Opere teatrali. Volume terzo (Discordia d’amore), di Salvestro cartaio detto Il Fumoso

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Salvestro cartaio detto Il Fumoso

Opere teatrali volume terzo

Discordia d’amore edizione critica e commento a cura di Anna Scannapieco prefazione e traduzione di Roberto Alonge


Indice

Prefazione di Roberto Alonge

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Nota al testo

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Discordia d’amore

Bibliografia Indice delle forme e delle parole annotate

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Prefazione di Roberto Alonge

Per il significato generale di questa edizione completa dei testi teatrali del Fumoso (e per le modalità della connessa traduzione di servizio) mi permetto di rinviare alla Prefazione al primo volume della collana. Mi limito pertanto – a incipit della presente pubblicazione (che per ragioni meramente tecniche anticipa la quarta commedia del Fumoso, cui seguirà la terza, di prossima stampa) – a poche osservazioni intorno a Discordia d’amore. Il Fumoso realizza qui un prodotto drammaturgico di valore. A prima vista sembra la riproposizione del Tiranfallo, storia di una villanella contesa da due contadini, per non parlare del marito (o fidanzato che sia) della stessa villanella. Ma qui si impone da subito una originale densità di quadro umano e sociale. Ognuno dei due contendenti (Randello e Tonfistuchi) ha un compare, alleato nello scontro militare con il rivale, ma i due sodali sono tratteggiati con note differenti. A fianco di Randello c’è Mangiasciuto, un contadino di una certa età, che alla domanda diretta di Randello, se conosca l’esperienza di amore («Se’ ’namorato tue?»), ribatte amaramente: «Nonn-io per me, / ch’i’ nonn-atendo a dame. // [...] Eh fratelino, il mio tempo è passato. / Atendo drieto a’ buoi, no la comprendi? / lavoro tutto il dì ’ntorno all’arato». Un contadino di mezza età, per il quale il tempo della vita è solo più il tempo aspro del lavoro, ma con una lucida consapevolezza della propria frustra-

Fumoso1, pp. 7-12. Le ragioni dell’anticipo-posticipo sono da addebitare alle particolari difficoltà riscontrate nel reperimento della princeps del Batechio (la terza commedia, appunto, del corpus). Mentre l’indagine filologica e critica sulla Discordia d’amore giungeva a compimento, la prima edizione della precedente commedia era finalmente “stanata”: ma, per evitare una pausa troppo pronunciata rispetto alla pubblicazione delle prime due commedie, si è preferito invertire l’ordine della coppia successiva, dando appunto priorità editoriale alla Discordia d’amore. 


Prefazione

zione sessuale. La sua dichiarazione si conclude infatti con una coraggiosa confessione di infelicità esistenziale: «Rodare’ ben un corteciuolo anch’io, / per questo non vò dir d’esar beato». E rimando alle note 1 e 36 di Anna Scannapieco circa la valenza sessuale sia del nome Mangiasciuto che del «corteciuolo», pur restando prudente rispetto alla valenza «prettamente sessuale» (per citare la Scannapieco) del digiuno del personaggio. Il doppio senso – a mio modesto parere – non esclude la persistenza del primo senso, appunto quello originariamente sociologico. Se è indubbio che Discordia d’amore è un testo centrato essenzialmente sulle tensioni sessuali, ciò non toglie che il Fumoso sia sempre attento a conservare l’incardinamento storico-sociale di un mondo che è e resta contadino, con le sue durezze di vita. Quando Mangiasciuto propone a Randello di fare dei regali a Pasquina per ottenerne i favori, nella risposta di Randello l’esperienza economica del contadino-lavoratore traluce visibilmente dietro la dimensione del contadinoamoroso: «Oh, facci l’opra, e poi la pagarò: / s’i’ non lavoro, non m’è dato tantino». Di stoffa ben diversa è costituito invece l’altro compare, Scaravoza, presumibilmente coetaneo di Tonfistuchi, e comunque non caratterizzato – a differenza di Mangiasciuto – come vecchio. La sua virilità ancora piena rende possibile una coloritura più sulfurea del personaggio, che non ha alcuna lealtà nei confronti dell’amico che pure, a parole, dovrebbe proteggere. Lo coglie mentre sta tentando avances sostanzialmente fortunate con la sua bella, e interviene sfacciatamente, facendo scappare la donna, salvo fingere con Tonfistuchi di non averla riconosciuta, proprio per sottrarsi all’accusa di sabotaggio manifesto. Non esita nemmeno a stabilire un contatto verbale con Randello, rivale del suo protetto, e tenta infine vilmente di insidiare la stessa Pasquina. Il dialogo diretto con la donna è di una crescente cinica brutalità. Si auto-candida inizialmente, con grande sfrontatezza, come amante in esclusiva della donna (dopo aver denigrato i due spasimanti, ma paradossalmente parlando molto male di Tonfistuchi, e molto meno male di Randello); a fronte del diniego della donna, ridimensiona goffamente le sue pretese, dichiarando di potersi accontentare a stare della partita «a un carato», misura che indica un ventiquattresimo di una proprietà. Non più amante in regime di monopolio, ma azionista di una proprietà condivisa, che è poi quella del corpo della donna. E se la donna rifiuterà, scatterà la sua diffamazione, conclamata urbi et orbi: racconterà a tutto il paese di averla colta in intimità con Tonfistuchi. Feroce ricatto sessuale, che non spaventa Pasquina,


