Giovanni Isgrò
L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone (1549-1639)
Indice
Introduzione
9
Tentativi di regolarizzazione preteatrale: l’illusione della buona accoglienza nei primi anni della missione
18
ii.
La prima stagione degli spettacoli della fede
31
iii.
Verso gli anni felici della scena evangelizzatrice: il ruolo regolarizzatore di p. Valignano e l’ambasceria giapponese in Europa
53
iv.
Il ritorno dell’ambasceria
79
v.
Dalla rappresentazione del martirio al theatrum martyrum
94
Appendice i
114
Appendice ii
125
Illustrazioni
153
i.
Introduzione
Questo studio è dedicato alle pratiche sceniche messe in atto dai gesuiti nel corso della loro avventura evangelizzatrice in Giappone dalla seconda metà del Cinquecento alla definitiva chiusura alla cristianità avvenuta nel 1639. L’indagine è stata resa ardua dalle effettive difficoltà riscontrate dalla Compagnia di Gesù ad attuare un’azione regolare e costante, anche per mancanza di un appoggio politico-militare ufficiale da parte della monarchia del Portogallo, territorio di provenienza di buona parte dei missionari diretta nella terra del Sol Levante. L’alto livello di civiltà raggiunto dalle ricche classi dominanti giapponesi, che si ritenevano depositarie di un sapere al di sopra di qualsiasi altra realtà culturale, costituiva sicuramente uno degli ostacoli principali da affrontare. La diffusa instabilità politica nei 66 regni dell’impero, formalmente sottoposti all’autorità in realtà effimera dell’imperatore, spesso in lotta fra di loro e tormentati da continui conflitti interni volti a ribaltare improvvisamente l’assetto sociale, si rivelò a sua volta causa Ciononostante può sorprendere l’elevato numero di convertiti in uno spazio temporale relativamente breve. Dall’inizio dell’evangelizzazione ad opera di san Francesco Saverio (1549) all’inizio degli anni Settanta divennero cristiani 30.000 giapponesi a fronte di appena 15 religiosi impegnati sul campo. Dal 1582 i convertiti avevano raggiunto le 150.000 unità, che appaiono già raddoppiate nel 1596, nell’epoca in cui era vescovo di Nagasaki D. Luis Cerqueira. Nella lettera annua del 5 novembre 1549 inviata da Congoxima, Francesco Saverio testimonia la presenza nel Meaco di cinque università e di 3.500 studenti nella sola Bandon; mentre altre piccole università erano sparse nel regno (Cartas que os padres e irmãos da Companhia de Jesus escreverão dos Reynos de Japão & China aos da mesma Companhia da India, & Europa, des do anno de 1549 o de 1580, Evora, Manoel de Lyra, 1598, I, f. 14v; da ora in poi Cartas, Evora). Nella lettera annua inviata da Yamaguchi il 29 settembre 1551, p. Cosimo Torres scrive che i giapponesi sono «homes de muy altos e agudos engenhos» e che «a seu parecer nau ha outra gente no mundo de mais saber, nem de mais honra que elles» (ivi, f. 18).
