Franco Perrelli
Tre carteggi con Lucio Ridenti Anton Giulio Bragaglia - Guglielmo Giannini Tatiana Pavlova
Indice
Premessa I.
Lucio Ridenti: passione e nostalgia
7 11
1. Tra i figli d’arte, p. 11 - 2. Occhi nuovi per guardare, p. 15 - 3. Il bisogno della regìa, p. 17 - 4. Fra Bragaglia e d’Amico, p. 21 - 5. Un giornalismo liberale, p. 27
II.
Il teorema Ridenti
33
1. Puzzo di fascismo, p. 33 - 2. Uno Stato impresario, p. 37 - 3. Contro il «piano metodico», p. 47 - 4. Sommosse a Guittalemme, p. 50 - 5. Mai bagnare il teatro di lacrime, p. 52
III. Bragaglia-Ridenti: un’amicizia italiana
58
1. Il Mago Bragaglia, p. 58 -2. Una rinnovata alleanza, p. 59 - 3. Crolla il regime, p. 67 - 4. Noie e screzi, p. 76 - 5. Pubblicista e studioso, p. 80
IV.
Bragaglia: amaro dopoguerra
83
1. Difficoltà di un decano, p. 83 - 2. Il nemico di sempre, p. 88 - 3. Una polemica internazionale, p. 90 - 4. Una battaglia per Simoni, p. 96 - 5. La vita che si svuota, p. 101
V.
Guglielmo Giannini: commedia e politica
105
1. Vittimismo e carnevale, p. 105 - 2. Un commediografo giallo, p. 109 - 3. Contro i poteri forti, p. 112 - 4. Proposte di buon senso, p. 117 - 5. Pensare a che e perché?, p. 122
VI.
Guglielmo Giannini: alla riconquista delle scene 1. Spettacolo nello spettacolo, p. 126 - 2. Una nuova legge, p. 132 - 3.
126
6
Indice
Giannini tiene banco, p. 134 - 4. Compagni di polemiche, p. 141 - 5. Cronaca come opera d’arte, p. 145
VII. Guglielmo Giannini: la sintesi del dramma qualunquista
152
1. Colpo di Stato, p. 152 - 2. Le consolazioni del teatro, p. 157 - 3. Ostracismo, p. 167 - 4. «Te si scurìate e...», p. 170 - 5. «Non era un uomo qualunque», p. 173
VIII. Tatiana Pavlova: artista fra due mondi
180
1. Un carteggio affettuoso, p. 180 - 2. Fra due epoche, p. 182 - 3. Una memoria palpitante, p. 186 - 4. Il radicamento italiano, p. 192 - 5. Il monumento di Ridenti, p. 195
IX.
Tatiana Pavlova: fine di una generazione
201
1. Affetti comuni, p. 201 - 2. Un critico per amico, p. 204 - 3. Comuni idiosincrasie, p. 207 - 4. Fu vera gloria?, p. 215 - 5. «Senza di noi il teatro sussurra», p. 218
Indice dei nomi
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Premessa
Il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino si basa largamente sul Fondo di Lucio Ridenti, direttore per oltre quarant’anni della più longeva rivista italiana di teatro, «Il Dramma», oggi del tutto e meritoriamente digitalizzata (cfr. http:// archivio.teatrostabiletorino.it/dramma/). La lungimiranza e la costanza di Pietro Crivellaro, già direttore del Centro Studi, hanno portato alla recente acquisizione anche della cospicua parte dei carteggi con Ridenti conservati da Lidia Ronco, segretaria della rivista. Nell’ambito di una collaborazione fra il Centro Studi e il DAMS del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino, fu subito evidente il valore storico che gli epistolari resi disponibili possedevano e quanto potessero contribuire a illuminare le vicende novecentesche della scena italiana. Da qui l’organizzazione del convegno torinese del 18-19 marzo 2016, Il laboratorio di Lucio Ridenti – del quale sono oggi disponibili i sostanziosi atti: AA.VV., Il laboratorio di Lucio Ridenti. Cultura teatrale e mondo dell’arte in Italia attraverso “Il Dramma” (1925-1973), a cura di F. Mazzocchi, S. Mei e A. Petrini, Torino, Accademia U.P., 2017 –, nonché l’avvio di una serie di studi specifici, di cui il presente saggio è un esito. In questo volume, tentando un ritratto complessivo della figura di Lucio Ridenti, si analizzeranno segnatamente i carteggi relativi a un regista, Anton Giulio Bragaglia, a un commediografo, Guglielmo Giannini, e a un’attrice-regista, Tatiana Pavlova. Si tratta di figure estremamente significative per cogliere le linee essenziali del teatro italiano del XX secolo e per tentarne un’interpretazione più globale. Come vedremo, infatti, attorno a Bragaglia, Giannini e alla Pavlova in rapporto a Ridenti, si mosse – prima e dopo la guerra – una complessa partita di riassetto culturale e persino politico della scena nazionale, essendo in gioco addirittura la specifica ridefinizione di una tradizione scenica italiana. Alcuni studi – e, in particolare, quello di P.E. Poesio, Sole, nuvole e tempeste ne “Il Dramma” di Lucio Ridenti, in «Bollettino del Fondo Librario», n. 2, agosto 1986, pp. 7 ss. – hanno racchiuso le posizioni di Ridenti e della sua rivista in una cornice di più
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Premessa
o meno amabile inattualità e spirito di conservazione; la lettura dei carteggi oggi disponibili mostra, al di sotto della superficie, un quadro più mosso, linee interne più sottili, che sarà necessario rilevare al fine di ripuntualizzare una cruciale vicenda storica all’interno di un’opportuna contestualizzazione. Per non sovraccaricare di note il testo, citeremo gli articoli del «Dramma», con una D, indicando di seguito numero e anno. L’asterisco segnala che un documento appartiene al Fondo Lucio Ridenti. Di norma, trascriveremo i documenti correggendo solo evidenti lapsus e con minime normalizzazioni, ma i nomi stranieri saranno citati come riportati nei testi originali e quindi, talora, con sensibili variazioni. Hanno aiutato il nostro lavoro, con la consueta cortesia, Gian Domenico Ricaldone del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova e Selene Guerrieri della Biblioteca Museo Teatrale del Burcardo di Roma. Certo, senza l’infinita sapienza e passione di Pietro Crivellaro, l’alta professionalità di Anna Peyron e del personale del Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, questa ricerca non avrebbe mai visto la luce. Si è ancora più grati se si può lavorare in un archivio come quello torinese che non solo è un’autentica miniera di materiali notevoli, ma appare anche gestito con un partecipe spirito di collaborazione e generosa condivisione.
Tre carteggi con Lucio Ridenti
I Lucio Ridenti: passione e nostalgia
1. Tra i figli d’arte Fra i documenti del Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, spicca un Curriculum di Lucio Ridenti della fine del 1962*, dattiloscritto e compilato in prima persona: Lucio Ridenti, nome d’arte di Ernesto Scialpi, nato a Taranto il 7 agosto 1895, da Luigi e Raffaela D’Ippolito. Famiglia di origine napoletana di Castellammare di Stabia, le cui vocazioni furono sempre la medicina e l’archeologia. Il nonno paterno fu storico insigne e lasciò opere varie sulla Magna Grecia e si occupò dei primi rinvenimenti di Metaponto. Trasferimento in Puglia per ragioni professionali. Nessuno ebbe mai vocazione per il teatro, che invece fin da ragazzo divenne irresistibile per me. Nel 1910, a 15 anni, mercé l’aiuto di un fratello ufficiale dei carabinieri a Milano, mi trasferii in questa città, dove successivamente mi raggiunse tutta la famiglia. Appena sistemato in piccoli impieghi, frequentai la scuola di recitazione, corso serale, della Boetti Valvassura, scuola allora in auge a Milano e di dove in quel tempo erano usciti ed “entrati in arte” Febo Mari, Paola Borboni, Tina Pini, ecc. 1. Nei due anni regolari di scuola (1912-1914) ebbi a compagno Domenico Benassi, e con questo presi parte al saggio finale che si tenne all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, presieduta da Giannino Antona Traversi. A quel saggio presenziò Ermete Novelli e sua moglie Olga Giannini Novelli, che cercavano alcuni generici per la imminente loro nuova Compagnia. Fummo prescelti e scritturati insieme, Benassi ed io. Raggiungemmo la Compagnia Novelli all’Arena del Sole di Bologna ed iniziammo la nostra carriera dal primo gradino [d’ora in poi cit. nel testo come CLR*].
Ridenti nasceva così come attore dentro il teatro all’antica italiana, ma non era figlio d’arte, una qualifica allora determinante, visto che indicava i «nati in
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In merito vedi anche L. Ridenti, Ritratti perduti, Milano, Omnia Editrice, 1960, pp. 253 ss.
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Tre carteggi con Lucio Ridenti
palcoscenico, per usare il linguaggio tradizionale dei comici. Un grande albero, una annosa e gloriosa quercia», che vantava le sue radici nel Rinascimento teatrale: Quando noi entrammo in Arte, alla soglia della prima guerra mondiale, una delle soggezioni di maggior rilievo – e non superabile di colpo – era quella di entrare a far parte del mondo ben circoscritto della “famiglia del teatro”, che d’altronde non vedeva benevolmente i nuovi venuti, ritenendoli quasi degli intrusi, chiamandoli genericamente “quelli di fuori” o “dilettanti” (D 57-9/1948, pp. 51-2).
