Pietre d’acqua. Taccuino di un’attrice dell’Odin Teatret, di Julia Varley

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Indice

Passeggiatrici celesti di Ermanna Montanari Premessa di Anna Bandettini

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Nota d’attrice

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Introduzione. Una storia che danza

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1. Primi passi

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Diventare attrice, p. 9 - L’Odin Teatret, p. 16 - Maestre e maestri, p. 18

2. La drammaturgia d’attrice

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Lessico personale, p. 23 - L’eco del silenzio, p. 27 - La presenza scenica, p. 31 - Inseguendo opposizioni, p. 33 - I torsi di Rodin, p. 37 - Precisione e decisione: il corpo intero, p. 41 - Precisione e decisione: la voce intera, p. 44

3. Il training

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I volti del training, p. 48 - Il mio training, p. 50 - Perché il training, p. 53 - La riduzione, p. 58

4. Improvvisazione e composizione

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La creazione di materiali d’attrice, p. 61 - Stimoli, stratagemmi e procedimenti, p. 68 - Ripetere, ricordare, fissare, p. 72 - Prima, durante e dopo l’improvvisazione, p. 74 - L’elaborazione: dalla parte dell’attrice, p. 77 L’elaborazione: dalla parte del regista, p. 80

5. Testo, partitura e sottopartitura Un termine utile e sbagliato, p. 84 - La canzone della carta, p. 85 - Il pen-

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Indice

VI

siero, p. 86 - La sottopartitura della creazione, p. 88 - L’ordine caotico, p. 89 - La sottopartitura nella ripetizione, p. 90 - La sottopartitura nello spettacolo, p. 92

6. Testo e sottotesto

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Affrontare un testo, p. 93 - L’analisi del testo, p. 94 - Azioni fisiche come sottotesto, p. 96 - Azioni vocali come sottotesto, p. 100 - Melodie e musiche come sottotesto, p. 102

7. Il personaggio

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Identità dei personaggi, p. 104 - Mr Peanut, p. 111 - Doña Musica, p. 119 - La drammaturgia secondo Dedalo, p. 123 - Il personaggio marionetta, p. 135

8. Il regista

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Incontrare un regista, p. 138 - Collaborare con un regista, p. 142 - Il chirurgo e l’alpinista, p. 148 - Il contadino e il cuoco, p. 158

9. Lo spettacolo

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Replica e differenza, p. 163

10. Volti, parole, paesaggi Datazione degli spettacoli dell’Odin Teatret

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Passeggiatrici celesti di Ermanna Montanari

Con Julia è così. Si dice sempre di sì. Anche quando si vorrebbe dire di no. Possiede quella fatale capacità aracnide di non lasciare scampo. Ci si deve impattare per forza con lei. E perché questo accada con Julia, e non con tutti, lo so cos’è. È per l’attenzione che porta a ogni cosa del visibile e dell’invisibile, per il suo volgere l’anima alla pratica soggettiva con somma dedizione, alla bellezza con predisposizione rinascimentale. È stato così fin dall’inizio della nostra frequentazione, tanti anni fa, e le danze tra noi non sono cambiate nemmeno quando ci siamo ritrovate amiche. C’è tra Julia e me uno di quei rapporti complementari legati da simmetrie profonde e antitesi armoniose: lei sempre ad architettare, ad arrovellarsi su grandi questioni, politiche e femminili, io spesso a sottrarmi, se non è il palco a chiamare. Lo so, lo so bene che è Julia ad avere ragione, che scrivere sul nostro fare e disfare e rifare di attrici è scalfire un linguaggio da tempo indurito, che il corpo è conoscenza anche nel saperlo ricostruire in scrittura, che l’orizzonte teorico è sale corroborante per il nostro teatro da inventare. Lo so. Lei me lo ripete spesso. Eppure vengo presa da disperazione ogni volta che c’è una richiesta di scrittura, e soprattutto se è Julia a farla. Ma eccomi qui, in questa prefazione. Mi commuove sempre questo oscillare di lei, questa inquietudine che vuole spiegare l’inspiegabile, che non si accontenta di lasciare agli uomini la ragione, il logos, che vuole scontrarsi con il mistero in cui afferma sono relegate le donne, che vuole scoprire “autorità teorica” nelle lettere, nelle biografie e nelle autobiografie. Mi commuove e al contempo mi chiedo: ma ce n’è bisogno? Sì, lo so. Ce n’è bisogno. Leggo le parole di Julia, e mi viene in mente il suo stare maestoso sulla scena della vita prima che sul palco. «Essere tacita e concettuale, invisibile e presente»: e mi cattura la sua capacità d’ascolto, la sua tenacia rabdomantica nel far germogliare le idee. «La voce è misteriosa» sostiene, e mi giunge il trepidante tremolio della sua voce, miscela di un suono nato da opposti venti, mosso da una crepa invisibile che ce ne fa percepire la presenza vertigino-


