Indice
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Introduzione Non c’è arte senza ostacoli. Sulla vitalità del Gysbreght van Aemstel di Vondel di Ronald Klamer
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Joost van den Vondel, Gysbreght van Aemstel La caduta della città e l’esilio Traduzione italiana 17 Nota 18 Testo della traduzione 20 Edizione critica 87 Nota filologica 88 Testo dell’edizione 94 Postille 179
Studi Un mosaico di voci in scena e sulla pagina. Storia, memoria, modelli culturali
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Un angelo sanguinante tra le macerie di Amsterdam. Macchine sceniche e nuovi cori per un allestimento del XXI secolo «Ah, sì, dev’essere Vondel!». Come tradurre l’olandese in olandese di Laurens Spoor
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Bibliografia 227
Appendice Gijsbrecht adattato al tempo e ai costumi: allestimenti settecenteschi 233 di Anna de Haas Addenda 253
Fig. 1. Ritratto di J. van den Vondel (1640); incisione di Th. Matham su disegno di J. von Sandrart (foto: Universiteitsbibliotheek Amsterdam).
Introduzione Non c’è arte senza ostacoli Sulla vitalità del Gysbreght van Aemstel di Vondel di Ronald Klamer
A quanto pare, per farmi riprendere in mano come si deve quest’opera di Vondel, proprio questa fra tutte, ci voleva un periodo di riposo forzato per malattia. Forse in un lontano passato ci avevo già provato, ma non doveva avermi fatto un grande effetto. Del resto all’epoca non sarebbe stato possibile: per me il Gysbreght era l’opera che riuniva in sé tutto ciò che significava teatro all’antica, noioso e stantio, un po’ come il canto non ritmato dei salmi durante una funzione di una certa Chiesa Riformata. Il teatro per me significava un teatro emancipato dalla secolare tradizione del Gysbreght a ogni capodanno nello Stadsschouwburg di Amsterdam. Con la rivoluzione sessuale, le dimostrazioni e i sit-in contro la guerra in Vietnam quell’opera tanto vituperata scomparve dalle scene, e nessuno sembrò rimpiangerla. Il mio primo incontro con Vondel fu un Lucifero con angeli fluttuanti su altalene, alla fine degli anni Settanta nello Stadsschouwburg di Amsterdam. Colpiva che i versi venissero detti come se non fossero versi: semplici e colloquiali. Insieme con Hans Croiset, il regista di quel Lucifero, in seguito, nel 1995 fondai la compagnia Het Toneel Speelt. La nostra prima rappresentazione fu la drammatizzazione compiuta da Vondel del racconto biblico di Giuseppe gettato nel pozzo dai fratelli gelosi. La stampa la accolse con riserva e in qualche caso stroncandola: «Vondel è e rimane irrecitabile», fu il titolo del quotidiano De Volkskrant. Ma torniamo al mio letto di malato. In seguito a un incidente soffrivo molto: senza antidolorifici non ce la facevo e il disorientamento che ne derivava non mi permetteva di concentrarmi: leggere era impensabile. Così insieme a mio figlio guardavo Montalbano e una serie romanzata sulla vita di Verdi, con gli splendidi paesaggi italiani che tanto amo. Ma dopo qualche settimana ne ho avuto abbastanza: avevo bisogno di qualcosa di più forte, così mi sono rimesso a leggere teatro e ho avuto l’illuminazione di riprendere finalmente dallo scaffale quel maledetto Gysbreght. Ci pensavo già da un po’ e mi piaceva la possibilità
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di rivitalizzare una tradizione secolare, dandole una nuova vita. I miei colleghi teatranti non l’avrebbero nemmeno preso in considerazione, ma noi eravamo l’unica compagnia che ce la poteva fare. Prima però dovevo esplorare l’opera. È un dato di fatto che questa tragedia sia all’inizio di una fiorente storia teatrale. Sin dalla notte dei tempi si era recitato nei Paesi Bassi, ma un edificio teatrale in pietra non si era ancora visto, né al Sud, né al Nord, prima del 1637. Per la città di Amsterdam l’architetto Jacob van Campen progettò un edificio imponente con soluzioni moderne come pannelli girevoli e strutture di sollevamento per gli attori. La parola “Schouwburg” era un’invenzione di Vondel, un neologismo neerlandese che significa letteralmente «luogo del guardare». Di questo teatro la città poteva essere fiera, con due rappresentazioni alla settimana, che in media attiravano cinquecento persone e un biglietto d’ingresso tra i sei e i dodici centesimi, corrispondenti all’incirca a 15/30 euro odierni. Al netto dei costi, il ricavato andava alle opere assistenziali. Gysbreght van Aemstel era un’opera d’occasione. Il 26 dicembre 1637 il nuovo Schouwburg sul Keizersgracht avrebbe dovuto essere inaugurato con questa tragedia, composta da Vondel appositamente per l’evento. La voce secondo cui il Gysbreght presentava elementi papisti, diffusasi durante le prove, giunse alle orecchie del concistoro calvinista che, senza nemmeno averla verificata, fece pressione con il governo cittadino affinché proibisse la rappresentazione. L’apertura della sala venne quindi rimandata, ma solo di una settimana, e poi arrivò il trionfo che durò per secoli, fino agli anni Sessanta del Novecento: l’opera teatrale più celebre d’Olanda. Amsterdam crolla al pari di Troia perché Vondel intende misurarsi con il suo grande modello, Virgilio: un obiettivo posto ad altezza olimpica. Ciò che nel mio ricordo era “un mattone ermetico” si rivelò invece un testo lirico, narrativo e commovente. Durante la lettura le voci degli attori che avrebbero dovuto recitare questo dramma in versi mi risuonavano già nella mente. A colpirmi fu la forza teologica del pensiero di Vondel. I nemici che assediano e distruggono Amsterdam sono barbari che non conoscono legge umana o divina e approfittano proprio della notte di Natale per mettere a ferro e fuoco la città, profanare le chiese e violare le donne. Il loro comportamento ricorda – e forse non è un caso – quello degli iconoclasti che, poco meno di un secolo prima del testo di Vondel, avevano devastato e saccheggiato molte chiese nei Paesi Bassi. Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini è cosa da educande se paragonato agli orrori che, con grande precisione e attenzione per il dettaglio, vengono qui descritti in versi commoventi. L’orgoglio è la causa della caduta di Gijsbreght. La voce celeste che sente è forse la sua stessa voce. Proprio come Jefta, eroe di un’altra affascinante opera di Vondel, è sordo pur udendo, cieco pur vedendo, di fronte a ciò che chiunque al suo posto capirebbe: un silenzio assordante, descritto nel monologo d’apertura,
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preannuncio del totale annientamento. L’assedio di Amsterdam allude a quello delle città olandesi durante la Guerra degli Ottant’anni, da parte degli Spagnoli. Il dubbio nei confronti di un Dio che tutto vede e dispone è espresso dalla voce ferma di una donna, Badeloch, che dà slancio all’opera, rimettendo tutto in gioco: in lei Vondel può riversare ciò che a livello teologico lo pungola. Quando nel finale fa apparire in scena un angelo, torna il silenzio assordante dell’inizio e in quel momento accade il miracolo di salvezza e resurrezione. Il Gysbreght non sarà forse l’opera più riuscita dell’autore dal punto di vista drammaturgico, ma è così radicata nei nostri geni olandesi che il pubblico, alla fine della rappresentazione, con gli occhi lucidi, aspetta un attimo per poi far partire l’applauso. Gijsbreght van Aemstel è una figura storica vissuta verso la fine del tredicesimo secolo. Floris V, all’epoca conte d’Olanda, è assetato di potere, o almeno è così che Vondel ce lo presenta. Calpesta i diritti dei suoi vassalli e violenta la nipote di Gijsbreght, Machtelt, moglie di Geeraerdt van Velzen: non una donna qualsiasi, ma al tempo stesso moglie, nobildonna, figlia di un amico e sposa di un suo fidato. Nella tragedia Geeraerdt van Velsen (1613), P.C. Hooft, rivelando una sorprendente empatia, mostra come la vita di Machtelt sia stata traumatizzata dalla violenza: si sente sporca, è insofferente alla luce del sole e preferisce le tenebre; desidera morire e rifugge il contatto con gli altri. In Vondel, Gijsbreght racconta nel monologo iniziale di come tutta la sventura sia iniziata con questo stupro, in seguito al quale Geeraerdt si è ribellato contro Floris, insieme al padre di Machtelt, Herman van Woerden, e spiega di essersi sentito obbligato a unirsi a loro. Il marito e il padre volevano consegnare il conte prigioniero al re d’Inghilterra perché fosse lui a deciderne la sorte, ma Gijsbreght non era d’accordo perché pensava che Floris dovesse essere giudicato da rappresentanti della nobiltà e delle città. In ogni caso, a suo dire, non avrebbe mai voluto che fosse ucciso. Vondel concede a Gijsbreght la possibilità di discolparsi in un lungo e tormentato soliloquio, in cui illustra le proprie motivazioni e la legittimità della propria condotta. Se il pubblico conosceva la vicenda attraverso l’opera di Hooft, Vondel la riprende in mano, raccontandone il seguito: le conseguenze di quell’assassinio sono infatti il soggetto del suo Gysbreght van Aemstel. La nobiltà e le città d’Olanda si coalizzano contro i congiurati fino all’assedio di Amsterdam. Il fato compie nell’opera il suo lavoro. Il ciclo della vendetta si conclude con un nuovo stupro e un duplice omicidio: il figlio illegittimo di Floris uccide barbaramente Klaeris, figlia di Machtelt, dopo aver abusato di lei sull’altare, sopra al cadavere dello zio, il vescovo Gozewijn. È un’orribile offerta agli dei della vendetta: il fato e la vendetta, come noto, sono le forze motrici della tragedia greca ed è proprio a quel modello che Vondel si ispira. Durante i preparativi dello spettacolo ho avuto occasione di parlare con René van Stipriaan, esperto di letteratura del Seicento, a proposito del personaggio di
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Gijsbreght. Io vedevo in lui un idealista che si oppone strenuamente all’avanzata dei barbari, che distruggono tutto ciò che è sacro, un faro nella tempesta, una figura esemplare per civiltà. Ma mi sbagliavo. Secondo Van Stipriaan, Gijsbreght sarebbe un militare che pecca di temerarietà e mancanza di senso della realtà. La gente di Amsterdam che assisteva all’opera si sarebbe ritenuta fortunata di non vivere sotto il dominio di un signore del genere e dei suoi pari, ma con il governo di una borghesia giudiziosa. L’opera causava soprattutto, a suo parere, una sensazione di sollievo dovuto al fatto che le intemperanze di quel tempo feudale e oscurantista, grazie al cielo, appartenevano per sempre al passato. Ogni generazione vede il Gysbreght con occhi nuovi. Nel Seicento l’opera di Vondel veniva recitata in modo aspro e vivace, nel Settecento solenne e retorico, e nell’Ottocento romantico e fantasioso. La tradizione