«Isidora», di Alver Metalli

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Indice

Un sorriso malinconico le segnava il volto di Gioconda antica

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Una coincidenza, forse. Ma lui non credeva alle coincidenze

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La farfalla notturna volò verso la luce con un inelegante battito d’ali

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Si lasciò cadere sulla sedia. Un minuto... cinque... Il tempo già non aveva importanza per lui

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La leggenda del pittore innamorato

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Il giorno del giudizio era imminente

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Un sorriso malinconico le segnava il volto di Gioconda antica

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L’addetto alle pulizie si avvicinò all’area delle confessioni. La lunga proboscide flessibile sfiorò la base dello zoccolo del confessionale ingurgitando polvere e lerciume. Conosceva la basilica a menadito, gli anfratti più reconditi, dove correvano a nascondersi le impurità introdotte in quel luogo sacro da migliaia di visitanti. Fazzoletti di carta e chewing gum masticati, fango nei giorni di pioggia, resti di cibo, sacchetti e bottigliette di plastica, sudiciume di ogni genere che mille piedi in movimento spingevano nei recessi più nascosti. Poi c’era la sporcizia delle anime. Di quanti peccati erano state mute testimoni quelle grate, nei secoli dei secoli! A volte solo scrupoli da niente, piccole bugie o miseri pensieri, altre nefandezze e delitti che avevano fatto arrossire pure quei confessori avvezzi da sempre a trattare con le debolezze umane. Lordure dello spirito, infinite e variegate anch’esse come quelle materiali che si sedimentavano sui marmi del pavimento; ma per queste c’erano altre disinfestazioni, non doveva pensarci lui a mondarle. All’improvviso si fermò. Il tubo continuava a ronzare. Guardò fisso verso il confessionale, uno dei sei accostati alle pareti. Aveva notato un’anta leggermente dischiusa e la tendina raccolta ad una estremità; l’interno era oscuro ma gli sembrava di intravvedere i lineamenti di una figura umana. Sollevò il tubo da terra; si avvicinò continuando a sbirciare nell’apertura. L’aspiratore vibrava, diffondendo all’intorno un brusio acuto e un po’ metallico.

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L’uomo delle pulizie fece un passo indietro, tornò a guardare l’interno del confessionale da altra angolatura. Spense la macchina, si tirò la cuffia antirumore sul collo. Appoggiò a terra il tubo di aspirazione e si avvicinò ancor di più al confessionale. Frugò nuovamente all’interno cercando di adattare lo sguardo al buio. La fronte si corrugò. Non aveva più dubbi: il viso era lì e ricambiava il suo sconcerto con gelida imperturbabilità. Non dormiva, di questo era sicuro, non c’era niente di vitale che emanasse dall’immobilità in cui si trovava, come se in quella posizione fosse stato pietrificato da una qualche forza oscura. Il mento dell’uomo nel confessionale si protendeva verso l’alto, la testa era reclinata all’indietro con la nuca appoggiata alla parete di legno; gli occhi sembravano iniettati di sangue, il bulbo bianco s’era ingrossato come una pallina da ping pong e sembrava voler schizzare dalle orbite, la pelle s’era arrossata. Anche la bocca era aperta. La lingua oscura, rigonfia, occludeva la cavità della gola. Le braccia scendevano, aderendo alla veste, le mani erano appoggiate sul sedile e sfioravano una bottiglietta di plastica, il busto in equilibrio. La talare nera e lunga discendeva verso il fondo del confessionale confondendosi con il buio. L’addetto alle pulizie sfilò le cinghie dell’aspiratore e lo appoggiò a terra. Si guardò attorno. C’era dell’allarme in quel movimento breve, e anche qualcosa che somigliava alla paura. Lavorava da poco in Vaticano, la sua situazione era ancora precaria e in attesa di conferma, l’aria era già pesante di per sé, e di guai non aveva certo bisogno. Quattro suoi colleghi rasentavano le pareti perimetrali della basilica attrezzati di tutto punto; degli operai, sul fondo, trasportavano pannelli di legno e li incastravano l’uno con l’altro per formare un corridoio lungo la navata centrale.

