L'arte segreta dell'attore. Un dizionario di antropologia teatrale

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© 2005 Eugenio Barba e Nicola Savarese Tutti i diritti di riproduzione, adattamento e traduzione sono riservati per tutti i paesi. © 2011 per la nuova edizione italiana: Edizioni di Pagina soc. coop., Bari (Italy)

Il libro è dedicato alla memoria di Katsuko Azuma, Fabrizio Cruciani, Ingemar Lindh, Sanjukta Panigrahi e I Made Pasek Tempo, fondatori dell’ISTA.

Questo libro è il risultato delle ricerche condotte dal 1979 al 2004 all’ISTA (International School of Theatre Anthropology) diretta da Eugenio Barba. Tutti i testi non attribuiti sono nati dalla collaborazione fra i due autori. Redazione: Nicola Savarese. Hanno collaborato: Mauro De Meis e Noemi Tiberio.

Immagine in frontespizio: scena del Theatrum Mundi con il danzatore balinese I Made Pasek Tempo e l’attrice dell’Odin Teatret Roberta Carreri (ISTA Bologna, 1990).

ISTA – International School of Theatre Anthropology Box 1283, 7500 – Holstebro (Danimarca) Tel. (45) 97424777 – Fax (45) 97410482 E-mail: odin@odinteatret.dk www.odinteatret.dk Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma rivolgersi a: Edizioni di Pagina via dei Mille 205 - 70126 Bari tel. e fax 080 5586585 http://www.paginasc.it e-mail: info@paginasc.it facebook account http://www.facebook.com/edizionidipagina twitter account http://twitter.com/EdizioniPagina


SOMMARIO

Prefazione

ISTA di Eugenio Barba

Introduzione

Antropologia teatrale di Eugenio Barba

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Equivalenza 6

Principi simili e spettacoli diversi, p. 6 - Lokadharmi e natyadharmi, p. 7 - L’equilibrio in azione, p. 8 - La danza delle opposizioni, p. 10 - Le virtù dell’omissione, p. 12 - Intermezzo, p. 14 - Un corpo deciso, p. 16 - Un corpo fittivo, p. 17 - Un milione di candele, p. 18

Dizionario

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Anatomia Può il mare alzarsi sopra le montagne? di Nicola Savarese

22

24

I padri fondatori all’inizio del secolo, p. 24 Processo creativo, scuola di teatro e cultura teatrale, p. 24 - Pedagogia d’autore, p. 26

Esempi orientali di Rosemary Jeanes Antze

28

Dilatazione Il corpo dilatato di Eugenio Barba

32

Il ponte, p. 32 - Peripezie, p. 34 - Il principio della negazione, p. 35 - Pensare il pensiero, p. 37 Logiche gemelle, p. 38 - Tebe dalle sette porte, p. 39

La mente dilatata di Franco Ruffini

42

Drammaturgia Azioni al lavoro di Eugenio Barba

46

Drammaturgia e spazio scenico, p. 49

Energia

52

Kung-fu, p. 52 - Energia e continuità, p. 54 - Koshi, ki-ai, bayu, p. 55 - Animus-Anima, p. 56 - Keras e manis, p. 61 - Lasya e Tandava, p. 62 - Tamè, p. 64 Energia nello spazio ed energia nel tempo, p. 64 Santai, i tre corpi dell’attore, p. 66 - Frenaggio dei ritmi, p. 68 - Presenza dell’attore, p. 72

Equilibrio Equilibrio extra-quotidiano, p. 73 - Equilibrio di lusso, p. 73 - Tecnica extra-quotidiana: ricerca di una nuova postura, p. 75 - Generalità dell’equilibrio, p. 76 - L’equilibrio in azione, p. 79 - Acciaio e cotone, p. 80 - La cinestesia, p. 83 - Equilibrio e im-

112

Fisiologia e codificazione delle mani, p. 112 - Le mani suono puro o silenzio, p. 113 - Come inventare le mani in movimento, p. 116 - India: mani e significato, p. 118 - Le mani e l’Opera di Pechino, p. 120 - Le mani e la danza balinese, p. 121 - Le mani e il teatro giapponese, p. 122 - Le mani e il balletto classico, p. 123 - Un esempio di teatro occidentale, p. 124

Montaggio Montaggio dell’attore e montaggio del regista di Eugenio Barba

126

Montaggio dell’attore, p. 128 - Montaggio del regista, p. 128 - Primo montaggio d’attore, p. 129 Secondo montaggio d’attore, p. 130 - Ulteriore montaggio del regista, p. 130

Nostalgia Nostalgia o passione dei ritorni di Nicola Savarese

133

La danza degli attori, p. 134

Occhi e volto

73

102

Un’azione fisica: la più piccola azione percettibile, p. 102 - L’età degli esercizi, p. 102 - Interiorità e interpretazione, p. 103 - La complessità dell’emozione, p. 104 - La relazione reale, p. 106 - Sport come danza, p. 106 - Il dialogo fisico con gli spettatori, p. 106 - L’azione reale, p. 107 - La fissione teatrale di Mejerchol’d, p. 108 - L’esercizio come modello di drammaturgia organica e dinamica, p. 110 - Forma, ritmo, flusso, p. 110 - Conoscenza tacita, p. 111

Mani

Il guru come genitore, precettore onorato, p. 28 Guru-kula, studio nella casa del guru, p. 29 - Gurudaksina, doni e compensi, p. 30 - Ekalavya, discepolo straordinario, p. 31 - Guru-sisya-parampara, p. 31

93

Il principio dell’equivalenza, p. 93 - Tiro con l’arco nella danza Odissi, p. 97 - Come si scocca una freccia nel Kyogen, p. 98 - Tiro con l’arco nella biomeccanica, p. 100

Esercizi Partitura e sottopartitura: il significato degli esercizi nella drammaturgia dell’attore di Eugenio Barba

Dalla A alla Z

Apprendistato Esempi occidentali di Fabrizio Cruciani

maginazione, p. 84 - La danza ignorata di Brecht, p. 86

139

Fisiologia e codificazione, p. 139 - Lo sguardo concreto, p. 142 - L’azione del vedere (occhi e spina dorsale), p. 145 - Mostrare di vedere, p. 146 - Il volto naturale, p. 150 - Il volto provvisorio, p. 152 - Il volto dipinto, p. 154

Omissione Frammentazione e ricostruzione, p. 156 - Di necessità virtù, p. 158 - Rappresentare l’assenza, p. 159 La virtù dell’omissione, p. 160

156


4

SOMMARIO

Opposizioni

161

La danza delle opposizioni, p. 161 - La linea della bellezza, p. 165 - Tribhangi o tre archi, p. 166 - La prova dell’ombra, p. 169 - Affermazione e conferma, p. 170

Mejerchol’d: il grottesco, cioè la biomeccanica di Eugenio Barba

172

“Naturale” e “organico” di Mirella Schino

174

Sempre natura, ma una natura differente, p. 175 Lingue di lavoro, p. 176 - La presenza, p. 176 - Axé, shinmyong, taksu, p. 177 - Matah, mi-juku, kacha, p. 177

178

La prima articolazione, p. 178 - La seconda articolazione, p. 179

Piedi

182

Microcosmo-macrocosmo, p. 182 - Sulle punte, p. 183 - La grammatica dei piedi, p. 188

Pre-espressività

192

250

Tecnica Nozioni di tecniche del corpo di Marcel Mauss

256

Enumerazione biografica delle tecniche del corpo, p. 256 - La spina dorsale: il timone dell’energia, p. 262 - L’urlo muto, p. 264

266

Sats, p. 266 - Logos e bios, p. 267

Training Da “apprendere” a “apprendere ad apprendere” di Eugenio Barba 211

217

268

274

Il mito della tecnica, p. 274 - Una tappa decisiva, p. 274 - La presenza fisica, p. 275 - Il periodo della vulnerabilità, p. 276

Training in prospettiva interculturale di Richard Schechner

277

Training e punto di partenza di Nicola Savarese

279

Considerazioni di base, p. 279 - Modelli di esercizio, p. 279 - Acrobatica, p. 280 - Allenamento col maestro, p. 284

224

Il costume crea la scenografia, p. 224 - Abito quotidiano, costume extra-quotidiano, p. 231 - Le maniche d’acqua, p. 232

Storiografia La lingua energica di Ferdinando Taviani

Incomprensioni e invenzioni: dalla Via della Seta a Seki Sano di Nicola Savarese

Civiltà del testo e civiltà della scena, p. 269 - Testo “povero” e scena “ricca”, p. 269 - Sulla drammaturgia, p. 271 - Parte e personaggio, p. 272

Il tempo inciso, p. 217 - Jo-ha-kyu, p. 219 - Movimenti biologici e micro-ritmi del corpo, p. 220 Mejerchol’d: l’essenzialità del ritmo, p. 221

Scenografia e costume

246

Alba, p. 246 -Teatro eurasiano, p. 246 - Antitradizione, p. 246 - Perché?, p. 246 - Radici, p. 247 Villaggio, p. 248 - Interpretare un testo o creare un contesto, p. 248 - Spettatore, p. 248

Testo e scena Testo e scena di Franco Ruffini

Il Bharata Natyam, p. 212 - Il Chhau di Purulia, p. 213 - Trance e danza a Bali, p. 215

Ritmo

Teatro eurasiano Teatro eurasiano di Eugenio Barba

Leggi pragmatiche di Jerzy Grotowski

La totalità e i suoi livelli di organizzazione, p. 192 Tecnica di inculturazione e tecnica di acculturazione, p. 195 - Fisiologia e codificazione, p. 197 Codificazione tra Oriente e Occidente, p. 198 - Il corpo fittivo, p. 201 - Arti marziali e teatralità in Oriente, p. 203 - Arti marziali e teatralità in Occidente, p. 206 - L’architettura del corpo, p. 209 - La pre-interpretazione dello spettatore, p. 210

Restauro del comportamento Restauro del comportamento di Richard Schechner

242

Una plastica che non corrisponde alle parole, p. 242 - Il grottesco, p. 243 - La biomeccanica, p. 244

Organicità Organicità, presenza, bios scenico di Eugenio Barba

Al lavoro sulle azioni fisiche: la doppia articolazione di Marco De Marinis

naggio, parte, p. 240 - Condizioni di senso e livello pre-espressivo, p. 240

233

Visioni Le due visioni: visione dell’attore, visione dello spettatore di Ferdinando Taviani

