne rendo conto mano a mano che procedo in questo viaggio a ritroso – è carico di significati. Da una parte paradossalmente sento che questo non è un ritorno, poiché la mia confidenza con il mondo fiabesco è rinfocolata giornalmente dal rapporto con i miei pazienti, ed in special modo con i loro sogni (oltre che con i miei), o – nel caso dei bambini – con i loro disegni e le loro storie. Ad esempio ho “inventato” un metodo che consiste nel far disegnare ai bambini dei fumetti, il cui significato poi – se è il caso – cerchiamo di capire insieme, come se ci trovassimo di fronte a un sogno, o ad una fiaba. Così come utilizzo le fiabe da me raccolte che vengano a cadenza con questo o quest’altro paziente, tenendo conto che spesso le fiabe non vanno interpretate poiché esse svolgono di per sé una funzione terapeutica di tipo abreatorio (cioè liberatorio), e questo può o deve bastare in alcuni momenti del percorso terapeutico, specialmente con i bambini. Ad esempio quella che ho denominato La storia del mortaio [1] risulta molto utile nel caso di bambine che non credono in se stesse, poiché, come dicevamo in Premessa, si tratta di una delle poche fiabe in cui il messaggio finale rivolto all’eroina (cioè alla bambina che ascolta) è un messaggio liberatorio non iscritto nell’ambito dell’universo patriarcale, come in fondo avviene per tutte le altre fiabe che hanno come protagonista un’eroina. Dall’altra il ritorno alle mie fiabe mi ha condotto a rifare i conti con la mia generatività, vale a dire con la mia produttività e la mia creatività. E questo per me penso sia stato, soprattutto all’inizio, uno degli elementi più penosi e difficili che ho dovuto affrontare, e che – come dicevo prima – non avevo messo in conto, perché nel frattempo l’ingresso in una nuova età ha reso molto più involuto e tortuoso il lavoro di elaborazione. Eppure avevo letto Jaques (1990) e le sue riflessioni sul diverso modo di produrre in gioventù ed in vecchiaia! Per fortuna però ritornare a fare i conti con la generatività ha prodotto come un vaccino – spero non temporaneo – contro la stagnazione, ma anche contro la rassegnazione. Per cui alla fine mi sono “rassegnato” solo a rimettere mano con nuova lena e con rinnovato impegno al materiale fiabesco, nella speranza che la tendenza senile ad una maggiore attenzione al lavoro di elaborazione non si traduca in un depauperamento del testo.

1.3. Misconoscimenti e dimenticanze Ben presto mi sono reso conto di avere inizialmente sottovalutato il significato implicito di questo ritorno, che per me assumeva i contorni di una autoterapia e, più precisamente, di una sorta di nuovo viaggio interiore che, attraverso i riattraversamenti indotti dalla rielaborazione del vecchio testo, mi permette di riconoscere le mie origini e di riconoscermi: cioè di rispecchiarmi in esse.

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Il caso ha voluto che quest’operazione avvenisse all’interno di uno spazio dialogico con una mia amica pittrice che, proprio nello stesso periodo, esitava a rituffarsi dentro di sé alla ricerca della propria ispirazione, dopo lunghi anni in cui le sue doti artistiche erano state da lei utilizzate sul piano pedagogico, nel rapporto con i propri discenti. Proprio come, per altri versi, è capitato a me nell’utilizzo del materiale fiabesco con i miei pazienti. Siamo riusciti a cogliere un insieme di elementi critici che erano alla base della nostra esitazione: e questo non solo ci ha aiutato a non esitare ulteriormente, ma anche a comprendere le ragioni del nostro esitare. Ragione che nel mio caso è parsa come una sorta di difesa primitiva che metteva (stupidamente) al riparo le mie parti più propense alla stagnazione, alla rassegnazione, da quel magma incandescente che in gran parte era lì: pronto ad essere ancora una volta attraversato e rimaneggiato. Un po’ come accade proprio all’inizio di una psicoterapia, dove “le parti che non vogliono guarire” fanno di tutto per boicottare il viaggio. Nel mio caso quel viaggio consiste nell’insieme delle risonanze interne e delle reminiscenze che la nuova immersione nel materiale fiabesco induce: la vita contro la morte, per dirla con Norman Brown. Vorrei chiudere queste riflessioni con una lode ad un aspetto della mia vecchia ricerca che “allora”– cioè nel momento in cui per la prima volta ho cercato di comprendere quali messaggi provenissero dai miei informatori – avevo sottovalutato. Una lode per il materiale non fiabesco: per i fatti rammentati, per le storie di paura, per le novelle religiose a carattere scherzoso, ecc. Storie che, come fa la fiaba, illustrano la nostra appartenenza, anche se in maniera diversa. Una lode per la fragaglia, potremmo dire, il cui afrore era stato sopraffatto da quello più forte che proveniva dalle fiabe. Ma che pure mi parlava – e continua a parlarmi – del mio popolo: della fame degli artigiani; dell’arguzia dei contadini; dell’esortazione pedagogica all’assunzione di uno stile di vita retto; della riconoscenza che l’apprendista non può non nutrire nei confronti del maestro; della fiducia nei confronti delle proprie parti più coraggiose, ecc. Per cui lascio al lettore questa eredità convinto del fatto che ogni nuova lettura, ogni nuovo ascolto possa riservare sempre nuove scoperte e nuovi arricchimenti.

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