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di frequenti cambiamenti dei rapporti con i cristiani convertiti, a un certo punto degenerati in vere e proprie persecuzioni, fino all’esecuzione di efferati supplizi, senza trascurare l’ostilità dei bonzi, ossia dei sacerdoti buddhisti, che vedevano minacciato il loro potere dalla presenza moralizzatrice ed evangelizzatrice dei gesuiti. A tutto questo si aggiungano il pericolo delle frequenti incursioni dei corsari durante gli spostamenti per mare e le obiettive difficoltà di penetrazione nelle isole dell’arcipelago giapponese, soprattutto nel tempo della clandestinità, dovute alle avversità climatiche e alla complessa configurazione paesaggistica, articolata in buona parte in aree impervie e di difficile accesso; né secondario fu il problema della lingua, che ritardò l’azione catechetica dei primi padri approdati nel nuovo territorio. E ci furono incomprensioni e contrasti interni all’Ordine, in particolare sul modo di gestire il rapporto con il popolo giapponese. Al di là della strategia iniziale messa in atto da Francesco Saverio, volta a favorire la conversione al cattolicesimo, presto superata lungo il percorso evangelizzatore dalla Compagnia, contrasti vi furono di diversa natura. Riguardavano l’ammissione al grado di padri dei novizi e degli irmãos (fratelli) giapponesi, che sia pure non adeguatamente preparati da un lungo, necessario tempo di assimilazione sul piano teologico, effettivamente mantenevano un proficuo dialogo con le popolazioni locali. Oggetto di controversie fu pure, come si vedrà, la posizione di p. Alessandro Valignano nel periodo in cui svolse il suo ruolo di visitatore della missione giapponese relativamente alla opportunità di adeguarsi quanto più possibile ai costumi e alla cultura nipponica, rispetto alla quale lo stesso generale dell’Ordine, p. Acquaviva, non mancò di chiedere chiarimenti. E ci fu anche contrapposizione, nel collegio di Macao, l’avamposto cinese più vicino al Giappone, in particolare dopo il 1604, fra chi riteneva più oppor Nella lettera annua del 20 ottobre 1552 inviata da Yamaguchi, p. Cosimo Torres scrive fra le altre cose che i bonzi facevano di tutto per screditare i gesuiti «dizendo que eramos demonios e que por nossa causa viera tanto mal aquella terra» (ivi, f. 19r). In realtà, scriveva l’irmão João Fernandez esattamente un anno prima che «os bonzos dizem muito mal de nosoutros, porque os reprendemos de seus pecados» (ivi, f. 21r). Sembra che sia da attribuirsi al primo giapponese convertito, di cui si parlerà fra breve, il suggerimento dato a Francesco Saverio di identificare il Dio cristiano con il Dio Dainichi (altre analogie riguardavano: la “Trinità” rispetto a Go-Chi, l’angelo rispetto a Tennin, il demone rispetto a Tengu, “l’anima razionale” rispetto a Tamashi, ecc.).
introduzione
tuno avventurarsi nel pericolo delle missioni durante il triste periodo delle persecuzioni e dei martìri rispetto a chi era orientato a far rimanere al sicuro i padri impegnandoli nell’insegnamento e nell’esercizio delle arti. D’altro canto ci fu, almeno fino all’inizio degli anni Novanta del Cinquecento, una certa disponibilità di esponenti della nobiltà locale ad accogliere i padri della Compagnia. L’atteggiamento favorevole era dovuto, nella maggior parte dei casi, a due ragioni fondamentali: da un lato i ricchi giapponesi, soprattutto delle aree prossime ai centri portuali nel Sud del grande arcipelago, vedevano i gesuiti strettamente collegati al fiorente movimento commerciale messo in atto dai portoghesi. Le merci provenienti dall’Europa, in effetti, attiravano particolarmente la nobiltà nipponica. Unitamente a questo, nonostante, come si è detto, la consapevolezza della superiorità della loro civiltà, i giapponesi erano notevolmente incuriositi dalla cultura occidentale riguardo alle discipline più diverse: dalla filosofia alle scienze naturali, dalla fisica alla medicina. In questo senso i gesuiti portavano nozioni scientifiche sconosciute al mondo orientale soprattutto nel campo dell’astronomia, ma anche pregevoli manufatti di diverso genere, senza escludere apprezzate forme artistiche, dalle arti figurative alla musica. Le novità accendevano un forte interesse in questo popolo che amava arricchire il proprio patrimonio culturale e confrontarsi sui più diversi livelli del sapere. Per questa ragione, man mano che venivano risolti i problemi relativi alla difficoltà della traduzione in lingua giapponese, le dissertazioni filosofiche, e soprattutto le profonde disquisizioni in materia teologica, erano ascoltate con interesse. I padri della Compagnia, dal canto loro, sapevano che per essere agevolati nell’azione evangelizzatrice, dovevano riuscire a farsi apprezzare e possibilmente a convertire gli esponenti delle classi dominanti, che avrebbero a loro volta svolto azione di convincimento nelle masse subalterne trascinandole a seguire il loro esempio. Il confronto più difficile era tuttavia quello con i bonzi. Ricchi e in buona parte arroganti gestori di splendidi templi e abitanti in fastosi palazzi, nel timore di perdere il favore dei signori, gettavano discredito, come si accennava, sui padri gesuiti. Soltanto raramente, del resto, accettavano di misurarsi con loro in ragionamenti di argomento spirituale, anche se in qualche pur raro caso qualcuno arrivò a convertirsi alla religione cristiana.