286

Visione come arte segreta

298

Bibliografia

300

Referenze

310

Indice analitico

312

Henry Irving al microscopio, p. 234 - Marmo vivente, p. 235 - Sotto il costume d’Arlecchino, p. 237

Il “sistema” di Stanislavskij di Franco Ruffini La parola a Stanislavskij, p. 238 - “La più semplice condizione umana”: il corpo-mente organico, p. 238 - La mente pone delle esigenze: la reviviscenza, p. 239 - Il corpo risponde adeguatamente: la personificazione, p. 239 - Corpo-mente organico, perso-

238


ISTA

International School of Theatre Anthropology Ogni ricercatore è abituato alle parziali omonimie: non le confonde con le omologie. Fra le diverse discipline, ad esempio, oltre all’antropologia culturale, esistono anche l’antropologia criminale, l’antropologia filosofica, l’antropologia fisica, l’antropologia paleoantropica. In ogni presentazione dell’ISTA si sottolinea e si ripete che il termine “antropologia” non viene usato nel senso dell’antropologia culturale, ma è un nuovo campo di studi applicato all’essere umano in una situazione di rappresentazione organizzata. La sola affinità con l’antropologia culturale sta nel porre domande all’“evidente” (la propria tradizione). Questo implica lo spostamento, il viaggio, la strategia del détour che permette di capire più precisamente la propria cultura. Attraverso il confronto con ciò che appare straniero, si educa il nostro sguardo a diventare partecipe e distaccato. Non dovrebbero quindi esserci equivoci: l’antropologia teatrale non si occupa di quei livelli di organizzazione che permettono di applicare al teatro e alla danza i paradigmi dell’antropologia culturale. Non è lo studio dei fenomeni performativi in quelle culture che sono tradizionalmente oggetto di studio da parte degli antropologi. Né l’antropologia teatrale va confusa con l’antropologia dello spettacolo. Ancora una volta: l’antropologia teatrale è lo studio del comportamento dell’essere umano che utilizza la sua presenza fisica e mentale secondo principi diversi da quelli della vita quotidiana in una situazione di rappresentazione organizzata. Questa utilizzazione extra-quotidiana del corpo è ciò che si chiama tecnica. Un’analisi transculturale del teatro mostra che il lavoro dell’attore è il risultato della fusione di tre aspetti che si riferiscono a tre distinti livelli di organizzazione: 1. La personalità dell’attore, la sua sensibilità, la sua intelligenza artistica, la sua persona sociale che lo rendono unico e irripetibile. 2. La particolarità delle tradizioni e del contesto storicoculturale attraverso cui l’irripetibile personalità di un attore si manifesta. 3. L’utilizzazione della fisiologia secondo tecniche del corpo extra-quotidiane. In queste tecniche si reperiscono principi ricorrenti e transculturali. Questi principi costituiscono ciò che l’antropologia teatrale definisce come il campo della pre-espressività.

Il primo aspetto è individuale. Il secondo è comune a tutti coloro che appartengono allo stesso genere spettacolare. Solo il terzo concerne tutti gli attori di ogni tempo e cultura: può essere chiamato il livello “biologico” del teatro. I primi due aspetti determinano il passaggio dalla pre-espressività all’espressione. Il terzo è il nodo che non varia al di sotto delle diverse varianti individuali, stilistiche e culturali. I principi ricorrenti al livello “biologico” del teatro permettono le diverse tecniche dell’attore, cioè l’utilizzazione particolare della sua presenza scenica e del dinamismo. Applicati ad alcuni fattori fisiologici (peso, equilibrio, posizione della colonna vertebrale, direzione dello sguardo) questi principi producono tensioni organiche preespressive. Queste nuove tensioni generano una diversa qualità dell’energia, rendono il corpo teatralmente “deciso”, “vivo”, manifestano la “presenza” dell’attore, il suo bios scenico attirando l’attenzione dello spettatore prima che subentri una qualsiasi espressione personale. Si tratta, ovviamente, di un prima logico, non cronologico. I diversi livelli di organizzazione sono, per lo spettatore e nello spettacolo, inseparabili. Possono venire separati solo per via di astrazione, in una situazione di ricerca analitica e nel lavoro tecnico di composizione compiuto dall’attore. Il campo di lavoro dell’ISTA è lo studio dei principi di questa utilizzazione extra-quotidiana del corpo e della loro applicazione al lavoro creativo dell’attore e del danzatore. Ne deriva un ampliamento delle conoscenze che ha immediate conseguenze sul piano pratico professionale. In genere la trasmissione delle esperienze inizia con l’assimilazione di un sapere tecnico: l’attore apprende e personalizza. La conoscenza dei principi che governano il bios scenico può permettere, non di apprendere una tecnica, ma di apprendere ad apprendere. Questo è di enorme importanza per tutti coloro che scelgono o sono costretti a superare i confini di una tecnica specializzata. La teatrologia occidentale ha in genere privilegiato le teorie e le utopie, trascurando l’approccio empirico alla problematica dell’attore. L’ISTA dirige la sua attenzione su questo “territorio empirico” nella prospettiva di un superamento delle specializzazioni disciplinari, tecniche ed estetiche. Si tratta di comprendere non la tecnica, ma i segreti della tecnica, che bisogna possedere per superarla. Eugenio Barba


ANTROPOLOGIA TEATRALE

Antropologia teatrale Eugenio Barba In quali direzioni può orientarsi un attore o un danzatore per costruire le basi materiali della sua arte? È questa la domanda cui l’antropologia teatrale tenta di rispondere. Essa non risponderà, pertanto, né al bisogno di analizzare scientificamente in che consista il “linguaggio dell’attore”, né alla domanda fondamentale per chi fa teatro o danza: come si diventa un buon attore o un buon danzatore? L’antropologia teatrale non cerca principi universalmente veri, ma indicazioni utili. Non ha l’umiltà di una scienza, ma l’ambizione di individuare le conoscenze utili all’azione dell’attore-danzatore. Non vuole scoprire “leggi”, ma studiare regole di comportamento. 1

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Principi simili e spettacoli diversi: (1) danzatore azteco; (2) menestrello europeo del Medioevo; (3) danzatrice balinese; (4) attore giapponese di Kabuki; (5) danzatrice indiana di Odissi; (6) danzatrice di balletto classico. I principi che, in varie culture, regolano il comportamento scenico degli attori-danzatori sono simili, ma gli spettacoli sono diversi.

Originariamente, il termine “antropologia” veniva compreso come lo studio del comportamento dell’uomo non solo a livello socio-culturale, ma anche a livello fisiologico. L’antropologia teatrale, di conseguenza, studia il comportamento fisiologico e socio-culturale dell’uomo in una situazione di rappresentazione.

Principi simili e spettacoli diversi Diversi attori e danzatori in luoghi ed epoche diverse, fra i molti principi propri di ciascuna tradizione, in ciascun paese, si sono serviti anche di alcuni principi simili. Rintracciare questi principi-che-ritornano è il primo compito dell’antropologia teatrale. I principi-che-ritornano non sono prove dell’esistenza di una “scienza del teatro” o di alcune leggi universali; sono consigli particolarmente buoni, indicazioni che hanno una forte probabilità di risultare utili alla prassi scenica. I “buoni consigli” hanno questa particolarità: possono essere seguiti o ignorati. Non sono tassativi come le leggi: o addirittura possono essere rispettati proprio per poterli infrangere e superare. L’attore contemporaneo occidentale non ha un repertorio organico di consigli su cui appoggiarsi e orientarsi. Ha come punti di partenza, in genere, un testo o le indicazioni di un regista. Ma gli mancano quelle regole di azione che, pur non restringendo la sua libertà artistica, lo aiutino nel suo compito. L’attore tradizionale d’Oriente, al contrario, si basa su un corpo organico e ben sperimentato di “consigli assoluti”, cioè delle regole d’arte che assomigliano alle leggi di un codice: codificano uno stile d’azione chiuso in se stesso e a cui tutti gli attori di quel genere debbono adeguarsi. Naturalmente, l’attore che si muove all’interno di una rete di regole codificate ha una maggiore libertà artistica di colui che – come l’attore occidentale – è prigioniero dell’arbitrio e della mancanza di regole. Ma l’attore orientale paga la sua maggiore libertà con una specializzazione che gli offre minori possibilità di uscir fuori dai territori che conosce. Un complesso di precise e utili regole pratiche per l’attore sembra che possa esistere solo a condizione di essere regole assolute, chiuse alle influenze di esperienze e tradizioni esterne. Quasi tutti i maestri teatrali orientali impediscono ai loro allievi di occuparsi di forme di spettacolo diverse da quella da loro praticata. A volte chiedono loro di non recarsi neppure a vedere altre forme di teatro o di danza. Sostengono che è così che si preserva la purezza dello stile dell’attore-danzatore e che si dimostra la sua totale dedizione verso la propria arte. Tutto accade come se le regole di comportamento teatrale si sentissero minacciate dalla loro stessa evidente relatività, quasi soffrissero di non essere vere e proprie leggi. Questo processo di difesa ha almeno il pregio di evitare la tendenza patologica che spesso la consapevolezza della relatività delle regole comporta: la totale mancanza di regole e l’arbitrio. Così, come un attore Kabuki può ignorare i migliori “segreti” del Nô, è sintomatico che Etienne Decroux – forse l’unico maestro europeo che abbia elaborato un complesso di regole paragonabile a quello di una tradizione orientale –


ANTROPOLOGIA TEATRALE cerchi di trasmettere ai propri allievi la stessa rigorosa chiusura nei confronti delle forme sceniche diverse dalle proprie. Nel caso di Decroux, come nel caso dei maestri orientali, non si tratta di ristrettezza mentale, né tanto meno di intolleranza. Si tratta della consapevolezza che le basi e i principi di partenza di un attore vanno difesi come il suo bene più prezioso, un bene che sarebbe irrimediabilmente inquinato e distrutto dal sincretismo, e che va salvaguardato anche a rischio dell’isolamento. Il rischio dell’isolamento consiste nel pagare la purezza con la sterilità. I maestri che chiudono i propri allievi nella riserva di un corpo di regole che per avere forza finge di ignorare la propria relatività, e quindi l’utilità del confronto, preservano certamente la qualità della propria arte, ma ne minacciano il futuro. Un teatro, però, può aprirsi alle esperienze degli altri teatri non per intrecciare maniere diverse di far spettacoli, ma per rintracciare principi simili in base ai quali trasmettere le proprie esperienze. In questo caso l’apertura al diverso non significherebbe necessariamente una caduta nel sincretismo e nella confusione delle lingue. Da una parte si eviterebbe il rischio dell’isolamento sterile, dall’altra quello di un’apertura a tutti i costi che degenererebbe nella promiscuità. Pensare, sia pure in via teorica e astratta, ad una base pedagogica comune, non significa, infatti, pensare a un modo comune di fare teatro. «Le arti – ha scritto Decroux – si assomigliano nei loro principi, non nelle loro opere.» Potremmo aggiungere: anche i teatri non si assomigliano nei loro spettacoli ma nei loro principi. L’antropologia teatrale vuole studiare quei principi: non le profonde e ipotetiche ragioni di quelle somiglianze ma i loro possibili usi. Facendolo, sa di rendere un servizio sia all’uomo di teatro occidentale che a quello orientale, sia a chi ha una tradizione codificata sia a chi ne soffre la mancanza, sia a chi è colpito dalla degenerazione, sia a chi è minacciato dalla purezza.