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L’addetto alle pulizie camminò a passi veloci verso un uomo, la divisa grigia della vigilanza ben stirata, un distintivo rosso infilato nell’asola della giacca con incise le insegne vaticane. Gli si parò davanti, parlò concitatamente con lui per alcuni secondi. La testa di entrambi si girò verso il confessionale. Poi anche i corpi si mossero in quella direzione, osservati in lontananza da un sacerdote in clergyman che si era reso conto che qualcosa era successo nella cappella delle confessioni. Lentamente le occupazioni che fervevano nella basilica da poco chiusa al pubblico si fermarono contagiate dalla nuova, strana situazione; il sacerdote in clergyman s’infilò tra le decine di persone che s’erano raccolte davanti al confessionale e si piantò davanti alla porta. Guardò all’interno. Ebbe un sussulto. Impallidì. La mente, pur avvezza alle decisioni risolute, continuò a frugare nella penombra, perplessa ed esitante. Finché estrasse lo smartphone e compose un numero. «Comandante, la prego di venire subito in basilica; è successa una cosa grave.» L’uomo si fece largo tra la piccola folla. I lineamenti del viso erano severi, la corporatura robusta. Indossava un abito scuro, la cravatta blu. Con passo breve e deciso si diresse dov’era stato convocato. Il personale delle pulizie si scostò di lato al suo passaggio, gli operai si separarono in due schiere come le acque del Mar Rosso alla presenza di Mosè. L’uomo affiancò il sacerdote in clergyman; i saluti parvero superflui, e non ce ne furono. «È padre Kim!», gli disse l’ecclesiastico appena s’accorse del suo arrivo. Il comandante della Gendarmeria vaticana si chinò sull’apertura del confessionale, fissando da poca distanza il volto irrigidito e pallido che si trovava all’interno. Il suo contegno rivelava familiarità con

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le circostanze anomale e quella, non c’erano dubbi, era tra le situazioni più insolite e imbarazzanti a cui doveva aver assistito. C’erano stati decessi tra quelle mura, ma nessuno era mai morto in quel modo, nella basilica, dentro un confessionale. «Da quando è lì, eccellenza?», domandò con una deferenza che contrastava con l’autorità che emanava dalla sua persona. «Non si sa, lo hanno notato poco fa», rispose l’interpellato. «Un addetto alle pulizie. La basilica... veniva preparata per domani.» Il responsabile della sicurezza del papa si girò e guardò nell’immensità del tempio dove più nessuno era al posto in cui si trovava al momento del suo arrivo. Sapeva già che il giorno seguente, 11 novembre, era prevista una liturgia solenne per commemorare il primo anniversario della strage della Sistina. Un massacro senza precedenti, un evento che aveva scosso il mondo come l’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York. L’indomani papa Matteo avrebbe concelebrato la messa con gli altri due unici partecipanti a quel surreale conclave che lo aveva eletto, ma adesso non era quello il pensiero che dominava la mente dei presenti e il ricordo stesso della strage sfumava in lontananza, sospinto dallo sconcerto per la nuova morte. Il comandante fece un cenno al più anziano dei due gendarmi che erano sopraggiunti in quel momento. «Fate sedere nelle prime file tutti quelli che si trovano in basilica e pregateli di attendermi.» «Anche il personale delle pulizie?», domandò un gendarme, il più piccolo dei due. «Tutti, anche loro», replicò l’uomo guardando gli operai ancora radunati sul posto. «Le attrezzature... anche quelle devono rimanere qui. Radunatele nel presbiterio delle Vergini. Le riprenderanno dopo, quando glielo diremo», precisò. I gendarmi fecero per andarsene. «Aspettate...», li raggiunse di nuovo la stessa voce. «Fate accendere il dispositivo di schermatura, per maggior sicurezza.»