del Gysbreght crea un legame tra l’epoca degli spettatori e il Secolo d’Oro, quando prese forma l’indipendenza nazionale e le arti conobbero una grande fioritura. Pertanto la storia di questa tragedia è anche quella del teatro olandese. Napoleone considerava Johanna Wattier-Ziesenis (1762-1827) la più importante attrice d’Europa. Quando lei recitava tra gli spettatori in sala scendeva un silenzio assoluto; un elemento non consueto se pensiamo che, ad esempio, a capodanno del 1812, stando a un contemporaneo, per la grande confusione i primi atti del Gysbreght non vennero nemmeno uditi dal pubblico. La sua fama era dovuta all’indimenticabile, regale interpretazione di Badeloch. In particolare veniva apprezzata quando recitava con Andries Snoek nel ruolo del Messaggero. In quel momento Badeloch non proferisce parola e tutto quindi ruota intorno alla sua presenza silenziosa: in questo la divina Wattier era maestra. A nessuna attrice olandese venne tributata uguale venerazione. A questo punto non stupisce l’idea che mettere in scena il Gysbreght oggi sia un vero e proprio tour de force. Bisogna saper convincere tutti: il regista, gli attori, i teatri e perfino il pubblico – nessuno di loro si dà per vinto facilmente. Personalmente, ho dovuto avvalermi di tutti gli argomenti possibili e immaginabili. Quanta soddisfazione, però, quando il celebre attore teatrale Mark Rietman, dopo tanti no e tanti forse, infine mi ha detto sì per il ruolo del protagonista. In quel momento ho capito che il monologo di apertura sarebbe riuscito: Rietman è un attore che sa bene come pronunciare i versi – l’avevo già visto in azione con Shakespeare e Racine – e possiede l’intelligenza necessaria per capire a fondo Vondel. Per Badeloch volevo un’attrice sensuale, fisica, che potesse formare una bella coppia con Gijsbreght sulla scena. Carine Crutzen è stata tutto questo in modo toccante. In seguito, altre due attrici hanno interpretato la parte, Marlies Heuer e Jacqueline Blom: sebbene con modalità diverse, le loro proposte hanno funzionato benissimo. Desideravo inoltre inserire un paio di sorprese nel cast per incuriosire ancor di più il pubblico: sia attori giovani e talentuosi, ma ancora sconosciuti, che un celebre interprete cinematografico, Daan Schuurmans, da
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cui mai ci si sarebbe potuti aspettare che volesse, o potesse, recitare Vondel. Io però conoscevo le sue doti d’attore. Nelle repliche degli anni successivi ho voluto recuperare la dimensione storica con attori più anziani. Per quanto con Jules Croiset nei panni del priore Willebord, teatralmente, sembrasse di tornare indietro nel tempo di cinquant’anni, la sua dizione accurata e sonorità vocale erano splendide: Croiset comprende come nessun altro che recitare Vondel è soprattutto saper sviluppare un’argomentazione. Ovviamente anche il regista, Jaap Spijkers, venne coinvolto nella scelta degli attori. Con lui avevo già allestito in precedenza tre opere di Herman Heijermans. Spijkers aveva messo in scena, inoltre, in modo eccellente la quadrilogia La storia della famiglia Avenier (De geschiedenis van de familie Avenier) di Maria Goos, per cui ci conoscevamo bene e sapevamo come sollecitarci a vicenda. Ben presto trovammo il primo scoglio: è infatti impossibile creare qualcosa di bello senza che ci sia un ostacolo da dover superare in qualche modo. Come avremmo dovuto comportarci con i cori? Insieme a Laurens Spoor, che aveva partecipato alla produzione del Lucifero sulle altalene, avevo iniziato l’adattamento del testo, che qui e là si doveva tagliare, come del resto si fa perfino con Re Lear e Amleto. Non si tratta di espungere quello che non capisci o che non rientra nella tua visione drammaturgica, ma di far in modo che lo spettacolo venga compreso senza informazioni accessorie. I cori di Vondel sono sacri. Il terzo coro Notte di Natale, più luminosa del giorno (O Kerstnacht schooner dan de daegen) è diventato un noto canto natalizio, intonato ancor oggi in chiesa. Ma cosa ne sa della bibbia il pubblico secolarizzato di oggi? Capisce i riferimenti di Vondel? E se i cori sono così cruciali nell’economia dell’opera, ma risultano incomprensibili per molti spettatori, è lecito farli riscrivere da un poeta che conosce intimamente Vondel e ne comprende a fondo la teologia? Su questo tema sono nate vivaci discussioni. Willem Jan Otten ha avuto tale coraggio: Si potrebbe dire che in questa «Notte di Natale, più luminosa del giorno» si compie una Pasqua. Ciò che ho provato a fare nei miei nuovi cori è tematizzare in modo più diretto l’elemento della violenza carnale, della distruzione proprio di ciò che avrebbe dovuto essere protetto sopra ogni altra cosa. E io desidero spiegare, alla mia maniera “postreligiosa”, cosa significhi il Natale e, oltre a ciò, raccontare come in quella notte Maria stia anche partorendo. Che io sappia non è mai stata scritta poesia sulle doglie, sulla rottura delle acque, sulle spinte e sulla dilatazione dell’utero di Maria... Eppure questo è imprescindibile in relazione alla stupefacente idea che Dio assuma sembianze umane, o quantomeno lo è per me. Così facendo credo di non allontanarmi da Vondel, che è un poeta assai legato ai sensi. L’incarnazione è per lui una questione corporale. Cristo dà il suo corpo, non un’idea. In Vondel la parola si fa carne.
