Indice
Introduzione 7 di Stefania Mola Prologo
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La testa dell’emiro
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Il piede dell’angelo
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La barba del principe ovvero la chiesa del diavolo
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Le gambe del colosso
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Il ventre del generale
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Gli occhi della masciara 137 La mano del pescatore
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Epilogo 169 Ringraziamenti 175 Bibliografia 177 Note 181
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Prologo
L
a luce biancastra di un freddo tramonto di fine febbraio riverberava contro il grigio delle basse case che irruvidivano il borgo di Taranto. La città era un nastro sfrangiato messo lì a ornare un qualsiasi volgare orlo di terra a ridosso del Mar Grande, il quale, dal canto suo, se ne infischiava di freddo e luce e continuava a borbottare placido per i fatti suoi, producendo casuali increspature schiumose che attimi dopo inghiottivano se stesse per riapparire altrove. Si sarebbe potuto dire che quella fosse la sua perpetua condizione: sempre lievemente agitato, mai del tutto calmo. Solo i cittadini, poveri loro, conoscevano la verità circa i suoi eccessi: meglio non fidarsi di quella calma apparente, ché come volti le spalle, ahitè. E a proposito di cittadini... dov’erano, i cittadini? Stanchi per la fatica della giornata trascorsa per tre quarti, disincantati dalle continue promesse di primavera mai mantenute da quel febbraio malandrino, quasi tutti i tarantini si erano già rintanati nelle loro case. Cenavano, pregavano, dormivano. I fortunati facevano l’amore, gli sfortunati lo subivano. Pochi erano coloro che si erano attardati fuori casa, molti di più quelli che non ne possedevano una. Gli unici ad aggirarsi per la città erano mendicanti intirizziti, pescatori tardivi intabarrati nelle proprie reti, uomini e donne che avevano fatto di un angolo di strada la propria casa. Era impossibile distinguere i fantasmi apparenti dai fantasmi reali. Il Mar Piccolo, un utero di lapislazzuli incastonato nella città, brulicava di triglie, orate, cozze e polpi allevati nei vivai, ma nel com15
plesso appariva addirittura più tranquillo del Mar Grande. A ben vedere, i due mari sembravano fratellastri che si facessero dispetto a vicenda, il maggiore mostrando i muscoli, il minore voltandogli le spalle con insolenza. A far da paciere c’era un piccolo isolotto di vaga forma quadrangolare provvidenzialmente piazzato nel punto dove Mar Grande e Mar Piccolo avrebbero dovuto scontrarsi. In questo modo i loro contatti erano ridotti a un pacifico e forzato abbraccio, una mendace coppia di strette di mano costituita da due minimi canaletti che scorrevano ai lati dell’isolotto. Esso era il cuore più antico della città, il suo nucleo primigenio, lo scrigno che conteneva le ultime sporadiche vestigia di un’epoca in cui Taranto era stata una megalopoli temuta e rispettata in tutto il mondo, o almeno quello che allora si considerava tale. A ridosso dell’angolo nordoccidentale di quel fazzoletto di roccia si stagliavano le torri del castello, da secoli a mollo nelle acque plumbee del golfo. Luci fioche, quasi fatue, venivano accese pian piano da pigri soldati che si accingevano loro malgrado a trascorrere una gelida notte di ronda. Più in basso, dove la pietra levigata lasciava progressivamente spazio allo scoglio, c’era un’ansa seminascosta entro la quale le imbarcazioni venivano tirate a secco, talora provvisoriamente, il più delle volte per sempre. Alcune erano integre, altre ridotte a carcasse putrescenti. In quel tratto di scogliera, secoli di trascinamenti di barche e la mano di qualche pescatore particolarmente abile con lo scalpello avevano reso le