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Il comandante compose un numero e avvicinò lo smartphone all’orecchio. «Dottoressa Spallone? Sono Ghedini; mi trovo in basilica, nell’area delle confessioni. La prego di raggiungermi subito. Venga da sola... E porti con sé il necessario per certificare un decesso.» Sopraggiunsero in quel momento altri gendarmi. «Isolate tutta l’area.» Il dito tracciò un perimetro nella penombra. «Qui fate scendere un telone, laggiù montate delle transenne, quelle più leggere, con un solo varco in entrata e uscita. E chiudete anche il portone piccolo, quello di servizio.» Di nuovo compose un numero. «Speziali, passami Speziali.» La voce greve di Ghedini oltrepassò il perimetro di chi gli stava attorno. Controllò che non fosse inserito il vivavoce e attese alcuni istanti. «Speziali, senti... le telecamere di sorveglianza in basilica... accertati che le registrazioni siano a posto, dovrò visionarle presto... sì, quelle di oggi... poi ti spiego.» Il monsignore in clergyman si passò una mano tra i capelli, un gesto che gli doveva essere inconsueto e che ripeté due volte, come se volesse accelerare il corso dei pensieri e mettere ordine tra quelli che si affastellavano. Conosceva padre Kim, come tutti in Vaticano. Il passato tragico della famiglia, la vicinanza al discusso cardinale di Manila, Jim Aquino, il modo come era entrato al servizio del papa, tutte cose che lo avevano reso popolare in quel piccolo mondo racchiuso nel perimetro di pochi chilometri di antiche mura. «Vado dal Santo Padre; lo deve sapere subito», disse allontanandosi.

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L’autista di sir James Redford, un longilineo sik col il turbante bianco, si districava nel traffico londinese con abilità. La scia policromatica di veicoli scivolava attorno a loro come una bava di lumaca alla luce del tramonto. Quaranta minuti dopo la Bentley nero fumo accostò al 47 di Fairfield Road di Kingston, davanti ad un portone verde scuro. L’uscio si aprì quando ancora Romeo era ai piedi dei tre gradini che portavano al pianerottolo con veranda e una giovane donna dal corpo esile gli buttò le braccia al collo. «Pa’, che bello vederti! In fuga dalla piena? Il Tamigi, qui, non fa i capricci del Tevere...» Quando l’abbraccio si sciolse, Romeo la guardò attentamente con una occhiata inquisitrice. Lo sguardo malinconico, la piccola bocca dalle labbra affilate, gli occhi vispi e quel collo lungo e sottile anch’esso, “come la donna del British”, gli venne da pensare. «Pa’, è tutto a posto», lo tranquillizzò la figlia; «qualche dolore alle ossa quando cambia il tempo, ma è normale che sia così». Si staccò da lui, mentre Romeo continuò a studiarla incerto se accettare la rassicurazione ricevuta o insistere nell’indagine sulla sua salute.

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Chiara viveva nella cittadina inglese da tre anni. Lì, due estati prima, era nato anche il figlio Federico; lì, un anno prima, aveva avuto un incidente d’auto sulla Kingston-Londra che avrebbe potuto avere conseguenze ben peggiori delle piccole fratture multiple che aveva riportato. L’incidente non ne aveva cambiato il carattere forte e dolce allo stesso tempo, racchiuso come un tesoro nello scrigno di un corpo esile, fragile, sempre sul punto di spezzarsi eppure resistente e ostinato come un mulo. «Pieralberto non c’è; torna più tardi. Si scusa ma non è riuscito ad anticipare...» Il marito, Pieralberto Inzaghi si era stabilito a Londra per conto del Team Service Group, una società romana di pulizie integrate che aveva aperto una succursale nella City. Quando avevano offerto a Chiara il posto nella sede di Londra della Sinetyc Company, aveva a sua volta chiesto di esservi trasferito; lei ci teneva a quel lavoro, l’aveva conquistato con grande determinazione, una disciplina ferrea e uno studio forsennato, e lui, Pieralberto, non voleva tarpare la carriera della donna che amava. Aveva addirittura preceduto Chiara di un mese nel trapiantarsi in Inghilterra, finché tutti e due si erano riuniti sotto un unico tetto nella cittadina di Kingston, trenta minuti d’auto da Londra, che entrambi percorrevano avanti e indietro tutti i santi giorni. «Federico è sulla tazza del water.» La voce di Chiara lo riportò sulla terra. «Non ho voluto che toccassi il campanello perché sa che sei a Londra; sta all’erta da questa mattina come una sentinella ninja», spiegò. «Drizza le orecchie ad ogni stridere di ruote sulla strada. Immaginati! Se avesse sentito il trillo sarebbe corso fuori con il sedere all’aria.» Evocato dal suono del nome, un metro di carni rosee sormontate da una testa di riccioli color grano spuntò tra le gambe della madre. Gli slip nella mano, gli attributi che penzolavano all’aria, ostentati senza alcun disagio, il sedere grassottello che tremolava ogni volta che il piede batteva sul pavimento.

