«Anna Ximenes. Storia d'amore e di rivoluzione», di Bianca Tragni

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Bianca Tragni

Anna Ximenes Storia d’amore e di rivoluzione


Indice

Anna e Manuele

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Incontro a Minervino, p. 9 - La congiura di Stato e la morte di Manuele, p. 20 - Anna e la lettera-testamento, p. 27

Altamura laboriosa e la visita dei Reali

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Graziantonio il trainiere, p. 30 - I Borbone nelle Puglie, p. 34 - Re Ferdinando ad Altamura, p. 38 - E poi venne Carolina..., p. 43 - Notte di veglia, giorno di festa, p. 49 - Grazio e la regina, p. 51

La rivoluzione

57

L’incubazione, p. 57 - La Repubblica napolitana, p. 64 - La rivoluzione dilaga in Puglia, p. 66 - Altamura repubblicana, p. 72 - La prima ombra si stende sull’Albero, p. 76

La controrivoluzione

82

Il terrore delle insurgenze, p. 82 - La stagione dell’odio, p. 85 - In Capitanata, p. 85 - In Terra di Bari, p. 87 - In Salento, p. 103 - Le false Altezze, p. 107 - La risposta del governo repubblicano di Napoli, p. 114 - L’impresa del cardinale Ruffo, p. 116 - Altamura si prepara, p. 121

Altamura Leonessa

123

La resistenza, p. 123 - Il saccheggio imminente, p. 133 All’arrembaggio!, p. 137 - I martiri, p. 140 - Ultimo atto, p. 149 - Ruffo da Altamura a Napoli, p. 153 - Il cavalier Micheroux, l’anti-Ruffo, p. 156

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Grazio e Anna

167

Quella notte di tregenda..., p. 167 - La vita continua, p. 178 - La pace di Firenze, p. 181 - I rientrati, p. 184 - Le nozze, p. 188 - Ritorno ad Altamura, p. 191

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Anna Ximenes Storia d’amore e di rivoluzione


Altamura, “L’Albero della libertà”, 1799; 8disegno a matita di Paolo Sciancalepore, 2003.


La Repubblica napolitana Finalmente la notizia da tutti attesa arrivò il 1° febbraio: nella capitale era stata dichiarata decaduta la monarchia e proclamata la Repubblica napolitana. Dopo due giorni, il 23 gennaio 1799, il generale francese Championnet, ad un segnale da Castel Sant’Elmo, era entrato in città ed aveva combattuto nelle strade, corpo a corpo coi lazzaroni, unici difensori del trono di quel re pavido e fuggiasco. Così aveva assicurato il sostegno delle armi alla neonata Repubblica sorella. I giacobini napoletani erano i protagonisti di questo straordinario rivolgimento; un gruppo di loro, donne, guidate proprio da Eleonora Pimentel, si era arrampicato sul colle di Sant’Elmo e con uno stratagemma, fingendosi le mogli dei prigionieri cui portavano qualche indumento, dagli spalti della fortezza avevano sventolato il tricolore repubblicano, giallo, rosso e blu. Era il segnale convenuto con il comando francese che così poté entrare in città. Championnet e i capi della rivoluzione formarono il nuovo governo di cui fu primo presidente Carlo Lauberg, il maestro di tutti; gli successe poco dopo il pugliese Ignazio Ciaia, il poeta di Fasano. Furono ministri il lucano Mario Pagano, Melchiorre Delfico, Domenico Cirillo, Pasquale Baffi, Cesare Paribelli, Antonio Leonardo Albanese di Noci. Il governo fu articolato in sei Comitati (Centrale, Militare, Legislazione, Polizia generale, Finanza, Amministrazione interna) che tutti insieme formavano l’Assemblea legislativa ed esercitavano il potere esecutivo. Nei giorni successivi, tra gli altri provvedimenti, venne ordinato che tutti i tribunali, gli organi civili, amministrativi e militari che erano regi, si dichiarassero repubblicani. Il 2 febbraio si pubblicò il primo numero del giornale ufficiale del governo provvisorio, il “Monitore napoletano”. Alla coraggiosa e colta Eleonora Pimentel ne fu affidata la direzione, la redazione, la stampa e tutto quanto servisse a diffonderlo. Fu lo strumento principale della rivoluzione e della sua estensione a tutto il regno. In verità videro la luce molti altri fogli, ma la loro fortuna fu limitata anche a causa del diffuso

