Detto per detto. Pietro Paciolla nella tradizione orale di Cassano delle Murge

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Detto per detto Pietro Paciolla nella tradizione orale di Cassano delle Murge a cura di Piero Cappelli e Francesco Nuzzaco


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Introduzione di Piero Cappelli

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I registrazione (ottobre 1984) 1. Il priso di merda (1) 2. Gnomettino (1) 3. Il finto muto 4. I fatti di san Pietro (1) 5. La maledizione dei servi 6. Quello dell’uovo 7. La talpa (1) 8. Il sangiovanni con san Pietro (1) 9. Il sangiovanni con la Morte

3 4 7 9 12 13 14 16 18

II registrazione (18.2.1985) 10. Il rognoso, il tignoso e il moccolone 11. I tredici monaci 12. Il sangiovanni con san Pietro (2) 13. Il monaco lussurioso 14. Mignolino 15. La cicala e la formica 16. Il ciuccio e il bue (1) 17. L’uomo che non voleva morire mai (1) 18. Capa di lana 19. «All’orto sta lui!» (1)

25 26 29 33 38 43 44 45 47 50


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III registrazione (21.2.1985) 20. Il ciuccio e il bue (2) 51 21. Davide e il gigante Golia 52 22. Rizieri e Fioravante 55 IV registrazione (22.2.1985) 23. La banda di Brema e i tredici briganti (1) 24. Giuseppe venduto dai fratelli 25. La sapienza di Salomone 26. Sulla tradizione orale 27. Noè e le razze umane 28. La pazienza di Giobbe (1)

65 70 76 77 79 80

V registrazione (24.2.1985) 29. La banda di Brema e i tredici briganti (2) 81 30. Il brigante Servodio, Nicola Morra, Giuliano e i cantastorie 85 31. Il tesoro di Grattascìgghje 93 VI registrazione (6.8.1985) 32. Il Duca Padre di Gravina 33. «Ogni bene dal cazzo ne viene!» 34. La talpa (2) 35. Il ciuccio cacatornesi

95 96 97 99

VII registrazione (17.2.1986) 36. La banda di Brema 101 37. I 13 briganti 103 38. Il priso di merda (2) 105 39. «All’orto sta lui!» (2) 108 40. Il fatto della ciuccia (1) 108 41. «Mi raccomando quello tra le gambe!» (1) 110 42. Due “prefichi” bastonati 111


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43. Il Carnevale a Cassano 112 44. Ripresa dei Due “prefichi” bastonati 113 45. Fatti di paese 114 VIII registrazione (2.8.1986) 46. I fatti di san Pietro (2)

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IX registrazione (12.8.1986) 47. La pazienza di Giobbe (2)

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X registrazione (13.8.1986) 48. La storia di Sansone 124 49. La creazione della donna 127 50. Rhésis misogina 128 XI registrazione (4.3.1989) 51. Nascite miracolose (san Giovanni Battista, Gesù e santo Stefano) 130 52. Testimonianza autobiografica 135 53. Storia di Lot 139 54. L’arca di Noè 140 55. La messa dei morti e il lupo mannaro 142 XII registrazione (24.3.1989) 56. Giuseppe Mele e il coperchio del priso 147 57. La tagliatella 148 58. «Mi raccomando quello tra le gambe!» (2) 149 59. Il fatto della ciuccia (2) 152 60. Il miglior cibo è l’appetito 154 XIII registrazione (7.12.1989) 61. L’uomo che non voleva morire mai (2)

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62. Il bando dei cornuti 157 63. «All’orto sta lui!» (3) 157 64. Racconto misogino 158 Postfazione di Francesco Nuzzaco 161 Bibliografia 177


Introduzione di Piero Cappelli «Le culture orali sanno organizzare pensiero ed esperienza in modo sorprendentemente complesso, intelligente e bello» (Ong 1986, p. 89).

Patrimonio e ambito della ricerca Le testimonianze proposte in questo volume sono ascrivibili al repertorio di un solo testimone, Pietro Paciolla, ma rappresentano la trascrizione parziale di un più ampio complesso di materiali di tradizione orale frutto di un lungo programma di rilevazioni sul campo. La ricerca complessiva ha avuto inizio nell’ottobre del 1984 e si è protratta sino al febbraio 1999, svolgendosi con una maggiore intensità tra il 1985 e il 1986. Raccoglitori: Piero Cappelli, Clelia Nuzzaco, Francesco Nuzzaco. Essa è stata realizzata attraverso una serie di incontri con abitanti di Cassano delle Murge1, in cui si è provveduto ad acquisire le conversazioni con un registratore portatile, e ha avuto come oggetto la narrativa popolare orale, estendendosi nel tempo a rilevare la tradizione orale cantata e le storie di vita. Sono stati escussi 66 testimoni, quasi tutti a Cassano (solo per alcuni la provenienza è dai paesi vicini); Pietro Paciolla è stato uno tra i più facondi di essi. L’età media degli intervistati superava già allora i 60 anni. Il totale delle registrazioni (tutte datate, con il riferimento nominativo dei testimoni) ammonta a 50 ore circa per un totale di 489 unità (tra fiabe, novelle, favole di animali, leggende, canti, stornelli, preghiere ecc.). Per la sua imponenza, si tratta di un repertorio unico, avvalorato dal fatto che una tale quantità di testimonianze è stata rilevata in un tempo e in un luogo circoscritti, e sempre dagli stessi raccoglitori summenzionati (quindi con una omogeneità di criteri metodologici). 1 A quell’epoca Cassano delle Murge, Comune situato a circa 30 km a sudovest di Bari, contava circa 10.000 abitanti (contro gli attuali 14.600 ca.).


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Negli ultimi anni, si è provveduto a trasformare le registrazioni analogiche in digitale, suddividendo in un primo tempo il materiale secondo il supporto che conteneva in origine le registrazioni: ogni file corrispondeva alle sessioni di registrazione, ed era catalogato con sigle e titoli arbitrari, ma che consentivano una veloce reperibilità delle testimonianze sulla base degli elenchi di rilevazione. Con la consegna e il deposito della collezione (Fondo Cappelli-Nuzzaco) presso il Museo del Territorio, di recente costituzione, del Comune di Cassano, si è reso necessario isolare i file audio di ciascuna performance e riclassificare il materiale con criteri funzionali alla fruizione pubblica, privilegiando l’organizzazione cronologica e per narratore2. Parte di queste narrazioni è stata oggetto di tesi di laurea e di pubblicazioni in libri e riviste3. La maggior parte è inedito. Molte registrazioni sono state trascritte foneticamente, tradotte e oggetto di approfondimenti (classificazione secondo gli indici dei tipi e motivi di Aarne e Thompson e i principali indici nazionali, rilevazione di varianti e riscontri, annotazioni stilistiche e relative alle dinamiche della trasmissione orale, ecc.). Il lavoro di traduzione e trascrizione deve essere completato e reso omogeneo4. Notizie biografiche di Pietro Paciolla Felice Pietro Paciolla (10.4.1897 - 29.9.1990) era un coltivatore diretto, piccolo proprietario, all’epoca delle rilevazioni già ultra-ottuagenario (87 anni nel 1984; 92 anni nel 1989), lucido e facondo parlatore ormai sordo 2 La destinazione del Fondo Cappelli-Nuzzaco al Museo del Territorio di Cassano delle Murge lo connota potenzialmente come istituzione deputata al reperimento, alla conservazione e alla diffusione di conoscenze relative ai beni demoetno-antropologici, materiali e immateriali, dell’area murgiana; tale lascito – si auspica – vuol essere il primo nucleo di altro materiale documentativo, di cui urge la raccolta e la patrimonializzazione. 3 Cfr., ad esempio, Cappelli, C. Nuzzaco, F. Nuzzaco 1997; Cappelli 1997a; Cappelli 1997b; Cappelli 2003; Angiuli, Cappelli, Di Turi 2015. 4 Fa parte del suddetto “Fondo” anche una collezione di proverbi rilevati sul campo a Cassano. Sono più di 500, trascritti e in parte recitati in dialetto, e quindi fruibili anch’essi in file audio.