rocce meno aspre del resto della scogliera. Diverse ore prima Cataldo aveva remato con la sua barca fino al promontorio, cercando di avvicinarsi il più possibile alla riva dove lo attendevano cinque uomini. Aveva annodato le cime di sei gomene agli appositi anelli sui bordi della barca; nonostante gli fosse rimasta la sola mano sinistra, era in grado di compiere quell’operazione molto più velocemente di tutti i suoi amici, e di stringere nodi più robusti. Aveva quindi gettato l’estremità di cinque corde ai suoi compagni, i quali le avevano acchiappate al volo: ne aveva tenuta una per 16
sé, quella più lunga, se l’era avvolta intorno al braccio monco come un sinuoso serpente ed era sceso dalla barca. I suoi piedi avevano toccato un fondo limaccioso e duro sotto l’acqua gelida. Si era quindi messo a capo dei tiratori e aveva gridato una sola, minima frase, ibrido tra un comandamento e una formula magica: «Oh... Vinn!». A quel suono, lui e i suoi compagni avevano tirato contemporaneamente tutte le gomene; ricevuto il forte scossone, la barca era balzata in avanti per trovarsi metà in acqua e metà sulla scogliera. «’Ndò sta Cellino?», aveva chiesto, non vedendo il settimo componente della brigata, quello col compito più importante. In quella era apparso un ragazzino gracile, con addosso nient’altro che un paio di braghe di tela a combattere il freddo. Era di certo il più piccolo tra loro, e recava in mano due grossi prismi di legno su un lato dei quali era stato praticato un intaglio concavo spalmato di sugna. «Sto qua», aveva risposto Cellino agitando i cunei per aria. Cataldo aveva annuito paziente e con un cenno del capo gli aveva indicato la barca. Subito lui era corso a mettere uno dei cunei sotto la chiglia della barca e l’altro a circa mezzo metro di distanza, per poi gridare «Va’! Va’!». In quella i sei tiratori avevano voltato le spalle alla barca e si erano avvolti l’estremità della corda attorno al braccio come prima Cataldo, il quale di nuovo aveva dato l’ordine «Oh... Vinn!». La barca, scivolando sul primo cuneo, aveva raggiunto e oltrepassato il secondo, sul quale era rimasta in precario equilibrio; Cellino, zelante, aveva recuperato il primo cuneo per riposizionarlo sotto la chiglia. «Va’! Va’!» «Oh... Vinn!» Questa sequenza si era ripetuta diverse volte: Cataldo gridava l’ordine e tirava assieme ai compagni, Cellino raccoglieva i cunei e li alternava per farvi scivolare sopra la barca sempre più velocemente. Lo strato di grasso si assottigliava e seccava sempre di più causando 17
sinistri scricchiolii, ma il tragitto era breve e una nuova unzione non si era resa necessaria. La singolare processione aveva raggiunto infine la distesa di barche tirate in secco. Cataldo aveva gridato «S’avast! S’avast!» e Cellino aveva recuperato i cunei senza rimetterli a terra. Con un unico, potente grido di fatica i sei tiratori avevano dato l’ultimo strattone alla barca, che era crollata per terra con un tonfo pesante. Era stata poi guidata a viva forza fino a uno spazio vuoto. Cataldo aveva emesso allora un «Oh...» prolungato e in diminuendo. Tutti avevano smesso di tirare; cinque uomini si erano recati subito a liberare l’imbarcazione dalle corde, mentre Cataldo era corso a controllare se il legno di fondo avesse subìto danni. Questo accorgimento era in realtà inutile, poiché la barca aveva raggiunto la sua meta definitiva; ugualmente Cataldo riteneva che meritasse un pensionamento decoroso, con tutti i riguardi a essa dovuti. Dopo aver constatato la totale assenza di danni, soddisfatto, il pescatore aveva rivolto ai suoi compagni un grande sorriso e aveva detto: «Grazie, amici. Grazz’assaj». La compagnia si era dispersa rapidamente: i cinque pescatori adulti e la piccola recluta avevano raggiunto il grigio silenzio della città. Cataldo si era invece trattenuto in quella specie di cimitero delle barche per compiere ultime operazioni del tutto