In ogni caso – rievocherà Ridenti –, «dai figli d’arte imparammo tutti la disciplina e fu la prima e più grande lezione, quella che ci è poi servita d’esperienza per tutta la vita»2: Nella Compagnia di Ermete Novelli, cioè il nostro primo ingresso in palcoscenico, da Novelli stesso – figlio di un povero suggeritore e di una modesta generica – a Piamonti, Lambertini, e non pochi altri, tutti erano “figli d’Arte”; e noi imparammo a conoscerli subito. Piamonti, cui fummo affidati da Novelli, ci fece da padre con affettuosa misura, senza pedanteria o indiscrezione, e se sulla scena ci insegnò – quando sostituiva Novelli alle prove – il non facile tirocinio del mestiere, nella vita fu preziosissimo per la disciplina economica, la saggezza del vivere comune, il rispetto al teatro, infondendoci con l’esempio e la propria passione, continuo amore alla scena e osservanza alle leggi della grande famiglia di girovaghi (D 57-9/1948, p. 52).
Al di là di ogni luccicanza, parte di quella che Ridenti avrebbe definito «la “meraviglia” di essere attori»3 era pure la dimensione del sacrificio, vale a dire «la tragica situazione [che] viene a determinarsi quando nella vita si è costretti a stringere i buchi della cinghia. Noi, da attori, ne abbiamo stretti a dozzine [...]. Noi, da attori, purtroppo, siamo perfino svenuti dalla fame e ci hanno portati all’ospedale» (D 186/1953, p. 6). Anche a causa di questa esperienza di particolare povertà «per secolare ereditarietà», che rendeva «perfino rispettosi di quell’indigenza e senza rammarico» («Sembrava una legge da rispettare: era un dovere»), Ridenti non apprezzò mai né il regolare professionismo né il ricco divismo che cominciò, per esempio, a caratterizzare il mestiere di attore nel secondo dopoguerra (vedi anche D 368/1967, p. 50). Non solo la vita dei «figli d’Arte», «a quel tempo, era modesta appartata e quasi patriarcale», ma anche «la carriera era durissima e la scala irta e faticosa; anni di noviziato per dire tre battute invece di due; la livrea non finiva mai di coprirci le spalle, mentre il nostro sogno era il frac» (D 57-9/1948, p. 52; 305/1962, p. 5).
2 3
Ivi, p. 208. L. Ridenti, Teatro italiano fra due guerre 1915-1940, Genova, Dellacasa, 1968, p. 222.
I. Lucio Ridenti: passione e nostalgia 13
Ridenti riuscì comunque a scalare abbastanza agilmente tutta la tradizionale gerarchia dei ruoli. Nel 1915, era «generico per parti importanti» con Tina Bondi e Leo Orlandini; l’anno successivo, «secondo brillante ed amoroso» con la Compagnia Ferrero-Palmarini-Celli-Pieri; lo stesso anno, con Dina Galli, «primo attore giovane e brillante giovane» con beneficio della «serata d’onore»: A quel tempo, gli attori venivano scritturati a trienni perché le Compagnie – una cinquantina tra primarie e secondarie – si affiatavano con un programma stabilito per anni, ed ognuna di esse si formava con estrema cura un proprio repertorio, comico, drammatico o misto, che sommava a trenta, a quaranta commedie. A queste si aggiungevano le novità. In genere, una Compagnia primarissima come la “GalliGuasti-Ciarli-Bracci” – nella quale ero il primo attor giovane – recitava non meno di un mese nel teatro di una città, eccezionalmente, per il costante favore di pubblico alla nostra formazione, venivano concessi, fino a quattro o cinque mesi, come al “Valle” di Roma; due o tre mesi, come al “Manzoni” di Milano e all’“Alfieri” di Torino. Il teatro era sempre gremito. In tale sicurezza di attività, con un consenso sempre crescente di pubblico si formavano attori di qualità non comuni ed a volte eccezionali; si poteva assurgere alla notorietà e alla celebrità con una personalità precisa, distinta, inconfondibile4.
Nel 1924, Ridenti passa con Alda Borelli, «brillante e primo attore comico»: Ebbi la fortuna di entrare in quella Compagnia – scriverà Ridenti –, dopo aver recitato nove anni con Dina Galli: da un repertorio esclusivamente comico e divertente, alla volontaria ricerca di una personalità. Ho recitato tre anni con Alda Borelli, ho capito allora quale grande attrice fosse e quale maestra noi tutti si avesse; [...] se il suo nome fu accostato perfino a quello della Duse, la nostra Compagnia non era considerata ugualmente primaria, qualifica estremamente difficile a quel tempo di attori famosi e di “ditte” memorabili. [...] La provincia era il nostro regno5.
Nel ’25, Ridenti viene ingaggiato da Tatiana Pavlova e siamo a un momento cruciale nella storia del teatro italiano perché, proprio attorno all’attrice ucraina, che prende l’audace decisione di recitare nella nostra lingua, si evidenziano ulteriori forze disgregatrici, in azione da tempo, di un sistema capocomicale, che, pur reggendo tenacemente, era ormai esausto. S’affacciavano, infatti, nel panorama nazionale, più forti influenze europee e il lavoro scenico tendeva a focalizzarsi su una più coordinata direzione dello spettacolo: «Era finita un’epoca» – avrà modo di scrivere Ridenti –, «sia pure senz’accorgersene; infatti, fuori della compagnia Pavlova, tutto continuava, o sembrava continuare come prima»6.
L. Ridenti, Ritratti perduti cit., p. 235. Ivi, p. 141. 6 L. Ridenti, Teatro italiano cit., p. 58. 4 5
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Tre carteggi con Lucio Ridenti
In ogni caso, a fissare, sul piano storico, l’impressione di lento trapasso, cui allude Ridenti, è stato giustamente osservato che «gli attori degli anni Venti e Trenta perdono qualcosa. [...] perdono forza, molto prima di perdere qualità»7, e ciò in un quadro di profonda crisi economica del teatro italiano di quegli anni, assediato dal cinema, dalla radio e dalle manifestazioni sportive. Considerato che, nelle sue future polemiche giornalistiche, i piani tenderanno a confondersi, va preliminarmente sottolineato che Ridenti visse, con piena adesione, sia la dimensione etica e artistica dei «figli d’arte» sia l’affermazione dei nuovi autori-direttori (Pirandello) come dei primi registi (Bragaglia e Pavlova), che subentreranno alla tradizione dei comici. La circostanza che i «figli d’arte» riuscissero a nascondere il lento disfacimento («tutto continuava, o sembrava continuare come prima») e, anche per questo, a trasmettere alla generazione artistica successiva alcuni dei loro valori rende talora la rievocazione storica di Ridenti apparentemente omogenea. Tuttavia, già nel 1924, nel suo primo libro, Palcoscenico (una sorta di preludio al più celebre Teatro all’antica italiana di Sergio Tofano del ’65) – confrontandosi con il secolare e semplice cosmo dei comici –, Ridenti ammetteva la sensazione di vivere in un «periodo di maggior tormento», caratterizzato da un «abuso di cerebralità»8, facendo vibrare a tratti una corda sentimentale per un mondo che sentiva in dissoluzione e stava per essere superato. Dal 1922, auspice Renato Simoni – che il direttore del «Dramma» considererà sempre e devotamente un maestro («Ruggeri fu il nostro ideale e Simoni la nostra sapienza»)9 e di cui, alla morte, editerà l’imponente opera critica –, Ridenti aveva pubblicato dei pezzi di vita teatrale sulla «Lettura»: «A quell’epoca, pubblicare sulla “Lettura” era la laurea. Uscirono vari capitoli come articoli sulla “Lettura”, uscì in seguito anche il libro Palcoscenico, recitai ancora»10. Proprio nella sua Prefazione a Palcoscenico, Simoni centra un tratto essenziale della personalità dell’autore: «la nostalgia del passato e la passione del presente»11, un intrecciato connubio di atteggiamenti che ci dovrà guidare anche M. Schino, La parola regìa, in AA.VV., Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, p. 516. Mirella Schino ha riassunto il cruciale momento di crisi del capocomicato che si registra in Italia fra la Prima guerra mondiale e la formazione, nel 1930, della Corporazione dello Spettacolo: fino a quel momento, infatti, i capocomici erano stati in battaglia con tutti, «contro la Società italiana degli autori, contro il Trust e gli uomini d’affari, contro gli scritturati che, riuniti in lega [...], hanno lottato per tutto il biennio rosso per un contratto unico». Ormai erano «stremati», tanto che la Corporazione rappresentava «una struttura forzatamente pacificatrice», nella quale tuttavia «la tradizione artistica non riconosciuta dei comici perde[va] forza, mentre il riconosciuto ruolo morale e culturale dei drammaturghi diventa[va] anch’esso una forma di monopolio» (p. 508). 8 L. Ridenti, Palcoscenico, Todi, Atanor, 1924, p. 155. 9 L. Ridenti, Ritratti perduti cit., p. 171. 10 Ivi, p. 120. 11 L. Ridenti, Palcoscenico cit., p. VIII. 7
I. Lucio Ridenti: passione e nostalgia 15
nell’interpretazione delle varie posizioni del direttore del «Dramma», con il tempo troppo facilmente sfuocate nei paludamenti di un’ostentata inattualità. Una viva percezione della crisi novecentesca del teatro italiano, cui avrebbe risposto negli anni, bilanciando immancabilmente l’esperienza personale e storica fra gli attori di tradizione e la loro tenace eredità con una parallela, ma assai acuta coscienza dell’irrimediabile impossibilità di restaurazione del passato, si qualifica come lo stigma precoce della personalità di Ridenti.