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analfabetismo tra il popolo. Eleonora sosteneva che per farsi capire dal popolo bisognava parlare in dialetto e lei stessa si recava di frequente nei quartieri popolari, tra i bassi di Forcella o Spaccanapoli, a spiegare la repubblica e la rivoluzione in dialetto napoletano. Per giungere al popolo, il governo repubblicano indisse un concorso a premi per la redazione di un Catechismo ufficiale della Repubblica napolitana. Per educare i sudditi a diventare cittadini si pensò che la formula religiosa del Catechismo fosse la più efficace. Vinse il concorso il canonico Onofrio Tataranni, di Matera, che col suo Catechismo nazionale pe’l cittadino scrisse un vero capolavoro di educazione politica e di teologia repubblicana. Quando le prime rivoluzionarie notizie giunsero ad Altamura, Giuseppe Giannuzzi le volle comunicare immediatamente e personalmente al prelato. Con fare deciso, insieme a un gruppo di suoi fedelissimi, chiese di entrare nel palazzo Prelatizio la notte stessa e, giunto al cospetto dell’uomo di Chiesa, disse: «Monsignore, i destini della patria sono compiuti. La monarchia non c’è più. Ora c’è la repubblica». «Evviva la repubblica!» gridarono a gran voce i suoi accompagnatori. «Vostra eccellenza deve togliere subito, da qui e da tutte le chiese, ogni insegna regia: trono, stemma, aquila, ritratti degli ex sovrani. Il popolo ormai si è liberato della loro tirannia e non vuole più vederli. Se non lo farete voi, lo faremo noi con le nostre mani.» E così fu. Gruppi di giacobini esaltati giravano per la città infrangendo e distruggendo tutti i segni dell’antico regime. In piazza si intrecciavano discussioni, manifestazioni, discorsi, polemiche, battibecchi. Il canonico don Michele Chierico, repubblicano di ferro, strappò i ritratti dei sovrani dal tosello della Confraternita di San Biagio, li fece in mille pezzi, li gettò per terra e li calpestò con disprezzo. I confratelli realisti gli furono subito addosso e chissà quale rissa cruenta sarebbe scoppiata, se il popolo non lo avesse salvato circondandolo e sottraendolo alla feroce reazione dei monarchici.

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Ma anche fra i patrioti non vi era concordia. Nel Sedile della città, a fianco del Duomo, vennero quasi alle mani. Chi sosteneva che, se c’era la rivoluzione, si dovevano assaltare i palazzi e le proprietà dei ricchi per avere l’uguaglianza sociale; chi invece sosteneva che la proprietà privata era espressione di libertà, dunque andava difesa. Prevalse questa linea, di cui si fece garante lo stesso Giuseppe Giannuzzi, ma che fu sostenuta soprattutto dal clero più moderato. L’arcidiacono don Luca Cagnazzi, mentre si recava in chiesa, fu fermato da popolani sconcertati e confusi che gli chiesero: «Ma ciobb jé sta libberté?». «È quella insegnataci da Gesù Cristo nel Vangelo» rispose il religioso. Ed entrò in chiesa. Ma quelli lo seguirono e lo pregarono di uscire a predicare a tutti che la libertà non significava rubare, assaltare, distruggere, come volevano i più estremisti e facinorosi. «Siamo uguali perché siamo tutti figli di Dio. La repubblica non significa che uno può appropriarsi delle cose dell’altro. La repubblica è nata per riparare i torti e le ingiustizie della monarchia. Non per macchiarsi degli stessi delitti.» A lungo, sulle scale della Chiesa grande dell’Assunta, Cagnazzi parlò con tutta la sua autorevolezza, ascoltato in rispettoso silenzio da tutti. Le sue parole scesero come acqua sul fuoco e balsamo su antiche ferite che si andavano riaprendo. Così in Altamura la repubblica fu salva.

La rivoluzione dilaga in Puglia In tutta la Puglia si innalzavano gli Alberi della libertà. Dalla notizia della fuga del re, un fremito rivoluzionario percorse la regione da nord a sud. La prima città fu Barletta che già nell’ultimo giorno di gennaio istituì la Guardia civica con mille uomini armati al comando di don Camillo Elefante. E inviò subito una lettera ai rappresentanti della nuova Repubblica che esordiva così: «Dunque Napoli è libera? Se tale è la nostra Madre, tali siamo ancora noi come suoi figli. Il

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felice annunzio percorse rapidamente le ampie contrade della Puglia consolando tutte le anime grandi e virtuose... Viva l’Onnipotente Iddio; viva la mano che ci arrecò un tanto bene; viva l’invitta indivisibile Repubblica Francese; viva Championnet; viva l’amor fraterno animatore degli Eroi Repubblicani». Il 2 febbraio arrivò il commissario repubblicano Ruggiero di Mola. La popolazione era in festa, i borbonici fuggivano o si trinceravano nei loro palazzi. A capo della nuova Municipalità repubblicana fu eletto don Giorgio Esperti. L’Albero fu eretto davanti al Colosso, la gran statua in bronzo dell’Eraclio, in mezzo alla strada. Il giorno dopo il popolo fu invitato dai pubblici banditori a radunarsi presso l’Albero per eleggere a voce il nuovo Consiglio comunale. I 12 eletti, fra nobili, ecclesiastici, professionisti, artigiani e contadini, furono portati in trionfo in giro per la città e, arrivati all’Albero, dal piedistallo dell’Eraclio, uno di loro, uomo di legge e professore, fece un ispirato discorso sulla libertà. Si chiamava Giuseppe Leoncavallo ed era fratello di donna Vincenza, sposata De Deo a Minervino. Era la madre del martire Emanuele De Deo che lei, sin da piccolo, aveva affidato a un precettore privato ma soprattutto a questo zio professore di Barletta, che lo aveva iniziato alle idee rivoluzionarie. Praticamente era stato il primo maestro di libertà per il giovane De Deo. Il martirio del nipote lo rendeva ancor più meritevole agli occhi dei suoi concittadini. Ed egli, dopo esser stato decurione a Barletta, divenne elettore del Dipartimento dell’Ofanto; poi fu arrestato dai Borbone al ritorno della monarchia; ma nel decennio francese fu riabilitato e premiato prima con la carica di consigliere d’Intendenza e poi di giudice della Corte d’appello di Altamura. Eppure, questa fedeltà ai francesi Barletta dové pagarla a caro prezzo, quando divenne sede delle fameliche truppe del generale Sarrasin. A Martina Franca, quando il 6 febbraio arrivò la notizia della Repubblica a Napoli, esplose un delirio di libertà. «È caduta la tirannia dei Caracciolo!» gridava il popolo che per secoli aveva subito le violenze e le sopraffazioni del suo signore feudale, maestro di soprusi.

