Indice
Premessa, di Raffaele Giglio
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Introduzione Lezioni di vita in forma epistolare: Elisio Calenzio precettore del principe Federico Nota al testo
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Tavole
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Epistolae ad Hiaracum Testo e traduzione
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Indice dei destinatari
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Indice dei nomi
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Premessa di Raffaele Giglio
L’abbondante produzione letteraria quattro-cinquecentesca in lingua latina, già acclarata da anni, si arricchisce di un nuovo tassello e conferma per il suo contenuto quanto essa abbia contribuito al progresso dello spirito di uomini che a quella civiltà si sono rivolti per carpire non solo la bellezza formale e contenutistica dei testi, ma anche il fecondo messaggio umanistico in essa riposta. Il nuovo tassello è costituito dall’epistolario di Elisio Calenzio, che qui si presenta; ripreso dopo secoli da Michele Mongelli, che in virtù della sua pazienza di ricercatore alacre ne ha ricostruito l’articolata tradizione manoscritta e ha offerto un’edizione critica e una puntuale quanto elegante traduzione, l’epistolario attesta come ci sia ancora da lavorare per riportare alla lettura di molti utenti testi scritti in lingua latina e risalenti alla stagione umanistica. Questo del Calenzio è, in virtù dell’impegno del curatore, un pregevole strumento per conoscere altri aspetti di quel mondo. Non è sempre indispensabile, in verità, salvare dall’oblio la copiosa messe di trattati, epistole, dialoghi, satire e memorabilia del passato; molti di questi testi sono importanti esclusivamente per il loro valore documentario. Le Epistolae ad Hiaracum sono, invece, un testo suggestivo, per più aspetti. Lo sono per il destinatario dichiarato, il principe cadetto Federico, secondogenito maschio di Ferrante d’Aragona, che scelse strategicamente di porlo, a soli tredici anni, al comando di Taranto e di quelle terre che erano state fedeli agli Orsini, prima della morte ‘improvvisa’ del loro signore, Antonio Del Balzo Orsini. Lo sono perché l’autore-mittente è il magister del giovane princeps, il cui carattere volitivo aveva indotto Ferrante a licenziare due precettori prima del Calenzio. Lo sono per la mescidanza di generi in cui si specchia una varietas di argomenti, che non deriva, sic et simpliciter, per via diretta, dalle fonti latine, dichiarate, ma anche riconoscibili, del testo. Le centocinquantadue lettere di questo epistolario, precedute da una dedica a Federico e chiosate da un’epistola a suo padre, Ferrante, non sono
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Premessa
solo uno strumento paideutico, ma anche e soprattutto, uno sguardo, ampio per prospettive e policromo per competenze, sul mondo cortese regnicolo del Quattrocento, una chiave di lettura misurata di un milieu culturale e politico in fieri. Calenzio, pur indicando come destinatario privilegiato, anche dal punto di vista numerico, delle sue epistole il giovane Federico, chiamato, però, sempre, nel testo, Hiaracus, inserisce, nella raccolta, anche epistole indirizzate ad altri, destinatari non sempre identificabili e, circostanza originale, non sempre umanisti, né nobili o personaggi di spicco. La scena, perciò, di questo speculum societatis diventa quanto mai variegato e declina i principali temi della paideia umanistica: fortuna, giustizia, liberalità, decorum, autarkeia. Il bene ed il male sono fianco a fianco in queste pagine e il magister li indica con chiarezza e determinazione ad un discipulus, che deve conoscere il reale, per poterlo trasformare in ideale. Il modello dell’epistolario è fin troppo evidente: Epistolae ad Hiaracum come Epistolae ad Lucilium. Tuttavia, la distinctio rispetto al modello appare già nel titolo: Seneca chiama per nome il suo destinatario, Calenzio sceglie un cognomen per Federico, Hiaracus. È l’indizio di una diversa intonazione del libro umanistico. Se nelle Lettere a Lucilio i confini tra il magister ed il discipulus sembrano talvolta sovrapporsi fino a confondersi e sovvertirsi, nell’epistolario di Elisio Calenzio il discipulus è, sin dal titolo, Hiaracus, il giovane principe chiamato così solo dal suo magister, che lo canzona, quasi, per la passione per lo hieraki, il falcone, ponendolo, in tal modo, in una posizione dichiarata, ma rispettosa, e quasi affettuosa, di sudditanza intellettuale. In altre parole la vox docens non subisce mai tentennamenti e costruisce in tal modo l’edificio umanistico del vir sapiens, per il quale le humanae litterae sono lo strumento materiale per vivere nel mondo e per insegnare ad un giovane principe a diventarne signore. Al di là del modello più eclatante, l’epistolario opera, come opportunamente segnala il curatore nella sua ampia e ricca Introduzione, una contaminatio che attinge al Cicerone de De officiis, quanto all’Orazio delle Satirae e delle Epistolae ed al Marziale degli Epigrammata, spia eloquente di un possesso maturo e disinvolto delle fonti e di una rielaborazione originale dei modelli, che sono scelti non solo per la loro appartenenza al canone degli auctores, ma soprattutto per la loro capacità di “parlare” al mondo contemporaneo, alla contingente situazione politica ed individuale del destinatario Federico. Per quanto le Epistolae ad Hiaracum possano inizialmente apparire come uno di quegli specula principis che tanto successo avrebbero avuto nella trattatistica umanistico-rinasci-
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mentale, per culminare nel libretto machiavelliano, la lettura del testo, restituito alla sua compiutezza formale dal lavoro ecdotico del curatore, ne rivela la diversa intonazione di fondo. Nel microcosmo tarantino, in cui l’umanista aveva vissuto quasi tutta la sua maturità al fianco di un principe bambino, Elisio Calenzio ripone nel suo epistolario l’ambizione del magister umanista: riuscire a formare il principe savio, che basti a se stesso e che realizzi, per il suo popolo di sudditi, il miracolo di quella concordia hominum, che Cicerone aveva solo teorizzato.