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«Eccolo qua il mio amore», esclamò Chiara. Due robuste braccia lo sollevarono. Romeo lo frullò un po’ nell’aria poi lo strinse a sé. Entrarono in casa. Romeo aprì la borsa a tracolla e tirò fuori un involucro squadrato avvolto in una frusciante carta variopinta. Federico lo afferrò; prima lo scosse per capire cosa ci fosse dentro, poi cominciò a strappare la carta con forza, finché la scatola di plastica trasparente non rivelò il contenuto del pacchetto. Romeo s’inginocchiò, rimosse il coperchio ed estrasse la Zero Gravity dalla scatola sotto lo sguardo ammirato di Federico. Premette un bottone e l’appoggiò a terra. L’auto partì a tutta velocità con un balzo, toccò la parete, fece una manovra inverosimile e cominciò a risalire lungo il muro. Il piccolo veicolo non conosceva ostacoli, correva sul soffitto e faceva perfino i testacoda. Poi toccò terra, si ribaltò, riprese la posizione sulle ruote e puntò nella direzione libera. Federico guardò ipnotizzato il bolide rosso, trasudando una sconfinata ammirazione per quel nonno che faceva apparire dal nulla quegli oggetti mirabolanti. «Pa’, ti lascio solo con Federico; ho tutto sui fornelli.» Chiara retrocesse camminando all’indietro come un gambero, infilò la porta della cucina e sparì. Federico si materializzò ai piedi di Romeo, gli strinse la gamba e lanciò un grido spavaldo puntando il dito verso l’auto intrappolata da un cuscino. Chiara tornò alcuni minuti dopo per spingerlo verso la tavola. Gli aveva preparato una cena di pesce. Branzino al sale con capperi triturati e olio d’oliva, alici alla marinara con prezzemolo, cipolla e aceto aromatico, delle triglie grigliate passate in farina. Era una buona cuoca. Anche questo lo aveva preso dalla madre e dalla nonna materna. A tavola gli chiese notizie di Matilde, l’impiegata domestica che lei gli aveva procurato, una robusta vedova cinquantenne non ancora sciupata dagli anni. Romeo la informò della gravidanza della figlia, ma ebbe il sospetto che lo sapesse già, poi aggiunse – allusivo e sornione

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– che si era accorto che la donna di servizio aspettava da lui qualcosa di più che lo stipendio a fine mese. «Non le si può dar torto», lo canzonò la figlia. «Sei o non sei il super-investigatore Romeo?!» Parlarono anche di Remigio, il portiere dello stabile romano, omosessuale dichiarato e sommamente dispiaciuto per il suo trasloco imminente. «Sta sempre rintanato nel suo gabbiotto come un animale nella tana. Di questi tempi, poi, è insolitamente serio. Sembra che una zitella gli faccia guerra per cacciarlo.» «La signora Bellotti?», gli domandò la figlia. Si sorprese. Non sapeva spiegarsi come potesse essere così informata. «Proprio lei», confermò. Romeo deviò il discorso sul lavoro di Chiara, sulla possibilità remota che un giorno potesse tornare in Italia. Era diventata responsabile di linea della società londinese, da lei dipendevano tredici prodotti software ed una sessantina di venditori, ma anche i suoi compiti erano aumentati. «Tra un paio di anni, forse...», dichiarò per non deluderlo. Del trasferimento nella nuova casa a Borgo Pio non avevano ancora parlato e Chiara lo fece in quel momento. Il padre l’aveva acquistata con la liquidazione ricevuta per gli anni di servizio ed un mutuo aggiuntivo che aveva potuto chiedere alla banca. Si era resa conto che era un po’ in affanno con l’idea del trasloco. Gli disse di averne parlato a Pieralberto. Il marito si sarebbe potuto far carico di tutto tramite la sede romana della Team Service. Avrebbero pensato loro ad ogni cosa. Dopo il caffè Romeo ebbe voglia di fumare. Mise la mano in tasca ed estrasse il pacchetto di Ms. «Ma pa’, con quello che hai avuto...», lo rimproverò la figlia. Un leggero ictus, poco prima dell’andata in pensione. Tanto spavento, per Chiara e per suo fratello Simone. Ma nessuna seria con-