Il primo gennaio 2012 abbiamo debuttato allo Stadsschouwburg di Amster-
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dam, ovvero nella “terra consacrata” all’opera, proseguendo poi per quaranta rappresentazioni in teatri sempre esauriti, di cui più di trenta fuori Amsterdam. A questo punto è naturale chiedersi il perché di tante difficoltà iniziali. Ovviamente, presentando l’opera, ho dovuto difendere il nostro brutale approccio ai cori e ovviamente era necessario spiegare perché il nostro angelo avesse le sembianze di una monaca violentata, ma l’ho fatto con entusiasmo. Poterti confrontare così con il tuo pubblico è la prova migliore della vitalità di un’opera antica. Possiamo pure ammettere, con il senno di poi, di aver avuto torto a non recitare i cori originali, ma la nostra scelta ha significativamente aumentato la forza espressiva della rappresentazione. E sebbene i nuovi cori abbiano reso più pregnante il messaggio teologico del testo, a Vondel forse non sarebbe dispiaciuto. O almeno così ci piace credere. Considerando che in cinque anni lo Stadsschouwburg ha riproposto il Gysbreght per ben quattro volte, comunque nel nostro piccolo siamo riusciti a ripristinare qualcosa di quella gloriosa tradizione. Un sondaggio condotto tra il pubblico dell’ultimo spettacolo del 2016 ha rivelato che più del 50% degli spettatori visitava quel teatro per la prima volta e che l’età media era di molto inferiore a quella abituale. Sono certamente dati che fanno pensare. Tuttavia Het Toneel Speelt ne ha dovuto anche pagare il dazio perché l’ente che eroga i contributi alle compagnie teatrali ha ritenuto, anche a causa di questa avventura vondeliana, di non rinnovarci il sussidio. Nella nostra richiesta di fondi ci presentavamo così: Noi vogliamo narrare delle storie in modo classico, polifonico; un teatro di ricerca, di dubbio e di sfida intellettuale, ma che compie questo sforzo in sede di prova, senza appesantire il pubblico con il processo. La rappresentazione non è un esperimento ma il risultato di quel processo.
Sorvolo sulla risposta, perché sarebbe avvilente, e non è su questa nota che intendo concludere. Sogniamo già nuovi progetti. E, comunque sia, il Gysbreght tornerà sulle scene olandesi. Amsterdam, maggio 2016
Tav. 1. Interno dello Schouwburg di Amsterdam; dipinto a olio di H.J. van Baden, 1653 (foto: Theater Instituut Nederland).
Tav. 5. Marisa van Eyle recita il primo coro davanti a un velario dipinto con un’antica pianta di Amsterdam nel Gijsbrecht van Amstel (2012) di Het Toneel Speelt (foto: HTS).
Tav. 6. Gijsbrecht (Mark Rietman) e Willebord (Paul Hoes) dialogano nel Gijsbrecht van Amstel (2012) di Het Toneel Speelt (foto: HTS).
Tav. 10. Davanti a una Badeloch (Carine Crutzen) attonita, l’angelo-monaca (Fockeline Ouwerkerk) contempla il corpo senza vita di Arend (Daan Schuurmans) nel Gijsbrecht van Amstel (2012) di Het Toneel Speelt (foto: HTS).
Tav. 11. Marisa van Eyle, interprete dei cori nel Gijsbrecht van Amstel (2012) di Het Toneel Speelt (foto: HTS).
Joost van den Vondel Gysbreght van Aemstel La caduta della città e l’esilio Tragedia Urbs antiqua ruit Da lui stesso ampliata ed emendata
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Traduzione italiana
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Joost van den Vondel
Il teatro La recitazione nacque come passatempo istruttivo. Non è seconda ad altri divertimenti né ai piaceri regali. Imita il mondo, stuzzicando anima e corpo, e ci spinge alla gioia o apre dolci ferite. Nel piccolo mostra tutta la vanità umana di cui Democrito ride e piange Eraclito. Ancora Le api riversano qui ciò che di più nobile raccolgono, per nutrire il vecchio bastone e il bimbo orfano. Ancora C’è anche un tempo per il gioco scenico, quando il tempo lo concede Il dilettevole e l’utile vengono qui riuniti. Ancora Il mondo è un palcoscenico, ognuno recita un ruolo e ottiene una parte1.
