Indice
Esilio
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Canto inquieto
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Sulpicia
26
Aria di casa
33
Sotto la tribuna dei comizi
38
Circa ventitrĂŠ anni prima
45
Matrimonio
51
La febbre
59
Dialogo
65
Circostanze
69
La villa oltre il Tevere
74
Cicale
81
Un viaggio a Troia
92
Niobe
101
Il mare di Rimini
107
Capelli bianchi
116
A piedi nudi
123
Diomedea
128
I pastori di Puglia
135
La sfida
142
L’annullamento
149
Due allarmi
157
Sonni
164
Sentenza
168
Epilogo
174
Post scriptum
178
Edizioni delle opere citate
181
6
ESILIO
Lo sciacquio del mare contro la barca era veleno gettato sulle ferite del cuore. Giulia se ne stava sul ponte con lo sguardo fisso. Per una volta non in atteggiamento di sfida. L’aria le frustava i capelli sciolti e la salsedine si incollava addosso. La prua della nave solcava il mare aprendo la strada verso il futuro. Un futuro d’angoscia, dai confini incerti e dolorosi. A poppa non restava che una scia di schiuma bianca a ricoprire il passato, strappato dallo scafo come brandelli di carne sanguinante. Giulia, la figlia di Augusto, l’unica figlia del principe, quella che era stata la donna più bella e potente di Roma, se ne stava attonita, schiacciata dalla tempesta che si era abbattuta sul suo capo nelle ultime ore, tramortita da un’oppressione che le svuotava la mente e che premeva sulle spalle e sul ventre, paralizzandole i piedi. Il cielo era limpido e azzurro, si andava colorando di arancione, di rosso, di viola all’orizzonte: una splendente giornata di settembre si avviava al tramonto. Poco più in là comparve un dorso arcuato e lucente d’argento, reso scuro dalla luce e dal riflesso dell’acqua, a giocare con la brezza che increspava la tavola blu. Accanto a quel dorso, un altro più piccolo. Una coppia di 9
delfini, la madre e il suo nato, interruppe la monotonia dell’andare. Poi altri archi d’argento a solcare l’acqua, giocando col mare: otto, dieci, forse più. Ma nessun grido di gioia si levò dalla nave. Lo sguardo di Giulia non sembrò nemmeno intercettare quella festa di giochi sull’acqua. Non c’era nulla che la potesse risvegliare dal suo stordimento. Malgrado tutto quanto le era accaduto, nulla le pesava sul cuore con un senso di colpa. Nulla che avesse fatto in quei giorni, mesi, anni con minore levità di quel giocare di delfini con cielo e mare, uscire dall’acqua per tornare a tuffarsi, incrociando e avvitandosi a mostrare il ventre bianco e puro di felice innocenza. La colpa che le era stata gettata addosso non aveva nomi e storie, non apparteneva al mondo delle cose concrete. Sentiva di avere sfidato il cielo e la terra. Un dio sconosciuto le presentava il conto: un macigno calava su passato e presente. «Giulia! Scendi sotto coperta; vieni, cara.» La voce di Scribonia, la vecchia madre, giunse frammista ai gemiti dei rematori che facevano filare silenziosa la nave verso la meta. Scribonia, ormai vicina ai settanta, aveva atteso tutta la vita di poter stare al fianco della figlia. Ora che finalmente il momento era giunto non avrebbe voluto mai viverlo così; non era in questo modo che l’aveva immaginato. La figlia era come un fiore dallo stelo reciso, senza linfa che ne ravvivasse gli sgargianti e vellutati petali. La vecchia madre aveva raggiunto lo scopo della vita, che inseguiva dalle ore subito dopo il parto, quando con il divorzio da Ottaviano, che già si faceva chiamare Cesare, le era stata sottratta anche la figlia appena messa alla luce per affidarla alla nutrice nella casa del padre. Ora quella voce, quel richiamo a sottrarsi alla brezza marina e a riparare sotto il ponte della nave, era per lei un nuovo inizio. Si riprendeva la figlia nel ventre, annullando – se mai fosse stato possibile, ma c’è qualcosa di 10