Lezioni di vita in forma epistolare: Elisio Calenzio precettore del principe Federico
1. L’opera Era il 1463 quando Ferrante d’Aragona completava l’opera di (ri)conquista del regno paterno, che i Baroni del Mezzogiorno d’Italia, capeggiati da Giovanni Antonio del Balzo Orsini, principe di Taranto, avevano cercato di usurpargli1. Se con la battaglia di Troia, combattutasi l’anno precedente, Ferrante aveva inferto un duro colpo ai suoi avversari, negli ultimi mesi del ’63, esattamente la notte fra il 15 e il 16 novembre, accadeva solo per caso
1 Relativamente alla cosiddetta ‘prima congiura dei baroni’, l’Orsini è da considerarsi l’«anima della rivolta», così come definito da M.R. Vassallo, «Postquam civitas Licii devenit ad Dominum incliti regis domini Ferdinandi»: Lecce e la contea nella transizione dagli Orsini del Balzo agli Aragona, in I domini del principe di Taranto in età orsiniana, a cura di F. Somaini e B. Vetere, Galatina, Congedo, 2009, pp. 185-198: 185. Oltre al volume appena citato, le vicende del principato di Taranto a metà Quattrocento sono state oggetto negli ultimi anni di altri preziosi contributi: G. Carducci-A. Kiesewetter-G. Vallone, Studi sul principato di Taranto in età orsiniana, Bari, Ed. Tipografica, 2005; C. Corfiati, Il principe e la Regina. Storie e letteratura nel Mezzogiorno aragonese, Firenze, Olschki, 2009; Giovanni Antonio Orsini del Balzo, il principe e la corte alla vigilia della ‘congiura’ (1463). Il registro 244 della Camera della Sommaria, a cura di B. Vetere, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 2011. Per un’ampia ricostruzione storica si veda l’ancora utilissimo studio di E. Nunziante, I primi anni di Ferdinando d’Aragona e l’invasione di Giovanni d’Angiò, pubblicato in diverse annate dell’«Archivio Storico per le Province Napoletane», 17-22, 1892-1898. Cfr. inoltre G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), Torino, Utet, 1992, pp. 625-729; E. Pontieri, Dispacci sforzeschi da Napoli, Salerno, Carlone, vol. I 1444-2 luglio 1458, a cura di F. Senatore, 1997, vol. II 4 luglio 1458-30 dicembre 1459, a cura di F. Senatore, 2004, vol. IV 1 gennaio- 26 dicembre 1461, a cura di F. Storti, 1998 e vol. V 1 gennaio 1462-31 dicembre 1463, a cura di E. Catone et al., 2009; F. Senatore-F. Storti, Spazi e tempi della guerra nel Mezzogiorno aragonese. L’itinerario militare di re Ferrante (1458-1465), Napoli, Carlone, 2002; C. Corfiati-M. Sciancalepore, Per un ritratto del congiurato nella Napoli Aragonese: scritture di parte, in Congiure e conflitti. L’affermazione della signoria pontificia su Roma nel Rinascimento: politica, economia e cultura, Roma, Roma nel Rinascimento, 2014, pp. 254-274.
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Epistolae ad Hiaracum
l’evento che avrebbe davvero sancito senza più riserve il suo pieno dominio sull’Italia meridionale. Moriva infatti in circostanze oscure l’Orsini2, il quale aveva promosso la rivolta antiregnicola allo scopo di preservare intatto il suo potere in terra tarantina, seppur fosse parente per via indiretta di Ferrante stesso, in quanto zio di Isabella di Chiaromonte, moglie del sovrano aragonese3. All’indomani della scomparsa del gran feudatario, molti sindaci di università pugliesi e altrettanti notabili prestarono i propri omaggi a colui che appariva come il naturale prossimo detentore del potere in Puglia, chiaramente Ferrante, il quale al momento della dipartita dell’avversario, notizia per lui «non inaspettata», a causa delle precarie condizioni di salute del principe di Taranto, «ma tuttavia improvvisa»4, si trovava a Manfredonia. Tra il novembre di quell’anno e il febbraio successivo, il nuovo re visitò le principali città pugliesi, che, mutate le circostanze, gli si mostrarono spontaneamente devote, issando in ogni palazzo sede del potere la bandiera aragonese5. Nel febbraio del 1464, dopo aver pacificato l’intera area meridionale, Ferrante fece ritorno nella capitale del Regno, a seguito della vittoria sui feu2 Sulla misteriosa morte del principe di Taranto, causata forse da una congiura di palazzo cfr. in particolare Corfiati, Il principe e la regina, cit., pp. 45-79; i documenti d’archivio da cui è desunta la data di morte sono citati con precisione in Vassallo, Postquam civitas Licii, cit., pp. 185-186. La figura storica dell’Orsini e la descrizione che di lui fece Paracleto Malvezzi nella sua Tarentina sono inoltre analizzati in C. Corfiati, Il principe di Taranto tra storia e leggenda, in Il principe e la storia. Atti del Convegno, Scandiano, 18-20 settembre 2003, a cura di T. Matarrese, Novara, Interlinea, 2005, pp. 339-356. 3 Si deve ad Alfonso d’Aragona la scelta dell’adorata nipote del principe di Taranto come sposa per il suo, seppur illegittimo, erede al trono Ferrante. Il sovrano aveva preferito Isabella anche a Bianca Maria Visconti e alla figlia del re di Francia, Carlo VII. La decisione di Alfonso lascia comprendere il ruolo della famiglia Del Balzo-Orsini nell’Italia meridionale, dove Giovanni Antonio godeva «di poteri pari a quelli di un sovrano» (Corfiati, Il principe e la regina, cit., p. 46) e con cui dunque il primo re di Napoli di stirpe aragonese voleva stringere rapporti di certa alleanza. Sulla politica matrimoniale di Alfonso il Magnanimo vd. J.H. Bentley, Politica e cultura nella Napoli rinascimentale, Napoli, Guida, 1995, p. 40. Ricostruisce la figura della regina Isabella di Chiaromonte C. Corfiati, Isabella di Chiaromonte, ritratto di una regina, in La letteratura e la storia. Atti del IX Congresso ADI, Rimini, 21-24 settembre 2005, Bologna, Gedit, 2007, pp. 411-418. 4 Corfiati, Il principe e la regina, cit., p. 49. 5 Traggo queste informazioni da Corfiati, Il principe e la regina, cit., p. 62 e Vassallo, Postquam civitas Licii, cit., pp. 186-190. Ferrante inoltre si impadronì anche del tesoro del principe di Taranto, conservato nel castello di Altamura, consegnatogli spontaneamente dai vassalli dell’Orsini, insieme ai depositi di armi, alla flotta e al patrimonio librario del principe (ivi, p. 190, n. 28).