Prefazione

la quale gli chiede provocatoriamente se si spingerà sino alla violenza carnale. Scaravoza non osa confessare il proprio istinto stupratore, ma minaccia «due musoni», cioè due sonori schiaffoni. E tuttavia il fantasma del viol affiora nell’immaginario del personaggio, che più avanti evocherà la pratica del «trentuno», cioè dello stupro di gruppo, messo in opera da un folto branco (appunto i «trentunieri», per i quali rinvio alla puntuale nota 256 della Scannapieco). D’altra parte, se Mangiasciuto – padrino vecchio e dunque leale con il proprio assistito – suggeriva a Randello, come si è detto, di conquistare Pasquina attraverso la modalità tradizionale (e cortese) dei regali, Scaravoza suggerisce a Tonfistuchi comportamenti assai crudi e crudeli, che riportano ancora alla fantasia della violenza carnale, forse addirittura sotto forma di violenza anale (si vedano i vv. 47-51 e le relative note di Anna Scannapieco). Sfumature diverse mostrano anche i due spasimanti. Randello ha un nome parlante, che rimanda ovviamente al profilo di un membro fallico possente, ma è tutta la sua dimensione carnale ad evidenziare alcunché di ridondante, in qualche modo di eccessivo. Entra in scena al v. 70 preceduto dal suono clamoroso di un peto, di cui si compiace, suscitando puntuale e adeguato riconoscimento da parte di Mangiasciuto (si veda lo scambio di battute «Or che ti par di me? // Tu sei bestiale»), salvo scappare di corsa, a liberarsi del superfluo peso del ventre, come avrebbe detto Boccaccio. Con Pasquina appare molto sbrigativo, senza troppo concedere alla buona pratica del corteggiamento, pronto piuttosto a minacciare «un manrivercio», cioè un manrovescio, se non potrà ottenere subito «un bacino, almanco». Tonfistuchi si rivela invece per un tratto fisicamente meno sicuro, con qualche accento di viltà nello scontro militare con il rivale, per di più mistificato sotto il velo di menzogne auto-consolatorie (dice che gli hanno rubato il mantello, mentre invece l’ha abbandonato, nell’ansia di scappare, sottraendosi tempestivamente allo scontro con l’avversario). Non per nulla il suo nome parlante – spiega la Scannapieco – sembra saldare un nome proprio (Ton/Tonio, da Antonio) a fistuco/festuco, piccolo fuscellino di legno o di paglia, che ha ben altra pregnanza del solidissimo randello. Sicché non stupisce che nel contatto amoroso il personaggio risulti un pretendente più controllato, quasi esitante, come mostra il suo parlare franto («Vorrei... [...] // So’ ’npacciato. / I’ non m’aristio»), che peraltro lo rende più gradito a Pasquina, la quale così sintetizza il confronto ponderato dei due innamorati: «Di Tonfistuchi, a fé, posso lodarmi, / che mi vuol tanto bene, ch’è di me


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Prefazione

mato, / nonne sta tutto ’l giorno a molestarmi, / e io vò bene a lui, non me n’aguatto». Al centro del triangolo sta proprio il figurino estremamente interessante di Pasquina. La movenza iniziale (che la coglie uscita di casa «cór un panier a cogliar la ’nsalata») ripete quella del Tiranfallo, e anche il suo oscillare fra paura e insofferenza nei confronti del marito (nel Tiranfallo è propriamente il promesso sposo) riporta ad accenti di Gostanza, la protagonista femminile del Tiranfallo, ma lo svolgimento psicologico è originalmente ricco e articolato. Là c’era una donna legata a un uomo (il fidanzato), che si concedeva un amante, con la complicazione di un terzo uomo aspirante-amante. Qui, invece, Pasquina gestisce spudoratamente due (e forse tre) rapporti extraconiugali, come testimonia il suo lamento di malmaritata, che non esita a guardare in faccia la realtà della propria vita sentimentale assai complicata: «So ch’io son pur di due o tre amica». Naturalmente la cifra della nostra eroina villanesca è in un tratto di compiaciuta ambiguità, che simula discrezione e ripulsa, dietro cui si indovinano cedimenti e segrete pulsioni edonistiche. Nel primo incontro con Randello appare ruvida e quasi scortese, arrivando a definirlo «persona tanto fastiggiosa», ma quando l’uomo le chiede «un bacino, almanco», risponde con un «Orsù vedrai!» che Anna Scannapieco spiega felicemente: «Pasquina si sottrae per sfida giocosa, scappando via ma invitando al tempo stesso; come se dicesse: ‘prenditelo, se sei capace’». E certo, la battuta a posteriori di Randello ci fa capire che il bacio c’è stato («Me ne se’ per dar un, sa’, se tu sai... / Vedi che l’ebbi!»), peraltro confermata dalla replica della donna: «Or va’, se non ti costa, / a mio rifare», cioè ‘Ora, per piacere, vattene, sono in credito’. Dunque una Pasquina che mostra apparentemente di non gradire lo spasimante Randello, ma al quale fa solo finta di rifiutare l’intimità di un bacio, che forse nasconde ben altra intimità. Doppiezza analoga esibisce poi nell’incontro con il secondo spasimante, Tonfistuchi. In un a parte (che abbiamo citato poco sopra) confessa di preferire il secondo al primo proprio perché Tonfistuchi non sta tutto il giorno a molestarla, ma quando il giovane si offre di farle «compagnia», lo respinge freddamente: «No, gran merzé a te». Alterna sapientemente piccole ripulse a piccoli incoraggiamenti, e l’effetto finale è quello descritto con puntuale intelligenza interpretativa dalla Scannapieco: «Pasquina, con astuzia tutta contadina, rimprovera a Tonfistuchi proprio quello che non è, di essere troppo ardito: e, così facendo, lo induce finalmente ad una aperta dichiarazione d’amore». Mirabile è lo svolgimento