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Da costui avevano cercato di difenderlo solo gli intellettuali della città, che erano tanti, sin da quando Martina Franca era stata l’epicentro della Massoneria in Puglia. Avvocati, medici, artisti, filosofi, letterati, musicisti, pittori, notai, speziali, un vero cenacolo di cultura e di idee fermentava in questa civilissima città vicina a Taranto. Da dove spesso veniva il vescovo monsignor Capecelatro, nobile figura di uomo coltissimo e al passo coi tempi. Per cui la città era già divisa in due fazioni: gli universalisti, contro il duca Caracciolo e tutti i baroni; e gli zelanti a favore del feudatario. In tutto questo la Rivoluzione del 1799 trovò terreno fertile: il 9 febbraio si alzò l’Albero della libertà dinanzi alla torre dell’Orologio di fronte alla Chiesa madre; si fece una gran festa repubblicana con tanto di orchestrina di violini, violoncelli, oboe, tamburi e gran cassa. Un inno fu scritto apposta dai musicisti locali. Accanto all’Albero rivestito d’edera con le bandiere e il berretto rosso, fu collocata una intera statua con nella sinistra la bilancia e nella destra la mannaia, per rappresentare la Repubblica giusta e severa. In chiesa, prima del classico Te Deum, l’arciprete lesse la lettera di monsignor Capecelatro cui aveva chiesto l’autorizzazione a benedire l’Albero. In verità il vescovo tarantino fu molto cauto, raccomandando prudenza e ordine pubblico. Ma la gente esplodeva di gioia, ballando, applaudendo, sparando fuochi d’artificio. Intanto si seppe che nella vicina Fasano i realisti avevano rapito un gruppo di repubblicani fra cui don Michele Ciaia, il padre del presidente della Repubblica napolitana, il poeta Ignazio Ciaia. Li aveva momentaneamente salvati il governatore regio di Cisternino, con la promessa di tenerli in prigione. Immediatamente i martinesi organizzarono una spedizione per liberare don Michele e gli altri. Ci riuscirono e li portarono in trionfo nel loro paese, fra il tripudio del popolo che li acclamava come «I nostri redentori!» mentre sfilavano in processione. Poi vennero raggiunti dalle loro famiglie e si fermarono a Martina per circa 50 giorni. I festeggiamenti furono così sentiti ed entusiasti, da durare ininterrottamente fino alla Domenica delle Palme: il giorno fatale della controrivoluzione.

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Anche Acquaviva delle Fonti esultò per l’Albero e per la nomina del concittadino Francesco Antonio Pepe a membro del governo repubblicano di Napoli. Era un giurista di vaglia, che aveva sempre combattuto contro gli abusi del feudatario di Acquaviva, Carlo De Mari. Le cause che gli aveva intentato per difendere il popolo, specie i più poveri da lui angariati, lo avevano reso molto popolare. Dunque tripudio di popolo, specie quando lui il 5 febbraio fece un discorso pubblico sul valore della democrazia e della libertà, annunciando il prestigioso incarico ricevuto. Tutti lo inneggiarono, orgogliosi di quell’onore che veniva fatto alla loro città. La sera prima della partenza, amici e parenti lo festeggiarono in casa. Ma sua moglie era triste. Si appartò e pianse in silenzio. L’avvocato la raggiunse e le chiese il motivo del suo pianto. «E ora che ne sarà di te?...» Negli stessi giorni si alzò l’Albero della libertà nelle piazze dei centri della Capitanata: Foggia, San Severo, Lucera, Troia, Biccari, San Marco La Catola, Monte Sant’Angelo; e così del Salento: Taranto, Francavilla Fontana, Lecce e tanti altri paesi e paesetti; così pure in Terra di Bari, a partire dalla stessa Bari e da tanti paesi viciniori, come Grumo, Santeramo, Ruvo, Gravina e così via. L’albero era un simbolo forte che veniva direttamente dalla Rivoluzione francese: si sceglieva il più alto e il più forte, lo si spiantava, lo si sfrondava, lo si portava dalla campagna in città, lo si piantava al centro della piazza principale, lo si adornava con bandiere tricolore (rosso, giallo e blu erano i colori della Repubblica napolitana), col cappello frigio (la “coppolella rossa” ), con nastri, fiori, simboli repubblicani (le verghe consolari romane) e lo si benediceva, ballandoci intorno, cantando e inneggiando. Si improvvisavano discorsi altisonanti, si faceva festa, si sparavano fuochi d’artificio, si celebravano perfino matrimoni. Nasceva così una nuova ritualità repubblicana intorno agli Alberi della libertà. Così anche in Puglia, come a Napoli, i giacobini escono dalle case, fanno cortei e dimostrazioni, sollevano il popolo, esultano e giubilano: il tiranno non c’è più, finalmente si respira la libertà. È come

