Il padre e il figlio è un romanzo sul teatro, che ne reinventa i protagonisti e trasfigura scene di classici, ma riscrive pure un’antica saga islandese, proiettandola sullo sfondo livido di un Sud contemporaneo. Un importante attore italiano torna dall’Inghilterra, dove ha girato un film, e apprende dal suo agente che dovrà accogliere in casa un figlio undicenne, che a suo tempo ha avuto da un rapporto occasionale con la maschera di un teatro, ma che non ha mai conosciuto. La madre del bambino è morta in circostanze misteriose e il piccolo non ha altri parenti. L’attore instaurerà un rapporto contraddittorio e drammatico con il figlio, che non avrebbe mai voluto accogliere e che, nell’arco di una settimana, lo porta a un serrato confronto con il suo passato di successo, sul piano professionale, ma di permanente crisi artistica, e costellato di affetti tutti in fondo non realizzati. Nel corso di una progressiva e inquieta presa di coscienza delle linee della sua esistenza, l’attore si confronterà con il rimorso, la malattia e l’urgenza d’individuare la direzione del suo mestiere e della vita. Su questa trama, in trasparenza, il romanzo si caratterizza per la tecnica di scrittura dialogata, per ampie sezioni, e concepita secondo strutture narrative che sono tendenzialmente analoghe a quelle con le quali, nel lavoro scenico, si fissano le improvvisazioni e le azioni degli attori. Franco Perrelli (Venezia, 1952) è professore ordinario di Discipline dello Spettacolo all’Università di Torino ed esperto di teatro e letterature nordiche. Ha pubblicato come traduttore e prefatore i grandi autori scandinavi, Ibsen, Strindberg, Lagerkvist, per i principali editori italiani. Le sue versioni di drammi ibseniani e strindberghiani sono state messe in scena da registi come Marco Bernardi, Gabriele Lavia, Walter Pagliaro, Cristina Pezzoli e Armando Pugliese. Ha vinto il Premio Pirandello 2009 per la saggistica teatrale con il volume I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, Roma-Bari, Laterza, 2007. franco.perrelli@gmail.com
In quei racconti a cavallo fra l’invenzione e la cronaca, mi affascinava con quanta sincerità si rivelasse l’essere umano e come costruisse attorno a sé il suo sistema di rapporti in una terra quasi vergine, che poteva essere lo specchio di un mondo in gestazione. Tutta quella ferocia fatale, al limite della noncuranza, che trovava l’unico vero limite nel diritto alla proprietà, accumulata, al solito, soprattutto in eroiche piraterie. Quelle faide ossessive che si fermavano per un po’ soltanto ripagando le vittime in argento sonante. No, erano implacabili, ma per niente ipocriti gli islandesi antichi: qualsiasi cosa ha un prezzo. La giustizia civile, viene denominata. Loro la esercitavano in un luogo che chiamavano la Rupe della Legge: “La nostra terra prospererà nella legge, ma nell’ingiustizia sarà un deserto”, proclamava uno di questi maestosi briganti, che doveva sentire la necessità di qualche limite. Eccola la società umana, alla sua radice: briganti con dei limiti contro briganti senza limiti. Poi, come dalla luna, gli piomba addosso il cristianesimo. Il cristianesimo esplode sempre come una bomba, ma ha bisogno di un imprecisato rodaggio prima di andare a regime e non riesce mai a combaciare davvero con la vita sociale, sembra modellarla, ma l’accompagna solo in parallelo, ne diviene un’ombra, più o meno spessa, o persino un rimorso. Magari adesso fanno dire messa prima di andare alla guerra, ma tutto continua più o meno come prima: fato, sangue, risarcimenti in metallo prezioso e, piccola variante in alternativa, un pellegrinaggio di espiazione a Roma. Intanto, quando non si potevano massacrare a colpi di spada e di ascia, si bruciavano vivi. Famiglie intere bruciavano: – sulla casa il fuoco divampa alta su di essa s’erge la fiamma...