Introduzione
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datari ribelli e della resa dell’ultimo dei suoi contendenti al trono, Giovanni d’Angiò, il quale aveva ormai realizzato l’inevitabile fallimento del suo ambizioso progetto, riconquistare il regno perso ormai vent’anni prima da suo padre Renato nella guerra contro Alfonso d’Aragona6. Cosciente della sua impossibilità nel mantenere da Napoli un fermo controllo sull’area pugliese e timoroso che presto i baroni potessero riorganizzarsi in una nuova fazione a lui ostile, Ferrante decise di far risiedere stabilmente suo figlio terzogenito Federico a Taranto, città che più avrebbe potuto conservare il ricordo del principe defunto. Figlio cadetto di Ferrante, Federico d’Aragona risiedette nella città pugliese dal 1465 al 1487 come ‘luogotenente del Sacro Regio Provincial Consiglio’, carica cui aggiunse dal 1485 quella di principe di Taranto e conte di Lecce7. Il consiglio che il giovane principe, all’epoca appena tredicenne, aveva il compito di presiedere era il discendente diretto del Concistorium principis, una volta retto e controllato in forma pressoché autoritaria da Giovanni Antonio del Balzo Orsini, che gestiva, attraverso quest’organo, tutte le cause civili e militari del suo grande feudo, comprese le numerose richieste di grazia che a lui giungevano dai sudditi8. Il ruolo di Federico a Taranto 6
Sui destini della dinastia angioina di Napoli, in particolare dopo la sconfitta subita da parte degli Aragonesi cfr. E. Armstrong, Il papato e Napoli nel XV secolo, in Storia del mondo medievale, vol. VIII, Milano, Garzanti, 1999, pp. 696-751. Per un quadro più generale sugli Angioini di Napoli tra XIV e XV secolo: F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli, Esi, 1975; G. Capone, Napoli angioina, Roma, Newton, 1995; D. Abulafia, I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500: la lotta per il dominio, Roma-Bari, Laterza, 2001; Les princes angevins du 13e au 15e siècle, un destin europeen. Actes des journees d’étude des 15 et 16 juin 2001, sous la direction de N. Tonnerre et E. Verry, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2004. 7 In varie fonti dell’epoca Federico è ricordato come Generalis regni paterni locumtenens, titolo con cui è identificato, ad esempio, dal notaio Pascarello de Tauris da Bitonto, il quale nei suoi protocolli registra il giorno 19 gennaio 1466 una visita all’Università giudaica della sua città da parte di Federico, il passo riportato in F. Carabellese, La Puglia nel secolo XV da fonti inedite, 2 voll., Bari-Trani, Vecchi, 1901 (rist. anast. Bologna, Forni, 1980), vol. II, p. 188. Anche il Beatillo ricorda Federico come «luogotenente generale della Maestà di suo padre» (A. Beatillo, Historia di Bari, principal città della Puglia, Bologna, Forni, 1965, p. 177). Sui titoli di cui fu insignito Federico d’Aragona vd. anche Vassallo, Postquam civitas Licii, cit., p. 191, n. 34; in generale sulla sua biografia: G. Benzoni, Federico d’Aragona, in DBI, vol. XLV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1995, pp. 668-682, e A. Russo, Federico d’Aragona (1451-1504). Politica e ideologia nella dinastia aragonese di Napoli, Napoli, FedOA Press, 2018. Altri contributi su episodi ed avvenimenti specifici saranno citati ad locum. 8 Riprendo queste informazioni da Vassallo, Postquam civitas Licii, cit., p. 191, n. 34;
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Epistolae ad Hiaracum
naturalmente non si doveva limitare nelle intenzioni di Ferrante a quello di amministratore della giustizia: il principe avrebbe dovuto rappresentare l’autorità centrale aragonese in Terra di Puglia, essere simbolo e vessillo della corona, allo scopo di mostrare ai signori del luogo la presenza costante della casata regnicola sul territorio pugliese9. Come per il primogenito Alfonso10, al quale era stato affiancato un precettore di chiara fama, Giovanni Pontano11, Ferrante scelse per il suo secondo figlio maschio – seppur non destinato alla corona, che avrebbe poi in realtà indossato per il breve periodo dal 1496 al 1501 – un altro intellettuale, Elisio Calenzio. Natìo di Fratte, l’odierna Ausonia (la sua nascita è da collocare attorno al 1430), Calenzio12 aveva verosimilmente frequentato la scuola di grammatica sull’organizzazione della giustizia in età orsiniana cfr. G. Vallone, Istituzioni feudali dell’Italia meridionale tra Medioevo ed antico regime: l’area salentina, Roma, Viella, 1999, p. 143. 9 Come semplice singolarità storica, voglio ricordare un rumor che si diffuse al momento dell’insediamento di Federico a Taranto, riportato nei Notabilia temporum del de Tummolis, il quale informa che Giovanni Antonio del Balzo Orsini già prima della morte nel suo testamento aveva scelto come erede Federico d’Aragona. Sulla questione cfr. Corfiati, Il principe e la regina, cit., p. 61. 10 Alfonso, destinato alla corona poiché primo figlio maschio, fu insignito dei titoli di luogotenente generale e duca di Calabria, il primo titolo «secondo la tradizione catalanoaragonese», il secondo in linea «con la tradizione napoletana»: F. Senatore, La cultura politica di Ferrante d’Aragona, in Linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento. Atti del Convegno, Pisa, 9-11 novembre 2006, a cura di A. Gamberini-G. Petralia, Roma, Viella, 2007, pp. 113138: 120; sull’incoronazione di Alfonso a re di Napoli nel 1494 si veda la lunga e dettagliata ricostruzione di G. Vitale, Ritualità monarchica, cerimonie e pratiche devozionali nella Napoli aragonese, Salerno, Laveglia, 2006, pp. 15-80. Cfr. inoltre su Alfonso duca di Calabria, poi re di Napoli dal 1485: R. Moscati, Alfonso II d’Aragona re di Napoli, in DBI, vol. II, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1960, pp. 331-332; G.L. Hersey, Alfonso II and the artistic renewal of Naples 1485-1495, London, Yale University Press, 1969. 11 Come è noto al suo discepolo Pontano dedicò il De principe, opera che tornerà particolarmente utile per un proficuo confronto con le Epistolae ad Hiaracum (vd. in particolare il § 3). Sull’opera del Pontano, edita a cura di G. Cappelli, Roma, Salerno, 2003, si veda, oltre l’approfondita e meditata Introduzione del curatore, L. Miele, Tradizione letteraria e realismo politico nel De principe del Pontano, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», 22 (1983), pp. 301-321 (poi in Ead., Studi sull’Umanesimo meridionale, Napoli, Federico e Ardia, 1994); F. Tateo, I miti della storiografia umanistica, Roma, Bulzoni, 1990, p. 168; C. Finzi, Re, baroni, popolo. La politica di Giovanni Pontano, Rimini, Il Cerchio, 2004, pp. 13-37; G. Cappelli, Maiestas. Politica e pensiero politico nella Napoli aragonese, Roma, Carocci, 2016, pp. 91-97; Id., Dalla maiestas alla prudentia: L’evoluzione del pensiero politico di Giovanni Pontano, in «Humanistica», 11, 2016, pp. 35-48. 12 La biografia del Calenzio è ricostruita nei seguenti contributi: A. Altamura, Un umanista del ‘400 innamorato di Taranto, in «Voce del popolo», 40, 1938, pp. 3-8; Id., L’Umanesimo nel
Introduzione
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di Antonio Calcidio a Sessa Aurunca, per poi trasferirsi a Roma, dove concluse i suoi studi anche dopo la morte del padre, segretario del re di Napoli.
