Indice
Introduzione I.
Gli esordi: le collezioni degli inizi del XX secolo e i contributi alla Mostra di Etnografia Italiana del 1911
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Giovanni Tancredi tra la Mostra del 1911 e la nascita del Museo etnografico a Monte Sant’Angelo, p. 3 - In Basilicata: Domenico Ridola e l’attenzione per i legni intagliati, p. 10 - La Basilicata e la Mostra del 1911: il ruolo di Giuseppe Antonio Andriulli, p. 11
II.
Giovanni Battista Bronzini scrittore e progettista di musei
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Perché scrittore e progettista di musei, p. 25 - Giovanni Battista Bronzini filologo e studioso di tradizioni popolari, p. 26 - Gli interessi museografici e l’homo laborans, p. 31 - Teoria museografica e riallestimento del Museo “Tancredi” a Monte Sant’Angelo, p. 35 - Il progetto per il Museo Storico della Civiltà Contadina Lucana a Pomarico, p. 41 - Il Museo della Cultura Arbëreshe a San Paolo Albanese e il Museo dei Culti Arborei ad Accettura, p. 43 - Il museo come rappresentazione della realtà territoriale, p. 50 Il tema del museo-paese, p. 52
III. I musei della civiltà contadina La nozione di civiltà contadina e la rappresentazione museografica, p. 56 - I musei della civiltà contadina in Basilicata e in Puglia, p. 59 - Il Museo della Civiltà Contadina di Sammichele di Bari, p. 61 - Dal Museo della Civiltà Rurale al Museo Etnografico dell’Alta Murgia ad Altamura, p. 64 - I nessi tra musei, memoria comunitaria e cultori locali, p. 69 - Civiltà contadina e
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Indice scuola nel Museo delle Tradizioni Locali di Viggiano, p. 71 - Un caso di museo territoriale a Latronico, p. 72
IV. Gli oggetti nei musei e le fonti d’archivio: il caso delle memorie della Società Economica di Terra di Bari
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Le fonti scritte per i musei etnografici e della civiltà contadina: le memorie della Società Economica di Terra di Bari, p. 77 - Un esempio: le «risposte» di Raffaele Spada da Spinazzola, p. 80 - Sugli aratri, p. 83 - L’arretratezza dell’agricoltura meridionale e le proposte di rinnovamento, p. 87 - Gli usi e le funzioni di zappe e sarchi, p. 91 - Su altri attrezzi e sulle fasi del ciclo produttivo, p. 93 - La sperimentazione di macchine trebbiatrici e il progetto di trebbiatoio di Domenico Caputi, p. 94 - Al di là delle sperimentazioni: la realtà delle regioni meridionali nell’800, p. 99
V.
La rappresentazione del ciclo cerealicolo e la ricostruzione dei contesti: l’esempio del Basso Tavoliere
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Il problema della contestualizzazione nei musei locali di interesse demoetnoantropologico, p. 101 - Il Museo del Grano e il Museo Etnografico Cerignolano, p. 102 - Le fonti e il contesto: organizzazione produttiva e condizioni lavorative a Cerignola tra ’8 e ’900, p. 105 - I sistemi di avvicendamento, p. 109 - I lavori di preparazione del terreno, p. 111 - La semina, p. 113 - La pungeime, p. 115 - La mietitura, p. 116 - La trebbiatura, p. 120 - La conservazione dei cereali, p. 122
VI. L’uso scenico delle collezioni etnografiche: la raccolta di Giuseppe Schinco e il carnevale a Gravina in Puglia
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Una lettera come antefatto, p. 126 - La corsa all’anello, p. 127 La sfilata degli aratori e dei seminatori, p. 131 - La rievocazione scenica come tradizione e come “museo esterno”, p. 137
VII. L’esperienza e la memoria come fonti per la rappresentazione del mondo contadino: Antonio Cimino, Acerenza, il micromuseo e la scrittura Un micromuseo contadino tra motivazioni identitarie e comunicazione didattica, p. 140 - Antonio Cimino museografo nativo,
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VII
p. 142 - Il progetto pedagogico di Cimino tra rappresentazione museale e scrittura del locale, p. 145 - La società rurale e il lavoro agricolo ad Acerenza nella rappresentazione di Cimino, p. 152 - Il ciclo cerealicolo, p. 156 - L’interpretazione del passato contadino come espressione di una società armonica, p. 163
VIII. La ricerca e il museo: il progetto per un Museo della Cultura Arbëreshe a San Paolo Albanese e le idee per un nuovo allestimento
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I prodromi del museo, p. 170 - Il contesto e le ragioni, p. 172 La ricerca e il progetto, p. 176 - I motivi ispiratori del programma di riallestimento e i livelli di articolazione, p. 183 - La scelta espositiva e il percorso museale, p. 185 - Le unità espositive, p. 186 - La necessità della ricerca e la dotazione dei servizi, p. 189
IX. Gli oggetti parlanti, la dimensione biografica e il collezionismo etnografico
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Gli oggetti parlano e i collezionisti con loro, p. 192 - Gli oggetti e i mutamenti dei loro significati, p. 193 - Riflessioni intorno a un’esperienza personale: ancora su Altamura e Pietro Locapo, p. 194 - Il valore biografico degli oggetti etnografici, p. 197 - Il mondo e la missione dei collezionisti, p. 198 - I musei dei collezionisti: luoghi di affezione e di rievocazione memoriale, p. 200 - Donato Cascione e i “racconti del museo”, p. 201
Bibliografia
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Gli oggetti sono strumenti della conoscenza, oltre che manufatti d’uso. E nei musei essi trovano le condizioni per parlare e comunicare, con la mediazione dell’ordinatore, dell’allestitore, del collezionista, e attraverso l’interazione con chi li osserva. Ciò vale per tutte le categorie di oggetti, e in particolare per quelli custoditi ed esposti nei musei demoetnoantropologici, a cui è affidato non solo il compito di descrivere circostanze, tecniche e modalità della loro utilizzazione, ma anche di narrare storie, disvelare saperi, evocare ricordi, rinviare a situazioni della vita quotidiana, a feste, rituali, pratiche espressive delle culture tradizionali. I musei delle cose, come sono stati finora prevalentemente i musei etnografici e folklorici, sono in realtà sempre stati aperti alle interconnessioni con la realtà inoggettuale e, in fondo, proprio per questo essi sono già adeguatamente preparati a svolgere la missione loro assegnata dalla Dichiarazione ICOM di Seul sul patrimonio immateriale del 2004, ovvero quella di essere aperti al pubblico e condurre ricerche «che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità» e dei rispettivi contesti di riferimento. Essi le acquisiscono, le conservano, le comunicano e soprattutto le espongono «a fini di studio educazione e diletto». In realtà, nei musei demoetnoantropologici è difficile, se non impossibile, distinguere il materiale dall’immateriale e coloro che se ne occupano hanno sempre posto al centro delle proprie pratiche conoscitive e allestitive i temi e gli aspetti che sono stati recentemente indicati dalla dichiarazione Unesco del 2003 sulla salvaguardia della cultura popolare e tradizionale come meritevoli di conservazione e di tutela: le tradizioni e le espressioni orali; le arti performative; le pratiche sociali, i riti e gli eventi festivi; i saperi naturalistici e quelli em-
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Introduzione
