L'educazione del principe cristiano, di Erasmo da Rotterdam, a cura di Davide Canfora

biblioteca filosofica di Quaestio

Erasmo da Rotterdam

L'educazione del principe cristiano a cura di Davide Canfora

edizioni di pagina

Indice

Introduzione

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1. Una biblioteca vitale, p. VII - 2. Carlo V e don Chisciotte, p. IX - 3. «Debacchantur in vitam principum», p. XII - 4. Erasmo e Machiavelli, p. XIV - 5. Buon governo o utopia?, p. XXV

L’educazione del principe cristiano

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Nascita e educazione del principe, p. 11 Il principe deve evitare l’adulazione, p. 151 Le arti della pace, p. 181 Le imposte e il modo di risquoterle, p. 203 La disposizione del principe a compiere il bene, p. 211 Sulla promulgazione e sulla correzione delle leggi, p. 217 I funzionari e i loro compiti, p. 253 Sui patti, p. 259 Le parentele tra i principi, p. 265 Le occupazioni del principe in tempo di pace, p. 271 Quando intraprendere guerra, p. 283

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Introduzione

1. Una biblioteca vitale La prima edizione dell’Institutio principis christiani di Erasmo da Rotterdam apparve a Basilea per i tipi di Froben nel maggio del 1516. Il libro, destinato a numerose ristampe negli anni successivi, ebbe da subito grande fortuna e si impose alla riflessione politica dell’età rinascimentale1: fu variamente imitato, tradotto e fatto oggetto di replica o riscrittura polemica. Neppure la proibizione dell’Indice – che, insieme con gli altri scritti di Erasmo, colpì l’opuscolo a partire dal 1559 – ne ridimensionò del tutto la circolazione e la risonanza su scala europea.

Concepita da Erasmo a breve distanza dalla traduzione in latino della raccolta di precetti politico-morali contenuti nell’Ad Nicoclem di Isocrate, cui l’umanista si era dedicato nel 1513, l’Institutio risente in primo luogo sul piano formale del modello isocrateo: essa è un libro di consigli, riuniti in forma di aforismi al fine di non rendere – spiega l’autore – troppo noiosa la lettura. In questa pre1 Sulla fortuna di Erasmo nel Rinascimento ricordo almeno, a fronte di una vasta bibliografia: Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia. 15201580, Torino, Bollati-Boringhieri, 1987.

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sentazione si coglie un intento di modestia ‘socratica’ tipicamente erasmiano: si pensi anche agli Adagia, dove l’umile intento di commentare il proverbio è non di rado la premessa di veri e propri trattati di argomento etico e politico, lunghi e articolati2; e si coglie appunto l’influenza dell’antico oratore ateniese, che in forma di aforismi e di motti aveva strutturato l’Ad Nicoclem.

L’Institutio è naturalmente costruita su un sistema di fonti vasto e raffinato, come sempre in Erasmo: Isocrate non è che il vestibolo di un percorso molto ampio. Un sistema di fonti, quello messo a frutto dall’umanista olandese, in cui gli antichi autori pagani si affiancano ai testi sacri in una continuità ideale e in una sintesi equilibratissima: una sintesi che rappresenta la pratica realizzazione – possibile solo ad opera di un autore del calibro intellettuale di Erasmo – di quel principio di inclusione e di non esclusione, su cui l’élite culturale dell’occidente latino già da un paio di secoli dibatteva, in particolare con riferimento alla vexata quaestio dello stile migliore: Petrarca e Poliziano avevano appunto esortato a non imitare un solo modello, bensì a raccogliere il meglio da tutti, non però con l’ottusità delle scimmie, che ripetono senza comprendere, ma con la sana ingordigia delle api, che attingono a tutti i fiori del prato, e con l’intelligenza che consente al figlio di rinnovare, ereditandoli, i caratteri dei genitori.

Ebbene, Erasmo – che in merito al problema dello stile era pienamente in sintonia con Petrarca e Poliziano – nella propria oceanica e vasta scrittura estese e applicò il principio della varietà imitativa anche al di là della questione 2 Si veda la felice scelta di testi proposta in: Erasmo da Rotterdam, Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, a cura di Silvana Seidel Menchi, Torino, Einaudi, 1980.

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propriamente linguistica, traducendo – si può dire – l’eccezionalità della propria formazione culturale in una biblioteca attiva e vitale, in cui i modelli concorrono da ogni parte a formare il nuovo disegno. Beninteso, dal punto di vista degli umanisti era sempre un pregio il ricorso alla molteplicità delle fonti antiche, esibite o dissimulate: e questo era ovviamente più facile quando – è il caso della materia politica – il passato si presentava come un serbatoio ricchissimo a cui attingere. Ma rimane assolutamente rara, se non unica, la capacità erasmiana di mettere mano praticamente a tutti i volumi della biblioteca antica, con eguale interesse per i greci e per i latini, e di realizzare un perfetto eclettismo culturale.

2. Carlo V e don Chisciotte L’erudizione – Erasmo si sofferma su questo punto in termini espliciti nell’Institutio, là dove spiega al principe in che modo dovrà maneggiare i libri – non deve mai essere un’esibizione vanitosa e senza criterio. Erasmo non evoca apertamente, ma conosce e sottintende, il noto motto pliniano: non c’è libro, per quanto cattivo, che non abbia qualcosa di buono. Per questo, ancorché egli suggerisca grande cautela nel servirsi della cultura scritta, rimane comunque lontanissima dal suo orizzonte mentale la possibilità che un libro possa essere proibito: eppure le proibizioni, alla vigilia delle grandi censure di metà Cinquecento, erano già un fatto. Non mancheranno gli imitatori ‘più realisti del re’, che nei decenni seguenti, traducendo o riscrivendo l’Institutio erasmiana, esorteranno drasticamente i principi a farsi censori della libera circolazione libraria: così, per esempio, il teologo spagnolo Filippo della Torre, autore di una Institutione d’un re chriIX

stiano, raccolta principalmente dalla Sacra Scrittura e da’ Dottori (Institución de un rey christiano, 1556). Al contrario, per Erasmo, un libro può essere al più sconsigliato: come è il caso dei romanzi d’amore e d’avventura, che all’umanista appaiono intrattenimenti indegni persino degli ignoranti. E soprattutto – e questa è l’altra faccia della medaglia del motto pliniano – anche un libro ottimo può avere controindicazioni e deve essere letto da un lettore praemunitus: cioè da un lettore che si accosti alla cultura non con convinzioni immodificabili, perché in tal caso la lettura sarebbe una fatica inutile, né da un lettore privo di guida, il quale rischierebbe di precipitare nell’abisso della follia come – proprio a causa dei romanzi d’avventura e dei poemi cavallereschi – accadrà un secolo più tardi a don Chisciotte, bensì con animo reso sapiente dal lavoro dell’insegnante (donde, per l’appunto, l’importanza di una institutio adeguata)3. Il lettore praemunitus, spiega Erasmo, saprà distinguere il buono e il cattivo nel racconto degli storici antichi che narrano le gesta di Alessandro Magno e apprenderà anche che non ogni versetto della Bibbia deve essere interpretato alla lettera. Se avesse avuto un buon istitutore, don Chisciotte avrebbe forse compreso che la pagina scritta non è realtà, ma racconto, anche quando ha pretese storiche, e dunque può essere interpretata e immaginata, non vissuta.

Teoricamente importantissima per ogni essere umano, una sana educazione è indispensabile per il principe. Il 3 A proposito della pedagogia erasmiana, rinvio alle ricerche di Luca D’Ascia (Erasmo e l’umanesimo romano, Firenze, Olschki, 1991) e, sempre a cura di Luca D’Ascia, alla recente edizione del De pueris statim ac liberaliter instituendi (Milano, Rizzoli, 2004). Sulla pedagogia umanistica ricordo se non altro lo studio di Eugenio Garin: L’educazione in Europa.

1400-1600, Bari, Laterza, 1957.

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privato che non venga istruito a dovere sarà un cattivo cittadino, con conseguenze tutto sommato limitate; il principe educato male rischia di condurre il mondo intero alla rovina. Tuttavia si deve precisare che, a rigore, l’institutio erasmiana non aveva l’obiettivo di porsi come guida per l’educazione del principe a cui era formalmente dedicata.