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un’ebbrezza che prende tutti, un vento impetuoso che carica gli animi di gioia e di speranza, trascina nelle strade e nelle piazze, a cantare, a ballare sotto l’Albero della libertà, benedetto da preti e vescovi liberali. In breve tutta la Puglia sembra democratizzata, almeno a macchia di leopardo. È un pullulare di iniziative, feste, esultanze. È un moto di popolo trainato dai giacobini. I giacobini: ma chi erano questi “strani” personaggi che ora parevano spuntare dalla terra, uscire allo scoperto a gridare la loro gioia per la conquistata libertà? Erano i figli dell’illuminismo, della fisiocrazia, della grande cultura napoletana del Sei e Settecento. Erano gente che sapeva leggere e scrivere: quindi pochissimi, in una popolazione che nel Regno di Napoli contava oltre il 90 % di analfabeti. Erano gente che aveva conosciuto il pensiero illuminista che coi lumi della ragione voleva rischiarare il mondo e migliorare la società. Erano gente che aveva studiato e creduto nella fisiocrazia, cioè nell’importanza primaria della natura per la produzione di beni e ricchezza. Erano gente che si era fatta una posizione sociale in proprio, una borghesia agraria o di toga o delle professioni, che magari aveva mandato i figli a studiare a Napoli, per continuare l’ascesa sociale della famiglia. Erano gente che aveva saputo dei fatti di Francia (la grande Rivoluzione) che sembrava applicare nella maniera più drastica quei princìpi auspicati dal riformismo illuminista. Le riforme, i miglioramenti, il progresso, il liberalismo, la giustizia, l’uguaglianza, la fratellanza, la libertà non erano più parole vuote, segni neri sui libri, sogni evanescenti di giovani fantasiosi. Erano realtà, vita e sangue della storia presente. Erano gente che aveva sognato e pensato tutto questo per anni, sui libri, negli studi, nel silenzio, nelle associazioni, nella clandestinità, nelle congiure; sempre subendo i controlli, le spiate, le persecuzioni, i soprusi, le ingiustizie, le torture, perfino il carcere e la morte, come fu per gli antesignani di questi momenti fatali. Si erano prima riuniti nei circoli della Massoneria, blandita dai monarchi; ma quando

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i tiranni borbonici l’avevano soppressa, avvertendo la pericolosità del libero pensiero per il loro assolutismo, avevano formato la Società patriottica, e poi i Club dei giacobini e poi le varie associazioni segrete dove si leggeva clandestinamente la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. La polizia borbonica li teneva sotto controllo, tanto che ne fece una prima retata nella fantomatica congiura di Stato del 1794, in cui cadde per primo Emanuele De Deo. Questi uomini, che si autodefinirono “patrioti” riscoprendo il valore di una patria libera e non soggetta a tiranni, ora che potevano uscire allo scoperto e gridare finalmente il loro credo e la loro gioia, assumevano anche le forme esterne del giacobinismo, soprattutto i giovani, i maggiori protagonisti di tutte le stagioni rivoluzionarie, i più affamati di novità e di cambiamenti. E allora via le parrucche incipriate coi codini, via le coulottes degli aristocratici ghigliottinati a Parigi, via gli jabot che ruscellavano sul petto seta bianca merlettata; via le giamberghe con la coda di rondine. Ora i capelli si portavano sciolti e neri sulle spalle, i pantaloni si portavano lunghi e a fasce colorate (come i sanculotti parigini), le giacche non più di seta sfavillante ma di panno scuro; i cappelli non più a tricorno ma a cilindro. Insomma cambiava la moda, che arrivava da Parigi, e cambiava il costume, le abitudini, i rapporti fra la gente. Si abolivano i titoli nobiliari e i don (Eleonora Pimentel fu la prima a cancellarsi dal nome il nobiliare “de Fonseca”), ci si chiamava “cittadino” e così si credeva davvero di cambiare il mondo, si sognava davvero di essere tutti uguali. Ma la disuguaglianza, fortemente presente ancora nella realtà, era in agguato con le sue grifagne pretese al privilegio delle diversità, nelle quali il popolo basso si crogiolava da sempre nella sua sottomissione masochista, succube, superstiziosa e fatalista al clero, ai ricchi, ai potenti e ai nobili di ciascun luogo. Una piramide ancora feudale, che alla base aveva i poveri e in vetta aveva il re che i poveracci chiamavano miticamente lu tata nuostro, il padre di tutti, quello da amare, da rispettare, da subire, da idolatrare ciecamente. E così fu. In marzo cominciò la mattanza di una sanguinosa guerra civile