2. Occhi nuovi per guardare Colpito all’improvviso da una menomazione dell’udito (qualcosa che descriverà «come un coltello che entra nella carne e recide un nervo») – un difetto che gl’impediva di sfruttare un’altra ineludibile e quasi simbolica funzione del teatro all’antica: il suggeritore12 –, nel 1926 Ridenti chiese «un periodo di riposo per consultare medici stranieri». Tuttavia – scriverà –, «convinto di non poter recuperare interamente l’udito, non tornai più in Compagnia Pavlova e raggiunsi Torino» (CLR*). Anni dopo, osserverà: «sono stato attore troppo poco. E così, cambiando categoria, mi sono venuti occhi nuovi per guardare»13. Ridenti si stabilì definitivamente a Torino − l’«aristocratica città, che noi molto amiamo» −14, cominciando a lavorare per «La Gazzetta del Popolo». A quell’epoca, però, aveva già rapporti con «Il Dramma»: Nel 1924 – racconta – fui interrogato da Pittigrilli, direttore delle «Grandi Firme» e proprietario della casa editrice dallo stesso nome, se, pur recitando e quindi continuamente spostandomi, potevo raccogliere il materiale e preparare tutto quanto potesse servire ad una rivista di teatro, che aveva in animo di pubblicare e che avrebbe intitolato «Il Dramma». Essendo la rivista mensile, accettai l’incarico. Il «Dramma» uscì, col suo primo numero, nel dicembre del 1925, diretto da Pittigrilli, ed il successo fu così vivo che col fascicolo N. 9 (agosto 1926) mi fu affidata la direzione. Avendo nel contempo smesso di recitare ed abitando a Torino, dove la rivista si pubblicava, divenne da mensile quindicinale (CLR*).
Dal 1925-26, il teatro, per Lucio Ridenti, comincia a coincidere sempre di più con la sua rivista: «si tratterà» − ha osservato Armando Petrini −, a 12 L. Ridenti, Piccolo ricordo, Torino, Istituto del Libro Italiano, 1948, s.p. Il suggeritore era, per Ridenti, una funzione emblematica del teatro nazionale e – in polemica con Guido De Monticelli, nel 1967 – il direttore del «Dramma» affermerà, infatti, che l’attore italiano, «per sua natura, per atavismo, perché l’improvvisazione di secoli è ancora attaccata alla sua pelle, si sente sicuro solo col suggeritore» (D 365-6/1967, p. 2). 13 L. Ridenti, Ritratti perduti cit., p. 10. 14 L. Ridenti, Piccolo ricordo cit., p. 11.
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Tre carteggi con Lucio Ridenti
tutti gli effetti, «di una sorta di clauseviziana continuazione del teatro con altri mezzi»15. Ma che pubblicazione era «Il Dramma», ideato da un personaggio estroso e mondano come Pittigrilli e redatto, sin dal primo fascicolo, da Ridenti?16 Non troppo lo specchio della crisi teatrale di quell’epoca e diversa, nell’impostazione più disimpegnata, dall’autorevole ed elegante «Comoedia», fondata nel 191917. Infatti, sin dalla testata, si presentava come «rivista mensile di commedie di grande successo» e l’editoriale del primo numero non lasciava spazio a equivoci: la pubblicazione non avrebbe avuto alcun «programma»; avrebbe seguito soltanto «il gusto del pubblico. Il direttore di un giornale è uno strumento nelle mani dei lettori, perché in ogni lettore c’è un giornalista inconsapevole» (p. 3). Realizzare una rivista del genere – ricorderà Ridenti, un po’ indorando il complicato momento teatrale dell’epoca – non era difficile: si poteva farlo anche da lontano, inviando il materiale alla tipografia di Torino, dove Paolo Zappa, alle prime armi del giornalismo anche lui [...], funzionava da segretarioredattore. Si sceglieva il testo di una commedia fra le molte che una cinquantina di Compagnie recitavano – tutte a disposizione, perché a quel tempo a nessuno veniva in mente di pubblicare una commedia, tranne che per rare eccezioni e per tre o quattro nomi – si aggiungeva qualche scenetta, alcune notizie, il giro delle Compagnie... Non esistevano problemi, insomma. Il teatro viveva di suo, orgoglioso e rigoglioso, ignorando il governo, la problematica e i temi di fondo. E soprattutto gli attori erano bravi e i commediografi attivi. [...] Concorreva a [fare la rivista] ugualmente di lontano (abitava a Parma) un giovane architetto, Erberto Carboni, oggi di chiara fama. Gli si mandava la commedia da leggere con anticipo di tempo ed egli faceva tre disegnitestate per i tre atti consueti. Ugualmente contribuiva, qualche volta, Paolo Garretto, illustratore principe in quegli anni, tanto bravo da essere richiesto prima da riviste inglesi e poi americane.
Già nel 1925, del «Dramma» «si stampavano ventiseimila copie ogni quindici giorni» (D 330-1/1964, p. 86). In diversi spazi autopubblicitari del decennio successivo, la rivista vanterà di avere rotto la «decrepita usanza» delle cosiddette parti scannate manoscritte, offrendo agli attori (e tanto più all’ampia platea delle A. Petrini, Ridenti dalla parte dell’attore, in AA.VV., Il laboratorio di Lucio Ridenti cit., p. 156. Ridenti ha sempre affermato che, sin dal primo numero, «Il Dramma» era stato fatto – «caso abbastanza raro in Italia» – «dalla stessa persona» (cioè da lui) e di essere «estraneo solo ai cinque numeri usciti durante il cosiddetto periodo repubblichino» (cfr. D 141/1951, p. 59). 17 Sebbene, in fondo, come «Comoedia», anche «Il Dramma» finisse per riconoscere al principio «l’importanza assunta dal testo e la crescente fortuna della categoria degli autori», nel primo dopoguerra (A. Tinterri, Le Riviste teatrali del ’900, in AA.VV., Le riviste di teatro del ’900, Chieti, Ediars, 1994, p. 7). Sulla stampa specializzata dei primi decenni del Novecento, vedi anche E. Scarpellini, Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista, Milano, Led, 2004, pp. 19 ss. 15 16
I. Lucio Ridenti: passione e nostalgia 17
filodrammatiche) copioni integrali e bene stampati, che si sarebbero potuti altrimenti acquisire, solo a caro prezzo, dalla Società degli Autori. Almeno le prime annate – con il nuovo direttore Ridenti ormai saldamente in sella – qualificarono, in linea di massima, «Il Dramma» come la rivista di un teatro di dive e divi, ancorata al repertorio dei cosiddetti «telefoni bianchi»18, poco scossa da inquietudini estetiche, non priva, tuttavia, di pur sommari riconoscimenti alle novità del momento come gli esperimenti di Bragaglia, della Pavlova, di Rosso di San Secondo e, naturalmente, di Pirandello, con il quale Ridenti avrebbe vantato «rapporti familiari»19. Durante il fascismo, «Il Dramma» darà spazio − soprattutto dagli anni Trenta, allorché il regime cominciò a occuparsi più decisamente delle sorti del teatro nazionale – agli indirizzi della politica culturale della dittatura come agli appelli formali al «teatro di masse» (D 169/1933, p. 33), alla bizantina esegesi di questa formula alquanto generica (D 192/1934, p. 47) e, all’occorrenza, al vaniloquio dei conati antiborghesi dei Guf (cfr., per esempio, D 281/1938, pp. 22-3). Se Pietro Solari, sul D 193/1934, aveva bocciato in blocco i maldestri tentativi di creare un teatro nazista, arrivando addirittura a rimpiangere la «perfida sottigliezza e pericolosa efficacia, in una cornice d’arte», del comunista Piscator (pp. 41-2), quando l’Italia entrerà a far parte dell’Asse, la svastica diventerà un occasionale motivo grafico, informando i lettori sugli eventi della scena tedesca. Dal 1938, affiora in qualche articolo un’increspatura antisemita, ma, nell’insieme, non si può affermare che Ridenti e la sua rivista si distinguessero nel diffuso conformismo di sopravvivenza dell’epoca. In ogni caso, nel ’40, i meriti culturali e politici del «Dramma» ovvero, a quanto pare, il suo mero allineamento e, più verosimilmente, anche la sua popolarità garantirono alla rivista l’«eccezionale concessione» ministeriale di una provvigione di carta superiore a quella contingentata dalle leggi di guerra (vedi D 325/1940, p. 6).
3. Il bisogno della regìa Negli anni del fascismo, «Il Dramma» non era privo di concorrenti agguerriti che lo spinsero a irrobustirsi a livello giornalistico e culturale20. Attorno al 1932, 18 «Il Dramma» pubblicherà certo più Molnár che Pirandello (cfr. P.E. Poesio, Sole, nuvole e tempeste cit., pp. 7; 11-2), ma non fu chiuso ad autori per l’epoca sperimentali quali Cˇ echov o Schnitzler. 19 L. Ridenti, Teatro italiano cit., p. 133. 20 Nei fascicoli del decennio a cavallo fra gli anni Trenta e Quaranta, tra le altre e al di là di quelle che avremo modo di ricordare, si riscontrano le firme di Corrado Alvaro, Luigi Antonelli, Francesco Bernardelli, Massimo Bontempelli, Luigi Chiarelli, Ermanno Contini, Enrico Fulchignoni, Mario Gromo, Alberto Moravia, Giorgio Prosperi, Alberto Savinio, Alberto Spaini ecc.
