Indice
Premessa di Francesco Napoli 7 Passaggi 13 di Andrea Fazioli L’abo alla porta di Grace Baldissera
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Un lavoro tranquillo di Gloria Belotti
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Sblam! 49 di Palo Covassi Emilio 59 di Tiziana Dal Pra Tracce di memoria di Cristiano Fieramonti
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Provincia in... giallo di Maria Luisa Frigerio
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Respirare 119 di Silvia Nicita Suite vista mare di Lorenzo Roberto Quaglia
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Premessa di Francesco Napoli
00. Si presenta in queste pagine la seconda antologia dei racconti frutto del corso “L’avventura di un testo finito” della Scuola Flannery O’Connor del Centro Culturale di Milano. Questo libro, Passaggi, è un approdo felice nella continuità, poiché taglia il traguardo mentre si sta lavorando anche al terzo e si presenta il quarto anno del corso. Un segnale a mio avviso benaugurante, che rinforza con vigore l’intuizione avuta con Camillo Fornasieri e Luciano Pignatari e rilanciata con l’ampliarsi della Flannery a un ventaglio di proposte sempre più ampio e ricco. 01. Lasciare un “segno” è prerogativa della scrittura come delle arti visive e prima o poi, e quasi in tutti, preme la voglia di scrivere o, meglio, di narrare in forma scritta. Forse perché ciascuno ha un qualcosa dentro che vorrebbe lasciasse il segno di sé e del proprio attraversare la vita (se non la Storia). Dopo l’invenzione dell’alfabeto, alla scrittura è stato richiesto un compito oggi sempre più ingrato da espletare: essere il veicolo principale – e vorrei aggiungere ineludibile – per la trasmissione del sapere. Un compito cui assolve sempre più faticosamente dall’avvento della Rete. Una scuola di scrittura può aiutare a favorire questa funzione e penso allora che, in misura proporzionale alle capacità, innate e/o da acquisire, si possa essere spinti a scrivere dall’odore di una propria personale madeleine. Questo purché poi si riesca a trasmettere vita reale e a permettere di vivere altre vite, in altre parole quando si espande la propria esistenza dilatandola verso l’universale al punto che quasi non importa più chi è che legge e chi
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è che scrive, perché gli scritti non sono fatti solo da chi li scrive, ma anche da chi li legge. Posso aggiungere che Grace Baldissera (L’abo alla porta), Gloria Belotti (Un lavoro tranquillo), Paolo Covassi (Sblam!), Tiziana Dal Pra (Emilio), Cristiano Fieramonti (Tracce di memoria), Maria Luisa Frigerio (Provincia in... giallo), Silvia Nicita (Respirare) e Lorenzo Roberto Quaglia (Suite vista mare) hanno faticato non poco, questo è certo, per raggiungere il risultato dei racconti qui raccolti. Ma poi: che cosa c’è di bello quando scrivi, riscrivi, cancelli, butti tutto e poi riscrivi e rileggi, casomai ad alta voce, e poi dici basta e poi mandi in certificazione e poi modifichi e poi negozi le modifiche impossibili e poi riscrivi e poi ridici basta? La soddisfazione, nel senso etimologico pieno di fare a sufficienza, del momento in cui vedi il tuo testo finito, impacchettato, pubblicato, letto, magari citato, amato da messaggi o da mail che ti fanno dire che ne è valsa la pena. 02. «Il segreto dello scrittore non sta nell’ispirazione, che arriva da fonti diverse e ignote, ma nella sua ostinazione e nella sua pazienza» scrive Pamuk. E ostinazione e pazienza mi pare siano state le migliori armi di cui si son dotati gli autori di questi racconti. Attraverso incontri di aula e diversi one to one si è arrivati al dunque di un’antologia che mostra, in prima istanza, una varietà di toni e di registri, di temi e di risoluzioni narrative tanto ampia quanto diversificata e con non poche sorprese. «Non so quanto tempo sia passato ma mi pare di aver vissuto mille vite nel frattempo» scrive Grace Baldissera, come se il confronto con una realtà altra e lontana, quella australe dell’aborigeno protagonista del racconto, obblighi a voler intraprendere un passaggio tra mondi e culture così distanti avvertito come necessario; e lontane sono le due mentalità in «un’azienda reduce da una spietata ristrutturazione» tra la logica dell’imprenditoria e quella della lavoratrice, in bella mostra nel racconto, satirico e pungente, di Gloria Belotti che indaga la realtà del precariato scrutandolo dall’interno. La protagonista, quasi con distacco da se stessa, si strania e
