«Di versi diversi», di Alessandro Cobianchi

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Alessandro Cobianchi

Di versi diversi


Indice

Storie nel tempo L’attesa

11

Progetti pazienti, p. 11 - Lettera al deserto, p. 15

Partenze (Modi diversi d’incanto)

16

Treni, p. 16 - Autunno a Sud-Est (Sguardi da un treno), p. 31

Maturità, t’avessi preso prima

33

L’anno che ho smesso di mangiare le orecchiette, p. 33 - Maturi, p. 64

Tempo

66

1980: un’altra storia, p. 66 - 29 maggio 1985, p. 73

Nostalgia 74 Domenica, p. 74 - La Città vecchia, p. 80

Ospedali 82 Poliambulatorio dietro l’angolo, p. 82 - Esausta (Dormivo alla Fibronit), p. 88

Storie fuori dal tempo L’ottimista 91 Nuda proprietà (Storia da una ballata del tempo), p. 91 Ballata del tempo, p. 99

Sole 102 Ottobre, p. 102 - L’illusione del sole, p. 111

5


Storie di dame

112

Il signor C., p. 112 - La mia dama, p. 115

Alla luna

116

Luglio, p. 116 - Come la luna al passo delle nuvole, p. 118

Cosa sono le nuvole

119

Il gatto e le nuvole, p. 119 - Oceano di nuvole, p. 122

Storie per il nostro tempo Buon giorno, buon anno

125

Noti a margine, p. 125 - Levante, p. 132

Club Méditerranée

133

Mi chiamo Mustapha, p. 133 - Mare che accoglie, p. 141

Io non ho paura

144

La moglie di Zagrebelsky, p. 144 - Il cerchio, p. 152

Lei 153 Applicazioni pratiche della lectio magistralis di Umberto Eco, p. 153 - Pomeriggio mondiale, p. 160

Ritorni 161 L’uomo con il paltò, p. 161 - Eurialo e Niso, p. 179

Crediti, ringraziamenti e citazioni

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Lei

Applicazioni pratiche della lectio magistralis di Umberto Eco Pomeriggio d’estate, il calore spinge il gatto sulla poltrona, si contorce sino a formare una O, sembra una ciambella nera con due faretti gialli e lucenti all’estremità. Nessun rumore, nessuno in giro, solo piccioni, tanto voraci da resistere al caldo, pronti a beccare ogni cosa gli capiti a tiro. Dovrei andare in spiaggia, ma fa troppo caldo per mettersi in strada. Un bagno nel mare più placido del Don e del Piave sarebbe un premio adeguato allo sforzo, ma non mi va di vincere nulla. Indugio, più stanco di un fante italiano nella Prima guerra mondiale. Il corpo, sudato, si accascia sulla prima sedia che trovo senza cuscini. La luce del sole, il cielo più azzurro della stagione mi attirano fuori, come una Circe silenziosa ma non altrettanto sensuale. Sembra che una squadra di spazzini solerti abbia pulito il cielo dalle nuvole, non si aggirano aerei né angeli. La veranda assorbe tutta l’afa possibile, caverna accogliente per l’aria asfissiante, eppure insisto nel restare all’aperto. Dentro, di azzurro c’è solo la Nazionale di calcio in tv, per questo nuovo pomeriggio mondiale. Si prepara un teatro di trombette, urla alle finestre, bandiere ai balconi, a sostenere la nuova impresa italiana. Il miglior incentivo a fuggire. La spiaggia sarà finalmente vuota, occasione unica per un sabato d’estate. Eppure resto qui, sospeso fra la voglia di partecipare al trionfo del