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Al notiziario della CNN, in quei giorni, mi capitò di ammirare gli effetti di un “bombardamento per errore” sui civili in Serbia e, subito dopo, riprendendo il mio libro, lessi: “Io dico che essere uomini vuol dire non farsi trattenere da niente, per quanto spropositato appaia...”. La cosiddetta grandezza dell’uomo, e la sua insanabile insensatezza. Certo, mica pensavo solo ai vichinghi delle saghe, pensavo anche a te, credimi. Un po’ alla volta avevo ripreso a desiderarti anche se, contemporaneamente, sarà stata la distanza o un presentimento, avvertivo che il laccio s’era forse spezzato per sempre. Per te, purtroppo, quasi senza un motivo; per me, per una confusione di motivi, nella quale, in quell’anonimato che mi stavo regalando, speravo di riuscire a mettere qualche ordine. Intanto, i giorni trascorrevano, senza – va da sé – che potessi tirare davvero un solo filo che dipanasse una delle mie malinconie. Questa inconcludenza però, in fondo, era piacevole e significava: nessuna soluzione, quindi nessuna decisione e, in qualche modo, pure, nessun problema. La sospensione di tutto e la speranza, meglio l’illusione di non dover mai più rientrare in nessun gioco, in nessuna responsabilità, in nessun rapporto, sul serio. * In effetti, di teatro da quelle parti se ne faceva proprio poco. Una sera, però, rientrando in albergo, la mia attenzione fu attirata da una locandina: Alkestis, senza autore, rappresentata da un gruppo del posto. La locandina m’incuriosì per la grafica accattivante e – non so perché – chiesi informazioni al portiere. 65
– Dove lo danno questo spettacolo? – Un po’ fuori città. Dieci chilometri da qui. – E con la biro il giovanotto marcò con una crocetta blu un punto a nord di Reykjavík su una cartina che aveva steso sul bancone: – È interessante da visitare. Ci sono scavi archeologici aperti. – Non è un teatro? – No, è una sala adiacente a una chiesa. Ma il posto è davvero interessante. Marcello sbuffò, pensando: “Il posto sarà interessante, ma loro noiosi e pretenziosi. Teatro d’avanguardia è!”. – E la compagnia la conosce? – Certo, è un gruppo islandese, ma l’ha fondato un suo compatriota. – Oh, gli italiani arrivano dappertutto... – E rappresentano questo spettacolo da trent’anni. – Oddio, da trent’anni, e come fanno? Neanche a Broadway ci riuscirebbero... – A dire il vero, è l’unico spettacolo che hanno in repertorio. – Da trent’anni sempre e solo questo? – Più o meno. – Ma qua l’avrete visto tutti e più d’una volta! – Indubbiamente. Ma loro fanno ogni tanto repliche per i turisti e poi lavorano per lo più all’estero, soprattutto in Sud America. Lì sono molto conosciuti. – Trent’anni! E non mi dica: gli attori sono invecchiati rappresentando sempre lo stesso spettacolo! – Esatto. Sono sempre gli stessi attori. Normalmente, Marcello a teatro non ci andava quasi mai. Un po’ perché, facendolo, non si divertiva a vederlo, un po’ perché 66
in effetti gli mancava il tempo: nella vita, o sei attore o sei spettatore, non c’è via di mezzo. Di rado, se era libero e stava a Roma, presenziava, per cortesia e su invito, agli spettacoli di qualche collega, con il quale, alla fine, si ritrovava immancabilmente in imbarazzo a esprimere giudizi e consigli. Per il resto, leggeva riviste, saggi e si teneva abbastanza aggiornato, ma in fondo conosceva solo il proprio giro teatrale, che era poi la serie A della scena. Ignorava quindi quasi del tutto le compagnie minori o i gruppi cosiddetti d’avanguardia, che non gli interessavano. La sua professione lo assorbiva completamente e problematicamente e, per lui, riassumeva tutto il Teatro, nel bene e nel male. Oltre, c’erano terre artistiche poco conosciute, ma per niente attraenti o degne di esplorazione: Hic sunt leones! Essere giunto in quell’isola