Paolo Biondi
i misteri dell’ara pacis
Indice
Prologo. Galleria di personaggi e di fantasmi
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1. Il 13, anno fatale. Balbo lo spagnolo
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2. L’obelisco e le ombre di Facondo Novio, il matematico
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3. Lucina, prima e dopo l’Ara Pacis
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4. Il giardino dell’Ara. La bottega di Saura e Batraco
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5. Da Enea a Livia, da Romolo a Roma. Il luogo dei poeti
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6. La foto di famiglia. I disegni di Antero
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7. Dedicata a Livia dopo l’addio di Ottavia, la sorella
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8. L’Ara e il suo doppio. La vigna di Lullo Antigono
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9. I festoni di Villa Medici e il cardinale Ricci
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10. L’oblio di due imperatori. Poi gli scavi dell’ingegnere
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Conclusione. Per custode un pittore
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Prologo Galleria di personaggi e di fantasmi
C’era un generale spagnolo presuntuoso. Voleva distogliere Augusto dal suo destino. E il destino aveva assegnato un compito al principe di ritorno da Gallia e Spagna: far costruire un altare e dedicarlo alla dea Pace, dando così il via a una serie incredibilmente lunga di fatti e di vicende, di curiosità e di misteri legati a quell’Ara. Malgrado la sua ostinazione e il potere dei suoi soldi quel generale non riuscì a fermare la storia. Lui non sapeva che una dea, una dea potente, aspettava che qualcuno rendesse luogo sacro più di ogni altro la terra dove lei aveva fatto zampillare una fonte, fonte di acqua che sgorga per proteggere e custodire la vita di ogni partoriente, nella parte settentrionale del campo Marzio. E non poteva sapere che un matematico egiziano aveva già calcolato, con scientifica certezza, ogni minima variazione dell’ombra del sole per costruire un nuovo orologio. E che l’ombra di un obelisco egizio dedicato al dio Sole, meridiana di quell’orologio, sarebbe caduta a fecondare la terra alle porte di quell’Ara ogni anno al tramonto del 23 settembre, giorno di nascita del principe Augusto, portatore di prosperità e di pace nel mondo. Non sapeva nemmeno, quel generale spagnolo, che una lucertola e una ranocchia avevano già battezzato un campo, alla periferia nord di Roma, eleggendolo a giardino dei giardini. E che uno stuolo di poeti aveva già cantato il destino di quelle zolle di terra dedicandole alla dea Pace. Una miriade di vicende già si intrecciavano e rincorrevano, col destino comune di costruire un’unica storia. Mentre un pittore stava già preparando i disegni da fissare sul marmo, quasi fossero l’immagine cristallizzata nel tempo e consegnata all’eternità della famiglia predestinata più di tutte le altre famiglie a governare e a fare grande Roma, la famiglia di Augusto. Non poteva sapere, lo spagnolo, che un sacerdote era stato incaricato dagli dèi di essere pronto a raccogliere i frammenti di quella immagine per trasmetterla a ogni generazione e farla conoscere a tutti gli uomini nei secoli dei secoli. La sorella di Augusto aveva poi già recitato una parte del suo 9
ruolo in quella sacra vicenda: aveva pianto la morte di quella stirpe divina, nella morte del figlio. Pezzi di quella famiglia predestinata se ne andavano prima del tempo e già scrivevano i loro nomi sul libro dei potenti ascesi al cielo. Ma sulla terra hanno lasciato un segno, monumento indelebile di pace e prosperità. Tante storie già si affastellavano ed erano raccontate nel libro del tempo attorno a quell’altare, dedicato alla dea Pace. Storie disseminate in un percorso lungo oltre venti secoli che un ingegnere avrebbe cercato di recuperare e di rimettere insieme, scavando nelle viscere della terra. In quelle stesse viscere nelle quali un contadino, fra i mille indizi seminati per non farci perdere il filo della vicenda, stava più di 2.000 anni fa già coltivando una vigna per ricordarci che mille tralci possono donare grappoli succosi se si mantengono uniti al tronco, unico garante di linfa vitale per tutta la vite. Tanti personaggi di una storia già scritta sul libro del destino di ciascuno e di tutti. Una storia fatta di mille storie e di mille misteri. No, non poteva quel generale fermare il destino di tanti che già si erano messi al posto che era stato loro assegnato sul palcoscenico della vita. Il destino di tutti coloro che aspettavano pazienti dietro le quinte il momento opportuno per entrare in scena e recitare la loro parte in questo nostro racconto. Una lunga serie