Lokadharmi e natyadharmi «Noi abbiamo due parole – mi dice Sanjukta Panigrahi, danzatrice indiana di Odissi – per indicare il comportamento dell’uomo: l’una, lokadharmi, indica il comportamento (dharmi) della gente comune (loka); l’altra natyadharmi, indica il comportamento dell’uomo nella danza (natya)». Nel corso degli ultimi anni ho visitato numerosi maestri di teatri diversi. Con alcuni di loro ho collaborato a lungo. Lo scopo della mia ricerca non era lo studio di ciò che caratterizzava le diverse tradizioni, non ciò che rendeva uniche le loro arti, ma ciò che le accomunava ad altre forme d’arte d’Oriente e d’Occidente. Quella che all’inizio era una mia ricerca quasi isolata lentamente è divenuta la ricerca di un gruppo di persone che comprende uomini di scienza, studiosi di teatro occidentali ed asiatici, artisti appartenenti a diverse tradizioni. A questi ultimi va, in modo particolare, la mia gratitudine: la loro collaborazione si è caratterizzata per una forma particolare di generosità che ha abbattuto le barriere della riservatezza per rivelare i “segreti” e quasi le intimità del loro mestiere. Una generosità che a volte è arrivata ad una forma di calcolata temerarietà nel porsi in situazioni di lavoro che obbligavano alla ricerca del nuovo e che rivelavano una curiosità per l’esperimento insospettabile in artisti che sembravano i fedeli sacerdoti d’una tradizione immutabile. Gli attori orientali e occidentali, quando fanno una dimostrazione tecnica, fredda, posseggono una qualità di presenza

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Etienne Decroux (1898-1991), fondatore del mimo moderno.

che colpisce lo spettatore e lo obbliga a guardarli. In tale situazione non esprimono niente, eppure vi è in essi come un nocciolo di energia, come un’irradiazione suggestiva e sapiente, ma non premeditata, che capta i nostri sensi. Ho pensato a lungo che si trattasse di una particolare “forza” dell’attore, acquisita con anni e anni di esperienze e di lavoro, di una particolare dote tecnica. Ma ciò che noi chiamiamo “tecnica” è un’utilizzazione particolare del nostro corpo. Noi utilizziamo il nostro corpo in maniera sostanzialmente differente nella vita quotidiana e nelle situazioni di “rappresentazione”. A livello quotidiano abbiamo una tecnica del corpo condizionata dalla nostra cultura, dal nostro stato sociale, dal nostro mestiere. Ma in una situazione di “rappresentazione” esiste un’utilizzazione del corpo, una tecnica del corpo che è totalmente differente. Si può quindi distinguere una tecnica quotidiana da una tecnica extraquotidiana. Le tecniche quotidiane non sono consapevoli: ci muoviamo, ci sediamo, portiamo i pesi, baciamo, indichiamo, annuiamo e neghiamo con gesti che crediamo “naturali” e che sono, invece, culturalmente determinati. Le differenti culture insegnano diverse tecniche del corpo secondo se si cammini o no con le scarpe, se si portino i pesi sulla testa o in mano, se si baci con la bocca o con il naso. Il primo passo per scoprire quali possono essere i principi del bios scenico dell’attore e del danzatore, la sua “vita”, consiste, allora, nel comprendere che alle tecniche quotidiane del corpo si contrappongono delle tecniche extra-quotidiane, cioè delle tecniche che non rispettano gli abituali condizionamenti dell’uso del corpo.


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ANTROPOLOGIA TEATRALE

Lokadharmi: (a sinistra) comportamento quotidiano di una donna indiana che fa toletta (pittura dell’XI sec. d.C.); Natyadharmi: (al centro) comportamento extra-quotidiano della danzatrice Odissi Sanjukta Panigrahi e (a destra) di un onnagata (ruolo dell’attore che interpreta i ruoli femminili nel Kabuki giapponese): entrambi in una scena dello specchio.

A queste tecniche extra-quotidiane fanno ricorso coloro che si pongono in una situazione di rappresentazione. Spesso in Occidente non è evidente e consapevole la distanza che separa le tecniche quotidiane del corpo da quelle extra-quotidiane che caratterizzano il comportamento dell’uomo nel teatro. In India, invece, è una differenza ovvia, sancita dalla nomenclatura: lokadharmi e natyadharmi. Le tecniche quotidiane del corpo sono in genere caratterizzate dal principio del minimo sforzo: cioè il conseguimento della massima resa con il minimo impiego di energia. Le tecniche extra-quotidiane si basano, al contrario, sullo spreco dell’energia. A volte sembrano addirittura suggerire un principio speculare rispetto a quello che caratterizza le tecniche quotidiane del corpo: il principio del massimo impiego di energia per un minimo risultato. Quando ero in Giappone con l’Odin Teatret, mi chiedevo cosa significasse l’espressione con cui gli spettatori ringraziavano gli attori alla fine dello spettacolo: otsukaràsama. Il significato esatto di questa espressione – una delle tante formule che l’etichetta giapponese permette, e che è particolarmente indicata per gli attori – è: «tu sei stanco». L’attore che ha interessato o colpito lo spettatore è stanco perché non ha risparmiato le sue energie e di questo viene ringraziato. Ma lo spreco, l’eccesso nell’uso dell’energia non basta a spiegare la forza che caratterizza la “vita” dell’attore e del danzatore. È evidente la differenza fra questa “vita” e la vitalità di un acrobata e persino di certi momenti di maggior virtuosismo dell’Opera di Pechino e di altre forme di teatro o danza. In questi casi gli acrobati, i danzatori, gli attori ci mostrano un “altro corpo”, un corpo che segue tecniche assai diverse da quelle quotidiane, ma cosí diverse da perdere apparentemente ogni contatto con queste. Non si tratta più di tecniche extra-quotidiane, ma semplicemente di “altre tecniche”. In questo caso non c’è più la tensione dell’allontanarsi, non c’è più quella sorta di “energia elastica” che caratterizza le tecniche extra-quotidiane quando si contrappongono alle tecniche quotidiane. In altre parole non c’è più relazione dialettica ma solo distanza: l’inaccessibilità, insomma, di un corpo di virtuoso. Le tecniche quotidiane del corpo tendono alla comunicazione, quelle del virtuosismo tendono alla meraviglia e alla trasformazione del corpo. Le tecniche extra-quotidiane, invece, tendono all’informazione: esse, alla lettera, mettono-

in-forma il corpo. In ciò consiste la differenza essenziale che le divide da quelle tecniche che invece lo trans-formano.

L’equilibrio in azione La constatazione di una particolare qualità di presenza scenica ci ha portato alla distinzione fra tecniche quotidiane, tecniche del virtuosismo e tecniche extra-quotidiane del corpo. Sono queste ultime che riguardano la “vita” dell’attore e del danzatore. Esse la caratterizzano prima ancora che questa “vita” cominci a rappresentare qualcosa o ad esprimersi. L’affermazione precedente non è facile da accettarsi per un occidentale: esiste forse un livello dell’arte dell’attore in cui egli è vivo, presente, ma senza rappresentare né significare nulla? Forse solo chi conosce bene il teatro giapponese può accogliere come normale l’affermazione in questione. È giusto, quindi, che sia un giapponese a fornirci un esempio estremo ma lampante di come la vita dell’attore possa essere priva di ogni carattere di rappresentazione, e limitarsi ad essere fortemente presente. “Essere fortemente presente” pur senza nulla rappresentare è, per un attore, un ossimoro, una contraddizione in termini: l’attore, infatti, per il suo stesso stare davanti agli spettatori, sembra dover per forza rappresentare qualcosa o qualcuno. Moriaki Watanabe definisce così l’ossimoro dell’attore della pura presenza: si tratta di un attore che rappresenta la propria assenza. Sembra un gioco del pensiero, ed è, invece, una figura del teatro giapponese. Nel Nô, nel Kabuki e nel Kyogen, Watanabe individua una figura intermedia fra le due, che in Occidente come nel teatro moderno giapponese, sembrano esaurire la figura dell’attore: la sua identità reale e la sua identità finta. Per esempio, nel teatro Nô, il secondo attore, il waki, spesso rappresenta il proprio non-esserci, cioè il suo assentarsi dall’azione. Egli mette in opera una complessa tecnica extra-quotidiana del corpo che non deve servire a esprimere, ma a «far notare la sua capacità di non esprimere». Questa negazione artisticamente elaborata si ritrova inoltre in quel passaggio del Nô quando il personaggio principale – lo shite – deve scomparire. L’attore, ormai spogliato del suo personaggio, ma non per questo ridotto alla sua identità quotidiana, si allontana dagli spettatori senza voler esprimere niente, ma con la stessa energia che caratterizza i momenti espressivi.


ANTROPOLOGIA TEATRALE

Tecniche virtuose: attori acrobatici dell’Opera di Pechino.