abbastanza remota, fuggendo dal teatro, e scoprire l’esistenza di questo stranissimo gruppo, messo in piedi da un italiano ancora più eccentrico, gli parve un segno del destino che non era il caso d’ignorare. Ciò che lo intrigava maggiormente era capire come degli attori potessero dedicare tutta la loro esistenza a un unico spettacolo. I casi erano due e ambedue curiosi: o erano degli straordinari insopportabili rutinieri o avevano scoperto anche loro il Graal del mestiere (chissà, come certe reliquie medievali ne circolava più d’uno) e riuscivano a risultare in qualche modo diversi e vivi dentro quelle ragionieristiche e mortali caselle che sono le innumerevoli repliche protratte nel tempo. Marcello, a questo punto, vinse le ultime resistenze: – Per favore, mi prenoti un biglietto. – Va bene. Domani alle diciassette? Marcello annuì e il portiere si annotò la commissione su un’a67
genda. Dopo aver piegato la cartina sulla quale aveva segnato il luogo dello spettacolo, la consegnò al cliente. * Non era per niente agevole arrivare alla chiesa, nelle cui adiacenze si sarebbe rappresentata Alkestis. Come accade da quelle parti, un pomeriggio a dir poco radioso s’era all’improvviso ingrigito e incattivito; la temperatura era precipitata e, con essa, da un cielo sempre più di colore ardesia si scagliavano a raffiche ora pioggia ora neve ora grandine rabbiosa. Neanche la strada – tipico di quell’isola – era granché; poco meglio d’un tratturo era e, specie quando calò una densa nebbia, Marcello cominciò a chiedersi, non senza inquietudine, cosa sarebbe successo se l’automobile si fosse impantanata in quella specie di tundra grigio-verde, tanto più essendosi imposto, alla partenza, di dimenticare a Roma il cellulare. Ora, davanti a sé, vedeva solo il barlume dei fari che lambiva l’erto muro di nebbia. Avvertiva confortevole l’abitacolo dell’auto, ma temeva contemporaneamente l’isolamento ovattato nel quale era immerso. Era in anticipo, ma in pratica non sapeva più dove stava andando, sicché spense il motore e parcheggiò schiacciandosi su un lato della carreggiata fangosa e angusta, sperando che si aprisse uno spiraglio e migliorasse almeno la visibilità. Restò un quarto d’ora, immobile, nel silenzio interrotto solo dal ribattere dei goccioloni di pioggia scura, senza pensare a niente o meglio in ascolto della sola voce che a intermittenza, ma per fortuna come l’onda debolissima della radio di un altro continente, s’imponeva alla sua coscienza: la tua vita artistica è falsa; più dietro, sentiva, fra mille interferenze, un’eco ancor più remota e frusciante: e anche quella privata. 68
– Allora, può darsi pure che Amleto soffra di non essere completamente buono e che non lo sono neanche gli altri, che nessuno può esserlo, completamente almeno. – Qualcosa del genere. Sa che gli uomini e lui stesso sono terribilmente fragili: “pagliacci della natura” li chiama. Il bambino rise: – Ci ha ragione Amleto! E tu l’hai recitato Amleto? – Quand’ero giovane, avevo poco più di vent’anni, col grande Federico Pidulski, il mio maestro. – Non era italiano? – Sua madre era italiana, il padre di Cracovia. Lui era nato lì, era mezzo polacco. – E ti sentivi come Amleto mentre recitavi? – È difficile spiegarti. Quando reciti ti può anche capitare, sono momenti, ma allora magari fai persino male il tuo lavoro. È difficile spiegare cosa succede e, per me, è sempre stato un problema fare, in coscienza, il mio lavoro... non ti dico spiegarlo! Il bambino si tese per ritenere quello che stava dicendo il padre e che sentiva sofferto e complicato, e sollevò leggermente le spalle nello sforzo. Marcello fece una pausa e volle continuare: – Quando sei in scena, la cosa essenziale non è fingere il personaggio, ma che tu sia lì tutto intero: testa e corpo e che da ciò che fai venga fuori una specie di luce... Chi lavora con te e il pubblico debbono vedere il personaggio attraverso questa luce, la luce della tua presenza. Non si tratta affatto di fingere, ma di essere interi dentro quella luce... come sei tu in questo momento. Marcello sorrise e il bimbo infatti era attentissimo, tutto proteso a comprendere, addirittura era un po’ arrossito nello sforzo 124