pirici. In pratica, tutto quello che un tempo rientrava complessivamente nel campo delle tradizioni popolari e che è stato oggetto e materia già delle prime operazioni espositive condotte in Sicilia da Giuseppe Pitrè alla fine del XIX secolo (Bonomo 1993). Ora, tra le diverse accezioni che le tradizioni popolari hanno assunto in età moderna, Jean Cuisenier nel suo Manuale di tradizioni popolari (1999) segnala proprio quella delle tradizioni come risorsa, facenti parte di uno specifico patrimonio culturale e, in quanto tali, portatrici «della differenza e quindi degn[e] di essere considerat[e] e in parte meritevoli di essere conservat[e]». Furono, sempre secondo Cuisenier,Vicq d’Azyr e don Germain Poirier, in Francia, a porre le basi perché la nozione di tradizioni popolari assumesse quel significato con il loro noto volume del 1794 dal titolo esplicitamente chiaro di Istruzioni sulla maniera di inventariare e di conservare, in tutto il territorio della Repubblica, tutti gli oggetti che possono servire alle arti, alle scienze e all’insegnamento, intendendo riferirsi, oltre che ad attrezzi e strumenti vari, anche «alle parlate, agli usi e agli abiti tradizionali» (Cuisenier 1999: 29), la cui conservazione sembrava in quel momento, nel contesto politico-culturale francese, importante di fronte ai processi in atto di standardizzazione della lingua e di normalizzazione dei codici. Insomma, in quel periodo così fecondo per la storia del pensiero e della cultura occidentali compreso tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, le tradizioni non erano «soltanto oggetto di una valorizzazione ideologica attraverso il discorso e la pratica politica» (ibid.) – e l’attenzione degli intellettuali non si esauriva nel prevalente interesse verso la poesia popolare come autentica espressione di etnicità, e quindi di nazionalità, ed elemento rivelatore di quello che i romantici tedeschi chiamavano il Volksgeist, lo spirito del popolo –, ma risultavano anche oggetto di un interesse di tipo “scientifico”, che avrebbe trovato la sua esaltazione qualche decennio più tardi in connessione con l’affermarsi dell’empirismo di matrice positivista e che sarebbe sfociato in tentativi di allestimento di collezioni oggettuali in grado di rappresentare le «arti meccaniche», dove avrebbero potuto trovar posto, secondo quanto ha scritto Bernard Deloche, «tutti gli strumenti e le macchine impiegate nelle costruzioni e nelle fabbriche di diversi generi» (1987: 38).Tentativi che avrebbero avuto un importante punto di riferimento nella creazione della Scuola delle Arti e dei
Introduzione
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Mestieri di Parigi, avvenuta nel 1799, «istituzione concepita non solo per ospitare una collezione di oggetti, ma anche come luogo per la trasmissione dei saperi» (Cuisenier 1999: 29). Prima di continuare su questa linea, vorrei ricordare, come ha sottolineato Alberto Mario Cirese in Cultura egemonica e culture subalterne (1973: 132-134), che questo atteggiamento di tipo antiquario, e per certi aspetti storico-etnografico, investì significativamente anche la penisola italiana durante il periodo della dominazione napoleonica (Clemente 1995), con la nota inchiesta svolta nel 1811 nei 24 Dipartimenti del Regno d’Italia e, di riflesso, con altre iniziative come la Statistica voluta dal Governo francese per la provincia di Arezzo nel 1809 e quella avviata nel 1811 da Gioacchino Murat nelle diverse province del Regno di Napoli, i cui risultati sono stati pubblicati nel 1988 in quattro volumi, a cura di Domenico Demarco, dall’Accademia dei Lincei. Ed è significativo che in un libro dedicato ai musei e particolarmente attento a questioni riguardanti la cultura materiale connesse a problemi più specificamente museografici, scritto negli anni Ottanta del ’900 da Massimo Tozzi Fontana, storico e operatore dell’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, si faccia incominciare la storia sul dibattito teorico e le realizzazioni museografiche in campo demoetnoantropologico nel nostro Paese proprio con un riferimento all’inchiesta napoleonica del 1811, intesa come punto di partenza «della “fase scientifica” dell’osservazione etnologica e degli studi demologici in Italia» (Tozzi Fontana 1984: 17). Tornando dunque a Cuisenier, egli ha colto forti elementi di continuità nell’atteggiamento dei folkloristi ottocenteschi di orientamento “antiquario” con le iniziative dedicate nel XIX secolo alla raccolta di oggetti connessi al lavoro e alla vita quotidiana e alla nascita di musei di arti e tradizioni popolari. Ciò, in realtà, più spesso nelle intenzioni che nei fatti. Dopo tentativi rivelatisi sostanzialmente inconsistenti condotti in varie città europee, si dovette infatti attendere il 1873, quando sorse a Stoccolma il Nordiska Museet, nucleo iniziale del primo museo europeo a cielo aperto, lo Skansen, che fu a sua volta inaugurato nel 1891, divenendo ben presto un modello per la creazione di altre istituzioni museali del Nord Europa. Lo realizzò Artur Hazelius, un collezionista con forti vocazioni organizzative e pedagogiche che oggi, come ha scritto Roberto Togni, po-
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tremmo definire un uomo «particolarmente attento alla problematica della socializzazione dei beni culturali e del patrimonio culturale collettivo» (Togni 1992: 578). Da quel momento i musei che oggi si possono indicare genericamente di interesse demoetnoantropologico hanno costituito «il principale supporto delle operazioni che tendono a conservare, a trasmettere e valorizzare un patrimonio di oggetti, di documenti e di abilità, rendendoli accessibili alla massa» (Cuisenier 1999: 30). Naturalmente con accentuazioni e risvolti differenti a seconda dei contesti temporali e delle diverse situazioni geografico-culturali. Circoscriverò brevemente il discorso all’ambito folklorico, pur nella consapevolezza che spesso l’oggetto demologico è stato posto sullo stesso piano di quello delle culture di interesse etnologico e considerato nella medesima prospettiva. È quanto ad esempio accadde nel nostro Paese negli anni compresi tra gli ultimi decenni dell’800 e il 1911, anno del primo Congresso di Etnografia Italiana e della mostra contestualmente allestita da Lamberto Loria all’interno delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia (Puccini 2005), quando tanto l’oggetto esotico quanto quello folklorico erano considerati documenti di vita delle popolazioni di provenienza, utili per evidenziare, attraverso una metodologia fondata sulla comparazione spazio-temporale, le diverse fasi evolutive della cultura sulla base di teorie fondate su principi come quello dell’identità psichica del genere umano e dello sviluppo graduale e su convinzioni come quella che assegnava al primitivo e al popolare il ruolo di sopravvivenze o di «residui fossili» all’interno della generale vicenda evolutiva e di elementi di misurazione e verifica del mutamento nel passaggio, a tappe progressive, dalla preistoria alla civiltà (Puccini 1985: 111). Così, per Aldobrandino Mochi, che con Loria aveva dato vita al Museo di Etnografia Italiana a Firenze nel 1906, gli oggetti e i manufatti impiegati dal popolo nelle campagne, nelle montagne e, in genere, laddove non era arrivata la “civiltà”, erano da una parte ancora romanticamente «espressione dell’anima popolare», dall’altra positivisticamente «prezioso documento» per la ricostruzione della storia remota del popolo italiano (Mochi 1902: 644). E per l’una e l’altra ragione essi erano meritevoli di essere raccolti, meticolosamente classificati e conservati nella loro integrità.