inutili e per questo tanto più significative. Salire sulla barca a secco gli aveva fatto uno strano effetto, senza l’acqua che ristagnava sul fondo a gelargli i piedi nudi, la chiglia immobile senza le onde a cullarla... il pescatore si impose di concentrarsi sulle reti logore e distinguere quelle ormai troppo consumate da quelle che invece avrebbe potuto regalare a qualche suo compagno perché le adoperasse finché fossero durate. Intanto il freddo tramonto di fine febbraio era giunto di soppiatto, e quando Cataldo aveva levato la testa vi si era ritrovato immerso. Il pescatore aveva tratto un sospiro lacrimevole: era l’ora di riprendere la via di casa. Tuttavia, nello stesso momento in cui era balzato giù 18
dalla barca, si era accorto di non essere solo. Un uomo era seduto su un muricciolo poco distante. Cataldo strofinò le dita sugli occhi finché non gli bruciarono, come per essere sicuro di non aver avuto un miraggio: l’aspetto dell’uomo era del tutto fuori posto in quel luogo ricoperto da un perenne strato di salsedine e con l’aria greve di alghe fermentate. Era piuttosto alto e molto grasso, con una buffa testa che gli ricordò quella di una testuggine; il colore della sua pelle era di un grigio indeciso, e aveva capelli brizzolati composti in riccioli lanuginosi che gli si mantenevano drizzati sul cranio come un mazzo di asparagi. Indossava un completo di velluto nero con tanto di panciotto, cravattino e scarpe lucide tutte inzaccherate di fanghiglia e calce. Nonostante il freddo era sudato e ansimava come se avesse corso sette volte lungo il perimetro di Taranto. Quando gli occhi di Cataldo lo avevano inquadrato, l’uomo si era affrettato a far scattare la testa in direzione del mare, ma era chiaro che lo avesse osservato fino a quel momento; probabilmente aveva sovrinteso a tutte le operazioni condotte in precedenza. Sulle prime Cataldo grugnì e pensò di rimettersi a badare ai fatti suoi; poi si ricordò di essere, tutto sommato, un brav’uomo, e decise di mostrarsi educato e distinto, per quanto potesse esserne in grado. «’Ngiorno!», gridò all’uomo levando in aria il braccio buono. «Buongiorno!», rispose quello senza rivolgergli lo sguardo, «Anzi, sarebbe più opportuno dire “buonasera”, vista l’ora». «E che volete, signo’», lo rimbeccò il pescatore, «io non lo tengo, uno di quelli», e indicò col mento la catenella d’oro che spuntava dal taschino del panciotto, di certo assicurata a un prezioso oriolo. L’uomo si affrettò a nasconderlo con un gesto fulmineo, poi fece spallucce. «Fa freddo, eh?», proseguì Cataldo, sentendosi in dovere di condurre la conversazione. «Abbastanza», rispose l’uomo senza scomporsi. «Certo, dalle vostre parti deve farne di più, no, signo’?» 19
Il pingue uomo si voltò a guardarlo sorpreso. «Come avete capito che non sono di qui?», domandò, le sopracciglia inarcate in una buffa espressione inquisitiva. «Eh... signo’, che vi devo dire», rispose Cataldo segretamente lusingato, «c’avete un modo strano di parlare... le g sembrano delle s, dité tutté le parolé in questo modò, tutte chiuse chiuse chiuse, strette strette... e poi fate la r come che dovete sputare. Qualcosa mi dice che venite dalla Francia». «Avete indovinato», plaudì quello, senza lasciar trasparire alcuna ammirazione. «E che ci fate, qui a Taranto?» L’uomo lo guardò visibilmente infastidito. «Cerco cose», ripose evasivo, e continuò ostinatamente a guardare il mare. Cataldo era al tempo stesso affascinato e offeso da quel francese: c’era stato un periodo, non troppi anni prima, in cui Taranto era piena di suoi connazionali, ma era da un bel po’ che non se ne vedeva uno. Quello, poi, era particolarmente distinto e ben vestito; i suoi modi, tuttavia, sconfinavano nella boria pura, tanto che per un attimo fu sul punto di andarsene e lasciare il misterioso ospite ai fatti suoi; poi però si disse che valeva la pena dargli un po’ di fastidio, anche solo