Essa fu infatti indirizzata ad un futuro imperatore che era all’epoca sedicenne e già da tempo circondato di istitutori: un uomo destinato a ricoprire un ruolo senza eguali nel panorama politico dell’Europa della prima metà del Cinquecento. Carlo V, di cui Erasmo fu anche consigliere, fu un sovrano ‘cristianissimo’, costretto a misurarsi con i nascenti conflitti religiosi che per lungo tempo avrebbero insanguinato il continente, oltre che con conflitti dinasticoterritoriali di varia natura: un sovrano che si rivelò capace di rinunciare al potere prima di morire e di ritirarsi nella vita appartata del convento. La sua morte, si può dire, coincise con il tramonto del Rinascimento maturo: quando egli scomparve, nel 1558, era quasi pienamente avviata l’era post-tridentina e stava per essere pubblicato il primo ufficiale e completo Indice dei libri proibiti della Chiesa cattolica, mentre l’Europa – in un clima di odio tra popoli che proprio a Erasmo nell’Institutio non era sfuggito – inesorabilmente si avviava verso un secolo di guerre di religione e poneva le premesse del proprio impoverimento anche materiale. È difficile resistere alla tentazione di domandarsi cosa Carlo V avrà pensato retrospettivamente, dopo l’esperienza e la ‘fuga’ dal potere, di quell’opuscolo erasmiano che gli era giunto tra le mani quando ancora l’entusiasmo e il sano senso di irresponsabilità della prima giovinezza lo sorreggevano nei primi passi di una vicenda politica indubbiamente grandiosa: cosa gli sarà parso allora della XI

sempre incolmabile ed eterna frattura che si apre tra la teoria e l’azione, tra la consapevolezza dei principii e la possibilità di tradurli in pratica. Avrà sorriso con amara saggezza o avrà reagito stizzito come il Giove del Momus di Leon Battista Alberti, il quale – alla conclusione della storia, dopo aver dato ogni possibile prova di cattivo governo – getta via senza apprezzarlo il libro di buoni consigli politici che si ritrova sotto gli occhi (che è ovviamente il Momus stesso), infastidito da quei suggerimenti a suo avviso banali, ripetitivi e inutili?

3. «Debacchantur in vitam principum» Molteplicità di fonti, si diceva. Tra gli autori antichi, e ovviamente il dato non è importante solo sul piano quantitativo, i punti di riferimento del ragionamento erasmiano – insieme con i testi sacri – sono Platone, Aristotele e Seneca, cui deve aggiungersi Plutarco, inesauribile serbatoio di aneddotica e di illustri exempla. Isocrate, nominato nell’epistola proemiale, rimane sullo sfondo4. Ma è soprattutto tra la Repubblica e le Leggi platoniche, associate alla Politica aristotelica, che si muove il ragionamento di Erasmo5. Questo contribuisce a spiegare il taglio ‘utopistico’ dell’opera, su cui tra breve torneremo. Prima occorre aggiungere che la formazione culturale di Erasmo si fondava 4 L’Ad Nicoclem di Isocrate era invece collocato esattamente al centro ed orgogliosamente esibito come fonte da Poggio Bracciolini nel dialogo De infelicitate principum: libro che, come vedremo, rappresentò uno snodo fondamentale della riflessione politica quattrocentesca e fu sicuramente noto a Erasmo.

5 Sulle fonti di Erasmo nell’Institutio, e in particolare sul riuso di Platone, cf. l’Introduzione e il commento in Erasmo da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano, a cura di Margherita Isnardi Parente, Napoli, Morano, 1977.

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sugli antichi, pagani e cristiani, ma non era aliena dagli autori dell’età medievale e ancor più umanistica: si può ricordare non tanto san Bernardo di Chiaravalle, polemicamente citato da Erasmo per il suo elogio della guerra santa, quanto piuttosto la letteratura del Quattrocento italiano, che Erasmo nell’Institutio esplicitamente non menziona, ma che conosceva molto bene6. Il dialogo Ciceronianus, con il dettagliato elenco di umanisti e il giudizio critico espresso sul conto di ciascuno di loro, dimostra una puntuale conoscenza di quel secolo da parte di Erasmo, non solo del letterato che l’umanista olandese apertamente considerava il proprio ideale ‘maestro’: Lorenzo Valla.

La letteratura politica del Quattrocento italiano si era – dopo gli anni di Coluccio Salutati e di Leonardo Bruni – in particolare sviluppata lungo due principali linee di pensiero: da un lato la scrittura cortigiana, che a pieno titolo prefigurava il genere della institutio principis (si pensi all’Alberti del De iciarchia e al Pontano del De principe, dei trattati sulle virtù sociali, del De magnanimitate e del De immanitate)7; dall’altro la scrittura polemica sorta negli anni del tramonto del cosiddetto Umanesimo civile (lo stesso Alberti del Theogenius e del Momus sive de principe, nonché il Poggio Bracciolini del De infelicitate principum). Se del filone cortigiano indubbiamente Erasmo ri6 Per questo e altri aspetti, cf. Amedeo Quondam, Il principe cristiano: l’institutio secondo Erasmo, in Studi filologici e letterari in memoria di Danilo Aguzzi-Barbagli, a cura di Daniela Boccassini, «Forum Italicum», suppl. 13, 1997, pp. 72-99.

7 Per un’analisi della riflessione politica di Pontano, e in generale del Quattrocento meridionale, cf. Francesco Tateo, I miti della storiografia umanistica, Roma, Bulzoni, 1990. Sul valore di modello che Pontano e la letteratura ‘civile’ dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano ebbe su scala europea, cf. Amedeo Quondam, La conversazione. Un modello italiano, Roma, Donzelli, 2007.

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sentì (le pagine dell’Institutio sulla beneficentia del principe non possono per esempio leggersi se non alla luce del De beneficentia pontaniano), ancor più viva fu sul suo ragionamento l’incidenza degli autori ‘antipolitici’ quattrocenteschi. Quando l’autore dell’Institutio evoca, prendendo da loro con garbo le distanze, quegli scrittori «qui seditiosis clamoribus debacchantur in vitam principum», egli senza dubbio fa riferimento alla critica quattrocentesca contro il potere: a pochi come al Poggio del De infelicitate principum – il quale teorizzava che al potere accedono solo i malvagi e, se capita una persona per bene in un ruolo di comando, il contatto con il potere è destinato a contagiarla e a corromperla – si addice l’espressione «debacchari in vitam principum». Poggio, per l’appunto, non salvava nessun potente di nessun tempo e giungeva alla conclusione che non esiste la possibilità di un «potere buono». Erasmo, su posizioni che potremmo definire meno ‘anarchiche’, cercò di far scaturire dalla consapevolezza della malvagità del potere la speranza di educare e guidare il principe verso il buon governo. Ciò che, in fondo, aveva tentato Seneca: figura tra le più amate dagli umanisti ‘antipolitici’ del Quattrocento proprio perché dava pienamente ragione del pessimismo di chi «debacchabatur in vitam principum» attraverso il tragico esempio del fallimento del più alto esperimento – insieme con quello platonico – di educazione filosofica del principe. Se Erasmo è forse accostabile a Seneca, non altrettanto però Carlo V a Nerone: la storia propone analogie, non ripetizioni.

4. Erasmo e Machiavelli Erasmo dunque – ancorché egli stesso pessimista sulla natura del potere – sembra voler correggere l’impostazione XIV

univocamente critica e pessimistica di chi si limitava a «debacchari in vitam principum». E l’Institutio, a sua volta, sembra avere quasi subito ispirato un intento di correzione ‘ideologica’: si trattò, verosimilmente, della prima e di una tra le principali tracce della vasta e prolungata fortuna dell’opuscolo. Il Principe, in forma embrionale e provvisoria, fu inviato da Machiavelli a Francesco Vettori nel dicembre del 1513, come si legge nella famosa lettera scritta dall’esilio forzato di San Casciano. L’opera, che si presenta come una pragmatica raccolta di annotazioni brevi e non organiche sull’arte del governo e per la precisione si colloca a metà tra il genere degli ‘appunti di lavoro’ e quello dell’institutio, fu comunque oggetto di ulteriori fasi elaborative, che non si limitarono all’inevitabile labor limae, bensì consistettero in aggiunte e allargamenti progressivi nel corso degli anni: il libro, in origine, «doveva configurarsi come un trattatello ad uso dei Medici»8. È molto probabile che il Principe nella forma compiuta fosse pronto non prima del 1517, come ha da ultimo persuasivamente argomentato Mario Martelli: o piuttosto non prima del 1518, e forse non prima del 1520, quando prende avvio la tradizione manoscritta superstite, cui si aggiungeranno dopo la morte dell’autore le prime copie a stam8 Francesco Bausi, Machiavelli, Roma, Salerno Editrice, 2005, pp. 200201. Ad una scrittura ‘concentrata’ e compiuta già nel 1514 fanno riferimento Giorgio Inglese (nell’edizione critica: Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1994; ma cf. già: Giorgio Inglese, Il Principe (De principatibus) di Niccolò Machiavelli, in Letteratura Italiana diretta da Alberto Asor Rosa, Le Opere, vol. I: Dalle origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 889-941: 889-894) e da ultimo Raffaele Ruggiero (nel suo recente e pregevole commento dell’opuscolo machiavelliano: Milano, Rizzoli, 2008, p. 15). Lo stesso Inglese, peraltro, nel capitolo della Letteratura Einaudi (p. 894) fa riferimento a possibili interventi di Machiavelli sul testo del Principe risalenti al 1516.