Prefazione



finale di questa sequenza, il cui senso sfugge tuttavia a una lettura superficialmente testuale. Ho già detto che sopravviene Scaravoza a rompere le uova nel paniere, cioè a disturbare l’incontro, ma fino a quale grado di intimità si era spinto l’incontro stesso? Per la Scannapieco «Pasquina, sorpresa dall’improvviso apparire dello sconosciuto, e temendo per la sua buona reputazione, scappa via di scena, sottraendosi ad un abbraccio (e forse qualcosa di più) dell’amante». Qui opterei francamente per “qualcosa di più”. S’intende che non ci sono didascalie a confermarci che il pur esitante Tonfistuchi, arrivato a questo punto del tête-à-tête, abbia disteso per terra l’amata, dando via ai preliminari d’amore, ma ci sono, a posteriori, le battute di Pasquina (e anche quelle di Scaravoza e di Tonfistuchi). Subito, a caldo, Pasquina giustifica il suo tempestivo fuggire, perché Scaravoza «non pensase a male». Ma per pensare male occorre che la situazione si presti a una ipotesi maliziosa: un semplice conversare – senza abbracciamenti e toccamenti – non può autorizzare alcuna malignità. E più avanti, riflettendo sull’accaduto, confessa implicitamente che la situazione doveva essere stata davvero ardita: «Oh poverella a ·mme! Ha’ posto cura / scapar, ch’e’ non vedesse non potei. / [...] Va’ a colui ora a levar del cuore, / a scoprirmi a quel mo’, povar’ a mène, / ch’io non abbia fatto qualche errore», che vuol dire: ‘Hai voglia esserti data con prontezza alla fuga, non ho potuto fare a meno che mi vedesse. [...] Vai ora a togliere dalla testa a quello, dopo che mi ha scoperto in quel modo, povera a me, che io non abbia commesso qualche peccato’. Pasquina stessa è consapevole di essere stata sorpresa da Scaravoza «a quel mo’», cioè in una attitudine assai equivoca, legittimamente interpretabile come «errore», ‘peccato’. Sicché, se Scaravoza confida (scorrettamente) a Randello di aver sorpreso Tonfistuchi e Pasquina in intimità, mentre «facevan tra lor mille atti, e cenni», non possiamo pensare a banali bugie di Scaravoza; si tratta, semmai, della conferma di quanto ha ammesso Pasquina. E lo stesso vale presumibilmente per la dichiarazione di Tonfistuchi, quando Tonfistuchi e Scaravoza rievocano l’accaduto: Tonfistuchi Oh se non eri tu, chi mi teneva ch’i’ non ce la tarpassi? Oh so’ sgrasiato!

Ma in tal senso va anche un’ipotesi interpretativa della Scannapieco, avanzata in relazione ai possibili significati di acciottolare: cfr. nota 170. 3


Prefazione

 Scaravoza Era d’accordo liei? Tonfistuchi Come faceva!

Scaravoza chiede, con curiosità morbosa, se la donna ci stava, e la risposta positiva dell’amante («Come faceva!») non è parimenti da respingere, quale pura millanteria maschilista. Insomma, Pasquina è un carattere contadino ambiguamente forte, che sa riconoscere e sa coltivare il proprio diritto al piacere, alternando gli amanti, a fronte di un marito evidentemente insoddisfacente e per di più vessatorio e tirannico nella quotidianità domestica. Si ricordi con quanta energia apra il monologo con cui entra per la prima volta in scena: «Ho una stiza che tutta mi rodo, / che se non fusse il dir de la brigata / i’ fare’ qualche male in ogni modo», cioè metterebbe le corna a suo marito, come chiosa Anna Scannapieco. Se dunque in finale di commedia Pasquina chiede di evitare la cavalleria rusticana, lo fa non già per subalternità femminile al maschio, ma per una scelta libera (semmai anche un po’ sfrontata), cioè per conservarsi intatti e sani entrambi gli amanti. Ma al di qua, beninteso, di ogni concessione all’ideologia del comunismo sessuale, caro a chi, ahimè, non ha più altre bandiere di comunismo vittorioso da poter agitare al vento... Restano alcune considerazioni di carattere formale, proprio in margine all’analisi di questa sequenza un po’ sfuggente, in cui Tonfistuchi e la sua bella sono colti da Scaravoza mentre amoreggiano. Dice il nostro voyeur che «facevan tra lor mille atti, e cenni». Ecco, dobbiamo imparare a leggere i testi del Fumoso (almeno i suoi, non so se anche quelli in generale della Congrega dei Rozzi) interpolando delle didascalie implicite, capaci di restituirci una spettacolarità fatta non solo di scambi dialogici, ma anche di mimica, di gestica, di scansioni prossemiche. Dobbiamo avere il gusto di inventare, cioè – etimologicamente – di ri-trovare, le didascalie che il Fumoso non ha scritto ma che ci servono per capire i suoi testi (i quali, diversamente, rischiano di risultare elusivi, enigmatici, a una “lettura superficialmente testuale”, come ho detto). A che punto del dialogo Tonfistuchi si sdraia a terra con Pasquina? Direi senza ombra di dubbio al termine della tirata in cui finalmente si decide a mostrarsi «sfacciato» (come la donna gli chiede antifrasticamente di essere), facendosi improvvisamente portatore di una pratica di corteggiamento più energico e meno sospiroso:


Prefazione



Chi non chiede non ha, chi cerca truova, e l’amor vuol più fatti che parole. Donche l’essar sì bella che ti giuova? Perdare il tempo e non amar chi t’ama.

Solo immaginando che qui si apra – per qualche minuto – la scena muta degli atti e dei toccamenti, diventano logiche, sensate, le battute che seguono (fino all’irrompere infausto di Scaravoza), che si pongono – tutte – come una sorta di riflessione sui preliminari che sono stati consumati: Pasquina Se ’l mio marito la disgrazia vuole mai lo sapessi, la sariè che trama. Tonfistuchi Oh, ha’ veduto la bella ragione! Pasquina Poi è peccato e si perde l’anfama. Scaravoza M’aracomando. Buondì massaione. Pasquina Chi è costui? Oimè, lagam’ir via, che non pensase a male. Tonfistuchi O gagliofone, che tu sei stato la druina mia.