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Tre carteggi con Lucio Ridenti
esordisce, infatti, «Scenario» di Silvio d’Amico e Nicola De Pirro21. Sin dal primo numero, questa elegante rivista pose in forte evidenza il tema della regìa, grazie anche a una famosa lettera di Bruno Migliorini che ne sdoganava nella nostra lingua il termine, originariamente lanciato da Enrico Rocca, nel ’31, a proposito di uno spettacolo (Mirra Efros) di Tatiana Pavlova22. Già sul n. 137 del 1° maggio 1932 del «Dramma», Anton Giulio Bragaglia se ne impossessa, spiegando che il regista «s’interessa di tutto: [...] dà importanza a tutto e specialmente mette nell’intera edizione [dello spettacolo] una personalità interpretativa propria» (p. 44). Secondo Paolo Emilio Poesio, Ridenti sarebbe stato assai poco interessato alla questione della regìa, tanto da rispondere solo «a controcanto» con un articolo di Nemirovicˇ-Dancˇenko in un «numero di marzo di quello stesso anno» (1932)23. A prescindere dalla circostanza che tale articolo non si riscontra in quel fascicolo24, già nel dicembre del 1931 (n. 127, p. 38), «Il Dramma» aveva ospitato un colloquio di Eugenio Bertuetti con il maestro russo, che si sarebbe impegnato in Italia, in alcune storiche regìe, invitato dalla Pavlova (cfr. § 4 dell’VIII cap.). Ancor prima, nel 1929, peraltro, «Il Dramma» aveva pubblicato una lunga intervista di Giuseppe Faraci a Rosso di San Secondo, nella quale questo drammaturgo di sensibilità europea aveva dichiarato: ciò che a noi manca per fare del buon teatro non sono gli attori i quali sono, comunque, eccellenti. Non abbiamo direttori artistici, o mettinscena, o régisseurs. Coloro che si credono tali mancano tutti di preparazione e di disciplina artistica. [...] Il mondo non esiste oltre le Alpi. E avrebbero tanto bisogno di conoscere ciò che fanno gli altri, di confrontare, di studiare. [...] Occorre creare una schiera di gente nuova. Per formare dei régisseurs nostri dovremmo mandare presso i migliori teatri dell’estero, come allievi, i nostri giovani che abbiano attitudini al teatro, farli vivere alcuni anni fuori, farli studiare, con libertà, ma con serietà, e tornerebbero con le idee chiare sul teatro straniero e sul teatro italiano, capaci di assumere seriamente la direzione delle Compagnie. 21 «Scenario», nel ’35, si sarebbe fusa con «Comoedia», perdendo smalto e, poco dopo, anche il contributo di d’Amico, passato all’Accademia. 22 M. Schino, La parola regìa cit., pp. 501-2. 23 P.E. Poesio, Sole, nuvole e tempeste cit., p. 11. 24 C’è in compenso un contributo molto interessante di Evreinov sulla Messinscena della vita (D 133/1932, pp. 40 ss.). Negli anni Trenta, sul «Dramma», si parla peraltro con relativa frequenza del teatro russo, citando sia Stanislavskij che Mejerchol’d. Noteremo incidentalmente che, proprio nell’annata 1932, si segnalano, inoltre, un pezzo su Max Reinhardt e uno su Jacques Copeau (nn. 137 e 147), nonché un lungo articolo, assolutamente simpatetico, di Vittorio Guerriero su Antonin Artaud (n. 149, pp. 37 ss.). In precedenza, la rivista di Ridenti aveva pubblicato un intervento di Reinhardt su Teatro e cinematografo (D 51/1928, p. 45); in seguito, si soffermerà ancora sul lavoro di questo regista e di Copeau in Italia (cfr. D 165/1933).
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La concezione del regista che Rosso di San Secondo esponeva era consonante con quella che Silvio d’Amico elaborava nel coevo Tramonto del grande attore: «L’autorità del régisseur» – affermava ancora il drammaturgo – «è già molta e non deve diventare supremazia. [...] L’opera dell’autore deve essere rispettata, intangibile e immodificabile. Il régisseur non dev’essere che un interprete dell’autore, un intelligente e misurato collaboratore» (D 67/1929, pp. 5-6). Poesio ritiene che Ridenti dosasse gli articoli sulla regìa «con il contagocce – uno di Pietro Sharoff nel 1933, uno di Luigi Pirandello, nel 1935, dallo sconcertante titolo: La diminuzione dei nostri grandi attori dipende dalla supremazia del regista? – fino a che nel 1936 non scende in campo Anton Giulio Bragaglia con tre articoli in un anno»25. Per quello che all’epoca voleva essere «Il Dramma» (ricordiamolo: soprattutto un «quindicinale di commedie di grande successo»), si può verificare al contrario che prestava la dovuta attenzione al tema su cui si stava giocando un’importante partita di rinnovamento della scena italiana. Peraltro − per stare agli anni Trenta-Quaranta −, si riscontrano sul «Dramma», nel complesso, maggiori e variegati interventi sull’argomento: per esempio, nel 1933, sia quello di Pietro Sharoff, che, reso omaggio a Talli, stabiliva un preciso nesso tra la formazione di «compagnie di insieme», coordinate da un regista «interprete dell’autore presso il pubblico», e la costituzione di quei teatri stabili ancora assenti in Italia (n. 123, pp. 45-6), sia di John Gielguld (che si sofferma su Craig) a colloquio con C.M. Franzero (n. 176, pp. 32 ss.). In seguito, dalle colonne del «Dramma», Carlo Tamberlani chiederà, in mancanza di un regista competente, l’intervento di almeno due specialisti, il «direttore della recitazione e [il] direttore scenotecnico» (D 256/1937, p. 33); quindi, Pietro Lissia si dichiarerà del tutto favorevole al «rinnovamento della scena di prosa [...] dopo che i registi avranno preso il comando delle Compagnie» (D
P.E. Poesio, Sole, nuvole e tempeste cit., p. 11. L’intervento di Pirandello (D 213/1935) – ripreso dall’«Illustrazione del Popolo» e, in parte, fondato sul saggio Illustratori, attori, traduttori (1908, oggi in L. Pirandello, Saggi e interventi, a cura di F. Taviani, Milano, Mondadori, 2006, pp. 635 ss.) – appare invero meno sconcertante del suo titolo perché la posizione del drammaturgo sulla regìa (ch’egli esercitò personalmente, come pure si sottolinea nell’articolo) fu problematica: da un lato, attentissima ai diritti dell’autore (visto che l’attore «rende più reale, e, pertanto, meno vero il personaggio creato dal poeta, gli toglie tanto della sua verità ideale, quanto più di realtà materiale gli dona»); dall’altro, non indifferente alla circostanza che – in «momenti privilegiati» di forte adesione al personaggio – «ogni intromissione del regista, sovrattutto di quello moderno, diventa inutile, incongruente. L’attore “rigetta” letteralmente il metteur en scène... Ed io mi domando se la diminuzione dei nostri grandi attori non dipenda appunto dalla supremazia data al regista» (p. 4). Gigi Livio ha sottolineato in questo dualismo una frattura rispetto a d’Amico, vieppiù rimarcata dall’idea sostenuta altrove che «l’opera d’arte, in teatro, non è più il lavoro di uno scrittore [...] ma un atto di vita da creare, momento per momento, sulla scena» (cit. in G. Livio, Il teatro degli anni trenta. Drammaturgia e spettacolo, in AA.VV., Teatro contemporaneo, vol. I.: Teatro italiano, a cura di M. Verdone, Roma, Lucarini, 1981, pp. 369-70; 384). 25