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In compenso, insieme a gesti di ostilità da parte di numerosi feudatari e signori sospettosi o/e preoccupati del pericolo dell’ingerenza dei gesuiti nella gestione del potere o del loro moralismo, ci furono conversioni importanti, come quella dei re di Bungo e di Arima, che consentirono insediamenti più sicuri e duraturi, soprattutto nei domini dell’isola di Kyushu nel Sud dell’arcipelago giapponese, dove i gesuiti poterono creare collegi, scuole, ospedali, chiese, benché a partire dalla fine degli anni Sessanta p. Frois si accorse dell’opportunità di rivolgere l’azione missionaria anche nella zona di Kinai, sede delle antiche capitali Kyoto, Osaka e Nara. Da quest’area centrale, per quanto interna, del Giappone sarebbe stata agevolata l’estensione verso il resto dell’arcipelago, mentre sul piano politico l’azione gesuitica si sarebbe notevolmente rafforzata. Ciò di fatto avvenne negli anni successivi grazie all’appoggio di Nobunaga, protagonista del movimento di riunificazione del Giappone e destinato a diventare l’uomo più potente della terra del Sol Levante. Anche se non si convertì al cristianesimo, a lui va riconosciuto il ruolo di divulgatore della cultura detta “nanban bunka” (cioè dei barbari del Sud), riferita in particolare all’apporto dei gesuiti e dei portoghesi. Tuttavia il grande lavoro diplomatico e il processo di cristianizzazione messo in atto dai gesuiti, a partire dalla prima espulsione del 1587, e più decisamente dal 1614 con il progressivo aumento delle persecuzioni, fu destinato a un drammatico epilogo fatto di migliaia di martìri insieme alla distruzione di tutti gli edifici che erano stati costruiti per la diffusione della fede cattolica. Di fronte a questo vario quanto pericolosamente e costantemente instabile quadro della realtà giapponese, i gesuiti soltanto in parte poterono affidarsi a metodi di evangelizzazione altrove collaudati con successo: dai progetti artistico-culturali messi in atto nei collegi europei a quelli delle grandi città coloniali del Centro e Sud America, senza considerare le possibilità pedagogico-costruttive riscontrate in quella tabula rasa costituita dal livello culturale degli indios della Nuova Spagna e dell’immenso viceregno del Perù. In un certo senso la Compagnia di Gesù, preso atto della estrema difficoltà dell’impresa giapponese, dovette inventare strategie “mobili” e spesso inedite, in grado comunque di consentire l’educazione alla dottrina cristiana. In questo senso la catechesi e l’evangelizzazione non po-
introduzione
terono fare a meno di ricorrere a tutte le varianti performative che risultassero più idonee alla realtà topica. Fu così che spunti offerti da tutta l’estensione della tradizione acquisita, ma anche dalla sperimentazione di forme del sacro rappresentare attuate nel Medioevo europeo, arricchirono le strategie di adattamento alle diverse realtà territoriali e furono utilizzati per raggiungere il risultato della conversione e del mantenimento dello status della cristianità. Prima delle pratiche pedagogiche e artistiche messe in atto nelle pur diverse realtà dei collegi, dei seminari e delle scuole dislocati nei centri maggiori, grazie soprattutto alla fondamentale opera svolta da p. Alessandro Valignano negli anni in cui svolse il ruolo di padre visitatore, ci fu il paziente, anche se inizialmente disorganico e spesso improvvisato, lavoro strategico dei primi missionari e l’invenzione di pratiche dell’intrattenimento da adattare alle diverse tipologie ambientali di centri medi e piccoli gestiti ora da signori tolleranti, se non convertiti, ora ostili, ma anche alle condizioni di vita di comunità dislocate in località impervie e difficilmente raggiungibili. In questo variegato fronte d’azione lo specifico ragionamento attuato dai gesuiti, maturato sulla base dell’osservazione attenta del temperamento, ma anche dei bisogni, delle attitudini e persino delle