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Altamura repubblicana «Padre, cosa avete deliberato?» chiese Anna al genitore appena rientrato in casa. «Di aderire alla Repubblica – disse don Diego con fare serio ma deciso –, di costituire la Municipalità democratica e di istituire la Guardia civica per garantire l’ordine. Inoltre stiamo promuovendo una Confederazione repubblicana tra Altamura, Gravina e Genzano di Lucania». Erano le conclusioni raggiunte nella riunione tenuta in casa del barone Vincenzo Melodia, fra i nobili e gli ecclesiastici più autorevoli della città, per stabilire il da farsi in quei momenti di anarchia. «Allora applichiamo i decreti che il governo della Repubblica ci ha mandato da Napoli?» chiese ansiosa Anna. «Certo» confermò il vecchio gentiluomo. «Evviva, evviva!» esultò la giovane, abbracciando e roteando sua madre che tremava tutta dalla paura di sì sconvolgenti novità. E mentre si faceva più volte il segno della croce, la vecchia nobildonna si svincolò da Anna e corse a prendere il rosario per cominciare lunghe preghiere che scongiurassero i pericoli che ella paventava. Sodale in questo le fu la sua figlia maggiore Francesca, sempre diffidente di ogni novità e per nulla partecipe della gioia incontenibile di Anna. La quale prese dalla sua borsetta di seta un foglio a stampa attentamente piegato, lo spiegò e lesse a voce alta: «Siam liberi infine, ed è giunto anche per noi il giorno in cui possiamo pronunciare i sacri nomi di Libertà e Uguaglianza, ed annunciare alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli, a’ popoli liberi d’Italia e d’Europa, come loro degni confratelli». Era il primo numero del “Monitore Napoletano”, il giornale ufficiale della Repubblica, scritto e firmato da Eleonora Pimentel, la donna che era il suo modello e che, per coerenza democratica, aveva rinunciato al suo titolo nobiliare di marchesa de Fonseca e si firmava senza più il “de” aristocratico. Era la prima cosa che aveva notato

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non appena aveva ricevuto il giornale da Grazio. Il giovane era a Napoli per i suoi traffici proprio il giorno che era uscito; per cui lo comprò subito, staccò il cavallo più veloce dal tiro a tre del suo traino che lasciò nelle mani del suo aiutante a tornare con calma e lui, inforcato il destriero, come un antico e romantico cavaliere medievale, si lanciò di corsa verso Altamura per giungere per primo a portare il giornale alla sua amata. Sicché Anna emozionata lo ricevette dalle sue mani tremanti, prima che arrivasse ufficialmente in città a tutti gli altri. Insieme lo lessero per la prima volta e fu un altro momento magico di passione politica per Anna e di passione amorosa per Graziantonio. Ora Anna rileggeva ai suoi familiari l’articolo di fondo e di presentazione della cittadina Eleonora Pimentel: «Il passato esoso governo, se per lo spazio di quasi nove anni ha dato non più veduto esempio di cieca persecuzione, e feroce, ha pur questa Nazione somministrato un maggior numero di martiri». Un nodo le strinse la gola e gli occhi le si fecero lucidi. Il pensiero era corso al martire di Minervino che godeva dell’amicizia e della stima di donna Eleonora. «Ora sì che Emanuele è vendicato» le sussurrò il padre abbracciandola teneramente. Ma la loro complice intimità fu interrotta dall’irruzione di Pietro e Giovanni che gridavano sbracciandosi: «Abbiamo la repubblica! abbiamo la repubblica! Ora diamoci da fare. Bisogna alzare l’Albero della libertà. Lo stanno facendo in tutti i paesi vicini. Non vogliamo mica essere gli ultimi? Tutta la Terra di Bari è repubblicana. E giungono notizie che è la stessa cosa anche nelle altre province. Su donne, preparate le coccarde tricolori, le bandiere, i nastri, i berretti frigi!...». E così dicendo passavano alla madre e alle sorelle le stoffe gialle rosse e turchine per la bisogna. Donna Rosaria si ricordò del panno rosso per le “coppolelle alla francese” che era stato trovato in casa di De Deo e che gli era stato imputato come colpa grave. «Gesummaria! – esclamò spaventata – non sarà pericoloso anche per noi cucire le coppolelle rosse?».

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I figli scoppiarono a ridere: «Svegliatevi signora madre! Siamo in repubblica, siamo in democrazia! Nessun tiranno può più impedirci di manifestare liberamente e apertamente le nostre idee». E scapparono via per mille altre incombenze. Prima fra tutte quella di procurarsi l’albero da piantare. Con a capo gli organari fratelli Baldassarre e tanti altri giovani, si recarono in campagna, nella grave Ruggieri, e scelsero il più bell’olmo del bosco. Lo estirparono con tutte le radici, lo sfrondarono, ne tagliarono tutti i rami lasciando il solo ciuffo frondoso della cima e lo portarono a braccia fino sullo spiazzo davanti al convento e alla chiesa di San Domenico, subito fuori le mura della città. I patrioti andarono a prelevare monsignor De Gemmis e lo accompagnarono a San Domenico affinché, in festante processione laica, ma benedetto da Dio, l’albero fosse portato in piazza. Lì, fatta una profonda buca accanto al Duomo, fu piantato e addobbato in men che non si dica con coccarde, nastri, bandiere e altri simboli repubblicani. Tutto il popolo convenne intorno all’Albero, divenuto subito segno e simbolo dell’era nuova di libertà che cominciava; e fu festa grande per tutti. Monsignor De Gemmis, indossati i solenni paramenti sacri, benedisse l’Albero della libertà, mentre il clero intonava canti liturgici di osanna. La gente cantava, ballava, suonava, si appuntava le coccarde tricolori al petto, sparava mortaretti e piccoli fuochi d’artificio. Tutti, uomini, donne, vecchi, bambini, sembravano pervasi da una frenesia, da un senso di liberazione che mai avevano provato prima. Tutti gli studenti e i professori dell’Università erano lì intorno, insieme al popolo, a festeggiare. Chi abbracciava l’Albero, chi piangeva di commozione, e tutti si abbracciavano fra di loro. Graziantonio, fra i tanti abbracci cercava solo quello di Anna, solo a quello anelava. La Ximenes era lì, insieme al padre e ai fratelli, nonostante il parere contrario, le suppliche e gli scongiuri della madre che non voleva che una donna si immischiasse in questi tumulti maschili.