di penetrare quei concetti non semplici, che avvertiva importanti. – E non è facile accendere questa luce, vero? – Per niente. Oh, non escludo che ti possa anche venire spontanea, più nella vita che sulla scena... Pidulski ci riuscì solo alla fine della carriera, e forse per momenti. Ci riuscì dopo tanti anni di lavoro, quando comprese probabilmente che recitare non è recitare. – Non è recitare... – Certo non è truccarsi, travestirsi... sono cose che puoi pure fare, ma dentro devi spogliarti, in qualche modo stare nudo. – ... – E non serve tanto l’ispirazione, sai. Prima serve almeno un’infinita precisione. Precisione di azioni che vanno a svegliare le emozioni e persino le parole, che se no stanno addormentate. Da lì si dovrebbe partire. No, questo è un mestiere in cui, se non sei preciso, non costruisci nessuna emozione. Adesso il concetto si faceva proprio tecnico e astratto e il bambino s’era un po’ sperso, sicché cercò di personalizzare il discorso: – E il tuo Amleto ci aveva quella luce? – No, ero troppo giovane... Troppo bravo a recitare appunto, e non avevo ancora capito tante cose... non è facile, se sei appena uscito dall’Accademia. Pidulski c’era arrivato invece, tardi, ma c’era arrivato. Poi, sarebbe morto subito dopo, poveretto... e fortunato! Del resto, in quello spettacolo, faceva già la parte dello spettro... Il bambino sorrise.
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– “Addio, addio, addio! Ricordami...” venivano i brividi, quando pronunciava questa battuta, e mi vengono ancora. Il bimbo ora rifletteva: – E quando muore, in quel modo così complicato, Amleto è solo e non ha nessuno vicino che lo conforti? – Non è vero. Ha Orazio, un amico fedele, un suo compagno di studi, che lo assiste. – Orazio? – Anzi Horathio, che, quando Amleto muore, lo saluta: “Ora si spezza un nobile cuore. Buona notte, dolce principe, e voli d’angeli cantino mentre vai al tuo riposo!”. – È bello. – È bellissimo. – Si commosse Marcello. – Insomma, è accompagnato dal canto degli angeli che Amleto si presenta di fronte a Dio, beato lui! – A parere del suo amico più caro. Quando siamo morti o annientati, capita che gli amici ci perdonino tutto, e non solo loro. Contempliamo noi stessi nella sorte dell’altro e capiamo che prima o poi saremo tutti sconfitti; certe volte, rimpiangiamo l’ostacolo che dava un senso alla lotta dei nostri desideri... I sentimenti possono essere tanti, ma Amleto almeno è sincero quando dice a un certo punto: “Io stesso sono abbastanza onesto e intanto potrei accusarmi di tali cose che sarebbe meglio che mia madre non mi avesse fatto nascere”. È sincero e sa di non essere tanto angelico. Non dimenticare poi che ha ammazzato il vecchio Polonio... Gli spettatori, ho sempre avuto l’impressione, sono contenti quando toglie di mezzo quel pedante, intanto è pur sempre un assassinio. Comunque, credo che il tuo Dio alla 126
fine non potrà andare tanto per il sottile e Amleto lo dovrà giudicare a occhio. – Perché? – Perché Amleto, come tutti gli uomini, è vissuto un po’ a occhio, anche lui da pagliaccio della natura. Il bambino stette lì un attimo a pensare: – Hai ragione. Credo che Dio farà così. – E, subito dopo, aggiunse: – Lo farà comunque con il suo occhio. Marcello si dondolò all’indietro sulla sedia e riaccese la radio: Erbarme dich, Mein Gott, um meiner Zähren willen...2
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Abbi pietà di me, mio Dio, per le lacrime mie.