Poco sappiamo (o almeno: poco io so) di come fosse la funzionalità scenica del teatro materiale dei Rozzi, e del Fumoso (che qui più ci interessa). A leggere le dotte e sempre stimolanti note del commento di Anna Scannapieco, mi par di poter immaginare (spero non a torto) che fosse un teatro povero, praticamente senza scenografia, quasi solo una palcoscenico vuoto, più prossimo alla scena medievale che a quella rinascimentale. Comunque uno spazio convenzionale, per così dire segmentato, che consente la compresenza di personaggi plurimi: ad esempio, su un bordo della scena, due intenti a prodursi in un duetto, mentre un altro, sul lembo estremo e opposto della stessa scena, dà il via a una sorta di monologo. Uno spazio spettacolare in qualche modo neutro, quasi anonimo, in grado di accogliere una drammaturgia che tendenzialmente non ha scansioni né in atti né in scene. Un teatro povero che è un teatro dei bisogni, delle pulsioni istintive, grossolane. Un


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Prefazione

teatro della carne, della sua segreta dimensione animalesca (si pensi alle allusioni sconcertanti di Randello al territorio della analità). Un teatro possibile solo perché immaginato come evocazione di un mondo lontano e in qualche modo tabù, come è quello della civiltà (o inciviltà) della campagna dei maledetti villani.


Nota al testo

Introduzione Tra tutte le commedie del Fumoso, Discordia d’amore fu per certo, sotto il profilo editoriale, la meno fortunata. Dopo la princeps (o presunta tale) del 1550, nel corso del secolo se ne conobbe infatti una sola ristampa (sempre senese, e senza data, ma presumibilmente dei primi anni settanta): dopo di che, la commedia pare essere sprofondata in un silenzio editoriale che – fatto salvo il repêchage, nel 1891, nella «Biblioteca popolare senese del secolo xvi» – è rimasto inviolato sino ai nostri giorni. Non si può escludere che a tale sfortuna abbia contributo il titolo stesso, dal momento che si tratta di un hápax nella titolografia del Fumoso, tutta concentrata su protagonisti eponimi, d’immediata riconoscibilità “villanesca” (come spesso accade nella drammaturgia rusticale senese in genere); è anche vero, peraltro, che, sempre in àmbito senese, un titolo come Pietà d’amore – proprio tanto di una «comedia nuova» di Marcello Roncaglia, 1542, quanto di una «comedia» di Mariano [Trinci] Manescalco, 1518 – conobbe altri, ben più favorevoli, riscontri editoriali: ma si tratta, in entrambi i casi, di una produzione che si rivolge ad un orizzonte d’attesa diverso da quello proprio della drammaturgia dei Rozzi. A spiegare la marginalità della commedia nella storia della ricezione del Fumoso potrebbe valere anche l’ipotesi (forse meno peregrina di quanto non appaia) che si tratta dell’unico testo in cui l’autore non faccia leva su quegli elementi mordaci e graffianti che riflettono il contesto cittadino e storico coevo e che punteggiano, in varia misura, tutta la sua  Cfr. Braghieri, pp. 144, 146-147, 158-159 e Valenti, pp. 319-409, 459-465, da integrare con i dati ricavabili da Edit16.  Si vedano al riguardo, e proprio per lo specifico delle commedie omonime dei due autori, le efficaci precisazioni di Alonge, pp. 1-9, 24-25.


Nota al testo

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produzione, sin dall’esile incipit costituito dal Panechio: pur dando prova di una maturità drammaturgica che – come si è cercato di illustrare nel commento – è davvero rilevante, Discordia d’amore non avrebbe rivestito l’appeal critico-satirico che forse veniva riconosciuto come cifra stilistica del nostro. Resta conclusivamente da segnalare che non è da escludere l’esistenza – oggi non più documentabile – di stampe precedenti a quella che oggi siamo tenuti a riconoscere come la princeps: e ciò non solo per il significativo scarto di quattro anni che la Discordia d’amore 1550 registra rispetto alla precedente commedia del Fumoso (Batechio), scarto che non è riscontrabile tra le altre produzioni del nostro, quanto per il ricorrere di una formula, nel frontespizio della princeps, che, come vedremo, potrebbe avallare tale ipotesi. i.

Le edizioni

1. Siena, Francesco di Simone-Giovanni Landi, 1550 [A] 1.1. Descrizione DISCORDIA D’AMORE | COMMEDIA NVOVA RV- | STICALE | Composta per il Pellegrino Ingegno del Fu- | moso dela Congrega de Rozi | nouamente stampate. | [Illustrazione: duello tra due cavalieri armati assistiti ciascuno dal proprio padrino, con figura femminile spettatrice: si veda di séguito la relativa riproduzione] Colofone: In Siena per Francescho di Simeone | A distãtia di Giouanni d’Alis | sandro Libraro. il di 31 | di Maggio 1550. Formula collazionale: 8°; A8 B4; cc. [12] (segnatura del fascicolo a cc. [2r] A ii, [3r] A iii, [4r] A iiii, [c. 9r] B, [c. 10r] B iii (indicazione erronea al posto di B ii); carattere romano; assenza di titoli correnti e di parole guida da pagina a pagina, eccezion fatta per il ricorrere del titolo «Discordia d’Amore» nel margine inferiore di B [c. 9r]). Contenuto: c. [1r] frontespizio; c. [1v] Dicitori; c. [2r] Prologo; cc. [2v-11v] Magiasciuto e Randello [...] Quel che ciapromesso a tutta due | EL FINIE; c. [12r, il verso è bianco] grande marca tipografica con lupa che alletta i gemelli e albero sullo sfondo (dimensioni: 6,5 x 10,2), la stessa impiegata dal