1 Quest’ultima frase venne incisa sull’arco d’accesso allo Schouwburg, visibile quindi dalla strada; le altre invece in vari punti del teatro.
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Al Signor Ugo Grozio Ambasciatore della Regina e della Corona di Svezia, presso il cristianissimo Re, Ludovico di Borbone, sovrano di Francia e Navarra2. Mio Signore, L’innalzamento del nuovo Teatro, favorito dai signori Reggenti dell’Orfanatrofio3 e in particolare dallo zelo del Consigliere Nikolaes van Kampen4, non inesperto di architettura e appassionato sostenitore degli artisti e delle scienze, ha fatto sì che sorgesse anche in noi il desiderio di inaugurare quest’illustre edificio con un’opera che potesse piacere alla città e ai suoi abitanti. Per questo abbiamo scelto come argomento la penosa distruzione di Amsterdam e l’esilio di Gijsbreght van Aemstel, già signore di questa città, Genus à quo principe nostrum, Capostipite in linea diretta di Amsterdam. È noto che gli antichi poeti provavano a rendere gradevoli i poemi per il popolo riportando alla memoria vicende riguardanti sovrani e antenati. Omero nobilita imprese e sciagure dei Greci, suoi compatrioti, cantando quanto accaduto durante e dopo l’assedio di Troia. Virgilio conduce Enea, dopo la fine di Priamo, dallo Xanto fino al Tevere, congiungendo la stirpe latina a quella troiana, dalla quale i Romani si gloriano di essere discesi. Silio Italico tratta della Seconda Guerra Punica, Lucano di quella civile tra Cesare e Pompeo. I poeti del nostro secolo seguono le orme antiche. Tasso sollecita all’ascolto le orecchie della cristiantà, cantando il cristiano ardire di Goffredo di Buglione dinanzi a Geru-
2 Ugo Grozio (1583-1645) viveva in esilio sin dal 1621, quando era riuscito a fuggire dalla prigione di Loevenstein, grazie ad uno stratagemma della moglie (celebrata da Vondel in un poema). Era stato imprigionato all’epoca delle purghe imposte da Maurizio di Nassau, a seguito degli scontri tra la fazione (teologico-politica) arminiana o rimostrante e quella gomarista o contrarimostrante. Nel 1634 la regina Cristina di Svezia lo aveva nominato ambasciatore presso la corte di Francia. 3 I reggenti dell’orfanatrofio e dell’ospizio della città avevano finanziato la costruzione del teatro, in cambio dei proventi delle rappresentazioni. 4 Reggente dell’orfanatrofio e membro del Consiglio di Amsterdam, Nikolaes van Kampen (1586-1638) apparteneva a una famiglia di celebri architetti, tra cui spiccava Jakob (1596-1657), che aveva la supervisione sui lavori di costruzione del teatro e che, alcuni anni dopo, sarebbe diventato l’architetto del nuovo grandioso Municipio della città.
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salemme. Ronsard appaga i francesi con le vicende di Franco, discendente di Ettore, capostipite dei re di Francia5; anche Hooft, balivo di Muiden, compiace gli abitanti di Amsterdam, sua città natale, nella tragedia di Velzen, con la profezia del fiume Vecht, e i Batavi, ora chiamati Olandesi, con Baeto, re dei Catti, del quale si considerano discendenti6. Tra i poeti drammatici greci, Sofocle, Euripide ed Eschilo si tengono continuamente stretti alla città di Ilio, e a ciò che ad essa è connesso, come nubi a una montagna. Allestiscono le loro sanguinose rappresentazioni a Tebe, ad Argo e altrove, sciogliendosi in lacrime di afflizione o venendo trascinati dalla furia e da vane immaginazioni: Eumenidum veluti demens videt agmina Pentheus Et solem geminum, & duplices se ostendere Thebas: Aut Agamemnonius scenis agitatus Orestes, Armatam facibus matrem, & serpentibus atris, Cum fugit, ultricesque sedent in limine dirae. come pare a Penteo, quando la sua mente scivola nella follia, di vedere infinite Furie, due Tebe nell’aria, due soli chiari di splendore; o ad Oreste, figlio di Agamennone, sempre inseguito sull’alta scena quando, preso dal terrore, fugge davanti allo spirito della madre armata di neri serpenti e torce. La Vendetta occupa interamente la soglia del palazzo7. Non è del resto irragionevole che le nostre proprie vicende ci stiano più a cuore di quelle di stranieri e popoli lontani. Perciò ci ha punto il desiderio di ricreare, per quanto possibile, il magnifico incendio di Troia ad Amsterdam, davanti ai suoi abitanti, secondo l’esempio del divino mantovano, che accese un fuoco che arde più profumato e splendido della fiamma celeste che consuma la fenice. Ed è lui l’unica fenice all’ombra della quale desideriamo volare più in basso, vicino alla terra (sperando di esserne degni). Dalle sue ceneri, una volta ogni cento anni, appare una nuova fenice. Quale sia quella odierna è superfluo indicarlo: lo splendore delle sue penne brilla dinanzi agli occhi del mondo intero8. Nel poema epico della Franciade (1572). P.C. Hooft (1581-1647), poeta e storico del Secolo d’Oro delle lettere neerlandesi, per molti anni Balivo (Sceriffo) del Castello di Muiden. Qui Vondel fa riferimento alle tragedie Geeraerdt van Velsen (1613) e Baeto (1617). Il Geeraerdt van Velsen si conclude con una profezia pronunciata dal personaggio allegorico del fiume Vecht. 7 Citazione tratta dal quarto libro dell’Eneide (vv. 469-473), tradotta da Vondel piuttosto liberamente. 8 Il riferimento è a Ugo Grozio. 5 6