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– ma dotato di un apparecchio acustico che gli consentiva ancora di interagire. Tenacemente attaccato alle sue abitudini (come tutti gli anziani, del resto), è vissuto fino alla fine dei suoi anni nella casa originaria di Cassano vecchia (salvo brevi parentesi) insieme alla moglie Teresa Campanale, autonomo e in buona salute, assistito dai parenti. Suo padre, Domenico Paciolla, aveva sposato in prime nozze Isabella (di Grumo) da cui ebbe, oltre a Felice Pietro, altri due figli: Felice e Francesco. Morta prematuramente la prima moglie, Domenico si risposò con una donna di Palazzo San Gervaso, la “Palazzese”, e le seconde nozze procurarono dissidi con il figlio, in procinto di sposarsi anch’egli, per questioni legate all’eredità. Sappiamo direttamente dalle sue testimonianze che andò a scuola fino alla V elementare (dai 7 ai 12 anni)5, che frequentò il catechismo in parrocchia6, che visse un’infanzia relativamente serena. Sempre lui dichiara di aver fatto il soldato per quattro anni durante la Prima guerra mondiale (era tra i ragazzi del ’97 che nel 1915 avevano diciott’anni), probabilmente sul Carso. Veniamo a sapere anche che il nonno, Pìete u Uardiàne, padre di suo padre, era artigiano e guardiano (amministratore) delle proprietà del Capitolo. Uno zio (Giovanni, anch’egli artigiano), fratello del padre, fu vicesindaco del paese. Il padre, nei primi del Novecento, acquistò scomputandole parecchie terre da un ricco proprietario del tempo ormai in rovina, ed era in possesso anche di appezzamenti in precedenza appartenuti a confraternite ecclesiali. La famiglia era nota in paese per l’ottima produzione di vino tanto che lo stesso Felice Pietro, subito dopo essersi sposato, aprì – per un breve periodo – una locanda con mescita di vino (di produzione propria), come avevano fatto il nonno e il padre7. Sempre dalle sue testimonianze ricaviamo che, oltre a coltivare le proprie terre, prestava per conto terzi la sua opera, organizzando squadre di potatori e di giornalieri. Per sette anni circa si occupò della conduzione delle terre di una famiglia di ricchi possidenti del paese. Cfr. 55 (La messa dei morti). Cfr. 54 (L’arca di Noè). 7 Cfr. 52 (Testimonianza personale). 5 6


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La sua famiglia era dominata da donne (moglie e tre figlie), condizione in parte “mitigata” da nipoti quasi tutti (salvo una femmina) maschi. Queste le notizie essenziali della vita di Pietro Paciolla: quanto basta per darci ragione delle stesse fonti (quasi sempre evocate) delle sue narrazioni e di molte delle concezioni e della visione del mondo da lui espresse apertis verbis o implicitamente emergenti dalle sue testimonianze. Trascrizione e traduzione I testi qui riprodotti sono il risultato di una duplice mediazione rispetto ai documenti sonori, allo scopo di fornire una formulazione certamente diversa dall’originale ma che ne agevoli la conoscenza. Trasporre la verbalizzazione orale nella fissità della scrittura è di per sé operazione che snatura l’originalità del documento: si passa da un mezzo comunicativo ad un altro, e il secondo restituisce solo una piccola gamma dei significati e dei contenuti del primo. Mancano quasi del tutto la situazione contestuale e ambientale della performance, la rappresentazione degli attori in gioco e delle loro relazioni, il complesso delle motivazioni e dei retroscena, e molto altro. Neanche una registrazione video in presa diretta avrebbe potuto renderne conto esaurientemente. Quindi abbiamo a che fare con un documento (quello qui rappresentato dalla scrittura) depotenziato di gran parte della sua carica documentativa: una sorta di testimonianza noumenica inevitabilmente soggetta alla varietà quasi infinita delle interpretazioni. Eppure la trascrizione conserva un margine, seppur esiguo, di oggettività che vale la pena porre in rilievo, perlomeno quale mezzo introduttivo di conoscenza e salvaguardia dall’oblio o dalla penombra della trascuratezza della memoria tradizionale. La trascrizione che qui si propone, sotto forma di traduzione letterale, è tesa a restituire i contenuti in un italiano da tutti comprensibile, senza alcuna interferenza o sovrapposizione che contaminino il dettato originario delle testimonianze. La scelta di privilegiare la traduzione alla trascrizione fonetica è motivata dal desiderio di consentire una più agevole fruibilità delle testimonianze, e si fonda sulla certezza dell’accessibilità pubblica (grazie a un data base accessibile anche online) che il Museo ha progettato di garantire ai documenti sonori che ne sono la base.


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Una breve osservazione merita anche il tono stilistico che una tale scelta ha prodotto: un italiano familiare e dimesso, molto aderente alle modulazioni espressive dialettali di cui si è voluto restituire il più possibile le asimmetrie, le irregolarità, l’andamento paratattico o sincopato. Ciò ha favorito l’approssimazione ai ritmi e al tono verbale propri dell’oralità, in cui la logica narrativa è fortemente condizionata dalle necessità espressive o dagli incidenti mnemonici contingenti (con gli scatti creativi o correttivi dettati dal tentativo di recupero della pertinenza narrativa). La traduzione non è stata minimamente un processo di normalizzazione linguistica, piuttosto di fedeltà che spesso si è risolta in un calco meccanico. Ne è venuto fuori un linguaggio godibile, anche esteticamente – proprio in virtù di quella programmatica “assenza” autoriale del traduttore sopra descritta. Le testimonianze Qualche parola sulle circostanze che hanno dato luogo e che hanno caratterizzato (e forse condizionato) le testimonianze: ben tredici sessioni (dall’ottobre 1984 al dicembre 1989), per un totale di quasi nove ore di registrazione. In primo luogo, Pietro Paciolla era a conoscenza del programma di ricerca dei raccoglitori. Sapeva dell’interesse di chi lo avvicinava per le “storie”, e man mano che la ricerca si estendeva si informava anche sui nuovi apporti maturati (chi erano gli altri informatori che aderivano e che cosa raccontavano); dunque si è sentito via via implicato, collaborando attivamente: dall’attenzione alle manovre tecniche della registrazione fino alla disponibilità a ripetere più volte (anche a distanza di tempo) gli stessi racconti. Le sedute si sono svolte quasi tutte nella sua abitazione, salvo le ultime che hanno avuto luogo nella casa di una delle figlie dove era temporaneamente ospitato. Il contesto, dunque, è stato sempre familiare e confidenziale, alla presenza di parenti e pochi estranei; uno dei raccoglitori era il nipote, un altro, amico del nipote. Man mano che gli incontri si susseguivano, essi divenivano momenti di impegno e di interruzione del tedio dei lunghi pomeriggi solitari cui la tarda età (e la sordità) lo costringeva:


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una gradita alternativa alla tv. In un certo senso, il “raccontare storie” ha recuperato per la sua situazione contingente, analogicamente, quella funzione lenitiva, affidata all’affabulazione, che lo stesso Pietro Paciolla riconosceva a beneficio del suo lavoro di un tempo: «Allora, Giorgio veniva a potare con noi. Eravamo giovani, e quello era vecchio: lo portavamo insieme per ridere, ché non sapeva neanche potare (piano piano, piano piano, piano piano; ma non sapeva...). E ce lo portavamo perché sapeva dire tante storie, e tutta la giornata lo aiutavamo noi a fare il lavoro suo»8.

Significativo il commento che fa a margine di un altro racconto: «...e alla [nostra] età è così: se noi stiamo zitti zitti, per arrivare alle due ore, che ti vai a coricare, avoglia! Ma quando uno si mette a parlare, subito scresce»9.

Questo spiega in parte l’evoluzione che si può riscontrare riguardo ai contenuti: dopo una prima fase piuttosto intensa (tra l’ottobre del 1984 e il febbraio del 1985) che vede espresso il nucleo principale del suo repertorio narrativo, le occasioni successive (quelle del 1986 e, soprattutto, del 1989) sono più inclini alle storie di vita e agli excursus autobiografici o rievocativi. Le divagazioni rispetto all’iniziale programma di recupero del patrimonio narrativo corrispondono di più a quella funzione lenitiva, una volta esaurita quella documentativa che gli era stata sollecitata dai raccoglitori. Il repertorio del narratore I primi racconti con cui si inaugurano le registrazioni sono, non a caso, quelli che Pietro Paciolla raccontava più di frequente ai nipoti quando erano bambini10 – Il priso di merda (1), Gnomettino (2) e I fatti di san Pietro Cfr. infra, p. 115. Cfr. infra, p. 150; ma si veda per intero 26 (Sulla tradizione orale). 10 Tra i raccoglitori vi era, come si è detto, uno di loro. 8 9