Nota al testo



tipografo Francesco di Simone quando impegnato per Giovanni Landi (identificativo Edit16: cncm 929). Impronta: a.ma sine laio Evem (C)1550 (A) Identificativo Edit16: cnce 69021 Esemplare esaminato: Biblioteca Apostolica Vaticana, Stamp. Ross. 6830 (int. 4)


Discordia d’amore Commedia nuova rusticale composta per il Pellegrino Ingegno del Fumoso de la Congrega de’ Rozi

1550


Salvestro cartaio detto Il Fumoso



Dicitori Mangiasciuto Villano Randello Villano Scaravoza Villano Tonfistuchi Villano Pasquina Contadina, dama di Randello e Tonfistuchi

A differenza di tutte le altre commedie del Fumoso, in cui l’indicazione dei personaggi – come d’altronde nella maggior parte della tradizione cinquecentesca – viene effettuata con il termine «interlocutori», qui viene impiegata quella di dicitori: nell’italiano antico, oltre che ‘oratore’, il dicitore (in rima) è per solito il ‘poeta’ (cfr. Tlio e Biz), con evidente riferimento alla dimensione orale e performativa cui veniva ricondotto (di fatto o per retaggio culturale) l’esercizio poetico; nel nostro caso, l’accezione del termine appare fortemente imparentata con quella dei poeti-performers di area fiorentina (e senese), che agirono in misura decisiva nella costituzione del dna della commedia rinascimentale. In particolare, sovviene la figura di «Domenico Barlacchia, che nella Firenze di primo Cinquecento ebbe un enorme successo come arguto animatore di brigate e come grande attore (celebrato da Marin Sanudo, da Donato Giannotti, dal Doni, dal Lasca, dal Borghini e da altri)», e che era appunto stato definito «eccellente dicitore a comedie» (Degl’Innocenti 2015, p. 43 e passim; cfr. anche Ventrone 1993 e 2016, Degl’Innocenti 2008, Pieri 2008). In area senese, ho riscontrato l’uso del termine – in luogo del più canonico “interlocutori” – nel Pelagrilli (1544) di Ascanio Cacciaconti e negli Inganni villaneschi (1576) di Domenico di Gismondo Tregiani (il “Desioso” della Congrega degli Insipidi). Come spesso nelle commedie rusticali, e segnatamente in quelle del Fumoso, tutti i personaggi sono etichettati con nomi parlanti, spesso di creativa allusività oscena e satirica. I due protagonisti della contesa d’amore, Randello e Tonfistuchi, innanzitutto, sono entrambi contrassegnati da nomi che rinviano a una virilità “problematica”. Il primo, che alla nostra odierna sensibilità linguistica (incline a percepirlo come sinonimo di ‘bastone’) parrebbe un semplice corrispettivo metaforico del ‘membro virile’, era all’origine un «baston corto, piegato in arco» (Crusca2), e soprattutto il suo impiego figurato andava nel senso o «di persona lunga e secca» (Tommaseo-Bellini), o, in area precipuamente toscana, di «uomo lungo e scemo di cervello» (Fanfani 1863); ricordo peraltro che Randello è antroponimo sostantivale evocato, sempre per la figura di un villano innamorato, anche nel Targone di Mescolino (cfr. Persiani, p. 104), sulla cui parentela con la nostra commedia si veda quanto osservato nella Nota al testo, pp. 23-25. Quanto a Tonfistuchi, si tratta di un nome che agglomera una forma ipocoristica (Ton/Tonio da Antonio) e un “patronimico”-soprannome (Fistuchi): fistuco, variante senese per festuco/festuca’ («piccolo fuscellino di legno, o di paglia, o d’altra sì fatta cosa», TommaseoBellini), è termine che, in area senese, è rimasto espressivamente “descritto” da un sonetto di Cecco Angiolieri («I’ son sì magro che quasi traluco, / de la persona no, ma de l’avere; / ed abbo tanto più a dar, che avere, / che m’è rimasto vie men d’un fistuco»); segnalo che il patro


Discordia d’amore



nimico-parlante ritornerà nel Capotondo del Fumoso, per il personaggio di Sberlinga Fistuchi. Per concludere sulle denominazioni dei villani innamorati: esse sembrano delinearsi in termini antitetici e complementari (un po’, se si vuole, sul canonico schema della coppia comica, tipo Stanlio e Ollio): se infatti si contrappongono nelle apparenze, convergono nella sostanza (che è quella di una fondamentale inettitudine a conquistare la donna amata). Quanto al nome dei “padrini” degli innamorati, Mangiasciuto e Scaravoza, molto lineare si presenta il significato del primo: costruito secondo il classico schema della combinazione di una base verbale con un sostantivo che la specifica (cfr. D’Onghia 2010), vale ‘colui che resta a digiuno’, uno status le cui implicazioni chiaramente sessuali verranno illustrate sin dall’inizio della commedia (si vedano i vv. 12-15 e il relativo commento). Più problematica la decifrazione di Scaravoza: forse costruito in base al medesimo procedimento, resta dubbia la derivazione della base verbale, mentre quella sostantivale che la specifica sembra di potersi ascrivere a bozza (sull’evoluzione, nel senese, di v > b, a causa della «fratellanza» delle due consonanti, «fratellanza [che] non è solamente nella nostra lingua, ma nella Spagnola ancora», cfr. Gigli, pp. 147-148): il cui significato, in fiorentino, «vale talora Bugia, che con altro nome si dice anche Carota, che altrui ci ficca. Onde Ficcar bozze, Raccontar fandonie, cose false» (Fanfani 1863). Per il valore del primo componente, scara-, anche se imparentabile con ascaro/escara, (‘crosta di piaga’: per cui cfr. Turamino, pp. 112-115 [dal cap. vi, §§ 4-12], Gigli, p. lvi), è forse da collegare a scaracchiare, «Fare scaracchi, o sputi catarrosi» (Tommaseo-Bellini). In questa prospettiva, Scaravoza sarebbe ‘colui che sputa carote’, o – fuor di metafora – ‘colui che sputacchia qua e là bugie’: il che è, appunto, quanto contraddistinguerà buona parte della fisionomia drammaturgica del personaggio. In alternativa, il nome potrebbe essere interpretato come la risultante della combinazione di due basi sostantivali: in tal caso, scara potrebbe essere forma aferetica di ascara (variante peraltro lucchese, mentre ascaro è proprio del senese, oltre che del modenese e del bolognese), nel valore, già ricordato di ‘crosta di piaga’; bozza manterrebbe invece il valore originario di «Enfiato o Enfiatura, Tumore» (Tommaseo-Bellini; ma cfr. anche Crusca1): sarebbe una composizione nominale, per così dire, “ascendente”, a indicare una fisionomia repulsiva e deforme. Quanto a Pasquina, è nome deputato a designare la villanella contesa per amore: basti pensare al capitolo che Strascino dedica Alla Pasquina lamentandosi che s’era maritata con altro e le augura molti mali (cfr. Pieri 2010, pp. 263-267). Damo, dama è forma popolare toscana per ‘amato/a, amante’, ‘ragazzo/a con cui si fa l’amore’.