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Sin da allora appariva chiaro il ruolo strategico del museo nelle politiche di conservazione e rappresentazione dei fatti culturali, nazionali o etnici. E il Congresso del 1911 segnava un momento fondamentale nella storia dell’approccio alle tradizioni popolari come risorsa culturale e poneva, sulla spinta soprattutto di Loria, il problema di un grande Museo di Etnografia Italiana che potesse consentire di documentare e trasmettere il senso della ricchezza e della varietà delle culture regionali nel quadro dell’unità nazionale. Di qui l’appassionato dibattito, su cui molto si è scritto (si veda soprattutto Puccini 1985), intorno alla questione dell’ordinamento degli oggetti nei musei etnografici, per materia e categorie tipologiche (Baldasseroni), oppure per distribuzione geografica e aree regionali (Pigorini e Pettazzoni), oppure ancora per territori regionali e, all’interno di ciascuno di essi, per materie (De Gubernatis, Mochi e Novati). Ma anche su altri problemi, come la funzione del museo e la sua vocazione educativa in collegamento tanto con i significati attribuiti agli oggetti esposti quanto con la percezione di essi da parte del pubblico. Questioni e problemi, come si può intuire, di grande rilevanza, che finivano con l’investire anche la concezione del museo come laboratorio destinato alla ricerca scientifica, che in Francia avrebbe trovato formulazione teorica nelle tesi di Paul Rivet e George Henry Rivière e applicazione nel Musée des Arts et Traditions Populaires e in Italia sarebbe stata ripresa nella seconda metà degli anni Sessanta nelle riflessioni di Cirese contenute nella relazione di apertura al seminario palermitano su “Museografia e folklore” (21-23 novembre 1967), il cui testo fu pubblicato prima in «Architetti di Sicilia» (1968) e poi in Oggetti segni musei (1977). E, ancora, sulla concezione dell’oggetto museale percepito come documento, funzionale alla comprensione e all’interpretazione della vita popolare, secondo una prospettiva che sarebbe diventata in seguito focale nella considerazione del ruolo degli oggetti esposti in un museo. Il vivace dibattito che si sviluppò allora, e che avrebbe forse potuto incidere anche su un diverso sviluppo della storia della legislazione sui beni culturali in Italia, dando riconoscimento e dignità agli oggetti e ai fatti di interesse folklorico, cioè alle tradizioni popolari nella loro accezione di risorse patrimoniali riferibili a precisi contesti spaziali e comunitari, rimase fine a sé stesso. Loria morì nel 1913 senza poter vedere realizzato il suo
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sogno di istituzione a Roma del Museo di Etnografia Italiana, mentre di lì a poco il passaggio dal dominio della cultura positivista a quello dello storicismo idealistico di Benedetto Croce avrebbe portato, tra le altre cose, alla marginalizzazione degli studi demologici rispetto alle principali articolazioni della vicenda culturale italiana. Conseguentemente, l’interesse degli studiosi si sarebbe nuovamente concentrato sulla poesia popolare e su una concezione filologicamente quantitativa della tradizione e del popolare – ponendo l’accento soprattutto sul processo di elaborazione, la popolarità effettiva o tradizionalità di un testo, come di qualsiasi fatto folklorico, si considerava definita dal numero delle varianti –, determinando una sostanziale sospensione di idee e progetti che avessero al centro la nozione di tradizione popolare come risorsa e bene culturale e come parte di un patrimonio, nazionale o locale che fosse, da sottoporre a pratiche di conservazione, tutela e fruizione. È anche per questo che, fino a poco tempo fa, «la legislazione che in Italia tutela i “beni culturali” e cioè i patrimoni che lo stato intende valorizzare e trasmettere in eredità alle generazioni future» non ha compreso le attività e i prodotti collegati alle culture locali e alla vita quotidiana e lavorativa della gente comune, «benché sia nata una diffusa museografia spontanea di oggetti del mondo contadino e vi sia una consapevolezza ampia dei valori delle culture tradizionali e locali, con forti ricadute anche sul piano turistico» (Clemente 1996: 237). Una situazione, questa, perdurata almeno fino al 1998, quando i primi, concreti, segni di cambiamento comparvero nel D.L. del 31 marzo, n. 112, riguardante il conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni e agli enti locali in attuazione della cosiddetta legge Bassanini, il cui art. 148, comma 1, lett. a) conteneva una nuova definizione legislativa di bene culturale, la quale, finendo in tal modo con l’orientare le successive disposizioni, stabiliva che dovessero intendersi per beni culturali «quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base alla legge». In seguito, e in verità più sul piano del principio che su quello delle concrete pratiche di riconoscimento, la legislazione nazionale ha allarga-
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to lo spazio per la valorizzazione delle diversità culturali e delle culture locali attraverso soprattutto il D.L. 22 gennaio 2004, n. 42, “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, che costituisce, come ha molto opportunamente scritto Pietro Clemente, «una nuova fase della considerazione pubblica dei beni culturali e di fatto l’inizio del declino anche in Italia del connaisseur artistico estetizzante come modalità dominante del gusto» e introduce in maniera chiara nella legislazione italiana il concetto di “patrimonio” (Clemente 2006a: 160). Nella preferenza che oggi molti tendono ad accordare al termine “patrimonio”, rispetto a “bene culturale”, vi è la precisa intenzione di collegare strettamente il concetto antropologico di cultura con la nozione ecologica di paesaggio e, quindi, di connettere il patrimonio al territorio inteso come contesto in cui nel tempo si sono cumulate, stratificandosi, le tracce della presenza e dell’attività dell’uomo, la cui percezione consapevole produce sensi di appartenenza e coesione comunitaria. Così, la dimensione spaziale si ricongiunge alla memoria nella costruzione di luoghi antropologici dove i gruppi umani usano i patrimoni ereditati dalle generazioni precedenti per rielaborare, costruire, inventare tradizioni. E, in questa prospettiva, il dibattito sugli oggetti e sui musei e le effettive realizzazioni museografiche hanno avuto negli ultimi decenni un ruolo di primo piano. In Francia già negli anni Sessanta del ’900 il museo venne associato al concetto “globale” di patrimonio. E fu all’interno della cosiddetta nouvelle muséologie che, come ricordaVito Lattanzi citando André Desvallées (1992b: 21), si elaborò allora la nozione di patrimonio come «qualcosa di più che l’insieme di collezioni e di oggetti, poiché è “un ambiente naturale e culturale da percepire come un insieme che si riceve in eredità, di cui ci si appropria, che si conserva e si trasmette restando consapevoli delle trasformazioni che gli fanno conoscere le relazioni – e le distruzioni – dell’uomo”» (Lattanzi 1999: 33). Di conseguenza, si cominciò a impostare e progettare istituzioni territoriali che assegnavano un’importanza prioritaria all’identità locale, alla prospettiva ecologica e alla partecipazione della popolazione. E Hugues de Varine fissò in uno schema presto divenuto classico i tre poli distintivi del nuovo museo: territoire/patrimoine/population. La concezione del museo si modificava allora radicalmente, in quanto «il cam-