di personaggi che non abbiamo faticato a cercare, ma che ci sono venuti incontro per permetterci di riannodare alcuni fili di questa nostra piccola, grande storia, una storia che possiamo oggi raccontare incollando mille frammenti, ridisegnare per lunghi tratti, compresi tanti suoi misteri irrisolti e intriganti. È impossibile incollarli tutti i pezzi della storia come fossero, nel loro insieme, la fotografia di un momento statico e immutabile. Meglio lasciar raccontare ad ogni protagonista la sua avventura, il suo particolare lasciandolo vivere e incastrarsi di volta in volta con gli altri pezzi in quadri sempre nuovi. Salivo i gradini della scatola di pietra e luce creata da Meier e costruita fra mille polemiche, e pensavo a questa semplice verità. Mi sono fermato alla biglietteria dell’Ara Pacis dopo aver spinto la pesante porta di vetro; intanto guardavo il cono d’ombra all’ingresso del monumento. È un’opera giocata sui chiaroscuri, chiaroscuri che ora però è impossibile riconoscere nel loro significato originario e interpretare. Per comprenderli ci siamo lasciati guidare dal genio di Fausto Delle Chiaie, un pittore, un ar10
tista che ogni giorno dipana il suo atelier d’arte lungo la strada che separa l’Ara dal mausoleo d’Augusto e osserva noi curiosi dall’esterno di questa teca. Intanto il suo Manifesto infrazionista dell’arte, pur ideato negli anni Ottanta in tutt’altro clima culturale da quello dei nostri giorni, non perde colpi nella sua sempre attuale capacità di descrivere la realtà, anche questa realtà. In base a quella filosofia dell’arte e della vita, l’artista ancora oggi raccoglie quotidianamente i frammenti della vita, frutto ciascuno del suo particolare punto di vista su di essa, e li mette in fila su un muretto. È un muretto quanto mai precario perché è quello della recinzione agli eterni lavori di manutenzione del mausoleo. Precario come le sequenze occasionali create da Delle Chiaie con le sue piccole opere: ogni giorno il suo racconto d’arte e di storia si dipana fra l’Ara e il mausoleo in modo sempre nuovo, eppure con i soliti vecchi pezzi. Tessere che si incastrano quotidianamente e perfettamente nella sua azione d’arte sempre nuova. Metafora di quell’Ara di fianco alla quale lavora. Fa delle sue opere punti disseminati quali sassolini a formare un sentiero che ci accompagna nella vita. La storia da sola no, non riesce a incollare tutti i cocci del passato e a riordinarli. Ciò malgrado da quei frammenti di passato ogni giorno ci si palesa un quadro nuovo, nasce e rinasce una nuova Ara Pacis, ci viene offerta una rappresentazione, sempre nuova e con sempre nuovi misteri e suggestioni, proprio come l’atelier di Delle Chiaie. Passo la biglietteria e spingo la seconda pesante porta di vetro che conduce all’interno, che introduce in presenza del monumento. Sono nel cono d’ombra e guardo lontano cercando i colori, lo sfavillante caleidoscopio di colori che l’altare della Pace promanava quando venne costruito, duemila e passa anni fa. Perché allora marmi e bassorilievi erano colorati come quadri sgargianti. Vengo invece abbagliato dal bianco dei suoi marmi puri di Carrara. I colori non ci sono più e ci beiamo oggi della falsità di quel candore. È impossibile incollare le impressioni su quello che era. Non ci resta che accontentarci di quello che è e da lì partire, non ci resta che indagare, cercare compagni di viaggio che ci prendano per mano e ci raccontino la storia, ciascuno la sua parte della storia di questo monumento. Solo così potremo raccogliere i frammenti che si sono appesi disordinati sulle pareti della nostra immaginazione e potremo cercare di ricostruire e ricomporre noi una nuova immagine, una nuova opera. È un susseguirsi di emozioni, sparse nel tempo, molte ancora nel futu11
ro, come un mare che rincorre le sue onde all’infinito sulla battigia, quello che sgorga da qui. Come l’emozione che provai quando lessi su un libro la data di inaugurazione dell’Ara Pacis: 30 gennaio del 9 a.C. Ebbi un sussulto e pensai perché quella data mi appariva così familiare. Mi ci volle poco per ricordare che si trattava del giorno del cinquantesimo compleanno di Livia Drusilla, la moglie di Augusto. Mia vicina di casa al nono miglio sulla Flaminia con la sua villa di campagna, è la donna che mi ha accompagnato tante volte prendendomi per mano e mi ha portato a visitare luoghi e storie, palazzi e strade, affreschi e monumenti, ad ascoltare colloqui e ad indagare nei segreti dei cuori, a immaginare personaggi e fatti della Roma augustea e del secolo a cavallo dell’anno 0, duemila e passa anni fa. È un anno chiave della nostra civiltà e della storia di Roma. Eppure non esiste nella storia dell’urbe, semplicemente perché i romani non conoscevano lo 0 né l’avevano nelle loro numerazioni. Non c’è nessun anno 0 nella storia di Roma, esiste solo nella