Mezzogiorno d’Italia, Firenze, Bibliopolis, 1941, pp. 53-55; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano, Vallardi, 1960, p. 489; M. Santoro, La cultura umanistica, in Storia di Napoli, vol. IV, t. II, Napoli, Soc. ed. Storia di Napoli, 1974, pp. 452-454. Spesso il suo nome storico è stato confuso col suo nome accademico, Luigi Gallucci, sotto cui compare in S. Foà, Gallucci, Luigi, in DBI, vol. LI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1998, pp. 743-745, ma A. De Santis aveva già dimostrato che il suo reale nome è quello adoperato in questa sede: Il vero cognome dell’umanista Elisio Calenzio, in «La bibliofilia», 48, 1946, pp. 29-33. Di nessuna utilità risultano ormai A. Petronzio, Cenni biografici e letterari su Elisio Calenzio. Vita e opere (1430-1501), Roma, Ed. Laziale Marchesi, 1920 e F. Rossi, Elisio Calenzio, poeta umanista del ‘400. Vita e opere, Lauria, Tip. Francesco Rossi e figli, 1924. Ricostruisce nel dettaglio la biografia dell’umanista P. Caruso, Nostri ordinis homo: per una nuova interpretazione dell’epistolario di Elisio Calenzio, in «Vichiana», 53, 2016, pp. 113-138, da cui riprendo molte notizie. Fu per primo il Croce a riportare all’attenzione degli studiosi l’esistenza di questa raccolta in un intervento volto ad illustrare l’opera letteraria dell’umanista nella sua globalità (B. Croce, I carmi e le epistole dell’umanista Elisio Calenzio, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», n.s. 19, 1933, pp. 248-279, poi in Id., Varietà di storia letteraria e civile, Bari, Laterza, 1949, pp. 7-28). Si deve a L. Monti Sabia il primo esteso studio incentrato specificatamente sulla raccolta epistolare: L’humanitas di Elisio Calenzio alla luce del suo epistolario, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», 11, 1964-1968, pp. 175-251. La studiosa è poi tornata sull’argomento, soffermandosi sull’ultimo ciclo di epistole che chiude l’opera in L’umanista Elisio Calenzio e le terme di Pozzuoli, in Gli umanisti e le terme. Atti del Convegno Internazionale di Studio, Lecce, Santa Cesarea Terme, 23-25 maggio 2002, a cura di P. Andrioli Nemola, O.S. Casale, P. Viti, Lecce, Conte, 2004, pp. 207-218. Ad oggi le edizioni di opere calenziane risultano: E. Calentii Poemata, a cura di M. de Nichilo, Bari, Adriatica, 1981, dove sono pubblicati il Croacus e l’Hector libellus; E. Calenzio, La guerra delle ranocchie. Croaco, edizione critica con introduzione, traduzione e commento e con un’Appendice del Testamentum del Calenzio a cura di L. Monti Sabia, Napoli, Loffredo, 2008, dove la studiosa ripropone nel saggio iniziale il suo Omero e Virgilio nel Croacus di Elisio Calenzio, in Storia, poesia e pensiero nel mondo antico. Studi in onore di Marcello Gigante, Napoli, Bibliopolis, 1994, pp. 495-520 e nella parte finale il testamento che l’umanista redasse nel 1474, prima di partire con Federico in Francia, già pubblicato in L. Monti Sabia, Il testamento dell’umanista Elisio Calenzio, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», n.s. 16, 1973-1974, pp. 103-120. Sul Croaco vd. anche N. Mindt, Die pseudo homerische Batrachomyomachia und ihre Transformation in Croacus des Elisio Calenzio, in «Wienner Studien», 126, 2013, pp. 261-280. Molti altri poemetti composti dall’autore, insieme agli stessi Hector e Croacus, sono editi in M.G. De Ruggiero, Il poetico narrare di Elisio Calenzio, umanista del Quattrocento napoletano, Vatolla (Sa), Palazza Vargas Edizioni, 2004. Sulle Elegie da lui composte si vedano: A. Iacono, Le Elegiae ad Aurimpiam tra tradizione e novità, in «Bollettino di Studi Latini», 44 (2014), pp. 505-531; G. Germano, Alcune considerazioni su tradizione, costituzione e struttura degli Elegiarum Aurimpiae ad Colotium Libri dell’umanista Elisio Calenzio, in «Bollettino di Studi Latini», 45 (2015), pp. 549-565; Id., Un canzoniere umanistico e i suoi modelli strutturali: le Elegiae ad Aurimpiam di Elisio Calenzio, in Il modello e la sua ricezione, a cura di G. Matino, Napoli, D’auria ed., 2017, pp. 69-90.
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Dopo un breve ritorno nella terra natìa, probabilmente intorno agli anni Cinquanta del secolo si era trasferito a Napoli, entrando nell’orbita dell’Accademia napoletana, allora guidata da Antonio Panormita, con il quale abbiamo testimonianza di un legame di sodale familiarità13. È databile al 1463 il primo incarico ufficiale da parte del re Ferrante, la visita ad Anna Colonna, vedova del principe di Taranto, mentre dal 1465 lo troviamo accanto al giovane Federico, che aveva rifiutato due istitutori precedentemente scelti per lui, Andrea di Castelforte e Baldassarre Offeriano. Elisio Calenzio si trasferì con il principe Federico a Taranto14, dove, durante gli anni della formazione umana e culturale, ne fu guida e precettore, deputato alla trasmissione e all’insegnamento dei valori delle humanae litterae, fermamente persuaso di poterlo educare, attraverso l’esempio degli antichi, alla virtus morale e al corretto uso della retorica, come si conveniva ad un principe ‘umanista’15.