Salvestro cartaio detto Il Fumoso



Prologo i

La prima cosa farò l’argumento: benché ci è chi ’l fa ’nansi e chi ’l fa drieto, a ·mme mi piace, e io sì mi contento, di farl’ in prima, a ·cciò ch’ognun sie queto;

Per prima cosa farò l’argomento: c’è però chi lo fa davanti e chi lo fa di dietro; a me mi piace – e in questo modo trovo appagamento – farlo prima, affinché ognuno stia  Unico in tutto il corpus teatrale del Fumoso, il prologo della Discordia d’amore documenta una pronunciata permeabilità ai modi compositivi della commedia letteraria. Il suo nucleo generatore attinge infatti a quello che era divenuto uno dei più collaudati topoi comici del prologo cinquecentesco, e cioè l’equivoco linguistico, basato sulla terminologia medica ippocratea, per cui argomento (oltre che ‘trama della commedia’) può significare ‘serviziale, clistere’: un calembour scatologico che rimbalza dalla Calandra del Bibbiena alla Cortigiana 1525 dell’Aretino, al Negromante (seconda redazione) dell’Ariosto, fino al Pedante del Belo, alla Fiorina e alla Piovana ruzantiane, al Furto e ai Bernardi del D’Ambra, alla Trinuzia del Firenzuola, e – nello stesso 1550 della Discordia d’amore – alla Dote del Cecchi; un calembour che spesso si era venuto rivitalizzando con implicazioni oscene a pratiche sessuali di tipo sodomitico. In quest’ultima accezione appare impiegato anche nel nostro prologo: si veda il riferimento, nel v. 2 (‘benché c’è chi preferisce farlo davanti, e chi invece dietro’), al valore di argomento non certo come ‘trama della commedia’ ma come ‘penetrazione fallica’. Si consideri inoltre come l’apologia del ‘farlo innanzi’ si sviluppi nella seconda ottava con giocoso ammiccamento al consueto pubblico femminile. La permeabilità del prologo ai modi della drammaturgia regolare è d’altronde nella commedia riflessa sin dal titolo: è questa infatti l’unica produzione teatrale del Fumoso che non si intitoli ad un villano eponimo, e oltretutto assuma sembianze culte (e parodiche, rispetto alla reale sostanza rappresentativa): Discordia d’amore era stato infatti il titolo di una tragedia in terza rima di Marco Guazzo, edita a Venezia nel 1526, e sarà poi quello di una commedia in prosa di Girolamo Mercadanti (Bologna, 1601: cfr. Allacci, coll. 256-257), che naturalmente nulla hanno a che fare con l’omonima del Fumoso.  ’l aferetico per el/il, forma che il pronome atono oggetto (lo) assumeva nel toscano antico in posizione preconsonantica e dopo finale vocalica (la variante el è soprattutto di area aretina; cfr. Rohlfs, § 455); ha la stessa forma dell’articolo determinativo sing. mas., con cui condivide la medesima derivazione da illu e la possibile occorrenza aferetica (cfr. infra, v. ii.7: ’l mio conseglio). ’Nansi, ‘innanzi’: la particolare grafia (ricorrente anche in i.8 e v. 26, di contro a quella di inanzi in prologo, ii.8), è dovuta alla «s cruda dopo le consonanti liquide l, m, n, r» che per solito a Siena si muta in «z un po’ dimesso» e con la quale mantiene comunque una fisiologica alternanza (Gigli, pp. 113 e 186). Drieto, ‘dietro’, è forma con metatesi, già frequente nel senese antico e tipica del registro popolare (cfr. Gigli, p. cix e Castellani 2000, p. 353; nel fiorentino conobbe la sua massima diffusione nel Quattrocento: cfr. Manni, p. 167).  ‘A me mi piace – e in questo modo io trovo appagamento – farlo prima, affinché ognuno stia tranquillo’. Sie, 3a sing. del cong. pres., per sia è del tutto normale nel senese (cfr. Hirsch 1886, p. 431), nonché diffuso nell’italiano antico.