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noi e la mia spiccata attitudine alla solitudine dell’io. La vicina, una signora fra i 70 e gli 80 – non sarebbe carino verificare chiedendo –, capelli argentati, sguardo arguto, con un sorriso che ricorda la zia investigatrice di una fiction, mi chiede: «E lei, non la guarda la partita?». Mi fa piacere che non si rivolga subito con il tu. Ci conosciamo da pochi mesi, da quando mi son trasferito in questo lembo di strada, ritagliata fra due viali paralleli e incollata, per caso, nello stradario. La nostra conversazione è sempre scandita da frasi ripescate dal XX secolo, su virtù delle piante, trasmissioni televisive e previsioni del tempo, improntate a una cortesia art déco, essenziale ed elegante. Nel risponderle non le dico, aggressivo, che la Nazionale non m’interessa o che fa troppo caldo, ma cerco di sintonizzarmi sulla stessa tonalità del suo lei. Non troppo diretto, né troppo distaccato. «Si figuri! Come si fa a perdere la partita? Tuttavia mi tratterrò ancora un po’ in veranda», mento. Da dove sarà uscito quel si figuri... mi tratterrò ancora..., non so, forse dalla credenza di mia nonna o da un vecchio scatolo di cioccolatini alla menta, gli stessi che mi offriva un’adorabile zia quando andavo a trovarla, scaduti da anni. La tonalità, quel lei, mi piace, è un sospiro gentile in frasi senza profondità, ma comunque affettuose. Di cortesia vera, non di maniera. Che non millantano un’amicizia inesistente, solo attenzione quotidiana, nel salutarsi ogni giorno per riprendere poi le rispettive vite. Intanto, il suono della prima tromba rompe il silenzio irreale di quel pomeriggio, provocando il volo di tutti i piccioni del circondario, che impazziti svettano, con un occhio al cielo, staccando le zampe da balconi e pali della luce. Come vedette delle legioni romane, in attesa dei Cartaginesi, rispondono altre trombe, e altre ancora, sino a che tutta la strada rimbomba di sfiati che squarciano l’aria, e non si distingue più fra il suono e l’eco. Nel rientrare, saluto la vicina, con un arrivederci a più tardi, quan-

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do ci affanneremo entrambi per dare ristoro alle piante, stordite dal caldo e dal trombeggiare diffuso. La partita scivola così lenta che mi distraggo continuamente. Al quindicesimo minuto, sempre più annoiato da uno spettacolo senza emozioni, accendo la prima sigaretta, la scusa per fuggire, ancora, sulla veranda. Passa un tipo, mai visto prima, e mi chiede: «Ehi tu, quanto stanno?», che sarebbe la forma sincopata di mi saprebbe dire, gentilmente, il risultato della partita della Nazionale? Ma lui ha fretta. Non ha nemmeno il tempo per vederla come tutti, la partita. Sarà almeno un ministro, un poliziotto, un medico, insomma un uomo impegnato in affari pubblici o di Stato, talmente importanti che non può perdere minuti preziosi, nemmeno nelle domande. Gli comunico il risultato che, una volta recepito, rende superfluo un grazie, e se ne va con un mezzo grugnito. Mi chiedo dove l’avrò mai incontrato. Evidentemente da nessuna parte. Non frequento ministeri e, fortunatamente, nemmeno questure o ospedali. Quel tu diretto, senza mediazioni né filtri, però mi ha infastidito. Eppure c’è stato un tempo in cui ho sperato che tutti si dessero del tu, come in Svezia o fra compagni. Insofferente a quel lei sospeso che, nei casi più imbarazzanti, traducevo in voi, a indicare il maggiore rispetto o la dedizione per l’autorevole interlocutore. Sono stato sedotto, come un turista americano, dal tu del tipico cameriere romano che, dopo la fatidica domanda quanti siete? e recuperato un tavolo, quale che sia la risposta, si rivolge a ognuno dei commensali chiedendo che te porto?, ma ciascuno degli incantanti clienti sa che quel cameriere, con quel tu, potrebbe portare al tavolo qualsiasi cosa. Il cameriere romano è un principe democratico, ti apre la sua magione, offrendoti un’amicizia immediata e, talvolta, pagata a caro prezzo in mance e conto. Il tu fra compagni è stato più rivelatore del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels. «Allora è vero, siamo tutti uguali»,