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pa9. Al 1523 – quando evidentemente il Principe manoscritto aveva cominciato a circolare10 – si data il plagio del libro di Machiavelli realizzato dal poligrafo Agostino Nifo, il quale si attribuì la paternità dell’opera dopo averla di fatto saccheggiata e tradotta dal volgare in latino e la diede alle stampe dedicandola allo stesso Carlo V cui Erasmo aveva già indirizzato l’Institutio11. Nifo si poneva, a quel che pare, in competizione con Erasmo: tuttavia, non potendosi avvalere di armi proprie, si serviva di quelle lasciate ‘inedite’ dal politico – e non letterato di ‘mestiere’ – fiorentino. Il quale a sua volta con l’Institutio erasmiana fu probabilmente costretto a misurarsi.

Dunque Machiavelli realizzò di getto una prima idea del Principe, che successivamente accrebbe e perfezionò. Se così stanno le cose, non dovrà suscitare sorpresa il ritro9 Mario Martelli, Introduzione, in Niccolò Machiavelli, Il Principe, a cura di Mario Martelli, corredo filologico a cura di Nicoletta Marcelli, Roma, Salerno Editrice, 2006, pp. 21-47.

10 Non è fuori luogo precisare che nel plagio di Nifo non c’è traccia di quattro capitoli del Principe: il XV e i tre conclusivi (XXIV-XXVI). Quale la causa di questa assenza? Ragioni «philosophico-idéologiques», come ipotizza Larivaille riferendosi in particolare al capitolo XV (cf. Machiavel, Le Prince, nouvelle édition critique du texte par Mario Martelli, introduction et traduction de Paul Larivaille, notes de commentaire de Jean-Jacques Marchand, suivi de Agostino Nifo, L’art de régner, texte établi par Simona Mercuri, introduction traduction et notes par Paul Larivaille, Paris, Les Belles Lettres, 2008, p. 190), o più semplicemente il fatto che nel manoscritto del Principe utilizzato da Nifo per realizzare il De regnandi peritia nel 1523 quei capitoli erano ancora mancanti? Il capitolo XV, vedremo tra breve, è un nodo cruciale del possibile rapporto Machiavelli-Erasmo e potrebbe rappresentare una tardiva e meditata aggiunta al testo dell’opuscolo.

11 Carlo Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980, pp. 133-134. Il plagio di Nifo fu svelato da Francesco Fiorentino, Del ‘Principe’ del Machiavelli e di un libro di Agostino Nifo, «Giornale Napoletano di Filosofia e Lettere, Scienze morali e politiche», n.s., 1 (1879), pp. 94-114.

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vare nei capitoli del libro del segretario fiorentino segni di adesione e di dissenso rispetto all’autorevole operazione realizzata da Erasmo in quegli stessi anni. Se non in una delle fortunate stampe che furono realizzate tra il 1516 e il 1517 a Basilea, Lovanio e Parigi e che ebbero larga diffusione, Machiavelli poteva avere intercettato l’opuscolo erasmiano nell’edizione veneziana del 1518 o, al più tardi, in quella fiorentina del 1519. Sulla notorietà di Erasmo e dunque sul ‘richiamo’ che un suo titolo poteva esercitare sul pubblico di quegli anni, non occorre soffermarsi12.

Quale l’indiretta polemica contro Erasmo che potrebbe nascondersi tra le righe del Principe? Nel cruciale capitolo XV (De his rebus quibus homines, et praesertim princeps, laudantur aut vituperantur), vero e proprio secondo proemio interno all’opera, Machiavelli si mostra consapevole del rischio di apparire non innovativo in ragione dell’argomento su cui ha intrapreso a scrivere (la institutio principis), ma dichiara che la novità del suo Principe consisterà nella «verità effettuale», cui egli orgogliosamente si richiama, e nel rifiutare l’impostazione dei «molti» che, prima di lui, hanno «immaginato» principati non esistenti nella realtà, teoricamente perfetti e praticamente irrealiz12 Sul tema della ‘biblioteca’ di Machiavelli, cf. tra l’altro: Mario Martelli, Schede sulla cultura di Machiavelli, «Interpres», 6 (1985-1986), pp.

283-330; Francesco Bausi, Petrarca, Machiavelli, il ‘Principe’, in Niccolò Machiavelli politico, storico, letterato. Atti del Convegno di Losanna (27-30 settembre 1995), a cura di Jean-Jacques Marchand, Roma, Salerno, 1996, pp. 41-58; Cesare Vasoli, Machiavelli e la filosofia degli antichi, in Cultura e scrittura di Machiavelli. Atti del Convegno di Firenze-Pisa (27-30 ottobre 1997), Roma, Salerno, 1998, pp. 37-62 (e in generale l’intero volume di questi atti); Francesco Bausi, Politica e poesia. Ancora sulla cultura di Machiavelli, «Intersezioni», 3 (2002), pp. 377-393. Sul riuso di Erasmo e di Machiavelli nella riflessione politica del Rinascimento maturo, cf. Fadrique Furió Ceriol, Il Consiglio e i consiglieri del Principe, a cura di Luca D’Ascia, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 9-96.

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zabili13. Dato, continua Machiavelli, un lungo elenco di virtù e di vizi umani, senza dubbio l’ideale sarebbe che il principe fosse dotato di tutte le virtù e alieno da tutti quei vizi: ma, poiché la natura umana non è capace di tanto, al principe si dovrà richiedere di mettere in pratica, tra tutte quelle virtù, solo le virtù in grado di sorreggerlo nell’azione di governo, nonché di astenersi da quei vizi che ostacolerebbero l’arte politica.

Ora, Machiavelli parla di «molti» che si sono immaginati principati ‘utopistici’. Certo egli ha in mente quanti, in età antica, medievale e umanistica, avevano ritratto il principe e parlato del principato in termini ideali: senza dubbio, Platone e Dante. Ma la vivacità del riferimento, che sembra alludere ad una polemica attuale, nonché in particolare l’elenco circostanziato di virtù e vizi che Machiavelli propone, lasciano pensare proprio a Erasmo. Il quale senza dubbio aveva in mente un principe ideale e, si è visto, non aderiva al pessimismo critico degli autori precedenti (che invece a Machiavelli erano, oltre che noti, anche probabilmente congeniali). Erasmo per dare l’esatta idea del principe autentico e, al contrario, della natura del tiranno, ricavava da Giulio Polluce un lungo elenco di virtù dell’uno e di vizi dell’altro. Il principe cristiano, secondo Erasmo, dovrà avere esattamente quelle virtù per potersi distinguere dal tiranno, che a sua volta, in quanto tiranno, non potrà se non avere quei vizi.

L’impressione è che Machiavelli abbia voluto non solo contrapporre ad un elenco un altro elenco, ma anche, per l’appunto, dimostrare che le qualità positive comprese nel13 A proposito del pragmatismo e dell’empirismo politico di Machiavelli, cf. Giulio Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma, Donzelli, 2003.

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l’elenco di Giulio Polluce, ripreso da Erasmo, non sono realizzabili tutte insieme, «per le condizioni umane che non lo consentono» (e che semmai, si ricava implicitamente dal ragionamento di Machiavelli, consentono di realizzare le qualità negative tutte insieme). Machiavelli inoltre – e questo è forse il tratto più innovativo del suo argomentare – spiega che ci sono qualità apparentemente positive e apparentemente negative: virtù che sono controproducenti in politica e, soprattutto, vizi che in politica hanno effetti positivi. Una sfumatura del discorso machiavelliano, quest’ultima, che pone le premesse delle successive – e a tratti ripetitive – disquisizioni intorno alla cosiddetta ragion di stato.

Il motivo delle virtù e dei vizi del principe, si noti, affiora quasi da ogni pagina dell’Institutio: esso si presenta in termini di particolare interesse soprattutto quando Erasmo spiega che, tra la caratteristiche indispensabili del vero principe, c’è appunto quella di essere un «vir bonus».

Può accadere, aggiunge Erasmo, che un «vir bonus» possa essere inadatto al ruolo di governante: ma non che un governante possa dimostrarsi tale senza dar prova di essere anzitutto un «vir bonus». È, questa, una prospettiva morale che talora si considera ‘ingenua’, fuorviati dall’interpretazione deteriore del machiavellismo politico: nobile sul piano dei principii, l’idea di un principe educato all’integrità etica sarebbe però un’anticaglia utopistica, priva di fondamento nella realtà e, semmai, di ostacolo all’azione; al contrario, il potere richiede all’uomo di essere «volpe» e «leone», e dunque di sorvolare, se necessario, sulle leggi della morale. Ora, senza dubbio il realismo di Machiavelli in parte corregge e rende più pragamtica l’impostazione schiettamente etica che Erasmo, in linea con gran parte della tradizione e in particolare con alcuni grandi autori del passato, tra cui Platone e Seneca, dava XIX

della politica. Ma il principe di Erasmo non è un ingenuo: appunto a questo l’autore dell’Institutio allude, quando scrive che il «vir bonus» può rivelarsi inadatto al potere.