Anche i kokken, gli uomini vestiti di nero che assistono l’attore in scena, sono chiamati a “recitare l’assenza”. La loro presenza che non esprime né rappresenta, attinge così direttamente alle fonti della vita e dell’energia dell’attore; gli intenditori dicono che è più difficile essere kokken che attore. Questi esempi mostrano che esiste un livello in cui le tecniche extra-quotidiane del corpo riguardano l’energia dell’attore per così dire allo stato puro, cioè al livello pre-espressivo. Nel teatro classico giapponese, questo livello appare, a volte, allo scoperto. Esso, però, è sempre presente nell’attore: è la base stessa della sua vita, della sua presenza scenica. Parlare di “energia” dell’attore-danzatore significa utilizzare un termine che si presta a mille equivoci. La parola energia deve essere, invece, subito riempita di significati molto concreti. Etimologicamente essa significa essere in opera, in lavoro. Come avviene, allora, che il corpo dell’attore-danzatore entri in lavoro – come attore-danzatore – a un livello pre-espressivo? Con quali altre parole potremmo sostituire la nostra parola “energia”? Chi traducesse in una lingua europea i principi degli attori-danzatori orientali, userebbe parole come “energia”, “vita”, “forza”, “spirito” per tradurre termini come i giapponesi ki-ai, kokoro, io-in, koshi; i balinesi taksu, virasa, chikara, bayu; il cinese kung-fu, shun toeng; gli indiani prana, shakti. L’imprecisione delle traduzioni nasconde sotto grandi parole le indicazioni pratiche dei principi della vita dell’attore-danzatore. Ho provato a percorrere la strada in senso inverso. Ho chiesto ad alcuni maestri di teatri orientali se nella loro lingua di lavoro esistessero parole che potevano tradurre il nostro termine “energia”. «Noi diciamo che un attore ha o non ha koshi per indicare che ha o non ha la giusta energia nel lavoro», mi risponde l’attore Kabuki Sawamura Sojurô. Ma

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koshi, in giapponese, non indica un concetto astratto, ma una ben precisa parte del corpo: le anche. Dire «hai koshi, non hai koshi» significa dire «hai le anche, non hai le anche». Ma cosa significa, per un attore, non avere le anche? Quando camminiamo secondo le tecniche quotidiane del corpo, le anche assecondano il movimento delle gambe. Nelle tecniche extra-quotidiane dell’attore Kabuki e dell’attore Nô le anche, invece, debbono restare fisse. Per bloccare le anche mentre si cammina, occorre piegare leggermente le ginocchia e usare il tronco come un solo blocco, impiegando la colonna vertebrale, che si trova, così, a premere verso il basso. Si creano, in tal modo, due diverse tensioni nella parte inferiore e nella parte superiore del corpo, che obbligano a trovare un nuovo equilibrio. Non si tratta di una scelta stilistica, ma di un mezzo per innescare la vita dell’attore, e solo in un secondo momento diventa una particolare caratteristica di stile. La vita dell’attore e del danzatore, infatti, si basa su un’alterazione dell’equilibrio. Quando siamo in posizione eretta, non possiamo mai restare immobili. Anche quando sembriamo immobili, ci serviamo di minuscoli movimenti con i quali spostiamo il nostro peso. Si tratta di una serie continua di aggiustamenti con cui il peso passa incessantemente a premere ora sulla parte anteriore, ora su quella posteriore, ora sul margine destro, ora sul sinistro dei piedi. Perfino nell’immobilità più assoluta questi micromovimenti sono presenti, a volte più ristretti, altre volte più ampi, a volte più controllati, altre meno, a seconda delle nostre condizioni fisiche, dell’età, del mestiere. Ci sono laboratori scientifici specializzati nella misurazione dell’equilibrio attraverso la misurazione dei diversi tipi di pressione operata dai piedi sul terreno: ne risultano diagrammi nei quali ognuno può leggere quanti complicati e laboriosi movimenti faccia per restare fermo. Sono stati fatti esperimenti con attori professionisti. Risulta

Attore giapponese di Nô: un corpo fittivo.


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Alterazione dell’equilibrio: (da sinistra a destra) attore della Commedia dell’Arte italiana, danzatrice indiana Odissi, danzatrice di balletto classico, danzatore dell’antica Grecia durante una processione dedicata a Dioniso.

che se si chiede loro di immaginare di portare un peso, di correre, di camminare, di cadere, di saltare, già questa immaginazione produce immediatamente una modificazione del loro equilibrio, mentre invece non lascia quasi traccia nell’equilibrio di una persona normale, per cui l’immaginazione resta un fatto quasi esclusivamente mentale. Tutto questo può dir molto sull’equilibrio e sul rapporto fra processi mentali e tensioni muscolari; non dice niente di nuovo, però, sull’attore-danzatore. Dire, infatti, che un attore è abituato a controllare la propria presenza fisica e a tradurre in impulsi fisici e vocali le immagini mentali vuol dire semplicemente che un attore è un attore. Ma le matasse di micromovimenti rivelate dai laboratori scientifici in cui si misura l’equilibrio ci mettono su un’altra traccia: esse costituiscono come il nocciolo che, nascosto nel fondo delle tecniche quotidiane del corpo, può essere modellato e amplificato per potenziare la presenza dell’attore-danzatore, per trasformarsi, cioè, nella base delle sue tecniche extra-quotidiane. Chi ha visto uno spettacolo di Marcel Marceau si è certo soffermato almeno un attimo a considerare lo strano destino di quel mimo che compare sul palcoscenico solo per pochi secondi, fra un numero e l’altro, reggendo un cartello su cui è annunciato il titolo del numero che Marceau sta per eseguire. D’accordo – uno si dice – il mimo vuole essere uno spettacolo muto, e anche gli annunci, per non rompere il silenzio, debbono essere muti. Ma perché impiegare un mimo, un attore come portacartelli? Non significa bloccarlo in una situazione disperante in cui, alla lettera, non può far nulla? Uno di quei mimi, Pierre Verry, che è stato a lungo il mimo la cui azione consisteva nel presentare i cartelli dei numeri di Marceau, un giorno ha raccontato come cercasse di raggiungere il massimo della presenza scenica nel breve istante in cui compariva sul palcoscenico senza dovere – e senza potere – fare nulla. Ha detto che la sua unica possibilità era rendere più forte possibile, più viva possibile la posizione nella quale teneva alzato il cartello. Per ottenere questo risultato nei pochi secondi della sua comparsa, doveva concentrarsi a lungo per raggiungere un “equilibrio labile”. Così la sua immobilità diventava un’immobilità non statica ma dinamica. In mancanza d’altro, Pierre Verry era obbligato a ridursi all’essenziale, e scopriva l’essenziale nell’alterazione dell’equilibrio. Le posizioni base delle forme di teatro e danza orientale sono altrettanti esempi di una distorsione cosciente e con-

trollata dell’equilibrio. Lo stesso può dirsi per le posizioni base della danza classica europea e per il sistema del mimo di Decroux: abbandonare la tecnica quotidiana dell’equilibrio e cercare un “equilibrio di lusso” che dilata le tensioni su cui il corpo si regge. Per ottenere questo risultato, gli attori e danzatori delle diverse tradizioni orientali deformano la posizione delle gambe, delle ginocchia, il modo di poggiare i piedi per terra, o riducono la distanza fra un piede e l’altro, restringendo la base e rendendo precario l’equilibrio. «Tutta la tecnica della danza – dice Sanjukta Panigrahi parlando della danza indiana Odissi, ma indicando un principio generale per la vita dell’attore e del danzatore – è basata sulla divisione del corpo in due metà uguali, secondo una linea che lo attraversa verticalmente, e sulla suddivisione ineguale del peso ora su una parte ora sull’altra». La danza, cioè, amplifica, come mettendoli sotto un microscopio, quei minuscoli e continui spostamenti di peso con cui ci reggiamo fermi in piedi e che i laboratori specializzati nella misura dell’equilibrio rivelano tramite complicati diagrammi. È questa danza dell’equilibrio che gli attori e i danzatori rivelano nei principi fondamentali di tutte le forme di teatro.

La danza delle opposizioni Il lettore non si meraviglierà se parlo indifferentemente di attore o danzatore così come passo con una certa indifferenza dall’Oriente all’Occidente e viceversa. I principi di vita di cui andiamo in cerca non tengono in alcun conto le nostre distinzioni fra ciò che definiamo teatro o mimo o danza. Queste distinzioni sono, d’altra parte, labili anche per noi. Gordon Craig, dopo aver ironizzato sulle immagini arzigogolate usate dai critici per descrivere il particolare modo di camminare del grande attore inglese Henry Irving, aggiunge con semplicità: «Irving non camminava sul palcoscenico, vi danzava». Lo stesso spostamento dal teatro alla danza venne usato, ma questa volta in senso negativo, per svalutare le ricerche di Mejerchol’d. Di fronte al suo Don Juan, alcuni scrissero che non si trattava di vero teatro ma di balletto. La rigida distinzione fra il teatro e la danza, caratteristica della nostra cultura, rivela una ferita profonda, un vuoto di tradizione che rischia continuamente di attrarre l’attore verso il mutismo del corpo, e il danzatore verso il virtuosismo. Questa distinzione apparirebbe assurda a un artista


ANTROPOLOGIA TEATRALE orientale, così come sarebbe apparsa assurda ad artisti europei di altre epoche storiche: a un giullare o a un comico del Cinquecento. Possiamo chiedere a un attore Nô o a un attore Kabuki come tradurrebbe, nella sua lingua di lavoro, la parola “energia”, ma egli scuoterebbe la testa se gli chiedessimo di tradurre la rigida distinzione fra danza e teatro. «Energia – dice, come abbiamo visto, l’attore Kabuki Sawamura Sojurô – potrebbe essere tradotta con koshi». E l’attore Nô Hideo Kanze: «Mio padre non diceva mai: usa più koshi. Ma mi insegnava di che si trattasse facendomi camminare, mentre lui mi tratteneva per le anche». Per vincere la resistenza, il torso è costretto a piegarsi leggermente in avanti, le ginocchia si flettono, i piedi premono sul terreno e strisciano piuttosto che alzarsi in un passo normale: ciò che risulta è la camminata di base del Nô. L’energia come koshi si rivela non come il risultato di una semplice e meccanica alterazione dell’equilibrio, ma come il risultato di una tensione fra forze contrapposte. L’attore Nô Mannojô Nomura ricordava ciò che dicevano gli attori della scuola Kita: l’attore deve immaginare che al di sopra di lui vi sia un cerchio di ferro che tira verso l’alto, e contro cui bisogna opporre resistenza per tenersi con i piedi al suolo. Il termine giapponese per designare queste forze contrapposte è hippari hai, che significa: tirare a sé qualcuno che ti tira a sua volta. Nel corpo dell’attore hippari hai avviene fra l’alto e il basso e fra l’avanti e il dietro. Ma v’è hippari hai anche fra l’attore e l’orchestra: essi, infatti, procedono non all’unisono, ma cercando di allontanarsi l’uno dall’altra, sorprendendosi vicendevolmente, rompendo l’uno il tempo dell’altra, pur senza allontanarsi fino al punto di perdere il contatto e il particolare legame che li oppone. In questo senso, potremmo dire, allargando il concetto, che le tecniche extra-quotidiane del corpo sono in un rapporto hippari hai, di trazione antagonista, con le tecniche dell’uso quotidiano. Abbiamo visto, infatti, che si allontanano da queste, ma mantenendo la tensione, senza cioè distaccarsene e divenire estranee. Uno dei principi attraverso cui il corpo dell’attore e del danzatore rivela la sua vita allo spettatore, dunque, in una tensione di forze contrapposte, è il principio dell’opposizione. Attorno a questo principio che ovviamente appartiene anche all’esperienza dell’attore e del danzatore occidentale, le tradizioni codificate dell’Oriente hanno edificato diversi sistemi di composizione. Nell’Opera di Pechino, tutto il sistema codificato dei movimenti dell’attore è retto sul principio per cui ogni

Etienne Decroux: “Il mimo è un ritratto del lavoro”.