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(4) – riproponendo a distanza di anni una antica pratica familiare. Il flusso narrativo, poi, segue le associazioni di idee innescate dal personaggio di san Pietro, assestandosi sul tema misogino e su quello dell’avidità castigata. Dal punto di vista delle tipologie di racconto, convivono la fiaba di magia, la facezia, il racconto fantastico; ma un “genere” identificato espressamente dal narratore è quello delle storie «di Cristo» o «di san Pietro». La seconda sessione di registrazioni è altrettanto disomogenea dal punto di vista delle tipologie, anche se si impongono due delle più lunghe, articolate e gustose novelle dell’intero repertorio di Pietro Paciolla: I tredici monaci (11) e Il monaco lussurioso (13); il tema “a sfondo sessuale” che le accomuna (l’impudica intraprendenza dei monaci, con l’astuto risarcimento della parte lesa), piuttosto scabroso, rivela una nota ricorrente nel repertorio collettivo circolante a Cassano11. Le quattro registrazioni del febbraio 1985 esprimono circa un terzo dell’intero corpus di narrazioni (ventidue su sessantaquattro), e si può dire che racchiudano il nucleo essenziale del repertorio di Pietro Paciolla; esse contemplano le prime repliche di storie già narrate (12, 20 e 29), fenomeno che sarà più sensibile nelle registrazioni successive. Oltre che dalle repliche, le ultime registrazioni (quelle del 1986 e del 1989) sono dominate da testimonianze autobiografiche e da rievocazioni di vita paesana e familiare di notevole interesse documentativo (cfr., a titolo di esempio, 41, 42 e 58 per le lamentazioni funebri, o 43 per il Carnevale). Riguardo alle repliche, va rilevato per inciso che in un paio di casi si arriva a raccontare per tre volte la stessa storia: «All’orto sta lui!» (19, 39, 63) e La Banda di Brema e i tredici briganti (23, 29, 36-37); in quest’ultima è evidente come la ripetizione concorra al recupero mnemonico dell’intreccio narrativo che nelle ultime performance si dispiega con più ordine e dovizia di dettagli12. Spiccano, nell’intero repertorio, le storie bibliche recepite in chiave 11 Cfr., a titolo di esempio, Cappelli, C. Nuzzaco, F. Nuzzaco, 1997, pp. 26-37, e Angiuli, Cappelli, Di Turi, 2015, pp. 27-30 e 50-53. 12 Da notare ancora, per La Banda di Brema e i tredici briganti, che solo alla terza replica i due motivi narrativi si distinguono in due storie diverse e autonome, laddove nelle prime due occasioni erano confusamente intrecciati in un unico flusso narrativo.


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folclorica (dai fatti di san Pietro, san Giovanni Battista, santo Stefano alle vicende dei grandi personaggi dell’Antico Testamento: Noè, Lot, Giobbe, Giuseppe, Sansone, Davide, Salomone): rilevanti per Pietro Paciolla non tanto per il richiamo religioso quanto per il loro valore narrativo e fantastico. «I fatti [...] le storie dei regnanti antichi» è la definizione di un particolare “genere” di storie, nella percezione del testimone, che accomuna senza ombra di scrupolo una narrazione biblica come Davide e il gigante Golia (21) e l’epopea di Rizieri e Fioravante (22) – non a caso raccontate l’una dopo l’altra nella stessa sessione. Si tratta in questo caso di oralità secondaria, che presuppone letture dirette o indirette (con mediazione scolastica o ecclesiale) di testi scritti. Ma una più precisa idea della formazione del repertorio di Pietro Paciolla si può ricavare da quanto lui stesso dice circa le sue fonti e le circostanze in cui ha appreso quei contenuti. Sono preziose, a questo riguardo, le risposte a sollecitazioni mirate dei raccoglitori, ma ancor più le spontanee rievocazioni autobiografiche che corredano molte delle narrazioni registrate, o che sono tema specifico di lunghe storie di vita. Le fonti del testimone Alcune storie sono state apprese da personaggi precisi, nominati e descritti nelle situazioni tipiche della loro espressione, soprattutto durante il lavoro dei campi. Uno di questi è Giuseppe Mele, di cui si danno dettagli biografici puntuali, riconosciuto esplicitamente come la fonte di 8, 11, 12, e 56.Valga per tutte la descrizione che di lui il Nostro fa alla fine di 56: «Mo’, ’sto Giuseppe Mele era un lavoratore onesto, e morì vecchio.Veniva a mietere da noi – ché si mieteva con le falci –, e io ragazzino di dodici tredici anni, se pure andavamo a scuola, poi dovevamo raccogliere i mannelli per fare la gregna [...]: ogni giorno ci raccontava un fatto, cominciava dalla mattina fino alla sera».

E più volte ripete: «E io lo sto ad accorciare, ma quello stava un giorno per raccontare il fatto!». Un altro narratore specializzato, di cui si parla più volte, era il già


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menzionato Giorgio X13, addirittura ricercato in una squadra di potatori per le sue doti di intrattenitore coi suoi racconti (cfr. 45). Anche le donne hanno il loro ruolo. Di una narratrice si ha un profilo ben delineato in 58, e si è tentati di attribuire anche una funzione iniziatica al suo raccontare a ragazze nubili – lei, unica sposata – una storia allusiva “di sesso”14: «Ah! Allora tra queste sei ragazze che portavamo noi stava una donna dell’età mia – che è morta mo’, di recente –, Sabbèdde du Fetènde, la chiamavano, che era la suocera di Cellètte, Peppìne Cellètte; questa stava sposata, che era dell’età mia, e le altre tutte vacantìe. Erano arrivate le otto le nove: “Beh, tutte zitte zitte? Che siete monache? Qua dobbiamo stare fino a stasera a tirare l’erba! Dite due chiacchiere, così scresce prima!” [...]. Ad ogni modo a queste ragazze che andavano in campagna: “Beh”, dice,“mo’ ve lo dico io un fatto”, spiritosa,“mo’ ve lo dico io un fatto!”».

L’ambito ideale di tali espressioni, e dell’apprendimento nonché della trasmissione, è dunque il lavoro nei campi o la desolazione delle masserie: «Perché allora, ai tempi nostri – mo’ fanno sei ore di lavoro – si lavorava da mattina a sera: dall’alba, la mattina, fino alla sera al calar del sole, quando il sole stava per calare che non si vedeva più. Allora tutta la santa giornata, per passare il tempo – fra i tanti stavano l’uomo più vecchio, la donna più vecchia, a qualunque lavoro che [si] faceva –, allora per passare il tempo lavoravano e raccontavano le storie. [...] C’erano delle masserie, e stavano in campagna: il padrone, i figli del padrone... o erano padroni o erano fittuari [...]. E allora, stando fuori in campagna, notte e giorno, come dovevano fare per tirare notte?» (26).

Ma anche il tempo del riposo, in famiglia, le sere d’inverno: «Questa storia la raccontava mio padre, l’aveva sentita dagli altri. Cfr. supra, p. xiv. Si veda anche la testimonianza di Gerardo Statuto sui giochi e i canti maliziosi che, durante il lavoro nei campi nel «tempo del diserbo», guidavano «delle persone anziane con un po’ di malizia» («la maggioranza erano donne e qualche ragazzo»), in Imbriani, Marano, Mirizzi 1996, pp. 36-38. 13 14


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– E pure le storie di Giuseppe te le raccontava tuo padre? [...] Pure mio padre raccontava ’sto fatto; o l’aveva letto, non ricordo, o l’aveva sentito! Quando eravamo bambini, che andavamo a scuola, allora la sera – non è come a mo’ – la sera venivano dalla campagna, poi d’inverno, vicino al braciere, vicino alla cucina: allora un vecchio, o un padre, un nonno, raccontavano le storie. Non era come a mo’, che ci sono i divertimenti, le macchine, le cose» (48). «Queste sono storie che ce l’hanno raccontate pure i genitori, non sono storie lette di sopra i libri. – Chi la diceva ’sta storia? Di santo Stefano? I genitori, i nonni: detto per detto; questa non è una storia vera e propria letta da sopra i libri. [La diceva] il nonno mio, il padre di mio padre, che era un artigiano che stava sempre nel paese; faceva la guardia del Capitolo» (51).

Un altro ambiente tipico della trasmissione è la farmacia di paese; ed è interessantissima la descrizione del contesto e della situazione in cui la storia (la 18) è stata appresa: «Questa storia la raccontava un farmacista. – Chi? Era un vecchio farmacista. – E come si chiamava? Don Felice Petruzzellis. – E nella farmacia la raccontava? Siccome era una farmacia vicino alla chiesa, a Cassano, e se la facevano tutti questi uomini vecchi proprietari, allora gli volle raccontare ’sto fatto. Io mi trovai di passaggio; allora mi fermai e sentii tutta ’sta storia».

Un ruolo cruciale ha la scuola, di cui Paciolla ha ricordi vivissimi: « – E questa storia qua, invece, l’hai letta da qualche parte? Questa era una storia da sopra un libretto... un libretto che presi dalla quinta – si vendevano questi libretti, queste storie – e me lo ricordo che lo comprai questo libretto. Non era in dialetto, era... – In italiano.


