I cinque continenti del teatro. Fatti e leggende della cultura materiale dell’attore

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Indice Premessa

1. N. Savarese, Al lettore, 6 – Al lavoro, 6 – Tecniche del corpo-mente e tecniche ausiliarie, 7 2. I due amici Bouvard e Pécuchet dialogano sulla storia del teatro e sugli attori, 10

Capitolo Uno ■ QUANDO 1. Bouvard e Pécuchet discutono di feste e di ballerine nei templi, 12 2. Una riflessione sul tempo, 15 3. N. Savarese, Il tempo della festa, 16 – F. Cruciani, Tempo organizzato, 18 4. N. Savarese, Quando gli uomini delle caverne danzavano, 24 5. Gli esseri umani danzano con gli animali e gli dei, 26 – W. Doniger, Ai limiti dell’umano, 27 6. Animali in scena, 28 7. Assiria: l’epos di Gilgamesh, 30 8. Micene e Cnosso, 31 – K. Kerényi, I toreri di Micene, 31 9. N. Savarese, Miti e danze nell’Egitto dei faraoni, 32 10. N. Savarese, Il canto del capro e il canto del mercato. La nascita del teatro in Grecia, 34 – Dioniso e Bacco, 34 11. Mito della nascita del teatro in India, 36 – Bharata Muni, Teatro, conforto della vita, 37 – Jayadeva, L’esuberante Krishna, 37 12. Mito della nascita del teatro in Giappone, 38 13. Cina: Xuanzong e il Giardino dei Peri, 39 14. La lotta del bene e del male a Bali, 40 15. Mecenati e committenti, 42 16. Piccola antologia sulla censura, 44 – Controlli e divieti, 44 – N. Savarese, L’ingegno dei comici dell’arte, 44 – F. Taviani, Attori itineranti in un fienile, 44 – U.I. Silva, Censura in Francia, dalla rivoluzione a Napoleone, 45 – E. Barba, Censura religiosa in America Latina, 46 – M.L. Obregon, Strategie di ostruzionismo religioso in America Latina, 46 – N. Savarese, Il kabuki attraversa la censura militare, 46 – Censura del teatro in India, 47 17. E. Barba, Perché imperatori, prìncipi, sultani, papi e uomini politici investivano tanto denaro negli spettacoli?, 48 18. F. Taviani, Dall’economia della festa all’economia di mercato, 49 19. Gli attori prendono soldi da tutti, spettatori e mecenati, 50 20. Europa: dalla piazza alle baracche, 52 21. Dalle piazze ai cortili, 54 22. Giappone: dall’aperto alle baracche, 56 23. Da un teatro all’aperto ad uno al chiuso, 58 – P. Claudel, Paul Claudel vede il nô a Tokyo, 59 – T. Coryat, Un inglese vede la commedia in Italia, 59 24. N. Savarese, Tessere e biglietti: raccolta del danaro e distribuzione dei posti, 60 25. I teatri aprono i botteghini, 63 26. Zuffe tra spettatori per un posto gratis, 64 27. Se vuoi gli spettatori dentro il teatro, fai prima una parata fuori, 66 28. N. Savarese, Una parata cambia il corso della storia, 67 – A.M. Ripellino, Parata finale, 68 – R. Viviani, Parata del circo, 68

 La Fenice, miniatura dall’Aberdeen Bestiary (man. del XII sec., Università di Aberdeen, Gran Bretagna). La Fenice, mitico uccello sacro simile ad un’aquila, moriva bruciato ogni cinquecento anni per poi rinascere dalle proprie ceneri. Ha figure corrispondenti in tutte le culture mitiche del mondo. In Europa, ai teatri ricostruiti dopo un incendio veniva dato il nome benaugurale di Fenice.

29. Parate ferme, parate mobili, 69 – J. Ljubimov, Parata di bambini, 69 30. Quando gli attori usano loghi e simboli per nobilitarsi, 71 31. N. Savarese, Quando gli attori cadono nelle mani di un impresario, 72 – Domenico Barbaja, principe degli impresari, 72 – Mademoiselle Montansier, 73 – Lewis Morrison, Mefistofele, 74 – Don Pedro e il Teatro Solís, 75 – M. Schino, Sergej Diaghilev, impresa e arte, 76 – P. Savarese Pompa, Mei Lanfang e Qi Rushan, 77 – Morita Kanya riforma il kabuki, 78 – N. Savarese, Loïe Fuller danzatrice e impresaria, 79 – F.R. Rietti, Il Cartel des Quatre di Parigi, 80 – E. Barba, Caffè e teatro a Manizales, 81 – C. Falletti, Max Reinhardt, regista e impresario, 82 32. F. Ruffini, Quando gli attori sognano di vivere di sovvenzioni, 84 – Pensare il teatro oggi, 84 – Il mercato, 84 – La linea delle sovvenzioni, 84 – La dilatazione del mercato, 85 – Gli spettatori fuori mercato, 85 – Opera/gruppo, 86 – Mestiere/ arte, 86 – Convenzione/tradizione, 86 – Il valore, 87

Capitolo Due ■ DOVE 1. Bouvard e Pécuchet fantasticano sulle casette degli attori, 88 2. E. Barba, I tre spazi degli attori, 90 3. All’inizio era il cerchio, 92 – In ampio cerchio, 92 4. L’attore al centro, 95 – R. Alameddine, Cantastorie, 95 5. L’imperfezione del cerchio, 96 6. Cerchi africani, 97 7. All’aria aperta: attori, saltimbanchi e ciarlatani su panche e cavalletti, 98 8. Dall’aperto al chiuso, dalla vendita di merci a quella di spettacoli, 100 9. La baracca dei saltimbanchi, 102


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10. Il palco nudo, 104 – M. de Cervantes, Rappresentare l’universo, 105 – J. Copeau, Rinunciare alla scenografia, 105 11. Metafore e invenzioni, 106 12. N. Savarese, Misteri e piccole case, 108 13. N. Savarese, I teatri originari degli attori, 110 – Il silenzio di Atene, 110 14. I primi teatri degli attori in Inghilterra, 111 15. Il teatro di Shakespeare, 112 – G. Tomasi di Lampedusa, Il pubblico dei teatri di Londra, 113 16. I primi teatri in Francia, 114 17. I primi teatri in Spagna, 116 18. I primi teatri in India, 118 19. I primi teatri in Giappone, 120 20. I primi teatri in Cina, 122 – A.C. Scott, La proverbiale austerità dello spazio, 123 21. I primi teatri negli Stati Uniti, 124 22. I primi teatri in America Latina, 125 23. Dalle baracche agli edifici rappresentativi: perché i teatri finivano sempre per diventare all’italiana, 126 24. N. Savarese, L’eccezione: l’invenzione del teatro all’italiana, ovvero il teatro degli spettatori, 128 – I teatri degli attori e i teatri degli spettatori, 128 25. N. Savarese, Primi teatri in Italia, 130 26. M. Schino, Il teatro all’italiana, 132 27. L’apice del teatro all’italiana. La Scala di Milano, 133 28. Le parti caratteristiche del teatro all’italiana, 134 29. La platea e i palchi, 136 – G. Banu, La gloria del teatro all’italiana, 136 – E. Povoledo, Diffusione del teatro all’italiana, 137 30. Palchi reali e palchi normali, 139 31. Il paradiso, 140 – C. Baudelaire, L’attore principale, 141 32. Il sipario, 142 – W. Szymborska, Sublime è il calare del sipario, 143 33. Casa dell’attore e casa dello spettatore: camerini e foyer, 145 34. Appalusi, fiori e fischi, 147 35. F. Cruciani, La foresta pietrificata. Teatri e spettacoli esorbitanti, 148 – Panorami, meraviglie mai viste, 148 – Un’architettura per lo spettatore, 150 – L’esperienza del possibile, 152 36. E. Barba, Quel teatro non fatto di pietre e mattoni, 156

Capitolo Tre ■ COME 1. Dialogo tra Bouvard e Pécuchet sulle ricette e sul godimento, 158 – W. Wisatsana, Prima lezione di un attore, 159 – J.-J. Rousseau, Il talento, 159 2. E. Barba, Come si diventa attori, 160 – Acculturazione e inculturazione, 160 – L’acculturazione come punto di partenza, 160 – L’inculturazione come punto di partenza, 160 – La tradizione asiatica del guru, sensei, ta shi: il maestro anziano che sa, 161 – La tradizione europea del guru collettivo, 162 – Le prime scuole teatrali, 162 – Le scuole teatrali oggi, 163 – Il teatro-scuola: studi, atelier, laboratori, 164 – Il paradosso degli esercizi, 164 – L’apprendistato in un ambiente organico, 165 – Tecniche della personalità e principi obiettivi, 166 – Antropologia Teatrale, 167 3. E. Barba, Come si trasforma la tecnica degli attori: la Grande Riforma, 168 4. N. Savarese, Come i fattori materiali cambiarono il teatro, 170 – Un teatro su misura, 170 5. Geografia della Grande Riforma (1876-1939), 171 6. Grande Riforma. Prima fase: 1876-1939. Come muta il modo di pensare e fare teatro, 172 – I Copiaus in campagna, 177

7. Grande Riforma. Seconda fase: 1945-1975, 182 8. Grande Riforma: geografia della seconda fase (1945-1975), 183 9. E. Barba, L’interrogativo di Freud, 184 – La rivoluzione di Grotowski e Gurawski al Teatr 13 Rze¸dów di Opole (19591964), 193 – Lo spazio-fiume dell’Odin Teatret, 197 10. Ultimi rifugi, ancora su misura, 204 – N. Rivera, Paura per la mia vita, 206 11. Illuminazione, 208 12. Il teatro alla luce del sole, 208 13. Il teatro alla luce del fuoco, 208 14. Fuoco e fiamme, 210 15. Candele e lanterne, 210 16. N. Savarese, Luci della ribalta, 213 – F. Marotti, Luce e movimento, 214 – G. Craig, Attore, luce, scena, 214 – A. Appia, La luce importante è quella che dà ombra, 214 17. E. Barba, La pervasiva presenza degli oggetti, 216 – L. Rasi, La signora delle camelie legge una lettera, 218 18. Il messaggero, 219 19. Il fazzoletto, 221 – W. Shakespeare, Pegno d’amore, 221 20. La sedia come partner, 222 21. Esagerazioni, 224 22. M. Beré, Le esagerazioni incongrue dei clown, 226 23. F. Marotti, Il movimento è tutto, principio e fine, 227 – L’attore ideale, 227 – H. von Kleist, La linea retta diventa curva, 228 – V. Mejerchol’d, Piangere senza lacrime, uccidere senza colpire, 228 24. F. Ruffini e N. Savarese, Economia e divisione del lavoro: tipi, ruoli e personaggi, 230

Capitolo Quattro ■ PER CHI 1. Vivaci contrasti tra Bouvard e Pécuchet su attori e spettatori, 234 2. E. Barba, Lo spettatore del passato, 238 3. Lo spettatore al centro, 242 – E. Barba, Comportamento dello spettatore, 242 – Un teatrino di pupi siciliani in America, 243 4. L’aspettativa dello spettatore, 244 5. Gli spettatori fuori dal teatro, 245 6. Spettatori nobili e popolari, 247 7. Spettatori borghesi e dongiovanni, 248 8. N. Savarese, Lo spettatore occupa il posto che gli spetta, 250 9. Cosa guarda lo spettatore, 252 – L. Tolstoj, Lo sguardo del conte Vronskij, 252 10. Atene: quando gli spettatori erano pagati, 255 11. L’influenza di Shakuntala, 256 – E.P. Horrwitz, Rappresentazione di corte, 256 – B. Sircar, Teatro di città e teatro di campagna, 257 12. N. Savarese, Spettatori dell’antica Roma, 258 – Luciano di Samosata, Gli spettatori di Antiochia, 258 13. Spettatori dal teatro al circo, 260 14. Le tribune del potere, 262 – Plinio il Vecchio, Gli elefanti di Pompeo, 263 15. Lo spettatore supremo, 264 – Theatrum Mundi, 264 16. N. Savarese, A teatro in una casa da tè a Pechino, 266 17. Spettatori del nô e spettatori del kabuki, 268 – S. Ejzenštejn, L’inatteso, 268 18. Spettatori partecipanti, 270 – V. de Moraes, Felicità, 270 – J.W. Goethe, Il carnevale a Roma (1788), 271 – J.R. Creecy, Il Mardi Gras a New Orleans, 271 19. Spettatori pellegrini, 273 20. Spettatori di professione, 274 21. Spettatori attenti e spettatori annoiati, 274