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movimento deve iniziare dalla direzione opposta a quella in cui si dirige. Tutte le forme di danza balinese sono costruite componendo una serie di opposizioni fra keras e manis. Keras significa forte, duro, vigoroso; manis significa delicato, soffice, tenero. I termini manis e keras possono essere applicati a diversi movimenti, alle posizioni delle diverse parti del corpo in una danza, ai momenti successivi di una stessa danza. Se si esamina una posizione di base della danza balinese, si osserva come essa, che a uno sguardo occidentale può apparire fortemente stilizzata, sia il risultato di un conseguente alternarsi di parti del corpo in posizione keras e parti del corpo in posizione manis. La danza delle opposizioni caratterizza la vita dell’attore e del danzatore a differenti livelli. Ma, in generale, nella ricerca di questa danza l’attore-danzatore ha una bussola per orientarsi: il disagio. «Le mime est à l’aise dans le malaise», il mimo è a suo agio nel disagio, dice Decroux, e questa sua massima trova una serie di echi presso i maestri di teatro di tutte le tradizioni. La maestra di Katzuko Azuma le diceva che per verificare se una posizione era assunta nel modo giusto doveva badare al dolore: se non duole è sbagliato. E sorridendo aggiungeva: «Ma se duole non vuol necessariamente dire che sia giusta». La stessa cosa ripetono Sanjukta Panigrahi, i maestri dell Opera di Pechino, quelli di balletto classico o di danze balinesi. Il disagio diventa, allora, un sistema di controllo, una specie di radar interno che permette all’attore-danzatore di osservarsi mentre agisce. Non si osserva tramite gli occhi, ma tramite una serie di percezioni fisiche che gli confermano che tensioni non abituali, extraquotidiane, abitano il suo corpo. Quando chiedo al maestro balinese I Made Pasek Tempo quale sia, secondo lui, la dote principale per un attore e danzatore, egli risponde che è il tahan, la capacità di resistenza. La stessa consapevolezza si ritrova nella lingua di lavoro dell’attore cinese. Per dire che un attore ha maestria, si dice che ha kung-fu, che letteralmente significa “capacità di tener duro, di resistere”. Tutto ciò ci riporta a quel che in una lingua occidentale potremmo indicare con la parola “energia”: capacità di perdurare nel lavoro. E ancora una volta questa parola rischia di trasformarsi in una trappola. Quando un attore-danzatore occidentale vuole essere energico, quando vuole usare tutte le sue energie, comincia a muoversi con grande vitalità nello spazio, sviluppa grandi movimenti, molta velocità e forza muscolare. Tutto ciò viene associato alle immagini di “fatica”, di “lavoro duro”. Un


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Danza delle opposizioni: (in alto da sinistra) Henry Irving (1838-1905) nella parte del Cardinal Wolsey nell’Enrico VIII di Shake speare, Kanichi Hanayagi in Yashima; l’attore Kabuki Ichikawa Danjuro I (1660-1704); (in basso da sinistra) V.E. Mejerchol’d (18741939) attore in Acrobati di F. Shentan e Tom Leabhart in A little thing.

attore orientale (o un grande attore occidentale) può faticare molto di più quasi senza muoversi. La sua fatica non è determinata da un eccesso di vitalità, dall’uso di grandi movimenti, ma dal gioco delle opposizioni. Il suo corpo diventa carico di energie perché in esso si stabilisce tutta una serie di differenze potenziali che lo rendono vivo, fortemente presente anche nei movimenti lenti o nell’apparente immobilità. La danza delle opposizioni si danza nel corpo prima che con il corpo. È essenziale comprendere questo principio della vita dell’attore, della sua presenza scenica: l’energia non corrisponde necessariamente a dei movimenti nello spazio. Nelle diverse tecniche quotidiane del corpo, nel lokadharmi, le forze che mettono in vita le azioni di distendere o ritrarre un braccio o le gambe, o le dita di una mano agiscono una alla volta. Nel natyadharmi, nelle tecniche extraquotidiane, le due forze contrapposte (distendere e ritrarre) sono in azione simultaneamente: o meglio, le braccia, le gambe, le dita, la schiena, il collo si stendono come resistendo a una forza che li obbliga a piegarsi e viceversa. Katzuko Azuma spiega, ad esempio, quali forze siano al lavoro nel movimento – tipico tanto della danza Buyo quanto del Nô – in cui il torso si inclina leggermente e le braccia si distendono in avanti restando appena arcuate. Lo spiega

parlando di forze che agiscono in senso contrario a cio che si vede: le braccia non si distendono, ma è come se stringessero verso il petto una grande scatola. Per questo, andando verso l’esterno premono verso l’interno, così come il torso, che è come spinto all’indietro, oppone resistenza e si piega in avanti.

Le virtù dell’omissione Il principio che si rivela attraverso la danza delle opposizioni nel corpo è – contro tutte le apparenze – un principio che procede per eliminazione. Esso è lavoro isolato dal proprio contesto, e perciò rivelato. Le danze, che paiono un intreccio di movimenti assai più complessi di quelli quotidiani, sono – in realtà – il risultato di una semplificazione: compongono momenti in cui le opposizioni che reggono la vita del corpo appaiono allo stato semplice. Ciò avviene perché un numero ben delimitato di forze – di opposizioni – vengono isolate, eventualmente amplificate, e montate insieme o in successione. Ancora una volta: si tratta di un uso antieconomico del corpo perché nelle tecniche quotidiane tutto tende a sovrapporsi, con risparmi di tempo e di energia.


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dito indice: keras occhi: keras spalle: keras

gomito: keras

polso: keras polso: keras collo: manis

natiche: keras

gamba: keras

piede: manis

Quando Decroux scrive che il mimo è un «ritratto del lavoro» compiuto dal corpo, ciò che dice può essere assunto anche dalle altre tradizioni. Questo «ritratto del lavoro» del corpo è uno dei principi che presiede alla vita anche di coloro che poi lo nascondono, come per esempio i danzatori del balletto classico, che dissimulano il peso e la fatica dietro un’immagine di leggerezza e di facilità. Il principio delle opposizioni, proprio perché le opposizioni sono l’essenza dell’energia, si collega al principio della semplificazione. Semplificazione significa in questo caso: omissione di alcuni elementi per mettere in rilievo altri che così appaiono essenziali. Gli stessi principi che sottostanno alla vita del danzatore – con i suoi movimenti evidentemente lontani dai movimenti quotidiani – possono sottostare anche alla vita dell’attore, i cui movimenti sembrano più prossimi all’uso quotidiano. Non solo, infatti, si può omettere la complessità dell’uso quotidiano del corpo per lasciare emergere l’essenza del suo lavoro, il suo bios che si manifesta attraverso opposizioni fondamentali, ma si può anche omettere di distendere l’azione nello spazio. Dario Fo spiega come la forza del movimento dell’attore risulti dalla sintesi: cioè sia dalla concentrazione in un piccolo spazio di un’azione che impiega grande energia, sia dalla riproduzione dei soli elementi essenziali di un’azione, eliminando quelli ritenuti accessori. Decroux – come gli attoridanzatori indiani – considera il corpo come limitato essenzialmente al tronco, e considera i movimenti delle braccia e delle gambe come movimenti accessori (o «aneddotici») appartenenti realmente al corpo solo se trovano origine nel tronco. Ciò significa, allora, che possono percorrere la strada inversa: essere assorbiti nei soli movimenti del tronco. Si può parlare di questo processo – secondo cui si restringe lo spazio dell’azione – come un processo di assorbimento dell’energia. Il processo di assorbimento dell’energia si sviluppa da quello dell’amplificazione delle opposizioni, ma rivela una

gamba: manis

alluce: keras altre dita: manis

I principi di keras e manis (forte e dolce) in una posizione di danza balinese illustrata dalla piccola Jas, figlia del danzatore e maestro I Made Pasek Tempo.

nuova e diversa strada per individuare uno di quei principiche-ritornano che possono dimostrarsi utili alla prassi scenica. L’opposizione fra una forza che spinge verso l’azione e una forza che trattiene si traduce in una serie di regole che contrappongono – per usare la lingua di lavoro dell’attore Nô e dell’attore Kabuki – un’energia usata nello spazio a un’energia usata nel tempo. Secondo queste regole, i sette decimi dell’energia dell’attore debbono essere usati nel tempo e solo i tre decimi nello spazio. Gli attori dicono anche che è come se l’azione non terminasse lì dove il gesto si arresta nello spazio ma continuasse molto più avanti. Sia nel Nô che nel Kabuki esiste l’espressione tameru che puo essere rappresentata da un ideogramma cinese che significa “accumulare”, o da un ideogramma giapponese che significa “piegare” qualcosa che è nello stesso tempo flessibile e resistente come per esempio una canna di bambù. Tameru indica il trattenere, il conservare. Da qui il tamè, la capacità di trattenere le energie, di assorbire in un’azione limitata nello spazio le energie necessarie per un’azione più ampia. Questa capacità diventa, per antonomasia, un modo per indicare il talento dell’attore-danzatore in generale. Per dire che l’allievo ha o non ha sufficiente presenza scenica, sufficiente forza, il maestro gli dice che ha o non ha tamè. Tutto questo può apparire il risultato di una codificazione complicata ed eccessiva dell’arte dell’attore-danzatore. In realtà si tratta di un’esperienza comune agli attori-danzatori di diverse tradizioni: comprimere in movimenti ristretti le stesse energie fisiche messe in moto per compiere un’azione più ampia e pesante. Ad esempio: accendere una sigaretta mobilizzando l’intero corpo, come se si dovesse sollevare non un cerino ma un grosso peso; accennare col mento e socchiudere appena la bocca impiegando le stesse forze usate per mordere qualcosa di duro. Questo processo fa


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ANTROPOLOGIA TEATRALE per l’attore-danzatore, omissione significa piuttosto “trattenere”, non gettar via, in un eccesso di espressività e di vitalità ciò che caratterizza la propria presenza scenica. La bellezza dell’omissione, infatti, è la bellezza dell’azione indiretta, della vita che si rivela con il massimo di intensità nel minimo di attività. Ancora una volta, è di un gioco di opposizioni che si tratta, che conduce oltre il livello pre-espressivo dell’arte dell’attore e del danzatore.