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Prefazione

sa, controvento. «Con l’Odin Teatret ho imparato ad ascoltare i miei piedi come dei maestri»: che immagine favolosa ci impone; ci insegna che per essere “concettuali” occorre partire dai piedi. Il gesto antico di lavare i piedi si è conficcato nei nostri occhi da millenni come simbolo di gioiosa umiltà. È dall’humilis, dalla terra (humus) appunto, che germoglia l’energia vitale, e Julia lo sa. Pietre d’acqua è un ossimoro. Un contrasto luminescente, come certi lampi rosso-azzurri dei quadri di Lorenzo Lotto, maestro e visionario irregolare del Cinquecento, che proprio in questi giorni posso vedere da vicino, qui a Bergamo per una tournée, e piangere di stupore. Un titolo che evoca da subito tutta la pratica dell’Odin, fatta di immagini geroglifiche, quelle che mi sono rimaste in testa da sempre, per quell’urto continuo e melodioso dei contrari che conduce alla bellezza ardente. «Duro come l’acqua», così definiva il canto dell’usignolo Cristina Campo. Non è forse un altro modo di farsi venire la febbre come in Pietre d’acqua? A Pietre d’acqua sono tornata più volte da quando uscì nel 2006 per la Ubulibri di Franco Quadri. Me lo ero portato anche in Senegal, nel gennaio 2007, insieme alle opere di Alfred Jarry in francese e un volumetto di poesie della Szymborska, libri affettivi legati da misteriose, buone ragioni. Ero là per realizzare insieme alle Albe una nuova versione di Ubu re nei villaggi della savana: la figura di Madre Ubu che avevo ideato era “tutta bianca”, candidissima, con la biacca sul volto da attrice orientale, e in capo la parrucca albina che mi scendeva lungo la schiena come un serpente, in mezzo al coro roboante, “tutto africano” di Padre Ubu e dei suoi Palotini. In Pietre d’acqua si testimonia proprio la fecondità del baratto tra mondi lontani: il libro sovrabbonda dei tanti viaggi di Julia, che sono parte dei tanti viaggi dell’Odin, compagnia nomade come nessun’altra, e il portarmi dietro quel volume mi legava a Julia in un duplice vincolo, tutto familiare, da colloquio privato di passeggiatrici celesti, di attrici disperse nei loro labirinti terreni, radicate ovunque e ovunque straniere. C’è, in Pietre d’acqua, il sapore dell’immersione continua nel corpo della parola: la gaudiosa tradizione del corpo come sorgente. È per questo che spesso vi ritorno e me lo porto dietro come un breviario, a intervalli, da dieci anni. Questo libro è attraversato dal desiderio di fissare in teoria, e dalla continua smentita. Si evolve quasi come un manuale: in modo articolato, dettagliato. Julia, capitolo dopo capitolo, ci guida sui suoi primi passi, sulla voce, il training, aumentando di complessità fino alla composizione, la partitura e sottopartitura, il testo e sottotesto, i personaggi, al legame prismatico tra attrice e regista, allo spettacolo, alla didattica, al dormire o non dormire la notte, al duro mattutino con cui chiude il libro. Ma poi, nel mentre tutto sembra ben distinto e architettato, balza dalla pagina una frase che ci trascina “fuori” con uno strattone: «le parole che dividono la vita in compartimenti stagni mi confondono». Quanto è vero, cara Julia, e quanto freddo in quei “compartimenti stagni”, dove non