per punire quella sicumera che lo aveva innervosito. «Che, vi dispiace se mi siedo qui?», chiese indicando il muretto. L’uomo lo guardò con la bocca arricciata: Cataldo era piuttosto certo che quell’elegante signore non avesse mai visto capi di vestiario tanto diversi dai propri quanto quelli che indossava lui, né una tale concentrazione di lordura e grasso su un solo corpo umano. Nondimeno si esibì in un ampio, pomposo gesto del braccio che riassumeva l’invito a sedersi, possibilmente abbastanza lontano da tenere alla larga l’odore di pesce, almeno quello. «Mi riposo giusto un attimo», assicurò Cataldo mentre claudicava in sua direzione, «poi me ne vado. Ah, come sto stanco, signo’! Non 20
potete nemmeno immaginare!», e con un gemito simile a un ringhio si accomodò sul muretto di roccia. «Certo che posso», rispose l’altro, «vi ho osservato, sapete? Mentre tiravate la barca». «Uh, ma allora stavate qua da tanto, signo’! Mica vi avevo visto! Da come state affannato, mi credevo che eravate arrivato mo, di corsa.» «Soffro d’asma», replicò oltraggiato l’altro, «e comunque sono stato attento a non disturbarvi, sembrava una procedura delicata.» «Una pro... che?» «...Un procedimento, un’operazione... insomma, eravate molto impegnati! Da che sono in Italia, non avevo mai visto una cosa del genere.» «Eh, lo so signore. Non succede spesso.» «Ah, no? Pensavo fosse una cosa frequente, se non addirittura quotidiana...» «No, signo’, no. Le barche le lasciamo in acqua il più possibile, ormeggiate al porto. Le tiriamo solo per ripararle, qualche volta per pulirle...» «E questa quale delle due situazioni è?» «Nessuna delle due, signo’. La mia barca non prende più il mare. Io da oggi non ci vado più, a pescare.» Il francese rimase a osservare con attenzione Cataldo, e per la prima volta sul suo volto arcigno fece capolino la parvenza di una sincera, umana compassione. «Mi dispiace», disse poi atono, «posso chiedervi come mai?». Cataldo fece spallucce. «Sono vecchio, signo’. E poi c’ho questa», e sollevò il moncherino, «se c’avevo tutte e due le mani, qualche altro anno me lo facevo pure. Ma così no. È troppo faticoso, troppo difficile e a fare certe cose nemmeno ci riesco più». «Capisco. E ora come vivrete?» «Beh, di fame non ci muoio sicuro», rise rauco Cataldo, «c’ho una moglie che fa la sarta, sa cucire pure le reti e le vele ed è bravissima. 21
C’ho un po’ di terra in campagna e qualcosa la produco. E poi c’ho sei figli: tre sono grandi e sposati, tre ragazzini... ce n’erano pure altri tre, ma sono morti. E non mi guardate così, signo’! È una cosa normale, che sono morti! Pure io devo morire e pure voi. Io prima, se non vi capita qualcosa». «Mh-mh», annuì l’uomo toccando con noncuranza la testa di un chiodo di ferro che spuntava dal muretto. «Sentite, posso chiedervi invece come avete fatto a perdere la mano? Se non vi disturba, beninteso...» «Che vuol dire “beninteso”? Voi parlate tutto strano, signo’! Forse vi capivo di più se parlavate francese! Comunque, signo’, non è una storia bella, sapete. Fa pure un po’ paura, non so se vi può...» «Oh, vi prego, raccontatemela!», implorò l’uomo con un tono quasi infantile, e in men che non si dica estrasse dalla giacca un logoro taccuino e un lapis. «Mi volete disegnare?», chiese Cataldo stralunato, «Ma voi siete un pittore!». «Oh, no, no», ridacchiò l’altro, «vedete, amico mio, io sono uno scrittore. Sono certo che quella di quando avete perso la mano sia una storia molto pittoresca, e potrei trarne ispirazione per i miei racconti...». «Uno scrittore!», esclamò stupefatto Cataldo, «Quindi era questo, che stavate cercando? Delle storie?». L’uomo arrossì vistosamente. «In un certo senso», rispose. «In effetti mi interessa tutto ciò che fa parte del passato, della storia, tutte le cose e le persone che magari sono state dimenticate...» Gli occhi del francese guizzarono per un istante in direzione del castello. Cataldo ebbe la netta impressione che quel tizio gli stesse deliberatamente nascondendo qualcosa. «Che vi devo dire, signo’», iniziò Cataldo, «io di storie del passato ne so tante, e so pure tante cose che sono state dimenticate. Che può valere la mia mano e come l’ho persa? Alla fine, a un certo punto e 22