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– E mi ricordo pure come incominciava. Cominciava: «Tra le aride e malinconiche [terre] di Melavia, uno sconosciuto paese d’oltremare, viveva un vecchietto con dodici... con tredici figli, e il più piccolo si chiamava Mignolino», che poi... lo sapevo a memoria e poi me lo scordai: come fai a ricordarlo? – E dove lo comprasti ’sto libretto? Beh, chi si ricorda? – A una fiera, da qualche parte? Noo! A Cassano, alla scuola, – Ah! alla scuola li vendevano i maestri» (14). «– E tu ’sta storia, qua, dove l’hai... Non l’hai sentita mai? – Io? Sì l’ho sentita. Ma tu da chi l’hai saputa? Da chi l’hai sentita ’sta storia? Lo raccontavano pure alla scuola ’sto fatto: Giuseppe venduto dai fratelli. Lo raccontavano pure i maestri alla scuola, alla scuola elementare. – E in chiesa l’hai mai sentita ’sta storia? Alla chiesa? Alla chiesa? – Eh! Alla chiesa no. – Perché questa fa parte della Bibbia, ’sta storia. E mi pare che deve stare pure. Come sta pure il fatto de La sapienza di Salomone» (24).

Altra fonte è la lettura diretta, che ha generato dunque un fenomeno di oralità secondaria di cui possiamo seguire i passaggi: «Mi ricordo che l’avevo letta quella storia di Giobbe, che era un grande profeta. [...] Era una storia che la lessi... – E dove la leggesti? ...non è un fatto, è una storia che lessi sulla... sulla... come si chiama? La storia sacra... – La Bibbia? ...la Bibbia, quando andai a Bari e me la dette la mamma di Nicola, la Bibbia, per leggere: era a caratteri grandi, tante pagine» (47). «E quei fatti, un poco letti sopra la storia sacra e un poco che li raccontavano pure quelli, stando nel paese, mio nonno e cose...» (53).


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E non mancano dei momenti pubblici e corali di comunicazione, le cui circostanze di attuazione sono descritte meticolosamente. In primo luogo la festa patronale e la fiera ad essa connessa, frequentate anche da cantastorie: «Prima [...] dalla Sicilia venivano – dalla Sicilia, prima della Repubblica, era gente povera – e venivano con una tabella scritta, all’uso siciliano, e cantavano una canzone. Allora, cantavano la canzone di Giuliano [...]. Allora tutte le storie che Giuliano aveva fatte in vita sua: quante masserie aveva visitato, quante giovani [aveva] passato, raccontavano la storia. Dopo, col piattino: gli davano quattro soldi, due soldi, tre soldi. Di là si vivevano. – E questi avevano dei disegni? C’erano dei disegni della storia di Giuliano? Eh, a nome di Giuliano, queste tabelle, stampate... – Erano stampate o disegnate? Sì... – Stampate? Eh, a nome di Giuliano, di quanti fatti aveva commesso, e cantavano con un... come si chiamavano? – ‘Carillon’? Come si chiamavano quei... kavagliuóte [sic!]? Come cazzo si chiamavano? Non i mandolini: erano i gammòlle, come un gambóne... Chissà! Non mi ricordo in dialetto come si chiamavano; giravano una manovella così... e cantavano. Allora, radunavano un gruppo di persone in piazza e cose, sentivano tutta la storia, e poi col piattino... di là si campavano, di elemosina: a piacere, non obbligati. Come quando era prima – quando ero ragazzo io –, che ci fu il terremoto in Sicilia, a Messina, Catania; fece il terremoto e venivano, spezzati di gambe, su dei carrettini trainati dai cani, due o tre cani: i cani sotto il carrozzino e il pezzente sopra, con la moglie o qualche parente. A noi, poi, per farci prendere paura, [ci gridavano]: “Corri dentro, ché mo’ viene il pezzente!”, giacché tutti i giorni arrivavano dalla Sicilia quei poveretti, per camparsi. Quando veniva una festa, come la Madonna degli Angeli, al convento ne venivano di pezzenti! E li trovavi in mezzo alla strada col piattino: chi senza gambe, chi senza braccia... tutte conseguenze del terremoto» (30c).

Ma un’occasione di incontro e comunicazione quotidiana erano so-


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prattutto i capannelli che si formavano in piazza, la sera: momento immancabile di vita sociale maschile, soprattutto per i braccianti che cercavano l’ingaggio per il giorno dopo, ma anche per i piccoli proprietari e gli artigiani del paese. Sono numerosi i richiami a questa frequentazione, fino in tarda età praticata fedelmente da Pietro Paciolla. Qui ne riportiamo uno per tutti: «La sera, per ridere, lo chiamavamo in mezzo alla piazza. Mo’ alla piazza di Cassano non ci va più nessuno, ma prima la riunione di tutti, proprietari e cristiani che andavano a giornata, era alla piazza: l’appuntamento. E siccome noi eravamo una compagnia di potatori, per sapere, “domani dobbiamo andare a quella partita, dobbiamo andare a quell’altra?”, i padroni... eravamo giovani... Si ritira il vecchio da Giorgio, una sera: “Che ne sai che che mi è capitato oggi!”. “E che ti è capitato?» Gli racconta il fatto, il vecchio, al [figlio]. Subito dopo, Giorgio scese in piazza; noi lo chiamammo per ridere e ci racconta il fatto del padre” (45).

Per concludere: sono varie le fonti, le situazioni, le occasioni della trasmissione, ma tutte ben presenti alla memoria di Pietro Paciolla, il quale non esprime una generica ricchezza narrativa, ma un patrimonio comune di fatti filtrato dalla sua esperienza personale, che è in grado di documentare e ricostruire quel passato che è stato invitato a testimoniare con una narrazione quasi ideologicamente controllata, presente a se stessa, che vuole dimostrare qualcosa. Come in questo lucido giudizio: «Mo’ è diverso: mo’ ognuno fa una vita più civile, sono quasi contrari uno all’altro; chi cazzo va a vedere nelle case se sto contento, se sto scontento, se sto malato? Oggi sono tutti... il popolo è diverso; ché prima stavano sempre in compagnia: con una scusa qualunque, “Tieni una cucchiaiata di polvere?”, “Hai un cucchiaio... una minestra di cime di rape?”, “Tieni...?”, si prestavano, “Tieni...?”, qualunque cosa in prestito, o per mangiare, o di soldi, o come sia. Era più familiare.

Potremmo dire che nel suo caso la memoria è “storiografica”: non attinge all’indifferenziato e anonimo serbatoio della tradizione. E questa non è una qualità eccezionale e anomala: è solo il frutto, a nostro giudizio, di una espressione lunga e articolata che ha goduto di una


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Detto per detto. Pietro Paciolla nella tradizione orale di Cassano

udienza altrettanto lunga e paziente, dedicata. Se si ascolta con attenzione emergono sorprendentemente il pensiero, la fisionomia, la coscienza, l’ideologia dell’interlocutore, secondo la sua particolare individualità.

Avvertenze sull’edizione dei testi Per discrezione e rispetto della privacy, riguardo ad alcune situazioni incresciose di vita privata e familiare evocate nel corso delle registrazioni, si è preferito non riportare il cognome di alcune persone direttamente menzionate dal Testimone. Per evitare di renderle immediatamente identificabili, esse sono richiamate con nomi convenzionali e sigle; in altri casi (pochi), alcuni brani delle testimonianze sono stati del tutto espunti quando i riferimenti privati erano troppo espliciti. Ci scusiamo preventivamente qualora queste precauzioni non abbiano sufficientemente schermato l’identificazione di persone o circostanze “sensibili”. Per non appesantire la lettura, sono state ridotte al minimo le segnalazioni grafiche volte a dare conto di particolarità del testo: a) l’uso del corsivo per tutti gli interventi non attribuibili al Testimone principale; essi (in prevalenza del raccoglitore) sono sempre introdotti da un trattino medio (rigato) e solo in alcuni casi una nota ne specifica l’attribuzione ad altre persone presenti, quando essa risulti rilevante per la migliore comprensione della situazione; b) i puntini di sospensione tra parentesi quadre [...] segnalano indifferentemente gli omissis dovuti a parti espunte, per le ragioni di discrezione suddette, oppure parole o frasi non trascritte in quanto indecifrabili all’ascolto delle registrazioni; c) le parentesi quadre [ ] sono state inoltre utilizzate per segnalare (anche qui indistintamente) congetture o lievi integrazioni del testo (perlopiù singole parole o preposizioni), allo scopo di rendere più fluida la lettura e più chiara la comprensione. Nella trascrizione di termini o espressioni dialettali (sempre in corsivo), si tenga presente che la e, quando non accentata, rappresenta la vocale indistinta (muta). Infine, i numeri tra parentesi tonde dopo alcuni titoli segnalano le versioni di narrazioni replicate.