Passeggiatrici celesti

IX

scorre il flusso caldo dell’esperienza, la fiducia nell’inatteso. E sembrano tue queste parole di William Carlos Williams, medico e poeta: «la vita è soprattutto sovvertitrice della vita stessa, quale era un attimo prima: sempre nuova e priva di regole. E nel verso, perché esso viva, qualcosa deve essere infuso che abbia il colore stesso dell’instabile, qualcosa nella natura di una impalpabile rivoluzione». Pietre d’acqua non è un manuale. È un percorso segreto e murenico: vi avviene dentro qualcosa che mi riporta agli scritti di Teresa D’Avila, mistica battagliera, solitaria e riformatrice indomita, al suo tentativo impossibile di spiegare quel “castello interiore” che è il corpo, e le indicibili “voci” che lo attraversano: il corpo dell’attrice-attore come tempio del sentimento, il corpo che si dipana, goccia a goccia, nello spazio del training descritto da Julia, il luogo per veder chiaro in se stessa. Gesti privatissimi vincolati dalla severità delle ore, senza scampo, per essere raggiunti da un’istantanea inevitabile epifania: parole-corolle che sbocciano come fiori, sospinte dalla forza vitale del respiro, proprio come nella scelta dell’immagine di quarta di copertina del libro. Per essere trottole di Dioniso nel capogiro di un gesto inafferrabile. La trottola apre una libertà che appartiene al mondo della vita, a un ininterrotto turbinare per divenire simbolo perfetto della vertigine. Attorno a Julia c’è l’Odin che la cinge, attorno a me le Albe. Siamo della stessa “razza”: attrici “vulnerabili” in comunità. Il mistero di cosa sia l’attrice e la sua pratica quotidiana si infittisce nel mistero di che cosa sia una comunità d’arte, una processione di sorelle e fratelli in cerca, una bottega incuneata nella tradizione. Il Libro degli inventari in cui Mirella Schino ci mette a parte del monumentale archivio dell’Odin Teatret si chiude con l’immagine di una festa: la fotografia è stata scattata a Ravenna nel 1997 in occasione di una presenza dell’Odin ospitato dalle Albe, e fissa il brindisi delle due compagnie: gli sguardi di tutti ridenti, rivolti alla macchina, spiriti nomadi di un reame immaginario che esiste, in perfezione, per quell’attimo. Pietre d’acqua che si disfano, liberate nel mare del tempo. Bergamo, gennaio 2016

Nella pagina seguente: Julia Varley come Cloto nello spettacolo interculturale Il matrimonio di Medea.



Premessa di Anna Bandettini

La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare. Luce Irigaray

Il rapporto tra il teatro e le donne è tuttora una storia sommersa. Non si parla del posto e del riconoscimento critico che la storia del teatro dà e ha dato alle artiste: attrici soprattutto (molto meno registe, meno ancora drammaturghe), fa niente se con una predilezione verso figure attraversate da scandali, ambizioni, competizioni, irrequietezze, meglio se con vite private distrutte dalla dedizione al lavoro, siano Eleonore Duse o Sarah Bernhardt. Qui ci si riferisce piuttosto al peso dell’identità femminile nella storia del teatro, a qualcosa di più profondo, intimo, essenziale. Qualcosa che non ha a che vedere con il ruolo o la funzione dell’artista, ma con la soggettività, la coscienza, la memoria personale, la psiche, i codici del corpo, il linguaggio. Insomma con quella complessità dell’esperienza umana con cui l’universo femminile da sempre si confronta forgiando nuovi saperi. Questa “cultura della differenza” manca dal teatro. Gli studi storici, le riflessioni, le elaborazioni teoriche, anche di grandi maestri, tendono ad avere uno sguardo assolutamente neutrale verso l’identità sessuale. Ci si interroga sul significato della maschera, dello spossessamento artaudiano, si osserva il corpo espressivo dell’attore senza alcun riferimento al suo essere maschio o femmina, come se non ci fosse alcuna distinzione, nonostante secoli di storia e cultura abbiano dimostrato la distanza siderale tra le identità dei sessi. Né risulta che sul piano della teoria ci si sia sforzati, al di là delle biografie di questa o quella artista, di elaborare una lettura “di genere” circa il lavoro delle attrici, o delle drammaturghe o delle registe, né di studiare come l’intelligenza femminile si esprima in modo creativo. Il risultato è che la presenza delle donne nel teatro è una storia in cui molti capitoli aspettano ancora di essere scritti. Pietre d’acqua è, in questo senso, un passo importante e necessario. Julia Varley vi racconta il suo “essere attrice”: duecento pagine, scritte in prima persona, piene di riferimenti, divagazioni, intuizioni, riflessioni e esercizi, frutto della sua storia di più di 30 anni di vita nell’Odin Teatret – il celebre gruppo internazio-