Capitolo Uno. Quando Indice 22. Spettatori rissosi, 276 23. Spettatori assassini, 278 24. Spettatori al fronte, 280 25. Nei campi di prigionia, 283 26. V. Minoia, Spettatori in carcere, 284 27. Teatro nei lager nazisti, 285 28. Spettatori vecchi e bambini, 286 – T. Culukidze, Burattini nel gulag, 287 29. P. Salatino, Gli spett-attori, 288 – J. Grotowski, Spettatore/attore, 289 30. E. Barba, Lo spettatore involontario, 290 – Perché siamo qui?, 290 – Che cosa vuol dire il teatro quando è gratuito?, 290 – La presenza dell’attore, 291 31. E. Barba, Spettatori invisibili, 292 – G. Orwell, Lo spettacolo dura tutta la notte, 293 32. E. Barba, Lo spettatore è sempre plurale, 294

Capitolo Cinque ■ PERCHÉ 1. Bouvard e Pécuchet si interrogano sul perché, 296 2. E. Barba, Riflessioni sul perché si fa teatro, 298 – L’economia, 298 – Piccole tradizioni nomadi, 298 – La mutazione antropologica, 299 3. Piccola enciclopedia sull’onore dell’attore, 300 – E. Barba, L’onore, 300 – F. Taviani, Molière, 300 – D. Legge, Ira Aldridge, 302 – J. Varley, Patricia Ariza, 302 – N. Savarese, Josephine Baker, 303 – Norodom Buppha Devi, 303 – Cortigiane indiane: le devadasi, 304 – Cortigiane coreane: le kisaeng, 304 – Cortigiane giapponesi: le geishe, 304 – F. Taviani, Le cortigiane oneste, 304 – La signora delle camelie, 304 – B. Seibel, Hedy Crilla, 305 – Benjamin de Oliveira, 305 – E. Barba, Rukmini Devi, 305 – I Fratelli Moustache, 306 – J. Varley, Jill Greenhalgh, 306 – Trinidad Ladrón de Guevara, 307 – N. Savarese, Safdar Hashmi, 307 – Johanne Louise Heiberg, 308 – Kumeachi Ichikawa, 308 – Sissierietta Jones, 309 – J. Varley, Flora Lauten e Raquel Carrió, 309 – Adrienne Lecouvreur, 309 – J. Varley, Ingemar Lindh, 310 – Il Macbeth vudù, 311 – N. Savarese, I baffetti di Mei Lanfang, 311 – Lettera dal carcere di Mejerchol’d, 312 – N. Savarese, Juliano Mer-Khamis, 312 – Abdias Nascimento, 313 – Roberto Parada, 313 – Choi Serung-hee, 313 – Sarah Siddons, 314 – Il sogno della camera rossa, 314 – A. Martin-Fugier, Uccidere il sogno, 314 – Ellen Stewart, 315 – M.B. Gale, Le suffragette attrici, 315 – N. Savarese, Teatro agli inferi: i gulag sovietici, 316 – Teatro agli inferi: i lager nazisti, 317 – D. Legge, Teatro gay, 318 – H. Czertock, Teatro Nucleo, 319 – Tukaq Teatret, 320 – Mark Weil, 320 – E. Barba, Margarita Xirgu, 320 – D. Legge, La responsabilità del teatro, 321 4. Florilegio sul valore del teatro, 324 – F. Ruffini, L’inferno, 324 – A. Appia, L’opera d’arte vivente, 325 – A. Artaud, Il teatro e la peste, 325 – J. Beck, Il Teatro dei cambiamenti, 325 – W. Benjamin, Programma per un teatro proletario dei bambini, 325 – A. Boal, Il teatro degli oppressi, 326 – B. Brecht, Discorso agli attori-operai danesi sull’arte dell’osservazione, 326 – P. Brook, Il teatro sacro, 327 – E. Buenaventura, La creazione collettiva, 327 – H. Clurman, Gli anni bollenti, 327 – J. Copeau, Lo spirito dei piccoli teatri, 328 – G. Craig, Gli artisti del teatro dell’avvenire, 328 – E. Decroux, Il manifesto dottrinario, 328 – A. Del Cioppo, Sognare in faccia alla vita, 328 – I. Duncan, La danza del futuro, 329 – O. Ferrigno, Manifesto del Teatro Scuola Fray Mocho, 329 – A. Filho, Ti interessano gli altri?, 329 – G. Fuchs, La scena del futuro, 329 – S. García, Che altro può essere un artista, 330 – J. Grotowski, Per un

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teatro povero, 330 – F. Taviani, Il teatro necessario di Sarah Kane, 330 – H. Kanze, Nô: business e arte, 331 – V. Mejerchol’d, Il baraccone, 331 – V. Revuelta, Prevalentemente etico, 331 – P. Schumann, Danzare con le stampelle, 332 – B. Sircar, Il Terzo Teatro, 332 – C. Somigliana, Perché Teatro Abierto?, 332 – K. Stanislavskij, La mia vita nell’arte, 332 – T. Suzuki, L’energia animale, 333 – E.B. Vachtangov, Congedo dal pubblico, 333 – A. Mnouchkine, Alla Compagnia del Soleil, 334 – E. Barba, Lettera all’attore D., 335 5. E. Barba, I viaggi degli attori, 336 6. N. Savarese, La Via della Seta. Teatri e commerci, 338 7. Piazza Meidan-e-Shah, 339 8. Le maschere erranti, 341 9. La carretta dei comici, 342 10. M. Schino, Ceste, bauli e valigie, 346 11. E. Barba, Come viaggiano le tecniche, 348 – Ch.-L.J. de Guignes, Un francese a Pechino, 349 – Gli anni dell’esilio di Brecht, 349 – P. Brook, La mia Africa, 350 – L. Masgrau, L’Odin Teatret e l’America Latina, 350 – F. Ruffini, Il nomadismo del Living Theatre, 350 – H. Czertok, La Comuna Baires, 353 – L. Duca, Diaspora dei componenti della Comuna Baires, 353 – H. Czertok, Teatro Nucleo, dall’Argentina all’Italia, 353 – F. Taviani, Il mimo corporeo di Etienne Decroux, 354 – Allievi di Decroux, 354 – Bohémiens, 355 – C. Baudelaire, Zingari in viaggio, 355 – Colette, Vagabondi, 355 – Come viaggiano le tecniche: libri e riviste, 356 – Come viaggiano le tecniche: film, 357 12. L’ultimo viaggio, 358 13. Tombe degli attori, 360 – B. Brecht, Sepoltura dell’attore, 360 14. Metamorfosi, 364 15. N. Savarese, Le maschere della morte, 365 16. I cinque continenti visti dai cinesi, 368 – E. Ionesco, Perché fare teatro?, 368

Capitolo Sei ■ TEATRO E STORIA Pagine cadute dal taccuino di Bouvard e Pécuchet Attori, 370 –  Drammaturghi, 372 –  Maschere, 374 –  Teatri, 376  L’Olocausto, 378 –  T. Borowski, La ragione dei vivi, 378  La bomba atomica, 380 –  J. Biørneboe, La ballata della città di Hiroshima, 381  Butoh, la danza delle tenebre, 382  È veramente tutto spettacolo?, 383  Morte, funerali, parodia e allegria dei vivi, 384 – J. Genet, Tenebre necessarie, 384  Il fascino del supplizio, 385  Stereotipo o archetipo?, 388  F. Taviani, Pro memoria per attori e registi, 389  N. Savarese, Incendi, 390  W. Blake, Il corpo è la parte dell’anima che si percepisce con i cinque sensi, 394 – K. Justesen, Pranzo per un paesaggio, 394 – L’aborto in Salvador, 394 – N. Sneider, Petya Pavlensky, 395 – E. Barba, Bruciare la casa, 395

Referenze e indici  Abbreviazioni, 396  Autori dei contributi, 396  Autori delle illustrazioni, 396  Ringraziamenti, 397  Opere citate, 397  Indice analitico, 399


Premessa 1. Al lettore Caro lettore, vorrei qui raccontarti com’è nata l’idea di questo libro perché l’origine, come sai, è nello stesso tempo l’inizio e il fondamento. Alla fine del secolo scorso, in uno dei tanti incontri con Eugenio Barba, discutendo sulle ricerche fatte e quelle da fare, eravamo sorpresi dal fatto che il nostro libro L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale – pubblicato per la prima volta nel 1983 – continuasse ad avere edizioni e traduzioni in varie lingue. Probabilmente la sua formula semplice dove testi e figure hanno la stessa importanza, con continuo rinvio dagli uni alle altre, si era dimostrata efficace: le illustrazioni entravano da protagoniste per sostenere un nuovo campo di studi, l’antropologia teatrale ideata da Eugenio. Ebbi un impulso, quasi per gioco: perché non replicare con un altro libro della premiata ditta Barba-Savarese? Se avevo collaborato come storico del teatro all’antropologia teatrale, ora chiedevo a Eugenio la sua partecipazione sul versante della Storia, con un libro che immaginavamo complementare al precedente. Poiché in un grande firmamento di idee è sempre meglio avere la stella polare di un titolo, proposi L’età d’oro del teatro perché avevo letto che le mostre d’arte con la parola “oro” nel titolo avevano sempre grande attrattiva sul pubblico: Gli ori di Taranto, Gli ori di Venezia, Gli ori dei cavalieri delle steppe. Con Eugenio si può giocare e ridere, ma sempre sul filo del rasoio. Anche se l’impostazione del libro era tutta da decidere, mi rispose che era una buona idea e mi propose che gli argomenti vertessero sulle tecniche degli attori mai abbastanza studiate. Al lavoro – Nel 1996 alcuni studiosi, tutti italiani – Eugenia Casini Ropa, Marco De Marinis, Clelia Falletti, Bruna Filippi, Piero Giacchè, Laura Mariani, Claudio Meldolesi, Franco Ruffini, Mirella Schino e Ferdinando Taviani – parteciparono a una prima discussione sul nostro futuro libro durante una sessione dell’Università del Teatro Eurasiano organizzata a Scilla dal gruppo teatrale Proskenion di Claudio La Camera. Questi incontri progettati da Barba erano simili a quelli dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology): una “scuola dello sguardo” ridotta nel numero dei partecipanti, non più di una cinquantina, provenienti da diverse culture teatrali. Si creava un ambiente temporaneo, un villaggio di attori, artisti e studiosi con la stessa curiosità di approfondire la conoscenza della propria tecnica e di confrontarsi con quella degli altri, condividendo domande, ricerche comparative e dimostrazioni tecniche. Gli studiosi dichiararono la propria generale disponibilità a partecipare all’impresa di un nuovo libro, riempirono

formulari e fecero proposte. Si affacciò l’idea di una storia del teatro che partisse dal presente per risalire nel passato con al centro gli attori e le loro tecniche. Avrebbero avuto voce anche le ricerche degli studiosi raccolti nella rivista Teatro e storia. Il titolo del futuro libro ebbe molte metamorfosi: L’età d’oro del teatro, Atlante delle tecniche d’attore, Una storia dell’artigianato teatrale. Come accade in questi casi, pensare in grande non è male ma il progetto era diventato spropositato. Too much. Personalmente ero molto preoccupato di come suddividere in argomenti il database di diecimila immagini che avevo raccolto. Con il tempo gli studiosi furono assorbiti da altri compiti. Marco De Marinis, confidando nel progetto, si avventurò a scrivere persino Il teatro dopo l’età d’oro. Alla fine rimanemmo soltanto Eugenio ed io: Bouvard e Pécuchet, due “giardinieri” che si dedicarono a coltivare questo librogiardino. Abbiamo impiegato esattamente vent’anni per portarlo a termine, sempre ritagliando il tempo fra le molte attività. Siamo i responsabili del suo titolo finale con relativo passaggio dall’antropologia teatrale alla cultura materiale dell’attore. Compagni vecchi e nuovi ci lasciarono brani che avevano iniziato a scrivere. Altri li abbiamo richiesti. Eravamo tuttavia ancora un po’ sperduti. Sfogliavamo libri di storia del teatro ma più che altro li mettevamo da parte, come esempi da non imitare. Intanto guardavamo immagini, facevamo commenti e scrivevamo appunti. Tra un incontro e l’altro passava del tempo perché entrambi avevamo una professione da rispettare – Eugenio con gli impegni del suo Odin Teatret, io con quelli universitari. Ogni volta occorreva iniziare quasi da capo. Un giorno Eugenio disse: «Nicò, occorre partire da qualcosa di concreto. Cominciamo dalle cinque W degli inglesi – Who? What? When? Where? e Why? – e vediamo cosa succede». Considerate da alcuni la regola d’oro del giornalismo anglosassone, da altri un semplice promemoria per non dimenticare le domande essenziali da porsi su ogni argomento, questi cinque interrogativi, con illustri precedenti nella retorica di Cicerone, Quintiliano e san Tommaso d’Aquino, avevano il pregio di essere brevi e diretti, e soprattutto impertinenti come le domande dei bambini. Rudyard Kipling li aveva immortalati appunto in una filastrocca infantile: Ho sei onesti aiutanti (mi hanno insegnato tutto quello che so) i loro nomi sono Che cosa e Perché e Quando e Come e Dove e Chi. (Just So Stories for Little Children, 1902)