protervia delle nostre ricostruzioni. Eppure è un anno chiave, spartiacque della storia e della civiltà. Non c’era dubbio: il monumento della Pace era stato voluto dal Senato 13 anni prima di quell’inesistente zero per celebrare i successi di tre anni di campagne di Augusto fra Germania, Francia e Spagna, e per sancire l’inizio del secolo aureo della pace cantato da Orazio. Niente a che fare con Livia e la sua data di nascita, dunque. Ma Augusto aveva poi voluto che quell’Ara fosse inaugurata, dopo oltre tre anni di lavori, proprio nel giorno del cinquantesimo compleanno della moglie, per celebrare e ricordare nei secoli dei secoli la figura di Livia, per farne memoria e metterla su quel piedistallo che la storia le aveva riservato. E noi l’abbiamo dimenticato e cancellato, quel piedistallo. Non lo ricordiamo oggi perché lo dimenticarono presto anche i Cesari che raccolsero – e inquinarono – il principato dopo Augusto. A iniziare da Tiberio che cercò di far dimenticare madre e patrigno. E perché fu la terra, ancora prima della memoria, a inghiottire e ricoprire quel monumento. Fu la terra a fare scomparire l’Ara inghiottendola nelle sue viscere, con l’aiuto del Tevere, il ceruleo Tevere che ricopriva con le sue acque limacciose il campo Marzio ad ogni piena, ad ogni inondazione e stendeva uno strato di limo su quei prati; così il livello della terra saliva piena dopo piena, inondazione dopo inondazione; e così scendeva e sprofondava sempre più giù, fino a scomparire, quell’opera magniloquente del principato augusteo. 12
Una seconda emozione mi fece sobbalzare quando rimirai il modellino della sistemazione del campo Marzio voluta da Augusto, modellino costruito da pochi anni e posato ora a fini didattici all’ingresso del museo che racchiude il monumento ricostruito a qualche centinaio di metri da dove è stato dissepolto. Mostra, quel modellino, il campo Marzio settentrionale così come l’aveva pensato Augusto con i suoi monumenti principali, con il mausoleo e la sua porta orientata proprio in linea con l’ingresso del Pantheon a fare delle due costruzioni un’opera unica. Dialogo unico e intenso fra gli ingressi di Pantheon e mausoleo e dialogo anche fra gli dèi che li abitano, divinità celesti nel primo caso e divinità terrene nel secondo, divinità che si rimirano e si uniscono in un unico sguardo a distanza fra loro. Gli dèi del passato, a iniziare dal dio Romolo che da lì dov’è il Pantheon ascese al cielo, tendono la mano agli dèi dell’età di Augusto, a iniziare dal principe, che nel mausoleo hanno visto deposte le loro ceneri a riposare. C’è poi un altro dialogo fra due monumenti reso evidente dal modellino. La ricostruzione mostra che l’obelisco-meridiana eretto allora per raccontare le ore, i giorni, le feste e gli anni dell’età del principato è in asse con l’altare, un’ara elevata nel punto esatto nel quale lo gnomone della meridiana proiettava la sua ombra la sera del 23 settembre, compleanno d’Augusto. Il 23 di ogni settembre l’ombra di Augusto si proiettava sul cuore dell’altare della Pace, dell’altare di Livia. Ma dove calava quel giorno il sole nell’altra direzione della retta che univa altare e obelisco? Tornai a casa e cominciai a sfogliare le carte con la ricostruzione della Roma di quegli anni per tracciare percorsi celesti del sole e sue proiezioni terrene: quella retta indica che il sole va a tramontare proprio dietro il monte Vaticano ogni 23 di settembre, esattamente dove appressandosi lo scadere del secolo aureo venne levata la croce con Pietro ad agonizzare e a morire a testa in giù e dove ora si trova la cupola michelangiolesca sulla tomba di quel santo e primo papa, pontefice massimo, come pontefice massimo di altri dèi era stato Augusto. Pochi anni dopo l’inizio di quel secolo aureo, Augusto innalzò l’obelisco del tempo e l’altare della Pace su quella terra; pochi anni prima della fine di quel secolo Pietro la fecondò, quella terra, finendo a capo in giù su una croce, il tutto a poche centinaia di metri di distanza. Suggestioni e contaminazioni. 13
Fu il Senato a decidere l’elevazione di un altare alla dea Pace. A raccontarcelo è lo stesso Augusto nelle Res gestae, l’autobiografia che il principe dettò l’anno prima di morire e nella quale inserì ogni atto della sua vita che lui ritenne degno di nota e obliò le altre azioni, sconvenienti o inconsistenti che fossero, perché nulla di quella storia restasse inquinato. Nel testo, scritto per essere inciso su lastre di bronzo da mettere all’ingresso del suo mausoleo romano a tumulazione avvenuta, si legge: «Quando tornai a Roma dalla Spagna e dalla Gallia, sotto il consolato di Tiberio Nerone e di Publio Quintilio, compiute felicemente delle imprese in quelle province, il Senato decretò che si dovesse consacrare per il mio ritorno l’Ara della Pace Augusta, prossima al campo Marzio, e dispose che