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seguenza, più che altro un campanello d’allarme. Chiara sapeva che era inutile insistere, e cambiò discorso. Gli disse che molti, dove lavorava, sapevano che lei era la figlia del capo dell’antiterrorismo che aveva risolto il caso della Sistina, un anno prima. Un anno fa, ripeté Romeo nella propria mente, percosso da quel riferimento temporale. Già era passato un anno da quei giorni convulsi, gli ultimi della sua carriera. Chiara gli chiese se avesse più incontrato il papa cinese dopo di allora. Lei aveva a che fare con i cinesi tutto il tempo. Cominciava a capirli. Romeo le disse che l’avrebbe rivisto l’indomani; aveva ricevuto l’invito per partecipare alla commemorazione in Vaticano, presieduta proprio da papa Matteo. Aveva l’aereo alle sei del mattino. Non poteva fare tardi. Prima di andarsene però non riuscì a non confidarle la visione di quella donna che aveva avuto al museo, nel pomeriggio. «Una nuova donna, pa’!?» «Una egiziana... Peccato che sia morta duemila anni fa», disse sforzandosi ancora una volta di essere spiritoso. Aveva acquistato un poster del dipinto nel bookshop del museo e glielo avrebbe mostrato volentieri ma l’aveva lasciato in albergo. Chiara capì che un po’ scherzava e un po’ diceva sul serio. Ma scoprire il confine fra le due cose, ogni volta, era impresa che persino a lei non sempre riusciva. Il concierge dell’hotel Wilson gli aprì la porta con cerimoniosità. Non sapeva chi fosse, ma la prenotazione era stata fatta da sir James Redford in persona e questo bastava per rendere importante quel cliente italiano serio e taciturno, e soprattutto solo. Romeo salutò con un incomprensibile borbottio, chiamò l’ascensore e raggiunse la stanza. Si liberò del soprabito e si buttò sul letto, incrociando le mani dietro la testa e riunendo i piedi uno sull’altro. Cercò nuovamente di ricordare le sembianze del sacerdote filippino trovato morto nella basilica. Ma gli orientali erano troppo simili l’uno all’altro per riuscir-

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ci. Si rimise seduto sul bordo del letto; cercò le sigarette ed estrasse l’ultima dal pacchetto. La giornata in casa della figlia, la gioia travolgente del nipote con la macchina Zero Gravity, i pianti di quando se n’era andato; il genero che gli aveva offerto aiuto con il trasloco come se dipendessero più cose di quelle che in realtà erano in gioco in un semplice cambiamento di domicilio; evidentemente aveva colto l’occasione per accorciare la distanza tra di loro e non voleva lasciarsela sfuggire.... I piaceri della sua monotona vita di pensionato... finché fosse durata. Aveva paura di morire, c’era andato vicino, molto vicino, e l’ictus lo aveva risparmiato. La prossima volta, lo sapeva, sarebbe stata fatale. Si alzò. Prese il tubo di fianco al televisore ed estrasse il ritratto del museo. Lo srotolò e l’appoggiò al grande specchio che sormontava la cassettiera davanti al letto. Quando l’ebbe disteso e fissato tra il vetro e la cornice si sdraiò di nuovo e restò a contemplarlo con le mani dietro la nuca. La donna del Fayum... Ancora la sensazione di averla già vista. Ma per quanto frugasse nella memoria non riusciva ad associare alcun nome a quel volto. Eppure c’era qualcosa di familiare in quei lineamenti mediterranei, una bellezza antica conosciuta, come se fosse stata rannicchiata dentro di lui da un tempo immemorabile, raggomitolata al suo interno, lì, accoccolata e inerme, celata tra le pieghe delle sue viscere da sempre. Fece uno sforzo per ricordare. Dove l’aveva vista? Dove si erano incontrati? La memoria era sempre stata la sua arma in più nel corso delle indagini e gli acciacchi dell’età non l’avevano indebolita, ma questa volta la sua ferrea memoria faceva cilecca. Anche lei lo guardava come se lo conoscesse da sempre, intensamente, come si guarda un familiare o una persona cara al quale urge fare una confidenza. Un sorriso malinconico, appena abbozzato, indecifrabile, le segnava il volto di Gioconda antica. Il viso era carico di una tensione appena percettibile, lo sforzo leggero che prelude all’atto del parlare. Ma poi restava muta.

