«La corsa dei contrari. Antropologia teatrale», di Eugenio Barba.

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indice

Introduzione Il gesto formativo dell’esperienza teatrale di Francesco Cappa

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Teatro-Cultura

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Paura del ghetto Immagini antistoriche Le isole galleggianti Pueblos, Cimarrones Un teatro asociale?

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La corsa dei contrari

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Premessa sul silenzio scritto 1. Sul significato sociale dell’attore 2. Sulla formazione dell’attore

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2.1. Spontaneità, p. 91 - 2.2. Comunicazione, p. 97 2.3. Creatività, p. 109 5


Dal diario di Iben Nagel Rasmussen

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3 maggio 1974, p. 112 - 6 maggio 1974, p. 117

3. Sul teatro come arte del far vedere

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Antropologia teatrale

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Princìpi simili e spettacoli diversi Lokadharmi e Natyadharmi L’equilibrio in azione La danza delle opposizioni La virtù dell’omissione Intermezzo Un corpo deciso Un milione di candele

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Ringraziamenti

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introduzione

il gesto formativo dell’esperienza teatrale di Francesco Cappa Allora, cosa cerco? Cerco di protrarre una presenza arcaica, ormai non congeniale all’epoca in cui vivo. E. Barba Siamo noi l’eco di cui i secoli non hanno potuto soffocare la voce? E. Jabès

La corsa dei contrari è un testo aurorale. In esso i temi si presentano allo stato nascente, con la chiarezza e l’impeto di ciò che vede la luce, prende forma e origina, nello slancio di ciò che genera altro nel tempo che viene. Tale impeto si manifesta nella forma dell’interrogazione. Le tre parti che compongono La corsa dei contrari si aprono con interrogativi che non solo fondano il discorso, ma segnano immediatamente, insieme al punto di enunciazione dell’autore, anche il luogo di distinzione della risposta e, forse, ancor più lo spazio possibile creato per chi potrà rispondere. 9


Questo testo vive e interroga da un margine, da un «ghetto», come scrive Barba nelle pagine iniziali del libro, uno spazio e un luogo che come i margini della filosofia, evocati da Jacques Derrida, riescono a gettare una luce che attraversa lateralmente gli elementi e le zone che credevamo di conoscere e che davamo forse per scontate e assodate. In questo margine troviamo, ancora oggi, una voce e un discorso che non hanno perso efficacia e attualità. Una voce e un discorso ancora necessari per comprendere qualcosa di essenziale dell’esperienza teatrale e non solo di questa. La necessità di rileggere e rendere di nuovo disponibile questo testo nasce dal desiderio di offrirlo non solo a chi è appassionato e interessato al teatro, ai suoi protagonisti, alle sue forme o, in modo più specifico, all’opera di Eugenio Barba, ma soprattutto dal desiderio di riproporlo ad un pubblico più ampio e meno esperto, nella convinzione che, anche se pubblicato molti anni fa, agiti e renda vivi materiali e pensieri che non riguardano solo il teatro e la sua storia. Un modo di leggere questo testo, pubblicato dall’editore Feltrinelli nel 1981, potrebbe, per esempio, essere guidato da una vena che lo percorre quasi interamente che riguarda l’esperienza formativa. Se ci si lascia condurre e in parte incantare dalla voce che sorregge il testo, si comprende ben presto che la formazione, in modo esplicito la formazione dell’attore, travalica ogni tecnicismo, senza perdere di precisone e rigore, e supera ogni angusta definizione o teoria legata a saperi “disciplinati”, fissati, istituzionalizzati. Il lettore, di qualunque estrazione sociale e culturale, è messo a contatto con questioni e domande talmente essen10


