lino angiuli
viacrucis terraterra prefazione di davide rondoni illustrazioni di luigi fabii
indice
Prefazione
di Davide Rondoni
i.
9
Sudore freddo in mezzo agli ulivi
ii.
Come un malamente
15 24
iii.
La condanna
30
iv.
Pure Pietro gli volta le spalle
38
La faccia e le mani lavate di Pilato
44
v.
vi.
Frusta, spine e sfottimenti
vii.
Ecco la croce romana
viii. Non ix. x.
52 60
ce la fa
68
Le femmine dietro dietro
76
Sopra alla croce
84 ďœľ
xi.
In mezzo a due delinquenti
xii.
Con la mamma e il compagno giovane
90 96
xiii. La
morte
102
xiv. Al
sepolcro
110
ďœś
Prefazione di Davide Rondoni
Viavai di poeti su una via strana. Un viavai non sulla strada mesta che mendica pubblicazioni o recensioni o premi, non la via che porta alle meste pagine del “Corriere della Sera” o del “Sole 24 Ore”. Molti poeti stanno percorrendo la via Crucis. Non solo in tanti percorrono personali e tremende vie Crucis. Ma la loro parola, la loro opera segue le stazioni del gran teatro del Dio che muore come schiavo. Mario Luzi fu chiamato a scriverne per quella pubblica al Colosseo di Giovanni Paolo II; a me, in piccolo, accadde una cosa simile a Bologna; e poi altri più giovani, come Daniele Mencarelli, si sono cimentati. Altre ce n’erano. Si sono aggiunte
quella di Nico Mauro e di Pietro Federico. Ovviamente, prove diverse, segni diversi, stili varianti. Ora da Sud si unisce a questo strano, disperso coro una voce di poesia certa e di lungo corso. Lino Angiuli getta sul tavolo dove si trovano credenti e non credenti – che importa? Cristo non è mica un’idea a cui credere, è un corpo da guardare, da mangiare, da amare – la sua voce piena di vita fremente e di duro splendore. Un testo così sporco di vita, d’una lingua e immaginazione italica, greca, e tenerissimo, che arriva alla fine di questa storia, dove sono pochi quelli che rimangono e dove però si apre una possibilità di speranza, di «rugiada» per tutti. Il gran teatro della via Crucis ha strappato parole di bocca a tanti poeti. Dal teatro montano del Sacro Monte di Varallo, sopra Varese, che fece scrivere Testori, alle sculture in Brasile dell’Aleijadinho che Ungaretti chiamava il Michelangelo della Minas Gerais, fino alle voci già indicate. E ora arriva «Nennella» la serva, e arrivano le altre voci, le imprecazioni, gli sconforti che Angiuli porta in
scena, in un lessico arcaico e presentissimo, in una lingua locale e universale per la spezia di dolore e invenzione da cui è segnata. Ogni riscrittura di via Crucis potrebbe esser presa come suprema presunzione. E invece è – qui si conferma – umilissima partecipazione alla scena del mondo, in quanto partecipazione al più grande mistero della vita – il male, l’ingiustizia, il loro possibilie risarcimento profondo. Non può arrivare sulla scena della via Crucis con la sua scrittura chi non la conosca già con la propria vita. Non è possibile che la via Dolorosa sia argomento, o esercizio di stile, o esperimento. È vita che cerca la sua suprema e umilissima messa in scena. Qui Angiuli quasi tace del Cristo o meglio lo fa vedere dagli occhi, dalle imprecazioni, dai racconti, dalle mezze parole dei suoi viandanti, dalle succose riflessioni versificate. E del “protagonista” viandante, voce della persona che racconta, e infine tutta immedesimata, di un uomo che sta andando al sepolcro, e sta diventando «un altro», in una
specie di conversione ma «terraterra» ovvero umanissima. Non ne è possibile un’altra – Gesù converte all’umano, mica all’angelico... Chi vuole render angeli gli uomini ha sempre finito per ucciderli... Li ha trovati insopportabili. E invece il crocefisso ha sopportato tutti («non scade mai il tempo del perdono»), anche i ladri, anche le puttane, tutti eccetto quelli che si credono perfetti e quegli altri che si credono padroni di Dio. La vera sacra rappresentazione è rappresentazione “terraterra”. Mistica e popolare, come nella vena vera della cultura italiana. Perché la terra qui, anche se solo accennata, è la terra vera, reale, carnale della vita dello scrivente. Non c’è altro modo per scrivere della via Crucis, se non percorrerla. Non importa quanto si è o ci si presume lontani dalla testa incoronata di spine e di tempesta, da quel viso «orribile a vedersi» e pur «più bello tra i nati di donna». Non importa quanto e come ci si sente lontani o vicini. Si è sulla via. Per chi è interessato alla bellezza, e non la intende come vacuità decorativa, come conforto a basso
costo, o peggio, come vezzo per il passatempo dei ricchi, la via Crucis ha sempre rappresentato il nodo, il pugno nello stomaco, il magone di felice pianto. Perché lì, in quel punto, non a caso mille e mille e mille volte rappresentato dall’arte che insieme alla Maternità vi ha trovato una delle sue matrici generali, una delle sue figure principali e universali, la bellezza e il dolore si sono confusi, si sono baciati e stampati, l’una nell’altro, nel telo di Veronica della nostra anima. In quel punto della storia, lungo una strada cruda che usciva appena da Gerusalemme, la bellezza si è certificata nel sacrificio, nel dolore dell’innocente, e viceversa il dolore non si è esaurito nell’orrore, ha trovato un volto non occluso nella tenebra. Non trionfante, ma regale. Angiuli, vero poeta, non poteva non percorrere la via dove questo evento accade. Il cuore, dice la voce, glielo ha imposto. E noi lo ringraziamo perché di questo cammino ha voluto fare parola condivisa, come sempre in lui inquieta e inquietante, terraterra e fiorente. Fino alla visione di pietra e rugiada.