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Abbiamo costruito questa tragedia sulla base della memoria tramandataci dagli scrittori del passato e dalla loro fama, e abbiamo adornato e rivestito le vicende secondo le leggi, le regole e la libertà proprie della poesia, e anche secondo le regole drammatiche, contro le quali mai siamo andati di proposito, se non forse nel notevole numero dei personaggi, che a stento avremmo potuto evitare, senza negare all’opera le sue prerogative. Taluni abitanti di Amsterdam potrebbero provare orrore nell’ascoltare del fragoroso crollo delle mura e della dispersione dei loro antenati, tuttavia quel retrogusto amaro viene addolcito dalla profezia di Raffaele che annuncia la splendida rinascita dei bastioni distrutti e della stirpe dei fuggitivi: la condizione in cui noi oggi felicemente ci troviamo a vivere, sotto il saggio governo di borgomastri che hanno a cuore il bene comune più di quello personale e non considerano buona alcuna guerra, se non intrapresa per la pace. È con una certa presunzione che ho osato dedicare quest’opera a Vostra Eccellenza, rinfrancato dal fatto che Ella non sembra disprezzare lo stile tragico, che supera in eccellenza ogni altra forma di scrittura. Lo testimoniano il vostro Cristo crocifisso, composto quando eravate in libertà, la figlia Tebana, del tempo della vostra prigionia, e più recentemente il saldo Giuseppe, venuto alla luce durante il vostro esilio e da noi – come meglio abbiamo potuto – trasportato sulla scena olandese, a edificante piacere di questa gloriosa cittadinanza e di tutta la gente onesta9. Confidiamo che a Vostra Eccellenza quest’opera dispiaccia meno in quanto, tra i più antichi ed eccellenti nobili ed alleati che vi compaiono, muore valorosamente in armi il cavaliere Heemskerck, eroico e coraggioso tralcio di quel sangue, da cui Vostra Eccellenza conta la propria valorosa discendenza. Offro dunque a Vostra Eccellenza nel suo esilio il mio Gijsbreght van Aemstel, esule pio e coraggioso. Accoglietelo compassionevolmente, lui che merita più compatimento che ira, e possiate vivere a lungo a onore della vostra Patria. Ad Amsterdam M D CXXXVII, XVI del mese del Vino10 l’umile servitore di Vostra Eccellenza Joost van den Vondel
9 Riferimento a tre tragedie latine di Grozio: Christus patiens (1608), la seconda composta durante la prigionia nel castello di Loevenstein (non è ben chiaro a quale tragedia Vondel alluda con la “figlia Tebana”, forse alla traduzione delle Fenicie di Euripide), la terza in esilio: Sophompaneas (1635), tradotta da Vondel stesso in neerlandese per le scene. 10 Ottobre.
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Prologo del Gysbreght van Aemstel per Il Balivo, i Borgomastri, gli Scabini e il Consiglio di Amsterdam L’orgoglioso teatro solleva ora la sua aguzza copertura, e va verso le stelle, e con scrosciante applauso dà il benvenuto ai membri del Consiglio, e ai nostri saggi Padri. Il sacro Consiglio inaugura il Teatro e aspetta con le orecchie tese, incendiate di desiderio, al pari della regina di Cartagine, bramosa di udire il triste racconto di come Ilio venne schiacciata da Argo e con il fuoco ridotta a cenere: più dolce del banchetto africano, allettava quella voce i suoi raffinati sensi. La nuova scena compie un balzo di tre secoli, per distruggere le mura di Aemstel, e fa largo spazio alla crudeltà. L’antica Troia ritorna alla luce, e crolla al suolo nell’ardente Amsterdam. Il nostro Amstel farà le veci di uno Xanto rosso di sangue: la fiamma dei Kennemers, come il fuoco greco, lambirà i tetti. Il Municipio assediato richiama il palazzo di Priamo. Come si muta rapidamente lo splendore del mondo! Come si disperde, via nel vento, in fumo e polvere! Kristijn impersona qui Cassandra, trascinata per i capelli. Il vescovo Gozewijn asperge di sangue come Priamo gli altari, là dove Pirro infuria e uccide, nelle sembianze di Haemstee, e non c’è Clarissa, non ci sono capelli grigi a ispirargli pietà. Il Frisone infernale e senza Dio11 non è inferiore al malvagio Ulisse per infamia. Mai soffrì Elena, rapita, l’affronto
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Klaes de Grobber.