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dicevo entusiasta al vecchio dirigente comunista che mi faceva da mentore. C’è stato un tempo in cui il deputato della Repubblica serviva le portate, proprio come un cameriere romano, alle Feste de l’Unità, chiamando gli elettori-compagni ognuno per nome, pronto poi a passare la comanda al custode della federazione che, in quanto aiuto cuoco, almeno durante la festa era suo superiore gerarchico. Tutti compagni, tutti uguali, forse tutti con lo stesso guadagno e le stesse pensioni. Oggi ho capito che le pensioni, come le vite, sono state diverse. I deputati, alle Feste de l’Unità, non servono più tortellini o polpo alla brace, oppure lo fanno solo quando possono ritagliarsi lo spazio di un selfie. Anzi, le Feste de l’Unità non ci sono più. E nemmeno l’Unità. Però, che bello darsi del tu! Con il cognome, ma del tu... caro compagno Bianchi, come stai?; benone, mio caro Rossi, e tu? Cose così, qualcosa di più che amici. Compagni. Palmiro Togliatti, che non a caso era definito “il Migliore”, le cose le aveva capite prima degli altri. C’è una storiella, che mi è stata raccontata da un vecchio comunista, che lo dimostra. Togliatti, che oserei dire che fosse un po’ aristocratico, al giovane compagno che gli chiese «Caro Togliatti, lei che ne pensa del nuovo governo?»16, rispose: «Caro compagno, diamoci del tu». E quello, di rimando: «Caro Palmiro, che ne pensi del nuovo governo?». Il segretario comunista, allora: «Caro, continuiamo a darci del lei, è meglio». L’aneddoto, così noto da dubitare della veridicità, mi è giunto dalla narrazione orale e, come tale, la versione si sarà trasformata nel tempo. L’episodio certamente tradisce l’attitudine a spostare, con inusuale eleganza, l’attenzione dell’interlocutore dal cuore delle domande più spinose. Cosa che i dirigenti del Pci studiavano ai corsi 16

L’oggetto reale della domanda non lo ricordo, così invento.

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di formazione politica alle Frattocchie. Tuttavia racconta qualcosa di più: quanto il tu sia stato il condimento prelibato di un piatto più articolato e complesso. Proprio come l’aceto balsamico nella ricetta delle scaloppine al Marsala! Il problema non è il tu o il lei, penso. Quando incontro qualcuno che non vedo da tanto, con cui c’è familiarità, ma non frequentazione costante, la domanda ricorrente è come stai? So bene che non è il tu a decidere il nostro rapporto, la nostra confidenza, la voglia o meno di rivederci, ma ciò che il tu contiene. Spesso c’è solo l’intima ipocrisia di quelli che non attendono nemmeno la risposta, pronti allo sprint di un più sincero come sto. Come stanno tendono immediatamente a fartelo sapere, lamentandosi o pavoneggiandosi, in virtù delle compagnie dello spirito da cui sono state arruolate. Però, come mi piace quando una persona cara accompagna quel come stai a un abbraccio che sembra infinito. È terminato, intanto, il primo tempo della partita, le squadre pareggiano senza reti. Il telecronista intervista un allenatore anziano e molto stimato e gli dice: «Adesso che siamo entrambi commentatori e siamo colleghi, possiamo darci del tu». Il brizzolato mister lo guarda perplesso e gli risponde cortese che va bene così. La colleganza chiama il tu, come ogni forma di appartenenza: si danno del tu gli avvocati persino in occasione di udienze in cui dibattono in modo feroce, mentre al giudice si riserva del lei persino se lo hai incontrato a cena la sera prima. I politici, poi, sono un caso unico. In privato si danno del tu, anche quando appartengono a schieramenti opposti. In tv invece si danno del lei e sembra che non abbiano mai preso insieme nemmeno un aperitivo alla buvette della Camera. Dicono che sia per una forma di rispetto per l’elettore, che ignaro ci crede pure. Sono finito in un buco nero di pensieri, non ho più voglia di vedere la partita, prendo le chiavi della moto, esco, convinto che anche i calciatori si diano tutti del tu, perché lo scontro agonistico non prevede distanze. La virilità sportiva renderebbe ridicolo l’attaccante che dice