Queste domande furono subito assunte come una traccia forse da abbandonare forse no, ma le adattammo all’argomento teatro: Quando, Dove, Come, Per chi e Perché si fa teatro. E alla fine sono rimaste. Grazie a loro si fece strada un modo di comporre il libro che assomigliava molto, secondo Eugenio, alla preparazione di un suo spettacolo: facevamo delle improvvisazioni su un termine tecnico, su un aspetto della routine quotidiana dell’attore, su un particolare oggetto di scena;


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 1. Joan Miró, bozzetto per la scenografia del balletto Jeux d’enfants (1932, Fundació Joan Miró, Barcellona). Balletto in un atto, con coreografia di Leonide Massine, libretto di Boris Kochno,

musica di Georges Bizet, ebbe la prima nel 1932 a Montecarlo. Una ragazza gioca con i suoi giocattoli di notte e si innamora di uno di essi, il Viaggiatore, che diventa un essere vivente.

queste improvvisazioni provocavano idee e accostamenti che fissavamo in pagine di figure o di testi; via via le raffinavamo, alcune erano scartate, altre si ripresentavano e aumentavano di volume, sempre in una sequenza di montaggi in continuo cambiamento. Alcuni esempi di queste improvvisazioni si trovano nel Capitolo 6. Per vari anni ci dedicammo a comporre un libro sulla storia del teatro cercando il modo di raccontarla attraverso le tecniche degli attori. Ci era chiaro, però, che bisognava riprendere il discorso da dove era iniziato: l’antropologia teatrale.

liarie. Nella loro varietà e materialità le tecniche ausiliarie riguardano: – le diverse circostanze e i tempi che generano gli spettacoli teatrali (le occasioni festive religiose o civili, le celebrazioni del potere, le feste popolari come il carnevale, le ricorrenze del calendario come capodanno o le feste di primavera e d’estate); – gli aspetti economici e organizzativi (spese, contratti, salari, impresari, biglietti, abbonamenti, tournée); – le informazioni da dare al pubblico (annunci, parate, manifesti, pubblicità); – gli spazi dello spettacolo e quelli degli spettatori (i luoghi teatrali in tutte le loro accezioni); – l’illuminazione, l’acustica, la scenografia, il trucco, il costume e gli accessori; – il rapporto che si stabilisce tra attore-spettatore; – il modo di viaggiare degli attori e persino degli spettatori. Tutti questi elementi si gestiscono tramite un saper fare stratificato nel tempo e nelle esperienze, e fondato su tecniche che assecondano il lavoro dell’attore e favoriscono la realizzazione della sua professione. Si tratta della cultura materiale dell’attore organizzata intorno alla doppia spirale di tecniche del corpo-mente e tecniche ausiliarie.

Tecniche del corpo-mente e tecniche ausiliarie – Le tecniche del corpo-mente dell’attore sono il fondamento della sua relazione con lo spettatore. I princìpi sono elencati da Barba in La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale e nel nostro L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale. Ben presto ci rendemmo conto che la relazione con lo spettatore presupponeva un altro supporto, di uguale efficacia, costituito da tecniche ausiliarie. L’immediatezza e l’efficacia della relazione attorespettatore si appoggia su un saper-fare complementare costituito da tecniche del corpo-mente e da tecniche ausi-


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Il campo d’indagine della cultura materiale riguarda la relazione pragmatica e la funzionalità tecnica degli attori, i loro comportamenti, le loro norme e convenzioni che interagiscono con quelle del pubblico e della società di cui attori e spettatori fanno ugualmente parte. La prospettiva della cultura materiale dell’attore non prende in considerazione il discorso meta-teatrale (generi drammatici, problemi sociali, gender, ecc.) o l’aspetto del testo drammatico che, con gli edifici, sono l’unico residuo concreto lasciato dal passato. Il fine è concentrarsi sulle tecniche ausiliarie, su soluzioni, mezzi e procedimenti pragmatici, modi di pensare e anche superstizioni che gli attori di tutte le culture applicano nella realizzazione, nel consumo e nelle finalità del loro artigianato. Le tecniche ausiliarie non solo si ripetono nelle diverse epoche storiche ma anche, con diverse modalità, in ogni tradizione teatrale. Interagendo dialetticamente nella stratificazione delle prassi, rispondono a esigenze di fondo analoghe in ogni tradizione quando si tratta di fare/mostrare uno spettacolo. La visione comparata delle tecniche ausiliarie mostra con evidenza che la cultura materiale dell’attore, nella diversità di processi, forme e stili, ha le sue radici nel modo di rispondere degli attori alle stesse esigenze pratiche. Nel quadro di questa cultura materiale che mira all’efficienza, alla prontezza e alla duttilità, bisogna contrapporre miti, aneddoti e superstizioni che impregnano l’artigianato teatrale. Soprattutto l’aspetto emotivo di valori come amicizia, gratitudine, ribellione, patriottismo, spirito di sacrificio, ricerca interiore, rifiuto della discriminazione,

rivolta sociale: sono le motivazioni che si sono manifestate nella storia sotterranea del teatro, nei suoi miti e nelle sue leggende. Da dove vengo? Chi sono? Dove vado? Per rispondere a queste domande dobbiamo rivedere da un’altra prospettiva le innumerevoli forme, esperienze, reperti e misteri che la storia della nostra professione ci tramanda. È l’unico modo di costruirci una bussola personale per attraversare i cinque continenti del nostro mestiere: quando, dove, come, per chi e perché si fa teatro. Con queste parole Eugenio mi presentò un giorno la prospettiva laterale. Sembrava la scoperta dell’acqua calda. Balzarono allora dal buio del mio database ancora in disordine due immagini del sole. Mostrano i fenomeni nucleari e di magnetismo che si producono sulla sua superfice e che disturbano le comunicazioni radio e satellitari terrestri causando spesso seri danni ai congegni elettrici. Non è facile capire quando questi fenomeni si dirigono verso di noi e per questo la NASA lanciò un programma di osservazione tramite due satelliti gemelli che si muovevano insieme. Le due immagini, riprese il 14 ottobre 2012, mostrano lo stesso fenomeno ma da due prospettive diverse. L’immagine acquisita dal satellite A fa vedere un semplice filamento che appare come una piccola striscia scura sulla superfice solare. Con la prospettiva del satellite B, lo stesso filamento si rivela una gigantesca protuberanza che esplode attraverso l’atmosfera solare. Il filamento e la protuberanza sono la stessa cosa ma le due prospettive offrono informazioni diverse. Sembrava un’immagine di buon augurio. Qui fu messa e qui è rimasta. Nicola Savarese

 1. Paul Gauguin (1848-1903): Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1897, Museum of Fine Arts, Boston). «Credo che questa tela non solo sia superiore a tutte quelle precedenti, ma anche che mai mi riuscirà di farne una migliore o anche solo simile. Vi ho messo, prima di morire, tutta la mia energia, e una tale passione dolorosa in circostanze così terribili, una visione così pura, senza correzioni, che tutto ciò che vi è di precipitoso spari-

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sce e ne sorge la vita. [...] Il mio sogno non si lascia catturare, non ha alcuna allegoria; è un poema musicale e fa a meno di qualsiasi libretto. L’essenziale in un’opera d’arte è in quello che non è espresso».  2. Le immagini del sole riprese il 14 ottobre 2012 con i due satelliti della NASA (National Aeronautics and Space Administration) chiamati STEREO (Solar Terrestrial Relations Observatory).


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2. I due amici Bouvard e Pécuchet dialogano sulla storia del teatro e sugli attori BOUVARD – Potremmo dire che storia del teatro significa pensare una sequenza documentabile di fatti e circostanze. Perciò avremo una storia dei testi drammatici, una degli edifici, una dei diversi spettacoli e una degli stili e delle estetiche. Ma la sequenza fondamentale non dovrebbe essere la storia di coloro che il teatro lo fanno, gli attori e le loro tecniche? PÉCUCHET – Parole sante! Però degni di storia non sono tutti gli attori. E poi un libro di storia degli attori dovrebbe affrontare domande molto problematiche. Per esempio: come descrivere quello che è fondamentale nel mestiere, quel rapporto nascosto e intimo fra un attore e uno o più spettatori? E se questo rapporto è diverso per ogni spettatore, e quindi irripetibile, come se ne può tramandare memoria? BOUVARD – Si potrebbe tramandare non solo la storia degli attori ma anche gli attori nella Storia. PÉCUCHET – Mi viene in mente Buster Keaton nel film Il Generale. Getta legna nella caldaia della locomotiva tutto concentrato su questa azione perché vuole arrivare presto dalla fidanzata. E non si accorge che tutt’intorno a lui si svolge una decisiva battaglia tra Nordisti e Sudisti. Cioè la Storia. BOUVARD – Io invece penso a Trotzkij, alla rivoluzione bolscevica, ai Bianchi e ai Rossi e al treno degli attori che si spostava da un fronte all’altro per dare spettacoli alle truppe nemiche fra loro. PÉCUCHET – Nel film O Thiasos di Angelopoulos, una cinepresa è puntata su una strada. Gli edifici fanno da quinte a gruppi di soldati che si spostano ora in una direzione ora in un’altra, ora con una bandiera ora con un’altra, arretrando e avanzando, passano più volte davanti alla macchina da presa. Appaiono sette attori che fuggono. La loro vita dipende dal pubblico? Dai critici? Dalla qualità della loro tecnica? O dall’insensatezza della Storia? BOUVARD – La piccola storia dei singoli attori a confronto con la Grande Storia: una voragine! Invece quando leggi un libro di storia del teatro, tutto risulta chiaro e persino quantificabile. Questo è stato il pioniere e poi ha avuto gli epigoni, quello è stato influenzato da Tizio e da Caio, questa la causa e là gli effetti. Ma sotto questa evidenza confortante fluisce tutta un’altra avventura umana, una storia sotterranea che non si lascia intrappolare nella linearità delle spiegazioni a posteriori. PÉCUCHET – Già. È innegabile che dietro la perspicacia delle scelte artistiche e la grandezza dei risultati vi siano forze irriducibili a ogni razionalismo: fedi politiche, senso di solitudine, affinità, patriottismo, spirito di sacrificio e incapacità di addomesticarsi allo spirito del tempo. Soprattutto passione e amore. Come scrivere di tutto questo? BOUVARD – Con la stessa poesia che lo spettacolo emana, quella che tocca i sensi e la memoria degli spettatori. PÉCUCHET – Ma gli spettatori vengono a teatro con gli occhi e la mente già colmi di immagini spettacolari. Sono condizionati da situazioni di tragedia, pathos e assurdità surreali che gli sono offerte gratuitamente dalla realtà del-