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po museale tradizionale nella nuova visione si apriva al sociale e alla dimensione comunitaria; diveniva dinamico, circolare e, per così dire, “interattivo”». Per cui i residenti in un territorio non erano più semplicemente pubblico, cioè un passivo ricettore di messaggi, ma si intendeva che partecipassero «a tutti gli effetti dell’istituzione che si propone[va] di rappresentarli con i suoi specifici simboli e valori». Il museo, insomma, era il luogo che avrebbe dovuto parlare delle loro storie e non avrebbe dovuto rappresentare un patrimonio culturale extralocale (ibid.). In Italia il dibattito teorico si è sviluppato, tra gli anni Sessanta e Ottanta, da una parte intorno alla teoria ciresiana del museo come metalinguaggio (Cirese 1968 e 1977), ma anche, all’opposto, alla riflessione sul museo all’aria aperta (esempio di museo-vita, come ebbe a definirlo Clemente nel 1982: 142), ritenuto a volte referente diretto della museografia delle società contadine e alternativo al museo-discorso, quello che è appunto discorso sulle cose (metalinguaggio) oltre che presentazione di esse; dall’altra a una concezione dell’oggetto etnografico come documento di cultura materiale, connesso a una nozione che definiva, in una dimensione però sostanzialmente dominata dalla storia, uno specifico campo di ricerca interdisciplinare; per poi svolgersi intorno all’idea del museo come luogo della comunicazione e della mediazione di patrimoni ed esperienze, elaborata soprattutto da Pietro Clemente (1989 e, con alcune varianti, 1996: 147-164). Alla luce del progressivo articolarsi del dibattito, «il nesso dinamico tra patrimoni e comunità locali», come ha rilevato Lattanzi con parole che sento di sottoscrivere in pieno, «è ben rappresentato da una ricchissima presenza di musei, come si suol dire, “spontanei”, nati in tutta autonomia o fatti nascere con l’appoggio di pervicaci ricercatori e appassionati» (Lattanzi 1999: 33). Tali musei, che hanno costituito un «interessante movimento di valorizzazione delle tradizioni di cultura e di lavoro nelle campagne italiane» (Solinas 1991: 156), hanno anche, in taluni casi, avuto la funzione di supplire all’indifferenza manifestata dalle istituzioni, sia statali che regionali, per il patrimonio culturale locale sotto l’impulso di personaggi rivalutatori del “luogo”, i quali operano nel senso di un recupero della tradizione. Un recupero che non si limita agli aspetti della cultura materiale, ma riguarda anche feste, riti e altre situazioni di interesse stori-
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co, con l’attivazione di processi di patrimonializzazione, i quali rappresentano forse la forma più attuale e interessante di uso della tradizione a livello comunitario e a scopo identitario (su identità, patrimonio e patrimonializzazione si veda, tra gli altri, Fabre 1993, mentre sul ruolo dei musei nella società contemporanea, cfr. Clemente 2006b). Oggi i musei demoetnoantropologici sono da intendere come qualcosa di molto peculiare e diverso rispetto al passato: pur essendo sempre molto legati agli oggetti, a essi si chiede di andare al di là e, partendo dalla memoria incorporata nei manufatti, di comunicare saperi, racconti, voci, di essere essenzialmente luoghi e strumenti per la patrimonializzazione di pezzi di esistenza individuali e collettivi. Alla luce dello sviluppo del dibattito e dei modi progressivamente affermatisi di intendere il museo di interesse demoetnoantropologico – e parallelamente agli studi e alle ricerche sulle pratiche di patrimonializzazione in una prospettiva di antropologia politica, condotti negli ultimi anni soprattutto da Berardino Palumbo (2003, 2006 e 2007-2008; ma si vedano anche Dei 2002: 97-131 e i diversi interventi sul tema pubblicati nella rivista «Antropologia Museale» a partire dal n. 2 del 2002) –, si è consolidato un impegno comune degli antropologi che lavorano nei musei e degli antropologi che studiano i musei come spazi di riflessione e di costruzione identitaria, come zone di contatto e di conflitto insieme, come luoghi di riconoscimento e autorappresentazione. A partire dalla convinzione che in essi essenzialmente si esplicitino pratiche comunicative e forme di mediazione, dagli inizi degli anni Novanta del ’900 è prevalso nel nostro Paese un orientamento che intende il museo come una «istituzione culturale della società civile finalizzata alla conoscenza e alla partecipazione democratica» che consente di operare «nel campo della valorizzazione del patrimonio delle diversità culturali» (Clemente 2007: 22). Intorno a questa idea e nel quadro di riflessioni, discussioni, scritture calate nel più generale contesto di ripensamento della funzione dei patrimoni e dei musei in campo internazionale (qualche riferimento per tutti: Hainard, Kaher 1984 e 1985; Ames 1986; Vergo 1989; Desvallées 1992a e 1994; Clifford 1993; Karp, Lavine 1995; Karp, Mullen Kreamer, Lavine 1995; Stocking 2000), è nata l’antropologia museale italiana (Kezich,Turci 1994; Sezione di Antropologia Museale 1996; Turci 1999), che si è costituita
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successivamente «nella Società Italiana per la museologia e i beni culturali demoetnoantropologici, come associazione dei professionisti del museo antropologico e promotori di una nuova museografia di comunicazione e partecipazione». Essa «ha come referente una fitta rete museografica di base italiana, nata per lo più per iniziative volontarie, e riqualificata negli anni ’90 da investimenti pubblici sul territorio, così da presentare ora molti casi di eccellenza per innovazione tecnologica, dialogo internazionale, rapporto con gli studi, iniziative ed eventi di divulgazione» (Clemente 2007: 23; sulle nuove prospettive aperte dall’antropologia museale, cfr. anche Padiglione 2006). All’interno delle vicende collegate alla museografia demoetnoantropologica italiana e alle modificazioni nella maniera di concepire le cose nei musei e di considerarne le funzioni, che qui ho cercato ovviamente solo di richiamare a grandissime linee, rimandando peraltro ad altre parti del lavoro in cui esse sono debitamente riprese, e unicamente allo scopo di fornire la cornice entro cui deve necessariamente inserirsi un libro che parla di oggetti e di musei, si colloca anche la storia individuale di tutti coloro che a questi temi hanno dedicato e continuano a dedicare parti significative della propria attività di studio. Portando questa considerazione sul piano personale, posso dire di avere in particolare cominciato a riflettere sulla mia vicenda, come ricordo nell’ultimo capitolo, quando partecipai alla inaugurazione di una mostra di oggetti del lavoro contadino e della vita domestica allestita a Montalbano Jonico, in provincia di Matera, nel mese di luglio di due anni fa. Ascoltando allora il collezionista e curatore dell’esposizione, il cantante girovago Vincenzo Rosano, parlare dei suoi colloqui con gli oggetti da lui raccolti e custoditi con consapevolezza e passione, iniziai a pensare retrospettivamente all’insieme di ricerche, riflessioni, esperienze compiute e condotte nell’ultimo venticinquennio su oggetti, musei, collezioni, con la consapevolezza che il mio personale itinerario attraverso quei temi e le relative questioni teoriche e metodologiche potesse essere, al di là dei risultati raggiunti, significativo e forse anche rappresentativo di un particolare approccio progressivamente modificatosi negli anni, a partire da una eredità di studi che ha costituito il nucleo della mia formazione iniziale e che ho sempre inteso come un bagaglio indispensabile da portare sempre appresso, da valorizzare, far inte-