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258/1937, p. 27); Enrico Rocca si esprimerà sulla formazione dei registi, che non dovrebbero coincidere mai con i capocomici («Ora non si può essere insieme strumento e direttore d’orchestra») (D 318/1939, p. 20; 343/1940, p. 51) e Vinicio Marinucci tratterà il tema, contestando l’estremismo estetico di Tairov e difendendo le ragioni degli autori, non senza riferimenti a Silvio d’Amico e parlando della regìa come indispensabile «creazione subordinata» (D 399/1943, pp. 23-4). Sempre sul D 378/1942, Achille Vesce dà per scontato che – dopo la morte di Talli e Niccodemi, grandi riformatori del teatro capocomicale – la scena italiana possa orientarsi «verso una sua decisa funzione poetica», solo avendo al timone «uomini di cultura, di gusto, di aperta sensibilità e modernità artistica» quali i registi Anton Giulio Bragaglia, Gherardo Gherardi ed Ettore Giannini (p. 42). Il dibattito insomma era assai vivo, fin troppo, al limite d’una confusione che si protrarrà ben oltre la Seconda Guerra Mondiale. Come dimostrano questi interventi, il fatto che la parola regìa fosse stata introdotta nella lingua italiana indicava più un bisogno storico di risposta a una crisi culturale e di mestiere che una certezza di definizione e funzione. Nonostante tutto questo, Poesio è convinto che sulla regìa «la rivista fosse su posizioni sostanzialmente avverse», come dimostrerebbe un intervento di Volpone (che identificheremmo con il critico Pietro Bianchi) del febbraio del ’39: Regìa? Regista? Che significa?26. Se andiamo al di là della crosta del titolo, però, a ben leggere, questo articolo si attiene all’incirca alle tesi di Silvio d’Amico e Guido Salvini, chiedendo giusto impegno e professionismo nell’«arte di tradurre scenicamente l’opera di Teatro» (D 300/1939, pp. 23-4)27. Del resto, quello stesso fascicolo del «Dramma» andrebbe sfogliato tutto, ché, per esempio, a p. 34, dà rilievo con orgoglio ad Anton Giulio Bragaglia come regista che «figura accanto a quelli più noti in tutti gli ambienti teatrali d’Europa e d’America». La centralità delle idee di Bragaglia sulla regìa diventa cospicua sul «Dramma» per tutti gli anni Trenta e oltre. Nella figura di Bragaglia – «il regista latino e italiano che possiede le qualità e tutte le possibilità per assistere l’attore e l’autore nel rito dell’incarnazione» –, la rivista di Ridenti riconosce che la regìa è «indispensabile per la realizzazione del mistero teatrale» (così Mario Intaglietta, sul D 290/1938, p. 26). Lo stesso Bragaglia, dalle colonne del «Dramma», sancisce il netto ridimensionamento sia del teatro dei capocomici sia dei drammaturghi, affermando che «il regista deve dire in più dell’autore. Alcuni registi hanno talmente interpretato un’opera da ricrearla» (D 231/1936, pp. 26-7; 350/1941, p. 43). P.E. Poesio, Sole, nuvole e tempeste cit., p. 11. D’altro canto, lo stesso Volpone, sul n. 314/1939 del «Dramma», a p. 33, discuterà con estrema considerazione le tesi di Orazio Costa, «dotato d’una profonda preparazione teorica e d’una esperienza pratica aggiornata», sulla regìa moderna. 26 27
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Non va dimenticato che Bragaglia era figura di spicco della cultura fascista e Ridenti sposò la linea dell’affermazione della regìa nel segno di una probabile considerazione delle sue idee (e fors’anche memore della propria breve esperienza con la Pavlova), dando per scontato – in una manifestazione della sua passione del presente – che fosse, con le variabili declinazioni del caso, oramai un passaggio ineludibile della riorganizzazione degli eventi spettacolari. Può darsi, che, in questa posizione, incidesse la circostanza che il fascismo vedeva in tale pratica uno strumento per disciplinare in qualche modo anche il pittoresco mondo dei comici girovaghi e dei loro spettacoli talvolta approssimativi, arrivando addirittura a premere per la sua affermazione attraverso lo strumento delle sovvenzioni inaugurato dal regime28. Così, in un numero del «Dramma» del 1940, Sante Savarino si rifaceva proprio al «pioniere e antesignano» Bragaglia per affermare, ancora una volta, l’indispensabilità della funzione del regista in una chiave che s’intendeva più precisamente nazionale di equilibrato «animatore» di drammi, e come figura che si poteva idealmente identificare anche nel lavoro scenico di Renato Simoni. Savarino concludeva: «Riconosciamo pure che se gli spettacoli son tanto migliorati, ciò si deve all’azione dei direttori e dei registi – che in fondo son la stessa cosa – i quali hanno saputo rispondere all’aspettazione inconscia del pubblico e alla sollecitudine chiaroveggente del Regime con efficaci e affascinanti realizzazioni» (D 325/1940, pp. 28-9). Nel caso specifico di questo articolo, tra l’altro, «Il Dramma» si allineava né più né meno alle posizioni espresse in un recente intervento di Nicola De Pirro29, dalla metà degli anni Trenta potente ispettore della Direzione Generale del Teatro, la struttura ministeriale con la quale si attuava il ridimensionamento d’impresari e capocomici, nonché «il definitivo ingresso dell’azione governativa nella vita teatrale nazionale», soprattutto attraverso un’erogazione politica di sovvenzioni mirante ad asservire un teatro (tutt’altro che ribelle) alle direttive del fascismo30.
4. Fra Bragaglia e d’Amico In realtà, proprio in quegli anni – come pure confermano le nuove acquisizioni epistolari del Fondo Lucio Ridenti – il rapporto con Bragaglia conferì al «Dram28 Si vedano in merito proprio gli interventi di Bragaglia sul D 231/1936, pp. 26-7 e, ancor più, sul n. 314/1939, p. 26, dove si riporta direttamente a Mussolini la difesa dei «nuovi criteri artistici». 29 Vedi in merito M. Schino, La parola regìa cit., pp. 521-2. 30 G. Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Corazzano, Titivillus, 20092, p. 113 e passim.
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ma» una differente fisionomia e quasi un’anima più vigile in merito ai problemi del teatro contemporaneo. Schematizzando, si può sostenere che all’epoca si fronteggiassero, in Italia, sostanzialmente due filosofie riconducibili ad Anton Giulio Bragaglia e a Silvio d’Amico. Quando, nel 1929, costui pubblicava il suo saggio Tramonto del grande attore, Bragaglia gli opponeva un titolo altrettanto incisivo, Del teatro teatrale. In questo libro, con le ragioni sensuali e lussuose di uno spettacolo ben consapevole della macchina del palcoscenico, declinato sul fronte dell’avanguardia, dell’istinto attoriale e di una sorta di coordinamento duttile ed estroso, si contrastava la proposta di d’Amico di una scena fondata sulla letteratura drammatica e rivitalizzata dal rigore tecnico-intellettuale di una regìa non invasiva, in grado di tenere sotto controllo l’attore. Per parte sua, d’Amico, con acume culturale e persino profondità spirituale, perseguiva una riforma radicale nelle finalità prospettiche, ma moderata nella sostanza, della scena italiana: La nostra polemica con d’Amico – scriveva Bragaglia, nel ’33 – durerà fino alla nostra morte, né mai ce ne stancheremo perché, per mio conto, è diventata il varietà dei miei scopi nella vita. Durerà comunque tutta la vita perché d’Amico è per la Commedia erudita e noi per la Improvvisa; d’Amico è per il metodo e noi per l’estro; egli predilige il teatro italiano e noi quello dialettale31; d’Amico se ne muore per la letteratura a teatro, e noi siamo fanatici per il risultato della teatralità complessa; noi amiamo il teatro in sé e d’Amico ama la letteratura drammatica; lui distingue tra teatro e spettacolo, mentre per noi una rappresentazione che stia in piedi, deve in ogni caso tener l’altro piede basato sul sensorio32.
I due uomini, in effetti, non potevano essere più diversi. Laico, teatrante curioso e imprevedibile, proteso a una complessa mediazione di elementi internazionali, Bragaglia; cattolico, vicino al nazionalismo e a Giuseppe Bottai, abilissimo mediatore, colto e pensoso letterato, allergico alle avanguardie, d’Amico; ambedue sfruttarono il fascismo, per quello che riuscirono. Bragaglia, ottenendo nel ’37 il romano Teatro delle Arti, che divenne quantomeno un embrione, non 31 Cfr. A.C. Alberti, Poetica teatrale e bibliografia di Anton Giulio Bragaglia, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 43; 49. In una fase in cui il regime avversava il teatro dialettale, Bragaglia arrivava, disinvoltamente, ad avallare le sue teorie con lo stesso accento di Mussolini, il quale possedeva «calore vigoroso, caratteristico, originale, nelle appoggiature romagnole: il suo “tipico” è romagnolo» (A.G. Bragaglia, Il segreto di Tabarrino, Firenze, Vallecchi, 1933, p. 245). A parte ciò, è interessante notare l’astuta difesa del dialetto, coperto dal mito della Commedia dell’Arte, che Bragaglia imposta sul D 165/1933, p. 39, dove – dopo un intervento di Luigi Antonelli, Un nonsenso: il teatro dialettale (D 163/1933, pp. 42-3) – ferveva un dibattito nel merito, insinuando (Tommaseo alla mano) che «i dialetti non sono che varianti di una stessa lingua». 32 A.G. Bragaglia, Il segreto di Tabarrino cit., p. 167.