Il potere richiede anche astuzia e capacità di simulare: Erasmo ne è consapevole non meno di Machiavelli.

Come Poggio Bracciolini aveva nel dialogo Contra hypocritas elogiato la simulazione onesta di Numa Pompilio (dal racconto dei suoi incontri notturni con la ninfa Egeria sarebbero nate le leggi e la religione a Roma e in questo modo si era incivilito un popolo rozzo e recalcitrante alle norme e alla disciplina); come Machiavelli, nei Discorsi, riprenderà quello stesso elogio di Numa Pompilio, additando nel secondo re di Roma, non in Romolo, il vero fondatore della città: così Erasmo non nega che, quando il popolo è «intractabilis» e incapace di riconoscere il proprio bene, deve essere indotto al cambiamento «arte quapiam vel fuco salutari». La simulazione onesta, aggiunge Erasmo, è come il vino: in principio va giù, dopo un po’ inebria. Immagine che, sia detto incidentalmente, prefigura con straordinaria efficacia il cruciale problema del consenso, con cui sarà destinato a confrontarsi – e su cui sarà destinato a incepparsi – il delicato marchingegno delle moderne democrazie14 e, in generale, dei sistemi elettivi.

Ciò che comunque conta – su questo, occorre precisarlo, 14 Il problema della estrema delicatezza del meccanismo democratico – che senza dubbio rappresenta il più raffinato ed equo strumento per la gestione del potere inventato dall’uomo, ma che appunto è esposto alla cronica incapacità del genere umano di far prosperare le condizioni migliori e di far prevalere l’interesse comune – è stato sintetizzato da Albert Mathiez a proposito della Rivoluzione Francese: «È legge che la democrazia non può funzionare liberamente se non a patto di essere liberamente accettata» (Albert Mathiez, Georges Lefebvre, La Rivoluzione Francese, tr. it. di Mario Bonfantini vol. I, Torino, Einaudi, 1960 [Paris, Colin, 1922-1927], p.

121).

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Erasmo e Machiavelli sono di fatto in piena sintonia – è che la simulazione può avere un unico obiettivo: il bene pubblico, che ovviamente in un regime monarchico fatalmente tende a coincidere con la prosperità del principe.

Pragmatismo e utopia sono categorie più vicine di quanto possa apparire a prima vista: l’utopista Erasmo, che immagina un principe integerrimo e incorruttibile, specchio di Dio in terra, asserisce – ribadendo un concetto di Seneca, di cui si era appropriato anche Poggio Bracciolini – che re e tiranno si distinguono unicamente dai fatti e dalle azioni concrete, non certo dai titoli15; il pragmatico Machiavelli si mostra accondiscendente e tollerante nei confronti della moralità privata dell’uomo di potere, ma in sostanza tratteggia una figura di principe infallibile, che non è meno ideale del «princeps vere christianus» di Erasmo.

Una distanza realmente incolmabile tra Erasmo e Machiavelli si misura riguardo al valore di alcuni modelli antichi (Erasmo considera molte gesta di Achille e di Ciro 15 Riflessione che fu al centro dell’indagine politica di Hobbes e che ha conservato una straordinaria attualità nel tempo. Ne riaffiora traccia – per citare un esempio molto recente – nella raffinata conversazione che l’ormai anziano presidente francese François Mitterrand ebbe poco prima di morire con lo scrittore Elie Wiesel. Nel capitolo intitolato Pouvoir, riferendosi all’importanza che Mitterrand dichiara di attribuire all’equilibrio tra i poteri («Une société doit organiser ses propres structures de manière à donner des pouvoirs importants à ceux qui sont appelés à parler et agir en son nom, mais elle doit également créer, dans le cadre de ses institutions, des contre-pouvoirs. Je pense qu’une société ne peut exister que si elle s’institutionnalise»), Wiesel domanda: «Vous dites que les institutions doivent garantir qu’un tyran n’imposera pas sa loi. Mais comment reconnaître qu’à un moment donné le pouvoir en place se transforme en tyrannie?». Risponde Mitterrand: «On juge un pouvoir à ses actes [...]. Nous n’avons pas d’autre critère pour juger un pouvoir que d’en constater les effets» (François Mitterrand, Elie Wiesel, Mémoire à deux voix, Paris, Éditions Odile Jacob, 1995, pp. 197-200).

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non diverse da quelle di Serse e di altri «latrones» e suggerisce cautela nel valutare il racconto storico di Livio) e in materia di religione. In questo caso le differenze sono davvero inconciliabili: Erasmo, sacerdote umanista, convinto fautore della continuità tra saggezza pagana e verità cristiana, non dubita mai del fatto che, come in fondo già per Dante16, il cristianesimo rappresenti il perfezionamento della filosofia antica. Dei greci e dei latini Erasmo è ammiratore e, più approfonditamente di Machiavelli, scrupoloso conoscitore: eppure egli non cessa di ripetere che il cristiano autentico, se non tradisce la propria fede con una prassi di vita ignobile, è necessariamente un gradino al di sopra del più grande dei pagani. Aristotele fu un filosofo immortale, ma pur sempre un «ethnicus»: un vero cristiano non potrà non essergli superiore.

In quest’ottica si intende che la componente religiosa non è semplicemente importante in Erasmo: nella fede si sostanzia per lui la vita e, ovviamente, la regalità, che è degna di questo nome solo nella misura in cui il principe si propone come obiettivo quello di imitare Cristo e di seguire con umiltà i precetti evangelici. Perciò il principe di Erasmo è «christianus» sin dall’epigrafe dell’opuscolo e l’umanista non spreca neppure un rigo per spiegare quale deve essere il ruolo della religione nel principato: un principato, ma in generale l’esistenza umana, senza religione non è per Erasmo neppure concepibile e alla fine della propria vita terrena il principe dovrà rendere conto a Dio delle opere (posizione che, sia detto per inciso, prefigura 16 Sul motivo della salvazione dei pagani in Dante e sulla sua viva speranza che il «paganesmo» si muti in «cristianesmo», cf. Michelangelo Picone, La “viva speranza” di Dante e il problema della salvezza dei pagani virtuosi. Una lettura di Paradiso 20, «Quaderni d’Italianistica», 10 (1989), pp. 251-268.

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la controversia tra Erasmo e Lutero sul libero arbitrio, indicato ‘razionalisticamente’ da Erasmo come tramite indispensabile per la salvezza, in linea con l’Agostino della maturità)17. Machiavelli, al contrario, al ruolo della religione dedica pagine celebri, che furono certo tra le cause principali della proibizione che lo colpì18. Machiavelli, da posizioni laiche e scettiche, in primo luogo non concepisce il principe solo come principe cristiano: egli anzi nel Principe distingue, formalisticamente, tra principati laici e principati ecclesiastici. Secondariamente, la religione ha per Machiavelli una specifica funzione all’interno dello stato, non è la premessa ineliminabile dell’esistenza umana. La religione – egli spiega nei Discorsi – rende gli uomini più buoni e più docili: perciò essa contribuisce alla coesione sociale ed è un utile strumento del potere. Senza religione, lo stato vacilla perché è disunito; grazie alla religione, esso è più solido. Non è difficile riconoscere in questo ragionamento l’applicazione sul piano politico di un principio filosofico dell’epicureismo, cioè di una filosofia che, a rigore, si collocava a distanza rispetto alla 17 La questione del libero arbitrio, che aveva animato la riflessione di Lorenzo Valla e avrebbe direttamente interessato Erasmo dieci anni più tardi in polemica con Lutero, circolava a vario titolo nella cultura rinascimentale e non suggeriva riflessioni solo strettamente ‘teologiche’. Si può pensare proprio a Machiavelli, tra gli altri. La sua commedia Mandragola, come è stato osservato, ruota attorno al problema della volontà: formalmente adultera, apparentemente vittima, Lucrezia sceglie in realtà di concedersi a Callimaco per assecondare una evidente «celeste disposizione» e rivendica con ciò di fatto la propria innocenza (Niccolò Machiavelli, Mandragola, commento a cura di Antonio Stäuble, Firenze, Cesati, 2004, pp.

21 e 125 [a.V, sc. IV]). Sulla controversia Erasmo/Lutero intorno al libero arbitrio, cf. almeno Roberto Torzini, I labirinti del libero arbitrio. La discussione tra Erasmo e Lutero, Firenze, Olschki, 2000.