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«Ma ora c’è l’uguaglianza, madre – le aveva risposto fiera quella ribelle di sua figlia piccola –, uomini e donne sono la stessa cosa!». E, con una fascia tricolore a tracolla, andò a cantare e a ballare in piazza, con tutti; ad abbracciare tutti. «Cittadini, ecco qui l’Inno alla libertà! È arrivato fresco fresco da Napoli, lo ha scritto il grande maestro Domenico Cimarosa, i versi sono di Luigi Rossi. Tutti patrioti, come vedete, gli artisti sono tutti patrioti, tutti con la Repubblica! Viva gli artisti, viva la Repubblica!» Un bravo cantore ecclesiastico, che era anche organista, cominciò a leggerlo e a intonarlo; il motivo era così semplice e trascinante che ben presto tutti cantarono all’unisono: D’un dispotico potere ite al foco infami editti; son dell’uomo i primi dritti uguaglianza e libertà. Son dell’uomo i primi dritti, / uguaglianza e libertà. Non v’è servo né signore vincitor non v’è né vinto sol dall’un l’altro è distinto per comune utilità. Son dell’uomo i primi dritti, / uguaglianza e libertà. Solo il popolo è sovrano Egli solo ha scettro e brando, nascer dee dal suo comando ogni giusta autorità.

E mentre cantavano, tutti facevano girotondi intorno all’Albero. In uno di questi girotondi scanzonati Anna si vide staccare la mano da quella del fratello e se la sentì afferrare da un’altra, forte e calda, che la strinse energicamente. Si guardarono, risero di gusto e continuarono a saltellare in tondo, felici di condividere quella gioia. Altro che tumulto paventato da donna Rosaria! Fu una giornata radiosa quell’8 febbraio 1799. Una festa bellissima, una gioia collettiva,

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grande e condivisa da tutti, nobili, popolani, preti, donne, bambini, intellettuali, operai, artigiani, commercianti, bottegai, professori, zappatori. Altamura sembrava impazzita d’allegrezza. E in questo clima anche l’abbraccio che finalmente Graziantonio riuscì a dare ad Anna per lei fu uno dei tanti, anche se mentre il giovane la stringeva, per un attimo ella provò una strana sensazione che aveva provato cinque anni prima per una carezza....

La prima ombra si stende sull’Albero Insieme ad Altamura, le più fiere città repubblicane di Puglia furono Acquaviva, Barletta e Martina Franca. Ma mentre ad Altamura il clima di festa perdurava anche nei giorni successivi all’innalzamento dell’Albero, pervenne da Acquaviva una notizia ferale: pochi giorni prima, e precisamente il 6 febbraio 1799, era stato trucidato Francesco Antonio Pepe, l’insigne giurista chiamato a far parte del governo repubblicano a Napoli. Pepe era famoso perché si era opposto ai soprusi e alle angherie del feudatario di Acquaviva, Carlo III de Mari. Aveva costituito un gruppo di avanguardia culturale nella sua zona, formato dal fratello Giangiacomo Pepe, dal notaio Filippo Aulenta di Turi, da Francesco Supriani, dall’avvocato Giovanni Scassi, perfino da una donna, Caterina Forte, e dal prelato di Acquaviva monsignor Valerio Giustiniano Persio. Costoro a lungo avevano combattuto contro l’oppressione del feudatario e il regime illiberale dei Borbone, coi pochi mezzi che le leggi allora offrivano. Per cui quando giunse la notizia della proclamata Repubblica a Napoli e della nomina del loro concittadino nel governo nazionale, gli acquavivesi felici piantarono l’Albero della libertà il 5 febbraio e festeggiarono il Pepe in procinto di partire per Napoli. La sera del ricevimento, in casa, la moglie del Pepe aveva temuto per lui perché aveva sentito che nei casali viciniori la plebe monarchica era stata eccitata da un clero retrivo, contro i pochi liberali borghesi giacobini del posto. Per cui quando il giorno dopo, 6 febbraio, il drappello dei