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* Marcello si chiuse la porta della camera alle spalle, ma, dopo pochi passi nel regale corridoio felpato di moquette verde e oro, aveva già perso ogni voglia di fare un giro in città. Faceva troppo caldo e il viaggio l’aveva stancato. Fu attirato piuttosto dall’ampia rotonda panoramica che intravedeva da una finestra. Sciolta la fiacca nocca di una striscia di plastica bianco-rossa tesa fra le due ante, l’aprì e uscì su questa terrazza che s’affacciava sul mare. C’erano impalcature, secchi di colore e calce: il posto sembrava in ristrutturazione ed era piacevolmente desolato. S’appoggiò al parapetto, contemplando il traffico nervoso, il mare tranquillo e il profilo assolato della città vecchia. Perché era venuto fin là? continuava a chiedersi. Per prendere la valigia del bambino, era l’unica risposta seria, ma era una risposta magra. Un filo di speranza in un miracolo ce l’aveva. Dopo tutto, mica chiedeva la resurrezione della figlia di Giàiro, gli bastava che il dottor Clark avesse preso un granchio. In medicina, capita, eccome capita. Gli bastava un miracolo mediocre, di quelli razionali, anche se la speranza s’agitava dentro di lui irrazionale e invincibile, per quanto ben dissimulata. Sotto sotto, tra la Santa e il ricovero finalmente fissato in clinica a Roma, adesso, si sentiva un po’ confortato: qualcosa sarebbe successo e, da alcune ore, avvertiva meno il mal di gola e di sicuro era sfebbrato. Considerò comunque che, nei prossimi giorni, a causa di qualche intervento chirurgico, avrebbe anche potuto perdere quasi del tutto la voce, restare afono per sempre, ma stranamente non gli faceva grande effetto: perdeva lo strumento di una 149
professione che, forse, aveva compreso troppo tardi, nonostante la stima, il successo e la ricchezza che ne aveva tratto. Quel male finiva per sembrargli una sorta di compensazione: punito era stato, non premiato a forza di peccare fortiter e, del resto, quale poteva essere la ricompensa del peccato? ma anche quell’esito infausto, ai suoi occhi, risultava ormai piuttosto indifferente. Era andata com’era andata e quel po’ d’illusione di un valore che non sentiva di possedere magari aveva dato – a quanto sembrava – qualche momento piacevole a qualcuno. Scontento lui, contenti tutti: poteva anche essere accettabile, come finale di partita. Questo per la professione. Poi naturalmente c’era il problema del bilancio sulla vita. A onor del vero, in quella casella del proprio foglio matricolare di essere umano non era segnato ancora nulla: stava bianca la casella. Finché viveva e non conosceva la direzione della propria esistenza – e lui ancora non sentiva di conoscerla – si poteva permettere di lasciare incompiuto e indefinito quel documento. Sinceramente, in quel momento almeno – a differenza che in altri del passato – non provava una gran paura di dove andava a finire per un’eternità che non riusciva neanche a concepire nella sua estensione, per paradosso, senza estensione; la cosa che cominciava a disturbarlo di più era morire senza conoscere quella direzione. Quello era tormentoso, quello era davvero impossibile, quello spingeva a restare in vita quanto più si poteva. Il problema, caro Amleto, non era il non essere, con lo spauracchio dei suoi ignoti terrori, che nessuno riesce davvero a figurarsi, ma l’essere senza una direzione. Così, sperava di vivere, e non per banale e animale istinto di sopravvivenza, ma solo perché non era proprio in grado di se150