impossibile al volere tenace di una madre? – anni e anni di vita. Trentasette anni da cancellare, come se non fossero mai esistiti, per riportare quella figlia agli attimi prima del parto, per dare vita ad una nuova nascita. Quelle parole fecero appena vibrare i timpani di Giulia senza penetrare nella mente. Lei era tutta piena, quasi compiaciuta, del suo stordimento e lo scivolare della nave sull’acqua verso una meta sperduta in mezzo al mare cullava quel suo senso di nulla. Dopo avere passato anni in una corsa continua, bramosa di ogni ansia di fare e di voler essere, per la prima volta, forse, provava la dolcezza del lasciarsi trasportare con le ali della brezza. Non scese dalla madre, come Scribonia avrebbe voluto. Cominciava una nuova esistenza. Caddero come cataratte il senso di vuoto e di smarrimento che l’avevano avvolta fino a quel momento e iniziò a riavvolgere il romanzo della sua vita, prendendone possesso come fosse la prima volta. Ricominciò da dove era partita, da dove i primi ricordi erano vividi nella memoria, ma fu per lei come riviverli senza riconoscerli. Il filo della sua vita ricominciava con un impeto verginale. E ripartì davvero per lei la storia, con una nuova, diversa coscienza. Il racconto non iniziava con una nascita, per poi srotolarsi via via accompagnandola negli anni della giovinezza e quelli dei suoi matrimoni. Non iniziò con una storia di fatti, un dipanarsi costellato di avvenimenti. No, la storia della sua vita nasceva con l’accendersi di un fuoco intenso, di una fiamma che alimentava il desiderio. Non appena iniziò a prendere coscienza di sé, questa riappropriazione coincise con un sentimento impellente, inestinguibile, intenso che l’avvolgeva tutta. Era ansia di felicità, di bellezza, di pienezza. Era un motore sempre acceso che l’aveva condotta lungo l’esistenza, le aveva dato la forza per conquistarsi passo dopo passo la sua vita. 11
Ad apparirgli per prima fu l’immagine che più di altre le dipingeva il calore di quell’infuocata ricerca. Si rivide fanciulla mentre scendeva da casa di Mecenate, tenendo per mano la matrigna Livia che la coccolava e seguiva con trepidazione, ancor più che se fosse stata figlia sua. Saltellando sui ciottoli dei vicoli che dall’Esquilino scendevano passando per le Carine, girando poi sulle pendenze meno aspre del Fagutale, per giungere sugli acquitrini della valle prima di riprendere la salita della Velia e delle pendici del Palatino, Giulia volava sulle ali del tempo con piume di gioia. Lei che tirava la mano di Livia, che la strattonava per contagiarla di tanto potente felicità. Le due donne erano state nell’auditorium di Mecenate ad ascoltare la lettura di versi di Orazio che parlavano della operosità delle api e della loro vitalità. Già questo l’aveva messa di buonumore anche perché con Orazio c’era Properzio, il preferito della giovinetta, con i suoi versi grondanti di passione d’amore. Poi era stato presentato un ragazzino, un poeta nuovo che si voleva aggregare al gruppo di scrittori che Mecenate raccoglieva attorno a sé. Si chiamava Ovidio ed aveva colpito il cuore della giovinetta facendolo esplodere come un fuoco ardente ravvivato nel camino dai colpi sapienti di un attizzatoio. Il cuore di Giulia si era acceso, ed ora ardeva balzo dopo balzo, con le stringhe delle sòle – i sandali che portava ai piedi – che rischiavano di saltare ad ogni rimbalzo sul lastricato. Giulia quasi cantava, ripetendo quei versi che aveva udito e le si erano da subito scolpiti nel cuore prima che nella memoria e che già aveva imparato a ripetere: «Sii tu qual esser brami». Il desiderio: ecco qual era stato il filo conduttore della sua vita. Ora lo vedeva con chiarezza, per la prima volta. Il fuoco dentro: questo l’aveva mossa in ogni atto della sua esistenza. Eppure, non l’aveva mai riconosciuto, non l’aveva mai guardato e 12
visto in faccia, quel fuoco. Soprattutto non era mai stata un’attesa appagata. Bruciava con ardore qualunque cosa vivesse, qualsiasi gioia alla quale si avvicinasse. Così la fiamma si autoalimentava e non si estingueva mai. Si rivide piccina, quando giocava e viveva con i fratellastri Tiberio e Druso nella casa sul Palatino. Erano i figli di primo letto di Livia, l’attuale moglie di suo padre, alla quale era stata affidata come figlia e che l’amava con tutta la passione che desiderava il marito. Rivide le frequenti visite sul colle di fronte, l’Aventino; le corse giù per le scale di Caco, oltrepassata la muraglia del lato corto e ricurvo del Circo Massimo e le risalite sul colle opposto, fino alla casa della zia Ottavia, con la nidiata di cugini: ce n’erano per tutte le età, per ogni tipo di giochi