in essa i magistrati e i sacerdoti e le vergini vestali ogni anno celebrassero un sacrificio». Siamo dunque nell’anno 13 a.C. L’altare viene fatto erigere nel campo Marzio, nell’area nella quale Augusto ha già elevato il suo mausoleo e progettato di costruire il nuovo orologio che detterà il tempo della nuova era. Quell’orologio viene originariamente pensato il 23 settembre del 13 a.C., giorno del cinquantesimo compleanno di Augusto. Cesare Ottaviano stabilisce che l’Ara vada posizionata esattamente dove al tramonto di quel giorno anniversario della sua nascita si dirige l’ombra della meridiana. Siamo a pochi passi dalla via Lata, la strada che collega il foro alla via Flaminia uscendo dalla città verso nord e che accompagna e delimita – sull’altro lato ci pensa il Tevere a segnare il confine – tutto il campo Marzio. Inizialmente l’altare, innalzato da terra, è circondato e protetto da una semplice staccionata in legno, ma ben presto viene deciso di sostituire quel povero recinto precario con uno più consono e duraturo, in marmo riccamente e perennemente adornato e colorato. Ma non ci sarà nulla di più precario – e nel racconto di questa precarietà sta buona parte della nostra storia – di quella apparente perennità. La parte laterale superiore del nuovo recinto ospiterà su entrambi i lati esterni la raffigurazione della processione per il primo dei sacrifici celebrati su quell’Ara, la prima processione, svoltasi poche settimane dopo la deliberazione del Senato. Una processione che si incammina pochi mesi prima di quando Augusto sarà insignito anche della carica sacerdotale di pontefice massimo. La processione rappresenta i magistrati, i sacerdoti e le vestali, come aveva stabilito lo stesso Senato, ma nel suo lento incedere diviene una sacra e solenne 14
sfilata della famiglia del principe, immortalata così come era già grande e numerosa sul finire del 13 a.C. Il tempo sul marmo è fermato a quella data, anche se i lavori di edificazione della complessa opera, per quanto non di grandi dimensioni – appena 11 metri per 12 circa, cioè 40 piedi romani di fronte per 36 piedi di profondità –, richiederanno ancora oltre un triennio per essere completati. Ma quali sono i volti e le gerarchie della famiglia in quell’anno? Le fotografie sono fatte per consegnarci a distanza l’immagine cristallizzata in un’ora definita del tempo. Quell’immagine è stata però manomessa nei secoli, alcune volte volontariamente o per sfregio, spesso involontariamente, altre volte l’hanno manomessa nella sua struttura originaria proprio nel tentativo opposto di preservarla. Così quello che doveva essere immobile e scolpito nel marmo è divenuto improvvisamente mobile e fragile, come dune che si spostano nella notte e col favor delle tenebre nel deserto; talvolta celando misteri, talaltra svelando segreti, ma con l’impalpabilità di fuochi fatui, lampi che scompaiono nella notte. Troppe domande rimangono sospese. Altre sembrano avere risposte evidenti, che svaniscono e ricompaiono sempre diverse, con il cangiare dei colori, proiettati dall’esterno, del giorno e della notte. Già nella sua concezione originaria il monumento è celebrativo della famiglia del principe che si era in quegli anni strutturata e che, evidentemente, secondo Augusto, era pronta per essere rappresentata in maniera definitiva e per essere affidata per sempre alla storia e stesa come un’ombra sul futuro. Un’ombra, come quelle di Facondo Novio, il matematico egiziano che studiava le ombre del sole e l’asse della terra per fare diventare meridiane i suoi obelischi. Una famiglia già solidamente in grado di garantire al capo stesso una successione prospera e duratura, e vita eterna all’impero. Una fecondità protetta da Giunone Lucina, dea delle nascite e delle partorienti, già celebrata nelle traversie di Enea raccontate da Virgilio o nell’annuncio del secolo d’oro fatto da Orazio. Una celebrazione, quella della Pace augustea, la cui potente ritualità è andata svanendo nel tempo, scomparsa nelle viscere della terra poi riaffiorata alla luce del sole e riapparsa ai nostri occhi grazie agli intrighi mercenari di un cardinale rinascimentale di Santa Romana Chiesa. E grazie ai racconti di scavi alla ricerca di altre tracce di quella processione fatti alle soglie del Novecento da un ingegnere e archeologo curioso e sapiente, su incarico del ministero 15
dell’Istruzione, governo del Regno d’Italia. Una storia densa di misteri, affollata di tanti racconti come quello che narra l’agitarsi di lucertole e ranocchie sulla pietra dei monumenti o quell’altro sull’eterno germogliare di nuovi frutti grazie all’opera di contadini sapienti. Storie che hanno per protagonisti tanti piccoli e grandi personaggi pronti a prenderci per mano attraversando secoli e continenti e a raccontarci una storia. La storia di quei misteri, i misteri dell’Ara Pacis.