Intermezzo

Sequenza di una sintesi di Dario Fo: momenti di immobilità nella tensione estrema delle opposizioni.

scoprire una qualità d’energia che rende teatralmente vivo l’intero corpo dell’attore anche nell’immobilità. È per questo, probabilmente, che le così dette controscene divennero le grandi scene di molti celebri attori: obbligati a non agire, a restare di lato, mentre altri svolgevano l’azione principale, essi erano capaci di assorbire in movimenti quasi impercettibili le forze di azioni che, per così dire, erano loro negate. E proprio in quei casi il loro bios, la loro presenza scenica, risaltava con forza particolare e impressionava la mente dello spettatore. Le controscene non appartengono solo alla tradizione dell’attore occidentale. Fra il XVII e il XVIII secolo, l’attore Kabuki Kameko Kichizaemon compilò un trattato sull’arte dell’attore dal titolo Polvere nelle orecchie. Egli dice che in certi spettacoli, quando uno solo degli attori sta danzando e gli altri volgono le spalle al pubblico e siedono di fronte ai musicisti, gli attori che stanno così in disparte usano rilassarsi. «Io non mi rilasso – scrive Kameko Kichizaemon – ma eseguo l’intera danza nella mia mente. Se non lo facessi la vista della mia schiena sarebbe così poco interessante da infastidire lo sguardo dello spettatore». Le virtù teatrali dell’omissione non consistono nel “lasciar perdere”, nell’indefinito, nella non-azione. In scena,

Attore Kabuki e l’ikebana creato dalle linee essenziali della sua posizione.

Ci si potrebbe chiedere se i principi per la vita dell’attore e del danzatore che abbiamo fino a qui incontrato non ci portino troppo lontano dal teatro e dalla danza che conosciamo e pratichiamo in Occidente. Ci si potrebbe chiedere se essi siano davvero dei buoni consigli utili alla pratica scenica o se non siano, invece, solo un miraggio. Ci si potrebbe chiedere se individuare il livello pre-espressivo dell’arte dell’attore e del danzatore non ci distacchi dai vari problemi della loro arte. Il livello pre-espressivo non è forse verificabile solo in una cultura teatrale altamente codificata? La tradizione occidentale non è forse caratterizzata dalla mancanza di codificazione e dalla ricerca di un’espressione individuale? Sono delle domande impegnative e invece che a delle risposte immediate ci provocano a una pausa di riposo. Parleremo, quindi, di fiori. Se disponiamo dei fiori in un vaso lo facciamo perché mostrino la loro bellezza, rallegrino la vista e l’olfatto. Possiamo anche far loro assumere significati ulteriori: pietà filiale o religione, amore, riconoscenza, rispetto. Ma per belli che siano, i fiori hanno un difetto: strappati dal loro contesto, continuano, però, a rappresentare se stessi. Sono come l’attore di cui parla Decroux: un uomo condannato a rassomigliare a un uomo, un corpo che imita un corpo. Il che può essere piacevole, ma non è sufficiente per l’arte. Perché ci sia arte, Decroux aggiunge, bisogna che l’idea della cosa sia rappresentata da un’altra cosa. I fiori in un vaso, invece, sono irrimediabilmente fiori in un vaso, soggetti d’opere d’arte a volte, ma mai opere d’arte essi stessi. Ma immaginiamo di usare i fiori recisi per rappresentare qualche altra cosa: la lotta della pianta per crescere, per allontanarsi dal terreno in cui affonda tanto più le radici quanto più si alza verso il cielo. Immaginiamo di voler rappresentare il passaggio del tempo, come la pianta sbocci, cresca, si chini e muoia. Se riusciremo nel nostro intento, i fiori rappresenteranno qualcosa d’altro dai fiori e comporranno un’opera d’arte. Avremmo fatto, cioè, un ikebana. Ikebana significa – se si segue il valore dell’ideogramma – “far vivere i fiori”. La vita dei fiori, proprio perché è stata recisa, bloccata, può essere rappresentata. Il procedimento è chiaro: qualcosa è stato strappato alle sue normali regole di vita (a questo stadio si fermano i nostri normali fiori disposti in un vaso) e quelle regole sono state sostituite e ricostruite analogicamente con altre regole equivalenti. I fiori, per esempio, non possono agire nel tempo, non si può rappresentare in termini temporali il loro sbocciare e appassire. Ma il passaggio del tempo può essere suggerito con un parallelo nello spazio: si può accostare – cioè paragonare – un fiore in boccio a un altro già sbocciato: si possono sottolineare le direzioni in cui si sviluppa la pianta, la forza che la lega a terra e quella che la spinge ad allontanarsi, con due rami che si spingono l’uno verso l’alto, l’altro verso il basso. Un terzo ramo che si innalza lungo una linea obliqua può evidenziare


ANTROPOLOGIA TEATRALE la forza composta che risulta dalle due opposte tensioni. Una composizione che sembra derivare da un raffinato gusto estetico è il risultato dell’analisi e della dissezione di un fenomeno e della trasposizione di energia che agiscono nel tempo in linee che si tendono nello spazio (principio di equivalenza). Questa trasposizione equivalente apre la composizione a nuovi significati, diversi da quelli originari: ecco che il ramo che tende verso l’alto viene associato al Cielo, il ramo che tende verso il basso alla Terra, e il ramo di centro alla mediazione fra questi due opposti principi, l’Uomo. Il risultato di un’analisi schematica della realtà e della trasposizione secondo principi che la rappresentano senza riprodurla, diventa l’oggetto di una contemplazione filosofica. «Il pensiero ha difficoltà a fissare il concetto di bocciolo, perché la cosa così designata è in preda a un impetuoso sviluppo, e mostra, scappando di sotto al pensiero, un grande impulso a non essere bocciolo, bensì un fiore». Sono parole che Brecht attribuisce a Hü-jeh, che aggiunge: «Così, per chi pensa, il concetto di bocciolo è già il concetto di qualcosa che aspira a non essere quel che è». Quel pensiero “difficile” è precisamente ciò che l’ikebana si propone di essere: indicare il passato e suggerire il futuro, rappresentare attraverso l’immobilità, il moto continuo per cui ciò che è positivo si rovescia in negativo e viceversa. L’esempio dell’ikebana ci mostra come significati astratti nascano da un preciso lavoro di analisi e di trasposizione di un fenomeno fisico. Partendo da quei significati mai si raggiungerebbe la concretezza e la precisione dell’ikebana, mentre partendo da questa si raggiungono quelli. Nei confronti dell’attore-danzatore spesso si tenta di procedere dall’astratto al concreto, si crede che il punto di partenza possa essere costituito dalle cose da esprimere, le quali poi implicherebbero le tecniche adatte a esprimerle. Un sintomo di questa assurda credenza è fornito dalla diffidenza verso le forme di spettacolo codificato, e verso i principi per la vita dell’attore-danzatore che essi racchiudono. Quei principi, infatti, non sono suggerimenti estetici fatti per aggiungere bellezza al corpo dell’attore-danzatore. Sono mezzi per togliere al corpo gli automatismi quotidiani, per impedirgli, cioè, di essere solo un corpo umano condannato a rassomigliare a se stesso, a presentare e rappresentare solo se stesso. Quando certi principi tornano con frequenza, in diverse latitudini e tradizioni, si può presumere che “funzionino” praticamente anche nel nostro caso. L’esempio dell’ikebana mostra come certe forze che si sviluppano nel tempo possano trovare un’equivalenza in termini di spazio. Questo sostituire con forze equivalenti quel che caratterizza le tecniche quotidiane del corpo è alla base del sistema del mimo di Decroux. Spesso Decroux rende l’idea di un’azione reale agendo esattamente al contrario. Rivela, per esempio, l’azione di spingere qualcosa non proiettandosi con il busto in avanti e facendo forza sul piede che sta dietro – come accade nell’azione reale – ma arcuando la schiena all’indietro, come se invece di spingere fosse spinta, flettendo le braccia verso il petto e facendo forza sul piede e la gamba davanti. Questa inversione radicale delle forze rispetto a quelle che caratterizzano l’azione reale, restituisce il lavoro – o lo sforzo – che entra in gioco nell’azione reale. Accade, in questi casi, come se il corpo dell’attore-danzatore venisse scomposto e ricomposto secondo regole che non seguono più quelle della vita quotidiana. Alla fine di quest’opera di ricomposizione, il corpo non assomiglia più a se stesso. Come i fiori dei nostri vasi o degli ikebana giappo-

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Onde: ikebana della scuola Soghetsu.

nesi, anche l’attore e il danzatore sono recisi dal contesto “naturale” in cui si agisce, recisi dalle regioni in cui dominano le tecniche quotidiane del corpo. Come i fiori e i rami dell’ikebana anche l’attore-danzatore, per vivere teatralmente, non puo presentare ciò che è. Deve rappresentare ciò che vuol mostrare attraverso forze e procedimenti che abbiano lo stesso valore ed efficacia. Detto con altre parole: deve abbandonare i propri automatismi. Le diverse codificazioni dell’arte dell’attore e del danzatore sono, innanzi tutto, metodi per rompere gli automatismi della vita quotidiana creandone degli equivalenti. Naturalmente, la rottura degli automatismi non è espressione. Ma senza rottura degli automatismi non c’è espressione. «Uccidi il respiro! Uccidi il ritmo!» ripeteva a Katzuko Azuma la sua maestra. Uccidere il respiro e uccidere il ritmo significa rendersi conto della tendenza a legare automaticamente il gesto al ritmo del respiro e della musica, e infrangerla. I giapponesi sono forse coloro nella cui cultura scenica il problema della natura degli automatismi della vita quotidiana è stato più coscientemente e radicalmente affrontato. I precetti che nella lingua di lavoro usata dalla maestra di Katzuko Azuma impongono di uccidere il ritmo (otoo korosò) e di uccidere il respiro mostrano come la ricerca delle opposizioni possa essere finalizzata alla rottura degli automati-

Analisi schematica di un arabesque, una delle posizioni fondamentali del balletto classico, conosciuta nel XVIII sec. e codificata da Carlo Blasis.