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osserva i diversi passaggi che la conducono, suo malgrado, all’allontanamento dal lavoro. Stesso mondo diversamente scrutato da Paolo Covassi che, in uno scanzonato racconto ritmato da onomatopee fumettistiche per un brillante pastiche linguistico, innalza una realtà concreta su una nuvola quasi onirica, surreale, dove i contrasti tra due modi di intendere sembrano come svaporare. Di registro simile il racconto di Silvia Nicita, tutto giocato sul filo autoironico della protagonista alle prese con una collega che, date le dimissioni, prima frequenta una scuola di shiatsu e poi intraprende, con nome d’arte, tutt’altra professione: docente di Respiro Consapevole per assumere il controllo di sé. Al passaggio di condizione Dolores, questo il nome della co-protagonista, le disse: «Meine Liebe! È un cambiamento!». Sul piano di un recupero memoriale, si muove invece Tiziana Dal Pra che, dopo un flash d’apertura, inanella una serie di passaggi a ritroso che scavano sempre di più nella memoria del protagonista, un uomo, Emilio per l’appunto, che di fronte all’imminente matrimonio della figlia sembra non riuscire a darsi requie. Ed è proprio un meccanismo proustiano, un ramo d’agrifoglio nella tasca, a innervare un racconto dal finale inatteso. E sul piano della memoria con una serie di passaggi di condizione e di stati d’animo, tra adolescenza ed età adulta, si dipana anche la narrazione di Cristiano Fieramonti. Anche in questo caso è decisiva l’architettura narrativa adottata: un presente ordinario e quotidiano, poi un lungo flusso memoriale occasionato da un ritrovamento fortuito di un oggetto. «Poi ad un certo punto succede che certe cose le consideri ormai superate e interrompi questo filo»: il rilascio dalla memoria diventa evanido e rilancia l’io protagonista nel presente. In una realtà provinciale per certi aspetti simile, nebbiosa alle porte di Milano, contro quella ridanciana e carica di storia, Predappio, per Fieramonti, nel racconto di Maria Luisa Frigerio, dove «la realtà si è fatta bislacca», la protagonista vive una continua altalena di stati d’animo da quando un misterioso, almeno per buona parte del racconto, incidente senza vittime anima e scuote il tran tran di quella abitudinaria provincia. Realtà e sogno, conosciu-
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to e ignoto, presente e memoria, affetti e delusioni, si bilanciano nelle pagine di Frigerio con una pacatezza di scrittura e toni di notevole maturità. E se concludo con il lavoro di Lorenzo Roberto Quaglia è perché forse il suo percorso è stato il più accidentato, quello in cui l’autore ha dovuto abbandonare l’idea iniziale di scrivere una pièce teatrale per poi declinare la svanita storia d’amore di Alberto e Margareth, tutta retta da una memoria condivisa che affiora nelle parole di un fitto dialogo (vestigia della prima scelta formale dell’autore) fino allo sfociare d’improvviso nella conclusione tragica e aperta. Per tutti mi pare che è il “passaggio” degli stati d’animo dei protagonisti, attraverso la memoria così come attraverso la riflessione sul presente, la cifra di maggiore riconoscibilità che si possa intravedere. L’antologia, poi, è arricchita da un racconto di Andrea Fazioli, uno dei fondamenti della Scuola Flannery O’Connor, una narrazione dove la scrittura va a toccare alcuni aspetti esistenziali che affiorano anche nei suoi romanzi. 03. Una domanda ha aleggiato durante l’intero anno di scrittura. Ma per chi si scrive? Ora non saprei dire quale sia la loro risposta più intima, e probabilmente le motivazioni e le mire sono state alquanto diversificate. E non conta nemmeno saperlo. La tecnica per scrivere in modo sufficientemente corretto e comprensibile la si può apprendere. Si potrà scrivere con maggiore o minore padronanza, si potrà aspirare a entrare nel mondo dei letterati o semplicemente a scrivere un racconto da trasmettere in una cerchia più o meno ristretta. Gli autori di questi racconti hanno però di certo fatto qualcosa in più: la loro scrittura si palesa come autentica e narrativa poiché riesce a scavalcare brillantemente lo steccato della piccola esistenza andando a gonfie vele verso l’universale. Ognuno ha saputo trovare la propria madeleine per giungere con solidi esiti al compimento del racconto. 04. Come per Manzoni e Svevo credo che scrivere richieda un impegno totale ed esperienza per taluni indefettibile (e gli autori qui
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raccolti l’hanno vissuta in buona misura così). Un atto per provare a saggiare la vita, con una riflessione sull’Essere e il mondo che, nella sua declinazione a mo’ di racconto, rappresenta un tentativo di trovare risposte. «Ti pare che il mondo esista se tu ne scrivi» diceva Maria Corti. Di certo resta un fatto indiscutibile: qualsiasi sia il genere prescelto, la cornice nella quale è stata inserita la narrazione, i nostri hanno scelto di mettere in comune la propria memoria con quella del lettore. E solo dopo aver letto a fondo questi otto racconti si potrà comprendere se queste pagine di Grace Baldissera, Gloria Belotti, Paolo Covassi, Tiziana Dal Pra, Cristiano Fieramonti, Maria Luisa Frigerio, Silvia Nicita e Lorenzo Roberto Quaglia abbiano raggiunto l’obiettivo. Milano, dicembre 2019