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Conclusione Per custode un pittore
Fausto Delle Chiaie si pone ritto, a braccia conserte, proprio al centro, davanti ai marmi della parete sulla quale sono impresse le parole delle Res gestae di Augusto. Siamo sul fianco orientale dell’edificio di Meier che racchiude l’Ara Pacis. Di fronte al pittore, dall’altra parte della strada appoggiata al recinto del mausoleo di Augusto con tutto il suo «museo» di originali opere d’arte, è posta una foto che ritrae l’artista nella stessa posa in cui è ora. Titolo della foto: Doppione. La gente passa, guarda. Si interroga e, spesso, sorride spontaneamente pur senza capire. I più infatti non si accorgono che il doppione è presente in carne e ossa dall’altra parte della strada. Ma qual è l’opera? La foto o quell’uomo vivo e vegeto, anzi l’artista stesso che se ne sta beffardo dall’altra parte della strada? L’opera d’arte è l’insieme, la performance, come Delle Chiaie ama chiamare tutta questa vera e propria messa in scena. Per chi passa, guarda la foto di quell’uomo con le braccia conserte ritratto di fronte al muro con su impresse le parole delle Res gestae, e non si accorge della sua presenza dall’altro lato della strada, lui fischia: una, due, tre volte richiama l’attenzione finché quelli non si girano verso l’Ara Pacis. Scoprono così la foto e il suo doppio. Qual è l’opera d’arte? Finalmente è felice. «Non dovrei, lo so. Dovrei starmene in silenzio. Ma io voglio aiutare la gente a capire», racconta con un sorriso, preoccupato dell’azione educativa della sua arte. La sua performance ha conquistato, fra i semplici passanti, nuovi visitatori del suo museo, della sua esposizione. Fausto Delle Chiaie è un pittore, un artista eclettico, definito da alcuni critici quale esponente della Pop Art, che ha eletto la strada a fianco dell’Ara Pacis, o meglio fra l’involucro di Meier che ne custodisce la ricostruzione e il mausoleo di Augusto, a suo atelier quotidiano nel quale incontra passanti e visitatori del suo museo itinerante. Dal 1989 ininterrottamente tutti i pomeriggi lui è qua, fedele custode dell’altare. Ormai è parte integrante dell’Ara e del mausoleo. Sa raccontarne la storia e testi151
moniarne l’evoluzione più di ogni altro, oggi. Ha controllato da puntuale e fedele testimone, ad esempio, tutti i lavori del passaggio dalla vecchia teca di Morpurgo alla nuova costruzione del museo e dell’edificio che racchiudono l’Ara. Di questo nuovo museo, progettato e costruito sotto le amministrazioni romane guidate da Walter Veltroni e da Francesco Rutelli, è stato anche protagonista a tutti gli effetti nel 2010, quando all’interno del nuovo contenitore di Meier è stato proiettato un filmato sull’arte di Delle Chiaie e presentato un catalogo di Electa sulle sue opere dal titolo L’arte? Rubbish. Delle Chiaie non è solo dunque quotidiano custode casuale e non programmato, ma è stato anche vero e proprio soggetto ufficiale, all’interno della sacralità del monumento. Lui oggi, forse per schermirsi o forse per nonchalance, dice di non ricordare quell’episodio. La verità è che non ha bisogno di vivere nell’Ara Pacis per dare vita a quell’opera d’arte: l’opera vive in lui perché lui vive, è in azione con la sua arte di fianco all’opera. Delle Chiaie dunque custode moderno dell’Ara Pacis? «Io faccio parte del luogo», dice un po’ beffardo e un po’ compìto, senza dare l’impressione di prendersi davvero sul serio. Poi però non si sottrae: «Io sono l’opera, presiedo il luogo, lo allestisco, il luogo è il museo, il museo non è mio. Io sono l’opera, il custode, il curatore, l’allestitore, il cassiere; io faccio tutte le mansioni del museo contemporaneo». Parla del suo di museo, ma nel suo comprende anche tutto quello che sta intorno, Ara compresa. Lo guardi e l’ascolti: serio, compreso, ma con lo sguardo ironico. La vita è qui e, se noi siamo vivi, l’Ara è viva; se noi sappiamo essere opera d’arte, anche l’Ara è opera d’arte viva. Delle Chiaie spiega la storia dell’altare della Pace più