Felice Pietro Paciolla 1897-1990


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Detto per detto. Pietro Paciolla nella tradizione orale di Cassano

8. Il sangiovanni con san Pietro (1) Un altro fatto di san Pietro. San Pietro... – Ne sa assai, Madonna! [...]27 San Pietro fece da compare a uno zappatore. Era uno zappatore povero, e allora andò da san Pietro e gli disse: «Vossignoria devi venire a fare il sangiovanni a una mia creatura», col desiderio, chissà, che san Pietro gli facesse la grazia di diventare ricco. Ché quello teneva tre quattro figli, bambini, tutti stracciati; abitava in una casa brutta, possedeva solo la zappa, e [si andava] sempre litigando con la moglie. Allora san Pietro accettò, ché il sangiovanni non si nega a nessuno: «Va bene, quando viene?». «Domenica.» «Domenica vengo a casa tua.» E fece il sangiovanni. Andarono a battezzare il bambino. Disse: «Beh, che vi occorre commara?», dopo il battesimo, «che vi occorre commara? Parlate, non vi vergognate, dite ciò che volete, ché io sto vicino a Cristo: ciò che volete, Cristo fa la grazia». «Noi siamo poveretti, lo vedi? Solo la zappa possediamo: né un solco di terra... non teniamo niente niente niente niente niente!» «Non t’incaricare; cosa volete?» «Vogliamo almeno un pezzetto di terra per fare due fave, due piselli, due ceci, chissà mangiamo!» «Non t’incaricare.» San Pietro andava a Cristo e gli diceva: «La commara mia ha ragione, poveretti del tutto!» «Beh», fece Cristo, «vai, sia concesso, vai e diglielo: “vai a quel posto, quel vignale di terra è tuo, coltivalo ed è tuo”». Questo andò là, prese la terra... San Pietro, ogni tanto, andava dal compare. «E mo’, non stai bene?» «Bene? Che dobbiamo fare», la moglie, la moglie dice: «che dobbiamo fare, san Pietro! Ci hai dato un vignale di terra: e per ararlo?». «E che volete?» «Vogliamo almeno un ciuccio». Andò a Cristo: «Cristo, quelli... la commara mia ha ragione: la terra! E per coltivarla?». «E che vuole, il ciuccio? Andasse là», dice Cristo, «ché vicino a quell’albero troverà il ciuccio legato, domattina, e se lo pigliasse».Va un’altra volta, san Pietro: «Commara, mo’ non state contenti? Tenete il ciuccio!». «E teniamo il ciuccio per un vignale solo? Vogliamo un’altra estensione di terra.» «E che volete?» 27 Moto d’impazienza della moglie (e forse di stizza, sentendosi giudicata dal contenuto delle due storie appena ascoltate) che era presente.


I registrazione (ottobre 1984)

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«Un altro paio di vignali attorno.» «E va bene!». Va a Cristo. Cristo gli disse: «Beh, vatti a prendere gli altri». Fino al punto che arrivarono a dieci vignali di terreno. San Pietro, tutto contento, andava alla commara e diceva: «Beh, mo’ state contenti. Dieci vignali di terra, fate il mangiare, state contenti, vi siete trovata un’altra casa...». «Eh», dice, «compare mio...!», sempre si lamentava la donna, la moglie. «E che volete?» «Vogliamo un palazzo, vogliamo... non la ciuccia, vogliamo la mula, il cavallo, vogliamo...» Andava a Cristo, fino a che – per non allungarlo più ’sto fatto – arrivò a fare il sindaco, ché voleva fare il sindaco del paese: e lo fece diventare sindaco, il marito. Dopo di sindaco, lo fece diventare dottore; da dottore, lo fece diventare ricco. E diventò ricco. San Pietro, tutte le volte che andava, [quella] si lamentava. Un giorno, alla fine dei conti, disse: «Ma che cosa volete! State bene: un palazzo, le mule, la terra. Che cosa volete?». Dice: «Eh, vogliamo una cosa che poi si porta almeno il nome.» «E che nome volete?» «Vogliamo essere re di cielo e di terra», disse la moglie. (Questo è per abbreviarla, ché, se no, ci vuole un giorno per raccontarla.) San Pietro glielo voleva dire e non glielo voleva dire; però, è la forza... dice: «Cristo, la mia commara sai cosa vuole? Vuole diventare re di cielo e di terra». «Eh, questo è tutto?», fece Cristo. «Diglielo: “domani mattina, alle otto, fatevi trovare alla tale strada, in quel bosco”». La mattina seguente san Pietro, allegramente, va alla commara: «Ha detto Cristo, ’gnorsì! Domattina, alla tale ora, alle otto, andate là». E si fecero trovare il marito e la moglie. Andò Cristo, e san Pietro. Disse: «Cosa volete voi?». «Vogliamo diventare re di cielo e di terra.» Disse: «Beh, uno salisse su quell’albero e l’altro su quest’albero». Li fece salire tutti e due sugli alberi; gli dette la benedizione e diventarono tutt’e due civette. E cominciarono ad andare volando, tutt’e due uccelli, civette. La moglie diceva al marito: «Tu c’hai colpa!», e gridava, e svolazzava. E quell’altro diceva: «Io? Sei tu la zoccola28!», e si maledicevano l’un l’altro. 28 Dial. vrèttele dal lat. veretilla (donna sfacciata, di malaffare, intrigante, bisbetica). L’etimologia è incerta: probabilmente da vretum (cozza), donde veretum (sesso femminile). In italiano ‘veretillo’ è un genere di celenterati marini comuni sui fondali a breve distanza dalle coste del Mediterraneo.


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Detto per detto. Pietro Paciolla nella tradizione orale di Cassano

9. Il sangiovanni con la Morte C’erano due fratelli, due fratelli – in dialetto, du fràte –, uno era ricco ricco ricco ricco, e l’altro era vagabondo29 e povero. Uno era padrone di masserie, di palazzi, tutti i figli studenti, e questo poveretto sempre litigato, teneva due tre bambini e abitava in un sottanino30, dentro una stalla. Andava per ‘promettere’31 in piazza, e non trovava lavoro, perché era vagabondo; si ritirava alla casa e faceva sempre lite con la moglie. E l’altro, ricco, che mangiava, beveva, teneva ogni cosa con lui: masserie, palazzi, i figli studenti. Ma non si guardavano in faccia, perché uno ricco e l’altro povero. Siccome si litigavano sempre – la moglie aveva fatto... erano otto giorni che aveva partorito, aveva fatto un altro bambino –, disse alla moglie: «Sai che dobbiamo fare? Ho pensato che devo arrivare a Santeramo – un paese vicino –, devo andare a cercare un compare per fare il battesimo, un compare che ci possa aiutare». La moglie era contraria, diceva: «Il compare? Al compare gli devi fare la guantiera dei dolci, la bottiglia del rosolio, devi ‘comparire’: e tu non tieni niente, tu non tieni manco un soldo!». Incominciarono a litigare l’uno con l’altra. Intanto, quello disse – la lasciò nel letto, la moglie –, disse: «Io devo andare a Santeramo, ché devo andare a cercare un compare!». Gesù Cristo, che sapeva tutto, si fece trovare a cinquecento metri: un uomo con la barba lunga. «Uèh, bell’uomo», dice, «dove vai?». «Eh!», dice, «devo andare a Santeramo, devo andare a cercare un compare ché mia moglie ha partorito, e voglio fare il sangiovanni per il battesimo». Dice: «Beh, vuoi risparmiare i passi? Vengo io a fare il compare, ho piacere di venire io». «E Vossignoria chi sei?» «Io? Lo sai chi sono io? Cristo.» «Va’ ’ffa ’n culo tu e chi [mi] ti ha fatto trovare davanti! Lo sai che sono pezzente?», l’abbandonò, lo bestemmiò e se ne andò; dice: «Se mi volevi aiutare mi avresti aiutato. Statti bene!», lo lasciò e se ne andò. Nel senso di ‘infingardo’. Dial. jusarìdde: locale angusto, ricavato spesso nei sottoscala o sotterraneo, privo di sbocchi d’aria, usato come pollaio o conigliera o stalla. 31 Dial. premmètte, ‘promettere, dare la parola, prendere (o dare) l’ingaggio’. 29 30


I registrazione (ottobre 1984)