ziali e non retoriche da essere interrogato come un essere umano che cerca di incontrarne un altro attraverso un’esperienza autentica. «Avventura e incontro: non quale che sia; ma che accada quello che vorremmo accadesse e poi accada anche ad altri tra noi»1. Un incontro in cui l’esperienza formativa diviene allo stesso tempo una chance etica e un’occasione per mobilitare problemi che riguardano tutti. Per questi motivi mi limiterò a indicare alcuni luoghi del libro, per generare riflessioni, digressioni e commenti, per mostrare risonanze e genealogie tematiche. A partire da alcune frasi riprese dal testo, poste in corsivo al principio dei paragrafi che seguono, proverò a stimolare alcune connessioni, prossime, a volte meno prossime, al discorso originale, e, inoltre, modi di leggere e interpretare le numerose tracce disseminate da Eugenio Barba sul suo cammino e sul nostro. 1. Rivelare relazioni La ricerca personale, non privata, lascia tracce. In diversi paesi del mondo, specialmente nelle nuove generazioni, un senso imprevisto viene dato all’incontro con il teatro: non il bisogno di ricevere teatro, ma il bisogno di fare teatro, di creare nuove relazioni, come attore e come spettatore. Il teatro diventa, così, il mezzo per non restare soli, per gettare un ponte, per creare legami senza rinunciare ai propri sogni. Il teatro 1 J. Grotowski, Holiday: il giorno che è santo, in Id., Holiday e Teatro delle fonti, La Casa Usher, Firenze 2006, p. 59.

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diventa anche l’astuzia, la trincea per proteggere e nascondere quel che riteniamo essenziale.

Nella prima parte di questo libro, nel capitolo intitolato Teatro e cultura, Eugenio Barba afferma che quel che conta nel teatro è «rivelare relazioni». Tale affermazione, solo apparentemente banale, crea oggi un interessante corto circuito rispetto al continuo ritornello contemporaneo che ripete ossessivamente che le relazioni sono il cuore dell’essere sociale, ma solo se si è “connessi”. In un mondo in cui tutto sembra essere – spesso in modo coatto – connesso, il significato che Barba costruisce intorno all’idea del Terzo teatro e della qualità delle relazioni assume un valore speciale che sembra indicare, a distanza di quasi quarant’anni, un antidoto alle perversioni della società e della socialità della “connessione”. Bisogna in qualche modo adattarsi e fare i conti con quella che si chiama realtà. Tale realtà ha i tratti facilmente individuabili, perché la loro violenza è quella di una mortuaria vitalità che dilaga su tutto: perdita di antichi valori (comunque li si voglia giudicare); borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di una ostentata ed enfatica ansia democratica; correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza.

Così scriveva Pasolini nel 1975 sul «Corriere della Sera» del 18 luglio. Queste considerazioni, rivolte all’innesto tra 12


politica e società dei consumi, sono del tutto anacronistiche? Lasciamo, per ora, la domanda sospesa. Quello che è interessante notare è che l’esperienza contemporanea, sul piano formativo, ripropone con uno scarto la questione che Pasolini denunciava senza tregua: se, a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, l’avere aveva spudoratamente impoverito l’essere, potremmo dire che oggi l’avere – informazioni, conoscenze, esperienze – genera la necessità di essere connessi. Ma l’essere connessi non determina necessariamente l’essere in relazione. La connessione, l’essere o – più sottilmente, dal punto di vista del marketing dell’esperienza – il sentirsi connessi sono diventati valori assoluti. Ciò risulta evidente e immediatamente percepibile sul piano commerciale: non essere in grado di entrare nella rete del mercato globalizzato determina con ottime probabilità il fallimento. Se si osserva il fenomeno della connessione da una prospettiva pedagogica, le conseguenze sulle strutture dell’esperienza, sui modelli formativi, sulle relazioni educative, sui processi di insegnamento e apprendimento, sugli strumenti di valutazione ci costringono a riflettere con più attenzione sulle parole di Pasolini. La questione, ovviamente, non sta nell’essere entusiasti delle possibilità dei social networks o considerarle una forma deteriore di esperienza della socialità, che determina un nuovo “isolazionismo”, come viene descritto, depressivamente ma in modo illuminante, ne La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq. Piuttosto si tratta di osservare il fenomeno della connessione come una 13