i
Sudore freddo in mezzo agli ulivi
Ma dov’è che se ne va, a quest’ora di notte, ’sto cristiano che gli dicono “il maestro”, con i suoi compagni appresso? Che razza di compagnia! E chi li ha accocchiati a questi scalzacani? Si vede che non tengono niente da fare e se ne vanno girando di qua e di là come tanti spostati; invece di starsene alle case loro, mo’ stanno a pigliare la strada che porta dai quarti di Getsemani. Chissà poi perché se ne vanno verso la campagna, in mezzo ai giardini e agli alberi di ulivo. Io li manderei alla campagna, sì, ma con una bella zappa da cinque chili sulle spalle a questi mangiapane a tradimento, che tante e tante volte si presentano alle case dei cristiani il giorno di sabato all’ora di mangiare e sbafano alla sgroscia. La fatica si chiama
cocozza e a me non m’ingozza, altrocché. Che bella vita, ah? E manco un lume si portano con loro? È vero che stanotte sta una lunazza che n’altro poco si alluzzano pure i pensieri: da come camminano abbattuti e dalle facce che tengono, devono essere pensieri storti quelli che stanno stipati nel cervello loro. Mo’ gli voglio andare dietro dietro, senza farmi vedere, per vedere dov’è che tengono da andare questi qua. Uno due tre quattro cinque sei sette otto nove dieci undici... ma tu vedi un poco! Sempre insieme, sempre insieme come le pecore dietro al pastore, ma stasera però mi sembrano pecore spatriate con la capa all’aria all’aria, pure se la portano abbassata a terra, manco che hanno avuto una botta nei sensi o puramente gli è morto qualcheduno. Insomma camminano come se hanno perso la strada e il sonno. Ma di più il sonno, però, tanto che mo’, come sono arrivati al giardino di Ninuccio, si sono buttati e stesi subito a terra. Mannaccia, oh! Non lo sanno che là Ninuccio ha seminato
le fave? E sì, si capisce, che gliene frega a loro? Vagabondi e sfasulati come sono, stanno a pensare proprio alle fave seminate. Moh! Se ne sono andati subito al sonno e cominciano già a grufolare questi spiantati senz’arte né parte! Altro che a pregare, come gli ha domandato il capo, che mo’ s’è messo a camminare sopra e sotto, solo solo, con una mutria da cadavere e ogni tanto si mena le mani nella barba e nei capelli. Boh! Scommetto che qualche cosa brutta gli deve essere capitata a questo qua. ’Sto cristiano, veramente, non si capisce bene che tipo è. A vederlo non è che pare chissà che, però tiene un qualcheccosa, tanto che, quando passa da una parte, gli vanno subito appresso grandi e piccininni, pure per domandargli di fare qualche trucco che sa fare lui. Chi per una cosa chi per l’altra, tutti hanno bisogno di qualche magia; e lui le sa fare. E così, chi dice che è un mago, chi un impestone, chi addirittura sta a vedere di capire ancora se questo è il messia! Mah! Boh! Non ne voglio sapere di questi fatti io.