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Via via, Cristo [gli] fece incontrare san Pietro, chissà lo ‘maturava’32: altri cento metri, fece trovare san Pietro. «Bell’uomo, dove vai?» «Io devo andare a Santeramo, a cercare un compare», gli raccontò il fatto, lo stesso. Dice: «Beh, se vuoi risparmiare i passi vengo io a fare il sangiovanni». «Chi sei tu?» «San Pietro.» E bestemmiò lo stesso come a Cristo, delle parolacce, brutte; disse: «Ché se mi volevi aiutare, san Pietro, mi avresti aiutato! Io sono un pezzente, apposta vado a Santeramo: se trovo una persona che mi aiuti!». Intanto, via via, arrivò a Santeramo e trovò un uomo magro magro, di sole ossa, e alto, con una voce fina fina. Era la Morte, e gli disse: «Dove vai, compare?». «Vuoi sapere? Devo andare a Santeramo a cercare un compare, a pregare qualcuno che faccia il sangiovanni per la creatura che è nata.» «Hai piacere che venga io?» «E chi sei Vossignoria?» «La Morte.» «Beh, e andiamocene!», accettò.Via via disse: «Beh, io sono la Morte, mi devi... ti devi confessare con me: cosa vai cerando? Ché io ti posso aiutare». E allora questo poveretto disse: «Vuoi sapere?», a piedi, venendo da Santeramo a Cassano, disse: «Vuoi sapere? Noi siamo due fratelli: mio fratello è ricco ricco ricco ricco e non mi guarda neanche in faccia, e io sono pezzente, che quando vieni a casa vedrai la posizione dove abito, e vedrai le creature tutte scalze!»; dice: «Io voglio che Vossignoria, se sei buono, mi devi aiutare: solo che mi metti nella condizione di poter campare; perché sempre litigato con mia moglie, vado in piazza per promettere e non mi vuole nessuno...». «Beh, va be’ compare», dice la Morte, «a me sei venuto a trovare? Ho avuto piacere. Tu sarai uno ricco, devi superare a tuo fratello, te lo dico io da qua!». Il cazzo dello zappatore, tutto allegro; tutte le cose che gli diceva stradafacendo, dice: «Non t’incaricare, sei venuto giusto a trovare me; ché tu devi passare bene, da domani devi passare bene! Però...», arrivando arrivando alla casa, disse, «se mi vuoi sentire diventerai ricco, se non mi vuoi sentire sempre pezzente sarai! Tu la zappa la devi gettare». «E che devo fare?» «Tu farai il dottore, sarai... devi fare il medico. Il medico che farai tu deve superare tutti quelli della provincia, e ti darò io la dritta». E questo ascoltava tutto; dice: «Mo’ andia32

Intendi: ‘lo ammorbidiva, lo raddolciva’.


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Detto per detto. Pietro Paciolla nella tradizione orale di Cassano

mo a fare il sangiovanni, che poi dobbiamo uscire e ti darò io la regola, ché tu devi cambiare mestiere». Come arrivarono alla casa – questo allegro allegro, ché gli aveva fatto queste promesse –, la moglie, vedendo quest’uomo mazzo, brutto (non era ben fatta la Morte): “Mala disgrazia ti venga! Sei andato fino a Santeramo”, nell’animo suo, “per trovare ’sto vituperio di cristiano?”. Mah, apertamente non poteva parlare. La Morte disse: «Come andiamo, commara?». «Eh, come vuoi che vada! Siamo pezzenti, siamo poveretti, vogliamo qualche aiuto.» «Non t’incaricare, farò io! Se dobbiamo fare il battesimo», dice, «non vi preoccupate per i dolci, non vi preoccupate per il rosolio e cose... niente. Io sono un cristiano che non mangio e non bevo: io sono la Morte. Lo dico a te: io vado girando tutti i paesi, da un paese all’altro, non mi riposo mai.Vado solo uccidendo cristiani, faccio morire i cristiani, e non mangio e non bevo». «Meh, va bene!» Presero la creatura, fecero il battesimo.Vanno al battesimo. Dopo fatta la cerimonia del battesimo disse: «Compa’, usciamo un momento».Andarono in un posto e gli disse: «Tu domani sera», gli dette i soldi, «vai in un negozio, comprati un vestito e un bastone e vestiti da dottore. Domani sera, quando in mezzo alla piazza stanno a ‘promettere’ gli zappatori, i compagni tuoi», ché prima, in piazza, si andava per ‘promettere’ la gente: andavano i padroni e facevano l’ingaggio, «tu basta che vai dicendo... col bastone, fa’ così, vestito col rullo33 in testa, ben vestito, basta che vai dicendo “Che io so’ medico, che io so’ medico!”. Tre giorni deve soffiare lo scirocco: chi ti deve dare uno spintone, chi ti deve menare uno stelo di lattuga, chi ti deve menare... devi resistere. Tre giorni mena lo scirocco: si devono persuadere, la gente, e dopo tre giorni verrò a trovarti io. La prima visita che farai deve essere a tuo fratello, e poi ti dirò ciò che devi fare». E così fece. Gli dette i soldi, la mattina dopo si veste a... pulito come un dottore, col bastone, e andava dicendo: «Che io so’ dottore, che io so’ dottore!». «È diventato pazzo!» Arrivò la notizia al fratello. Gli altri ricchi, come il fratello: «Ma quello ti è fratello, aiutalo, dagli un sacco di grano; tieni tre quattro masserie, tieni tanto grano: mandaglielo, almeno mangiano le creature!». «Meh, va bene», disse ai compagni, quello, «va bene, qualcuno di questi giorni glielo 33

Il ‘cilindro’.


I registrazione (ottobre 1984)

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do». Lo raccontò alla famiglia, il fratello ricco, disse alla moglie, ai figli che «Vedi che sono stato chiamato da Tizio [e Caio] e m’hanno detto “aiuta tuo fratello!”. Gli dobbiamo mandare un sacco di grano». «E così glielo dobbiamo mandare?», disse la moglie, «Noo! Faremo uno scherzo, dobbiamo fare una prova». E allora dopo tre giorni che ebbe quella caricatura dai compagni (“Questo è uscito pazzo!”), scese la Morte e lo andò a trovare: «Tu solo mi vedi. Quando sei chiamato dal malato, e io mi metto al capezzale, vicino alla testa del malato», dice, «è inutile, non ci vogliono medicine: deve morire. Se mi vedi ai piedi: un bicchiere d’acqua. Un bicchiere d’acqua; gli alzi la testa, gli dai un bicchiere d’acqua: allora stesso risuscita. Questa è la medicina tua, senza saper né leggere né scrivere. Però zitto, non dire niente neanche a tua moglie; questa è la medicina tua. Quando ti chiedono, gli altri – ché sarai chiamato dagli altri dottori –, dirai: “Io sono medico analfabeta, però so se uno deve morire o non deve morire”». Il fratello ricco, la moglie coi figli pensarono di fare una scorpacciata, di mangiare a caricatura; mangiarono bene e si addormentarono, dopo mezzogiorno, ché era di stagione34. Disse a un servo: «Va’ a chiamare mio fratello, il medico», per vedere... per dargli un po’ di caricatura; e poi doveva dargli il sacco di grano. E chiamarono questo, andò un servo a dire: «Vieni, ha detto tuo fratello che si sente poco bene, sta a letto». Quando, entrando entrando nella camera... ah! Come arrivò su, al palazzo, la cognata cominciò a maltrattarlo: «Lazzarone, questo...», tante parolacce. «Io so’ medico», disse, «mi avete mandato a chiamare; dice che mio fratello sta malato: voglio vedere». «Beh, ed entra!» Lo fecero entrare nella camera da letto. Quando vide la Morte al capezzale del letto, disse: «Eh, cosa brutta», in faccia alla cognata. «E com’è?!» «Com’è? Questo deve morire, è vicino a morire. Questo, quando sono le due le tre, sarà morto. Aggiustatevi i servizi, qualche testamento, ché questo già è morto!» Lo presero a stampate in culo, sì, lo presero a stampate in culo, a calci e cose, e lo mandarono scale scale. Da mezzo le scale, col bastone: «Aggiustatevi i servizi, ché questo è morto, verso vespri deve morire!». Come se ne scese il fratello medico da sopra, quello cominciò: «Ah, ah, aah!», cominciò il fratello ricco a lamentarsi. Alle due le tre, all’orario che aveva detto il medico, morì. 34 ‘Di

buona stagione’, vale a dire: ‘d’estate’.