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Katsuko Azuma, danzatrice giapponese di Buyo, insegna a un’allieva a muoversi secondo il ritmo jo-ha-kyu.

smi delle tecniche quotidiane del corpo. Uccidere il ritmo, infatti, significa creare una serie di tensioni per non fare coincidere i movimenti della danza con le cadenze della musica. Uccidere il respiro significa, fra l’altro, trattenere il respiro anche nel momento dell’espirazione – che è rilassamento – opponendole una forza contraria. Katzuko Azuma diceva che era per lei una vera e propria sofferenza vedere un danzatore che – come accade in tutte le culture tranne la giapponese – va a tempo. Ed è facile capire come per lei, in base alle particolari soluzioni della sua cultura, una danza che segue il ritmo della musica sia qualcosa che mette a disagio, perché mostra un’azione che viene decisa dall’esterno, dalla musica, o dagli automatismi del comportamento quotidiano. La soluzione che la cultura giapponese ha trovato per questo problema appartiene a lei sola. Ma il problema che essa illumina con un’evidenza tutta particolare riguarda in generale l’attore e il danzatore e la sua capacità di infrangere automatismi attraverso equivalenze extra-quotidiane che ne potenziano il suo “essere-in-vita”.

re a qualcuno cosa significhi “essere decisi” dovremmo ricorrere a innumerevoli associazioni di idee, a innumerevoli esempi, alla costruzione di situazioni artificiali. Eppure ognuno di noi crede di sapere molto bene cosa questa espressione indichi. Tutte le complesse immagini, le collane di regole astruse che si intrecciano attorno all’attore e al danzatore, l’elaborazione di precetti artistici che sembrano – e sono – il risultato di estetiche sofisticate, sono i volteggi e le acrobazie della volontà di trasmettere un’esperienza che in senso proprio non si può trasmettere, ma soltanto fare. Cercare di spiegare l’esperienza dell’attore e del danzatore in realtà significa creare artificialmente, con una complicata strategia, le condizioni in cui questa esperienza può riprodursi. Immaginiamo di penetrare ancora una volta nell’intimità del lavoro che si svolge fra Katzuko Azuma e la sua maestra. Anche la maestra si chiama Azuma. Quando riterrà di averle trasmesso la sua esperienza, trasmetterà anche il suo nome all’allieva. Azuma, dunque, dice alla futura Azuma: «Trova il tuo Ma». Ma significa qualcosa di simile a “dimensione” nel significato di spazio, ma anche di tempo come durata. «Per trovare il tuo Ma devi uccidere il ritmo, trovare cioè il tuo jo-ha-kyu». L’espressione jo-ha-kyu designa le tre fasi in cui viene suddivisa ogni azione dell’attore e del danzatore. La prima fase è determinata dall’opposizione fra una forza che tende a svilupparsi e un’altra che la trattiene (jo, trattenere); la seconda fase (ha, rompere, spezzare) è costituita dal momento in cui ci si libera di questa forza, fino ad arrivare alla terza fase (kyu, rapidità) in cui l’azione raggiunge il suo culmine, dispiega tutte le sue forze per poi arrestarsi improvvisamente come davanti a un ostacolo, a una nuova resistenza. Per insegnare ad Azuma a muoversi secondo lo jo-ha-kyu la sua maestra la trattiene per la cintura e improvvisamente la lascia. Azuma fatica a compiere i primi passi, piega le ginocchia, preme le piante dei piedi sul terreno, inclina leggermente il busto, poi, abbandonata a se stessa, scatta via, avanza velocemente fino al limite prefissato, davanti al quale si arresta come sull’orlo di un burrone che improvvisamente si apra a pochi centimetri dai suoi piedi. Ciò che fa, in altre parole, è il movimento che chiunque abbia visto delle danze o dei teatri classici giapponesi si è abituato a riconoscere come caratteristico. Quando un attore-danzatore ha appreso, come una seconda natura, questo modo artificiale di

Un corpo deciso In molte lingue europee esiste un’espressione che potrebbe essere scelta per condensare ciò che è essenziale per la vita dell’attore e del danzatore. È un’espressione grammaticalmente paradossale, in cui una forma passiva viene ad assumere un significato attivo e in cui l’indicazione di una energica disponibilità all’azione si mostra come velata da una forma di passività. Non è un’espressione ambigua, ma ermafrodita, somma in sé azione e passione, e malgrado la sua stranezza è un’espressione del linguaggio comune. Si dice, infatti, “essere deciso”, “être décidé”, “to be decided”. E non si intende dire che qualcosa o qualcuno ci decide, che subiamo una decisione o siamo oggetto di essa. Ma neppure si intende dire che stiamo decidendo, che siamo noi a condurre l’azione di decidere. Fra queste due opposte condizioni scorre una vena di vita che la lingua sembra non poter indicare e su cui volteggia con delle immagini. Nessuna spiegazione ma solo l’esperienza diretta mostra cosa voglia dire “essere decisi”. Per spiega-

Il corpo fittivo: il danzatore Christian Holder nella parte del Prestigiatore Cinese nel balletto Parade di Massine.


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muoversi, appare tagliato fuori dallo spazio-tempo quotidiani e appare vivo: è, cioè, deciso. Decidere vuol dire, etimologicamente, tagliar via. L’espressione “essere deciso” assume, così, ancora un’altra faccia: è come se indicasse che la disponibilità alla creazione è anche il tagliarsi fuori dalle pratiche quotidiane. Le tre fasi dello jo-ha-kyu impregnano gli atomi, le cellule e l’intero organismo di uno spettacolo giapponese. Si applicano a ogni azione dell’attore, a ogni suo gesto, alla respirazione, alla musica, a ogni scena teatrale, a ogni singolo dramma, alla composizione di una giornata di drammi Nô. È una sorta di codice della vita che percorre tutti i livelli di organizzazione del teatro. René Sieffert sostiene che la regola dello jo-ha-kyu è una «costante del senso estetico dell’umanità». In un certo senso è vero, anche se una regola si dissolve in qualcosa di insignificante se finisce per essere applicabile a tutto. Dal nostro punto di vista è più importante un’altra constatazione di Sieffert: che lo jo-ha-kyu permette all’attore – come spiega Zeami – di infrangere apparentemente le regole per ristabilire il contatto con il pubblico. Qui risiede forse una costante della vita dell’attore e del danzatore: il legame tra l’edificazione di regole artificiali e la loro infrazione. Un attore che ha solo regole è un attore che non ha più teatro, ma solo liturgia. Un attore che non ha regole è anch’egli privo di teatro, ha solo il lokadharmi, il comportamento quotidiano, con la sua noia e la sua necessità di provocazione diretta per tener desta l’attenzione. Tutti gli insegnamenti che Azuma impartisce ad Azuma sono diretti alla scoperta del centro della propria energia. I metodi della ricerca sono codificati meticolosamente, frutto di generazioni e generazioni di esperienza. Il risultato è incerto, impossibile da definire con precisione, diverso da persona a persona. Oggi, Azuma dice che il principio della sua vita, della sua presenza scenica, della sua energia di attrice e danzatrice può essere definito come un centro di gravità che sta al centro di una linea che va dall’ombelico al coccige. Ogni volta che danza, Azuma cerca di trovare l’equilibrio attorno a questo centro. Ancora oggi, malgrado tutta la sua esperienza, malgrado il fatto che sia stata allieva di una delle più grandi maestre, e sia lei stessa, oggi, maestra, non sempre lo trova. Lei immagina (o forse sono le immagini con cui le si cercò di trasmettere l’esperienza) che il centro della sua energia sia una palla di acciaio che sta in un punto della linea che va dall’ombelico al coccige, o dal triangolo formato congiungendo le due estremità delle anche al coccige, e che la palla di acciaio sia ricoperta di molti strati di cotone. Il balinese I Made Pasek Tempo fa un cenno di assenso: «Tutto quel che fa Azuma è davvero così, dice: keras ricoperto di manis».

Un corpo fittivo Nella tradizione occidentale, il lavoro dell’attore è stato orientato da una rete di finzioni, di “sé magici” che riguardano la psicologia, il carattere, la storia della sua persona e del suo personaggio. Anche i principi pre-espressivi della vita dell’attore non sono qualcosa di freddo, che riguarda la fisiologia e la meccanica del corpo. Anch’essi sono basati su una rete di finzioni, di “sé magici” che riguardano le forze fisiche che muovono il corpo. Ciò che l’attore cerca, in questo caso, è un corpo fittivo, non una personalità finta. Nelle tradizioni orientali, nel balletto classico, nel sistema del mimo di Decroux ogni gesto del corpo, per rompere gli

Il corpo deciso: (in alto) Pei Yanling, attrice dell’Opera di Pechino; (in basso) Martine Van Hamel, danzatrice di balletto classico.