di quanto molti libri dicano e ci sappiano spiegare e raccontare di quel monumento; racconta la storia di quell’antico altare romano almeno quanto tutti i libri ignorano lui, e con lui la sua presenza vivificatrice dell’Ara. Lo si potrebbe quindi considerare, secondo le sue parole, il genius loci? «Io sono il luogo, il genio lo sei anche tu. Il doppione è l’opera». Parole buttate lì, sul selciato della strada sulla quale siamo, di fianco al monumento augusteo, ma da meditare in silenzio e col tempo. Questo artista contemporaneo diviene così allegoria di ciò che l’Ara è stata ed è. La sua presenza dimostra una volta di più la vera essenza moderna del monumento: come l’altare sia un’opera in divenire, mai completata, sempre da completare, in attesa di essere ricreata e rifatta nuova. Perché l’Ara è oggi quello che non era ieri e sarà domani quello che non è oggi. Non potrebbe esserci meta152
fora migliore di quella di Delle Chiaie per questo altare che vediamo oggi magnifico, ma molto diverso da quello che era in origine, da quello che è stato nei secoli e, probabilmente, da quello che sarà domani, con le tante nuove scoperte che ci saranno, che ci dovranno pur essere per aggiungere nuove tessere a questo mosaico. Perché ancora c’è tanto da scoprire, da sapere di questo monumento. Un custode dell’altare per i giorni di oggi? «Finché c’è ’sto monumento io sto qui», risponde lui con un sorriso beffardo, convinto davvero di essere lui oggi l’opera e che l’opera non sarebbe senza di lui, senza di noi che la guardiamo qui e ora nel suo divenire. Delle Chiaie è stato definito da alcuni, dicevamo, esponente della Pop Art, da altri della Street Art. Lui sorride, si gira verso l’Ara e sghignazza: «E che? Chiami questa Street Art?». Fra tutte le definizioni possibili è quella che ci verrebbe per ultima in effetti per l’altare di Livia, opera che ha coinvolto l’intervento di così tanti dèi. «È vero che qui c’è arte e che l’arte è sulla strada, ma questo non c’entra nulla con la Street Art. Non scherziamo. C’è anche chi ha chiamato le mie opere delle installazioni. Ma l’installazione è una cosa ferma, le mie sono tante, e cambiano», dice il pittore. Fausto, l’artista, racconta come è arrivato su questa strada nel 1989 dopo che nel 1987 aveva piazzato le sue opere, originali e intriganti, sulla salita del Pincio per poi dirottare il suo atelier – come lo chiama lui stesso – per un paio d’anni nella galleria di palazzo Sciarra. Infine la svolta, quando arrivò, dapprima con un’opera sola, ad appoggiarla alla chiesa di San Rocco, di fronte all’Ara Pacis. Da lì il museo si espanse: di giorno in giorno aumentavano il legame con il luogo, la relazione con il mausoleo e con l’Ara e aumentava il numero delle opere che presentava, occupando l’intero tratto di marciapiede fra il mausoleo di Augusto Imperatore e l’Ara. «In quei tempi c’erano ancora le macchine che passavano, un gran via vai. E c’era anche una lunga fila di auto in sosta, proprio lungo questo muro, di fianco all’Ara, a coprire le Res gestae scolpite sul muro. Per un po’ c’è stato anche un cartello stradale, posto dal comune, che copriva la scritta delle Res gestae. Io ci feci una delle opere mie, sopra, per sbeffeggiarlo quel segnale stradale tanto inopportuno. Così come ponevo rottami di automobili fra un’auto in sosta e l’altra. Titolo: Tamponamento a catena», e sorride come sempre quando parla della sua arte «in azione». Col passare degli anni donò alla strada, a questo pezzo di strada, varie opere con a tema lo sport. Una la si può ancora vedere: 153