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privo di ambizioni sperimentali, di «primo Teatro Stabile in senso moderno, apparso in Italia»33; d’Amico, animando il Convegno Volta del ’34 (dal quale furono esclusi non solo Bragaglia, ma pure tutti gli attori italiani)34 e rafforzando così i presupposti teorici per un teatro di Stato incentrato su autori e registi, su cui era al lavoro da anni35, nonché mettendosi a capo, nel 1935-36, della nuova istituzione dell’Accademia d’Arte Drammatica. L’Accademia, nella «soluzione [...] totalitaria» di d’Amico, era il perno: «Allora scena e scuola s’incontreranno» – scriveva il critico nel 1942 (intendendo per scena un teatro stabile) –; «allora teatro e cultura potranno essere tutt’uno. [...] E le ragioni dell’arte saranno salve», emarginando le espressioni del teatro dialettale, d’eccezione e digestivo (per recuperare espressioni in voga all’epoca)36. Anton Giulio Bragaglia era, invece, polemico con l’Accademia di Silvio d’Amico, presupposto di un «teatro d’arte», che si proponeva di creare interpreti «intesi unicamente a rendere la propria parte e a comporre, in perfetta coordinazione e subordinazione degli altri, il quadro scenico»37. A essa Bragaglia opponeva la scuola del palcoscenico, se non la dimensione formatrice delle filodrammatiche (organizzazioni allora assai popolari e intese come vere e proprie palestre di addestramento; vedi D 252/1937, pp. 35-6), ripetendo, nei suoi interventi sul «Dramma», che la regìa (e, in fondo, tutto il teatro) «s’impara facendo, come il volo s’impara volando» (D 228/1936, p. 28; 314/1939, p. 26; e ancora 18/1946, p. 40)38. D’Amico, d’altra parte, nel corso della sua cospicua militanza di critico, proR. Jacobbi, Teatro da ieri a domani, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 109. Vedi I. Fried. Il convegno Volta sul teatro drammatico. Roma 1934, Corazzano, Titivillus, 2014, pp. 118; 123. 35 «Si chiede l’intervento dello Stato etico alla vita d’un istituto intimamente etico: il Teatro drammatico, assemblea d’umani raccolti ad unità nella commossa partecipazione a un mistero rivelato dal Poeta»: è un po’ la sintesi del pensiero di d’Amico al Convegno Volta del ’34 (ivi, p. 221). Per un’idea del precoce progetto riformatore di d’Amico (in parte in sintonia con certe istanze di Bragaglia), si veda l’articolo del 20 giugno 1931 in S. d’Amico, Cronache 1914-1955, a cura di A. d’Amico e L. Vito, III, 2, Palermo, Novecento, 2001-2, pp. 506-7. 36 Ivi, IV, 3, pp. 645 ss. 37 S. d’Amico. Il teatro non deve morire, Roma, Eden, 1945, p. 130. 38 Vedi anche A.G. Bragaglia, Variazioni sulla regìa, Roma, Stab. Tip. Europa, 1936, pp. 27; 30. Ancora in una lettera del 18 aprile 1950, Bragaglia, scrivendo a Ridenti, continuerà a polemizzare con d’Amico: «In “Teatro” (n. 7, 1 Apr. 1950, p. 42) d’Amico scrive: “Meglio dove [il commediografo Antonio] Aniante parla di artigianato: a teatro, almeno, l’arte si fa movendo dal mestiere”. Egli, dunque, finalmente, riconosce che le Scuole e le Accademie non servono quanto le Compagnie dove il mestiere si impara; giacché “a volare si impara volando” come dico da 40 anni. D’Amico non pretenderà che le accademie insegnino perfino il mestiere: e siano l’artigianato che Aniante invoca!» (n. 4*). Il carteggio Bragaglia-Ridenti (del quale non si conservano le risposte) del Centro Studi torinese consiste di 448 pezzi. La numerazione a matita (occasionalmente irregolare) delle lettere che costituiscono questo epistolario si deve a Lidia Ronco, segretaria del direttore del «Dramma». 33 34
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iettò su Bragaglia un irriducibile sospetto d’irrisolto dilettantismo, e sottolineava: «Capovolgendo le concezioni di ieri, per cui nel teatro di prosa la scenografia contava poco e niente, egli assegna a scene e a luci la parte del leone; e pel resto lascia fare al destino. [...] Che attori ha Bragaglia? Qui comincia la sventura»39. Di contro, il regista si difendeva così: La critica è in generale accademia. [...] La critica non può amare i nostri esperimenti sull’istinto e sull’estro, se essa crede soltanto al metodo e alla regola. Non può stimare certi attori miei che, nelle dovute proporzioni, sono lo stesso che il Doganiere Rousseau. La critica cerca la grammatica. Ora nella letteratura e nella pittura tutti hanno capito che della grammatica non ci si deve temere; tanti nel teatro non ancora l’hanno appreso. Non si cerca un’arte drammatica interessante, la si cerca regolista! Noi, invece, siamo partiti con giovani che non erano mai andati a scuola (scuola teatrale). Figurarsi i professori! Ci hanno trattato da delinquenti... Eh, sì; questa è la rivoluzione. Squadrismo teatrale tra gente panciafichista...40.
«Il Dramma» dava credito a Bragaglia e, presentando la copertina del n. 347 del 1° febbraio 1941, a lui dedicata, lo salutava come l’artista che aveva rifondato «la dignità del Teatro, con l’avvento del regista in sostituzione del capocomicodirettore»: Oggi è facile dire “come è bravo Ettore Giannini” o Brissoni o Pacuvio ecc., ma quando il padrone del Teatro era Adolfo Re Riccardi e Olga Aillaud dettava legge per conto di Paolo Giordani41, ciò che oggi ci incanta per l’armonico insieme di uno spettacolo (e che si deve al regista) erano considerate “fesserie di Bragaglia”, che rinchiuso giorno e notte nelle Terme di Settimio Severo, a via degli Avignonesi, aveva fatto delle sue ossa una spugna – tanto era l’umido di quelle Terme – ma non [si] spostò mai neppure di un millimetro e dal “Teatro fatto alla meglio” (Indipendenti) insegnò a tutti, diciamo a tutti, come si doveva fare, avendone i mezzi, il Teatro fatto bene. E ora che i mezzi ci sono, e c’è – per fortuna per noi – il Regime, vediamo spettacoli che venti anni fa credevamo fossero incollati soltanto nel cielo dei russi, dei francesi e dei tedeschi.
39 S. d’Amico, Tramonto del grande attore, Firenze, La Casa Usher, 1985 (n. ed.), pp. 108-9. Non va comunque dimenticato che d’Amico, nel gennaio del 1927, si era speso a favore di Bragaglia affinché il teatrino degli Indipendenti non fosse chiuso perché classificato tra i locali notturni (A. Mancini, Tramonto (e risurrezione) del grande attore, Corazzano, Titivillus, 2009, pp. 131 ss.; vedi anche il Manifesto dei critici teatrali, in «Maske und Kothurn», 4, 1966, pp. 397-8). 40 «Index», dicembre, 1928, [p. 9]. 41 Riferimento alle potenti società impresariali che, nei primi due decenni del Novecento, controllavano i repertori stranieri (segnatamente quello francese), in un momento in cui il teatro italiano transitava dallo smercio della «“poesia” attoriale» all’«esecuzione cattivante d’un testo garantito da un marchio di fabbrica», con uno spostamento «dall’esibizionismo mattatoriale al motore drammaturgico della macchina scenica» (R. Tessari, Teatro italiano del Novecento, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 7 ss. e passim).
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E Bragaglia diceva: “Lo possiamo fare anche noi”, e tentava di farlo. Solo. Da solo. Da quei tentativi sono nati i lodatissimi registi di oggi. Ne siamo felici, ma ad Anton Giulio dobbiamo dire “Maestro”: gli spetta di diritto (p. 5)42.
Comunque, durante il periodo fascista, Ridenti − tutt’altro che contrario (secondo le direttive di De Pirro) a un serio programma di formazione degli attori italiani che li emancipasse da «divismo e guitteria» (D 215/1935, p. 4) – non fu ostile a d’Amico. Anzi, l’Accademia era stimata, sul «Dramma», «il più florido vivaio per le leve teatrali di domani» (D 343/1940, p. 5) e d’Amico stesso, del resto, era nel novero dei collaboratori di quello che definiva l’utile e «vivace periodico torinese», diretto «con tanta passione» da Ridenti (D 347/1941, p. 48)43. 42 Di spalla a questo commento della copertina, è interessante leggere anche una colonna (riconducibile a Ridenti) nella quale si riconosce comunque l’alta qualità del lavoro della «illustre attrice-regista» Tatiana Pavlova, che «al nostro teatro ha dato interpretazioni e regìe superbe». 43 D’altra parte, sulle sue colonne, nei confronti di detrattori come Giovanni Mosca, d’Amico poté difendere, con abili trucchi retorici, la propria idea di regìa come esercizio di «sensibilità e tecnica, mestiere e arte, esperienza e stile» (cfr. D 358/1941, p. 8), oppure – sollecitato da un
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«Il Dramma» diede ampio rilievo alla Storia del teatro drammatico di d’Amico (cfr. D 348/1941, p. 49), proprio l’anno in cui Bragaglia chiedeva che ne fosse condannata l’esterofilia e accusava insidiosamente il suo autore di essere il «Don Sturzo del teatro Teatro Italiano»44. Per questo, nel ’41, d’Amico si vide costretto a trascinare Bragaglia di fronte a un giurì d’onore, temendo che si proiettasse sulla propria persona un pericoloso sospetto di antifascismo. Ridenti allora pubblicò sul «Dramma» un appello alla riconciliazione, in nome dell’«affetto che portiamo ai due artisti tra i migliori del nostro Teatro» (D 356/1941, p. 43). Probabilmente, Ridenti era consapevole che, sulla linea del rinnovamento della scena italiana, nonostante tutto, potevano esserci temi su cui Bragaglia e d’Amico avevano motivo di convergere, tanto più che, pur con differenti sfumature, lottavano a favore di un coordinamento più organico della scena e per un teatro di Stato45. Non la pensava affatto così Bragaglia, che, in una lettera del 1° luglio 1941 (n. 49*), assai irritato, rinfacciava a Ridenti di «fare il pesce in barile» con una «mentalità quietista e pantofolaia, certo ispirata dalla [sua] bontà, stavolta importuna», che dava adito a un gesto «rimasto antipatico ad ambedue i contendenti»; del resto, l’odio «non si spegnerà mai, in me. Giacché dura da 20 anni» (9 luglio 1941, n. 50*). Bragaglia era altresì indignato per l’«ammirazione del verbo di Silvio d’Amico, che si manifestava nell’ultimo fascicolo di “Dramma”» (358/1941, p. 8), che aveva ospitato un articolo del critico, Alcuni venditori di fumo..., sulla regìa in Italia: «Se seguiti a lisciarti Silvio d’Amico» – minacciava – «ti faccio scegliere tra me e lui. [...] Tu sei neutrale, ma io no. [...] Qui stiamo col coltello in mano, e tu mi fai il Monsignore...» (17 luglio 1941, n. 52*)46. intervento del giovane Gerardo Guerrieri – riformulare la costituzione della Compagnia dell’Accademia nell’opportuna cornice della «soluzione totalitaria» di un «teatro stabile» nazionale (cfr. D 384/1942, pp. 5-6). 44 C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 93-4. 45 Il carteggio privato consente di rilevare maggiormente i punti di contatto fra Bragaglia e d’Amico: «Ma sul punto essenziale siamo d’accordo: via i guitti e ben venga il corago»; «Mio caro Bragaglia, noi abbiamo litigato spesso, e chissà quante volte litigheremo ancora. Ma il punto su cui pure c’incontriamo, e ci incontreremo sempre, mi pare bene che sia questo: la guerra alla bottega»; così d’Amico a Bragaglia, il 25 aprile 1928 e il 27 ottobre 1930 (vedi i documenti in A. Mancini, Tramonto (e risurrezione) cit., pp. 126; 161 ss.; 179). Una valutazione raffinata delle consonanze e dissonanze fra il fondatore degli Indipendenti e d’Amico è pure in U. Artioli, Bragaglia e il “teatro teatrale” all’epoca degli Indipendenti, in «Il Castello di Elsinore», n. 19, 1994, pp. 69 ss., il quale, tuttavia, tende ad attribuire a Bragaglia una comprensione parziale e faticosa del dibattito continentale sulla regìa. 46 Alla fine della vicenda, in una lettera di Bragaglia a Ridenti del 13 luglio 1942, leggiamo: «La Giuria riconoscendo che d’Amico ha insistito per 20 anni a sottovalutare la mia opera al T. Indipendenti e al Teatro delle Arti, mi ha giustificato (per quanto poi, abbia costretto me a fare le spese del Giurì). Inesatto è stato il pensare che la vertenza sia chiusa. Ma se è appena cominciata!