13 Ritroviamo infatti nell’epistolario al Panormita una lettera in cui Elisio racconta di una notte trascorsa con Federico a Matera, guardando i fuochi accesi dalla gente che abitava i celebri sassi, panorama che, guardato da una certa distanza, appariva simile ad un cielo stellato. In quell’occasione, continua Calenzio, ha composto alcuni versi, da identificare nell’elegia Coeli simulacra in terris et Hiaraci imperium (cfr. de Ruggiero, Il poetico narrare, cit., p. 34). L’epistola è conservata nell’autografo del Panormita delle Epistolae diversorum illustrium virorum ad dominum Antonium Panhormitam nel Vat. lat. 3372, cc. 90v-91r e alle cc. 234-235 del descriptus ms. 2948, vol. 29 della Biblioteca Universitaria di Bologna, di mano del monsignor Pietro Antonio Tioli, che trascrisse la raccolta nel 1777 nella sede della Biblioteca Apostolica Vaticana, come scrive a c. II. Sulla presenza del Calenzio nell’epistolario del Panormita vedi G. Resta, L’epistolario del Panormita. Studi per un’edizione critica, Messina, Università degli Studi, 1954, p. 154. A testimonianza del legame esistente fra i due umanisti, è bene inoltre ricordare che Calenzio compose un epitaffio per la morte del Beccadelli, presente nella stampa delle raccolte epistolari di quest’ultimo (Venetiis 1553, c. 135v), cfr. Foà, Gallucci, cit., p. 743. 14 Il ‘soggiorno’ tarantino fu per entrambi molto lungo, circa trent’anni. Federico resse il regno aragonese in Puglia fino all’ascesa al trono nel 1496 (come già ricordato, divenne principe di Lecce e Taranto tra il 1485 e il 1487, poi principe di Altamura nel 1487) e mantenne sempre accanto a sé il Calenzio come fidato consigliere, il quale lo accompagnò anche in due importanti missioni diplomatiche, fra il 1474 e il 1476 presso Carlo il Temerario (su cui si dirà meglio infra) e nel 1479 presso Lugi XI di Francia. Nel 1483 l’umanista sarà inoltre governatore di Squillace. Su questi aspetti cfr. soprattutto le rispettive voci del DBI già citate alle note 7 e 12. 15 In questo senso, l’affiancamento del Calenzio al principe aragonese è specchio esemplare della politica culturale che accomunò tutte le casate dell’Italia quattrocentesca, governata da signori consapevoli che la cultura rappresentava un insostituibile mezzo di governo e per questo coscienti della necessità di essere guidati da intellettuali formati agli studia humanitatis. Gli umanisti, d’altronde, vedevano riconosciuto per sé un importante ruolo nelle corti,
Introduzione
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Per espletare al meglio questo gravoso compito, Calenzio ritenne utile comporre un epistolario da dedicare al discepolo, dove riunire i suoi insegnamenti non solo in materia di gestione di uno stato, ma soprattutto precetti di vita in senso lato. L’opera è formata da centocinquantadue epistole, pre-
dove svolgevano compiti di precettori, segretari, consiglieri. Indico qui la bibliografia generale sull’argomento, rimandando ad locum (ed in particolare al § 3) per i contributi specifici su singoli aspetti della questione, tra le più indagate e approfondite della civiltà politica e culturale dell’Italia umanistica: F. Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1964, pp. 171208; Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino, 1989; G. Ferraù, Introduzione a B. Platinae De principe, Palermo, Il Vespro, 1979, pp. 5-33; M. Pastore Stocchi, Il pensiero politico degli umanisti, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo, vol. III Umanesimo e Rinascimento, Torino, Utet, 1987, pp. 3-68; G. Tognon, Intellettuali ed educazione del principe nel Quattrocento italiano, in «Mélanges de l’École francaise de Rome», 99, 1987, pp. 405-433; M.A. Mastronardi, Umanisti e vita politica nel Quattrocento italiano, in «Quaderni Medievali», 31-32, 1991, pp. 324-333; M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, L’intellettuale, in Ead.-E. Garin, L’intellettuale tra Medioevo e Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 5-62; M.dell’Aquila, Dalla fedeltà all’amicizia: l’aspirazione rinascimentale ad un nuovo rapporto del letterato col principe, in Id., Le sirene di Ulisse e altra letteratura, Fasano, Schena, 1997, pp. 227-234; P. Viti, Il pensiero politico degli umanisti, in Il pensiero politico dell’età antica e medievale. Dalla polis alla formazione degli stati europei, a cura di C. Dolcini, Torino, Utet, 2000, pp. 301-342; D. Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Roma-Bari, Laterza, 2005; G. Cappelli, Sapere e potere. L’umanista e il principe nell’Italia del Quattrocento, in «Cuadernos de Filología italiana», 15, 2008, pp. 73-91; Id., L’umanista e il principe. Note sul rapporto tra intellettuali e potere nell’Italia del Quattrocento, in Le philosophe, le roi, le tyran. Études sur les figures royale et tyrannique dans la pensée politique grecque et sa postérité, eds. S. Gastaldi, J.F. Pradeau, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2009, pp. 85-94; M. Ascheri, Princeps: spunti dal diritto tardo-medievale, in «Rivista di Storia del Diritto italiano», 90, 2017, pp. 457-472. In particolare per il regno aragonese: G. Resta, Introduzione a A. Panhormitae Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici italiani, 1968, pp. 5-58; Bentley, Politica e cultura, cit., pp. 63-98; C. Vecce, Il principe e l’umanista nella Napoli del Rinascimento, in Omaggio ad un amico. Miscellanea di studi critici in memoria di Pomepo Giannantonio, Casoria (Na), Loffredo, 2002, pp. 343-351; D. Canfora, Culture and Power in Naples from 1450 to 1650, in Princes and Princely Culture 1450-1650, ed. by M. Gosman, Leiden-Boston, Brill, 2005, pp. 79-96; F. Delle Donne, La corte napoletana di Alfonso il Magnanimo: il mecenatismo regio, in La Corona de Aragón en el centro de su Historia 1208-1458, Zaragoza, Gobierno de Aragón, 2010, pp. 255-270; Id., La letteratura encomiastica alla corte di Alfonso il Magnanimo, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 114, 2012, pp. 221-239; F. Storti, El buen marinero: Psicologia politica e ideologia monarchica al tempo di Ferdinando I d’Aragona re di Napoli, Roma, Viella, 2014; F. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’Umanesimo monarchico. Ideologia e strategie di legittimazione alla corte aragonese di Napoli, Roma, Istituto Storico per il Medio Evo, 2015; Cappelli, Maiestas, cit., passim; Linguaggi e ideologie del Rinascimento monarchico aragonese (1442-1503), a cura di F. Delle Donne e A. Iacono, Napoli, FedOAPress, 2018.