18 Cf. Emanuele Cutinelli-Rèndina, Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1998.

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prassi della politica: per Epicuro gli dei esistono e però non si occupano delle vicende umane, il che tuttavia non esclude l’utilità del culto e dei sacrifici, grazie ai quali gli uomini si educano alla devozione e divengono più pii; allo stesso modo Machiavelli, che non mostra di riconoscere segni provvidenziali nella storia umana, trova per l’appunto che la religione svolga una funzione civica e pratica di grande importanza. Epicuro arguiva l’esistenza degli dei dal fatto che tutti gli uomini, salvo poche eccezioni, sono convinti della loro esistenza; così Machiavelli tratta la religione come un fattore a volte ingombrante, ma non eludibile, se è vero che persino nella civilissima e laica Firenze del Quattrocento aveva attecchito la spregiudicatezza di Savonarola, il quale era stato capace di convincere i propri concittadini di essere in diretto contatto con la divinità. La spregiudicatezza machiavelliana e la pietas umanistica erasmiana furono precipitate nella medesima fornace delle proibizioni dalla intrinseca ottusità della censura, che sempre annulla le differenze, incenerisce le sfumature e fraintende i contenuti: e mentre il Principe di Machiavelli, apparso in editio princeps per volontà di un papa, finiva nella temuta I classe dell’Indice insieme con gli scritti di Erasmo, il plagiario Nifo scivolava indisturbato, ignorato dai censori, negli abissi dell’oblio.

Decisamente più vicini appaiono Erasmo e Machiavelli a proposito di una questione che, toccata dall’umanista olandese con chiarezza e però in breve, diventa in Machiavelli il cardine del ragionamento politico dei Discorsi: la costituzione mista19. Al buon principe si potrebbe con19 In materia di arte della guerra, cf. da ultimo: Gian Mario Bravo, Dall’arte della guerra alle armi per la pace: da Machiaveli a Erasmo, ovvero da Clausewitz a Bobbio, in Filosofia giuridica della guerra e della pace, a cura di Vincenzo Ferrari, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 493-510.

XXIV

cedere un potere illimitato, spiega Erasmo prefigurando la categoria di «princeps legibus solutus»: ma, poiché è più frequente che il principe sia «mediocris», se non addirittura «malus», ne consegue che occorrono dei freni istituzionali che limitino gli abusi. Da questo punto di vista la forma di governo migliore è appunto il sistema misto, in cui la componente monarchica appare congiunta con quella aristocratica e con quella democratica. Erasmo ha qui presente la Politica di Aristotele20 e non cita Polibio. A Polibio – al tanto discusso VI libro delle Storie – si richiamerà nei Discorsi Machiavelli, che dallo storico greco recupererà un’idea di costituzione mista costruita sul concreto modello dello stato romano, insieme con il motivo – peraltro topico e attestato anche in Aristotele – della ciclicità delle forme di governo, che nel tempo si deteriorano e si mutano l’una nell’altra.

5. Buon governo o utopia?

Quale dunque il principe «immaginato» da Erasmo? Indubbiamente un filosofo, perché – egli spiega – tra l’essere filosofi e l’essere cristiani non c’è, in realtà, alcuna differenza: ne consegue che dire «principe cristiano» e dire «principe filosofo» significa la stessa cosa. Contemporaneamente all’amico Thomas More, la cui Utopia può leggersi come ‘testo a fronte’ dell’Institutio21, Erasmo a sua 20 Cf. Aristot. pol. 4, 1293b, 33-42: ma diffusamente, nel IV libro della Politica, Aristotele descrive i diversi regimi politici nelle loro varietà e descrive la degenerazione a cui vanno soggetti.

21 Si vedano i puntuali raffronti tra Utopia e Institutio nel commento di Otto Herding a Erasmo (Amsterdam, North-Holland Publishing Company, 1974). L’editio princeps di Utopia di Thomas More apparve nel 1516 ad Anversa per i tipi di Maartens.

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volta concepisce un opuscolo che si può, a pieno titolo, definire utopistico, dal momento che così scopertamente si richiama al modello platonico, riproposto ovviamente sotto la luce della fede cristiana.

Occorre però, a questo proposito, una precisazione. Cosa in realtà ci spinge a parlare di testo ‘utopistico’, di fronte all’Institutio, e cosa precisamente si intende per utopia nel nostro modo di ragionare? Abbiamo visto che il pragmatismo conduce Machiavelli a sorvolare sulle imperfezioni umane del principe: l’indispensabile, per il segretario fiorentino, è che il principe sia efficace nel ruolo di principe. Abbiamo anche osservato che questo apparente realismo sottintende l’utopia più grande: un principe davvero efficace, non solo deciso, nell’azione di governo. Ma, è anche necessario chiedersi, separare i vizi umani dall’efficacia politica è davvero una forma di realismo? La morale privata, che per Machiavelli non può essere impeccabile perché «le condizioni umane non lo consentono», davvero può considerarsi una sfera incomunicabile con la prassi del potere? Non si rischia così di equiparare il politico al sacerdote, il quale ultimo – secondo quanto Agostino obiettò a Pelagio – eroga sacramenti comunque validi, anche quando egli è uomo di dubbia moralità, e questo in ragione del fatto che i sacramenti discendono direttamente da Dio, di cui l’uomo è un tramite comunque indegno?

Tuttavia, è evidente, il politico non eroga sacramenti. Ci si deve rassegnare all’idea che davvero sia una utopia immaginare che, banalmente, l’uomo di potere possa essere onesto e possa essere messo in condizione di agire onestamente? E se è così, quale ragione ideale potrà allora dissuadere l’uomo comune dal condividere il pensiero – ‘qualunquistico’, diremmo oggi – su cui Poggio Bracciolini, nel XXVI

momento di più amara disillusione e crisi dell’Umanesimo civile, quando apparve chiaro che il ruolo degli intellettuali nella società delle nascenti corti poteva limitarsi unicamente alle funzioni di cortigiano e di segretario, costruì il dialogo De infelicitate principum? Il potere, come abbiamo già ricordato, per Poggio è di per sé un male; lo dimostra il fatto che esso attira quasi sempre i malvagi e che, quando raramente vi accede una persona per bene, quest’ultima immancabilmente viene contagiata da quel contatto e si corrompe e, per così dire, fa naufragio.

In cosa allora consisterebbe l’utopia erasmiana? Erasmo «immagina» un principe dotato di cultura e moralmente presentabile. Il principe è infatti l’uomo più in vista della società e dunque funge da modello: se è corrotto, incita anche solo con la propria presenza alla corruzione; se è onesto, invita naturaliter all’onestà e costringe i disonesti a trafficare in modo più guardingo. Il principe è inoltre un modello e per questo gli occorrono sapienza e cultura: Erasmo non prospetta il ritratto di un principe che sappia tradurre Omero in latino, bensì che sappia misurare le parole, dal momento che ogni sillaba da lui proferita sarà ripetuta da tutti. Perciò quella sillaba dovrà essere corretta formalmente e meditata nei contenuti.

Erasmo «immagina» un principe che curi gli interessi della collettività non necessariamente per santità d’animo, ma anzitutto perché la prosperità è ricchezza collettiva e finisce col rendere anche lui più ricco di quanto già non fosse nel momento in cui si era insediato sul trono.

Erasmo «immagina» un principe che abbia a cuore le leggi: che le rispetti e che le aggiorni in funzione del bene collettivo; un principe che non usi dunque le leggi come le ragnatele, che imbrigliano i più deboli, o per esercitare il proprio utile personale. Erasmo «immagina» XXVII

un principe che si circondi di funzionari degni di questo nome, perché l’opinione che si fa la gente comune del regnante passa ovviamente anche attraverso il volto dei collaboratori di chi governa. Erasmo «immagina» un principe che sia cristiano non perché rispetta in modo impeccabile i riti della liturgia22, ma perché si comporta concretamente da cristiano: il che è senza dubbio – verrebbe da dire – un’utopia, perché comportarsi da cristiano è teoricamente quanto di più semplice da spiegare e praticamente quanto di più arduo da realizzare. «Per le condizioni umane che non lo consentono», chioserebbe Machiavelli con facile ironia. Erasmo «immagina» un principe che preferisca la pace alla guerra: sia perché la pace produce benessere e invece la guerra devastazione per molti e ricchezza per pochi, sia perché la guerra è quanto di più distante dall’insegnamento che Cristo ha trasmesso agli uomini. Siamo – ripete Erasmo con frequenza – o semplicemente ci diciamo cristiani? I Turchi, contro cui alcuni esorterebbero a combattere, come potranno mai – si chiede Erasmo – considerarci superiori, dal momento che noi esibiamo permanentemente un modello di comportamento fondato sulla discordia e sulla corruzione? Il Vangelo si testimonia con le opere, non con la violenza, perché le opere – meglio ancora che le parole 22 Contro l’ipocrita – e perenne – costume politico di ostentare un opportunistico rispetto per la religione, costume di cui innegabilmente le istituzioni religiose a loro volta per comodità tendono a compiacersi, si era espresso con sarcasmo anche Poggio Bracciolini nel dialogo Contra hypocritas (1449): «Quanti ne abbiamo visti di ipocriti che, per ottenere posti di funzionario e incarichi di governo, soprattutto quando si trattava di incarichi ben remunerati, andavano in giro per le chiese, si facevano vedere in pubblico in compagnia dei preti, facevano donazioni ai poveri e si riempivano la bocca di ‘equità’ e ‘giustizia’!».