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Sino alla fine della guerra, Ridenti riuscì comunque a tenersi in equilibrio fra i due avversari.
5. Un giornalismo liberale Man mano che si stringeva il cappio dell’autarchia culturale con l’avvento delle leggi razziali e l’imminenza del secondo conflitto mondiale, Bragaglia soccorse «Il Dramma» con un repertorio di testi vario e così brillante che – nella durezza di una tarda polemica contro Ridenti (cfr. § 4 del cap. IV) –, con un autentico scatto d’orgoglio e d’imperio, in una lettera del 3 gennaio 1953, avrebbe rinfacciato all’amico di non ricordare più chi gli aveva «sollevato» la rivista «quando pubblicava merde»; a tirarla su – si vantava non senza qualche ragione il regista – «sono stato io col mio repertorio dato gratis (come quasi gratis ti ho dato 50 articoli)» (n. 76*). Arrivò infine la guerra: La rivista uscì regolarmente fino al 15 luglio 1944 (430 fascicoli). Dal 1° ottobre 1944 (N. 431) al 16 aprile 1945 (N. 466), la rivista fu diretta, per ragioni politiche, da Cipriano Giachetti47, chiamato appositamente da Firenze, perché Ridenti, abbandonando ogni e qualsiasi attività, aveva raggiunto all’estremo limite della provincia di Biella il suo gruppo della Resistenza» (CLR*).
Qualunque opinione avesse davvero avuto Ridenti sul fascismo, molti segni fanno intendere che gli anni fra il ’43 e il ’45 (e tanto più quando dovette allontanarsi dal «Dramma») furono di sentito travaglio personale e di maturazione di un sincero spirito liberale: Io [vivevo] a Ponte Guelpa, al limite della provincia di Biella, una frazione che aveva aspetti crudeli e selvaggi da film western, e dove l’agguato era continuo e comune. [...] in quel tempo desolato e in quel luogo di esilio, dove più volte il giorno ci si buttava “pancia a terra” per la frequenza degli scontri fra i nostri “ragazzi” partigiani della zona, ed i tedeschi che tentavano continui avvicinamenti. Ma il luogo era così infido per essi che già a qualche chilometro di distanza avevano collocato un cartello con la indicazione del pericolo, riassunto nell’unica parola – Bànditi – accentata alla maniera di Stanlio e Ollio doppiati in italiano48. Ho 52 anni: ne camperò 100... Ne ha da ricevere mazzate S. d’Amico!» (n. 74*). Vedi in merito anche quanto scrive d’Amico sulla vicenda in Il teatro non deve morire cit., p. 68; F. Vigna, Il “corago sublime”. Anton Giulio Bragaglia e il “Teatro delle Arti”, Soveria Mannelli, Rubettino, 2008, pp. 71 ss., e per una lettura della relazione con Bragaglia nella chiave della famiglia d’Amico, A. Mancini, Tramonto (e risurrezione) cit., p. 203. 47 Su Cipriano Giachetti, vedi anche D 52/1928, p. 4. 48 L. Ridenti, Ritratti perduti cit., pp. 122-3.
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Con la liberazione, Ridenti tornò al timone della sua rivista, varandone una Nuova Serie e mutandone il sottotitolo in «quindicinale di commedie di grande interesse». Ora, al luccichio del successo subentrava l’impegno, anche se, in buona sostanza, si continuava su una linea che era stata avviata da Bragaglia. Ridenti non mancava tuttavia di correggerla, secondo il suo estro, con una certa promiscuità qualitativa dei copioni offerti ai suoi lettori: «Forse» – chiedeva – «che in letteratura si pubblicano soltanto “Divine Commedie”?». Per il direttore del «Dramma», «un teatro piacevole [...] è necessario quanto quello culturale» e André Roussin può andare benissimo sulle scene, visto che non ci si può cibare sempre di fagiani come alla mensa del re Sole: «Anche le lenticchie sono cibo, utilissimo e preziosissimo» (D 37/1947, p. 5; D 3523/1966, pp. 113-4). «Lo spettacolo» − pensava Ridenti (non insensibile, per indole e formazione, al teatro d’evasione) − «non esclude la cultura; ma la cultura non deve opprimere lo spettacolo. Altrimenti si distruggono a vicenda ed alla fine si rimane con le mani vuote»; a teatro, «il pubblico vuole illusione, piacere, gioia della sua vita stessa» (D 235/1956, p. 4; 343-4/1965, p. 4). La rivista, in tal modo, non perse né una sua mai estinta lievità d’origine né una flessibilità di linea, restando pure disponibile – nell’ottica sentitamente liberale del giornalismo di Ridenti e nonostante tutte le sue personali impuntature – all’allineamento di prospettive culturali e opinioni critiche anche divergenti, in una galleria che è stata considerata, in definitiva, una sorta di esibizione del «volto umano del teatro italiano»49. Nel 1946, nasce «Sipario», che si pone, fin dal primo numero, in concorrenza con «Il Dramma», non tanto nel piuttosto pacato e generico editoriale di Ivo Chiesa50, quanto puntando, con implicita audacia, sulla pubblicazione delle 49 F. Angelini, Politiche culturali e critica teatrale: note sulle riviste italiane degli anni ’50, in «Quaderni di Teatro», n. 5, 1979, pp. 42-3. Pertanto e tra l’altro, nel dopoguerra, si potranno leggere sul «Dramma» sia l’apologia della funzione registica «come principio chiarificatore e unificatore dello spettacolo», affidata a un attore di milizia viscontiana quale Paolo Stoppa (D 34/1947, pp. 46 ss.), sia gli arzigogolati distinguo sul tema di Diego Fabbri (D 35-6/1947, p. 60) o l’opinione favorevole all’egemonia degli autori di Gino Damerini (opinione orientata, tuttavia, prevalentemente a giustiziare la messinscena dei Sei personaggi pirandelliani presentata da Orazio Costa con una compagnia formata da elementi dell’Accademia, «inesperti che recitano da filodrammatici»; cfr. D 70/1948, pp. 46 ss., ma anche il conseguente strascico polemico sul D 71/1948, p. 7 e 73/1948, p. 7). Quando, tuttavia, sia Basil Maloney, corrispondente da Londra (toccata dalla Compagnia dell’Accademia in un’importante tournée internazionale), sia Eric Bentley (D 72/1948, p. 40; 88/1949, p. 42) parleranno favorevolmente di questo spettacolo, Ridenti non attenuerà in alcun modo l’opinione dei critici stranieri. L’avversione, a questa altezza temporale, conclamata per d’Amico e Costa trovava un argine nell’etica giornalistica del direttore del «Dramma». 50 Ivo Chiesa era peraltro legato a Ridenti da rapporti di amicizia (che non avrebbero impedito occasionali frizioni su questioni professionali), oltre che di gratitudine intellettuale: «Tu non imma-
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Mosche di Jean-Paul Sartre e, forse, ancor di più, attaccando un articolo di Bragaglia ospitato sulla rivista di Ridenti (vedi la nota 41 del cap. III). A prescindere dal fatto che i rapporti con «Sipario» furono anche collaborativi, specie nella comune difesa dell’indipendenza giornalistica a fronte delle invasioni di campo patrocinate dall’Istituto del Dramma Italiano (IDI) (cfr. D 119/1950, p. 55)51 e che lo stesso Sartre sarebbe entrato a far parte degli autori della rivista torinese52, Ridenti non restò inerte e – con la sua caratteristica duttilità – cooptò nuovi collaboratori, tra i quali spiccava Vito Pandolfi (comunista problematico quanto si vuole, lontano sia da d’Amico che dal Piccolo di Milano, ma sostenitore di «un consapevole ritorno dell’attore italiano alle sue origini»)53, non lesinando concessioni alla cultura di sinistra che occasionalmente facevano fremere Bragaglia54. Fra i collaboratori della rivista, insieme a importanti firme straniere (Marcel, Copeau, Jouvet, Baty ecc.), si segnaleranno Mario Apollonio e Sergio Tofano, oltre a Italo A. Chiusano, Elio Vittorini e Alba de Céspedes. Abbastanza calibrata l’alternanza di copioni italiani e stranieri, nonostante Ridenti, che nel corso del gini quale parte abbia avuto il “Dramma” negli anni della mia formazione» (lettera a Ridenti del 9 novembre 1950*). 51 Sul «Dramma», «Sipario» è altresì ricordata come «rivista pulita e per bene» (D 177/1953, p. 59). Nel 1953, le due testate organizzarono ancora un «libero» convegno a Bologna al fine di favorire il dibattito su una legge sul teatro in gestazione (cfr. D 184-5/1953, pp. 11-2; 63 ss., 186/1953, pp. 61-2). 52 Va ricordato che, nel gennaio del ’63, il n. 316 del «Dramma» stampa, dando grande evidenza alla drammaturgia sartriana, Il diavolo e il buon dio, copione boicottato e denunciato per «vilipendio alla religione», pur dopo l’abolizione della censura nel 1962. Ivo Chiesa ora allo Stabile di Genova, che farà girare con difficoltà lo spettacolo, per la regìa di Luigi Squarzina, sarà molto grato a Ridenti per essersi «esposto tanto coraggiosamente con la [sua] “nota” personale e con la decisione di pubblicare il testo» (lettera del 15 gennaio 1963*). Nella nota sul D 315/1962, p. 123, Ridenti aveva definito il copione sartriano «scabroso e talvolta anche ingrato, ma di alto pensiero», dissentendo da (ma caratteristicamente rispettando) la recensione di Enrico Bassano alle pp. 119 ss. dello stesso fascicolo. 53 C. Meldolesi, Fondamenti cit., pp. 153-4, ma anche p. 372. Peraltro, in una lettera a Ridenti del 4 agosto 1951*, Pandolfi si riteneva un intellettuale abbastanza controverso da essere considerato dai democristiani «sovversivo, e dai comunisti un cosiddetto deviazionista». «Il mio lavoro per “Dramma”» – aggiungeva – «è sempre e soprattutto un gesto d’affetto e di solidarietà per te e per la rivista». Sulla necessità di «rivalutare la funzione e la figura dell’attore» da parte di Pandolfi, si veda anche la lettera del 22 aprile 1953*, in relazione alla sua Antologia del grande attore in pubblicazione da Laterza nel 1954. Quest’opera aderisce alle ragioni polemiche caratteristiche di Ridenti sul primato dell’attore nell’arte scenica: «A Parigi c’è televisione, cinema e tabarins, e pur tuttavia il teatro fiorisce. Perché? Perché ci sono attori che lottano per esso. Attori che sanno fare i registi come J.L. Barrault e Vilar, e non si lasciano menare per il naso dal primo ambizioso di provincia che si classifica regista. La colpa non è delle circostanze, ma degli uomini». 54 Si vedano in merito le proteste di Bragaglia per gli sconfinamenti a sinistra: lettere nn. 203 e 205, a Ridenti, del 28 marzo e del 2 aprile 1947* (in quest’ultima, s’insinua che certi «amoreggiamenti» con la scena sovietica siano indotti da Pandolfi).