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cedute da una accorata dedica a Federico, chiamato dal suo precettore, qui e sempre, con il singolare appellativo Hiaracus. Questa particolare e inedita denominazione, latineggiante nella sua forma, potrebbe rappresentare una alterazione del greco ieraki, «falcone», animale per cui, come sappiamo da Calenzio stesso, Federico nutriva una passione e che oltretutto era presente nell’originario stemma aragonese16. Al giovane Iaraco Calenzio destinò questo singolare corpus epistolare, che si presenta fin dalla lettura dei primi brani non come un semplice insieme di missive giustapposte, bensì come un vero e proprio libro di epistole, chiaramente progettato e acutamente articolato dall’umanista come un’opera omogenea e coerente. La raccolta realizzata dal Calenzio rivela infatti un carattere nettamente unitario, in quanto ogni epistola rientra in un organico disegno messo esplicitamente in luce dai frequenti rinvii interni fra i vari brani, che tendono a formare all’interno del flusso epistolare dei veri e propri ‘cicli’17. L’intenzione di costituire un’opera armonicamente strutturata è evidente già dalla dedica premessa alla raccolta e rivolta al discepolo, dove l’umanista afferma di aver riunito in un unico corpus epistole che Federico aveva già letto in forma sparsa, ma che ora, tutte insieme, riusciranno meglio a trasmettergli «doctrinam [...] et Calentii tui mores». Per raggiungere tale scopo, l’umanista-pedagogo opta per una vivace e singolare scelta paideutica, della cui originalità era evidentemente cosciente e orgoglioso, se mira a metterla in luce fin dalle prime righe della stessa dedica. Nell’incipit della raccolta Calenzio infatti evidenzia che le epistole da lui riunite non sono rivolte esclusivamente a Iaraco, al contrario una buona parte è indirizzata anche «ad amicos», generici destinatari di cui, probabilmente con un ben preciso fine, non fornisce alcun riferimento storico. Questa chiara volontà educativa viene ripresa e argomentata nell’ideale chiusa della raccolta18,
16 Da tale parola greca deriva inoltre il cognome ancora oggi diffuso in area napoletana Iaraco/Ieraco, cfr. I Cognomi d’Italia. Dizionario storico ed etimologico, vol. II H-Z, Torino, Utet, 2008, p. 922. Non a caso Calenzio nomina spesso i falconi, nella forma latina accipitres, come animali prediletti del giovane principe (epp. XCVI, CXXXII, CXLIV). 17 Tra i casi più evidenti ricordiamo i rimandi fra le epp. XXXII e XXXIV; XLI, XLIII, XLVI e LXIX; LVI e LVII; XCI, XCII e XCIII; CVI e CVII; CXXXVII e CXXXVIII; CXXXIX e CXL; blocco unitario sono poi le ultime epistole a partire dalla CXLV. 18 Le ultime epistole, infatti, a partire dalla CXLV, narrano delle cure che Calenzio cercò per un’artrosi alle terme di Baia, che appaiono, come sarà meglio esposto nel § 6, una semplice appendice.
Introduzione
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l’epistola CXLIV indirizzata a Ferrante, al quale Calenzio si rivolge per mostrare con soddisfazione di aver adempiuto al compito di istitutore affidatogli: «aspicies quonam modo tibi filium instituerim» scrive l’intellettuale al re, precisandogli inoltre che le epistole facenti parte di quella raccolta sono rivolte «sive ad illum [scil: Iaraco], sive ad alios cuiusvis ordinis homines». Oltre alle lettere destinate direttamente a Federico, l’umanista ha inserito volutamente molte epistole rivolte ad altri destinatari, non appartenenti ad una cerchia selezionata di intellettuali o di uomini di potere, bensì uomini e donne «cuiusvis ordinis», di ogni rango sociale, rappresentanti, aggiungiamo noi, della variegata umanità che ogni uomo, ed in particolare un uomo di potere, deve imparare a conoscere. Poco oltre, nella stessa epistola a Ferrante, Calenzio infatti aggiunge che ha così operato affinché Federico «inde quoque hauriat disciplinam», cogliesse cioè degli insegnamenti, oltre che dalle proprie esperienze, anche dagli episodi, dalle contingenze, dalla vita di altri individui, in un futuro suoi sudditi, che ritrovava descritta nei vari brani di quest’epistolario, costantemente commentata e filtrata per lui dal suo maestro. La scelta di rivolgersi a destinatari «cuiusvis ordinis» rende particolarmente difficoltosa la relativa identificazione storica. Solo un esiguo numero, che rimanda perlopiù all’ambiente napoletano, appare risolutamente riconoscibile: Cynicus è Giovan Marco Cinico da Parma, bibliotecario regio, Arcelius è Francesco Arcelli, cognato del Pontano, Miniatus è Lorenzo Bonincontri da San Miniato, astrologo di corte, Solimenus è Jacopo Solimena, medico di Ferrante19. Pochi, quindi, i personaggi di spicco della corte aragonese e dell’Accademia napoletana presenti nell’epistolario; allo stesso modo, nonostante l’opera nasca nella città fulcro dell’appena scongiurata rivolta dei baroni, di quest’episodio storico non c’è, o quasi, traccia. Le uniche epistole in cui ritroviamo un riferimento ad un personaggio coinvolto nelle vicende appena concluse sono la CVI e la CVII, dove Calenzio racconta della già citata visita ad Anna Colonna, la moglie del defunto Del Balzo-Orsini, ordinatagli da Ferrante, col compito di sincerarsi della fedeltà della vedova alla corona aragonese. Seppur legato ad un evento presumibilmente reale, anche questo racconto è in realtà piegato ad un fine strettamente letterario: diviene infatti un’occasione per costruire un brano umoristico in due atti tutto
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Altre ipotesi di identificazione sono proposte in nota alle singole epistole, ma vd. anche le attente considerazioni in Caruso, Nostri ordinis homo, cit., passim.