grande metafora dell’esserci e quindi anche del modo di formarsi e di formare il Sé. Se l’accesso all’informazione non si annoda, in ogni soggetto, al campo di esperienza che i processi formativi mettono in movimento, l’eccesso di connessioni può generare una crisi della presenza anziché un potenziamento delle opportunità di formazione del Sé. Il potere pulviscolare espresso dall’apertura estrema che la network society ci offre, in ogni istante, può generare un effetto di passivizzazione a fronte, a volte, di un’ostentata ed enfatica attività di ricerca. Un’attività che spesso più che aver di mira qualcosa, qualcosa che desideriamo, che ci interessa, che ci serve, che ci apre al mondo, ha in realtà di mira la ricerca di un rilancio della nostra debole sommersa presenza, nel rimbalzo che la risposta dell’altro sembra offrirci, anche solo per un attimo. La scena allestita dal web diviene così la manifestazione perfetta dell’opposto della scena teatrale del Terzo teatro2. Una scena che, nelle parole di Barba che aprono il testo, «L’Odin rifiuta sia il teatro convenzionale dominante che il teatro d’avanguardia ortodosso. L’Odin è stato il pioniere di quel movimento denominato Terzo teatro. [...] Il modo in cui costruisce un’opera è tale da costruire una sfida per gli spettatori come solo i migliori teatri d’avanguardia sanno fare. Ma invece di girare nel circuito dei festival, l’Odin va in villaggi dove rimane per lunghi periodi o va nei quartieri abitati dalle minoranze o dalla classe operaia. Oppure lavora con gruppi locali attivi in ambito artistico. L’Odin non è un gruppo elitario» (J. Grotowski, Intervista con Jerzy Grotowski su Eugenio Barba. A cura di Richard Schechner [1984], in Id., Testi 1954-1998. Oltre il teatro, vol. III, La casa Usher, Firenze 2016, pp. 254-255). 2

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descriveva una nuova esperienza teatrale che già rispondeva ai primi sintomi della perdita di presenza dei soggetti nella dimensione relazionale, sociale e politica. Oltre a sottolineare una possibilità di distinzione del Terzo teatro nel rapporto con le istituzioni culturali e teatrali dell’epoca in cui Barba scriveva. La connessione oggi induce anche un ritmo, spesso compulsivo, segnato dalla logica dell’adempimento costretto dai software che, a dispetto del nome, pesantemente e in modo subliminale ci suggeriscono e molto spesso costringono ad “aggiornarci” di continuo, pena l’esclusione da una piena e soddisfacente operatività. Un’operatività che non riguarda più solo i nostri devices, ma la nostra stessa identità, professionale e relazionale. Ci sarebbe quindi un paradossale effetto di passivizzazione della formazione che interviene nel momento in cui l’essere connessi, spesso guidato dal desiderio di dimostrare agli altri di esserlo, diventa formativo in sé, come ostensione di una condizione che è “in formazione permanente” perché eternamente connessa a tutto lo scibile. Un analista e interprete dei rapporti tra saperi e poteri nella società contemporanea come Manuel Castells sperava, concludendo una sua lezione alla Bocconi di Milano nel 2008, che lo spazio pubblico potesse diventare «la costruzione di un network di connessione tra le menti» e la diversità di vedute potesse rendere le reti di comunicazione più aperte. Credo che si sottovaluti, a volte, in questi discorsi, il fatto che la formazione, l’educazione si occupa di una qualità della connessione che sta a monte di quella evocata da Castells. 15


Qualcosa che Karl Marx scrisse in una lettera al suo amico Engels alla fine dell’estate del 1867: «Mi è costato tanta fatica trovare le cose stesse, vale a dire la loro connessione». Tale connessione esprime la tensione del soggetto, anche corporea espressa in quella fatica, a scoprire la struttura, l’articolazione, la legge del mutamento che governa le forme della storia, della società, dei fenomeni che ci attraversano e ci formano. Quello che Marx chiamava scienza della forma reale dei fenomeni al di là della loro forma apparente. Ogni gesto dovrebbe mirare a questa connessione, e il gesto teatrale diventa un paradigma di questa possibilità. 2. Il gesto formativo Quello che conta è comprendere ciò che sta dietro i risultati e che permette di non fermarsi ad essi. [...] Sapere non è comprendere. Il modo di controllare un processo di lavoro è qualcosa che si assorbe in un lunghissimo arco di tempo, in determinate relazioni e condizioni di lavoro. Solo quando lo si è assorbito, lo si è compreso, si comprende anche che cosa si sa. Influenzare l’allievo sarebbe – secondo un’opinione comune – negativo. I segni dell’influenza rivelerebbero un rapporto malsano. Ma con questo modo di ragionare non si approda a nulla: tutti siamo influenzati da qualcuno. Il problema è la carica di energia che viene messa in gioco nel rapporto: se l’influenza è così forte che permette di andare lontano, o se è così debole che non produce, in cambio, che un piccolo spostamento, o una marcia sul posto. [...] Ma dove il rapporto è libero, se nasce da una scelta reciproca, 16