e, nelle giornate di lavoro, per ogni tipo di studi. La zia viveva con i suoi tre figli, avuti dal matrimonio precedente, con Claudio Marcello: Marcello, il più grande, con qualche anno più di Tiberio, e le due sorelle: Marcella la maggiore e l’altra Marcella, più piccola. Marcello aveva poco del bambino, sembrava avere coscienza già di essere un predestinato a governare il mondo. Forse per questo sembrava già grande, molto più maturo del bambino che era e incuteva soggezione agli altri cugini. Ma con la zia crescevano anche i figli del suo matrimonio con Marco Antonio: Antonia la maggiore e l’altra Antonia, la minore. La zia si era portata e aveva accolto in casa anche i figli del precedente matrimonio di Marco Antonio con Fulvia: Iullo Antonio e Marco Antonio Antillo. Più tardi arrivarono anche i figli egiziani di Antonio avuti con Cleopatra: Alessandro Elio, Cleopatra Selene e Tolomeo Filadelfo. Non certo tipi da languida poesia, vivaci e allo stesso tempo portati a filosofeggiare, ma simpaticissimi. Giulia si rivide a ridere felice, anzi a gareggiare a chi riusciva a ridere più sonoramente con Selene. Facevano 13
preoccupare le ancelle, nel timore che quelle grida che rimbalzavano su tutto il Palatino – dove tutta la combriccola s’era intanto trasferita – disturbassero i padroni. Anche perché alla gara si univa spesso Alessandro, gemello di Selene. Fu con Iullo, di sei anni più grande di Giulia, che nacque da subito la complicità della bambina nei giochi. Dalle parole di Iullo Giulia pendeva come tralci d’edera che si avviluppano a un tronco poco più solido, ma già legnoso. Marcello era un po’ più piccolo, a metà strada fra i due cugini. Pendeva anche lui dalle labbra del fratellastro e ne ripeteva i modi e le stesse parole per attrarre l’attenzione della cugina nei peristili e nelle corse attorno alle colonne e a nascondersi nei cubicoli. Di quelle corse Giulia ricordava la gioia, riviveva i ruzzoloni sui mosaici dei pavimenti, sui quali non era sempre facile lasciarsi scivolare. Il clima confuso dei giochi si confondeva con l’ordinato apprendere l’uso dello stilo e della scrittura, sia latina sia greca. Iullo era il più bravo e svelto in tutto, Marcello il più ordinato, Giulia si illuminava quando si trattava di ascoltare la poesia e i carmi degli autori del canone Alessandrino, Tiberio e Druso i più diligenti. Le immagini scorrevano veloci, prese anch’esse da un furore ardente. La bambina, appena un poco cresciuta, si ritrovò avvolta in un velo arancione, mentre due robuste braccia la sollevavano da terra e la portavano oltre una soglia di casa, la sua nuova casa. Era poco più che una fanciulla ed era già convolata a nozze con Marcello. Il cugino era tenero e affettuoso con lei, ma distratto dalle nuove responsabilità del comando sulle truppe, responsabilità che si accollava con serietà, come fino ad allora aveva fatto con i giochi. Agrippa gli aveva affidato una legione e, su ordine di Augusto, gli inviava frequentissime lettere sull’arte del comando e della guerra. Il tempo delle tenerezze per Giulia volava via con le settimane della loro vita. La giovane moglie non mostrava 14
il disorientamento che le aveva causato il trovarsi all’improvviso a ordinare uno stuolo di ancelle e di liberte su come governare una casa. Correva sulle scale della vita con temeraria disinvoltura e aveva già imparato a vivere le frequenti lontananze del marito come aveva vissuto per una intera vita le lontananze del padre, bilanciate dall’intenso affetto dei rari momenti insieme. Per il resto apprendeva dalla matrigna Livia e dalla suocera Ottavia l’arte di maneggiare il fuso, di filare la lana e tessere la stoffa per le tuniche del marito. Approfittava di queste lezioni nella casa paterna per seguire Livia ogniqualvolta si recava nell’auditorium di Mecenate ad ascoltare le declamazioni dei poeti: Livia amava sentire Virgilio e Orazio, lei invece gioiva le volte in cui a declamare erano Tibullo e Properzio. Ma andava in estasi per Ovidio che, invitato da Properzio o talvolta da Orazio, leggeva di fronte alla statua di Marsia nell’auditorium di Mecenate. Giulia si rivide di fronte a quella colata di sangue del petto scarnificato di Marsia e, più che