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ragire e integrare con le nuove prospettive man mano manifestatesi e affermatesi sul piano nazionale e internazionale. Da quell’avvio di riflessione è successivamente nato questo libro, che non è tanto una raccolta di saggi quanto una complessiva rivisitazione e rielaborazione di riflessioni e scritti vari, editi e inediti, che consentono di costruire un percorso attraverso le mie esperienze di osservazione, studio e pratica museografica condotte in Puglia e in Basilicata in un periodo che va più o meno dalla metà degli anni Ottanta a oggi. I nove capitoli che compongono il libro non si susseguono secondo un criterio cronologico riferibile alla successione di tali esperienze, ma rispondono a un ordine logico che tende a connetterle, in maniera quanto più organica e coerente, alle questioni di carattere generale e a quella storia nazionale a cui ho prima accennato. È per questo che ho ritenuto di aprire con una ricostruzione delle prime forme documentabili di collezionismo etnografico e delle prime realizzazioni museografiche in area apulo-lucana, puntando soprattutto l’attenzione sul rapporto tra tali iniziative e la Mostra di Etnografia Italiana del 1911, alla quale diedero tra gli altri un contributo rilevante, nella ricerca e nella fornitura dei materiali rappresentativi della cultura tradizionale delle due regioni, Giovanni Tancredi per la Puglia e Giuseppe Antonio Andriulli per la Basilicata. E per la parte riservata ad Andriulli ho in particolare utilizzato uno dei miei scritti più recenti e fin qui inedito: il testo dell’intervento al convegno “Firenze 1907. Primo Museo di Etnografia Italiana: un bilancio, cento anni dopo”, organizzato dalla Società Italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici e svoltosi a Firenze il 15 dicembre 2007. Direi che il mio impegno nel campo degli studi sugli oggetti e la cultura materiale e nel settore della museografia di interesse antropologico si debba del tutto collegare, inizialmente, alla collaborazione prestata fin dagli inizi degli anni Ottanta alle iniziative avviate e condotte dall’Istituto di Storia delle tradizioni popolari dell’Università di Bari diretto da Giovanni Battista Bronzini, con il quale nel 1980 avevo discusso la mia tesi di laurea sugli insediamenti rurali nell’Alta Murgia. Bronzini mi aveva assegnato l’argomento di tesi in un momento in cui egli, filologo e studioso soprattutto di letteratura popolare, aveva cominciato a manifestare interesse verso la cultura materiale in parte perché si trattava di un settore allora og-
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getto di un diffuso dibattito sul piano interdisciplinare, e però come accennato in una prospettiva sostanzialmente e rigorosamente storica, teso a darne una definizione stabile e a individuarne funzioni e ambiti di competenza, in parte per via di sollecitazioni che provenivano dal territorio e finalizzate alla realizzazione di musei della cosiddetta civiltà contadina. In particolare, faccio riferimento al suo coinvolgimento nelle riflessioni e nelle discussioni sul Museo della Civiltà Contadina di Sammichele di Bari, fondato a metà degli anni Settanta da Vito Donato Bianco, professore di Chimica nell’Università di Bari e presidente della locale Pro Loco, e all’incarico che, più o meno nello stesso periodo, il Comune di Pomarico, in provincia di Matera, gli aveva affidato per la progettazione di un Museo Storico della Civiltà Contadina Lucana. In tale contesto, dunque, maturarono anche i miei interessi per gli oggetti e i musei e, dopo la laurea, essi si concretizzarono nella partecipazione alle ultime fasi del processo di riallestimento del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari del Gargano «G. Tancredi», che fu inaugurato da Bronzini nel 1983, e, successivamente, soprattutto nelle attività di ricerca e di progettazione riguardanti il Museo della Cultura Arbëreshe a San Paolo Albanese e il Museo dei Culti Arborei ad Accettura (Bronzini 1983, 1993c e 1998). Di queste iniziative parlo nel secondo capitolo, che ho voluto interamente riservare alla figura intellettuale, di studioso e docente di Storia delle tradizioni popolari, di Bronzini e ai suoi interessi museografici, esplicitatisi nella scrittura (si veda soprattutto Bronzini 1985), nei suoi rapporti con altri protagonisti di quella fase per certi aspetti fondativa di un orientamento di museologia razionalista in campo demoantropologico ed etnografico in Italia, e in particolare con Alberto Mario Cirese e Giuseppe Sˇebesta, oltre che nel suo lavoro di consulenza scientifica per la effettiva realizzazione di musei sul piano territoriale. Ma, come dicevo, ho inteso inserire, perché meglio possa essere compreso, il Bronzini progettista e scrittore di musei nella sua più generale attività di studio e di docenza, segnata da un approccio che, sorretto da una salda vocazione di tipo storico, impiegava procedure epistemologiche e si rifaceva a modelli di analisi propri degli studi letterari e filologici. Parlare di Bronzini ha, in fondo, per me il significato di descrivere il terreno in cui è avvenuta la mia formazione iniziale, quella in cui trova le sue radici la mia propensione a
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guardare sempre alle forme e alle modalità espressive della vita e della cultura tradizionale, intesa essenzialmente come cultura di base, nelle sue connessioni con le dinamiche di tipo territoriale. Di Bronzini avevo già scritto alcune note, di carattere sostanzialmente commemorativo (Mirizzi 2002b, c, d; 2004d), che ho in parte qui ripreso, inserendole in un discorso molto più ampio per il quale, con riferimento ai progetti e alle pratiche realizzazioni, mi sono anche rifatto a porzioni di scritti già editi, variamente compresi in De Vita, Mirizzi 1991, per quel che riguarda in particolare alcuni aspetti della ricostruzione del processo di allestimento del Museo «G. Tancredi», e in Mirizzi 2003a e 2004c per alcuni passaggi relativi a Pomarico e Accettura. Una seconda fase della mia attività di studio su temi connessi alla cultura materiale e alla museografia si collega al mio ruolo e alle mie funzioni di ricercatore, prima, e di docente di discipline demoetnoantropologiche, poi, nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Basilicata. Una delle iniziative più rilevanti di questa fase è stata quella rappresentata dalle ricerche effettuate in area lucana sui musei e sulle collezioni di interesse antropologico, avviate con una prima rilevazione sul terreno condotta nel 1998 all’interno di un più ampio progetto di documentazione della cultura tradizionale, nei suoi aspetti materiali e immateriali, regolamentato da una convenzione tra la Regione Basilicata e il Dipartimento di Scienze Storiche, Linguistiche e Antropologiche dell’Ateneo lucano, di cui era responsabile il compianto etnomusicologo Pietro Sassu. Ma l’operazione di maggior rilievo, anche sul piano della comunicazione, è stata rappresentata dal coordinamento nel 2003 di un censimento dei musei e delle collezioni etnografiche, progettato e condotto in collaborazione con l’allora Soprintendenza al PSAD, e ora Soprintendenza per i BSAE, della Basilicata, che era diretta da Paolo Venturoli. Il lavoro si concluse con una mostra, per la quale rinvio a Mirizzi 2003b, e con la pubblicazione del relativo catalogo (Mirizzi, Venturoli 2003). L’esposizione, dedicata alla rappresentazione delle 37 collezioni allora censite e documentate, fu inaugurata a Matera l’11 luglio 2003 e rimase aperta al pubblico in Palazzo Lanfranchi, sede del Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata, fino a tutto il mese di settembre dello stesso anno.