la vita quotidiana. La vera scuola degli spettatori – che gli riempie occhi e cervello – è la Storia. BOUVARD – Perché, allora, la gente va a teatro? Per evadere dalla vita, per incontrare la poesia che si sprigiona dallo spettacolo? E in che consiste questa poesia? Il telegiornale dell’ora di cena continua a dare notizie terribili con immagini raccapriccianti di violenza e di morte su popolazioni inermi. Poi vanno in onda film anch’essi pieni di scene truculente o show traboccanti di bei paesaggi, gioventù sorridente e VIP che preparano manicaretti. Come possono gli attori, nelle loro casette, motivare gli spettatori a visitarli? PÉCUCHET – Mi stai chiedendo cosa debba avere di extra uno spettacolo teatrale per competere con le immagini della vita quotidiana, della televisione, dei giornali e di internet?... Penso che gli attori dovrebbero essere un orso e un colibrì. Astuti come serpenti e candidi come colombe. Capaci di intrattenere, divertire, dibattere, raccontare una storia interessante e rendere interessante una storia banale, risvegliare la coscienza civile, esporre le condizioni degli emarginati e delle minoranze, essere didattici, provocare, trasformarsi in veicolo spirituale, affermare un’identità etnica, religiosa o di gender, affrontare i problemi di una comunità e ricercare la bellezza, l’esperienza estetica e l’originalità individuale... E naturalmente trasgredire. BOUVARD – Nient’altro?... E poi vai piano! Qualunque sia l’obiettivo che si ripromettono, gli attori dovrebbero prima di tutto dominare quelle famose tecniche extraquotidiane che potenziano la loro prestazione e stimolano l’attenzione degli spettatori. PÉCUCHET – D’accordo, ma per realizzare questa gloriosa relazione con gli spettatori sono necessarie anche altre conoscenze. Uno spettacolo deve essere organizzato. Bisogna trovare lo spazio, disporlo in un certo modo, creare costumi e accessori per la scena, scegliere delle musiche e usare bene le luci. Bisogna sapere come trovare una sala per lo spettacolo, come si annunciano pubblicamente le repliche, come si chiedono i permessi alle autorità e ai pompieri, come organizzare la vendita dei biglietti, come invitare i critici e altre persone influenti, come pagare i diritti d’autore... BOUVARD – Solo l’elenco e già tremo Allora chi glielo fa fare a un giovane a diventare attore? Perché un uomo o una donna decidono di far finta di essere un uomo o una donna diversi da quelli che sono? Per istinto naturale? Per prestigio sociale, esibizionismo, vocazione artistica, bisogno spirituale? Per compensare un senso d’inferiorità? Perché vogliono evadere dal proprio destino? PÉCUCHET – Quando un attore andava da Hitchcock per discutere il suo personaggio, il regista rispondeva: «È nel copione». Se poi l’attore insisteva: «Ma qual è la mia motivazione?», Hitchcock gli spiegava: «La tua paga». BOUVARD – Molti attori fanno teatro senza essere pagati. Dovranno pure avere una motivazione forte. Forse sarebbe più esatto chiedersi per chi l’attore ha scelto di essere attore. PÉCUCHET – La prima risposta che mi viene è: per chi paga il biglietto. Potremmo dare anche altre risposte: per i loro mecenati e committenti, per degli sconosciuti che


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comprano un biglietto su internet, per chi vuole passare una serata piacevole con la ragazza, per i credenti di una dottrina, per dei testimoni, per rallegrare i vecchietti di un ospizio, per incitare i derelitti alla rivolta... BOUVARD – Parti sempre per la tangente! Per me il teatro trova la sua ragion d’essere nel dove recitano gli attori. Ma poi mi chiedo: il luogo dove avviene lo spettacolo determina la loro funzione e finalità? PÉCUCHET – Devo ammettere che c’è una certa differenza se fai teatro in un bell’edificio con comode poltrone di velluto o nella palestra di una squallida periferia con sedie di plastica. Se lo fai in strada o in una prigione. Non si può negare che il dove fa trasparire le motivazioni. BOUVARD – Gli attori possono scegliere il dove. Possono scegliere anche il quando? In che occasioni del giorno o della notte, in che periodo di normalità o eccezionalità possono porsi di fronte a spettatori per fare, dire, mostrare, spiegare o criticare qualcosa? PÉCUCHET – Il teatro è un mestiere con regole e condizioni alle quali gli attori devono sottostare. A volte è proibito fare teatro, altre volte ti pagano profumatamente per andare in scena. Raramente sono gli attori a decidere il momento dell’incontro con lo spettatore. Quando questo incontro deve avvenire, è determinato da altri fattori, prima di tutto dalle autorità civili, religiose o militari. Poi ci sono le usanze, la possibilità di riunire un maggior numero di spettatori, le prospettive di guadagno. Non fai teatro alle tre di notte quando gli spettatori sono a letto. BOUVARD – Però a volte ci sono spettacoli nelle ore più strane del giorno e della notte. E hanno pubblico! Ci deve pur essere qualcosa che spinge gli spettatori ad affrontare la scomodità o un viaggio faticoso. Come se questo avesse un valore per loro... PÉCUCHET – Valore: che parolone! Eppure hai ragione: c’è qualcosa di vero in questa parola. Forse lo spettatore è il vero depositario del senso del teatro e il senso lo trova grazie al legame con l’attore. Allora come gli attori sono in grado di stravolgere le aspettative di chi ha bisogno di loro? Con movimenti fulminei o stando immobili, sussurrando, cantando, ballando, con una sedia dove sedersi o una panca su cui montare per divertirli, commuoverli o provocarli? BOUVARD – Se gli spettatori sono i depositari del teatro, gli attori sono dei viaggiatori che bussano alla loro porta chiedendo di essere ammessi alla loro intimità. Quando ci riescono, allora agli spettatori cade il cielo sulla testa. Mi è capitato rare volte, e spero che possa ancora capitarmi. Come diceva Anaïs Nin? «Non vediamo le cose come sono, vediamo le cose come siamo».  1. Buster Keaton nel film Il Generale (1926), nome della sua locomotiva.  2. Inc. tratta dalla quinta edizione della Favola della botte. Scritta per l’universale progresso dell’umanità di Jonathan Swift (Londra 1710), una satira che metteva in ridicolo i pregiudizi, la pedanteria e l’arroganza del tempo. La figura mostra «i tre palcoscenici dell’umanità»: il pulpito, la forca e il teatro. Non sembri strano questo assortimento: sermoni, esecuzioni e rappresentazioni teatrali erano le sole occasioni di spettacolo pubblico dell’epoca. A giudicare dalla noia di coloro che ascoltano la predica religiosa, gli spettacoli più interessanti sembrano quelli che si vedono fuori dalla finestra.

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11. Mito della nascita del teatro in India Le origini del teatro indiano risalgono al mito del saggio Bharata Muni che ricevette dallo stesso dio Brahma l’insegnamento di questa arte con la preghiera di praticarla con tutti i suoi figli. Ma sarebbe inutile cercare un autore preciso col nome di Bharata Muni perché questo nome in sanscrito vuol dire semplicemente eremita, saggio. Poiché l’accesso ai quattro sacri testi (veda) era consentito solo ai bramini, il dio Brahma decise di istituirne un quinto, una fonte di conoscenza per tutti. Dai libri precedenti trasse il Natyaveda (Libro della danza) e lo consegnò al saggio Bharata che sulla sua base compose il Natyashastra. In sanscrito natya significa danza ma anche rappresentazione mimata accompagnata da musica e canto; shastra significa trattato, insieme di dottrine, di regole, di racconti mitici. Il Natyashastra è il più antico testo indiano sulla danza e il teatro e gli specialisti ritengono che abbia avuto origine nel III sec. d.C. ma che sia basato su esperienze precedenti di alcuni secoli. Il testo – più di quaranta manoscritti differenti – è stato riscoperto nel XIX sec., ma soltanto il ritrovamento dei commentari del dotto Abhinavagupta del X sec. propiziò la sua traduzione e interpretazione. In una trentina di capitoli, il Natyashastra offre indicazioni tecniche estremamente precise sull’organizzazione teatrale, la drammaturgia, la forma delle sale in cui si deve rappresentare, sui modi della rappresentazione, compresa la musica, il trucco degli attori e la messinscena. Il trattato prevede che gli attori-danzatori siano artisti capaci e versatili. Il Natyashastra non è il solo testo antico sul teatro-danza indiano. Il libro che ancora oggi gli attori indiani leggono e apprezzano è Lo specchio dei gesti (Abhinayadarpana) di Nandikesvara, uno scrittore che sarebbe esistito ancor prima di Bharata. Lo specchio dei gesti è un manuale pratico molto dettagliato per l’attore. Nel 1917 fu tradotto in inglese dallo studioso anglo-indiano Ananda Coomaraswamy e dedicato a Gordon Craig che ne apprezzò la disciplina raccomandata agli attori, la stessa che egli sosteneva nella teoria dell’attore Supermarionetta.

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 1. Alle fondamenta del teatro-danza indiano ci sono, oltre Brahma, altre due divinità: Shiva che completa la sacra trimurti con Vishnu e Krishna, un avatar di Vishnu. Shiva Nataraja (lett. Signore della danza) nel suo movimento cosmico include la danza soave della creazione (lasya) e quella vigorosa della distruzione (tandava) (Zimmer 1993, 155). Secondo l’iconografia tradizionale, Shiva Nataraja danza in un anello di fiamme che simbolizza la distruzione e il ciclo di nascita e rinascita. Il dio ha la gamba sinistra sollevata (A) e la gamba destra poggiata su un nano (B), il demone dell’ignoranza. Con la sua mano destra in alto, il dio suona il piccolo tamburo della creazione (C); la mano sinistra alta regge invece il fuoco con il quale distruggerà la creazione (D). La mano destra in basso indica pace e mancanza di paura (E). La mano sinistra che punta verso la gamba sinistra sollevata significa elevazione e liberazione (F). I serpenti che si snodano attorno al corpo (G) e i capelli spettinati (H) sono il simbolo del rifiuto della società e del dio come asceta. Il cobra intorno alla vita è la Kundalini, l’energia divina che risiede dentro ogni cosa (I). L’intera figura poggia su un piedistallo di loto, simbolo delle forze creative dell’universo (L). La figura irradia una tranquillità interiore che contrasta con la vigorosa attività visibile.

Nello stato del Tamil Nadu, nel sud dell’India, dove Shiva è adorato nel suo aspetto di Nataraja, esistono cinque templi noti come Cinque Sale (Pancha Sabbas) dove Shiva esegue la sua danza cosmica su appositi palcoscenici. Il tempio più importante tra loro è quello di Chidambaram, dove sulle torri d’ingresso si possono vedere i rilievi scolpiti con le pose della danza classica indiana.  2. Gli amori del dio Krishna dal viso azzurro, sono dettagliati nel lungo poema mistico-erotico Gitagovinda di Jayadeva (XII sec.), che ha avuto molte raffigurazioni. In questa preziosa immagine del XVII sec., Krishna danza con la musica di tre gopi, giovani pastorelle, in una radura la cui flora lussureggiante simboleggia la fecondità della primavera (Boston, Museum of Fine Arts). Nella cultura indiana la forza e la gioia degli dei risiedono nella danza e nella musica.  3. Attore mascherato del theyyam, antico spettacolo popolare del Malabar (Kerala, India), che racconta terribili storie di streghe sanguinarie, di mitici serpenti divini, di grandi eroi e antenati locali.  4. Personaggi del kutiyattam, forma di spettacolo del Kerala (Malabar, India), considerato tra i più antichi del mondo (I sec. d.C.) e progenitore del kathakali (fot. M. Barzaghi).