intimorirsi per quella scena truculenta dipinta sul marmo con un realismo tale da sembrare vera, sentiva ribollire il sangue in petto ad ogni parola del giovane poeta. Ovidio frequentava quotidianamente non tanto quella casa sull’Esquilino – dove andava solo saltuariamente –, ma un altro cenacolo letterario nell’abitazione di Messalla Corvino, villa la cui strada presto imparò anche Giulia poiché frequentata da Iullo Antonio. Di quei mesi sapeva contare i giorni e i minuti, tanto gli apparivano ancora densi e pieni di vita e di impegni. Nel dipanarsi del ricordo, il filo di quelle ore felici venne reciso all’improvviso. Un tonfo fermò il tumulto del cuore. Giulia si ritrovò come Marsia: con la carne viva esposta a ogni sguardo, mentre avrebbe voluto tenere tutto per sé il sangue che grondava da ogni dove. Tagliente come una lama che affonda nelle carni ribollenti giunse la notizia della morte di Marcello, 15
nei pressi di Nola. La memoria, fino ad allora limpida, si affollò all’improvviso di parole confuse: febbre tifoide, marito, improvvisa, lontano, dolore, repentina, malattia, deperimento, morte... Giulia si rivide sola. Era come se fosse tornata alla fanciullezza con un più di solitudine. Quella fiamma che le ardeva incessante dentro per la prima volta le bruciò un po’ del cuore. Non se ne accorse. Di slancio aveva superato anche quel momento, come aveva fatto con tutto, come sempre, fino ad allora. Ma una parte del suo cuore non c’era più: morta, sparita per sempre. Tornò il profumo del mare e l’odore piccante della salsedine a rifarle sentire la brezza sul volto. Ma non bastò per svegliarla da quel sognare ad occhi aperti. Si rivide velata d’arancione, fra le braccia possenti e mature di un nuovo marito. Stava attraversando la soglia d’ingresso di una nuova casa, più distante dal centro di Roma, quel centro a due passi dal Foro dove aveva vissuto tutta la vita. La villa oltre il Tevere, che le sembrava così lontana da Roma, dal cuore, da tutto ciò che aveva fino ad allora vissuto, le divenne presto familiare e amica. Bellissima, era nascosta a sguardi indiscreti e imparò presto la gioia dell’indipendenza da tutto ciò che di opprimente poteva trovare nelle maglie strette della famiglia di origine. Le anatre che starnazzavano sulle rive del Tevere, il volo radente degli uccelli sulle acque bionde del fiume dove si gettavano all’improvviso per pescare qualche pesce erano un tuffo nella natura che le faceva sembrare di essere lontana e non ad appena un ponte di distanza dal brulichio della vita cittadina. Vennero presto i figli a riempire ogni più recondito vuoto del suo animo. Occupavano anche tanto del suo tempo. Poi i viaggi, quando decidevano di farli assieme, al seguito del marito sempre impegnato con le truppe a misurare e difendere ogni miglio di frontiera interna ed esterna di Roma. Il primo marmocchio che 16
Giulia scodellò in famiglia per la gioia di tutti fu Gaio, una fiammella in più accesa nella sua ardente esistenza. Non l’angustiava il pensiero di una nuova vita che limitava i confini della libertà: coglieva piuttosto la gioia di tornare bambina col piccolo, piccola col bambino. I giochi innocenti non erano giochi di mamma, ma gioie di pupattola, quale si sentiva. Mentre Gaio cresceva, le si gonfiava nuovamente il ventre. E nacque Giulia. E mentre Giulia cresceva, si rigonfiò il ventre. E nacque Lucio. I due maschietti divennero presto non solo le sue gioie, ma la felicità di tutta la famiglia, a iniziare dal padre Augusto. E cominciarono anche i dolori, perché il padre amava così tanto quei due nipoti che li adottò, acquistandoli simbolicamente dal genero Agrippa per un asse, portandoli come figli nella sua dimora. La ferita dell’abbandono si aprì nel cuore di Giulia, ma non diede a vederla nemmeno a sé stessa. Bruciò ancora il suo essere giovane riempiendo la vita di cose, di passioni. E nacque Agrippina. Giulia correva per il mondo e quando era a Roma correva per Roma. Aveva ripreso, intanto, il rapporto con i cugini. In particolare con Iullo. Se ne andavano spesso a casa di Messalla Corvino. Appena potevano se ne scappavano tutti assieme nella sua villa a Boville, poco prima di Ariccia, lungo l’Appia. Messalla, già repubblicano e antoniano, aveva poi combattuto con Augusto ad Azio contro Antonio e Cleopatra, ma fu aspro critico di Mecenate e dei suoi costumi. Gli rimproverava di aver abbandonato la purezza del bello scrivere, favorendo fra i suoi amici ogni ricercatezza di novità. Giulia era attratta dalle passioni forti delle elegie amorose, ancor più che dai versi epici del cugino Iullo. E si rivide col cuore in gola mentre percorreva sul carro l’incerto lastricato dell’Appia verso sud, nella travolgente attesa di ascoltare i versi di Ovidio e di Tibullo. Non inseguiva la temeraria sfida del proibito, quanto il bisogno di 17