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È stato in occasione di tali iniziative che ho iniziato a riflettere sistematicamente sul senso di quei musei che si ispirano, spesso anche nella loro denominazione, alla nozione, di origine leviana, di civiltà contadina, sulla quale in particolare Cirese si era soffermato nella sua relazione al convegno sul lavoro contadino tenutosi a Bologna e a San Marino di Bentivoglio nel gennaio 1975 (Cirese 1977: 3-34). A questo tema è dedicato il capitolo III, che prende l’avvio da una serie di dati raccolti e di considerazioni scaturite nel corso e a seguito della ricerca del 2003 per allargarsi all’analisi di alcune situazioni e di alcuni musei che, in Puglia e in Basilicata, sono particolarmente rappresentativi di un modo di guardare alla civiltà contadina come all’espressione di un passato da recuperare e da valorizzare di fronte alle trasformazioni che fenomeni come industrializzazione, deruralizzazione, urbanizzazione avevano provocato negli anni Sessanta, soprattutto, quando la società italiana subì mutamenti radicali nei processi produttivi, nei consumi e negli stili di vita. I musei che prendo in considerazione hanno tutti avuto origine da forme di collezionismo e sono successivamente divenuti istituzioni pubbliche e, al di là delle effettive realizzazioni, sono stati resi oggetto di programmi e progetti per allestimenti fondati su criteri più o meno razionalisti e per farne centri di ricerca e luoghi per la comunicazione didattica. Esemplari, al riguardo, sono le vicende del Museo della Civiltà Contadina di Sammichele di Bari e del Museo Etnografico dell’Alta Murgia di Altamura, del quale in particolare ho personalmente seguito i diversi passaggi e mutamenti, non ancora completatisi, di cui ho in precedenza scritto in Mirizzi 1992 e 2005a. Il capitolo si conclude poi con un caso di museo della civiltà contadina incasellabile nella categoria devariniana del museo territoriale (de Varine 2005: 158-161): il Museo delle Arti, dei Mestieri e della Civiltà Contadina istituito nel 2000 a Latronico, cittadina termale del Lagonegrese in provincia di Potenza, che, nato sulla base di un tentativo di organizzazione in senso razionalista, per cicli produttivi e settori lavorativi, di oggetti appartenenti originariamente a collezioni private, sta subendo oggi un processo di trasformazione in Museo del Termalismo con il recupero e la ristrutturazione dello storico stabilimento termale costruito nel 1928. Essendomi stato affidato dal Comune di Latronico l’incarico di consulenza scientifica per il progetto di riallestimento, racconto qui per la prima volta co-
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me si pensa di rappresentare una storia condivisa della comunità latronichese, ricorrendo alla narrazione memoriale di vicende individuali e collettive connesse alla realtà del paese nel periodo grosso modo compreso tra la costruzione delle terme e la cessazione della loro attività nel primo stabilimento, che si avvia ora appunto a diventare sede del museo. Nel riallestimento le terme, che hanno in parte anche inciso nella modificazione dei costumi locali, avranno valore di demarcatore temporale e rappresenteranno nel museo una specie di fondale per la rappresentazione scenografica della vita quotidiana a Latronico fino agli anni della grande trasformazione economica e sociale degli anni Sessanta del ’900. Contestualmente, ho iniziato a occuparmi in maniera specifica del mondo del collezionismo etnografico come un campo definito da pratiche sociali e da personali strategie di patrimonializzazione attuate da singoli individui con finalità essenzialmente di tipo identitario. Qui soprattutto gli oggetti assumono negli spazi espositivi in cui sono raccolti una funzione precipuamente evocativa, riuscendo a comunicare con chi è in grado di ascoltarli e favorendo l’attivazione di processi di riconoscimento fondati sulla memoria e sul senso di appartenenza a una condivisa storia comunitaria. Nei musei dei collezionisti, come cerco di dimostrare nel capitolo IX anche attraverso gli esempi riportati, specie quello costituito dal Museo-Laboratorio della Civiltà Contadina e dei Mestieri Scomparsi di Donato Cascione a Matera, gli oggetti cessano di essere documenti della cultura materiale e diventano testimonianze di tipo biografico e autobiografico, rimandando simbolicamente alla vita e alle attività di uno o più individui, contribuendo così alla costruzione di un patrimonio locale e favorendo connessioni intergenerazionali. Il citato capitolo IX è, dunque, interamente dedicato a questo tema e si basa sulla riproposizione, in una versione aggiornata e ampliata, di un articolo pubblicato con il titolo Oggetto nella rivista «Antropologia Museale», IV, n. 14, pp. 60-62 (numero speciale dedicato a “Culture visive. Parole chiave degli antropologi”). Ho inteso collocare la riflessione sugli oggetti parlanti e sui collezionisti alla fine del volume perché essa mi sembra che ben rappresenti il cambiamento del mio approccio alla museografia in una direzione riflessiva, nell’ambito di uno scenario in cui l’antropologo si pone come interlocutore e mediatore delle forme di valorizzazione dei patrimoni da par-
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te dei protagonisti locali e, quindi, in una prospettiva molto diversa da quella segnata dalla tendenza al razionalismo delle prime esperienze condotte al seguito di Bronzini. L’attenzione ai collezionisti è, in fondo, più in generale l’attenzione ai musei locali, i «piccoli etnografici musei» secondo la felice definizione di Vincenzo Padiglione (2002), intesi come luoghi per l’acquisizione di conoscenze, ma anche spazi dei ricordi e delle emozioni personali, come strumenti per l’attivazione di procedure didattiche, ma anche di manifestazioni creative e processi di patrimonializzazione. Tali posizioni sono, peraltro, maturate all’interno delle riflessioni e dei dialoghi avviati e sviluppati con la partecipazione all’attività ordinaria e alle iniziative promosse dalla Società Italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici, alla cui fondazione ho contribuito nel 2001 a Santarcangelo di Romagna, dopo un più breve periodo di adesione alla Sezione di Antropologia Museale dell’A.I.S.E.A. I capitoli IV, V e VI derivano, invece, da esperienze e ricerche condotte tra la metà degli anni Ottanta e la prima parte degli anni Novanta. Nel primo di essi mi occupo di fonti d’archivio utili per la conoscenza degli strumenti del lavoro agricolo, che costituiscono quasi sempre il nucleo centrale delle collezioni etnografiche presenti nelle regioni meridionali, e dei relativi contesti d’uso. Il capitolo riproduce, con minime variazioni, il saggio pubblicato, con il titolo Fonti per uno studio degli «strumenti rurali» nell’Italia meridionale: le memorie della Società Economica di Terra di Bari, nei «Quaderni del Dipartimento di Scienze Storiche, Linguistiche e Antropologiche dell’Università della Basilicata», I, 1994, pp. 241-262, e riproposto poi, in forma ridotta e con il titolo Tecniche agricole e strumenti di lavoro in Terra di Bari, anche in «Fogli di periferia», VI, 1994, 2, pp. 5-14. L’interesse per una ricognizione intorno ai documenti d’archivio in grado di fornire informazioni sugli attrezzi e le tecniche dell’agricoltura meridionale in età moderna e contemporanea, qui in particolare riferita alle ottocentesche memorie della Società Economica di Terra di Bari, traeva da una parte ispirazione dal suggerimento di Bronzini di dare agli oggetti nei musei una dimensione storica che contribuisse a una corretta ricostruzione dei contesti e consentisse esposizioni narrative riferibili a una precisamente individuata area geografica entro uno specifico arco cronologico (Bronzini 1989 [ma 1993]), dall’altra dalle sollecitazioni che in quei