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che per la perfidia del violatore Donna Machtelt patì12. L’astuto Vosmeer imita la natura di Sinone nel simulare. Il Cavallo di Troia, gravido, partorisce ancora armati, in grado di far volgere la sorte. Il Signor Gijsbreght si comporta come il figlio di Anchise, e non è reso arrendevole dalle avversità: le sue virtù svettando su quelle di ognuno, non meno pio che coraggioso. Il preposto Willem, nelle vesti sacerdotali, crolla al suolo come Panto, sacerdote di Apollo. Donna Badeloch, che coincide con Creusa, ci mostra quanto fedele e tenero sia l’amore sincero nella sventura, preoccupandosi per l’amato sposo. In Veenerick rivive il piccolo Ascanio, con cui l’eroe, affidandosi alla grazia divina, s’imbarca, fidando in tempi migliori. Sono questi i tempi benedetti in cui noi viviamo, ora che Amsterdam e la stirpe degli Aemstel hanno sollevato la corona fino al cielo. Se un giorno la pace illuminerà il nostro IJ ricco di navi, e si placherà il tumulto tempestoso della guerra, l’Europa intera sceglierà questa città come Ammiraglio. Vedo non lungi le nostre croci d’argento13, tempestate dell’oro di stelle mai prima scoperte, e lo stendardo, ad un segno celeste, su in alto, non macchiati dalla nebbia, né dai vapori della terra, ispirare cuore e coraggio all’eroe del mare che, spaventato dall’impazzire della bussola, sui mari di ghiaccio va errando14.
12 Machtelt van Velzen, nipote di Gijsbreght e Badeloch, era stata violentata dal conte Floris V d’Olanda. Era stata la causa scatenante di tutti i conflitti successivi. 13 Le tre croci argentate dello stemma della città. 14 Vicino ai poli (in questo caso Polo sud) l’ago della bussola non è più affidabile.
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Per il nuovo Teatro. Al Consigliere Nikolaes van Kampen Noi imitiamo nel piccolo la grande Roma, ora che Kampen è impegnato a costruire, e con legno e pietra viaggia verso il cielo. Né artiglieria, né tuono di cannoni lo turbano, mentre Spinola dall’alto vede restringersi i suoi mesi nelle settimane del Principe, e sente che a Breda il nostro corto assedio si fa beffe del suo più lungo15. L’architettura fiorisce nel mezzo degli scontri, facendo aprire teatro e scene: là i grigi Consiglieri rasserenano la fronte e da tristi e liete rappresentazioni vengono confortati; là si diletta la nostra gioventù di Amsterdam che, soddisfatta, acclama il costruttore. Il suo nome, all’echeggiare della loro gioia, si eleva su in alto, fino alle volte, e vi si rifrange, per esplodere poi dalle finestre. Pompeo invidierebbe il suo onore, e anche Scauro16, se udissero il frastuono che, passati i tempi antichi, mette a tacere la loro fama, poiché l’antica Roma precipitò a terra con le sue mura, e l’immensa mole subì un crollo, ridotta in rovine e rasa al suolo. Le armi non risparmiano il giusto né l’ingiusto: chi può opporvi resistenza?
15 Il generale spagnolo Spinola aveva impiegato per la conquista della città di Breda nel 1625 un numero di mesi pari a quello delle settimane bastate alle truppe della Repubblica, capitanate dallo stadhouder Federico Enrico d’Orange, per riconquistarla nel 1637. 16 Riferimenti ai teatri romani intitolati a Scauro e Pompeo; quest’ultimo, costruito nel Campo Marzio tra il 61 e il 55 a.C., fu il primo teatro stabile di Roma, come nel 1637 lo Schouwburg sul Keizersgracht per Amsterdam.