nuova linfa per alimentare il suo ardore. A differenza di tutte le altre donne della cerchia, non si aggrappava alla consolazione di lunghe sequele di parole per spiegare i segreti dell’anima: preferiva il bisogno di azione dei cugini maschi e dei loro amici, che rimirava in silenzio. Custodiva quel suo fuoco sacro come una vestale, chiamata per sempre a vegliare. La salsedine spruzzata sul volto insieme ai colori caldi del tramonto le avevano testimoniato che il passaggio dal troppo al nulla è repentino come il tramonto dei raggi del sole. Sentì l’eco familiare di parole gridate. Ma non erano quelle di Scribonia. Erano, impresse nella memoria, quelle di suo padre che le ordinava di partire per la Campania dove un altro marito stava per lasciarla nuovamente sola. Per sempre. Il cuore le aveva ordinato di non ubbidire, di non partire di corsa, non sarebbe valso nulla. Anche la malinconia di una nuova solitudine avrebbe alimentato il suo perenne fuoco. Quando intraprese il viaggio per la Campania, fu per andare a scortare il cadavere di Agrippa nel lento tornare verso Roma. Del mesto traballare sulle lastre dell’Appia ricordava solo il passaggio da Boville e lo sguardo alla villa di Messalla; le tornò alla mente l’ardente bramosia di quei momenti e dei versi che un’eco lontana rimbalzava su quelle mura. Poi vide l’impalcatura sempre più alta del nuovo ustrino, la catasta funeraria: altro fuoco, ma questo per ardere un nuovo cadavere. Anche questa volta non ebbe il tempo di piangere le nuove ceneri che andarono a popolare il mausoleo paterno, fra gli arbusti e i boschi del Campo Marzio. Un nuovo marito e un nuovo matrimonio le si prospettava innanzi. Non rivide il velo arancione, né l’attraversamento di alcuna soglia di una nuova casa. Rivide solo il dolore sordo di un figlio che moriva ancora in fasce. Senza lasciarle il tempo nemmeno di portarlo a casa, a Roma, vivo. Il suo nuovo matrimonio, 18
quello con Tiberio, fratellastro compagno di giochi sconci nella bruciata fanciullezza, era finito lì. Finì con la morte di quel figlio in riva ad un altro mare, diverso da quello che solcava ora senza averne contezza. Il figlio suo e di Tiberio era morto ad Aquileia, ed era stata come un’ondata di gelo sul suo furore ardente. Le sue corse verso la villa di Messalla acquistarono il sapore di fughe dall’ultimo matrimonio e dalle quotidiane lettere del padre e della madre Livia, inutilmente protesi a rigettarla fra le braccia del nuovo marito. Non c’era nemmeno bisogno di fuggire, tanto Tiberio brillava per assenza. Le uniche immagini che le apparirono innanzi erano quelle di altre case: non solo quella di Messalla, anche quella di Iullo, quella di Sempronio... La casa dell’ultimo matrimonio, sul Palatino come quella dell’infanzia, restò vuota, non prese parte al susseguirsi di immagini di quella sera, di quel viaggio. Man mano che la lontananza temporale dalle cose rievocate si faceva più corta, le immagini apparivano alla memoria più incerte. Le fughe, anche quelle d’amore, diradavano il loro fuoco nella nebbia. Finché tutto apparve confuso mentre sentiva suoni, parole riemergere dalla memoria. Sentiva la voce di Iullo – ma forse era quella di Sempronio – parlare di principato da cancellare, di repubblica da restaurare, di Senato da ricomporre, di armi da preparare, legioni da conquistare, Livia da neutralizzare, Augusto da sopprimere... e dalla nebbia, insieme con le parole, comparivano occhi che la guardavano. Erano sguardi che la cercavano, pupille che la indagavano, occhiate che la interrogavano... e lei che rispondeva con la voglia di superare il presente per conquistare il futuro, un futuro che sfuggiva sempre un poco più avanti, inarrivabile, inconquistabile, imponderabile. La stessa voglia di sempre di bruciare il presente. Non era, la sua, adesione ad alcun progetto, nessuna ansia di nuove conquiste, di nuovi amori: era solo il 19