Capitolo Uno. Quando Teatro, conforto della vita A queste parole Brahma rispose: [...] Voi e gli Dei siete legati dall’opposizione del bene e del male e su questa legge, secondo la concatenazione di azioni ho creato il Teatro. Non è soltanto la vostra natura o quella degli Dei che il Teatro da me creato rappresenta, ma esso descrive le manifestazioni di questo mondo nella sua completezza. Talvolta la legge, talvolta il gioco, talvolta la ricchezza; la tranquillità, il riso, la guerra, la passione e la morte violenta. Legge per quelli che seguono la legge, passione per quelli che si dedicano alle passioni, disciplina per quelli che si comportano male, padronanza per quelli che sanno governarsi. Agli eunuchi dona l’audacia, l’energia agli svogliati; è la sveglia degli incoscienti e la perspicacia dei sapienti. Passatempo dei gran signori, riposo dei miserabili, ricchezza per chi vive di ricchezze, conforto per gli spiriti vacillanti; ho creato questo Teatro conforme ai movimenti del mondo, rivestito delle diverse manifestazioni della vita, basato su azioni di uomini nobili e di uomini comuni, ricettacolo di ogni attività. Genera insegnamenti utili e dall’energia tesa all’attenuazione del gioco, dona ogni gioia. A tutti il Teatro offrirà rifugio in questa vita. Mostrando le vie della legge, della gloria, della lunga vita e della grazia, fortificando l’intelligenza, questo Teatro sarà per tutti fonte di insegnamento. Non c’è conoscenza, mestiere, scienza, arte né metodo che non siano visibili in questo Teatro. Ho fatto questo Teatro a immagine dei sette continenti, perciò voi mortali non avrete motivo di risentimento contro gli immortali [...] Tutte le nature individuali del mondo, con le loro mescolanze particolari di felicità e infelicità, presentate dalla mimica corporea e dagli altri mezzi di espressione: questo si chiama Teatro. Al Sapere sacro, alla scienza e ai miti, darà un luogo di ascolto e alla folla un divertimento. Questo sarà il Teatro. [Bharata Muni, Natyashastra, III sec. d.C.]

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L’esuberante Krishna Dopo l’abbraccio, dopo il bacio, dopo i graffi delle unghie, dopo il risvegliarsi del desiderio, dopo l’eccitamento, dopo l’inizio del piacere, quale non è l’emozione mescolata a pudore che provano nel buio due compagni innamorati, attratti altrove, ricongiunti dopo l’errore, che si conoscono alle parole familiari? [Jayadeva, Gitagovinda, XII sec.]

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12. Mito della nascita del teatro in Giappone Abbiamo più di un mito per le tradizioni teatrali giapponesi: il canto scambiato tra Izanami e Izanagi, la coppia divina, la leggenda di Ho-no-susori che canta il suo annegamento. Si possono leggere tutti nel Kojiki (lett. Vecchie cose scritte, 712-720 d.C.), il più antico documento giapponese che è insieme mitologia e storia (Yasumaro 1986). Ma il più celebre è il mito della dea-sole Amaterasu e della dea dell’alba Amano-Uzume che danza per lei. Spaventata dalle malefatte del fratello Susanoo, la dea-sole Amaterasu, si nasconde in una caverna del cielo. Il mondo piomba nella totale oscurità della notte. Per attirare Amaterasu fuori dalla grotta e far cessare l’eclissi, gli dei (kami) escogitano un piano. Costruiscono uno specchio e invitano la dea dell’alba Ame-no-Uzume a danzare davanti alla caverna chiusa. La danza della dea è così scatenata che le cadono i vestiti lasciandola nuda e provocando le risate degli altri dei. Il chiasso e le risate eccitano la curiosità di Amaterasu che si sporge dalla caverna, vede la propria immagine rispecchiata e crede di essere di fronte ad un altro sole. Questo momento di sorpresa basta per forzare la dea a uscire e a illuminare di nuovo il mondo. Per questa sua danza generosa la dea Ame-no-Uzume diventa la patrona della musica e della danza e l’episodio della caverna è all’origine di tutte le cerimonie shintoiste. Dai particolari licenziosi dell’episodio si deduce come gli antichi giapponesi considerassero le danzatrici attive nei templi. Molte sono le varianti di questo mito e, a testimonianza della sua importanza, va ricordato che la famiglia imperiale giapponese è considerata diretta discendente di Amaterasu e di Ame-no-Uzume. Nelle danze sacre ancora rappresentate nelle celebrazioni shintoiste, l’attore che interpreta Ame-no-Uzume indossa una maschera da donna con la faccia grassa e bianca, una piccola bocca rossa, gli occhi piccoli e furbi, la fronte alta e le sopracciglia a metà fronte, secondo l’uso antico delle donne nobili di raderle per poi ridisegnarle più in alto (fig. 4).

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 1. La dea dell’alba Ama-no-Uzume danza sul tino di fronte alla caverna che si schiude per far sporgere la dea-sole Amaterasu con i suoi raggi. Gli altri dei gridano e ridono. A destra il dio Ame-nokoyane regge lo specchio fissato su un palo. In alto a destra si legge: «L’origine della Musica a Iwato», il luogo dell’isola di Kyushu dove si trova il tempio e la caverna di Amaterasu, considerato il cuore spirituale del Giappone (1887, sta. di Shunsai Toshimasa).  2. Maschera in cartapesta di Ame-no-Uzume con le sopracciglia rasate: è usata nei rituali shintoisti e nel nô per una danza di buon auspicio chiamata kagura (lett. “divertimento degli dei”).  3. Musiciste cinesi dell’epoca Tang (618-907 d.C., terracotta a tre colori, coll. privata).


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13. Cina: Xuanzong e il Giardino dei Peri

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 4. Danzatrice d’epoca Tang gioca con le sue lunghe e scivolose maniche di seta che diverranno la caratteristica dei costumi dell’Opera di Pechino col nome di “maniche d’acqua” (terracotta a tre colori, Zhengzhou, Henan Museum).

Durante la dinastia Tang (618-907 d.C.), quando fiorì il commercio lungo la Via della Seta, molte carovane giungevano a Changan (capitale della Cina, oggi Xian) con musicisti e danzatori provenienti dall’Asia Centrale (v. p. 340). La corte cinese ammirò particolarmente le loro danze travolgenti e vorticose dell’altopiano iraniano. Fu così che l’imperatore Xuanzong (712-755 d.C.), detto anche Minghuang, lo “Splendente”, fondò nel suo palazzo, una scuola per musica, danza e canto, conosciuta come Giardino dei Peri (Li Yuan). Questo luogo divenne sinonimo di teatro e gli attori cinesi sono ancora oggi chiamati Alunni del Giardino dei Peri. La scuola creata da Xuanzong che ospitava trecento studenti sotto la diretta supervisione imperiale, fu la prima in Cina, e può essere considerata anche la prima accademia di musica del mondo. Per eseguire le danze vorticose dell’Asia centrale, i ragazzi indossavano camicie a maniche strette, alti cappelli e lunghe cinture fluttuanti. Appena i musicisti iniziavano a suonare liuti, flauti e tamburelli, i danzatori si accovacciavano, poi saltavano e iniziavano a girare su se stessi. Anche le ragazze danzavano, indossando lunghi caftani di seta molto colorati, usando come tappeti stuoie di broccato per poter meglio scivolare. Nel 745 d.C., dopo aver preso come consorte la bellissima Yang Guifei, Xuanzong cominciò a trascurare i suoi doveri imperiali. Nel 751 d.C., i cinesi furono sconfitti dagli arabi perdendo i territori conquistati in Asia centrale. An Lushan, generale favorito di Yang Guifei, si ribellò e la corte fuggì da Changan. Yang Guifei fu catturata e uccisa e l’imperatore abdicò. Nonostante la fine ingloriosa, Xuanzong fu un grande imperatore protettore delle arti e la civiltà Tang, nota come l’“epoca dei mille divertimenti”, raggiunse lo splendore proprio durante il suo governo. La bellissima Yang Guifei e il suo tragico amore sono argomento di molti romanzi e drammi dell’opera cinese.


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14. La lotta del bene e del male a Bali Anche se le festività pubbliche a Bali sono solo due – il capodanno e Galungan – le occasioni di fare festa sono moltissime. L’isola ha oltre 20.000 templi ognuno dei quali organizza ricorrenze almeno due volte all’anno e le cerimonie private come matrimoni, nascite e limatura dei denti sono spesso festeggiate dall’intera comunità del villaggio. Per non parlare dei funerali che sono spettacolari cremazioni collettive. Durante la festa di Galungan, gli dei e gli antenati visitano la terra e sono salutati con doni offerti lungo le strade. Se si eccettua la celebrazione del nuovo anno indù (Nyepi), conosciuto come il “giorno del silenzio” in cui ogni attività si ferma per ventiquattro ore, tutte le altre feste balinesi sono caratterizzate dall’incessante musica dell’orchestra (gamelan) e dal repertorio degli spettacoli tradizionali, tra i quali i più replicati sono il teatro-danza delle maschere (topeng) e il teatro delle ombre (wayang kulit).

In particolare un rituale danzato coinvolge tutta la popolazione dei villaggi: è la lotta tra le forze del bene e quelle del male, rispettivamente rappresentate dal Barong, un leone-drago, e dalla strega Rangda, un demone femminile che rappresenta il caos. Il Barong (fig. 1) è mosso da un danzatore che è responsabile dello spostamento della testa e dei denti che battono, e da un secondo danzatore che dimena la lunga coda dorata (il costume potrebbe essere stato ispirato dal leone-drago dei cinesi che arrivarono a Bali nel XII sec.). La strega Rangda, terrificante a vedersi (fig. 3), è una vecchia con i capelli lunghi e spettinati, i seni penduli, gli artigli, le zanne e una lunga lingua. I balinesi credono che includendola nei drammi rituali, si possano controllare i pericoli del caos. Deriva da questa credenza la messinscena della lotta tra Barong e Rangda: la strega costringe i danzatori in trance a rivolgere il pugnale (kriss) contro il proprio petto (fig. 4), ma il Barong li protegge impedendo che si trafiggano. Alla fine, i danzatori cadono esausti


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e un sacerdote li benedice. L’equilibrio è ristabilito e tutto torna normale nella comunità. Maschere e costumi del Barong e di Rangda vengono portati al mare in processione (fig. 1 e 2) per essere purificati in occasione dell’arrivo del nuovo anno. Il rituale si chiama Melasti e indica il bagno rituale durante il quale umani, maschere e natura sono “ripuliti” dalle impurità raccolte durante l’anno trascorso, col supporto delle preghiere di bramini e sacerdoti.

 1 - 2. Processione verso il mare del Barong per i riti purificatori; esposizione delle maschere purificate (fot. J. Varley).  3. La strega Rangda (in balinese antico “vedova”) ha i suoi colori preferiti: rosso, nero e bianco.  4. Danzatori in trance nel villaggio balinese di Batubulan, nella danza del kriss (1949, fot. H. Cartier-Bresson). La cultura balinese e le sue forme drammatiche giunsero all’attenzione del pubblico occidentale nel 1930 grazie agli studi degli antropologi americani Margaret Mead e Gregory Bateson. Ma a conoscerli prima di loro fu il musicista e pittore tedesco Walter Spies (1895-1942) che visse a lungo a Bali.


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24. Tessere e biglietti: raccolta del danaro e distribuzione dei posti

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Il poeta Giovanni Andrea dell’Anguillara (1517-1572) è il primo uomo di teatro moderno che vende teatro agli spettatori tramite il sistema dei biglietti. Nel 1548, apre a Roma, in via Giulia, un teatro pubblico in un tempio bramantesco incompiuto per mettere in scena la sua commedia Anfitrione. L’iniziativa fu un tale insuccesso da causare la bancarotta dello sprovveduto impresario e l’Anguillara fu costretto ad abbandonare la città inseguito dai debitori. Giorgio Vasari (1511-1574), primo grande storico dell’arte rinascimentale italiana, testimone diretto del sorgere e del primo diffondersi delle compagnie d’attori professionisti, guardò al fenomeno non per le sue tecniche innovative – improvvisazione, mancanza di testi scritti, maschere – ma per il fatto che gli spettacoli fossero fatti a pagamento in una stanza aperta al pubblico. Ricorda lo storico Ferdinando Taviani: «Spesso associamo la Commedia dell’Arte all’immagine di teatri che abbandonano gli spazi chiusi, che occupano le strade e si riversano sulle piazze, dovunque sia possibile alzare un palco o far posto ad una cerchia di spettatori. Essa, invece, fu esattamente il contrario: fu innanzi tutto teatro di sala, perché fu teatro venduto» (Taviani-Schino 1982). Il fatto che gli spettatori borghesi potessero assistere allo spettacolo pagando ognuno il proprio biglietto, fatto che oggi sembra la cosa più normale, fu una vera rivoluzione. Non solo si immetteva nel mercato un’attività sempre dipesa dalla committenza aristocratica e culturale, ma si innescava l’occupazione dei posti in sala non secondo i privilegi della nobiltà ma secondo quelli del censo. Chi poteva pagare di più aveva i posti con migliore visibilità della scena, o poteva occupare gli spazi “riservati” al riparo di occhi indiscreti. Talvolta poteva anche sedere sulla scena accanto agli attori che recitavano (v. p. 246). Questa rivoluzione ebbe il suo trionfo nei palchi dei teatri all’italiana del XVIII sec. e nei posti numerati dei teatri moderni. Il teatro si apriva al consumo della borghesia e delle classi meno abbienti – il loggione, il Paradiso (v. p. 140) – anche se i nobili e le autorità continuarono a conservare i privilegi acquisiti. L’uso di biglietti si diffuse anche nei teatri delle colonie europee delle Americhe, d’Africa e d’Asia e le grandi tradizioni teatrali extraeuropee – Opera di Pechino, kabuki, danze indiane – abbandonarono le abitudini precedenti che prevedevano forme di committenza, per esempio le sovvenzioni delle ricche corporazioni di mercanti, o il pagamento differenziato, ovvero l’acquisto di tazze di tè, di cibo o di dolci per vedere gli spettacoli offerti nelle case da tè. Una storia dei biglietti teatrali non è stata ancora scritta, salvo eccezioni (Terrier 2000), perché nessuno ha avuto la cura di conservarli e confrontarli, neanche gli archivi dei grandi teatri. E proprio mentre si dematerializza il “titolo d’entrata” a teatro a favore dei biglietti virtuali, il biglietto teatrale stampato entra nel collezionismo. (NS)


