«Kaj Munk e i suoi doppi», di Franco Perrelli

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Indice

Nota di edizione

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I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. XI. XII. XIII. XIV. XV. XVI.

Tornare su Munk 9 Le maschere di Munk 26 In lotta con Dio 48 Paradiso riconquistato? 64 Il buffone di Dio 84 Un Pastore drammaturgo 101 Il miracolo e il dubbio 122 Un dramma, un film e un seguito 144 L’infatuazione fascista 158 Un Amleto in camicia bruna 176 Il dramma di Mussolini 191 Nel crogiolo della storia 209 Il sacrificio del maiale 231 Il Vangelo secondo Tommaso 253 Il lupo e il gregge 271 Passio et mors 292

Bibliografia essenziale

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Indice dei nomi

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Tornare su Munk

Dal febbraio del 1928 all’aprile del 1953, i drammi del Pastore danese Kaj Munk conobbero quasi 5.000 repliche e, fra il 1938 e il 1940, in Scandinavia, venivano rappresentati in media due suoi copioni per sera1, mentre il suo nome veniva proposto in Svezia per il Nobel2. Di fatto, l’edizione del 1948-49 degli scritti di Munk, in nove volumi, ne dedica uno alle sue prediche e ben quattro a un parziale corpus drammaturgico di 24 testi dal Pilatus del 1917 a Prima di Canne (Før Cannae) e La morte di Ewald (Ewalds Død) del 1943. Di questo corpus – nella sua completezza, circa una settantina di titoli e variamente sfaccettati (non a caso, «tre erano le corde che risuonavano nell’animo di Kaj Munk: la religiosa, la politica e la nazionale»)3 – è stata proposta una suddivisione in ben dieci gruppi, spaziando dai drammi storici e biblici a quelli di ambientazione contemporanea sino agli adattamenti scespiriani, alle riviste studentesche e alle sceneggiature per il cinema4. 1 H. Mogensen, Kaj Munk paa Teatret. En Teater Billedbog, København, NNF Arnold Busck, 1953, pp. 7-8. 2 Vedi la nota 15 del XIII cap. 3 H. Brix, – Hurtig svandt den lyse Sommer! Kaj Munk 1924-44, København, Westermann, 1946, p. 216. 4 M. Auchet, Kaj Munk – en dramatiker i og udenfor tiden, in AA.VV., Kaj

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Pur con delle eccezioni, Kaj Munk si presenta, quindi, in primo luogo, come un autore di teatro, artefice di una drammaturgia variegata, che, al di là dell’accennato imponente successo nordico, è penetrata, con moderazione, in Germania, Finlandia, Svizzera, Olanda e, più tangenzialmente, nei paesi anglosassoni. Nonostante questo, oggi, l’opera di Munk più nota, tradotta e ristampata, resta universalmente Il Verbo (Ordet) del 1925, ma – inutile nasconderlo – in buona parte perché il testo ha dato adito, trent’anni dopo, a un superbo film di Carl Theodor Dreyer. Paradosso su paradosso, Il Verbo sarebbe, per molti versi, un testo di ambientazione provinciale, con problematiche religiose locali, che, già al tempo della sua prima rappresentazione, nel ’32, qualche critico di Copenaghen trovava «sorpassate»5. Lo stesso autore riteneva che il suo mesterdrama fosse «difficile da adattare» e potesse di conseguenza essere rappresentato fuori dei confini della Danimarca solo con consistenti tagli ai primi due atti6. Pur con queste caratteristiche – messo in scena con immediato successo –, Il Verbo aveva marcato un momento cruciale della fama di Kaj Munk, permettendogli di approdare persino su un palcoscenico della Germania nazista, nel ’35. Alla morte dell’autore (1944), il dramma avrebbe toccato la diciassettesima edizione a stampa e 26.000 copie di tiratura. Munk – Manden og Værket, a cura di S. Dosenrode, København, NNF Arnold Busck, 2015, pp. 39-40. 5 F. Schyberg, Tii Aaars Teater (1929-1939), København, Gyldendalske Boghandel, 1939, p. 45. 6 In una lettera al traduttore tedesco Erwin Magnus del 10 settembre 1932, Munk rilevava per l’appunto che Il Verbo «è così tipicamente danese che una traduzione è impensabile; meglio un vero e proprio rifacimento, dove l’elemento grundtvigiano, così peculiarmente nazionale, sia ricreato in un altro carattere germanico possibilmente analogo». Magnus rielaborò, infatti, il testo trasformando lo scontro religioso fra i seguaci di Grundtvig e i pietisti, centrale nel copione, in quello fra questi ultimi e i luterani, cancellando ogni riferimento al riformatore danese (cit. in S. Daugbjerg, Kaj Munk and Germany. Theater and Politics, Port Towsend [WA], New Nordic Press, 2011, pp. 62; 64; 80).