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primi anni Novanta provenivano dal dialogo con storici dell’età moderna, dell’economia e dell’agricoltura e che mi avevano portato anche a partecipare con relazioni a convegni come, ad esempio, quello dal titolo “Cultura e Società in Puglia e a Bitonto nel sec. XVIII”, svoltosi a Bitonto, nella provincia barese, il 22 e 23 maggio e il 6 e 7 novembre 1992 (Mirizzi 1994a). Il capitolo V si pone in un rapporto di diretta continuità con quello dedicato alle fonti d’archivio perché si colloca anch’esso nell’ambito della esigenza di operare una contestualizzazione degli oggetti esposti nei musei attraverso il ricorso alla scrittura, a documenti iconografici, alle tecnologie multimediali, oppure demandando la contestualizzazione, come spesso avviene per i musei gestiti da collezionisti e operatori locali, a cataloghi e libri che, più che agli oggetti, sono dedicati alla storia dei contesti in cui l’uso degli oggetti stessi risulta attestato. Su questa base, il capitolo ripropone, dotato di una opportuna e articolata premessa metodologica e aggiornato sul piano dei riferimenti bibliografici, il saggio che avevo pubblicato, con il titolo La cerealicoltura fra metodi tradizionali e innovazioni tecnologiche, nel volume Processi lavorativi e vita sociale nel Basso Tavoliere. Introduzione al Museo Etnografico Cerignolano, Cerignola (Fg), Centro Regionale di Servizi Educativi e Culturali, 1989 [ma 1993]. Si trattava di un libro che, concepito come catalogo del museo, era stato in realtà costruito come un testo che agevolasse la lettura dei manufatti e degli altri materiali documentari esposti o custoditi, privilegiando la descrizione delle diverse fasi del lavoro agricolo e pastorale nel Basso Tavoliere e delle forme di vita sociale a cui gli oggetti della collezione rinviavano. Esso si apriva con una introduzione di Bronzini, che consisteva poi nel saggio già citato (Bronzini 1989 [ma 1993]) nel quale egli, ribadendo la necessità di connettere il progetto espositivo alle condizioni storiche che definivano i processi produttivi e le modalità di vita quotidiana rivelati dai materiali oggettuali, dava una dimostrazione dell’apporto che fonti scritte, come quelle relative alle grandi inchieste agrarie condotte in Italia meridionale tra il ’700 e il ’900, potevano fornire alle operazioni museografiche in campo etnografico e/o demologico. Il capitolo VI è la riproposizione, anche in questo caso però in una versione ampiamente rivista e aggiornata, di un articolo pubblicato, con
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il titolo L’anello e l’aratro: il carnevale a Gravina, in «Fogli di Periferia», I, n. 2, pp. 34-40. Esso scaturiva da una ricerca sul terreno condotta dal 1984 al 1988 e avente per oggetto due frammenti folklorici riguardanti il carnevale nella cittadina di Gravina in Puglia, in provincia di Bari, consistente nella ripresa di due cerimoniali effettivamente o presuntivamente dismessi alcuni decenni prima. Se l’uno era costituito dalla corsa all’anello, cioè una giostra a cavallo nel corso della quale ai concorrenti si chiedeva di infilare con un bastoncino un anello agganciato a una corda sospesa ai due lati di una strada, l’altro era una particolare variante delle numerose forme di “aratura rituale” diffusamente attestate in diverse regioni europee, consistente specificamente in un corteo in cui contadini travestiti da contadini riproponevano le differenti fasi del ciclo della semina. Si trattava di una rappresentazione scenica di tipo memoriale che utilizzava simboli del passato per costruire un patrimonio da lasciare in eredità alle future generazioni e che, in particolare, impiegava attrezzi agricoli appartenenti a un contesto preindustriale e custoditi nel Centro di Documentazione della Vita Contadina realizzato dallo stesso regista della rievocazione scenica, cioè dall’allora presidente della Pro Loco Giuseppe Schinco. La rilettura di quanto avvenne in quei cinque anni in occasione della riproposizione dei due cerimoniali carnevaleschi consente oggi di disporre di elementi di riflessione sulle modalità di costruzione di una tradizione e sul contributo che ai processi di patrimonializzazione possono fornire i musei attraverso un uso esterno degli oggetti delle collezioni, sottratti agli spazi espositivi e messi a disposizione per ricostruzioni di tipo storico, o semplicemente ritenute tali, organizzate con intenti pedagogici e per fini identitari. Anche il capitolo VII riprende, con gli opportuni aggiornamenti sia sul piano della riflessione che su quello dei riferimenti bibliografici, un saggio già edito, dal titolo Lavoro e vita quotidiana nell’Alto Bradano. Note sull’etnografia nativa di Antonio Cimino, in «Archivio di Etnografia», I, 1999, n. 1, pp. 73-93. L’attenzione è qui concentrata sulla figura di Antonio Cimino, contadino ultraottantenne di Acerenza, in provincia di Potenza, che negli anni si è reso protagonista attivo di una serie di rappresentazioni della memoria e del sapere attraverso il ricorso alla versificazione, alla scrittura del locale, secondo la definizione di Daniel Fabre (1998: 47), alla ma-
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nipolazione della materia per la realizzazione di un piccolo museo di oggetti in miniatura riproducenti strumenti di lavoro e manufatti domestici, alla progettazione e realizzazione di una casa arredata con mobili e suppellettili di tipo tradizionale. Lo sguardo è puntato qui soprattutto sul micromuseo come forma di rappresentazione del mondo contadino del passato realizzato da Cimino con l’intento di dotare le giovani generazioni, in particolare i bambini frequentanti la scuola dove è allestito, di strumenti per una comprensione della vita e della società dei loro nonni. Ovviamente, però, il museo in miniatura trova le sue chiavi di spiegazione soprattutto se correlato con le altre produzioni di etnografia nativa di cui Cimino è autore e di cui nell’articolarsi del discorso si esplicitano significati, modalità e intrecci. Il capitolo VIII è dedicato alla storia e agli esiti di uno dei progetti museografici di Bronzini, a cui io avevo lavorato collaborando con lui fin dagli inizi: Il Museo della Cultura Arbëreshe di San Paolo Albanese, il cui allestimento, nei primi anni Novanta, fu preceduto da una serie di iniziative dal basso finalizzate al recupero di una memoria collettiva e dei segni rivelatori di una