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 1. Tessera di terracotta dell’antica Roma usata come biglietto (I sec. a.C.). Accanto alla maschera, il numero romano 17 indica la porta di accesso al teatro: con questa indicazione gli spettatori raggiungevano più ordinatamente il posto nel settore loro assegnato. Le tessere erano gettoni di osso – ma anche di terracotta, pietra, bronzo o piombo – che servivano come contrassegno per entrare nei teatri, negli anfiteatri per gli spettacoli dei gladiatori, nei circhi per le corse dei cavalli e anche nei bordelli.  2. Il poeta Giovanni Andrea Dell’Anguillara.  3. Il pittore e storico dell’arte Giorgio Vasari. 4. Ordinanza di Luigi XVI che regolava le entrate alle rappresentazioni e alle prove, la distribuzione gratuita o il pagamento dei biglietti e i comportamenti degli spettatori durante gli spettacoli dell’Opéra di Parigi (1776).  5. Entrata del teatro Nakamura-za di Tokyo (1715, sta. di Torii Kiyomasu I; rend.). Davanti al teatro due attori in parata – Nakamura Takesaburo (a sinistra) nel ruolo di Okuni e Ichikawa Danjuro II – invitano gli spettatori a entrare. Sotto la torretta sulla porta (yagura) con lo stemma del teatro, si legge: Okuni Kabuki, danze di uomini e di

donne. Alle spalle una casa da tè. 6. Biglietto di ingresso moderno del Teatro Sanqing di Pechino, situato a Dashilan, il quartiere dei teatri a sud di piazza Tienanmen (v. p. 266). Il biglietto informa sul nome della compagnia che reciterà e sul nome degli attori. In basso l’elenco dei drammi che saranno rappresentati.  7. Biglietteria (taquilla) del Teatro Principal di Città del Messico (1920 ca.). Nel Teatro Principal si presentavano spettacoli popolari come la zarzuela e le riviste di varietà.  8. Biglietto di invito per uno spettacolo teatrale e musicale al Teatro Santa Cecilia di Palermo (1838) che prevede «Tutto gratis incluso sedie, braccioli e cuscini».  9. Al picco dell’altissima inflazione dell’autunno del 1923 nella Repubblica di Weimar, il governo sperimentò forme di baratto. Così lo Schlosspark Theater di Berlino richiedeva agli spettatori cibo in cambio di biglietti: per i posti economici due uova, una libbra di burro per i posti migliori.  10. Biglietto di invito dell’Odin Teatret per lo spettacolo Il Principe costante (Oslo, 1966), in occasione della prima tournée all’estero di Grotowski e del Teatro Laboratorio delle 13 File di Opole (Polonia).


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25. I teatri aprono i botteghini  1. Il frontespizio del dramma La Comédie des comédiens di Georges Scudéry (1635) mostra l’ingresso di un teatro di Parigi guardato da un addetto munito di spada, probabilmente incaricato di mantenere l’ordine e raccogliere il denaro d’entrata. A destra, due attori in costume e con tamburo invitano i passanti ad entrare. Notare i cartelli con altre notizie. All’interno si vede un palcoscenico costruito su una struttura di legno, con una scenografia prospettica a quinte laterali. L’insieme suggerisce una sala provvisoria. Nel XVII sec., gli attori francesi inventarono un genere definito «la comédie des comédiens» (la commedia degli attori), che metteva in scena attori alle prese con la loro professione, in genere durante la preparazione di uno spettacolo. Queste commedie sono oggi di particolare interesse perché, attraverso l’espediente del “teatro nel teatro”, gli attori vi compaiono come personaggi mentre riflettono su se stessi, sulla loro vita professionale e sul loro rapporto col mondo. La Comédie des comédiens di Nicolas Gougenot (1633) e quella, con lo stesso titolo di Scudéry, furono spesso portate in scena, ma la più celebre di tutte è L’Impromptu de Versailles (1663), in cui Molière si diverte a coinvolgere i suoi attori che compaiono in scena con i loro veri nomi.  2. Ingresso e biglietteria del Teatro Shintomiza di Tokyo: veduta interno-esterno del teatro kabuki riformato da Morita Kanya (1875 ca., sta. Keisai Eisen, Waseda Museum, Tokyo). Si notano: le due passerelle (hanamichi) perpendicolari alla scena; i posti di platea e le gallerie laterali. Sul fronte del teatro il simbolo della famiglia Morita (v. p. 78) e più in basso i manifesti con le figure degli attori e le opere in programma.  3. La fila al botteghino di un teatro di Parigi (1862, inc. di H. Daumier, da Le Monde Illustré). Il termine inglese box office (ufficio palchi) è in uso dal 1786. In precedenza, nei teatri elisabettiani, il penny per il posto in piedi, i due penny per il posto seduto in galleria, era raccolto con una borsa in cima ad una canna.  4. Un bagarino al di fuori del Teatro dell’Opera di Tianjin, Cina (2006; fot. P. Savarese Pompa).  5. Botteghino di teatro a Venezia (1791, inc. di A. Zatta da La putta onorata di C. Goldoni). Un fanale a olio con riverbero assicura l’illuminazione pubblica notturna. A destra, un altro fanale su una gondola coperta, illumina lo sbarco dei prossimi spettatori.  6. Nel 1791, due anni dopo l’inizio della rivoluzione francese, il biglietto della ComédieFrançaise indica ancora «Côté de la reine» per indicare un palco nella parte sinistra della sala, opposto a quelli «Côté du roi», a destra. In seguito furono adottati i termini «côté cour» (sinistra) e «côté jardin» (destra), tuttora in uso. 7 - 11. Biglietti teatrali: sono ricevute del pagamento e materializzano il legame tra il teatro e i suoi spettatori.  12 15. Biglietti teatrali elettronici introdotti alla fine del XX sec.

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26. Zuffe tra spettatori per un posto gratis Nel XIX sec., nei paesi europei come nelle loro colonie, gli spettacoli teatrali erano un genere misto di canzoni, danze, brani di prosa e acrobazie, per soddisfare sempre di più il gusto delle classi popolari. Questo pubblico però, era rumoroso e non sempre educato: gli spettatori si univano in coro ai cantanti in scena, gridavano insulti se un attore o una scena non piacevano, e spesso agli insulti facevano seguire lanci di frutta o addirittura di bottiglie. Spesso le proteste degli spettatori avvenivano non tanto per non aver gradito lo spettacolo, o per la modesta prestazione degli attori, ma per contestare la mancanza di biglietti gratuiti o il loro prezzo eccessivo. Quando gli impresari offrivano, di tanto in tanto, spettacoli gratuiti per tacitare gli spettatori popolari, nella grande ressa che si formava all’ingresso dei teatri c’erano litigi e zuffe per accaparrarsi i posti migliori. Occorre ricordare, ancora una volta, che il teatro era l’unica forma di divertimento pubblico per le classi meno abbienti che non avevano altre distrazioni se non le bettole di quartiere. Il pubblico aristocratico e borghese si rifugiava nel teatro d’opera, i cui biglietti erano più costosi. L’opera richiedeva un abbigliamento di lusso e l’abito da sera diventò obbligatorio per chi sedeva nei palchi o nella prima galleria del teatro. L’opera diventò per l’aristocrazia e i ricchi il luogo alla moda in cui sfoggiare lusso e ricchezza, un luogo per vedere, ma anche per essere visti. Fu così che la macchina dell’intrattenimento teatrale divenne un affare commerciale e creò un ambito nel quale si poteva esprimere la fantasia degli impresari e non solo degli artisti della scena – gli attori, i drammaturghi, gli scenografi, i musicisti. Crebbe anche il numero di coloro che gravitavano attorno all’orbita del teatro: critici, giornalisti, intellettuali e persino nullafacenti e perdigiorno che si prestavano volentieri a far parte della claque (v. p. 147).

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 1. Dettaglio di una stampa satirica intitolata Spettacolo gratis: in un teatro di Londra, il pubblico popolare prende possesso di un palco (lit. di G. Engelman, prima metà del XIX sec.).  2. Rissa tra spettatori amanti del balletto al botteghino di un teatro di San Pietroburgo

per uno spettacolo di Maria Taglioni, grande ballerina d’origine italiana proveniente dai successi di Parigi. Tra la folla, il solito ladruncolo (a destra) pesca il portafoglio dalla tasca di un signore (1842, sta. popolare).  3. Nel 1803, il grande attore tragico John Philip Kemble diventa direttore del Teatro


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Reale Covent Garden di Londra, di cui acquista la quota di un sesto per ben 23.000 sterline. Nel 1808 il teatro bruciò e per la riapertura nell’anno successivo Kemble, per rifarsi, dovette aumentare il prezzo dei biglietti. La protesta del pubblico per il rincaro si trasformò in una vera sommossa in seguito alla quale il teatro fu chiuso dalle autorità per tre mesi. Kemble, rovinato dall’incendio, fu salvato dal generoso prestito di 10.000 sterline (poi trasformato in regalo) del duca di Northumberland (v. p. 391). In questa immagine Kemble alla riapertura del

teatro, nel dramma Re Giovanni, di Shakespeare, di fronte al pubblico in rivolta che suona trombette, scuote campanacci e mostra cartelli che richiedono i “vecchi prezzi” (1809, caric. di I. Cruikshank).  4. Rissa al Covent Garden di Londra nel 1763 (inc. anonima). Alla rappresentazione dell’opera Artaxerxes, adattamento di Thomas Arne del libretto del Metastasio, il direttore del teatro rifiutò la consuetudine di dare biglietti a metà prezzo. Gli spettatori saltano la fossa dell’orchestra e salgono sul palco armati di bastoni fra gli attori attoniti. Abbiamo

segnato in rosso l’illuminazione del teatro con le candele accese per sottolineare il pericolo di ogni azione sconsiderata in tale situazione.  5. Entrata del Théâtre de l’Ambigu-Comique, sul Boulevard du Temple a Parigi, in occasione di una rappresentazione gratuita (1819, dip. di L.-L. Boilly, Museo del Louvre, Parigi). Mentre i borghesi osservano in disparte la scena (a sinistra), di fronte al teatro avviene un parapiglia con spintoni e cadute fra gli spettatori popolari, a stento tenuti a bada da una guardia armata di baionetta sulla porta d’ingresso.