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Già all’epoca del massimo successo della drammaturgia munkiana, non mancavano, tuttavia, coloro che ritenevano il Pastore un «dilettante» delle lettere, se non addirittura un «ciarlatano» dall’avvenire incerto e, pertanto, del tutto «esagerata» la sua fama di drammaturgo. Si pubblicarono così dei pamphlet per ridimensionarla, denunciando un teatro scioccante, che cadeva alla lettura e che solo grandi attori avevano la capacità di vitalizzare, essendo basato su «virtuosismo drammatico, edificazione religiosa, psicologia primitiva, giornalismo da gazzetta, complessi sessuali e avventato estro personale»7. Anche questa opposizione, se andava a pareggiare una diffusa opinione che l’autore fosse l’Ibsen del XX secolo, risultava segno implicito di una sua presenza culturale assai incisiva, propiziata peraltro dalla fitta e polemica attività giornalistica, per la quale – con i suoi oltre 600, talora imprevedibili (non di rado letterariamente eccellenti) articoli8 – Munk divenne, nonostante un suo antico (e kierkegaardiano) sospetto nei confronti della «peste» della stampa9, uno dei pubblicisti nordici più letti e dibattuti. Ma come veniva percepita, negli anni Trenta – nel periodo della sua massima affermazione –, la produzione drammatica di Kaj Munk? Nei suoi esiti più significativi, certo in controtendenza rispetto sia a una larga tradizione danese radicata nelle dolcezze o nelle smancerie del vaudeville e della commedia leg7 J.K. Larsen, Kaj Munk som Dramatiker, København, H. Hagerup, 1941, pp. 5; 22; 145; 150, che critica Munk in particolare per la sostanziale irregolarità dei suoi drammi rispetto a più classici canoni estetici. Prima di Larsen, cfr., in particolare, C. Reventlow, Er Kaj Munks dansk Aandslivs Høvding?, København, Aschehoug, 1940, mentre, in generale sulla questione dell’opposizione critica a Munk, vedi anche P.S. Møller, Munk, København, Gyldendal, 2000, p. 140. 8 I volumi VII e VIII di Mindeudgave ne presentano una scelta a partire dal 1916 (anche se il primo articolo di Munk su un giornale risale al 1913; cfr. IX: 163 ss.). Tuttavia, solo nel 1931, l’attività pubblicistica del nostro autore si consolida e incrementa nella collaborazione con «Dansk Folketidende» e il conservatore «Jyllands-Posten», allargandosi poi ad altre testate. 9 Vedi anche L.M. Hunø, Drengen, Vennen, in AA.VV., Bogen om Kaj Munk, København, Westermann, 1946, p. 58.