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Inforcò gli occhiali da lettura e appoggiò sulle ginocchia la brochure del museo. «Colti dal vivo, questi volti sono nondimeno privi di impazienza, e stanno alle soglie del tempo, in un ritratto che non è più la loro vita e non è ancora la loro morte...» Sollevò lo sguardo al ritratto cercandovi le tracce di quel che aveva letto. Tornò alla pagina... «Come se quegli occhi guardassero da un eterno presente... Vi è in essi uno straordinario pudore, una straordinaria discrezione... fissati in un “adesso” che dura da duemila anni.» Una scarna notazione storica catturò la sua immaginazione. La donna era stata presa in sposa dal comandante della legione romana in Egitto. Lei, egiziana, moglie del capo della forza occupante straniera. «Era morta in giovane età», informava l’opuscolo, «nel fiore della sua bellezza». Cosa avesse reciso la sua esistenza non era dato di sapere, se una malattia incurabile o un evento traumatico. Ma le circostanze ignote del suo trapasso, unite al fascino di quel volto misterioso, «avevano alimentato una serie di leggende che ancora si tramandano nell’aerea del Fayum». La pubblicazione del British, ad uso dei turisti, non aggiungeva altri dettagli, solo che dai nuovi scavi, in corso nella stessa aerea, si sperava arrivassero altre informazioni sulla donna ritratta... Furono delle immagini sul televisore a distogliere la sua attenzione dalla lettura: la basilica di San Pietro, con l’ingresso chiuso al pubblico, poi delle riprese in rapida successione, l’inconfondibile Pietà michelangiolesca, l’altare maggiore, l’area delle confessioni, i confessionali sullo sfondo... Cercò il telecomando e aumentò il volume. La voce del cronista citava un comunicato ufficiale della Santa Sede mentre sullo sfondo scorrevano delle immagini di repertorio. Capì che si riferiva al ritrovamento del cadavere del sacerdote nel confessionale di San Pietro. Si chiamava Ignacio Rizal Kim, filippino di nazionalità, collaboratore del defunto arcivescovo di Manila cardinal Jim Aquino. Da pochi mesi viveva in Vaticano, al servizio di papa Matteo I. Era deceduto durante il turno di confessioni cui era solito dedicarsi.

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Nulla che già non sapesse. La stessa nota annunciava ulteriori indagini mediche per accertare la causa dell’improvviso decesso. La Gendarmeria vaticana diretta dal comandante Ciro Ghedini stava acquisendo elementi. “Ulteriori indagini.” Non suonava scontato. Il papa cinese aveva quindi qualche dubbio sulle cause naturali della morte di padre Kim?

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lebellepagine

Volumi pubblicati 1. Il padre e il figlio. Romanzo teatrale di Franco Perrelli

2. La colpa del coltello

di Giacomo Annibaldis

3. Lupi e cani randagi di Maurice Bignami

4. Livia. Una biografia ritrovata di Paolo Biondi

5. Storie da ridere della tradizione popolare pugliese

a cura di Lino Angiuli, Piero Cappelli, Lino Di Turi

6. Il ladro di ombre

di Ver贸nica Cantero Burroni

7. Martini e Ferretti di Marco Andreolli

8. Isidora

di Alver Metalli


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