desiderio di ardere che aveva sempre avuto, un po’ più confuso, un poco più stanco. Lei, ne era certa, anzi certissima: non aveva partecipato ad alcuna congiura. Aveva solo chiesto alla vita, come sempre le era successo da quando aveva memoria di sé, di bruciare prima possibile il presente. Dalla nebbia spuntarono nuove parole che le chiedevano incessantemente se sapeva, se aveva approvato, se aveva sostenuto, se aveva informato, se aveva istigato. Ma come potevano pensare che lei avesse fatto, pensato, deciso? Lei aveva solo bruciato, divorato tutto. Era sicura di non avere alcuna colpa. Se qualcuno riteneva che fosse una colpa, l’unica che le si potesse addebitare, quella di qualche bacio infiammato, di qualche passione travolgente, come travolgente era sempre stata la sua esistenza. Comparve all’improvviso, nitida, una parete di roccia che si levava alta sul mare. Il mare del suo lento viaggio verso l’esilio a Pandataria, l’isola della sua prigione. Alla base aveva grotte buie, scavate dall’acqua. Più sopra una muraglia levigata dal vento e dalle intemperie, come un muro di argilla scura, del colore della terra arsa e sciolta da un fuoco estinto che l’aveva modellata nei secoli. Sembrava lo specchio della sua vita passata, quella parete di roccia. Più in alto, verso il cielo, si vedevano striature lasciate dal tempo, dai secoli andati, sovrapporsi le une sulle altre. Con le striature la roccia riprendeva i suoi giochi di ombre e di luce, di speroni e rientranze, come il racconto di una vita che dal fluire immutabile prende gli affanni inquieti degli anni vicini. E più su ancora, le mura di una casa a strapiombo sul mare. Sarebbe stata quella la sua casa, la sua nuova dimora. Mura che poggiavano sul fuoco spento della sua vita passata. Provava a sentire se si cogliesse qualche voce venire da quelle pareti. Le parve solo di percepire il sibilo lontano di un refolo di vento che si colorava delle tinte calde del tramonto. L’unico rumore che cominciò a 20
distinguere, come se fino ad allora non l’avesse mai udito, era quello ritmico di cento remi che, come uno solo, affondavano in acqua per poi uscirne gocciolanti e affondare ancora leggeri. Si accorse allora, come fosse la prima volta per la coscienza, che stava navigando. Se ne avvide quando la barca passò veloce e silenziosa fra uno scoglio sul mare e la parete di roccia più frastagliata della riva. Il mare blu lì si faceva più chiaro, con strisce verdi verso lo scoglio e schiuma bianca sul lato opposto, verso la riva. La barca virò lievemente verso destra, seguendo la costa che si andava abbassando fino a diventare una linea continua di appena pochi metri sul mare. Per la prima volta, dopo le parole di Scribonia, sentì delle voci. Venivano dalla terraferma, gridavano qualcosa alla barca. Vide uomini sbucare improvvisamente sul ponte, giravano attorno armeggiando con cime che si avvolgevano come serpi su loro stesse vicino ai parapetti di prua. La linea della riva, sulla quale erano comparsi altri uomini, si interruppe improvvisa per lasciare intravedere l’insenatura di un porto. A sinistra era racchiusa da grotte profonde, con allevamenti di pesce. Poi una breve spiaggia che finiva con una banchina interna di approdo. Si interruppe il tonfo ritmato dei remi nell’acqua. Si intensificarono le grida. Cominciarono a volare nell’aria le cime: prima una, poi una seconda e una terza. Da terra robuste mani tiravano le funi attorno alle bitte e la barca cominciò a girare su sé stessa, come la corsa di un puledro presa al laccio. Anche il rincorrersi irrequieto di immagini e pensieri nella testa di Giulia fu preso al volo e strattonato via. Per la prima volta ebbe l’impressione che quell’isola sulla quale stava per sbarcare non sarebbe stata un approdo di libertà. Sarebbe stata troppo angusta per far da braciere a quel fuoco che le ardeva dentro. Sarebbe stata quel che doveva essere: la sua prigione. 21