Discordia d’amore



ché, quand’ e’ s’ode dar principiamento, pensan d’udir di buon qualche segreto e stanno chiotti, non fan rimor troppo. Però megli’è farlo ’nansi che doppo. ii

Certo mi par ch’altrui caschi in miseria col dire: «il farò poi». Gli è gran pazia, ché quando non ha capo una materia non par che dentro fondamento sia.

tranquillo; perché, quando si capisce che si va a cominciare, pensano di ascoltare qualche buon segreto e stanno taciti, non fanno troppo rumore. Per questo motivo è meglio farlo davanti piuttosto che di dietro. / Certo mi pare che la gente caschi male a dire «lo farò poi». È gran pazzia, perché quando una materia non ha capo, non sembra che entro vi sia fondamento.  E’ (nell’originale senza apostrofo, qui introdotto per differenziarlo sia da e congiunzione che da e articolo determinativo plur. masc.) è nel toscano antico la forma proclitica del pronome personale soggetto 3a persona sing. e plur. (cfr. Rohlfs, §§ 446 e 448). «D’uso larghissimo [...], con valore pressoché prefissale [...] costituisce una delle caratteristiche sintattiche del fiorentino parlato più pronunziate» in un’opera come i Motti e facezie del Piovano Arlotto (Folena, p. 369).  Chiotto, «Desinenza familiare di Cheto» (Tommaseo-Bellini), «tacito, quieto che non parla» (Politi, p. 156).  Forma dissimilata, nell’italiano antico decisamente minoritaria rispetto a romore, qui nel significato di ‘strepito’.  Nel significato antico di propter hoc, ‘per questo, perciò’; si veda inoltre la nota al v. 8 del testo. Anche in questo caso, è da segnalare l’eco allusiva a polemiche giocose variamente diffuse nei prologhi cinquecenteschi; il caso più calzante – a illuminare il senso nascosto di questo verso – è a mio avviso documentato dai vv. 61-65 del prologo del Negromante (seconda redazione): «Non aspettate argomento né prologo, / che farlo sempre dinanzi fastidia. / Il variare, e qualche volta metterlo / di dietro, giovar suol; ne la comedia / dico» (segnalo peraltro che prima edizione del “secondo” Negromante è del 1551; ma la nuova versione era stata rappresentata per la prima volta a Ferrara nel 1528).  «Doppo scrisse la Santa [Caterina], e tutti i Sanesi, ed i Lucchesi, ed i Pisani, ed i Pistoiesi, e gli Aretini. La Crusca usa dopo, e chi passasse nel dominio di quella con quest’avverbio a due palle, incorrerebbe nella pena delle introduzioni delle armi proibite. Doppo vale anche dietro» (Gigli, p. lxxiii; in realtà la forma doppo, pur blasone della scuola senese, alterna con dopo sin dal senese antico: cfr. Trovato, p. 57). ‘Dietro’ è appunto il significato che l’avverbio qui riveste, in coerenza con il calembour scatologico-sessuale corrente.  Gli è la forma tipica del pronome proclitico soggetto davanti a vocale, qui con valore di pronome neutro (ancora oggi in uso presso le parlate popolari toscane in frasi del tipo gli è piovuto tanto: cfr. Rohlfs, § 446).




Salvestro cartaio detto Il Fumoso

E’ gli è aponto là come una meria d’un uomo al sol nel mezo de la via, che non è niente. Or, donne, ’l mio conseglio è da farvelo inanzi molto meglio.

Resta appunto lì, come un’ombra di un uomo al sole, nel mezzo della via, che non è niente. Ordunque, donne, sono convinto che sia molto meglio farvelo davanti. /  È una reduplicazione del soggetto (per e’ e gli si vedano rispettivamente le note 5 e 10), molto diffusa nel fiorentino parlato antico (cfr. Folena, p. 369).  ‘Appunto’; la mancanza “antifiorentina” di anafonesi (e o toniche davanti a nasale velare [k/g] > i u; e > i anche davanti a l o n palatali) è normale nel senese sin dai più antichi documenti, pur essendo comunque comune a quasi tutti i dialetti italiani. Sulla specificità della forma senese ponto, cfr. Gigli, pp. clxxx-clxxxi.  Meria, «quasi meriggia, e più comunem. usato merie nel pl. voce del volgo fiorentino, Luoghi ameni e deliziosi» (Tommaseo-Bellini); ma qui vale senz’altro nell’accezione registrata da Fanfani 1863: «Meria chiamano in Maremma l’ombra che fa un albero». Con un’imprevista impennata lirica, la mancata anteposizione dell’«argumento» – il capo (il ‘principio’) senza il quale non è possibile dar fondamento a qualcosa – viene paragonata all’evanescenza dell’ombra di un uomo prodotta dal sole nel mezzo di una strada.  de la: la forma analitica delle preposizioni articolate, costante in tutte le principes del Fumoso, è «Idiotismo Sanese», come sottolineava il Gigli, osservandone compiaciuto il perdurarne dell’uso ancora ai suoi tempi, in quanto «riesce a maggior dolcezza di pronunzia» (almeno nella lingua parlata, dato che «altrimenti da’ più si scrive per unirsi all’ortografia comune»: Gigli, p. lv).  «I Sanesi aderiscono in gran parte all’e, dicendo conseglio, fameglia, Cardenale, ordenare ecc. dove i Fiorentini favoriscono l’i, dicendo consiglio, famiglia, Cardinale, ordinare ecc. [...] Contasi una crudelissima strage di poveri Sanesi, seguita a conto dell’uso della e, nel tempo dell’assedio di Siena, quando, non so qual Comandante de’ Fiorentini faceva imprigionare de’ passaggieri da uno Stato all’altro [...]» (Gigli, p. lxxvi; su queste e altre analoghe espansioni polemiche del Gigli, talvolta sorrette da veri e propri ‘falsi’ documentari, cfr. Migliorini; ma si veda anche la valutazione più positiva di Trifone2). Si tratterebbe di una delle più durevoli forme non anafonetiche del senese rispetto al fiorentino; ma nello spoglio di Trovato essa risulta nettamente minoritaria in campioni di scripta senesi diversi sia diacronicamente – secc. xv-xvi – che diastraticamente, oltre che in sondaggi specifici su Alessandro Piccolomini (pp. 58-59, 70-71, 75, 81). Il termine ha qui il significato antico di ‘decisione, giudizio’ (‘sono convinto, ho deliberato, che sia molto meglio farlo davanti’).