consuetudini rituali anche di origine antichissima, come quella del culto degli alberi tradotto in quello della croce, portò alla disponibilità di intere masse a partecipare a riti processionali animati da azioni spettacolari inscenate anche nelle chiese e ad interpretare ruoli protagonistici, dal canto alla danza, al ritmo penitenziale dei disciplinati, senza considerare le forme di arricchimento sonoro effettuate a diverso livello nel corso della ritualità liturgica, grazie all’introduzione di strumenti musicali provenienti dall’Europa; e non mancarono contaminazioni con la tradizione artistica nipponica fino al teatro. Certo, se si guarda al fenomeno della scena evangelizzatrice avendo come riferimento la tradizione teatrale europea, le pratiche attuate dai padri della Compagnia di Gesù possono apparire quanto meno anomale, e per questa ragione al di fuori del panorama coevo delle forme del teatro e dello spettacolo occidentale. In realtà le invenzioni e gli esperimenti gesuitici messi in campo a fronte di una popolazione totalmente diversa per civiltà, cultura e tradizione da quella occidentale, proprio perché fondati sul principio e sulla necessità di persuadere, coinvolgere, animare, meravigliare, in un contesto di divulgazione di una nuova liturgia in un
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clima di cerimonialità festiva, portarono a forme inedite di inscenamento e di intrattenimento, a volte caratterizzate da azioni semplici sul piano drammaturgico, per quanto di forte coinvolgimento collettivo, a volte da messinscene più complesse e in alcuni casi rispondenti al gusto locale, prevalentemente orientate verso una spettacolarità a spazio totale. Impossibilitati a mettere in atto interventi scenotecnici basati sull’impiego di ingegni e dispositivi propri delle artes mechanicae riconducibili alla cultura scenica rinascimentale e prebarocca, quali pure seppero far apprezzare in Europa, i gesuiti ricorsero a una articolazione di pratiche atte a stimolare con successo interesse e partecipazione anche presso gli “infedeli”. Fu così che la chiesa, prima di diventare spazio scenico di vere e proprie sacre rappresentazioni o di interventi di musica sacra importanti, fu il luogo in cui il pubblico, sotto la direzione dei padri o/e dei loro coadiutori, ora si trovò a ricoprire il ruolo protagonistico di gruppi impegnati in “colloqui” di massa su tematiche diverse, con l’innesto di attanti solisti, ora si prestò a performance visive basate su collettive mutazioni a vista e sincronizzate sul tema penitenziale. E non mancò l’addestramento dei fanciulli e degli adolescenti ad azioni spettacolari esemplari, destinate a evolvere nelle pratiche di messinscena più impegnative. Lo stesso uso delle croci, dislocate in aree strategiche anche sul piano spettacolare, come pure la pratica degli addobbi urbani e degli spettacoli processionali, e ancora le scene del presidio al Cristo morto, il venerdì santo, le numerose varianti delle invenzioni ispirate al passaggio dalle tenebre alla luce nel tempo della Pasqua costituiscono le costanti della scena gesuitica insieme agli arricchimenti tematici delle scene del Presepe o delle vicende di Adamo ed Eva e delle storie del Vecchio Testamento, tutti riproposti ciclicamente con l’inserimento di soluzioni più prettamente teatrali; mentre, per quanto riguarda i criteri di messinscena, l’apporto più originale fu quello di individuare lo spazio scenico nel centro della chiesa, concependo la dislocazione del pubblico attorno all’area centrale dell’aula ecclesiastica. In questa zona venivano predisposti i dispositivi scenotecnici più spettacolari, dal gigantesco albero del peccato con i pomi d’oro alla raffigurazione del Mar Rosso in movimento più volte replicata in anni diversi. Né vanno trascurati i contributi di interventi musicali sempre più importanti e impegnativi grazie al progressivo inserimento di nuovi strumenti provenienti dall’Europa.