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gera sia alle incendiarie parole d’ordine delle avanguardie del Novecento. Il teatro di Munk sembrava imporsi, in apparenza, soprattutto in virtù dei suoi riferimenti forti a Shakespeare, al romanticismo nordico e a certo Ibsen. Notevole in tal senso quanto scrive lo stesso Munk, nel ’28, in occasione dello sfortunato debutto del suo primo copione di rilievo, Un idealista (En Idealist, 1923-24), sulla necessità di un «ritorno della drammaturgia danese al grande dramma [det store Drama]». S’imponeva pertanto, ad avviso dell’autore, una ricollocazione del teatro sotto il segno della solennità romantica di Adam G. Oehlenschläger, emblema del patos e delle virtù nazionali, oltre che di Georg Brandes, paladino di un’arte impegnata che si cala nell’attualità di epocali problemi, come pure in una certa grandezza della visione e dell’espressione, intesa soprattutto come superamento del più corrente realismo. Su questa linea, per Munk, «volontà e passione sono pure aspetti del carattere del popolo danese», che ha radici vichinghe ed è pertanto «in grado di produrre altro che psicanalisi e burro». Inoltre, sarebbe ormai in campo una gioventù dotata di un «appetito di vita troppo impetuoso» per adattarsi a un teatro meramente convenzionale e psicologico, che non a caso subisce la concorrenza del cinema, «dove qualcosa accade [...] e si rispecchia la vita» in tutte le sue contraddizioni: La gioventù pretende che l’Arte si collochi al centro del mondo e che non induca a sbadigliare o a volgere a esso le spalle [...]. Il tempo delle bagattelle e dell’estetismo è finito; non vogliamo più essere grandi nelle piccole cose, oggi vogliamo essere grandi in ciò che è grande; vogliamo fremere come fremevano i soldati nel no man’s country; vogliamo destreggiarci come un politico moderno, vogliamo imporci come un commerciante dei nostri tempi; vogliamo essere minacciosi come un lavoratore della Russia rossa, vogliamo pregare come una giovane contadina, pizzicando le corde possenti della multiforme arpa della vita con i pugni chiusi e in intenso ascolto delle pause (VII: 26 ss.).

In queste affermazioni, a ben leggere, più che un programma 12


meramente restauratore di forme auliche e solenni, si evidenzia un’ansia di sintonia con l’epoca: da un lato, l’intenzione di dare una risposta alla concorrenza del cinema nei confronti del teatro, ma, da un altro, il proposito di riportare sulle scene il riverbero dei fuochi non estinti della Prima Guerra Mondiale, che continuavano a proiettarsi su tutto il continente, anche nelle nazioni risparmiate dal conflitto, e che sembravano vieppiù pronti ad accendersi in un nuovo devastante scontro. Il teatro di Munk – anche se a tematica biblica o generalmente religiosa e pure quando di occasionale taglio borghese – vorrà immancabilmente affondare le sue radici proprio in questa pregnante dimensione storica, riportandone l’inquietudine esistenziale. Come affermerà nel ’36, dal punto di vista di Munk, un’opera andava «giudicata per la sua tendenza – e non c’è libro che non abbia tendenza», fermo, tuttavia, che «un buon libro è un libro sano e un cattivo libro, in un modo o nell’altro, fa danno alla vita»10. Saremmo dubbiosi, pertanto, che l’aspirazione di Munk a det store drama – come vuole Ib Bondebjerg – «fosse in linea con la parte più militante della cultura conservatrice» e solo con un espressionismo di retroguardia11; preferiremmo piuttosto evidenziare, nella produzione del drammaturgo, lo sforzo, attraverso una cospicua varietà di forme, di centrare un’inedita contrastante commistione di modernità profana e di sacralità scenica. Si tratta di un’inclinazione assai sentita, che s’individua persino nelle strutture della sua prima predica del 1919, certo audace nel proiettare e descrivere una smarrita figura di Cristo sullo sfondo della «tirannia della prepotenza capitalistica e della dittatura di massa del socialismo», contro il panorama «delle guglie delle chiese semioffuscate dal fumo cupo delle fabbriche», mentre Cfr. Un’istantanea di Oxford (Et Oxford-Snapshot; KMF: 8-9). I. Bondebjerg, Autoritet, success og skæbne, in Dansk Litteraturs Historie, VII, Demokrati og kulturkamp, 1901-1945, København, Gyldendal, 1984, p. 378. 10 11

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