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Premessa

nale con sede a Holstebro in Danimarca diretto da Eugenio Barba – dove arrivò nel ’76 dall’Italia, giovane ventiduenne spinta dalla passione per la politica e per il teatro underground conosciuto nella sua città, Milano. Il libro ci rende partecipi di quella storica avventura teatrale che è stato l’Odin Teatret, ma la sua idea centrale è un’altra. Julia Varley guarda con uno sguardo diverso al teatro. Dichiara dalle prime pagine di voler dare presenza alle donne che lavorano nel teatro, di riconoscere in modo più manifesto il ruolo che esse hanno avuto nella storia della professione teatrale. Esce dalla abusata strada del racconto biografico, dal folklore dell’anedottica, dallo studio cronachistico e si focalizza solo sul “modo di pensare da attrice”. Scrive Julia: «Vorrei che qualcosa cambiasse nel modo di registrare, ricercare, documentare e scrivere la storia del teatro; desidero dare più presenza alle donne, al loro modo di esprimere e pensare, e includere il loro contributo nelle teorie e nelle pratiche del futuro». E in Pietre d’acqua è una assoluta novità. Il libro è dunque una poderosa, dettagliata analisi del mestiere dell’attrice che, ci racconta Julia, altro non è se non un lungo, aspro, esaltante e fondamentale processo di modificazione di sé, del proprio corpo, delle proprie azioni, del proprio sentire per arrivare alla realizzazione del “corpo scenico”. Ma la novità è di leggere questo processo dal punto di vista della donna e soprattutto con gli strumenti del sapere delle donne, nello stile dello scrivere per sé e a partire dalla coscienza di sé, nel porsi in quel continuo rispecchiamento tra sé e il “fuori”, tra introspezione personale e esperienza professionale, tra consapevolezza di sé e regole di lavoro, tra autocoscienza e comunicazione da cui hanno preso avvio tante pratiche di riflessione femminile. Nei dieci capitoli che vanno dall’apprendistato agli ultimi spettacoli, dal primo laboratorio a Milano con il Teatro del Drago avviato da Massimo Schuster all’approdo all’Odin, passando per la ricostruzione dei primi faticosi anni di training alla nascita dei personaggi-simbolo del teatro di Julia (Mr. Peanut e Doña Musica) fino all’oggi, Pietre d’acqua disvela via via quel percorso interiore, quell’itinerario segreto, labirintico, aspro, ma anche lineare e preciso, che serve all’attrice per modellare la propria identità in scena, necessario a personalizzare e modificare il lavoro scenico, ad allontanarlo dalla routine, dalla banalità di tanto teatro-chiacchiera. Grande merito a Julia Varley per aver ricostruito questo processo con sistematicità e amorosa chirurgia, mescolando intuizioni, scorciatoie, ricordi, esempi, confessioni, esercizi e procedimenti più profondi, materiali e reazioni individuali, ponendo il lettore di fronte a quell’enorme mole di ricerca che un’attrice fa fuori e dentro di sé, per agire come corpo scenico. Sono pagine fitte di confessioni sincere e di sapienza artigianale dove si intrecciano ricordi, aneddoti ed esempi, riflessioni dall’interno e resoconti anche molto “tecnici”; un esempio bello e raro di quella scrittura femminile che divaga sui particolari, sviluppa traiettorie diverse di analisi per poi ricondurre tutto