per certe ragioni, zac! E la mano non ci stava più. Fa pure un po’ schifo, se posso dire». «Ma la gente adora queste cose, sapete?», rispose il francese deliziato, «C’era un tale, in America, che è diventato famosissimo con queste storie. Io ho pure tradotto qualche suo testo». «E questo qua scrive di mani mozzate?» «Non ricordo se abbia mai parlato di mani mozzate», ammise il francese, «ma di spiriti, misteri e decapitazioni sì. E il pubblico ne va matto». «Se lo dite voi, signo’», Cataldo storse le labbra incredulo. Poi, come colto da un’improvvisa illuminazione, distese il volto, le braccia, l’intero corpo: «Signo’! Ma io conosco una storia che parla di tutte ’ste cose! E parla pure del passato e di cose dimenticate, come vi piace a voi!». «Davvero?», chiese sbigottito il francese, «E chi ve l’ha narrata?». «Certi amici miei di Bari. Conoscete Bari, signo’?» «Di nome sì, ma non ci sono mai stato. So che è poco distante da qui.» «Sì, sì. Io ci sono stato un po’ di volte, sapete? È una bella città, ma non bella come Taranto... vabbè che a me, a dire il vero, nessuna città mi pare bella quanto Taranto.» Qualcosa in quella frase sembrò intristire l’altro uomo, e per qualche istante il freddo si fece più intenso. A un tratto Cataldo fu perfino sul punto di scusarsi, ma poi si rese conto di non sapere per quale ragione. Il francese sembrò accorgersi di quel cambiamento, e si affrettò a mutare di nuovo umore. «Dunque», esclamò allegro, allegro come non era stato fino ad allora e fin troppo allegro per esserlo davvero, «mi volete raccontare questa storia, amico mio?». Cataldo sorrise. Annuì, si schiarì la voce e cominciò.
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L’
aprile del 1933 era arrivato al giorno sedici senza aver ancora deciso se smettere o meno di scimmiottare di volta in volta febbraio o giugno per tornare a essere se stesso. Quelle prime due settimane erano state difficili, per gli abitanti di Brindisi1: si erano annunciate caldissime, e le donne avevano pensato di aprire casa per cacciar via gli ultimi ristagni d’inverno; nemmeno il tempo di togliere i chiavistelli che subito era arrivata una perturbazione ghiacciata col suo carico di pioggia e grandine che aveva fatto castamare2 i contadini. I giorni seguenti avevano visto alternarsi di volta in volta freddo intenso e afa, i quali alla fine sembravano essere giunti a un compromesso: all’ombra si gelava, al sole ci si squagliava. La mattinata era iniziata da poco e, mentre le massaie si arrovellavano su quanti strati di robbe indossare e i loro uomini scrutavano il cielo per capire se fosse o meno il caso di avventurarsi per mare o nelle campagne, accadde qualcosa di sensazionale. Una Fiat 508 “Balilla”3, fiera dei suoi 80 km/h, attraversò sputacchiando il centro della città fino a raggiungere il porto; noncurante degli sguardi sbigottiti e delle bocche spalancate, l’automobile avanzò fino a raggiungere uno slargo ove un’altissima ripida scalinata si gettava in mare: in cima a essa svettava un’alta colonna romana, accanto alla quale rimaneva il basamento di una sua gemella partita per altri lidi4. Non era consueto vedere un’automobile girare per la città, e ancor meno lo sarebbe stato vederne una fermarsi, come fece quella, poco 139