XXVIII

– possono persuadere: ma quali opere, si domanda l’umanista con amarezza, il mondo cristiano può esibire con orgoglio?

Questa l’utopia di Erasmo. Il quale era perfettamente consapevole dell’imperfezione umana. «Quis autem non labitur aliquando?», si chiedeva per l’appunto, con sano realismo, negli Adagia: «Chi non commette mai errori?»23.

La sua utopia consiste in verità nella prospettiva di un mondo probo e sereno, dal quale il male non è cancellato, «perché le condizioni umane non lo consentono» («ut nunc sunt res hominum», come dice lo stesso Erasmo), ma almeno è allontanato dalle più alte cariche. Un mondo complessivamente ‘conservatore’: Erasmo esorta il principe a innovare con grande cautela e a temere i cambiamenti radicali, anche sul piano legislativo, perché essi comportano quasi sempre rivolte e sovvertimenti indesiderati e pericolosi. E però un mondo onesto. Il che, sia detto a margine, induce Erasmo ad assumere posizioni che, sia pure in linea teorica, finiscono comunque con l’apparire ‘rivoluzionarie’: se la nobiltà, egli tra l’altro osserva, è costituita solo da parassiti, per quale mai ragione si dovrebbero considerare i calzolai e i contadini inferiori per nascita ai cosiddetti nobili? Questo interrogativo sottintende il vivace dibattito umanistico intorno alla nobiltà, di cui Erasmo è al corrente: egli apre la breve parentesi de nobilitate contenuta nell’Institutio lasciando intendere che una discussione in materia preesisteva ed era molto articolata («se posso – così egli si esprime, quasi giustificando la propria brevità – toccare questo 23 Così Erasmo in Herculei labores (Adagia 3, 1, 1): cf. Desiderii Erasmi Roterodami Adagiorum Chilias Tertia, edd. Felix Heinimann et Emanuel Kienzle (centuriae tertiae adagium primum ed. Silvana Seidel Menchi), Amsterdam-Oxford, North-Holland Publishing Company, 1981, p. 27 (Opera omnia, ordinis secundi tomus quintus).

XXIX

punto in modo solo cursorio»). Il fatto è che per Erasmo, che vive in uno dei centri propulsori dell’operosità borghese di età moderna, l’idea che la superiorità possa derivare dalle statue degli antenati è assolutamente inaccettabile: il 1789 sembra ancora lontano, ma le premesse ideali di quello snodo storico sono già vive. È dunque strumentale trattare Erasmo, e la gran parte della letteratura politica umanistica, con la benevolenza di chi sorride in faccia all’uomo di lettere come di fronte a chi è disceso dalle nuvole: con ammirazione per la grande erudizione e con sufficienza riguardo ai contenuti pratici. Né, si è visto, ha senso additare in Machiavelli – quasi egli fosse l’autentico realista dotato di animo costruttivo – l’alternativa all’utopia. Il punto cruciale sembra essere semmai questo: in che misura è lecito accettare che l’azione politica si dissaldi dalle sue premesse ideali? Che la prassi porti le idee, anche le più nobili, a naufragare è una verità che riguarda e riguarderà ogni epoca e che trova conferma nelle vicende storiche di tutte le età e anche nei fatti del secolo appena trascorso. Si deve dunque accettare l’idea che l’agire umano è destinato a rimanere su un basso profilo e a non darsi obiettivi alti? In tal caso, potremmo cestinare Erasmo, o al più leggerlo come si leggono i racconti di re Artù, che egli tanto disprezzava. O ha invece ancora senso uno sguardo ottimistico rivolto al futuro?

La storia sembra procedere secondo un percorso mai rettilineo: zone d’ombra si alternano a zone di luce. Rivolgiamo, se non è fuori luogo, brevemente lo sguardo al presente. In realtà, gran parte delle riflessioni espresse da Erasmo nell’Institutio si adattano oggettivamente alla contemporaneità: o forse, si dovrebbe dire, a tutte le epoche, come è proprio dei grandi classici. Questa vitalità della riflessione erasmiana si spiega certo in ragione della immuXXX

tabilità della natura umana, di cui parlava anche Machiavelli, e altresì in ragione della lentezza dei processi storici, che si sviluppano spesso sul lunghissimo periodo. Torna in mente, in proposito, una pagina de I miserabili di Victor Hugo: «Una nube si è formata durante mille e cinquecento anni – afferma con indomito orgoglio il membro della Convenzione a colloquio con il vescovo, al principio del romanzo – e dopo quindici secoli si è squarciata. E voi fate il processo allo scoppio del tuono!»24.

‘Attuale’ è per esempio Erasmo quando parla delle imposte e discute della necessità di tagliare le spese superflue per dare respiro alla finanza pubblica: tema sul quale balbettano quasi ogni giorno i politici di oggi. Anche il già citato motivo del saper misurare le parole, perché ciò che il principe dice riecheggia sulla bocca di tutti, è un precetto che appare di stringente attualità e – in un’epoca in cui per di più ogni sillaba viene amplificata dai mass media – ancora irrealizzato. Così l’importanza che l’umanista olandese, ispirandosi a Senofonte, attribuisce all’istruzione (dei sudditi non meno che del principe), vero fulcro dello stato e della civiltà, è naturalmente un argomento ricorrente nei grandi pensatori. Victor Hugo, con fiducia illuministica e con enfasi romantica, si esprimeva in questi termini: «Tutte le generose irradiazioni sociali derivano dalla scienza, dalle lettere, dalle arti, dall’insegnamento. Formate gli uomini, formate gli uomini. Illuminateli affinché vi riscaldino. Prima o poi la splendida questione dell’istruzione universale si porrà con l’irresistibile autorità del vero assoluto»25. Il romanziere che ironizzò su Napoleone III, le Petit, non poteva prefigurare, a distanza di 24 25

I miserabili 1, 1, 10 (cito qui e nel seguito la tr. it. di M. Picchi).

I miserabili 3, 1, 10.

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nemmeno due secoli, il disastro totale e forse irreparabile dell’istruzione pubblica del nostro paese, lasciata agonizzare da decenni come un corso d’acqua inquinato e destinato a estinguersi, e affidata alla vanità di ministri che – nel caso delle legislature più fortunate – danno la netta impressione di non sapere gran che del dominio che dovrebbero governare.

Anni fa Martin Luter King prospettò come «utopia» l’idea di un mondo migliore e senza razzismo e adoperò provocatoriamente e con sapienza oratoria il termine «dream». Indubbiamente non era facile prevedere che, nel giro di una generazione, un uomo di colore sarebbe salito alla presidenza della maggiore potenza mondiale e, soprattutto, proprio di quel paese in cui King aveva concepito ancora come sogno la fine del razzismo. Il razzismo ovviamente non è finito e quell’uomo di colore è a sua volta chiamato alla prova dei fatti: non è dato sapere se lascerà il segno, se naufragherà nelle secche della politica o quale altro destino lo attende. Certo è che, appunto, le zone d’ombra sono sempre in agguato. Il mostro dell’antisemitismo, per evocare un altro esempio, risorge disgustoso e temibile in questi tempi dalla sentina in cui la storia sembrava averlo affossato per sempre.

Forse la prassi costringe anche gli animi più alti a compromessi che essi, teoricamente, non avrebbero mai accettato. François Mitterrand, quando Elie Wiesel cercò di sintetizzare questo problema con la metafora delle «linee curve» che la politica costringerebbe a seguire, respinse con sdegno tale immagine, preferendo precisare che la prassi non deve mai costringere a compiere l’opposto di ciò in cui si crede26. Ma la precisazione di Mitterrand non 26

François Mitterrand, Elie Wiesel, Mémoire à deux voix cit., pp. 107-

XXXII

faceva che implicitamente confermare la metafora che intendeva negare: il percorso della politica non procede in linea retta. Allo stesso modo Erasmo, lo abbiamo visto, spiegava che in politica può occorrere l’arte della simulazione, purché adoperata a fin di bene, e che forse è proprio questo a rendere il mestiere del politico inaccessibile ad alcune persone oneste, le quali di fingere non sarebbero comunque capaci. L’estrema integrità, al contrario, porta a conseguenze estreme e rende impraticabile l’azione: incorruttibile fino in fondo, Robespierre terminò i suoi giorni sotto la ghigliottina. Così Socrate avrebbe potuto risparmiarsi la cicuta, se avesse accettato il compromesso, e Giordano Bruno avrebbe evitato il rogo. Sono, questi, nomi che sembrano dimostrare che la coerenza assoluta delle idee equivale a ciò che è, in fisica, il moto rettilineo uniforme: un fenomeno realizzabile nei modelli teorici, non applicabile alla realtà. E tuttavia, se pure quel moto al di fuori del modello teorico non si è potuto sviluppare con uniformità e in linea retta, avrà prodotto però uno spostamento: impercettibilmente, forse, tra correnti e onde di risacca a volte tumultuose, un avanzamento comunque avviene.