Ornitofilene, 1965-66; foto Terje Lund.


Kaspariana, 1966-68; foto Roald Pay. Ferai, 1969-70; foto Torgeir Wethal.


La casa del padre, 1972-74; foto Roald Pay. Il libro delle danze, 1974-80; foto Tony D’Urso.



(a fronte, in alto) Johann Sebastian Bach, 1976-80, foto Torgeir Wethal. (a fronte, in basso) Vieni! E il giorno sarà nostro, 1976-80; foto Tony D’Urso.

(in alto) Anabasis, 1977-84; foto Tony D’Urso. (a destra) Judith, 1984; foto Torben Huss.


la corsa dei contrari

Premessa sul silenzio scritto Ho avuto l’illusione che la sapienza teatrale fosse qualcosa che poteva essere carpita e posseduta. Prima andai da un vivo. Per tre anni rimasi seduto ad osservare il lavoro di Jerzy Grotowski. Poi andai in India. In seguito mi rivolsi ai morti, ai livressources della “scienza” del teatro. Sul mio tavolo ci sono Stanislavskij, Mejerchol’d, Brecht, gli antichi scritti di Zeami, il Natyashastra. C’è Ejsenstein. Questa è stata la mia preparazione fino al giorno in cui ho cominciato a lavorare con i miei compagni dell’Odin. È per quella sapienza di cui sono stato spettatore o ho letto, che oggi alcuni vogliono lavorare con me o mi fanno delle domande sul lavoro dell’attore? O a causa dei risultati raggiunti dai miei compagni attori? Può il libro trasmettere il senso delle esperienze di anni ed anni di lavoro? Perché, in alcune culture, la sapienza teatrale non è mai 81


stata “pubblicata”, o – al limite, come nel caso di Zeami e degli scritti tecnici degli attori della Commedia dell’Arte – è rimasta a lungo affidata ad una tradizione di mano in mano? Una sera, in India, ascoltai un cantore la cui voce raggiungeva effetti che non immaginavo possibili. Ebbi la sensazione di essere sulle tracce di un segreto. Gli chiesi come allenasse la sua voce. Rispose: «Ho impiegato trent’anni per cantare come canto, e tu mi chiedi come ho fatto?». La richiesta del Cnrs, che è all’origine di questo articolo, contiene in particolare due domande: 1. Che significa essere attore nella nostra epoca e nella nostra società? 2. Che significa, per me, formare degli attori? 1. Sul significato sociale dell’attore Non so quale significato abbiamo, nella nostra epoca e nella nostra società, i miei compagni ed io. Siamo forse noi a stabilire che significato abbiamo o avremo? È il contesto che decide del significato delle parole. Una parola può solo essere precisa. L’origine di questo termine indica qualcosa di ben distinto, così ben stagliato da non poter essere sostituito da nient’altro. Si potrebbe dire che il significato di essere attore è affrancarsi. Sono molti gli esempi storici in cui è possibile constatare che, tramite la sua professione, l’attore si af82