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basato sull’eccessiva pinguedine della donna20. In altre epistole (e.g. XXIV, XXXIX, LIV, LXXII) ritroviamo dei riferimenti a fatti reali, talvolta anche identificabili storicamente, come la morte della regina Isabella di Chiaromonte, narrati con una immediatezza emotiva tipica di una vera e propria missiva, forse segno di una genesi realmente contingente del brano. È quindi probabile che Calenzio fece confluire nella raccolta, accanto ad epistole evidentemente fittizie (penso in particolare alle epistole filosofico-morali rivolte a Iaraco), anche lettere davvero inviate al destinatario prescelto, comunque spogliate dei dati documentari come la datazione o il riferimento al flusso della corrispondenza, di norma presenti negli epistolari coevi21. Per comprendere a pieno le scelte compositive dell’umanista, che ci permetteranno poi di addentrarci in una consapevole lettura dell’opera, è bene inoltre porgere l’attenzione all’ep. CXXVIII, indirizzata all’amico Furiano, che gli aveva consigliato di stendere un’opera storiografica sulla guerra tra Carlo il Temerario e la Svizzera, di cui Calenzio era stato testimone oculare22. Il diniego del nostro è inappellabile: non vuol parlar male del comportamento dei potenti, poiché è un’azione poco prudente, cosicché, rifiutandosi di raccontare menzogne, come vorrebbe Furiano, preferisce tacere. Gli storiografi decisi a raccontare gli eventi secondo il criterio della verità, aggiunge, hanno subìto spesso un triste destino, poiché risultavano invisi ai re e ai potenti. Di quella che è una vera e propria recusatio nei confronti del genere storiografico interessa qui una sfumatura in particolare. Calen20 Le due epistole sulla tarantina sono ricordate in N. Vacca, Anna Colonna, moglie di Giovanni Antonio del Balzo Orsini, donna di straordinaria corpulenza, in «Rinascenza salentina», 2, 1934, pp. 99-101 e Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, cit., pp. 10-11. 21 Cfr. M.L. Doglio, L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 32. D’altronde, esaminando la storia e la circolazione del testo, si notano vari cambiamenti di destinatari fra le due principali redazioni dell’opera (su cui vd. la Nota al testo), segnale dei successivi ripensamenti dell’autore. Sulla volontà comune a molti umanisti di costruire i propri epistolari come opere unitarie si è soffermato C. Griggio, Dalla lettera all’epistolario. Aspetti retorico-formali dell’epistolografia umanistica, in Alla lettera. Teorie e pratiche epistolari dai greci al Novecento, a cura di A. Chemello, Milano, Guerini, 1998, pp. 83-107: 88-89. 22 Calenzio ebbe occasione di assistere a questo evento durante la missione diplomatica presso Carlo il Temerario tra il 1474 e il 1476, mirata a combinare il fidanzamento tra la figlia del duca di Borgogna e Federico, che non andò a buon fine (cfr. E. Pontieri, Su le mancate nozze tra Federico d’Aragona e Maria di Borgogna, 1474-1476, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», 24, 1938, pp. 78-112). Con modi estremamente velati, all’episodio Calenzio allude nell’ep. CXXXII.
Introduzione
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zio dimostra di essere poco interessato alla macrostoria, preferisce tenersi volutamente lontano dalla descrizione dei grandi avvenimenti che hanno coinvolto il Regno (e quindi indirettamente il suo discepolo Federico e se stesso), cercando altrove le lezioni di vita da sottoporre al suo allievo. È piuttosto nella microstoria che egli ama operare: gli esempi di virtus che propone al principe non sono tratti dalle biografie di generali, imperatori o re dell’età classica o contemporanea23, al contrario da uomini semplici, se stesso in primis, che nella propria vita hanno raggiunto il traguardo morale dell’autarkeia. Attraverso questo procedimento Calenzio fuga il possibile limite di contingenza dei suoi scritti, sollevandoli da un legame troppo stretto con la sua contemporaneità di uomo del XV secolo e donando invece loro un valore imperituro24. L’astoricità volutamente perseguita dall’umanista e l’assenza di datazioni delle epistole rendono arduo anche l’individuazione di un termine ante quem per la composizione della raccolta, considerato ragionevolmente il 1465, l’anno di trasferimento a Taranto, quale termine post quem. Tra le poche lettere da cui possiamo ricavare un riferimento ad eventi storici, quella di datazione più bassa è l’appena citata CXXVIII, che si riferisce a fatti avvenuti fra il 1474 e il 1476. Tuttavia è molto probabile che Calenzio abbia continuato a riflettere e a modificare almeno l’ordinamento della raccolta e i nomi di alcuni destinatari molto oltre queste date, verosimilmente fin quasi all’anno della sua morte, avvenuta nel 1503.
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Così come avviene invece nel De principe di Pontano: Cappelli, Introduzione, cit., p. 46. Sugli exempla storici presenti nella trattatistica paideutico-politica del Quattrocento cfr. P. Orvieto, Biografia ed aneddotica storica nei trattati umanistici de institutione principis (e nel Principe di Machiavelli), in La storiografia umanistica. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Messina, 22-25 ottobre 1987, vol. I, Messina, Sicania, 1992, pp. 153-180; M. Sarnelli, Premesse per la delineazione di figure protagonistiche nella storiografia dell’Umanesimo: il rex/ princeps/dux belli (e pacis), in «Studi veneziani», 48, 2004, pp. 15-39. 24 L’astoricità era un tratto della scrittura del Calenzio già riconosciuto da L. Monti Sabia, la quale arriva a definire i destinatari delle epistole come veri e propri «tipi umani», slegati dalla realtà contingente (L’humanitas, cit., pp. 179-180). P. Caruso giunge a conclusioni differenti, affermando che le epistole calenziane «sono saldamente radicate nell’ambiente contemporaneo dell’autore, si riferiscono a persone reali e fanno riferimento a situazioni precise» (Nostri ordinis homo, cit., p. 136). Personalmente concordo parzialmente con entrambe le tesi: appare sufficientemente chiaro che sotto la patina letteraria Calenzio si riferisca in ogni epistola ad avvenimenti realmente vissuti, da lui o da ben precisi conoscenti, tuttavia è altrettanto evidente l’intento dell’umanista di servirsi di questi accadimenti come semplici punti di partenza per la creazione di una silloge che servisse nel complesso come una vivace ed accattivante guida di insegnamenti morali validi in ogni tempo.