un’opera, per così dire, permanente. Successe qualche anno fa quando disegnò coi gessi sul marciapiede un pugile finito al tappeto e con il capo appoggiato sul muro della chiesa di San Rocco, disegno che è ancora lì, giorno e notte, sfidando intemperie e il calpestio indifferente dei passanti. Il resto delle sue opere è oggi una lunga sequenza di oggetti, frammenti, disegni, scritte disseminati sul muretto momentaneo – ma, si sa, non c’è nulla più definitivo delle opere momentanee – posto di recinto al mausoleo di Augusto, da anni in perenne restauro. «All’inizio c’era solo un pezzo, poi pochi pezzi. Questa sequela di opere è formata da una quarantina di oggetti, talvolta più di quaranta, oggi quarantacinque. È l’opera, anzi l’oper-azione: sono le offerte che io sto facendo ad Augusto, io offro ad Augusto imperatore i miei pensieri. È l’offerta che io faccio a questo luogo: lui dà e io do, dono i miei pensieri. Non solo quelli: a volte faccio la performance», e sorride nuovamente di gusto. La performance sarebbe quando si mette a braccia conserte sotto la scritta delle Res gestae, di fronte alla fotografia appoggiata sul marciapiede dirimpettaio. Non ride mai: Delle Chiaie sorride. Curioso personaggio questo artista, grande artista, intrigante davvero. Lo ascolti e ti sembra di capire tutto quello che non avevi compreso dell’Ara Pacis, ti pare che i misteri del monumento d’improvviso non abbiano più alcun segreto per te. Appena lo vedi, il custode moderno dell’altare, non capisci bene chi hai di fronte. Se lo vedi arrivare quando allestisce il suo museo, poco dopo le tre e mezza, talvolta le quattro di ogni pomeriggio, ti parrebbe come un barbone, ma la genialità che promana dalla sua vispa barbetta bianca e dagli occhi brillanti e profondi ti rende subito ragione del genio che vive in lui. Arriva trascinandosi tutto il suo atelier, il suo bagaglio di opere d’arte, nel carrello della spesa, un carrello che cambia negli anni; un tempo era a fantasia scozzese quadrettata di blu e rosso su fondo verde, ora è a tinta unita color aragosta. L’essenza del messaggio della sua arte l’ha condensata nel 1986 in quello che è noto agli storici d’arte come il Manifesto Infrazionista. In esso, come fosse la cosa più ovvia ed evidente del mondo, dice che l’infra-azione è una «azione-collocazione-donazione di una o più opere, mostrate a terra da parte dell’artista, nei luoghi dell’arte, e il suo susseguente allontanamento dall’opera e dal luogo. L’infrazione è mostrare ed evidenziare la storia vista in maniera superficiale, è il grido d’allarme artistico del malessere storico; dell’accecamento del semplice e dell’umile. 154
L’infrazione nasce dalla privazione della realtà visiva d’agire-pensare-fare. È la goccia che trabocca e che vuole vivere con l’acqua». Filosofia, pura filosofia. Pare quasi che queste parole Delle Chiaie le abbia scritte avendo ben presente l’altare della Pace e la sua storia millenaria, la sua gestazione lunga, il posare a terra dell’artista le sue opere per poi allontanarsi... il malessere storico... la privazione della realtà visiva fino al suo voler vivere nell’acqua, metamorfosi dello stare letteralmente a mollo nell’acqua dentro le viscere della terra, come l’hanno trovata negli scavi a cavallo del Novecento e in quelli dell’era fascista, l’Ara. Quella di Delle Chiaie non è solo descrizione puntuale del divenire dell’opera d’arte nei vari momenti ed episodi della vita, ma è anche la narrazione – come si suol dire oggi – del suo trasformarsi e rimodellarsi di fronte alle varie situazioni, il suo piegarsi docile al destino assegnato dalla storia e dal tempo, il suo risorgere sotto forme diverse. Un’opera d’arte chiamata e riconosciuta addirittura come altro da sé, ma in nuove e stravaganti identità. Un giorno acquistai da Delle Chiaie un disegno a pennarello su una tavola di legno, opera dal titolo: «Un Modigliani di profilo». La tavola ha lo spessore di due centimetri e mezzo, verticale e bislunga. Gli chiesi come fosse meglio appenderla. «Se ha dove appoggiarla è meglio lasciata così: appoggiata, visto che con un tale spessore sta in piedi da sola. L’ho fatta perché stesse in piedi da sola. Così ogni tanto qualcuno passa, la prende e la sposta, e lei si muove, ha vita», mi disse contagiandomi con il suo sorriso e trasmettendomi un brivido di vitalità. L’opera d’arte come oggetto che vive, si sposta, cambia nel tempo. Anche il monumento che è qui alle nostre spalle non si può certo dire che non abbia