francava, in un senso molto concreto, sociale ed economico. Un affrancamento non in senso vagamente psicologico, ma nel senso di: zone franche, en franchise de port, e forse anche nel senso di langue franque. Forse un filosofo potrebbe dire che gli attori (o certi attori) significano in maniera fisica, attraverso un lavoro quotidiano, il disagio e persino la ripugnanza ad accettare la realtà della propria epoca: la loro scelta, prima dei loro spettacoli, dice la loro incapacità a soddisfare i propri bisogni nella “vita reale”, o il loro desiderio di non immettersi nelle “utilità del proprio tempo”. Soltanto in futuro qualcuno potrà decifrare quale era il significato, quali tracce ha lasciato la zone franche dell’attore, che ha scelto l’esercizio di un lavoro che scompare con lui. I miei compagni ed io, dopo anni di isolamento, di “laboratorio”, abbiamo scoperto quasi all’improvviso di significare qualcosa che per molti era importante. Chi sono questi “molti”? Qualche migliaio di persone sparse qua e là in diversi paesi. Intorno ad essi c’è una nebulosa più diffusa: un’attenzione per il nostro lavoro e per la nostra storia, un vago interesse, un po’ di curiosità. I confini di questa nebulosa sono segnati da coloro che, quando sentono il nostro nome, mostrano di riconoscerlo. Ci è impossibile fare il salto da questi piccoli cerchi di cui abbiamo esperienza a quel cerchio tanto vasto da poter essere chiamato “epoca” e “società”. Per fare questo salto, bisognerebbe abbandonare il terreno della esperienza e parlare dell’Attore in generale, di una astrazione che indica 83


tutti e nessuno, qualcosa di impersonale. Questo non sarebbe dedurre dall’esperienza una teoria, ma far violenza alla esperienza. Dopo quindici anni di lavoro teatrale, a volte sono sorpreso ancora dei miei compagni. Mi meraviglia la loro continua ricerca, la loro testardaggine, il loro coraggio nel lavorare tutti i giorni, dalla mattina alla sera, senza che, a volte, sembri esserci un frutto della fatica. Altre volte, quando uno di noi sembra lavorare meno, accontentarsi o indietreggiare di fronte a quel che lui ritiene impossibile, gli altri scuotono la testa, si irritano. Come se fosse semplicemente normale, o fosse diventata una nostra seconda natura accanirsi per ore ed ore intorno a un gesto, a un frammento, passare la maggior parte del nostro tempo, per anni, in un ambiente non più grande di un teatro, in una “società” fatta di una quindicina di persone. Il filosofo potrebbe dire che tutto questo non significa nulla di buono e di utile. Potrebbe dimostrare che c’è qui un eccesso e ripetere – come diceva un grande politico – «pas trop de zèle». Potrebbe dire: «È vero, questi attori non lavorano quel tanto che basta al mercato degli spettacoli, essi costituiscono una minuscola società di un numero esiguo di persone strette da legami profondi e intricati che impegnano quasi la loro intera vita. Ma in questo risiede il pericolo, perché tagliano i collegamenti con l’esterno, con il proprio tempo e la propria società». Ma è anche possibile che il filosofo dica cose diverse: «Quel che questo gruppo di persone fa non è, in fondo, 84


diverso da quel che nessuno rimprovera all’artista, che sembra isolarsi, e che proprio per questo, con la forza dei suoi risultati, successivamente agisce nel mondo che lo circonda». Ricorderebbe che Brecht, per esempio, qui in Danimarca, si estraniò, per passare ore ed ore a casa sua, al suo tavolino, a scrivere poesie che – a causa dell’esilio – pochi potevano leggere, e pièces che nessuno per anni avrebbe rappresentato, cosciente che «ogni volta che Hitler annuncia una nuova vittoria, la mia importanza come scrittore diminuisce». Eppure restava inchiodato allo scrittoio. Un’azione che si svolge in un ambito ristretto – direbbe il filosofo – ha veramente un senso se va tanto in profondità da giustificare la sua piccola estensione. 2. Sulla formazione dell’attore Che significa per me formare degli attori? La domanda è stata posta non ad un attore, ma a qualcuno che “forma” attori. Colui che forma l’attore sembra in grado di riempire la zona di silenzio che copre per lo spettatore il “segreto” dell’attore. La zona di silenzio non può essere eliminata. È l’ostacolo necessario per passare la soglia. A questo, e non a trasmettere tecniche ed esperienze, servono gli scritti sull’attore: rendono ruvido il silenzio, lo solidificano in un muro di regole, di teorie su cui appoggiarsi per saltare 85


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