gnare nulla su quella fatale casella del proprio foglio matricolare. Certo, anche morire così, diciamo, senza direzione e lasciando in bianco la casella, poteva capitare, ed era piuttosto frequente. Di contro, si ricordava pure di persone che, al momento giusto, avevano preso la loro valigia e se n’erano andate da questo mondo senza fiatare e senza troppa resistenza: erano tutti quelli che la direzione l’avevano compresa. Pidulski – era convinto – se n’era andato in quel modo e, forse, anche Schneider, facendosi strada fra le sue montagne azzurre. * Preso da queste riflessioni, Marcello non si era accorto intanto che, all’unico tavolino ch’era rimasto sulla terrazza, sul lato in ombra, s’era venuto a sedere discretamente un signore anziano: capelli bianchi appena scomposti, barbetta candida curata, senza occhiali. Aveva un’aria inquieta, ma ancora imponente, nonostante l’età che doveva essere piuttosto alta; in un notes prendeva appunti a matita, mentre una tracolla blu che aveva appoggiata a fianco della sua poltroncina di metallo doveva essere zeppa di libri. Marcello si ricordò dell’importante poeta americano che aveva conosciuto tanti anni prima a Rapallo. In seguito, l’aveva incontrato in alcune occasioni, a Venezia, dove abitava, e, una volta, ne aveva letto le poesie in pubblico, alla sua presenza. Francamente, aveva sentito dire ch’era morto da un pezzo: “Un altro fantasma per Amleto! Che traffico dall’aldilà...”. Il vecchio poeta tuttavia aveva l’aria di essere assai vivo e riconobbe subito e con piacere Marcello, apostrofandolo con una delle sue famose ed eccentriche citazioni dantesche: 151
– Allor conobbi chi era, e pregai... che per parlarmi un poco s’arrestasse... – Maestro! quanto tempo! come sta? Certo che “m’arresto; ma tu perché vai?”... – Sono in transito per Venezia. Questa sera riparto con la motonave Ausonia. Marcello scavò rapidamente nei ricordi giovanili a proposito di un suo nonno tenore che, almeno cinquant’anni prima, viaggiava fra Venezia e Bari con l’Ausonia, ma non avrebbe mai creduto che quella linea fosse ancora attiva. Comunque, non indagò. – E lei? – Una visita di poche ore... Diciamo, una specie di pellegrinaggio. – È religioso? – Può darsi. Perché no? – Ha mal di gola? – Un po’. – Fa compagnia quest’anno? Shakespeare? – Sicuramente mi prendo un sabbatico, lungo, credo, ma lei piuttosto, maestro, su che cosa sta lavorando? Il vecchio sembrò felicissimo della domanda; anzi, non s’aspettava altro: – Non ci crederà, ma ho ripreso a occuparmi di economia! – rispose con tutto il suo entusiasmo. Marcello non riuscì a reprimere un’espressione preoccupata. – Ah... – È perplesso? Avendo un’antica confidenza, l’attore s’avventurò: 152
– A esser sincero, preferisco i suoi versi e, poi, lei sa com’è finita, dolorosamente, quella volta... – Nel ’45? La gabbia di Pisa, due mesi rinchiuso come una bestia, al sole e alle intemperie, e 12 anni di manicomio a Washington! e chi se lo scorda! Ma adesso il contesto è completamente mutato! – Sicuro. – E mi danno ragione: he was right! E qui il maestro, con un movimento rapido, tirò fuori dalla sacca, trionfante, la pagina spiegazzata di un quotidiano e la porse a Marcello. Era in effetti un articolo di economia del «New York Times» del 10 febbraio 2008. Mentre Marcello lo scorreva, il vecchio ne declamò il primo rigo, che era poi la citazione di una sua poesia: “Con usura nessun uomo ha una casa di solida pietra”. L’articolo ricordava d’esordio gli scandalosi trascorsi fascisti e antisemiti dell’anziano poeta, ma riconosceva pure ch’era l’unico forse ad avere descritto la natura profonda dei problemi economici attuali della sua great nation, che, per contagio, erano diventati quelli di tutto il mondo. – Capisce? Prima cita me e poi racconta la storia di John Jones che voleva comprarsi una casa, senza poterselo permettere. – E che succede a John Jones? – Legga: i tassi sono ridicoli e ottiene su due piedi un prestito, anche fino al 100% del valore dell’immobile e a un interesse irrisorio. Mr. Jones allora col mutuo si compra la casa dei suoi sogni, ma si ritrova nelle peste: la rata s’impenna, perché i tassi non restano fermi e crescono. Adesso, la casa vale addirittura meno di quanto viene pagata, tanto che non si riesce neppure 153