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27. Se vuoi gli spettatori dentro il teatro, fai prima una parata fuori L’avvento di una tassa d’ingresso per accedere alle “stanze dei teatri” o ai teatri-cortile (corrales spagnoli e inn yards inglesi), non allontanò gli spettatori facoltosi che potevano permettersi la spesa. Creò invece problemi al pubblico popolare che passando per una strada o una piazza si fermava al richiamo degli attori ambulanti. Come attrarre il pubblico di passaggio, squattrinato o non intenzionato a spendere? Gli attori escogitarono un sistema ingegnoso: uscire dal teatro e richiamare gli spettatori. Col tempo queste azioni di richiamo presero il nome di parata (parade) facendo uso di musica e attori in costume. Si arrivò a costruire un piccolo palco fuori dal teatro, sul quale annunciare l’inizio dello spettacolo, sempre tramite musica, azioni mimate o pure acrobazie di attori in costume. Un esempio di parata fu ricostruito all’inizio del film Les Enfants du Paradis di Marcel Carné (1945): vediamo JeanLouis Barrault che interpretando il celebre mimo Debureau si esibisce sul palchetto eretto davanti al teatro dei Funambules, sul Boulevard du Crime, la strada dei teatri popolari nella Parigi d’inizio ’800. Parate erano anche quelle dei carri e degli animali dei circhi quando, arrivando in una città, la attraversavano prima di innalzare il loro

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tendone. I carri molto colorati e dalle strane fogge, le gabbie degli animali feroci, gli elefanti, i cammelli e i cavalli in fila, gli artisti e i clown in costume che sventolavano bandiere, erano una pubblicità fondamentale per il circo obbligato dalle proprie misure a sistemarsi negli spazi aperti di periferia. Soprattutto era una pubblicità del tutto gratuita poiché seguiva il percorso obbligato della carovana. La stessa parata, in formato ridotto, gli artisti del circo la ripetono sotto il tendone alla fine dello spettacolo.

 1. Arlecchino chiama il pubblico cavalcando in parata fuori dal teatro: «Salve! Vi voglio salutare prima che si alzi il sipario» (sta. pop. italiana del XVII sec.).  2. Esterno di un teatro kabuki (sta. pop. XIX sec., rend.). Richiami di venditori di ogni genere si mescolano con quelli degli attori che invitano gli spettatori indecisi a entrare in teatro.  3. Smorfie e miserie: saltimbanchi in parata di fronte alla baracca del teatro (1888 ca., dip. di F. Pelez, Musée du Petit Palais, Parigi).  4. Parata di musicisti e artisti davanti alla tenda di un circo ambulante mentre il pubblico si accalca per entrare (dip. di C.-E. Elmerich, metà del XIX sec.).  5. Parata degli attori Bobèche (Antoine Mandelot) e Galimafré (Auguste Guérin) sul terrazzo sopra l’ingresso del teatro del Délassements-Comique per richiamare il pubblico del Boulevard du Crime (sta. pop. francese del 1818). Dopo di loro, la parata, scomparve definitivamente.


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28. Una parata cambia il corso della storia

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Nel 1899, in fuga dal Giappone per debiti, Otojiro Kawakami con la sua compagnia di attori e la moglie, l’ex geisha Sada Yacco, sbarca a San Francisco, negli Stati Uniti, dove intraprende una tournée di spettacoli ispirati al kabuki. All’inizio ha un discreto successo, ma per difficoltà sopravvenute, alcuni attori lasciano la compagnia. Sada Yacco si offre di sostituire un attore che interpretava personaggi femminili e diviene così attrice. Un brutto giorno, l’avvocato americano che fa loro da impresario e che ha in mano i permessi per gli spettacoli e la cassa, sparisce. Gli attori perdono il loro denaro e l’albergo non fa più credito. La compagnia si mette allora in viaggio in cerca di lavoro e attraversa le città di Seattle, Tacoma, Portland e arriva a Chicago. Qui Kawakami ottiene un ingaggio per il Lyric Theatre. Il contratto fissa un solo spettacolo per la domenica successiva. Gli attori sono contenti ma vivono di stenti: alla domenica mancano tre giorni e non hanno da mangiare. Il venerdì e il sabato bevono solo acqua. Sono diventati magri come fantasmi. Senza soldi non possono pagarsi la pubblicità, perciò decidono di fare una parata per le vie della città con i kimoni e le armature da samurai dello spettacolo. Per richiamo usano la musica dei tamburi e quella della grande conchiglia dal suono cupo e prolungato. Qualcuno vede questa parata. La mattina di domenica 22 ottobre, a Chicago scende già la neve. Lo spettacolo inizia all’una in punto con un teatro pieno. Per il freddo, la stanchezza e la fame gli attori barcollano sotto il peso dei costumi e cadono spesso sul palcoscenico. Neanche tentano di rialzarsi:

sembra che vogliano sorpassare ogni limite e forse, proprio per questo motivo, lo spettacolo sembra sovrumano, mai visto. La rappresentazione ha un successo strepitoso e il giorno seguente Sada Yacco diventa una vedette su tutti i più importanti giornali americani. Kawakami prende la decisione di andare avanti. Abbandonata Chicago, la compagnia si reca a Dayton e il 3 dicembre arriva a Boston. Qui Kawakami assiste alle rappresentazioni del Mercante di Venezia in cui recitano Henry Irving ed Ellen Terry, i più grandi attori inglesi dell’epoca in tournée negli Stati Uniti. Lo spettacolo affascina Kawakami che vuole subito rifare il dramma shakespeariano. Di notte scrive un breve testo e, in un pomeriggio, lo allestisce per la scena. Cambia il personaggio dell’ebreo in un pescatore, riduce il dramma alla sola scena finale del tribunale e affida la parte di Porzia alla moglie Sada Yacco. Non c’è tempo di imparare a memoria il testo in cui Porzia perora la causa di Antonio: Sada Yacco perciò recita al suo posto le preghiere buddiste che conosce bene a memoria e che può dire senza pause. La lingua è un misto di inglese e giapponese. Ellen Terry abbraccia calorosamente Sada Yacco ed esclama «Ecco per me una grande lezione di teatro!». La compagnia parte per Washington e il 6 e il 7 febbraio 1900 offre uno spettacolo serale al presidente McKinley e all’ambasciatore giapponese. In seguito a questa tournée, la compagnia di Kawakami può recarsi in Europa, prima a Londra e poi a Parigi nel teatrino costruito dalla danzatrice americana Loie Fuller per l’Esposizione Universale del 1900. Il teatro asiatico appare così in Europa per nutrire l’immaginazione e le visioni dei grandi riformatori del teatro. (NS)

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I cinque continenti del teatro Parata finale

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Così, nelle mani di Mejerchol’d, dal testo del Revisore di Gogol dardeggiarono sprazzi d’apocalisse, e la chiusa finì col somigliare alle estreme ecatombi del teatro luttuoso. Tra rintocchi di campane, al ritmo di un insolente galoppo, eseguito fuori scena da un’orchestra ebraica (ebraica come nel Giardino dei Ciliegi: dunque luogo d’azione era l’Ucraina? era Mirgorod?) gli ospiti, colmi di orrore, intrecciavano un’ossessiva quadriglia, scendendo in platea, dileguando nei corridoi laterali, per rispuntare a ghirlanda dal palcoscenico. Una simile cavalcata si incontra nelle Anime morte (tomo I, cap. VIII), là dove Gogol dipinge il fastoso ballo dal governatore. Ma il pensiero va anche al «grand-rond» nel terzo atto dell’ultima commedia di ˇechov. Nell’implacabile scampanio del C sottopalco saliva lentissimo, come da uno spiraglio di regno dell’ombra, un bianco sipario, sul quale, a nere lettere spazieggiate, era scritta, cablogramma dell’Erebo, la secca battuta del Gendarme che annunzia l’arrivo del vero revisore. E in quel clima d’alta tragedia pareva che egli dovesse piombare là dentro, non come un doppione di Chlestakov, ma come un Fortebraccio, un arcangelo castigatore. I convitati si sparpagliavano urlanti. E indeboliti i rintocchi, il bianco sipario ricominciava a salire con uguale lentezza, scoprendo la «scena muta». Anziché attori impietriti da «tableau vivant», vi configuravano i calchi dei personaggi: sembianze di cera, sbilenchi fantocci a colori, livide mummie d’una funebre Manichinia. La dismisura barocca, lo scherno di questo finale, il dissidio tra lo sfrenato galoppo degli ospiti e l’irrimediabile immobilità delle cere aderivano in fondo a quel passo in cui Gogol afferma dei suoi personaggi che il vero revisore dovrà «distruggerli tutti, spazzarli dalla faccia della terra, annientarli completamente». [Angelo Maria Ripellino, Il trucco e l’anima, 1965]

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Parata del circo Gli spettatori si piantano davanti alla pedana, in attesa dello svolgersi della parata. Dal circo viene fuori Giannina, in maglione, coscialetto e bustino di colore azzurro. La segue Gisella, in calze nere, gonnellino con corpetto rosso, nastro giallo nei capelli. Si dispongono, entrambe, sull’ingresso, in atteggiamento statuario, con le braccia incrociate dietro la schiena. Don Ciccio comincia a suonare forte e a colpi celeri la campanella all’ingresso del circo. Carletto accompagna il suono con un rullo di tamburo. Samuele batte i piatti e la grancassa. Ne risulta un frastuono ritmico, assordante. [...] Frattanto, a quel richiamo sonoro, appare da tutti i lati della piazza gente d’ambo i sessi, d’ogni ceto e di ogni età: gente che si ferma davanti al circo. [Raffaele Viviani, Il circo equestre Sgueglia, 1922] 3


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29. Parate ferme, parate mobili  1. Parata di lottatori in un luna park di Parigi (cart. post., 1904). La folla amava queste esibizioni gratuite fuori dai locali in cui si svolgeva lo spettacolo: in questo caso si presentava anche una donna. In Francia la lotta divenne uno sport soltanto nel 1914.  2. Parata del gruppo americano Bread and Puppet per le strade di Mosca nel 1988. L’uso di mascheroni, trampoli, bandiere colorate e musica, rese le parate del Bread and Puppet celebri in tutto il mondo anche quando gli USA non erano popolari per la loro politica estera.  3. Parata di elefanti del Circo Sells-Floto nelle strade di Seattle, USA (1912, fot. M. Loudon).  4. Parata di attori nella cittadina di Vushtrri, a nord-est del Kossovo, nel 2000 (fot. M. Georgiev). Lo spettacolo è una collaborazione fra il Bond Street Theatre di New York e il Theatre Tsvete di Sofia (Bulgaria). La parata annunciava la rappresentazione di Romeo e Giulietta del Bond Street Theatre. Fondato nel 1976, il gruppo americano ha sempre affrontato il problema dei diritti umani intervenendo nelle comunità colpite da povertà e conflitti e promuovendo il valore delle arti. Ha attuato i suoi progetti in oltre 40 paesi in tutto il mondo, dall’Afghanistan al Myanmar, all’Iraq, e ha raggiunto le popolazioni di campi profughi, scuole, ricoveri, carceri, villaggi rurali e centri urbani.  5. Una parata nelle strade dell’elegante quartiere Ginza di Tokyo. Sfilano dirigenti e impiegati del teatro Kabuki-za insieme a 63 famosi attori di kabuki per celebrare la riapertura dello storico teatro fondato nel 1889, abbattuto nel 2010, ricostruito a tempo di record e riaperto nella primavera del 2013. Migliaia di fan, nonostante la pioggia, festeggiano gli attori che indossano il kimono formale.  6. Parata del Teatro Maguey a Carmen Alto, quartiere periferico di Lima (Perù, 2015), in occasione del FITECA (Fiesta Internacional de Teatro en Calles Abiertas).