Premessa

XIII

all’unità e coerenza del proprio pensiero. Julia si focalizza sul suo training fisico (il corpo, la postura, la voce) perché, dice, la sola «ispirazione, il bisogno di esprimermi, e di essere creativa, non mi avrebbero aiutato [...]. Il training mi permette di non morire piano piano come attrice [...]. Ho imparato a fare azioni reali e ho scoperto la mia presenza scenica accanendomi su esercizi che hanno indotto il mio corpo a pensare da solo». Dunque la “pratica” come palestra di insegnamento, che comprende il rapporto con i maestri, la relazione col regista, l’improvvisazione ma anche qualcosa di più intimo come la scoperta della precisione nelle azioni per mantenere vive le intenzioni o l’importanza della ripetizione che crea le radici per eliminare le azioni inerti. Segreti e tecniche un processo creativo che si sviluppa tra avventura personale e dura disciplina come spiega, per esempio, il racconto del lungo, faticoso lavoro sulla voce che ha aperto a Julia spiragli di resistenza e libertà anche personali, o l’allenamento a posture e azioni nuove, o la scoperta di un modo di camminare o di danzare che determina dissonanze interessanti nella routine del lavoro... Pagine necessarie per chiunque si accosti alla professione teatrale, che rivelano il lessico personale, la logica interna che guida l’attrice/attore, nella corrispondenza tra la propria immaginazione e la comunicazione, a trovare il “cuore” alle proprie azioni in scena. Pagine importanti soprattutto per chi si interroga sulla pratica teatrale, perché spingendo la sua elaborazione nell’ottica dell’identità femminile, Pietre d’acqua riesce a rintracciare parole e processi finora mai o poco esplicitati. Il corpo, diceva Pascal, è pieno di membra pensanti, è un corpo infinito e per tradurlo ci vuole il teatro, una lingua che non costringe la vita al proprio spossessarsi. Julia usa quella intelligenza e sapienza tutta femminile di osservarsi, ascoltarsi, leggere le motivazioni profonde e i conflitti interni per rintracciare e vivificare le radici di quella lingua di cui parla Pascal negli esercizi, le regole, l’oggettività del lavoro teatrale. Intreccia la realtà soggettiva al comportamento scenico, l’essere donna e l’essere attrice, e in questo incrocio si svela finalmente il tessuto sotterraneo di pensieri nascosti, di desideri, di trucchi e di scoperte di sé che confluiscono nella personalissima strategia dell’attore/attrice per creare un corpo scenico vivo e che, pur invisibile allo spettatore, influenzano il risultato finale dello spettacolo. La ricchezza dei suoi segreti, lo spessore in cui Julia Varley riesce a scavare, l’intreccio di aspetti che mette in campo sono assai più determinanti per capire il lavoro in teatro che non decine di saggi. Il significato culturale di questo suo lavoro è un pozzo senza fine, dove potrebbero innestarsi le radici di una nuova antropologia teatrale che valorizzi l’identità femminile come strumento in più del teatro per pensarsi in modo nuovo. C’è infine un ultimo aspetto che va sottolineato. Questa nuova ottica sul teatro resta segnata dallo sguardo individuale che l’ha coltivata. Questo vuol dire che il libro è anche una biografia implicita, attraversato come è dal temperamento


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Premessa

di Julia Varley. Dietro le pagine, dietro la loro verità, austera e generosa insieme, c’è questa attrice dai lunghi capelli castani, dai modi spartani e prodigali, nata a Londra e cresciuta in Italia, adolescente politicizzata e ribelle negli anni Settanta a Milano e disciplinata discepola di teatro in Danimarca. Attrice dell’Odin dal ’76, Julia Varley ne è stata interprete di tutti gli spettacoli, da Anabasis in poi; in proprio ha realizzato assoli e dimostrazioni di lavoro come L’eco del silenzio e Il fratello morto. Oltre a fare l’attrice ha sviluppato un suo progetto pedagogico; da regista nel 2005 ha firmato Il figlio di Gertrude, uno spettacolo ideato con e per Lorenzo Gleijeses; dirige Transit, un festival di teatro di donne, organizza spettacoli, pubblica articoli. Artista che dà valore alle relazioni, alle necessità comunicative, al linguaggio (tutte qualità molto femminili), nell’86 è stata tra le fondatrici del Magdalena Project una rete internazionale che coinvolge donne di più di 50 paesi che lavorano in modi diversi nel teatro, nata per facilitare la discussione critica e assicurare visibilità all’attività artistica delle donne anche attraverso l’organizzazione di festival e incontri. Julia è diventata poi redattrice di “The Open Page”, una rivista annuale legata al Magdalena Project. Entrambe le iniziative hanno tra gli obiettivi dichiarati quello «di lasciare tracce del lavoro delle donne». Un obiettivo utile anche agli uomini.

A fronte: Julia Varley come Saxo nello spettacolo interculturale Ur-Hamlet.



Nota d’attrice

Attrice o attore? Sin dal titolo ho dovuto scegliere. Volendo sovvertire l’uso corrente di includere il femminile nel maschile universale, e con l’intenzione dichiarata di definirmi come donna, ho deciso per la parola attrice, anche quando parlo del mestiere in generale. Vorrei contribuire a creare nuove regole e abitudini lessicali, ma come farlo non è ancora evidente. Ho chiesto consiglio a Clara Bianchi, un’amica maestra elementare, che fa parte di una categoria composta per il 98% da donne ancora normalmente riferita al maschile. Lei ha preferito che usassi “attrice”, rivalutando la parola e includendoci anche gli uomini che praticano questo mestiere. I lettori uomini forse si sentiranno esclusi, come mi sono sentita io tante volte quando si parla di uomini di teatro e di libro, di attori e registi. Con questa scelta desidero semplicemente contribuire a riconoscere in modo più manifesto il ruolo delle donne nella storia della professione teatrale. Ricordi, sensazioni, conoscenze tecniche, aspirazioni, fantasmi e necessità si mescolano in me, nel mio corpo: mi consentono di generare azioni sceniche, e nessuno ha bisogno di sapere se quello che mi ispira è vero, un desiderio o un’invenzione della fantasia. Sono le mie azioni – gli spettacoli – che mi permettono di incontrare gli altri. Le più importanti esperienze di trent’anni all’Odin Teatret rimangono velate, mentre la storia è fatta contando esercizi, spettacoli, viaggi, libri e incontri. Il processo è continuo e fluido: anche i mutamenti profondi non appaiono come chiare e solide svolte, ma come rapide e cascate di un fiume serpeggiante. Le pietre che marcano il mio cammino sono pietre d’acqua che mescolano un processo portato a termine con un altro che ha già preso l’avvio.