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al difensore avversario la smetta di farmi falli, la prossima volta le spacco un braccio. Sono finalmente in strada, ancora deserta, raggiungo il porto, dove su un istmo di terra appoggiato sul mare c’è il mio sasso preferito. All’ingresso del porto ci sono tanti cittadini albanesi che si apprestano a partire. Hanno valigie avanzate dal 1991 e, nonostante abbiano migliorato il proprio tenore di vita, vestono ancora abiti troppo larghi o troppo stretti, stropicciati, camicie a rombi che stonano con i pantaloni a righe. C’è bisogno di qualche anno in più per conquistare l’Occidental style. Ci sono professori di estetica morale divenuti eccelsi pizzaioli e ingegneri adattatisi a custodi di garage. La polizia li ferma e gli chiede di aprire le borse. Il pronome, qui, è un’equazione: il tu sta al poliziotto come il lei all’albanese. Niente di nuovo: quando la polizia blocca un migrante si rivolge spesso con il tu, anche quando quello risponde con il lei. Il pronome è un nome, una categoria, una divisa. Il tu è un ordine, il lei un’obbedienza. Al porto, mentre l’Italia del football difende l’onore nazionale, mi avvicino a uno degli agenti e gli chiedo perché non usano maniere più cortesi con questi viaggiatori. Mi risponde secco e determinato: «Che vuoi tu, fatti gli affari tuoi». Esco il tesserino di riconoscimento che attesta il mio status di avvocato e cambia subito versione: «La prego, si allontani, è un’operazione di sicurezza». La sicurezza è un bene talmente prezioso, quanto un gol ai Mondiali, da adattare i pronomi alla carta d’identità. Quello di presentarmi come legale è un espediente cui faccio ricorso quando cerco una risposta educata che, come cittadino comune, avrei diritto a ricevere comunque. Se telefono a un ufficio pubblico e dico buongiorno sono Gino, mi candido ad ascoltare tutte le Quattro stagioni di Vivaldi prima che qualcuno possa prestarmi attenzione. Se invece mi presento come l’avvocato Del Piffero, mi rispondono immediatamente scusi avvocato, il dirigente è fuori stanza. Insomma, il risultato non cambia, ma è sempre meglio che attendere in linea per un quarto d’ora.

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Gol! Ha segnato l’Italia, è un tripudio di bandiere, di cori, di urla scomposte. Siamo fra le otto grandi potenze mondiali. Se vinciamo, stasera, probabilmente, saremo tutti più felici! Mi è passata la voglia del mio sasso preferito, del mare che mi ricorda le infinite tragedie di quelli che non hanno un invito per giocare in Italia, mi è passata la voglia di farmi domande. Non so nemmeno se rispondermi dandomi del tu o del lei. Certe volte vorrei mantenere le distanze persino da me stesso. In strada, ancora inquieto. Mi fermo nei pressi di un bar, l’unico aperto, sembra. A una certa distanza dall’ingresso, non troppo vicino, non troppo lontano, c’è un signore per terra. Ha il vestito tutto dimesso, le scarpe sfondate, una barba incolta, bianca e malaticcia, pare afgano. Sembra che porti le stimmate della democrazia occidentale. Tende la mano a chiedere qualche spicciolo. Lo conosco di vista, perché sta sempre lì. Qualche volta ho pensato di avvicinarmi e, per farlo sentire accolto, di dirgli come stai, dandogli del tu. Stasera però, di fronte a quella mano ossuta, al cartello su cui, in un italiano sgrammaticato da straniero poco integrato, c’è scritto “fame, prego aiutare me, no mangiare da tanto”, non mi va di prenderlo in giro. Di dirgli ehi amico, tieni questi quattro spiccioli, tanto io ho la carta di credito. Non me la sento di dargli del tu, mi sembrerebbe di aprire la sua dignità con l’apriscatole. Anzi di accartocciarla con una chiave a forma di stiletto, come si faceva un tempo con le scatolette di carne in gelatina. Questa sera, mi perdoni, signor Mohamed, le lascio qualcosa e vado via. Più dei soldi il mio lei è come una ghirlanda hawaiana di semplice benvenuto. Secondo gol, la nazione ribolle, la qualificazione è cosa fatta. Inizia il trenino di auto e moto che sbandierano tricolore, suonano clacson, perché tutti, proprio tutti, devono festeggiare. A un incrocio, un tizio passa euforico con il rosso. Evitiamo per pochissimo lo scontro, lui inchioda, io freno bruscamente e per non

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cadere male lascio scivolare la moto e striscio sul manto stradale. Esce dall’auto, tutto incazzato, vestito d’azzurro, come un araldo nazionale, ma con una pancia da bevitore di birra che lo fa assomigliare più a una mongolfiera mancata. Mi guarda per terra e mi dice: «Ma sei coglione, non potevi stare attento?». Ho i pantaloni tutti strappati e un braccio che mi fa male. Alzo lo sguardo e gli chiedo: «Le spiace darmi del lei?».

Pomeriggio mondiale Cortei d’auto bandiere anche improvvisate a una manca il rosso (Forza Italia?) clacson e sciami d’auto e all’improvviso una musica sale malinconica e dolce, sarà un tango? Un palco sul mare chi lavora si ferma qualcuno continua anche senza di lei, ma la musica resta dolce non cede nulla al rimpianto e trasforma la piazza in teatro. C’è chi grida «rete» e crede che tutto sia lì, chi lo fa per distrarsi, non sapendo piangere. Qui il mare è fermo, come i miei sogni.

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