avuto e non abbia ancora una vita, una vitalità: si muove, si sposta. Addirittura ora è a qualche centinaio di metri da dove venne costruito da Augusto. Poi ha girovagato per il mondo a pezzi, per secoli, e questo suo cammino, questo suo pellegrinare (ricordate il lento andare delle partorienti per il campo Marzio?) non è ancora finito. Non solo l’insieme ha una sua vita dinamica, ma anche ogni suo frammento, anche ogni sua idea. Fausto vive qui parte della sua vita e rivivono in lui tanti dei personaggi che l’Ara ha visto nella sua bimillenaria storia. Rivive Balbo, il generale spagnolo, e come lui Fausto chiede ogni giorno ad Augusto di inaugurare il suo museo. A differenza di Balbo, lui ci riesce e Augusto docile si 155
presenta puntuale all’inaugurazione quotidiana, ogni pomeriggio che Dio manda sulla terra, all’apertura del personale museo di Delle Chiaie. Come Giunone Lucina lui offre un sorso di freschezza a tutte le donne che passano di qua pronte a far nascere una nuova vita. Come Facondo Novio, proietta l’ombra delle sue imprese sul terreno vicino all’Ara e fa in modo che sia quell’ombra a scandire il tempo: indica ai passanti l’ora e racconta il passare del tempo che viviamo. Come Saura e Batraco, mette la sua firma, il suo sigillo indelebile, alla magnificenza di quei marmi; e non certo solo metaforicamente. Come Virgilio e i poeti del circolo di Mecenate, canta l’epopea di quel monumento e del nostro tempo. Con la sveltezza di Antero moltiplica col pennarello i suoi schizzi, fissando per sempre immagini e sentimenti di un attimo. Come il cardinal Ricci, taglia e divide i sassi raccolti attorno all’ara, ne fa plurime opere d’arte che incastona nel suo museo o vende ai passanti, improvvisandosi anche lui da artista a mercante di opere. Come Livia, manda i suoi quotidiani messaggi ad Augusto perché renda più solide le fin troppo fragili fondamenta di questo nostro tempo. Come Cannizzaro, l’ingegnere archeologo, è la testimonianza vivente della rinascita e della riscoperta dell’Ara. Come Lullo Antigono, coltiva la pianta verde donata ogni giorno al nostro passeggio. Ed è grazie a Fausto, custode, curatore, allestitore, cassiere, se possiamo ora dire che l’Ara della Pace non è più un mistero, ma un pezzo di vita, un brandello bimillenario di storia che vive insieme a noi. Oggi sappiamo che l’Ara vive e cambia forma, essenza, ogni giorno che passa. Questa è la genialità della sua arte, del bimillenario messaggio di questo eterno monumento. Con tante cose di lei che ancora dobbiamo scoprire, che ancora non sappiamo, ma senza più misteri. Post scriptum: mentre questo libro era in fase di pubblicazione, i lavori di restauro del mausoleo di Augusto hanno costretto Fausto Delle Chiaie, «momentaneamente» dice lui, a traslocare con il suo atelier poco più a sud sul Lungotevere. La storia continua.
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1. Ara Pacis, il lato posteriore con il riquadro della dea Pace e l’interno con visione parziale dei festoni e la parte posteriore dell’altare.
2. Ara Pacis, fregio vegetale (particolare).
3. Ara Pacis, riquadro con la dea Pace (particolare).
4. Ara Pacis, processione settentrionale (particolare); il secondo personaggio da sinistra è Giulia con il ventre rigonfio di profilo, ai suoi piedi il secondogenito Lucio.
5. Ara Pacis, processione meridionale (particolare); si riconoscono da sinistra: Agrippa con il figlio Gaio, Livia, Tiberio, Antonia con il figlio Germanico, Druso.
6. Il busto di Livia ritrovato nel teatro di Balbo. 7. Ara Pacis, lucertola e ranocchia ai piedi del fregio vegetale sotto il riquadro della dea Pace.
8. Parte della meridiana di Augusto ritrovata sotto la cantina di un palazzo in via Campo Marzio 48.
9. Mosaico con girali d’acanto nell’abside destro del transetto dell’ingresso del battistero del Laterano a Roma.
10. Particolare della facciata di Villa Medici a Roma con due festoni dell’Ara Pacis.
11. Fausto Delle Chiaie in posa di fronte al muro di cinta dell’Ara Pacis con le Res gestae.