La barba gli dice bene, ma però quella tunica che non si usa più, tutta insivata! Come si usa alla Galilea? Le malelingue dicono che tiene la commara, che gli lava i piedi e glieli assuppa coi capelli, però io non ci credo, se no, oltre ai piedi gli doveva lavare pure la tunica, scusa. Comunque, pure che è, che fa? L’importante è che uno sta bene, magari con un fiato appresso. Ma mo’ li ha lasciati a dormire quelli e se n’è andato sotto a un albero di olive. Bah! Roba da matti, oh! Loro a dormire, come che non è niente, e il capo, là, inginocchiato, con la faccia con un colore bianco che ti fa spaventare! Voglio proprio andare a spiare che cosa sta a fare e a dire quello mo’. Mi voglio togliere ’sto sfizio, stasera, stabbè? Mo’ ha alzato la capa e s’è messo a parlare col padre, che forse deve essere morto, datosi che lui sta a guardare al cielo. Mo’ mo’, sentiamo che gli tiene da dire, anzi da domandare, visto che si è messo con le braccia e le mani aperte. Ma deve essere un fatto brutto assai che gli è successo a que
sto, perché sta tutto sudato e con gli occhi lucidi pure! Che luna, oh! Si vede proprio tutto tutto! «...Padre mio bello, vedi se mi puoi dare una mano, per piacere, ché qua la cosa si sta a mettere brutta e io non me la sento di passare da solo ’sto sorto di chiappo. Lo vedi come sto a sudare freddo? Se è una cosa che si può fare, vedi di farmelo scansare il veleno che mi aspetta, ché io non lo so se posso essere capace di bermelo. Tu sei così potente! Io a te tengo e con te posso confidarmi e lamentarmi: a chi lo vado a dire che tengo veramente una paura forte per quello che deve succedere? A questi miei compagni? che ancora non l’hanno capito che qua si tratta di vita e di morte? A mamma? che non la voglio fare agitare? Tu solo mi puoi stare a sentire in questo silenzio troppo grande per il cuore mio.» Ih! Ma questo qua sta a dare proprio i numeri, stasera! Deve stare fregato in corpo assai il giovane! Chissà di che si tratta: roba di debiti? di qualche malafemmina? di qualche brutta fattura? E chi può essere il padre? Sicuramente un numero uno,
un capatazzo, uno importante assai! Certo è che questo “maestro” non me la conta giusta e deve tenere i cervelli proprio guastati, altro che le chiacchiere. Mo’ sentiamo sentiamo... «Padre mio buono, padre mio bello: io – la verità – non me la sento proprio e mi mancano pure le forze, come te lo devo dire? Ma però se è questa la decisione che hai pigliato, che ti devo dire? Niente; faccio come vuoi tu e non come voglio io. Tu mi hai spedito sulla faccia della terra e tu sai come devono andare le cose. Ma io già me lo penso come devono andare! Allora, senti a me, se proprio non è cosa, facciamo subito quello che dobbiamo fare e non se ne parla più. Però scusa, visto che sei tanto potente, non la potevi trovare un’altra strada per fare le cose tue? Io l’ho capito che mi stai precipitando a me perché vuoi il bene di tutti quanti, mica non l’ho capito; però pure io sono peccato, no? Sì sì, lo so, sta il fatto di Adamo ed Eva: sai quante volte l’ho sentito da mamma Mariuccia e dal povero papà Peppino? Ma che c’entro io con questi fatti antichi? Non mi pare bello che devo
patire io innocentemente, dopo che non ho fatto male a nessuno, anzi ho fatto del bene a destra e a sinistra, sapendo pure che “fai bene e scordati”. Scusa, comunque, chi sa che cosa hai pensato e cosa pensi di fare! Fai tu, ché sta ben fatto. La paura mia la metto da parte. Che devo fare?» Oh, ma quanti padri tiene questo personaggio? Uno importante assai e uno poveretto? Poveretto deve essere lui, certamente, ché non tanto ragiona esatto e fa proprio pena a come sta malridotto! E quelli, i compagni, a poltrire. E bravi, bravi! E menomale che sono compagni e gli vanno sempre appresso. Tanto sonno tenevano questi maccaroni da lasciarlo solo solo in questo brutto momento al capo loro? E non si fa così, scusate. Se mi scappa la pazienza, li devo andare a scondriare.
Ma mo’ li ha lasciati a dormire quelli e se n’è andato sotto a un albero di olive.
Sotto un pesore di luna strapiena mentre l’ulivo mi sfruscia la pelle il mio agnello attraversa una scena che gli fredda i sudori e le animelle perciò quest’ora somiglia a una notte da far paura persino alle stelle è la paura che adesso m’inghiotte perché il destino è salito alla gola e sento che l’acque si sono già rotte.