Discordia d’amore iii

 Son duo villani d’una innamorati e arano a un giogo e so’ rivai; e’ sonsi l’un contra l’altro sfidati, e hanno duo padrini molto bestiai. Così combatan come disperati,

Ci sono due villani innamorati di una donna, e arano allo stesso giogo e son rivali: essi uno contro l’altro si sono sfidati e hanno due padrini molto scimuniti; così combattono come disperati L’ultima ottava si incarica di esplicare la funzione propria del “prologo argomentativo”, illustrando in modo molto sbrigativo (ed enfatizzato comicamente dal ricorso intensivo al polisindeto e alla paratassi) la trama della vicenda che verrà rappresentata. Duo, ‘due’, è forma attestata nel fiorentino solo dalla fine del sec. xiv (in precedenza era esclusiva quella due), e in concorrenza con dua, che affermatasi nel Quattrocento, diverrà poi tipica del registro popolare; tipicamente senese sarebbe invece la forma dui (cfr. Manni, pp. 135-137 e Gigli, pp. lxxivlxxv, clxi-clxii), che non compare mai nel nostro testo: dove invece la forma maggioritaria è due (registra nove occorrenze rispetto alle quattro di duo).  Metafora sessuale: ‘condividono lo stesso desiderio con uguale intensità; cercano di possedere la medesima donna’; l’espressione arare a un giogo ricorre con frequenza nell’opera di un contemporaneo e conterraneo del Fumoso, Pietro Fortini (cfr. Fortini2, i, pp. 80, 223, 358; Fortini1, ii, pp. 1048, 1089), forse anch’egli Rozzo (cfr. Mazzi 1882, ii, pp. 231-233).  ‘Sono’: so (così nell’originale, qui apostrofato per differenziarlo da so, 1a sing. dell’ind. pres. di sapere) è forma concorrente con sonno per indicare sia la 1a sing. che la 3a plur. dell’ind. pres. di essere (forme proprie non solo del senese ma anche dell’aretino e del cortonese).  Verso leggermente ipermetro. ‘Bestiali’: più che ‘violenti e brutali’ (come altrove nel Fumoso: cfr. Panechio, v. 198), qui vale nell’accezione di ‘stolti’ (cfr. Tlio). Padrini: i testimoni che affiancano due duellanti un una vertenza cavalleresca, secondo un’accezione ancora oggi corrente, ma all’epoca di fresco conio (cfr. Dei, che ne registra la prima occorrenza nel Cortegiano del Castiglione, 1528); come si vedrà di séguito, la discordia della nostra commedia mostra una significativa parentela verso quelle di cui si occupò la trattatistica sul duello per punto d’onore, che proprio nel 1550 (anno della nostra princeps) celebra uno snodo fondamentale, giuste le puntuali indicazioni di Dionisotti: «di libri sull’onore e sul duello è pieno il mercato italiano a partire dal 1550, non prima, ed è pieno soprattutto nel decennio 1550-60, sicché l’inizio della nuova moda può essere colto con assoluta esattezza» (Dionisotti, pp. 203-204). Proprio nel 1550 esce Il duello di Girolamo Muzio (un best seller dell’epoca, tradotto anche in spagnolo e francese) e solo l’anno successivo l’omonimo trattato di Sebastiano Fausto da Longiano, che costituirà l’altra fondamentale auctoritas di riferimento in materia. Sul rapporto cinquecentesco tra letteratura e scienza cavalleresca, d’obbligo il riferimento al classico studio di Erspamer, nonché alla più ampia e recente ricognizione di Cavina.  L’estensione della desinenza in -ano per la 3a pers. plur. dell’ind. pres. della 2a e 3a coniugazione – che nel fiorentino si afferma a partire dal sec. xvi – è propria del senese sin dal ’300; così ne giudica il Gigli (p. 154): «Questo è quasi un errore universale, che si fa da chi non ha studio, in tutt’i verbi che non sono della prima maniera, di cambiare cioè in questo tempo nella persona terza plurale l’O della penultima sillaba in a». 




Salvestro cartaio detto Il Fumoso

colpa di liei, e fanno mille mài. Così nel campo ogniun di vincer brama, po’ li fa far la pace la lor dama.

per colpa di lei, e fanno mille mali. Così ognuno brama di vincere in campo aperto, ma poi la loro dama fa fare loro la pace.  ‘Colpa sua, di lei’. Liei: ‘lei’, forma caratteristica dell’antico senese (cfr. Rohlfs, § 88), uno dei pochi in cui si discosta dal dittongamento fiorentino con cui per solito coincide (cfr. Castellani 2000, pp. 335-336); resiste a lungo nella produzione comica senese, dallo Strascino ai Rozzi (cfr. Mazzi 1878, p. 247), anche se in altri tipi di scripta, sin dal Quattrocento, si assiste al suo dileguo (Trovato, p. 48).  La forma li per la 3a pers. sing. del pronome personale dativo, invariabile per maschile/ femminile, è propria del toscano antico e si è conservata nella parlata popolare di alcune zone della Toscana, tra cui Siena (cfr. Rohlfs, § 457); nel senese la forma è attestata, come in questo caso, anche con funzione di dativo di 3a plurale, laddove in Toscana si afferma decisamente gli (cfr. ivi, § 463). Per la forma ogniuno del verso precedente, cfr. nota a v. 85.


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