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Parata di bambini Se permettete vi voglio raccontare la breve storiella di Stalin che si commuoveva di fronte alla cerimonia dei bambini vestiti di bianco in parata per qualche grande ricorrenza nazionale. Nessuno trovò mai il coraggio di dirgli in faccia che quella cerimonia era stata inventata da Mejerchol’d, il regista fatto fuori dal regime nel ’40. [Jurij Ljubimov, regista del Teatro Taganka di Mosca] 6


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7. Spettatori borghesi e dongiovanni

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 1. La ricca borghesia di mercanti nella galleria (sajiki) di un teatro kabuki: sono i posti più costosi, dotati di tende per preservare l’anonimato degli spettatori (sta. del XVII sec.). Nel periodo iniziale dello shogunato di Hideyoshi (1536-1598), la ricca borghesia giapponese iniziò a dedicarsi a ogni genere di divertimento. Edo, la capitale poi chiamata Tokyo, era piena di teatri e di case di piacere, con prostituzione femminile e maschile. Per arginare questo fenomeno e regolarlo, fu creato il quartiere di Yoshiwara, delimitato da un canale e con un unico accesso per mantenere al di fuori i minori e i malfattori provocatori di risse. Le persone coinvolte in queste attività erano le prostitute ordinarie, le cortigiane e le geishe, ma anche gli attori del kabuki, i danzatori, i dandy, le cameriere delle case da tè, i pittori di mestiere. I visitatori e gli spettatori dei teatri avevano l’impressione che tutta la zona fosse un’isola, un “mondo fluttuante” (ukiyo). Il termine ebbe fortuna e venne così a designare le case di piacere, le case da tè e i teatri ma anche le stampe popolari (ukiyo–e) che descrivevano quel mondo. Questa forma d’arte poco costosa conobbe una grande popolarità nella cultura del periodo Edo nella seconda metà del XVII sec. Alla fine del XIX sec., esportati in Occidente, gli ukiyo-e divennero fonte di ispirazione per molti artisti europei come Degas e Van Gogh.  2. Una coppia aristocratica entra nel proprio palco all’opera e la dama, riccamente vestita, si volta e tende la mano verso un giovane che si china a baciarla. Probabilmente si tratta di un cicisbeo, un cavaliere che accompagnava ovunque una dama, servendola galantemente per tutta la giornata. Talvolta persino il con-


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tratto matrimoniale prevedeva l’esistenza di uno o più cicisbei (inc. tratta da Les Adieux, dip. di J.-M. Moreau, 1777). Prima della rivoluzione, il teatro rappresentava per gli aristocratici francesi un’occasione di incontri galanti e di relazioni extraconiugali.  3. Gli spettatori di un palco di un teatro parigino dei boulevard (1830, dip. di L.-L. Boilly, Museo Lambinet, Versailles). Cogliamo l’atmosfera popolare delle sale teatrali dell’epoca, in cui gli scambi verbali ad alta voce tra spettatori erano pari alle interruzioni che essi provocavano agli attori in scena. Qui improvvisamente una donna sviene a causa di una scena drammatica di un mélodrame ed è subito circondata dalle cure dei vicini. Genere drammatico in voga a Parigi in tutto il XIX sec., il mélodrame si basava su storie a forti emozioni, preferite dal pubblico borghese e popolare. Il mélodrame metteva in scena una morale per lo più convenzionale ma sapeva trasmettere anche idee nuove e liberali. I teatri del Boulevard du Temple – ribattezzato non a caso Boulevard du Crime – erano molto frequentati.  4. Il pubblico che ride (1733, inc. di W. Hogarth). La scena si può dividere in tre sezioni che ritraggono diversi tipi di pubblico. Nei palchi in alto i damerini, poco attenti allo spettacolo, fanno avance alle venditrici di arance. In platea, la classe operaia si gode ridendo la rappresentazione. In basso, si intravedono le teste dei musicisti, protetti con una barriera di punte aguzze dalle invasioni degli spettatori. La stampa fu utilizzata come biglietto di abbonamento.

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8. Lo spettatore occupa il posto che gli spetta Ai nostri giorni, la norma è che i posti siano assegnati agli spettatori in base al prezzo del biglietto pagato, secondo la logica della migliore visibilità della scena. Ma quando le spese degli spettacoli erano sostenute dallo stato, come durante l’impero romano, l’ingresso era libero e i posti erano distribuiti in base alla classe sociale degli spettatori, come mostra la sezione del Colosseo (fig. 1). Mentre l’imperatore e i suoi ospiti sedevano in prima fila, in due piccole tribune coperte, le gradinate erano divise in quattro settori: – A. I sedili per i senatori e i loro familiari: erano i più vicini all’arena e i nomi delle famiglie senatoriali erano incisi sulla balaustra o sui gradini. Quando avvenivano spettacoli con bestie feroci si montava una barriera protettiva per impedire agli animali di scavalcarla. – B. I cavalieri sedevano nel secondo settore, composto da una ventina di file. – C. Il pubblico ordinario e la plebe sedevano nel terzo e più ampio settore. – D. Nella zona più alta sedevano le donne e i ragazzi e, in piedi, gli schiavi. Gli spettatori raggiungevano i posti assegnati se possedevano un contrassegno (in pietra o in osso detto tessera, v. p. 60) sul quale era inciso un numero: occorreva trovare quello corrispondente scritto in rosso sulle arcate di ingresso dell’anfiteatro. Larghe scalinate immettevano nei vari settori e permettevano l’evacuazione dell’edificio in quindici minuti: un primato tenendo conto che si poteva arrivare fino a 80.000 spettatori. Un po’ meno efficiente era il sistema igienico del Colosseo. Le latrine erano al pianterreno e all’esterno dell’edificio: pertanto gli spettatori usavano anche gli angoli ciechi delle arcate e delle scalinate. Il cattivo odore era attutito da pioggerelle d’acqua profumata allo zafferano, portata in alto fino all’ultimo settore da un sistema di piccoli tubi. Per rinfrescare gli spettatori c’erano anche alcune fontanelle. Gli spettacoli duravano un’intera giornata. All’ora di pranzo molti spettatori non uscivano per ristorarsi nelle vicine taverne, ma mangiavano sulle gradinate dell’anfiteatro il pane, il vino e la frutta portati da casa. (NS)

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 1. Distribuzione dei posti agli spettatori nel Colosseo secon-

do la logica delle classi sociali (rend.).  2. Il pubblico nel moderno Globe Theatre di Londra occupa lo spazio come ai tempi di Shakespeare: gli spettatori che possono permetterselo, siedono nelle tre gallerie, mentre i posti più economici sono quelli in piedi attorno al palco che si protende nel cortile. Anche il Globe elisabettiano non era dotato di servizi igienici: gli spettatori si liberavano fuori dal teatro e le acque reflue scorrevano a cielo aperto finendo nel vicino Tamigi.  3. Gli spettatori del teatro DeLaMar di Amsterdam, una moderna sala per musical. Il costo del biglietto segue il criterio di vicinanza/lontananza dal palcoscenico.  4. Rappresentazione di taziyeh nel cortile della moschea Nasir al-Mulk a Shiraz nel 1996. L’entrata è gratuita, ma sono gradite le offerte. Il pubblico maschile (compresi i bambini) circonda la

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pedana centrale, mentre le donne, in nero, siedono su un solo lato (fot. N. Savarese).  5. Gli spettatori nel teatro kabuki Kanamura-za della cittadina di Kotohira (isola di Shikoku, Giappone). Costruito nel 1835, il teatro restaurato è ancora saltuariamente attivo e conserva la tradizionale suddivisione dei posti del kabuki delle origini. In platea i piccoli recinti quadrati (masu) sono riservati a coloro che siedono sulle stuoie (tatami); le gallerie laterali (sajiki) sono riservate a spettatori più abbienti, in passato protetti da tendine di bambù per ragioni di riservatezza. Oggi lo spettacolo avviene di giorno come prima dell’avvento dell’elettricità: la luce del sole entra dalle alte finestre delle gallerie.  6. Donne e bambini, sotto un tendone provvisorio e seduti su sedili di fortuna, ascoltano i racconti di una donna griot (Bamako, Mali, 2009).


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I cinque continenti del teatro

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9. Cosa guarda lo spettatore Nel 2011, la ditta Sotheby’s mette all’asta il binocolo tedesco nero e oro che aveva in mano il presidente americano Lincoln quando fu assassinato, nel 1865, nel palco del Ford Theatre di Washington. Per più generazioni il binocolo era appartenuto alla famiglia del capitano McCalmy che aveva aiutato a trasportare Lincoln ferito dal teatro alla vicina casa dove morì poche ore più tardi. Il capitano Calmy aveva trovato il binocolo per terra, nella strada che separava la casa dal teatro. Il fatto che Lincoln usasse il binocolo non avrebbe nulla di eccezionale: all’epoca era d’obbligo portarlo a teatro. Ma nel rivedere la scena del tragico evento (v. p. 278) ci siamo accorti che il palco in cui Lincoln fu assassinato era un palco di proscenio, molto vicino agli attori tanto da poterli distinguere chiaramente in viso. A che serviva dunque il binocolo? Evidentemente, oltre ad essere un oggetto abituale per chi andava a teatro, il binocolo era usato anche per vedere in dettaglio l’espressione del volto degli attori. La maggior parte degli spettatori era lontana dalla scena e non avrebbe potuto godere di queste raffinatezze. Il binocolo dunque era – ed è – l’unica soluzione per apprezzare i dettagli della scena all’italiana. Strumento semplice, dotato di lenti economiche, un binocolo da teatro ha un campo visivo ristretto e un ingrandimento limitato, in genere fino a tre volte. Oggi si usano modelli maneggevoli, ma nel XVIII e XIX sec., quando si diffuse la moda, si faceva molto caso al loro aspetto elegante e prezioso e il binocolo divenne un oggetto di lusso, un gioiello per sfoggiare la ricchezza di chi lo possedeva, in sintonia con altri accessori, come i guanti, i ventagli e le pochette femminili.

Le lunghe rappresentazioni dei melodrammi e delle opere, spesso annoiavano gli spettatori che andavano a teatro anche per “vivere in società”: non dimentichiamo che il teatro era all’epoca l’unico ritrovo pubblico a disposizione. Il palco diventava una seconda casa, quasi un salotto privato, in cui si poteva conversare, sedurre, giocare a carte o mangiare. Si apriva verso l’esterno scostando piccole tende – un sipario personale dello spettatore – usando il binocolo per vedere meglio la scena o intrecciare complicità di sguardi.

mente, diceva qualcosa a Jašvin. L’attaccatura della testa sulle spalle belle e larghe e lo splendore contenuto ed eccitato dei suoi occhi e di tutto il viso, gli ricordarono proprio l’Anna ch’egli aveva visto al ballo di Mosca. Ma, adesso, egli sentiva in tutt’altro modo quella bellezza. Nel suo sentimento per lei non c’era adesso più nulla di misterioso, e perciò la bellezza di lei, pur attraendolo più fortemente di prima, lo offendeva a un tempo. Ella non guardava dalla sua parte, ma Vronskij sentiva che lo aveva già visto. [Lev Tolstoj, Anna Karenina, 1877]

Lo sguardo del conte Vronskij – Vronskij entrò nella platea e, fermatosi, cominciò a guardare in giro. Quel giorno meno che mai fece attenzione all’ambiente abituale, al brusio, a tutto quel noto, poco interessante, variopinto gregge di spettatori nel teatro pieno zeppo. Nei palchi c’erano determinate signore, sempre le stesse, con determinati ufficiali in fondo al palco; le stesse, Dio sa quali, variopinte donne, e poi divise, soprabiti e la stessa folla sporca in loggione; e in tutta quella folla, tra palchi e prime file, c’erano una quarantina di uomini e di donne veri. E su questa oasi Vronskij rivolse subito la sua attenzione... [...] Vronskij non aveva visto ancora Anna, e deliberatamente non guardava dalla parte sua. Ma sapeva, dalla direzione degli sguardi, dove si trovava. Senza farsi notare, guardava in giro, ma non la cercava. [...] Vronskij, ascoltando con un orecchio solo, portava il binocolo dal primo ordine di palchi al secondo. Accanto a una signora in turbante e a un vecchietto calvo, che ammiccava rabbiosamente nella lente del binocolo, Vronskij, a un tratto, vide la testa di Anna, superba, meravigliosamente bella e sorridente nella cornice dei merletti. Era nel quinto palco della prima fila a venti passi da lui. Era seduta e, voltandosi legger-

 1. Il palco a teatro (fine XIX sec., particolare di un dip. di A. Guillaume).

 2. «Signor Colimard, se continuate a guardare le ballerine in un modo così sconveniente, vi riporto a casa prima della fine dello spettacolo!» (caric. di H. Daumier, pubblicata nel giornale satirico Le Charivari, 4 maggio 1864).  3 - 4 . Mentre la signora a destra guarda col binocolo la scena, è a sua volta osservata dal binocolo di un ammiratore poco lontano (1880, All’Opera, dip. di M. Cassatt).  5 - 13. L’abitudine degli spettatori di scrutare con il binocolo gli altri spettatori in sala divenne per molti pittori e caricaturisti del XIX sec., buoni conoscitori della società e del mondo galante dei teatri, l’occasione per cogliere l’uso malizioso dello strumento nel gioco degli sguardi incrociati.


Capitolo Quattro. Per chi 3

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