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Detto per detto. Pietro Paciolla nella tradizione orale di Cassano

Dopo che morì, tutti questi signori, ricchi, a fare la visita, e dottori: «E com’è morto? Una paralisi, questo, quest’altro?» «Vuoi sapere?», com’è uso e consuetudine raccontavano il fatto, la famiglia, «Vuoi sapere? Abbiamo fatto uno scherzo: manda a chiamare quello scemo, quel pezzente, quel brutto... per dargli un sacco di grano, per aiutarlo. È uscito pazzo! Quello piglia e dice che deve morire: è morto!». I dottori drizzarono le orecchie. «Mandatelo a chiamare, mandatelo a chiamare!» Lo mandarono a chiamare, quando c’erano tutta la casa, tutti gli amici che erano venuti al morto: lo mandarono a chiamare. I dottori andarono in una stanza a parte; i dottori: «Com’è stato il fatto che tu... così così così?». «Che, vi volete mettere voi con me?», incominciò a... agli altri dottori. «Io so’ superiore a voi; non fa niente che non so scrivere e non faccio né ricette né niente. Io so’ superiore a voi. Chi deve morire morirà, chi deve campare camperà.» E voltavano e giravano, e così e colà: per sapere le medicine. Dice: «Noo! Medicine non ce ne sono: la medicina mia è un bicchiere d’acqua», li lasciò e se ne andò. – Questi sono fatti falsi! Mo’, chissà se è vero o no35. Allora la Morte, dopo che si è seppellito il fratello ricco, dice: «Hai visto? Il paese è pieno che tu sei dottore: mo’ mo’ ti devono chiamare gli altri. Domattima... lo vedi quello ricco ricco ricco?» – che era un... un principe –. «Tiene un unico figlio ed è malato di tubercolosi» – nello stesso paese – «e deve morire, deve morire. Chissà quanti soldi darebbe a un medico, basta che si guarisce; ha fatto venire pure i medici dalla Francia», disse la morte, «però doveva morire. Per te, per arricchire te non lo faccio morire, ché tu devi prendere il nome, così la sfondi.Vedi che domattina deve venire quello a chiamarti, un servo, un mandatario di questo principe, per il figlio; perché la voce si è sparsa per il fatto di tuo fratello. E chiedigli quattro, cinque sacchi, ché quello ti deve portare a vedere i sacchi di marenghi d’oro, deve caricare il carretto e ti deve arricchire, a te». «Sine!», rizzò le orecchie questo. «Però a tua moglie non le devi dire mai niente di quello che ti dico io.» Il giorno seguente andò il principe... un mandatario, e gli disse: «Dottore, ho saputo che tu fai i miracoli. Mi devi... devi venire a fare una visi35

È la moglie del narratore, presente, a intervenire.


I registrazione (ottobre 1984)

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ta a mio figlio, ché tutti i medici hanno detto che deve morire. Mo’ Vossignoria, che sei un dottore superiore a tutti gli altri, mi devi fare una grazia; l’unico figlio che tengo, quanti soldi vuoi». E lo portò in un sottoscala, a palazzo, e gli fece vedere cinque sacchi di marenghi d’oro. «Mo’ carico il carretto e li mando a casa tua, e poi vieni a fare la... – Era un sacco, [ora] cinque sacchi!36 ...che poi vieni a fare la visita». «No no no, non c’è bisogno», dice, «prima voglio vedere il malato». «Stammi a sentire, mo’ te li mando a casa, i cinque sacchi. Me lo devi far guarire, mio figlio, fammi la grazia! Me lo devi far guarire!» Piglia, glieli mandò i cinque sacchi dei... perché li aveva messi in conto. Come arrivò, visti i cinque sacchi, la moglie – che era diventata ricca, che [avrebbe] comprato un’altra casa migliore – cominciò a rizzare le orecchie; gli voleva bene mo’, al marito, non si litigavano più. Andò su dal principe; aprì la... allora la Morte, che gli aveva dato l’intesa, invece di trovarsi al capezzale si trovava ai piedi. «E chi fatuo ha detto... quale dottore? Ma questi non capiscono niente! Come, quello deve morire?! Questo a mezzogiorno deve mangiare con voi. Tenete un bicchiere d’acqua?» «Sì.» Prende un bicchiere d’acqua fresca, gli solleva la testa: «Bevi, bevi giovanotto, bevi!». Come bevve, incominciò a parlare; dice: «Papà, sto bene, sto bene, mi voglio alzare, voglio mangiare con voi a mezzogiorno!». Figurati il principe, il priscio37. Dice: «Chi fatuo...? Dì a quei fatui che sono venuti fino a mo’ che non capiscono niente. Come, doveva morire! Un giovane come quello deve morire?». A mezzogiorno si alzò a mangiare. E [quello] si buscò cinque sacchi di soldi. – E cinque sacchi [di] ‘percochi’: di’ un sacco! Incominciò il nome sui giornali, incominciò sui giornali: arrivò alla Francia il nome di ’sto zappatore che guarisce pure i malati di tubercolosi, a un altro principe, in Francia, con lo stesso caso: il figlio come quello – per abbreviarla –, unico figlio, e pure malato di tubercolosi. Sul giornale: che ha guarito quello dell’Italia. Lo mandò a chiamare. Però la Morte, 36 È sempre la moglie che interviene. Protesta sul numero dei sacchi. In realtà è lei a non aver seguito: ha ancora in mente l’unico sacco di grano che il fratello ricco aveva riservato al povero. 37 Calco dal dial. prìsce: ‘allegria’, ma è una contentezza per una soddisfazione, una gioia piena di aspettative.


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la Morte, non si fece vedere. Ebbe il telegramma: “Venite a passare la visita in Francia a mio figlio. Il principe così così...”; ma con la Morte non parlò. Si era fatta una posizione, palazzi, figli studenti, masserie: era diventato ricco, superiore al fratello (perché il fratello era morto). Siccome non andò la Morte, fece di testa sua: andò in Francia. E fece tale e quale all’altro principe quello: gli fece vedere i soldi... mo’ fece tutto per chiamarlo dall’Italia, coi soldi. «E se non vedo il malato?» Dice: «Noo, te li spedisco, ché tu mi devi fare la grazia!». Intanto – sempre per abbreviarla –, va su dal malato.Vide la Morte a capezzale, vide la Morte a capezzale. “Deve morire, deve morire!”, rimase pensoso. «Eh», fa il principe, «mi devi aiutare; hai fatto riprendere quello, lì in Italia! Che io non ne tengo più figli, falla la grazia, e questo e quest’altro...». Si riebbe e pensò, da solo, e disse: «Beh, di quattro giovanotti ho bisogno, di diciassette diciott’anni». «Pronti!», [li chiamarono]. «Il lettino, mentre sta qua, uno da un punto l’altro dall’altro, la branda – o il lettino –, a comando “un due e tre”: allora, da qua la testa si deve trovare là, e i piedi si devono trovare qua». «Pronti!» I quattro giovani, se li scelse, e fece ’sto scherzo, di testa sua. Scelti... la Morte, tuc, urtò la caparella là e rimase ai piedi. Dato un bicchiere d’acqua, si rianimò quello: gli riuscì il fatto, ma la Morte gli fece un’occhiataccia quando cadde a terra. Si ruppe la testa la Morte. Lui la vedeva ma gli altri no. Quando si ritirò a casa sua... – i soldi erano già là, arrivati alla casa, e lo ringraziò questo principe della Francia, lo mise sui giornali – arrivò con ritardo: lo tennero otto giorni a mangiare alla casa, per la gioia; dopo otto giorni prese il treno e venne in Italia. Quando arrivò in Italia, tutto allegro (“Mo’ che vado a casa, figurati, la moglie, i figli mi devono voler bene, tanti soldi!”), come arrivò là, vicino al portone, la Morte lo agguantò – come suonò il campanello – lo agguantò da dietro, qua38, la Morte, e lo fece morire dietro al portone. «Non bastava quanti soldi ti eri fatto! Senz’ordine mio... mi hai fatto sbattere di testa a terra... avanti, vienitene!» «Ma dammi tempo di salire sopra!» «No, devi morire», e lo fece morire sotto il portone.