Si riproduce in questa sede, con lievi modifiche, il testo critico latino dell’Institutio principis christiani di Erasmo da Rotterdam curato da Otto Herding (Amsterdam, North-Holland Publishing Company, 1974).

111: «Je n’apprécie pas beaucoup – afferma Mitterrand – votre image des ligne courbes appliquée à la politique comme si la politique et la morale n’étaient pas faites pour vivre ensemble [...]. L’action, comme vous le dites vous-même, a ses contraintes; elle a ses lois. Mais elle n’oblige jamais à faire le contraire de ce que l’on croit».

XXXIII

L’educazione del principe cristiano scritta da Erasmo da Rotterdam in forma di aforismi, affinché fosse meno pesante da leggersi

Desiderio Erasmo da Rotterdam saluta l’illustrissimo principe Carlo1, nipote del mai sconfitto imperatore Massimilano Se è vero, magnifico principe Carlo, che la saggezza è di per sé sublime, non c’è tuttavia forma di saggezza più alta, come ha scritto Aristotele, di quella che insegna a comportarsi da buon principe2: perciò a buon diritto Senofonte, nel libro intitolato Economico3, ha osservato che governare su uomini liberi e dotati di volontà è impresa più grande dell’uomo e quasi divina. Questa saggezza debbono i principi 2 Aristot. pol. 3, 1282b, 14-18: «Il fine che si propongono tutte le scienze e le arti è un qualche bene, ed è il bene massimo e più alto quello che si propone la più importante di tutte le scienze. La più importante è la politica e il bene che la politica si propone di raggiungere è la giustizia, cioè ciò che è utile alla comunità» (cito qui e nel seguito la tr. it. di Carlo Augusto Viano).

3 Xen. oec. 21, 12. Sono le parole conclusive del libro senofonteo: «Non mi sembra affatto che tutto questo bene sia umano, ma divino, comandare cioè su persone che lo vogliono. Questo chiaramente viene dato a coloro che sono davvero completamente saggi. Gli dei invece concedono di esercitare il potere tirannico su persone che non lo accettano spontaneamente, come mi sembra, a coloro che ritengono degni di vivere come si dice che Tantalo passi il tempo in eterno nell’Ade, nel timore di morire una seconda volta» (cito qui e nel seguito la tr. it. di Fabio Roscalla).

3

pientia, quam unam ceteris rebus contemptis optavit cordatissimus adolescens Salomon quamque iugiter regio throno voluit adsistere. Haec est illa castissima simul et pulcherrima Sunamitis, cuius unius complexibus unice delectatus est David4, sapientissimi filii sapientissimus pater. Haec est quae loquitur in Proverbiis5: «per me principes imperant et potentes decernunt iustitiam». Hanc quotiens in consilium adhibent reges, exclusis pessimis illis consultoribus, ambitione ira cupiditate et adulatione, iam rebus omnibus florens respublica principis sui sapientiae felicitatem suam acceptam ferens merito sibi gratulatur, «venerunt – inquiens – mihi omnia bona pariter cum illa»6.

Proinde Plato non alia in re diligentior est quam in instituendis reipublicae suae custodibus, quos non opibus, non gemmis, non cultu, non imaginibus, non satellitio, sed sola sapientia ceteros vult antecellere, negans umquam beatas fore respublicas, nisi aut philosophi gubernaculis admoveantur aut ii, quibus forte contigit administratio, philosophiam amplectantur7; philosophiam, inquam, non istam, quae de principiis, de prima materia, de motu aut infinito disputat, sed quae falsis vulgi opinionibus ac vitiosis adfectibus animum liberans ad aeterni numinis

Rg. 1, 1, 1-4.

Prv. 8, 16.

6 Sap. 7, 11.

7 Plat. rep. 5, 473d: «A meno che i filosofi non regnino nelle città, o quelli che oggi han nome di re e di sovrani non prendano a nobilmente e acconciamente filosofare, e non vengano a coincidere la forza politica e la filosofia, e i vari tipi che ora tendono separatamente a un dei due campi non ne siano per forza esclusi; a meno che ciò non succeda, non avran tregua alcuna dai mali le città, anzi credo neppure il genere umano, né questa costituzione che ora abbiam visto in teoria potrà mai prima nascere al mondo 4 5

4

desiderare, proprio come fece il giovane e allora già saggio Salomone, quando richiese appunto di poterla ottenere e mostrò di preferirla a qualunque altro bene, auspicando che essa assistesse il suo trono di re per tutta la vita. Questa saggezza simboleggia la casta e al tempo stesso bellissima Sunamiti, del cui abbraccio soltanto provò piacere Davide4, padre sapientissimo di un figlio altrettanto sapiente. Questa saggezza prende la parola nel Libro dei proverbi5: per merito mio – essa dice – i principi regnano e i potenti comprendono ciò che è giusto. Ogni qual volta i re consultano questa saggezza, lasciando fuori della porta quegli altri malvagi consiglieri che sono l’ambizione, l’ira, la cupidigia e l’adulazione, allora lo stato fiorisce veramente e, attribuendo alla saggezza del proprio principe il merito di quella felicità, se ne rallegra con giusta ragione e dice: insieme con questa saggezza è venuto a me ogni possibile bene6.

Perciò Platone è più che mai scrupoloso nell’indicare in che modo dovranno essere educati i custodi dello stato, che vuole primeggino sugli altri uomini non per ricchezze, gioielli, eleganza, immagini di antenati o per guardie del corpo, ma unicamente per saggezza: mai gli stati, scrive Platone, saranno felici se non li governeranno i filosofi o se coloro ai quali tocca di governarli non saranno imbevuti di filosofia7. E per filosofia si intende non quella disciplina che indaga i principii primi, la materia primordiale, il moto o l’infinito, bensì quella saggezza capace di liberare l’animo umano dalle false opinioni comuni e dalle passioni peggiori e dunque di mostrare al principe l’arte di del possibile e vedere la luce del sole» (cito qui e nel seguito la tr. it. di Francesco Gabrieli); epist. 7, 326b: «Mai le generazioni degli uomini avrebbero potuto liberarsi dai mali, fino a che o non fossero giunti ai vertici del potere politico i filosofi veri e schietti, o i governanti delle città non diventassero, per un destino divino, filosofi» (tr. it. di Piero Innocenti).

5

exemplar recte gubernandi rationem commonstrat. Tale quiddam sensit, opinor, et Homerus, cum Mercurius Ulyxem adversus Circes veneficia moly herba praemunit8.

Nec sine causa Plutarchus neminem existimat de republica melius mereri quam qui principis animum omnibus consulturum optimis ac principe dignis rationibus imbuerit. E diverso neminem aeque gravem perniciem adferre rebus mortalium atque eum qui principis pectus pravis opinionibus aut cupiditatibus corruperit, haud secus quam si quis fontem publicum, unde hauriant universi, letalibus venenis infecerit9. Idem haud abs re taxat celebratissimum illud Alexandri Magni dictum, qui, cum a colloquio quod habuerat cum Diogene Cynico digressus admiraretur animum illum philosophicum excelsum infractum invictum et omnibus humanis rebus superiorem, ni Alexander – inquit – essem, Diogenes esse cupiam10.

Immo, quo pluribus rerum procellis obnoxia est ingens ditio, hoc magis illi fuerat optandus Diogenis animus, qui tantis rerum molibus par esse posset.

Sed quam Alexandrum felicitate superas, Carole princeps inclite, tam speramus futurum, ut anteeas et sapien-

Hom. Od. 10, 274-306.

Plut. mor. 778d (cum princ. philos. 3): «Fa del bene a tanta gente chi rende buone le persone da cui tanti dipendono. Al contrario, i calunniatori, i delatori e gli adulatori, che senza posa corrompono governanti, re e tiranni, sono scansati da tutti e puniti, quasi versassero un veleno letale non in una coppa, ma in una fontana pubblica, a cui vedono attingere tutti» (tr. it. di Giulio Pisani).