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automatismi del comportamento quotidiano, è drammatizzato, è compiuto immaginando di spingere qualcosa, di sollevare, di toccare oggetti di una determinata forma e dimensione, di un determinato peso e di una determinata consistenza. Si tratta di una vera e propria psicotecnica che non ha, però, lo scopo di influenzare la psiche dell’attore, ma il suo fisico. Appartiene, quindi, alla lingua che l’attore-danzatore parla con se stesso, o tutt’al più a quella che il maestro parla con l’allievo, ma che non ha alcuna pretesa di significare qualcosa per lo spettatore che vede. Per trovare la tecnica extra-quotidiana del corpo, l’attore-danzatore non studia fisiologia, ma crea una rete di stimoli esterni a cui reagisce con azioni fisiche. Nella tradizione indiana, fra le dieci qualità dell’attore-danzatore c’è quella del saper guardare, di saper dirigere lo sguardo nello spazio. È questo il segno che l’attore-danzatore reagisce a qualcosa di preciso. Possiamo vedere un attore che esegue in maniera straordinaria gli esercizi del suo allenamento, ma se il suo sguardo non è precisamente direzionato, le sue azioni non hanno forza. Il corpo può essere, al contrario, rilassato, ma gli occhi essere in azione, cioè guardare per vedere e l’intero corpo, allora, diventa vivo. In questo senso si può dire che gli occhi sono come una seconda spina dorsale dell’attore. Tutte le tradizioni orientali codificano i movimenti degli occhi, le direzioni che debbono seguire. Cio non riguarda soltanto lo spettatore, ciò che egli vede, ma anche l’attore, il modo in cui popola lo spazio vuoto con linee di forza, con stimoli a cui reagisce. Alla fine del suo diario, l’attore Kabuki Sadoshima Dempachi, morto nel 1712, scrive che esiste un’espressione secondo cui «si danza con gli occhi» e che ciò significa che la danza può essere paragonata al corpo e gli occhi all’anima. Aggiunge che la danza a cui gli occhi non prendono parte è una danza morta, mentre è viva la danza cui partecipano insieme i movimenti del corpo e quelli degli occhi. Anche nelle tradizioni occidentali gli occhi sono “specchio dell’anima”, e gli occhi dell’attore possono essere visti come il punto intermedio fra le tecniche extra-quotidiane del suo comportamento fisico e una sua psicotecnica extra-quotidiana. Sono gli occhi che mostrano che egli è deciso e che lo fanno essere deciso. Appassionato di film western, il grande fisico danese Niels Bohr si chiedeva perché, in tutti i duelli finali, il protagonista sia più veloce a sparare anche se è il suo avversario a metter per primo mano alla pistola. Bohr si chiedeva se dietro questa convenzione non ci fosse una qualche verosimiglianza fisica. Risolse di sì: il primo è più lento perché decide di sparare, e muore. Il secondo vive perché è più veloce, ed è più veloce perché non deve decidere: è deciso. «La vera espressione – ha detto Grotowski in una intervista – è quella dell’albero». E spiegava: «Se un attore vuole esprimere, allora è diviso: c’è una parte che vuole e una che esprime, una parte che ordina e una che esegue gli ordini».

Un milione di candele Inseguendo la traccia dell’energia dell’attore e del danzatore, siamo giunti a intravederne il nocciolo: a) nell’amplificazione e nella messa in gioco delle forze che sono in opera nell’equilibrio; b) nelle opposizioni che reggono la dinamica dei movimenti; c) in un’opera di riduzione e di sostituzione che fa sempre emergere l’essenziale delle azioni e allontana il corpo dell’at-

(In alto) Un allievo Kathakali in un esercizio per l’allenamento degli occhi. (In basso) Iben Nagel Rasmussen nel ruolo di Kattrin nello spettacolo dell’Odin Teatret Ceneri di Brecht (1982).


ANTROPOLOGIA TEATRALE tore dalle tecniche quotidiane del corpo, creando una tensione, una differenza di potenziale attraverso cui passa energia. Le tecniche extra-quotidiane del corpo consistono in procedimenti fisici che appaiono fondati sulla realtà che si conosce, ma secondo una logica che non è immediatamente riconoscibile. Ora siamo in grado, se non di comprendere, per lo meno di intuire cosa si dissimuli dietro altre parole con cui la nostra parola “energia” può essere tradotta: sono le parole che rimandano a un’unità, al risarcimento di una divisione, a un attore-danzatore che dopo essersi dissezionato si ritrova intero. Nella lingua di lavoro del Nô, “energia” può essere tradotta con ki-ai, che significa “accordo profondo” (ai) dello spirito (ki, nel senso di spirito come pneuma e di spiritus, respiro) con il corpo. Anche in India e a Bali è la parola prana (equivalente a ki-ai) a fornire una delle possibili traduzioni di “energia”. Ma tutte queste sono immagini che possono ispirare, non consigli capaci di guidare. Esse accennano, infatti, a qualcosa che sta aldilà dell’intervento del maestro: ciò che noi chiamiamo espressione, o “fascino sottile”, o arte dell’attore. Quando Zeami scriveva dello yugen, il fascino sottile, citava come esempio la danza Shirabioshi che prese nome da donne che danzavano nel Giappone del XIII secolo vestite da uomo, con una spada in mano. La ragione per cui, così spesso, specialmente in Oriente – ma anche in Occidente – il culmine dell’arte dell’attore sembra essere toccato da uomini che rappresentano personaggi femminili, o da donne che rappresentano personaggi maschili, è che in quei casi l’attore o l’attrice fa esattamente il contrario di ciò che fa oggi l’attore che si traveste in una persona dell’altro sesso: non si traveste, ma si sveste della maschera del suo sesso per lasciare trasparire un temperamento dolce o vigoroso, indipendente dagli schemi a cui un uomo o una donna debbono conformarsi in una determinata cultura. Negli spettacoli delle diverse civiltà, i personaggi maschili e quelli femminili sono rappresentati con quei temperamenti che le diverse culture identificano come “naturalmente” appropriati al sesso femminile o a quello maschile. La rappresentazione dei caratteri distintivi dei sessi è quindi, nelle opere teatrali, la più soggetta alle convenzioni: si tratta di un condizionamento così profondo da rendere quasi impossibile la distinzione tra sesso e temperamento. Quando un attore rappresenta un personaggio di sesso opposto al suo, l’identificazione tra determinati temperamenti e l’uno o l’altro dei due sessi si incrina. È forse il momento in cui l’opposizione fra lokadkarmi e natyadharmi, fra il comportamento quotidiano e quello extra-quotidiano, scivola dal piano fisico a un altro piano non più immediatamente riconoscibile. Una nuova presenza fisica e una nuova presenza spirituale si rivelano attraverso la rottura – che nel teatro e nella danza viene paradossalmente accettata – dei ruoli maschili e femminili. Parlando con Sanjukta Panigrahi, emerge la più giusta e la meno utilizzabile delle traduzioni del termine “energia”. La meno utilizzabile perché traduce l’esperienza di un punto di arrivo e di un grande risultato; non traduce l’esperienza della via per conseguirlo. Sanjukta Panigrahi ricorda che energia si dice Shakti: è l’energia creatrice, che non è né maschile né femminile, ma che viene rappresentata da un’immagine di donna. Ma l’attore e il danzatore, indipendentemente dal prorio sesso, dice Sanjukta Panigrahi, sono sempre Shakti, energia che crea. Dopo aver parlato della danza delle opposizioni su cui si fonda la vita dell’attore e del danzatore e dopo esserci occupati dei contrasti che essi volontariamente amplificano, del-

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(In alto) Attore di teatro Kabuki (stampa del XVIII sec.): per rappresentare l’azione del vedere l’attore non dirige verso l’oggetto della visione solo gli occhi e lo sguardo ma impegna tutto il corpo. (Al centro) La shakti o energia di Sanjukta Panigrahi. (In basso) Il ki-ai di Kosuke Nomura.


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l’equilibrio che essi volontariamente rendono precario e mettono in gioco, l’immagine della Shakti può divenire un simbolo di tutto ciò di cui qui non si parla, della domanda fondamentale: come si diventa un buon attore? In una delle sue danze, Sanjukta Panigrahi mostra Ardhanarishwara, Shiva per metà femminile. Subito dopo di lei, l’attrice danese Iben Nagel Rasmussen presenta Moon and Darkness: siamo a Bonn, alla fine della International School of Theatre Anthropology, dove per un mese pedagoghi e allievi provenienti dai diversi continenti si sono accaniti attorno alle basi tecniche, pre-espressive, fredde, del lavoro dell’attore. Il canto che accompagna la danza di Sanjukta dice: A te mi inchino che sei forma di maschio e di femmina, due deità in una, che nella metà femmina ha il vivido colore del fiore di Champak e nella metà maschio ha il pallido colore del fiore di canfora. La metà femmina fa tintinnare bracciali d’oro, la metà maschio è adorna di bracciali di serpenti. La metà femmina ha occhi d’amore, la metà maschio ha occhi di meditazione. La metà femmina ha una ghirlanda di fiori di mandorlo, la metà maschio una ghirlanda di teschi. Di vesti abbaglianti è vestita la metà femmina, nuda è la metà maschio. La metà femmina è capace di tutte le creazioni, la metà maschio è capace di tutte le distruzioni. A lei mi rivolgo, congiunta al Dio Shiva, suo sposo. A Lui mi rivolgo congiunta alla Dea Shiva, sua sposa. Iben Nagel Rasmussen, invece, canta il lamento dello sciamano di un popolo distrutto. Subito dopo ricompare come Kattrin, la figlia muta di Madre Coraggio, un’adolescente che balbetta parole rapite, sulla soglia di un mondo in guerra. L’attrice orientale e l’attrice occidentale sembrano allontanarsi, ognuna nel fondo della propria cultura. Eppure, si raggiungono. Sembrano superare non solo la loro persona e il loro sesso, ma persino la loro perizia artistica, per mostrare qualcosa che sta dietro a tutto ciò. Il maestro d’attori sa quanti anni di lavoro stiano alla base di questi istanti. Eppure gli sembra che qualcosa sbocci spontaneamente, né cercato né voluto. Non ha niente da dire. Può solo guardare come Virginia Woolf guardava Orlando: «Un milione di candele ardevano in Orlando, senza che egli si desse pensiero di accenderne neppure una sola».

(In alto) Shiva Ardhanarishwara: figura androgina (bassorilievo del VII sec. d.C., Museo Archeologico di Jhalawar, India).

(Alla pag. seguente) L’onda a Kanagawa: ventesima tavola della serie Trentasei vedute del Fuji di Hokusai (1760-1849) incise tra il 1826 e il 1833.




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