Introduzione Una storia che danza

Nel 1992, a Città del Messico, alla fine della mia dimostrazione sul lavoro d’attrice Il Fratello Morto, uno spettatore mi ha rivolto una domanda ricorrente: «A cosa pensi quando improvvisi? Cosa avviene alle tue immagini originarie quando il materiale fissato dell’improvvisazione subisce elaborazioni e trasformazioni da inserire in uno spettacolo? Come lavori sulla ‘sottopartitura’, sui tuoi punti d’appoggio interni?». Cercai di rispondere: «Quando improvviso, non penso per immagini o fotogrammi come in un film. I sensi, la memoria del corpo, la mente e il mio sistema nervoso pensano, agiscono e reagiscono come un tutt’uno. Senza rifarmi consapevolmente ai punti di partenza, l’informazione originaria è memorizzata dalle mie azioni e ne fa ancora parte anche se queste si trasformano e acquisiscono altri significati per lo spettatore. Non è una logica lineare. Coesistono nell’azione motivazioni contraddittorie, che compaiono e scompaiono. Tutto accade allo stesso tempo». Mi resi conto che non riuscivo a chiarire il modo di pensare di un’attrice, una tecnica che ho incorporato con anni di pratica. Stavo solo dando un resoconto confuso di un sapere che è difficile esprimere a parole. Così conclusi: «Non posso spiegare; per questo sono attrice! Le mie azioni sono, interagiscono con gli spettatori e, se sono vive, non sento il bisogno, né mi si chiede, di commentarle ulteriormente. L’agire in scena mi consente di raccontare simultaneamente situazioni e avvenimenti diversi, di secondare le condizioni per un’esperienza». Volevo sottolineare che la scelta di essere attrice presuppone una propensione all’azione invece che alla parola. Ancora una volta insistevo sulla difficoltà di analizzare il mio modo di “pensare con il corpo” come attrice. Il mio mestiere mi dà l’opportunità di essere percepita nel presente. Ma se voglio collegare il mio percorso con il passato e lasciare tracce che durino nel futuro, e trasmettere quello che reputo utile, devo trovare anche un modo di spiegare con le parole. La pratica del mestiere trova i propri canali di trasmissio-


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Introduzione

ne, ma la storia del teatro è anche la raccolta delle testimonianze che convertono l’esperienza pratica in concetti che trascendono il presente e le motivazioni personali. Poche donne hanno un ruolo rilevante nella storia del teatro generalmente studiata nelle accademie o nelle università. Sono state attrici e artiste importanti, ma non hanno elaborato teorie, e le loro esperienze ci arrivano in gran parte attraverso biografie, lettere o informazioni di cronaca. Nel secolo dei grandi riformatori del teatro e della regia, le donne restano in ombra. Fanno parte di una moltitudine di persone le cui realizzazioni rimangono celate e non riconosciute. Nel 2004, dedicai il quarto Festival Transit, dal tema Teatro – Donne – Radici, a Maria Alekseevna Valentej, la nipote di Vsevolod Mejerchol’d. Maria consacrò la sua vita a riscattare la memoria e l’eredità di suo nonno, tenendo testa anche al governo sovietico. Immagino sia lecito chiedermi perché dedicavo un festival di teatro di donne a qualcuno che ha vincolato la sua vita a riscattare l’opera di un uomo. L’impulso mi venne quando sentii della sua morte, dopo averla conosciuta a Mosca. Tutti ricorderanno Mejerchol’d, ma chi ricorderà Maria o Masha come la chiamavano? L’essere attrice mi ha insegnato ad avere fiducia nella forza della vulnerabilità e a valorizzare la mia differenza come donna scansando pretese ugualitarie o dominanti. Così nella storia del teatro preferisco mirare a una presenza visibile particolare, che forse è ancora da inventare. Vorrei realizzare un sogno paradossale: una storia nella quale persone anonime abbiano un viso e una voce. Invece di preoccuparmi solo di imporre un riconoscimento storico e teorico egualitario delle donne attive in teatro, vorrei mettere sottosopra i criteri abituali e accentuare l’importanza di assistere, allevare, organizzare, tradurre, ispirare, sentire, prendersi cura di una famiglia o di una compagnia, essere in scena e lasciarsi guidare dall’intuizione. Mi viene in mente la parola “relazione”, così importante nel teatro, quando constato che spesso le donne attive nel teatro trovano più soddisfazione nel partecipare a un progetto comune che nel vedere il proprio nome stampato su un libro. Mi piacerebbe scoprire autorità teorica nelle loro lettere, biografie e autobiografie, e riconoscere le loro voci in prima persona senza che debbano rinunciare alla loro generosità. Vorrei che qualcosa cambiasse nel modo di registrare, ricercare, documentare e scrivere la storia del teatro; desidero dare più presenza alle donne, al loro modo di esperire e pensare, e includere il loro contributo nelle teorie e pratiche del futuro. Vorrei che le attrici – me inclusa – cambiassero consapevolezza nei confronti del proprio mestiere. Questo ci spingerebbe ad andare oltre ciò che conosciamo, a superare la diffidenza e l’insicurezza che ci tiene lontane dalle astrazioni teoriche e dall’esposizione del nostro vissuto. Per garantire una presenza visibile, le donne di teatro devono assumersi la responsabilità di scrivere la