10 Plut. vit. Alex. 14, 1-5: «I Greci si riunirono sull’Istmo e decisero di far guerra ai Persiani sotto la guida di Alessandro come capo supremo. Molti politici e molti filosofi vennero a felicitarsi con lui, ed egli sperava che anche Diogene di Sinope, che stava in Corinto, avrebbe fatto lo stesso. Ma siccome il filosofo, che aveva scarsissima considerazione per Alessandro, 8 9

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regnare in modo retto, ad imitazione dell’operare divino. A questo, credo, si riferiva Omero, quando immaginò che Mercurio in persona consegnasse a Ulisse l’erba moli perché egli potesse difendersi dai malefici di Circe8. E giustamente Plutarco ritiene che nessuno acquisti merito nei confronti dello stato più di chi riversa nell’animo del principe, al quale toccherà di decidere su tutto, un modo di pensare nobile e, per l’appunto, principesco. Nessuno, al contrario, arreca allo stato pericolo maggiore di chi corrompe il cuore del principe con opinioni depravate o incitandolo alla cupidigia: costui si comporta come chi avvelena mortalmente una fontana pubblica, dove tutti vanno a bere9. Lo stesso Plutarco non a torto rimprovera un famoso detto di Alessandro Magno, il quale, tornando da una conversazione avuta con il filosofo cinico Diogene, si mostrava ammirato da quell’animo filosofico, nobile, incorruttibile, invincibile e tanto distaccato dalle cose umane: vorrei essere Diogene, osservò il condottiero, se non fossi già Alessandro10. Ma proprio perché un impero immenso è esposto alle tempeste più violente, per questo motivo Alessandro avrebbe dovuto ancor più desiderare di avere l’animo di Diogene, appunto per riuscire a fronteggiare difficoltà tanto grandi.

Di quanto tu superi, illustrissimo principe Carlo, Alessandro Magno in felicità, altrettanto auspichiamo che lo se ne stava tranquillo nel Craneo, il re in persona andò da lui e lo trovò che stava disteso al sole. Al giungere di tanti uomini egli si levò un poco a sedere e guardò fisso Alessandro. Questi lo salutò e gli rivolse la parola chiedendogli se aveva bisogno di qualcosa; e quello: “Scostati un poco dal sole”. A tale frase si dice che Alessandro fu così colpito e talmente ammirò la grandezza d’animo di quell’uomo, che pure lo disprezzava, che mentre i compagni che erano con lui, al ritorno, deridevano il filosofo e lo schernivano, disse: “Se non fossi Alessandro, io vorrei essere Diogene”» (tr. it. di Domenico Magnino).

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tia. Nam ille quidem ingens imperium occuparat nec citra sanguinem nec admodum duraturum. Tu pulcherrimo natus imperio, maiori destinatus, ut quam ille sudandum erat ut invaderet, tam tibi forte laborandum erit, ut aliquam ditionis partem ultro cedas potius quam occupes. Superis debes quod incruentum et nullius malo emptum contigit imperium; iam tuae sapientiae partes erunt incruentum item ac tranquillum tueri. Et est ea naturae tuae bonitas, ea mentis integritas, ea vis ingenii, ea sub incorruptissimis praeceptoribus fuit institutio, denique tot undique te maiorum tuorum circumstant exempla, ut omnibus certissima spes sit Carolum aliquando praestaturum quod a patre tuo Philippo11 dudum exspectabat orbis. Neque fefellisset exspectationem publicam, ni mors illum ante diem terris eripuisset.

Itaque cum non ignorarem tuae celsitudini nihil opus esse cuiusquam monitis, nedum meis, tamen visum est optimi principis simulacrum in commune proponere, sed tuo sub nomine, ut qui magnis imperiis educantur per te rationem accipiant administrandi, abs te exemplum, quo simul et tuis auspiciis haec utilitas ad omnes permanaret et nos iam tui his ceu primitiis animi in te nostri studium utcumque testificaremur. Isocratis de regno administrando praecepta latinitate donavimus12. Ad cuius aemulationem adiecimus nostra velut aphorismis absoluta, quo minus esset taedii legentibus, sed tamen ab illius decretis haud pa-

11 Filippo il Bello, figlio dell’imperatore Massimiliano I e padre di Carlo V, duca di Brabante, conte di Fiandra e re di Castiglia, sposatosi con Giovanna di Castiglia, detta la Pazza.

12 La traduzione erasmiana dell’Ad Nicoclem di Isocrate risale al 1515 ed è, non solo per la vicinanza cronologica, il presupposto teorico e l’ideale modello di Erasmo nell’Institutio.

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supererai anche in saggezza. Alessandro indubbiamente seppe creare un impero sconfinato, ma con grande spargimento di sangue: e fu un regno di breve durata. Tu sei nato in un impero straordinario e sei destinato a reggerne uno ancora più grande, sicché, quanto Alessandro dovette affaticarsi in guerre di conquista, tanto tu dovrai forse ingegnarti per cedere a qualcuno, spontaneamente, una parte di un territorio così vasto, piuttosto che invadere regioni altrui. È merito del cielo l’averti consegnato il regno in modo incruento e senza oltraggio per nessuno: a te spetterà conservarlo incruento e pacifico. E la bontà della tua indole, l’integrità del tuo animo, la vivacità del tuo ingegno e l’educazione ricevuta sotto la guida di istitutori di prima qualità, per non dire del buon esempio degli antenati che in ogni istante hai davanti agli occhi, tutto lascia sperare al mondo intero che Carlo riuscirà a garantire ciò che da suo padre Filippo11 il mondo si attendeva. E Filippo mai avrebbe tradito quell’aspettativa, se una morte prematura non ce lo avesse strappato.

Ora, io so bene che la tua eccellenza non ha bisogno di alcun consiglio, tanto meno da parte mia. Eppure ho ritenuto non sbagliato portare alla luce l’immagine dell’ottimo principe in questo libro e farlo sotto la protezione del tuo nome, in modo tale che, chi in futuro sarà educato per reggere grandi imperi, da te apprenda l’arte del governo e te assuma come modello: così, sotto i tuoi auspici, questo beneficio raggiungerà davvero tutti e, al tempo stesso, io in qualche modo potrò dar prova dell’affetto che ti porto con queste primizie, se posso definirle così, del tuo animo. Mi è capitato da ultimo di tradurre in latino il libro di Isocrate sull’arte del governo12. A imitazione di Isocrate ho messo insieme questi aforismi sparsi: li ho organizzati in questa forma per ridurre la noia del lettore; quanto ai con9

rum dissidentia. Siquidem ille sophista regulum nescio quem seu tyrannum potius instituit, ethnicus ethnicum, ego theologus inclitum et integerrimum principem, ad haec christianus christianum.

Quae si mihi scriberentur ad provectioris aetatis principem, poteram fortasse nonnullis in suspicionem venire vel adulationis vel procacitatis. Nunc cum hic libellus dicatus sit ei qui, tametsi summa de se spem praebeat, tamen ut admodum adolescens et nuper inauguratus imperio ne potuerit quidem admodum multa gerere, quae solent in aliis principibus aut laudari aut reprehendi, liber nimirum utraque suspicione non possum aliud quaesisse videri quam publicam utilitatem, quam ut regibus ita et regum amicis ac famulis oportet unicum esse scopum.

Inter innumera decora, quae tibi Deo praeside tua parabit virtus, erit et haec nonnulla pars laudum tuarum talem fuisse Carolum, ut non veritus sit aliquis illi citra ullam adsentationem integri verique christiani principis simulacrum ostendere, quod vel libenter agnosceret optimus princeps vel sapienter imitaretur adolescens semper se ipso melior evadere cupiens. Bene vale.

Nativitas et educatio principis Ubi receptum est suffragiis ascisci principem, illic non perinde spectandae sunt maiorum imagines sive species corporis aut proceritas, quod a barbaris nonnullis olim inep10

tenuti, essi sono in piena sintonia con il modello antico.

Quel sofista greco ebbe in sorte di educare non so quale piccolo re, o forse qualche tiranno: era un pagano che educava un pagano. Io invece, che di mestiere sono teologo, ho la pretesa di istruire un principe illustre e integerrimo: un cristiano, in questo caso, che educa un cristiano.

Se avessi scritto questo libro rivolgendomi ad un principe più avanti negli anni, forse avrei suscitato in qualcuno il sospetto di essere un adulatore o uno sfacciato. Ma, dal momento che il libro è dedicato a chi, pur lasciando presagire grandi cose, tuttavia è un giovanotto, da poco ha cominciato a conoscere il governo e ancora non ha avuto modo di compiere molte di quelle azioni che si è soliti elogiare o rimproverare agli altri principi, dunque mi sento immune da quei sospetti e non posso se non dare a pensare di aver ricercato il bene comune, che deve sempre essere l’unico scopo non solo dei re, ma anche dei loro amici e familiari.

Tra le molte altre felicità che la tua virtù ti consentirà, con l’aiuto di Dio, di realizzare, una parte degli elogi che meriterai deriverà dal fatto che sei di animo così saggio, che un tale non ha avuto timore di delinearti per iscritto, senza alcuna adulazione, la vera immagine del buon principe cristiano: immagine in cui ogni principe come si deve vorrà sempre identificarsi e che ogni principe ancora giovane saggiamente cercherà sempre di imitare, nell’intento di migliorare se stesso.

Ti auguro ogni bene.

Nascita e educazione del principe Nei paesi in cui per tradizione il principe è elettivo, sarà bene non sceglierlo in base ai ritratti degli antenati, alla bellezza del corpo o alla statura, come sappiamo che usa11