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conflitto aveva sostenuto la drammaturgia internazionale, ora spingesse decisamente a favore dei negletti autori di casa nostra55. Comunque, dall’immediato dopoguerra e a seguire, sul «Dramma», alla rievocazione della tradizione italiana (mai trascurata) e alle cronache del nostro teatro si abbinerà e consoliderà un ampio panorama informativo che tratterà di Artaud, Vachtangov, Piscator, Toller, Brecht, del teatro esistenzialista, di Genet, Beckett ecc. Il tutto, ovviamente, presentato con un sobrio senso dell’informazione e una programmatica chiarezza dell’esercizio critico56 e, talora, con una certa ruvidezza, partendo dall’assunto, caro al direttore, che soprattutto il «teatro di “rottura”» non andava mai avvicinato «con compiaciuta “cultura” da magazzini Upim», cioè «senza tener conto che ogni vent’anni il teatro rompe per necessità di vita. Pirandello, Bontempelli, Rosso, Chiarelli, Cavacchioli, Antonelli che cosa hanno fatto vent’anni fa, se non rompere? [...] Si vuol dare merito maggiore a Wilder, Brecht, Jonesco, Beckett? tra vent’anni i nomi saranno altri, perché i criteri e le espressioni di vita saranno articolati in altro modo» (D 281/1960, p. 4). Certo, su questa linea, bisogna abituarsi alle escursioni atmosferiche sulle pagine del «Dramma». Così, pur dando spazio al «teatro dell’angoscia», Ridenti non arretra di fronte a un’ampia rievocazione di quello du Boulevard – che ormai «appartiene al ricordo» e (non si cerca di nascondere) neanche brilla di «vera durevole genialità», magari come l’«imperversante» teatro esistenzialista «forse altrettanto modesto ma meno sereno» (D 112/1950, p. 34) –, né ha problemi a pubblicare il Breviario di Brecht nello stesso numero che ospita Il pretore De Minimis di Guglielmo Giannini (D 127/1951). Da questo modo screziato e pure smagato di concepire e soprattutto mettere in prospettiva la narrazione delle vicende del teatro, ostentate nella loro effettiva varietà – fra nostalgia del passato e passione del presente –, affiora un prodotto giornalistico peculiare, che solleciterà a Vito Pandolfi, in una lettera a Ridenti, l’opinione che «una rivista come “Dramma” serve la storia del teatro, non la cronaca», dimostrando generalmente «una proporzione delle cose superiore agli entusiasmi della cronaca» (26 dicembre [1952]*). Intanto − a detta dello stesso Ridenti −, «Il Dramma» sarebbe diventata «la voce più autorevole del teatro italiano all’estero» (D 234/1956, p. 4), e il carteggio con Guglielmo Giannini c’informa che, nel 1948, con tutta la concorrenza di «Sipario», la rivista era in 55 «Ma siamo l’unica nazione al mondo, lo abbiamo scritto mille volte, che sovvenziona la produzione straniera, mentre la nostra cara sorella latina, i nostri autori li “adatta” cioè li distrugge allegramente, e li sfotte pure» (D 305/1962, p. 2). 56 «Quando invece, recensendo si scrive “analogamente la polidimensionalità della struttura semantica è assai diversa dalla struttura stereometrica” [Paolo Chiarini: Brecht e Pirandello] che dobbiamo fare?» (D 304/1962, p. 8).
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ottima salute, tirava 34.000 copie ed esservi pubblicati, per un autore, restava un ambìto privilegio. Discorso a sé meriterebbe poi la continua e raffinata innovazione grafica della rivista, anch’essa parte non secondaria di una ferma volontà di Ridenti di restare aggiornato e tenere il campo da contemporaneo. Sotto il profilo giornalistico, Pandolfi riteneva il nuovo «Dramma» superiore a «Sipario», che, a suo parere, però, aveva il vantaggio di pubblicare copioni migliori (lettera a Ridenti del 20 gennaio 1956*). Jacobbi vorrà altresì sottolineare l’attività di lungimirante diffusione della cultura teatrale che le collane editoriali, varate da Ridenti e parallele al «Dramma», portarono avanti nel dopoguerra, proponendo autori tutt’altro che scontati nel panorama nazionale come August Strindberg (D 1-2/1973, p. 58)57. Tuttavia, una certa asfissia della nostra scena, a metà degli anni Cinquanta − fase nella quale si registra a livello statistico addirittura un dimezzamento del pubblico teatrale −58, induce la rivista a trasformarsi da quindicinale in mensile. Spiegava Ridenti: Il teatro di prosa è troppo povero: la nostra rivista quindicinale è divenuta sproporzionata alla sua modesta esistenza. Se il lettore vorrà riflettere un momento, si renderà conto che da maggio a novembre, in Italia, la scena di prosa non esiste del tutto, tenendo relativamente conto delle poche recite estive, peraltro scontate tutte tra luglio e agosto, e che stanno insieme riunite in poche pagine di un fascicolo. Che cosa si deve mettere ogni quindici giorni, oltre una commedia che si trova sempre, liberi come siamo di poter scegliere i testi nel teatro di tutto il mondo, se l’avvenimento teatrale di prosa è sempre scarso o manca completamente? È necessario ricorrere ai paesi stranieri, dare a questi non lo spazio utile all’informazione – come dovrebbe essere – ma una superficie di carta stampata assolutamente sproporzionata. Non ci sembra né giusto né di buon gusto (D 217/1954, p. 3).
L’analisi pessimistica e critica sulle trasformazioni della vita teatrale, che increspa queste righe desolate, era divenuta, dopo la guerra, un umore costante e caratterizzante del «Dramma». La passione del presente di Ridenti, dopo la liberazione, s’era progressivamente incupita e, sugli spalti del «Dramma», il suo direttore aveva eretto un’ascoltata e spesso sferzante tribuna polemica, facendosi forte quasi in ogni Taccuino (l’appassionato editoriale di apertura) della propria lunga militanza nel teatro e del disinteresse personale. Questo rese caratteristica e persino temibile
«Collana “Teatro” – testi teatrali di autori di tutto il mondo, 35 voll. (1943-1953). / Collana “I Capolavori”, testi di classici, 6 voll. (1945-1951)» (CLR*). 58 Oltre a svariati Taccuini di Ridenti, per la crisi del teatro di prosa in questo periodo, vedi anche C. Meldolesi, Fondamenti cit., pp. 287; 524-5. 57
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la rivista, ma anche più considerata dalla comunità teatrale e Ivo Chiesa, per fare un solo esempio, era lusingato per la mera citazione dello Stabile di Genova in un editoriale di Ridenti, «positivamente, si intende... – su quei tuoi neretti che aprono “Il dramma”, e che sono certo fra gli scritti teatrali più letti del nostro paese, [questo] significa molto, significa qualcosa cui non si può non essere sensibilissimi» (lettera del 12 ottobre 1962*).