Una storia che danza

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propria storia con parole, forme e prospettive che, penso, sono in parte ancora da riscoprire o riformulare. Posso contribuire a creare un modo diverso di scrivere la storia del teatro e quale può essere? Posso dare un apporto per delineare una teoria-arcobaleno e rintracciare parole che consentano di intuire i processi impliciti, non evidenti della pratica teatrale? Come posso includere la diversità del miei criteri personali di percepire circostanze ed eventi passati e presenti come donna? Se le azioni devono essere tradotte in un linguaggio di concetti, come trasmettere la mia esperienza e quella di altre attrici in modo che siano punti di riferimento e strumenti pratici e teorici utili? Come può essere comunicata con le parole la realtà delle azioni, l’intreccio delle motivazioni che le generano e l’effetto provocato su ogni spettatore? Come posso contribuire a dare il posto giusto nella storia del teatro non solo alle “idee” e agli uomini che le hanno forgiate, scritte e realizzate, ma anche alle “azioni” e alle donne e agli uomini che le hanno compiute, percepite e interpretate? Queste domande sono il risultato di un’inquietudine. Da quando lavoro con l’Odin Teatret e ascolto le conferenze del suo regista Eugenio Barba, sento parlare di Mejerchol’d, Stanislavskij, Brecht, Artaud, Appia, Craig, Copeau, Grotowski... e ogni volta mi chiedo perché non ci siano nomi di donna fra questi maestri. Raramente sento menzionare Duncan, Duse, Littlewood, Mnouchkine... Nel 1989 rivolsi le stesse domande ad alcune storiche del teatro per pubblicare le loro risposte nella Newsletter del Magdalena Project, una rete di donne del teatro contemporaneo. Una delle storiche commentò che le era difficile generalizzare quello che riconosceva come concreto a livello personale. Descrivere un’attrice al lavoro rappresentava, per lei, ancora un processo creativo di cui ignorava i risultati. Per trovare altre risposte chiesi aiuto alla fisica moderna e alla meccanica quantistica che in quel tempo mi affascinavano. Il mondo della materia com’è realmente non può essere comunicato verbalmente. La matematica e l’italiano sono entrambi linguaggi, strumenti utili per trasmettere informazioni, ma se cerchiamo di servircene per comunicare le esperienze, non funzionano. Tutto ciò che un linguaggio può fare è parlare di esperienze. Le parole rappresentano soltanto, con una descrizione che è un simbolo. I simboli e l’esperienza non seguono le stesse regole. Il processo del nostro pensiero simbolico ci impone delle categorie escludenti. La differenza tra esperienza e simbolo è la differenza tra mythos e logos. Il logos imita l’esperienza, ma non può sostituirsi a essa. Il mythos che allude all’esperienza non cerca di sostituirsi a essa (liberamente citato dai volumi Il tao della fisica di Fritjof Capra e The Dancing Wu Li Masters di Gary Zukav).