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liberali uscì dalla città, giunto nei pressi di Ceglie e Carbonara, casali ferocemente borbonici, si sentì interpellare così: «Chi vive?» «Viva la libertà!» risposero d’istinto. Una scarica di fucileria li colpì in pieno petto. Uscirono dai cespugli alcuni ceffi di miserabili, aizzati dai preti, sostenuti e armati dai bravi di Carlo de Mari e resi ancora più affamati dalla carestia dei loro borghi putridi. Continuarono a sparare con odio feroce. Uccisero quattro di quegli inermi repubblicani; gli altri li ferirono. Persero la vita in quel vile agguato Giangiacomo Pepe, il notaio Filippo Aulenta, l’avvocato Giovanni Scassi e lo stesso designato ministro repubblicano, Francesco Antonio Pepe. Ad Altamura la notizia creò dolore e sgomento. I governanti pensarono subito a difendere la Repubblica creando la Guardia nazionale, con il contributo di tutti i cittadini, compreso un drappello di cento zappatori che vennero ad arruolarsi coi loro falcioni. I tiepidi invece si rinforzarono nelle loro paure, prima fra tutte donna Rosaria Ximenes e sua figlia Francesca che continuavano a ripetere: «Ecco i primi che hanno seguito la sorte di Emanuele De Deo. E altri ancora ce ne saranno, altri, altri... Quanti morti piangeremo ancora? Poveri noi con questa Repubblica!». Intanto un’altra ombra lontana si allungava sui festeggiamenti liberali di Altamura e della Puglia, ancora inconsapevoli: proprio l’8 febbraio sbarcava in Calabria il cardinale Fabrizio Ruffo. Proveniva da Palermo dove aveva promesso ai sovrani borbonici di riconquistargli il trono. Ma Altamura fiera e gioiosa pensava a formare il suo nuovo governo municipale repubblicano: sindaco don Pasquale Viti; componenti quattro ecclesiastici (don Canio Ceglia, don Paolo Nuzzolese, don Domenico Ignazio Serena, don Giuseppe Ventura), quattro civili (Mario Giannuzzi, Giuseppe Manfredi, Massimo Simone, Attanasio Calderini), tre popolani (il barbiere Nicola Simone e gli zappatori

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Filippo Piccininni e Antonio Squicciarini, detto “coppolannanz”) e un nobile (don Pasquale Cursoli Cifarelli). Segretario cancelliere don Luca de Samuele Cagnazzi il quale, nonostante per i suoi meriti fosse stato chiamato a Napoli per ricoprire un incarico importante nel governo della Repubblica, preferì restare ad Altamura a servire umilmente la sua patria. Subito si insediarono e si misero al lavoro. Anche a Napoli il governo repubblicano lavorava alacremente. La prima legge importante fu quella che aboliva i fedecommessi e le primogeniture, due vecchi strumenti feudali che bloccavano i patrimoni e gli immobili, lasciandoli fuori del libero mercato, che in quel tempo si andava affermando in Europa, col positivo risultato di vivacizzare l’economia, aumentare la ricchezza e rimescolare le classi sociali. Era il cosiddetto liberismo. Promotore ne era stato un giurista pugliese membro del governo, Giuseppe Leonardo Albanese di Noci che si impegnò a fondo sia per la nuova Costituzione, esemplata sul modello francese del 1793 come l’aveva concepita Mario Pagano, sia per abolire radicalmente la feudalità, vera iattura per le terre del Sud. Provvedimenti che vennero presi nei mesi successivi. Intanto in marzo ad Altamura arrivarono, mandati da Napoli, il commissario Palomba e il generale Mastrangelo come rappresentanti ufficiali del governo centrale. In verità erano stati mandati a creare e reggere il Dipartimento del Bradano, con sede a Matera. Ma arrivati ad Altamura, seppero che Matera già aveva voltato le spalle alla Repubblica, sradicando l’Albero della libertà e tornando al vecchio regime borbonico. Dunque i due si fermarono ad Altamura e si vestirono d’autorità. Furono accettati di buon grado, anche se il loro atteggiamento un po’ troppo imperioso e autoritario suscitava qualche perplessità nei pacifici altamurani. Il Palomba si faceva forte anche di un drappello armato di aviglianesi, che aveva portato con sé dal suo paese, Avigliano per l’appunto. Anna seguiva meno gli sviluppi politici della situazione e più quelli sociali. Andava in giro a raccogliere offerte per la Cassa remune-

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ratoria, quel fondo volontario che la Municipalità aveva deciso di istituire per aiutare i poveri più bisognosi, ma anche per restaurare le mura, acquistare armi e munizioni, attrezzare un corpo di cavalleria e un campo militare fuori le mura. A queste operazioni partecipavano tutti, anche i contadini, che, già costituitisi in Compagnia di zappatori, erano armati solo dei loro falcioni da fieno ed erano ben comandati da Giuseppe Monitillo, all’interno della Guardia civica. La cui prima Compagnia era al comando dell’intrepido Mario Giannuzzi che aveva scelto come suo aiutante il forte e coraggioso Graziantonio Spezzacatena. Anna lo vedeva sempre più spesso nei suoi giri per la città, fra i poveri a prestare soccorso, tra i ricchi a raccogliere offerte. Spesso i loro sguardi si incrociavano e comunicavano senza parlare. Tutti i repubblicani erano affascinati da quella fanciulla così diversa dalle altre, moderna, anticonformista, istruita. E bella come un fiore, nello splendore dei suoi vent’anni. Sembravano tutti innamorati di lei. Ma il suo cuore batteva solo per gli ideali di Emanuele e nel ricordo di Emanuele. Invece un cuore d’uomo batteva per lei, ma da lei non riusciva a farsi sentire. Graziantonio si arrovellava su come fare per dichiararle il suo amore e per esserne corrisposto. Il rango sociale di lei lo intimidiva. Ma poi pensava che avevano conquistato la libertà e l’uguaglianza, anche per questo, per potersi amare liberamente patrizi e plebei. A chi chiedere consiglio? Suo padre lo aveva già seppellito con una risata e con quella massima antica che “mondo era, mondo è, e mondo sarà”: l’immobilità del mondo contadino. Rientrando a casa, che era vicina al palazzo Cagnazzi, vide don Luca che rientrava e lo salutò con deferenza. Un’idea gli balenò in mente. Chi meglio di lui? Lo avvicinò e gli chiese di parlargli. Erano vicini di casa da sempre e anche la famiglia Cagnazzi ricorreva agli Spezzacatena per vendere e trasportare i suoi prodotti. L’arcidiacono accettò di buon grado e lo fece entrare nel suo studio, a pianoterra del palazzo. Rigirandosi il cappello fra le mani, Grazio prese il coraggio a quattro mani e domandò:

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«Secondo voi, don Luca, con la repubblica e la libertà uno come me può sposare una della nobiltà?». Cagnazzi rimase un po’ sconcertato. Non si aspettava un simile quesito. Capì subito che il giovanotto era innamorato di una donna di ceto più alto. Ma la questione che gli poneva in termini politicoideologici non era semplice. Rifletté un po’ e poi disse: «Per Santa Madre Chiesa non ci sono ostacoli di questo tipo per unire nel sacramento del matrimonio un uomo e una donna. Ma bisogna che quest’uomo e questa donna si vogliano reciprocamente. Se tu hai conquistato il cuore di questa fanciulla, tutto si può fare». Studiò la reazione di Graziantonio. Effettivamente non sembrava poi così sicuro di essere corrisposto dalla sua amata. Don Luca lo studiò un po’ meglio e poi riprese: «Ma lei lo sa che tu la vuoi in sposa?». «Bè... non ancora... ma se la repubblica me lo permette, io chiederei la sua mano al padre.» «Nei matrimoni combinati nell’aristocrazia o nell’alta borghesia si usa che sono i padri a decidere i matrimoni di patrimoni. E spesso le figlie non ne sanno nulla, devono accettare la volontà dei genitori e sposarsi anche con chi non vogliono. Ma non mi sembra il tuo caso.» «No, effettivamente no. Ma anch’io ho un certo patrimonio. Voi sapete che mio padre, col suo lavoro, è abbastanza benestante...» «No, non si tratta di questo. Una nobildonna non accetterebbe mai di sposare un trainiere solo per i suoi soldi. A meno che non sia ridotta in miseria... Ma mi pare che nemmeno questo sia il tuo caso.» «No, no; gli Ximenes stanno benissimo...» «Allora si tratta della famiglia Ximenes... della figlia primogenita o della seconda?» «Della seconda, Anna. Da quando l’ho conosciuta, don Luca, io non ho più pace. Credetemi, la sogno la notte, la penso di giorno, mi incanto a guardarla. Per lei ho fatto corse pazze, spese spropositate...» «Cosa le hai mai comprato, gioielli e vestiti di lusso?»

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«No, no. Libri, giornali, manifesti che trovo a Napoli, specie quelli sulla rivoluzione e sulla Repubblica.» «Ah, ecco cosa vi unisce. La fede politica. E forse questa può esser un viatico per conquistare la tua bella.» «Un via... cosa?» «Un mezzo, una strada per giungere al suo cuore. Solo se lei ti amerà puoi sperare di averla in sposa. Quanto al padre, io rinuncerei all’idea di parlarne con lui. Un vecchio aristocratico, per quanto liberale e patriottico, non accetterebbe mai di dare a sua figlia un marito di ceto inferiore.» «Allora è come dice mio padre: munn jere, munn jè e munn avà jess. La repubblica, la libertà non cambiano nulla nella mentalità della gente? Nella differenza di classe? E allora cosa si fa a fare la rivoluzione!» «No, Graziantonio. La rivoluzione cambia tante cose. E le sta cambiando, pure abbastanza velocemente. Anche la mentalità cambierà, ma per quella ci vuole più tempo, molto tempo. Verrà un giorno che ci si sposerà solo per amore, senza nemmeno badare alle classi sociali. Se ci saranno ancora. E se ci saranno, le differenze saranno molto più ridotte di oggi e molto meno importanti. Ma ci vuole tempo, molto tempo...» «E quanto tempo devo aspettare io per avere Anna? Un’eternità? Io non voglio l’eternità. Io voglio amarla, sposarla, avere dei figli ora, in questo tempo!» «Calma, calma. Cerca prima di parlarne con lei, a cuore aperto. Poi si vedrà.» «Ma lei, don Luca, metterebbe una buona parola con la sua famiglia?» «Se lei ti vorrà come tu la vuoi, venite da me e vi sposerò.» Graziantonio ringraziò l’illustre sacerdote e andò via non del tutto convinto, ma un po’ rinfrancato. Toccava a lui conquistare definitivamente il cuore di Anna.

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