distante dalle colonne, nel punto in cui alcune catapecchie popolari si mantenevano in piedi accanto ciò che rimaneva di palazzi ben più signorili; da una di queste stamberghe sbucarono due figure che salirono furtive sulla vettura, la quale non aveva nemmeno spento il motore: un istante dopo essa ripartì, per sparire subito dietro la prima curva. Nonostante la velocità con cui si era svolta e le cautele dei due misteriosi passeggeri, chiunque avesse assistito alla scena sapeva benissimo di chi si trattasse, chi avesse mandato loro l’auto e per quale motivo; nondimeno in capo a pochi attimi le maggiori preoccupazioni tornarono a essere quelle legate alle ambigue condizioni atmosferiche, e ciascuno tornò a badare alle cose proprie, ché chi si fa gli affari suoi campa cent’anni. La Balilla uscì dal centro della città e seguì la linea costiera attraversando vasti pianori densi di olivi e declivi di terra rossa quasi impercettibili; una decina di minuti dopo si trovò a costeggiare una spiaggia desolata5, ove alla campagna era impedito di tuffarsi in acqua esclusivamente da una sottilissima striscia di sabbia ciottolosa. Su un piccolo promontorio si vedeva una sontuosa villa seminascosta in un boschetto di pini e palmizi: l’automobile la raggiunse e vi accedette da un cancello rugginoso e sgangherato. Poi la vettura attraversò un corto viale di ghiaia costeggiato da alberi incolti fino ad arrivare in un larghetto proprio di fronte all’ingresso della villa, dove si parcheggiò di sbieco. L’autista, un ragazzone costretto a forza in una divisa logora e sgualcita, uscì dal mezzo e si affrettò ad aprire la portiera del passeggero: subito ne uscì una donna tracagnotta, corpulenta e austera, non vecchia ma prossima a esserlo, con capelli grigi che occasionalmente le spuntavano finanche dalle guance rubizze e un abito nero che le fasciava le abbondanti forme. L’autista la vide barcollare e corse a sostenerla: i sobbalzi della Balilla e i repentini cambiamenti climatici che non risparmiavano certo la zona rurale brindisina le avevano da140
to la nausea, ma del resto era la prima volta che saliva su un’automobile e con ogni probabilità sarebbe stata l’ultima. «Grazie, beddhazzu6, sa’?», esclamò quando si fu ripresa prendendo tra le mani il volto dell’autista, per poi aggiungere sottovoce «cu’tte vegna ’nnu bbene, mai sia...»7. Se l’autista sentì o meno questa postilla, non lo diede comunque a vedere. La donna mosse qualche passo in direzione della villa; poi di colpo si bloccò, come se si fosse ricordata qualcosa della massima importanza: tornò alla macchina, si affacciò nuovamente all’interno dell’abitacolo e ne estrasse a viva forza una seconda donna, la quale pareva opporre una fiera resistenza. Una volta che fu finalmente riuscita a tirarla fuori del tutto, l’autista poté vedere che si trattava di una ragazza ben più giovane, molto alta, tanto da indurlo a pensare che per starci tutta all’interno dell’automobile avesse dovuto ripiegarsi su se stessa dalle quattro alle sei volte come un lenzuolo; segaligna, aveva capelli nerissimi che le coprivano quasi interamente il capo chino, e indossava una specie di tonaca grigia. Rimase ferma, tremolante e visibilmente a disagio, come se non sapesse davvero dove si trovasse e perché, guardando pervicacemente le sue ciabatte di lana marrone infeltrita. «Mena!», esclamò poi la sua compagna dandole una vigorosa pacca sulla spalla, «Tocca scia’ffaticamu!»8. In quella la giovane scattò sull’attenti, rivelando un volto pallido e due occhi grigio-biancastri grandi e dolci, in totale contrasto col resto della sua appuntita figura; un istante dopo spalancò la bocca per la meraviglia. La villa cui si trovava di fronte era magnifica, imponente, dotata di due piani sui quali si aprivano cinque finestroni e un portone di legno massiccio; tuttavia i muschi che decoravano le pareti giallastre e i decori smangiucchiati tradivano il fatto che il nobile passato fosse via via declinato in uno squallido presente. Gli alberi tutt’intorno impedivano al sole di toccare pressoché l’intero luogo: il freddo fuori stagione tiranneggiava, e la ragazza dovette stringersi nelle braccia per non rabbrividire; l’altra donna non riuscì 141