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Passaggi di Andrea Fazioli
Andando in un sentiero di montagna m’imbatto in una coppia sui trent’anni. Stanno discutendo. Lei dice: «Qualcuno te lo deve insegnare, a essere forte, non puoi arrivarci da solo». Lui tace. Lei aggiunge: «Come fai, se nessuno te lo insegna?» Il sentiero è pianeggiante, in mezzo a un bosco di latifoglie in cui spiccano l’arancione dei ciliegi e il rosso vivace degli aceri montani, luminosi come segnali d’allarme. Li saluto, loro proseguono. Alle mie spalle la voce di lei diventa più acuta. Mi accorgo che sta piangendo. Che cosa posso fare? Non sono affari miei. Mi viene il pensiero di voltarmi, di chiedere se vada tutto bene. Di certo la prenderebbero come un’offesa. Esito, rallento. Mi fermo. Forse invece una parola detta da uno sconosciuto potrebbe aiutarli. Ma il mondo non funziona così. Il mondo può essere (o dirsi) moderno, aperto, sensibile alle differenze. Tuttavia gli steccati restano invalicabili: chi soffre deve soffrire da solo. Il dolore deve restare chiuso nella coppia, nella famiglia, nella cerchia più ristretta. O al massimo può essere buttato fuori nei social network, come un urlo scomposto. È doveroso, è necessario rispettare lo spazio privato degli altri. Bisogna salutare, cortesemente – e poi tirare diritto. Dopo qualche secondo mi volto, quasi di nascosto. La coppia è scomparsa. C’è solo il sentiero, con gli alberi spogli, il fruscio del vento. Di colpo avverto il peso della mia solitudine. Sarà irragionevole, forse stupido. Di sicuro inutile. Ma sento un nodo di lacrime che mi stringe alla gola, come un morso, come l’agguato di una belva. Sto pensando alla mia fragilità. Quante volte la vita ci sorprende inermi? Da bambini e da vecchi succede forse più spesso, ma an-
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che nel pieno dei tempi, quando abbiamo costruito una fortezza – o almeno una baracca per ripararci dalle intemperie –, anche allora capita che ci sentiamo perduti. Siamo come una preda. Un cerbiatto che si è attardato a bere, al fiume, e che si accorge di essere lontano, diviso da ogni gruppo, famiglia, compagnia. In quel momento, anche se non la vediamo, sappiamo che la belva si aggira nei dintorni. Il leopardo, con la sua capacità di piombarci addosso all’improvviso. La tigre, con la sua divisa mimetica, con la sua eleganza crudele. La tigre di cui non ti accorgi finché ormai è troppo tardi. Ho provato questa sensazione nel mio viaggio in India. Avanzavo in un terreno brullo: polvere marrone, macchie di alberi, tratti di boscaglia più fitta. Non ero proprio fuori dal mondo: a un paio di chilometri a sud-est c’era il villaggio di Dighori, che conta poco meno di cinquanta abitanti. Nella direzione opposta, camminando per tre chilometri circa, sarei giunto a Dongargaon, popolato da un centinaio di persone. Questi paesi fanno pensare a una zona remota, in mezzo alla natura. Ed è così, in un certo senso. Ma se avessi raggiunto Dighori, e se avessi trovato un’automobile, in poco più di un’ora e mezzo, magari due contando gli imprevisti, sarei giunto alla città di Nagpur, la capitale d’inverno dello stato del Maharashtra (quella estiva è Mumbai). Nagpur, con i suoi due milioni e mezzo di abitanti, è la tredicesima città più popolosa dell’India. Gli Inglesi la designarono come punto centrale del loro Impero delle Indie; e in effetti è proprio il centro geografico della penisola indiana, sebbene sia un po’ fuori dalle rotte turistiche. Secondo uno studio di Oxford nel periodo fra il 2019 e il 2035 Nagpur sarà la quinta città con la crescita più rapida al mondo, con un tasso di crescita media dell’8,41%. (Ai primi venti posti della classifica ci sono diciassette città indiane.) È un luogo vivo, pieno di movimento. Proprio in ottobre, ogni anno diventa una meta di pellegrinaggio per i buddisti, che in India sono una religione minoritaria. Nagpur è soprannominata anche il Cuore dell’India, la Capitale delle Arance (ne produce di rinomate) o la Capitale delle Tigri, per la grande quantità di questi animali presenti nelle riserve intorno alla città.
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Mentre vagavo tra Dighori e Dongargaon, espressioni come “tasso di crescita” mi sembravano prive di consistenza. Anche “milioni di abitanti” era un concetto sfumato, astratto. Intorno a me non c’era nessuno. La parola “tigre”, invece, appariva nella mia mente come una cosa concreta. Era il tardo pomeriggio, la temperatura era calda, umida. Cercavo di camminare all’ombra degli alberi, per quanto possibile. Dal bosco venivano fruscii, schiocchi di rami. Che ne sarà di me, ho pensato. E adesso che sono tornato a casa, che sono lontano dalle tigri in carne e ossa, il pensiero non mi abbandona. Anche mentre scrivo, al sicuro nel mio studio, la domanda mi ferisce. Che ne sarà di me… che ne sarà di tutti noi?
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