introduzione
L’uso di localizzare la scena nell’area centrale all’interno del tempio da un lato rispondeva al criterio giapponese di effettuare la rappresentazione nel centro della sala, dall’altro determinava la necessità di un movimento dei devoti che, dopo aver assistito ai quadri scenici, spostavano lo sguardo verso l’altare per seguire le funzioni liturgiche con le relative forme di partecipazione attiva cui prima si faceva cenno. Allo stesso modo la necessità di compiere cambiamenti di scena a vista determinava repentini sgomberi dei dispositivi centrali e l’effettuazione di coups de théâtre in un altro luogo della chiesa. Su un altro piano non mancarono pratiche culte di drammatica sacra in latino effettuate nei collegi e nei seminari, secondo le consuetudini pedagogiche del teatro gesuitico europeo; e ci furono, anche in questo caso, processi di adattamento alla cultura locale, come avvenne per la rappresentazione di un’opera del grande drammaturgo Stefano Tuccio, con intermezzi e innesti in lingua giapponese. In questa dimensione “liquida” di mescolanza di lingue diverse – latino, portoghese, giapponese –, testimonianza significativa fu quella di p. Manuel Barreto, autore di un dramma sacro della Passione di Cristo in una lingua caratterizzata da una traslitterazione in ro¯maji, ossia in caratteri latini, di un testo giapponese al fine di far recitare insieme portoghesi e giapponesi. Abbiamo effettuato la ricostruzione di questa cultura scenica, nonostante la mancanza di ragguagli specifici riguardanti le pratiche delle feste e degli spettacoli della devozione, come invece è possibile riscontrare nella documentazione dell’età coloniale raccolta in ambito centro e sudamericano. Oltre che ai Monumenta Historica Japoniae6, utili per un inquadramento generale del sistema delle missioni giapponesi, ci siamo pertanto affidati in primo luogo ai pur brevi riferimenti riscontrabili nelle lettere annue che abbiamo analizzato, fra quelle sopravvissute ai tanti naufragi e assalti pirateschi, e alle relazioni e cronache dei grandi gesuiti come i
Su questo argomento rimando per tutti al mio saggio La scena evangelizzatrice. Il teatro dei missionari nelle colonie spagnole del Centro e Sud America, Edizioni di Pagina, Bari 2015. Monumenta Historica Japoniae, a cura di J.F. Schütte, Monumenta Historica Soc. Iesu, Roma 1975.
l’avventura scenica dei gesuiti in giappone
padri Xavier, Torres, Frois, Valignano, Organtino, Cabral, Vilela, oltre ad irmãos di notevole e fruttuosa operosità come João Fernandez e Luis Almeida7. A queste medesime fonti, del resto, hanno fatto riferimento quegli studiosi che hanno cercato in passato collegamenti fra la cultura orientale e quella occidentale, compresi coloro che hanno rivolto l’attenzione al campo musicale o agli influssi della scena gesuitica in quella giapponese, in particolare nel teatro kabuki8. Al di là delle testimonianze specificamente riferibili alle pratiche della narrazione e della rappresentazione sacra, dai sermoni alle litanie, alle azioni processionali, dall’actio liturgica drammatizzata alle sacre rappresentazioni, fino alla musica, alla danza e al canto sacri, va riconosciuto proprio alle lettere annue nel loro complesso il ruolo di fornire una spettacolare immagine edificante. La formula scribendi dettata dall’Ordine richiedeva la comunicazione di episodi esemplari che mettessero in luce il successo dell’azione della Compagnia, la sua credibilità presso i giapponesi, i miracoli che avvenivano in quei territori, l’adesione commossa e l’intensa partecipazione di masse di convertiti in occasione delle feste del Natale e della Pasqua. Il tutto doveva essere appositamente predisposto per una ricezione di tipo letterario che fosse veicolo di elevazione spirituale. Questa sorta di fiction come risultato di opportune scremature di eventi dissonanti con la solarità dell’azione della Compagnia, rispetto alla quale anche le descrizioni dei continui conflitti politico-militari interni o/e dell’ostilità dei bonzi e dei signori infedeli sembrano contribuire all’esaltazione della luce cristiana, è essa stessa una forma di rappresentazione visivamen Buona parte delle lettere è nella citata raccolta delle Cartas di Evora e nelle Cartas que os padres e irmáos da Companhia de Jesus, que andao nos Reynos de Iapáo escreueráo aos da mesma Companhia da India, e Europa, des do anno de 1549 ate o de 66. Nellas se conta o principio, socesso, e bódade da Christádade daquellas partes, e varios costumes, e idolatrias da gentilitade, Coimbra, Antonio de Maris, 1570; da ora in poi Cartas, Coimbra. Altre lettere relative agli anni successivi si trovano in piccole raccolte che saranno indicate nel corso di questo studio insieme alle opere di p. Frois e di p. Valignano e alla raccolta di p. Guerreiro. Cfr., fra gli altri, T. Leims, Die Entstehung des Kabuki, E.J. Brill, Kolon 1990; S. Amano, Japanese Performing Arts Known by Missionary Priests within the Intercultural Milieu of the 16th Century: Did Frois Encounter Christian Noh?, in «Dedica. Revista de Educação e Humanidades», 5, 2014, marzo, pp. 123-138.