a trattenere un potente starnuto che echeggiò nel silenzio, seguito da una sonora scatarrata. Le due avanzarono fino all’ingresso della villa, dove le attendeva un omiciattolo in stato di evidente nervosismo. Stava curvo, ballonzolava da una gamba all’altra guardando convulsamente in tutte le direzioni, si torceva le mani, respirava col naso a brevi e veloci riprese. Le donne si fermarono davanti a lui; quella grossa lo guardò per qualche istante senza dir nulla, finché gli occhietti da roditore non smisero di agitarsi e presero a fissare ora lei ora la sua compagna; allora la donna si schiarì la voce e gli parlò. «Voi siete il signore che ci avete chiamato?», domandò con un’educazione forzata, che mal si accompagnava al suo accento da meticcia brindisino-leccese; in quella il suo occhio destro galleggiò placidamente all’interno dell’orbita, mentre il sinistro rimase puntato sull’omiciattolo. «I... io?», balbettò questi, «No! N... no, so... sono... Carlo, il m... maggiordomo dei signori...». Lo sguardo fintamente binoculare della donna indugiò sugli abiti dell’uomo, meno eleganti e più logori perfino dei suoi, sulla sua pelata, sulle scarpe sporche e sui modi tutt’altro che compassati. Era il primo maggiordomo che vedeva in vita sua, e ne rimase profondamente delusa: si sarebbe aspettata maggior signorilità. Le labbra dell’uomo fremettero sotto i baffetti castani. «V... voi?», chiese. «Io sono Chirilli Assunta, per servirvi», rispose trasognata quella. L’omiciattolo sbarrò occhi e bocca. «Voi siete... la masciara?9», domandò in un filo di voce. «None, none», sbuffò quella, «non sono io, la masciara. È Maria Atanasia. Iddhra!10». E con un ampio gesto del braccio gonfio indicò la compagna pochi passi dietro di lei, che arrossì violentemente. Carlo condusse le due donne all’interno della villa. Assunta teneva per mano Maria Atanasia, avvertendola ogni volta che si parasse davanti un ostacolo, una sconnessione nelle chianche11 del pavimento. 142
«Non ci vede quasi nienti», spiegò al maggiordomo incuriosito, «io, con tutto ’st’occhio di vetro, sto messa meglio». «E non parla nemmeno?», chiese quest’ultimo. «Sì, a volte...», commentò evasiva quella. La luce biancastra dell’esterno sembrava far fatica ad entrare nei polverosi interni della dimora. La ragazza si guardava intorno: i suoi occhi lattiginosi distinguevano le sagome di tavoli antichi, armadi antichi, credenze antiche, poltrone antiche; sentiva l’odore del velluto impregnato di fumo, della muffa sulla seta e perfino l’acidulo del legno marcescente, tuttavia, in quella polverosa penombra, sembrava sentirsi piuttosto a suo agio12. «La famiglia dei signori è un nome importante, vero?», domandò Assunta al maggiordomo. «Oh... sì... cioè, lo era», sembrava aver recuperato una minima capacità di sostenere un discorso completo e continuò: «il nonno del signore era conosciuto e rispettato... era venuto qua dalla Polonia, si era comprato tutte le campagne e le vigne, e faceva il vino più meglio del mondo, sapete?». «E poi?», chiese la donna, mentre Carlo si fermava ai piedi di una scala di legno che portava al piano superiore. Dopo caute occhiate ai paraggi, l’uomo spiegò a voce bassissima: «Come tutti, signora. Investimenti sbagliati, spese inutili, la guerra... e dopo la guerra nessuno voleva più il vino loro. Già ai tempi del padre del signore le cose non andavano bene... e mo vanno pure peggio13. Ma però i signori pensano di poter ancora fare cose che... ma con i loro soldi non... non che voglio dire, eh... però... beh, sono rimasto solo io, ma solo per... insomma, sono affezionato, e...». «Sine, sine, Carlo», tagliò corto Assunta constatando il vistoso imbarazzo del maggiordomo, «aggiu capitu. Mo portateci da loro». Man mano che i tre avanzavano sugli scalini cigolanti, l’oscurità pareva farsi se possibile più densa, e si udiva un singhiozzo soffocato provenire a intervalli regolari da un punto indefinito del piano superiore. 143