Gysbreght van Aemstel, Traduzione italiana 27
Argomento Gijsbreght van Aemstel, signore di Amsterdam e dell’Amstelland, dopo aver a lungo errato in esilio con altri eminenti signori e nobili, a seguito della cattura del conte Floris, che opprimeva l’antica nobiltà e aveva violentato Machtelt van Velzen, figlia della sorella, alla morte dell’erede del conte fece ritorno ad Amsterdam. Tuttavia i sostenitori del conte (tra i quali Kennemers e Waterlanders erano i più accaniti) lo assediarono per un anno intero nella sua città. Per impadronirsene escogitarono infine un piano d’attacco, fingendo di andarsene. Quelli della città li inseguirono per un tratto e fecero prigioniero Vosmeer, la spia astuta, inviata per ingannare gli abitanti. Interrogato da Gijsbreght, gli fu risparmiata la vita e venne incaricato di aiutare a trasportare in città la nave carica di frasche, detta il Cavallo di Mare (dentro cui si celavano i migliori tra cavalieri e soldati, e il fior fiore degli armati, assieme a un gigante). La notte di Natale, a mezzanotte, prima del sorgere della luna, mentre la cittadinanza, senza il minimo sospetto in chiesa era assorbita dal fervore religioso, i soldati nascosti si impadronirono con un’imboscata della porta di Haarlem, e Vosmeer appiccò il fuoco alla nave di frasche e a tutta la città. A quel punto irruppero in città Diedrick van Haerlem con i suoi armati, che stavano nascosti nel convento dei certosini, e quindi Willem van Egmond, con tutto l’esercito, che era ritornato nella tarda serata. Fra’ Peter, decano della chiesa grande, portò le prime notizie al castello, mentre la signora di Aemstel era rapita in sogno da una visione. Allora il signore di Aemstel, seguito dai più pronti tra i parenti e gli alleati che si trovavano vicino a lui, si precipitò verso piazza Dam, cercando di ristabilire l’ordine, lì come altrove, e di difendere la chiesa e il mercato, ma invano. Di ciò Badeloch venne informata dal cognato Arend. Essendo stato frattanto assediato e poi conquistato il Municipio, Gijsbreght raggiunse il convento delle Clarisse, desideroso di proteggere il vescovo Gozewijn van Aemstel, suo zio, e la badessa Klaeris van Velzen, sua nipote, tuttavia essi rifiutarono il suo aiuto. I nemici, attaccando l’abbazia, costrinsero il signore a fuggire nell’Amstel interno. Vedendo che la sponda con la parte nuova della città era persa, mentre quella vecchia era in fiamme, e udendo la cavalleria attraversare il ponte di Doelen, si ritirò al castello con un gruppo di fuggitivi e raccontò alla consorte quanto accaduto. A sua volta il messaggero gli fece un breve resoconto di come l’abbazia e tutta la città fossero ormai perdute. Tentarono ancora una sortita dal castello, ma vennero respinti, con la perdita di Arend van Aemstel, che il fratello riportò mortalmente ferito all’interno del castello. Poco dopo Arend spirò. Si presentò quindi il signore di Vooren a reclamare il palazzo, ma Gijsbreght gli oppose un netto rifiuto. Tuttavia, mentre era impegnato a far imbarcare la sposa e i figli, assieme a tutti gli altri fuggitivi, con il proposito di rimanere a difendere la casa, Raffaele, uno dei sette angeli, gli apparve, esortandolo a mettersi in mare con tutti i suoi e a far rotta verso la Prussia,
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per fondarvi una città, ancor oggi chiamata Olanda. L’arcangelo consolò il pio eroe con la profezia della futura grandezza di Amsterdam e della buona sorte dei suoi discendenti. A quel punto Gijsbreght abbandonò il castello. La scena è davanti e dentro la città e in casa. Gijsbreght van Aemstel pronuncia il prologo. I Cori sono composti da vergini di Amsterdam, nobili, Clarisse e abitanti del castello. La tragedia inizia alle tre del pomeriggio e termina all’alba.
Gysbreght van Aemstel, Traduzione italiana 29
Al Lettore17 Questa eccellente tragedia, con cui nell’anno 1638 per la prima volta si apriva il sipario18 del nuovo teatro, e che da quasi un secolo continua a mantenere il suo successo, nonostante sia stata portata in scena centinaia di volte, ripetutamente, appare ora agli occhi dei lettori in una veste corrispondente a quella con cui si mostra agli occhi e alle orecchie degli spettatori. È cosa nota che quest’opera non può venire rappresentata esattamente come il poeta la scrisse. Da molti anni a questa parte si sono tralasciati, qua e là, singoli versi e interi spezzoni: nel modificare una parola, ogni attore faceva quello che riteneva più opportuno, alcuni con più giudizio di altri. Dunque, per fissare ciò che era assolutamente necessario modificare; per impedire che il lettore-spettatore leggesse ciò che non gli si voleva far udire; in sintesi, per far corrispondere in modo univoco recitazione e testo scritto, si è ritenuto opportuno pubblicare i cambiamenti di cui si diceva in una nuova versione a stampa, una versione che non vuole aggiungersi all’opera di Vondel, ma che è intesa come strumento a beneficio del teatro e di coloro che lo frequentano. Rispetto alle edizioni precedenti, vi si troverà anche una diversa suddivisione in atti, poiché il terzo prosegue nel quarto, e il quarto nel quinto, per poter far meglio immaginare cosa accade tra i due. Dal momento che né il quarto né il quinto atto possono essere recitati in sequenza a sipario aperto, la prima scena del quarto atto è stata inglobata nel terzo, cosicché la distruzione del monastero delle Clarisse si colloca in gran parte tra i due atti. Allo stesso modo, la prima scena del quinto atto è stata inglobata nel quarto per far guadagnare del tempo utile tra l’inizio e la conclusione della sortita in cui Gijsbreght van Aemstel viene colpito al petto con una pietra e suo fratello Arend ferito mortalmente: cosa che accade ora tra i due ultimi atti. Questa suddivisione è già stata realizzata in scena da molti anni e il cambiamento non è dunque una novità se non per l’edizione a stampa. Addio. 1729
17 Coerentemente con i principi con cui abbiamo condotto la nostra edizione critica, inseriamo in questa sede anche il paratesto pubblicato dall’editore David Ruarus del 1729. 18 In realtà nel 1638 non c’era ancora il sipario che sarebbe stato introdotto nel 1665, con l’adattamento dello spazio scenico alle esigenze del teatro all’italiana.