introduzione
te catturante, pur nel suo assetto narrativo, in grado di stimolare sentimenti di ravvedimento e di conversione, ma soprattutto di adesione all’opera della Compagnia. Non a caso le lettere dei missionari erano tradotte in italiano, e in genere pubblicate non appena giungevano in Europa. Raccolte in libri a stampa, erano distribuite in varie biblioteche, dove era possibile accostarsi a questa affascinante realtà. Per questa ragione le lettere annue, commoventi monumenti di comunicazione, costituiscono parte integrante della strategia messa in atto nel corso dell’azione evangelizzatrice e si presentano come un grandioso dramma gesuitico scritto dai propri attori. In contrasto con questa logica della narrazione costruita, tutta volta in positivo, anche apporti documentari, per la maggior parte inediti, di padri forse meno noti, come fu il siciliano mazarese p. Giovanni Matteo Adami, restituiscono, in forma drammaticamente inquietante, problematiche e contrasti all’interno dell’Ordine nel periodo più difficile, caratterizzato da persecuzioni e spargimenti di sangue. Il grande contributo documentario di p. Daniele Bartoli, a sua volta, per quanto non si soffermi sugli aspetti dello spettacolo evangelizzatore, offre una dettagliata visione dei martìri perpetrati con l’inizio delle persecuzioni del primo Seicento. Costituisce, pertanto, riferimento fondamentale per una visione completa di quel theatrum martyrum che finì per costituire un altro aspetto della scena offerta dai gesuiti e dagli altri martiri cristiani a masse di spettatori meravigliati e attratti, come erano per tradizione e cultura, dalla capacità di resistenza al dolore fisico, davanti allo spettacolo di terribili quanto varie e “ingegnose” forme di supplizio.
Illustrazioni
1. Attribuito a Kano Naizen (1570-1616), Arrivo dei “Barbari del Sud” (particolare), XVI-XVII secolo. Tōshōdai-ji, Nara.
2. I quindici misteri del Rosario, XVI-XVII secolo, Museo Nazionale di Storia Giappone, Sakura. Già nella Collezione di Kyoto Università Nazionale Museo di Storia.
3 (A fronte, in alto). Kano Sōshū (1551-1601), Nanban-ji (Il tempio cristiano), XVI-XVII secolo. Kobe City Museum. 4 (A fronte, in basso). Martirio dei settanta giapponesi ed europei a Nagasaki il 10 novembre 1622. Eseguito a Macao da Anonimo giapponese tra il 1626 e il 1632. Chiesa del Gesù, Roma.
5. Martirio del beato Leonardo Kimura con altri quattro cristiani a Nagasaki (18 novembre 1619). Eseguito a Macao da Anonimo giapponese tra il 1626 e il 1632. Chiesa del GesĂš, Roma.
6. Martirio di san Paolo Miki, Giovanni Coto e Giovanni Kisai in vari periodi in Giappone. Eseguito a Macao da Anonimo giapponese tra il 1626 e il 1632. Chiesa del GesĂš, Roma.