38 Espressione accompagnata dal gesto eloquente delle dita che stringono il collo sotto la nuca.


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Detto per detto. Pietro Paciolla nella tradizione orale di Cassano

insomma, quello a guardare! Quando videro che stava portando il piatto dei maccheroni e s’avvicinava a loro – dice: «Non credo che se lo porta indietro» – non potettero resistere più; fece il [rognoso]: «La vedi una nave in mezzo a mare? – e si grattò così41 contro il muro – la vedi una nave in mezzo al mare?». Fà il tignoso: «Dove sta?»42. Il moccolone: «La ve’!»43. – E i maccheroni se li mangiarono? Eh? – E il piatto dei maccheroni? Se lo frecarono? E sì, [gli] misero compassione, poveretti; era un signore... Per ridere. 11. I tredici monaci Si sposò un giovanotto – mo’, di quei tempi, erano tutti pastori – ed ebbe una bella giovane per moglie. Questo pastorello veniva ogni quindici giorni: quindici giorni stava alla masseria; il sabato sera, stava un giorno, la domenica, e poi se ne andava alla masseria. La moglie, questa bella giovane, stando in ozio, si decise di andare al convento – convento come a Cassano –: stavano tredici monaci, tutti giovani. Allora fece una passeggiata e andò al convento. Andò al convento coll’idea di confessarsi, di trovare qualche persona magari conosciuta. Intanto, come arrivò al convento – non sai che stanno i confessionali che... dove si confessa? –, i monaci tutti dentro i confessionali, uno accanto all’altro; come la videro, incominciò il primo a chiamarla: «Psss, pss! Vi dovete confessare?». «Sì.» Cominciò a dire qualche parola. Disse: «Siete una bella giovane: quanto volevo venire a casa tua!». Quella era una ragazza onesta: come sentì di dire queste parole, così, lo lasciò e se ne andò. Lasciato quello, l’altro: «Pss!», la chiamò, «Vi dovete confessare?». «Sì.» Ricominciò, un’altra volta, a parlare in confessione. «E che bella giovane, e così..., Il narratore si struscia le spalle alla parete. Il narratore mima il gesto del tignoso che si gratta la testa. 43 Il gesto del moccolone che, indicando la nave all’orizzonte, fa passare il dito sotto il naso per pulirlo dal moccio, mimato dal narratore, fa esplodere l’ilarità a conclusione della facezia. 41 42


II registrazione (18.2.1985)

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quanto... e dove abitate?», tante domande che faceva per prendere amicizia. Passò, per farla breve, passò per tutti i tredici monaci e si arrabbiò solamente, non si confessò, e se ne venne arrabbiata alla casa. Specie che era un sabato. I primi tempi sposati, il sabato, tutto contento il marito – il pastore – ché doveva trovare la moglie allegra! La trovò con tanto di muso. «E ch’è successo? Hai litigato con tua madre, hai fatto questioni con qualche altro?» «None!», lo voleva dire e non lo voleva dire il fatto, perché non conosceva ancora il tipo del marito. In tutti i modi si decise a dirlo («Dillo, dillo, dì il fatto!»), e gli disse il fatto com’era successo. Il marito, che era un ragazzo attivo, disse: «Non ti guastare la bile! Domani a otto giorni44 devi andare di nuovo da quei signori e gli devi dire: “Tu, se vuoi venire a casa, devi venire quando fa buio, verso le otto, sette e mezza le otto. Però mi devi portare una mille lire, ché noi siamo poveretti: per darti da mangiare, per alloggiarti; ché noi siamo pezzenti!”», mille lire di allora erano i milioni di mo’. «Devi portare mille lire.» «Sine, sine», tutto allegro il monaco. Gli dette la mano...45. «Li devi passare tutti e tredici e gli devi dare mezz’ora d’intervallo l’uno dall’altro: così i tredici monaci, per tutta la nottata, devono venire tutti a casa», disse alla moglie. «Noi abbiamo quella cisterna46», che era come un pozzo senz’acqua, con la scala di dieci dodici gradini. Dice: «Facciamoli scendere; come arriva[no], io devo stare fuori, nascosto; non mi conoscono. Quando, giusto, sarà venuto il monaco, tu prima di tutto fatti dare la mille lire; dopo io devo... tupp tupp... devo bussare. E allora: “Chi sei?”. Alla mia voce, devi dire: “Mio marito! E allora, sai che vuoi fare? Ancora siamo scoperti: schiaffati nella cisterna”. Poi tira la scala e lascialo lì dentro, col coperchio sopra». Le fece questa scuola, colla morale, alla moglie, le disse tutto il fatto come doveva nascere. «Beh, lo vuoi tu?» 44 ‘Fra

una settimana’. Dalle istruzioni del marito il racconto è scivolato nella situazione di fatto che si stava solo prefigurando, come spesso avviene nei racconti orali. Ma il narratore recupera subito la coerenza narrativa. 46 Dial. fògge (dal lat. fovea, fossa): cisterna scavata sotto il pavimento di una casa o di una masseria che serviva come deposito per i cereali o per raccogliere l’acqua. 45


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Detto per detto. Pietro Paciolla nella tradizione orale di Cassano

«Sì, voglio io, devi tentare, ché io il pastorello non lo voglio fare. Se sono tredici monaci ci buschiamo tredici mila lire: e io cambio mestiere!». E va bene! Invece di andare il giorno dopo, aspettò sette otto giorni. Come la videro un’altra volta, i monaci con più insistenza la chiamavano. Allora quella, cheta cheta, disse: «Beh, va bene, vuoi venire a casa? Però devi venire quando fa buio, quando non ci vede nessuno, se no mi possono infamare47: “il monaco nella casa di quello”». «E va bene; a che ora dici tu?» «Alle otto.» «E alle otto!». Alle otto precise si consegna il primo monaco. Il marito – che stava a [far] la spia, in una stradella –: tupp tupp. «Eh, mio marito, mio marito! Lo sai che vuoi fare? Nasconditi abbasso, ché quello forse è venuto a pigliare qualche cosa e se ne deve andare». Fin tanto che ci dava chiacchiere, il marito alla moglie, passa la mezz’ora. Quello se ne usciva, il marito – «Che mo’ deve venire!» –, e arrivò l’altro ganzo. Perché tutti i monaci non... ognuno non sapeva questo segreto, ognuno se ne stava zitto, per conto suo. Per abbreviarla, per tutta la nottata, con mezz’ora d’intervallo, finirono tutti nella cisterna. I primi che si trovavano: «E tu, come ti trovi [qua]?». «Così e così...», si raccontavano il fatto l’un l’altro. «Chissà che ci deve capitare!» L’essenziale: quando si assicurarono che i tredici monaci stavano nella cisterna, disse il pastore alla moglie: «Metti l’acqua bollente nelle caldaie, ché tanta ne dobbiamo fare che li ammazzeremo tutti». Quando si assicurarono che i monaci erano tutti morti, lì abbasso... in quel paese stava uno scemo che era forzuto, era... teneva forza, era giovane ma era scemo. E il mare era vicino. Schiaffarono un monaco dentro a un sacco e gli dissero: «Vedi, questo è un monaco. Tu, questo sacco, lo devi gettare in mezzo al mare. E attenzione, ancora arriva prima di te! Gettalo al largo, non vicino alla spiaggia», e lo scemo, col sacco addosso... «Ché ti devo dare tanto, una mille lire!». Come tornò là, gli fecero trovare l’altro monaco nel sacco. Andò per farsi pagare... andato... «Quello è arrivato prima di te! Non l’hai gettato al largo, l’hai gettato alla riva!». Senza che allunghiamo il fatto, andò a finire che tutti e tredici i monaci, questo, a uno a uno a uno a uno, li portò a mare. Se non che [al]l’ultimo, il tredicesimo... qua era il mare, a pochi passi stava la strada... da un altro paese – come, ad 47

Dial. assì nu lóse: ‘attribuire una cattiva fama, un’ignominia’.


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esempio, a Cassano, da Acquaviva – veniva un altro monaco, con la barba e con le bisacce, sopra un ciuccio, che andava alla questua dell’elemosina – ché quella... quella era l’usanza di allora. «Ah!», lo scemo, che non vedeva nessuno, era di sera, non era schiarito ancora, non si vedeva, era buio ancora alla marina, «Per questo arrivi prima di me! È che vieni a cavallo del ciuccio mentre io me la faccio a piedi!». Piglia il monaco di sopra al ciuccio, lo trascina e lo menò nel mare. Prende l’asino per la cavezza e lo portò al pastore. Disse: «Tie’ il ciuccio. Che quello, per questo arrivava prima di me: se ne veniva a cavallo del ciuccio!». – E ne uccise quattordici! E furono quattordici. – E chi te li raccontava ’sti fatti? Chi me li raccontava? – Eh! Gli uomini che venivano a mietere – non sai? con le falci –; e noi da bambini andavamo alla mietitura... – E quello che... e quel fatto che... – Fagli dire ’sto fatto, aspetta. ...alla mietitura, non sai? ad aiutare a prendere i grègne48, a trasportarle, a... facevano i stregàle49. E allora c’era un uomo che tutta la santa giornata, si pigliavano dalla mattina fino alla sera – che io li accorcio –, diceva un fatto dalla mattina alla sera, tanto l’allungava. Mo’ ti devo dire un altro fatto. – Aspetta. 12. Il sangiovanni con san Pietro (2) – Il fatto? Intitolato: il fatto di san Pietro. Covoni. Formati da 17 (quelli di avena) a 32 covoni (di grano o orzo), opportunamente sistemati a piramide, gli stregàle erano lasciati sul campo mietuto in attesa di essere poi trasportati e radunati a destinazione nella méte (la bica) sull’aia. 48 49


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