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Non siamo quindi in presenza di un epistolario dal prezioso valore di fonte storica, né di un trattato programmatico di virtutes regali, che pure sarebbe stato consono al ruolo ricoperto dall’umanista, il quale preferì invece costruire un’ampia e articolata galleria umana, forse costituita da personaggi che Federico e gli altri sodali della corte riuscivano a identificare, rappresentanti dei vari vizi e delle varie virtù che da sempre contraddistinguono l’umanità. Attraverso le epistole loro rivolte, contenenti consigli, rimproveri, lodi e talvolta aspre critiche, Calenzio scelse di presentare al suo discepolo una molteplicità di insegnamenti morali per via induttiva. L’epistolario ad Hiaracum fu però per l’umanista anche un’occasione compositiva che esula dal primario e certamente predominante scopo paideutico. Numerose epistole, infatti, sono sfruttate come vero luogo letterario, dove far rientrare molti dei dibattiti che avevano caratterizzato la cultura umanistica nella prima parte del secolo. Ritroviamo tra le lettere molti consigli offerti a suoi corrispondenti de amore e de matrimonio (tematiche talvolta declinate, a seconda che il destinatario sia un intellettuale o un adulto, alle note questioni an sapienti sit uxor ducenda / an seni sit uxor ducenda), una breve ma efficace dimostrazione sulla falsità della nobiltà di sangue (quaestio de nobilitate), i criteri utili per discernere la natura e i comportamenti di un tiranno rispetto ad un buon re, frequenti considerazioni sull’influenza della fortuna nelle vicende umane. Per costruire un’opera capace di accogliere una così spiccata varietà di tematiche, espresse, come si vedrà meglio in seguito, in multiformi toni, era necessario un genere letterario che si prestasse ad essere piegato a molte esigenze e che potesse includere ogni argomento in un linguaggio moderatamente trasversale. A questo scopo Calenzio prescelse sapientemente l’epistola, che in questa raccolta diviene al massimo grado macrogenere, facendosi ora breve epigramma, ora satira, talvolta biglietto di raccomandazione, trattatello filosofico, racconto ironico e brillante, vera e propria consolatio. La tradizione epistolografica, sia di età classica che di età moderna, offriva infatti grazie al suo tipico duttile impianto varie possibilità compositive, sfruttate in molteplici direzioni dal nostro umanista, il quale modula ciascuna sequenza secondo il colore che ad essa vuole imprimere, moraleggiante, satirico o di piana conversazione. Proprio da questo aspetto, che rende l’epistolario del Calenzio documento esemplare della vivacità della civiltà umanistica meridionale e contemporaneamente un esperimento, del tutto riuscito, di inventio letteraria, prende l’avvio la lettura dell’opera qui proposta, attraverso cui si tenterà di presenta-
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re e valorizzare gli svariati spunti di cui è ricca questa singolare raccolta che, all’interno di una precisa architettura epistolografica, nasconde una complessa e raffinata commistione di generi letterari, di cui Calenzio seppe sapientemente armonizzare varie caratteristiche strutturali, formali e poetiche25.
2. Il genere letterario, i modelli, la poetica Tra le varie raccolte epistolari di età classica furono con ogni probabilità le Epistolae ad Lucilium di Seneca il modello privilegiato di Calenzio, poiché 25
Come afferma C. Griggio: «Gli epistolari divennero nel Quattrocento il luogo in cui si dibattevano gli argomenti più attuali e vivi, temi letterari, filologici, linguistici ecc. In essi gli umanisti vedevano rappresentata la loro individualità e identità e, insieme, riconosciuta l’appartenenza a una società di intellettuali» (Dalla lettera all’epistolario, cit., p. 89). Inoltre sulla questione della varietas contenutistica e stilistica, tipica del genere epistolare, vd. F. Tateo, La questione dello stile nell’epistolografia. L’alternativa umanistica, in Saeculum tamquam aureum. Internationales Symposion zur italienischen Renaissance des 14.-16, Jahrhunderts, am 17.-18. September 1996 in Mainz. Vorträge herausgegeben von U. Ecker, Hildesheim, G. Olms, 1997, pp. 219-231: 224-225. Sull’uso dell’epistola nel genere della trattatistica politica vd. M. Feo, L’epistola come mezzo di propaganda politica in Francesco Petrarca, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento. Atti del Convegno Internazionale, Trieste, 2-5 marzo 1993, a cura di P. Cammorosano, Roma, École francaise de Rome, 1994, pp. 203-221; Cappelli, L’umanista e il principe, cit., p. 88; Id., Maiestas, cit., pp. 25-26. Inoltre sull’epistolografia umanistica: G. Resta, Composizione e trasmissione dei carteggi umanistici, in Id., L’epistolario del Panormita, cit., pp. 3-12; A. Perosa, Sulla pubblicazione degli epistolari degli umanisti, in La pubblicazione delle fonti del Medioevo europeo negli ultimi settant’anni (1883-1953), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1954, pp. 327-338; C. Clough, The Cult of Antiquity: letters and letter collections, in Cultural aspects of the Italian Renaissance. Essays in honour of Paul Oskar Kristeller, Manchester, Manchester University Press, 1976, pp. 33-67; L. Gualdo Rosa, La pubblicazione degli epistolari umanistici, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 89, 1980-1981, pp. 369-392; G. Resta, Per l’edizione dei carteggi degli scrittori, in Metodologia ecdotica dei carteggi. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma, 23-25 ottobre 1990, a cura di E. d’Auria, Firenze, Le Monnier, 1989; P. Jodogne, Aspetti codicologici dell’edizione dei carteggi, in I moderni ausilii dell’ecdotica. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Fisciano-Vietri sul mare-Napoli, 27-31 ottobre 1990, a cura di S. Martelli, Napoli, Esi, 1994, pp. 179-191; L. Gualdo Rosa, Su alcune recenti edizioni di epistolari umanistici: una rassegna e un’apologia, in Scritti in onore di Girolamo Arnaldi offerti dalla Scuola nazionale di studi medioevali, a cura di A. Degrandi et al., Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2001, pp. 261-275; D. Coppini, Petrarca, le epistole, gli umanisti, in Petrarca, l’Umanesimo e la civiltà europea, in «Quaderni petrarcheschi», 15-16, 2005-2006, pp. 517-535; S. Mercuri, A scuola di latino nel Quattrocento: l’esercizio del ‘componere epistolas’, in «Interpres», 26, 2007, pp. 245263; F. Terlizzi, Gli epistolari di Petrarca e Salutati, in Atlante della letteratura italiana, vol. I Dalle origini al Rinascimento, a cura di A. de Vincentiis, Torino, Einaudi, 2010, pp. 194-198.