specifica identità comunitaria, dall’affidamento dell’incarico di consulenza scientifica a Bronzini e da una ricerca sul campo, che costituì il necessario preludio alla progettazione, le cui linee portanti si possono leggere in Bronzini 1993c. Nel capitolo si cerca a) di ricostruire il contesto entro cui maturò l’idea del museo come mezzo per la messa in valore del patrimonio folklorico locale e come tentativo di farne uno strumento per garantire al piccolo paese arbëresh forme di sopravvivenza e di sviluppo; b) di illustrare, con riferimento a un saggio che pubblicai contestualmente al progetto, dal titolo Indagini preliminari al progetto per un museo della cultura arbëreshe a San Paolo Albanese, nella rivista «Lares» (Mirizzi 1993b), gli obiettivi, le modalità e i risultati della ricerca promossa da Bronzini perché si disponesse delle conoscenze necessarie per la definizione del processo di allestimento; c) di riferire nelle sue linee essenziali la proposta progettuale di Bronzini, che voleva realizzare un «museo storico» in cui fossero rappresentati anche i processi di acculturazione e le forme di integrazione tra la cultura di origine della comunità albanese stanziatasi a San Paolo nel XVI secolo e la cultura romanza delle popolazioni residenti nei paesi vicini; d) di dare notizia dell’attuale progetto di rialle-
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stimento, affidato dall’Amministrazione Comunale all’arch. Lucio Vitarelli per la parte architettonica e al Comitato Tecnico Scientifico del museo, da me presieduto, per gli aspetti legati al discorso museografico e alla definizione del percorso espositivo. Anche qui, come nel caso di Latronico, l’intenzione è quella, pur riprendendo alcune linee del progetto di Bronzini, di rappresentare aspetti e forme della cultura arbëreshe con riferimento a un processo di costruzione identitaria fondato su una memoria che è insieme autobiografica e comunitaria. In tale prospettiva, come si evidenzia nell’ultima parte del capitolo, il museo non può ridursi a una esposizione di cose, ma deve affermarsi e costituirsi come luogo di sintesi e di intreccio dei ricordi e delle esperienze personali, dei saperi e delle tecniche, dei suoni e delle voci. E, così, esso sarà «spazio di evocazione della memoria, deposito di conoscenze e di valori, ambito di mediazione tra il mito e la storia, luogo di autodefinizione in un mondo, come quello odierno, caratterizzato da una molteplicità e una straordinaria varietà di fenomeni culturali» (cap. VIII: 184). A questo punto, non mi resta che lasciare al lettore la possibilità di cogliere nell’articolazione complessiva del lavoro gli elementi che consentono di fare il punto, sul versante storiografico e su quello delle questioni di ordine teorico e metodologico, su specifici aspetti connessi agli studi di storia della cultura materiale e alla museografia di interesse demoetnoantropologico in Puglia e in Basilicata. A me preme sottolineare ancora come il libro abbia la funzione di proporre tali elementi in forma problematica e a partire da uno specifico e personale percorso di ricerca e riflessione che ne fa in certo modo anche una specie di metanarrazione, volta cioè al racconto dell’esperienza vissuta e praticata da chi scrive alla luce di un itinerario tra storie di oggetti e racconti di musei, come recita spero non impropriamente il titolo. Un itinerario che, partendo dall’idea dell’istituzione museale e delle cose in esso contenute come espressioni di una cultura territoriale nella sua dimensione contestuale giunge, attraverso tappe e fasi progressive, alla convinzione che il museo sia un luogo di dialogo con le tradizioni vive e uno spazio simbolico di autorappresentazione e di fondazione del senso di appartenenza a livello locale intorno a uno o più temi, o anche a un evento identificativo e unificante per l’intera comunità, e che gli oggetti collocati nei musei debbano essere percepiti, come
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più volte ribadisco nel corso della trattazione, oltre che come documenti di cultura materiale definiti nei loro valori funzionali e storici, come simboli autobiografici evocativi di storie, passioni, affetti, speranze per un futuro migliore. Queste ultime considerazioni, investendo il mio percorso di ricerca, mi fanno ancora ripensare agli anni della mia formazione e, quindi, a Giovanni Battista Bronzini, al suo insegnamento concretizzatosi, devo dire, soprattutto nel fare e nella comunicazione informale, ad esempio quando si dovevano elaborare i documenti per i Comuni che richiedevano proposte e progetti museografici o durante i lunghi viaggi in auto fatti per raggiungere insieme Monte Sant’Angelo, Accettura o San Paolo Albanese. Si discuteva di musei e di tante altre cose, si parlava di «Lares», a cui egli teneva moltissimo, di storie accademiche e, a volte, di faccende private. Ma direi che l’apprendimento avveniva soprattutto attraverso la lettura dei suoi scritti e ora, rileggendo le pagine del presente lavoro, mi rendo conto di quanto gli debba in termini, appunto, di formazione e di approccio ai temi del patrimonio e della tradizione. E, allora, è inevitabile dire che questo libro non può che essere dedicato alla sua memoria e mi sembra di rendergli il dovuto ricordo più ora, e così, che non negli interventi e nei testi d’occasione elaborati per commemorarlo dopo la sua improvvisa e inaspettata scomparsa. Ma un’altra dedica sento di voler e dover fare: quella ad Alberto Mario Cirese, decano dei nostri studi, colui che si può a giusta ragione considerare l’autentico ri-fondatore della museografia demologica ed etnografica negli anni del secondo dopoguerra, dopo la prima grande stagione dei Pitrè e dei Loria, dei Mochi e dei Baldasseroni. Con i suoi scritti egli ha insegnato a tutti noi a pensare criticamente agli oggetti e ai musei, continuando a proporre utili riflessioni anche in un quadro profondamente mutato rispetto alle sue prime e fondamentali produzioni (Cirese 1996 e 2007). Devo poi molto a Pietro Clemente, perché nell’ultimo decennio la mia attività di ricerca e di studio si è costantemente svolta in dialogo con lui, con le sue idee e le sue intuizioni, con il lavoro comune all’interno della SIMBDEA. E diverse pagine di questo libro sono debitrici dei suoi scritti e delle sue riflessioni su questioni di musei e di patrimoni.
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Desidero inoltre ringraziare tutti – sono davvero tanti, e per questo preferisco non nominarli uno a uno – i colleghi e i collaboratori che in questi anni hanno condiviso, e continuano a condividere con me, le prospettive di lavoro su musei, oggetti, collezioni e patrimoni. E, poi, devo ammettere che la stesura del volume, e tante altre cose, mi sono state possibili grazie alla pazienza e alla comprensione di mia moglie Luisa e mio figlio Antonio, che mi sono sempre stati vicini con premura e affetto. Infine, a meno di due anni dalla scomparsa di mio padre, voglio qui ricordarlo perchÊ tra i possibili lettori del libro, pur non essendosi egli mai occupato di oggetti e di musei, mi mancherà particolarmente.