Ma che succede quando parlo di teatro che è al tempo stesso esperienza e rappresentazione? Come attrice, mi siedo, parlo, corro, sudo e, allo stesso tem-


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Introduzione

po, rappresento qualcuno che si siede, parla, corre, suda. Come attrice sono me stessa e i personaggi che interpreto. Esisto nella concretezza della rappresentazione e allo stesso tempo dovrei essere in grado di essere viva nella mente e nei sensi dello spettatore. Come posso parlare di questa doppia realtà? I fisici mi dicevano: non si comunica l’esperienza, ma raccontando in che modo si producono e si misurano i quanta, i pacchetti di energia della materia organica, si rende possibile ad altri di farne l’esperienza. Dovrei allora parlare di come creo, elaboro e ripeto le azioni? Reputo importante la soggettività del mio punto di vista quando parlo di teatro. Non cerco giustificazioni obiettive. Forse, proprio perché segue simultaneamente due differenti sistemi di regole, quello dell’esperienza e quello della rappresentazione, il teatro mi aiuta a percepire la possibilità di mutamenti profondi. Riconosco nel teatro un campo privilegiato di aggregazione per le donne che dibattono il loro rapporto con la storia. Mi sembra che la nostra responsabilità di attrici sia più grande: siamo a contatto quotidiano con il pensiero del corpo e con i segreti delle azioni. Abbiamo il dovere di condividere la nostra esperienza anche attraverso le parole. Come donne generalmente scegliamo di dare priorità all’intensità emotiva della nostra vita, ai legami affettivi e alle occupazioni presenti. Siamo meno preoccupate di lasciare un’eredità storica, mentre ci orientiamo verso l’educazione dei figli o l’impegno nei confronti delle persone con cui siamo in contatto. Come attrice, il senso d’interezza, di verità soggettiva e la percezione intuitiva della realtà mi permettono di agire senza soffermarmi su alcuni passaggi logici e lineari, necessari al processo del pensiero analitico. Il bisogno d’integrità diventa un impedimento a parlare perché la descrizione appare vera e non vera allo stesso tempo. Che alternative ho, se non mi adeguo alla maniera abituale di trasformare un evento in simbolo con una presentazione inevitabilmente mutilata della realtà, tracciando una mappa che disegna e ricorda, ma che non è il territorio? Sono in grado di utilizzare le parole per dire in modo diverso? La meccanica quantistica usa la “probabilità di conoscenza” perché è conveniente. Posso fare lo stesso, accettando la distorsione e i limiti del racconto per dire ciò che può diventare soggettivamente utile? Mentre lavoravo alla regia dello spettacolo Semi di memoria, con l’attrice argentina Ana Woolf, ricordavo in continuazione le Madri della Plaza de Mayo di Buenos Aires. Mi insegnavano a sfidare l’assenza dei desaparecidos ricreando la loro presenza con i ricordi dettagliati e quotidiani di come erano da vivi, sorridenti e pieni di speranza nel futuro. Le Madri mi avvertivano che le dissertazioni politiche non restituivano la vita a quei giovani, ma che la descrizione dei loro atti li mantenevano vivi nella memoria. Penso a questo quando preparo un discorso di apertura di un festival o una conferenza. I titoli ufficiali non mi aiutano


Una storia che danza

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a parlare, ma l’esercizio quotidiano e l’imparare dagli errori sì. La mia bussola è ascoltare gli altri e concentrarmi su quello che nella situazione stimola a eliminare antagonismi sterili. A volte quando descrivo il processo di creazione, mi si rimprovera di perdere fascino, di diventare tecnica, come se rinunciassi alla passione, alla vita interiore, a ciò che dovrebbe restare misterioso e velato per gli spettatori, per gli storici e anche per me. La semplicità, la logica paradossale e l’apparente freddezza del processo che applico per creare, provocano un rifiuto nell’interlocutore. Esporre il mio percorso professionale è stato considerato perfino pedagogicamente pericoloso, perché ingannerebbe facendo credere che bastino alcuni semplici stratagemmi per migliorare nel mestiere. Sembrerebbe allora preferibile che le attrici – come le donne nella vita di ogni giorno – restino avvolte dall’aura del segreto e dell’enigma, perché il mestiere possa conservare un senso occulto lasciando ad altri il compito di riferire e analizzare. Non voglio rinunciare al mio mondo intimo che neppure io so decifrare, alla mia intelligenza intuitiva, al mio modo d’essere attrice e donna, e mi piacerebbe che delle giovani che si avvicinano al teatro possano instaurare un dialogo con una donna quando guardano al passato. Mi trovo ad affrontare un paradosso. Se continuo a difendere l’interezza e la particolarità dell’esperienza che non può essere comunicata, non sarò mai in grado di coagulare un riferimento, una teoria e un sapere diversi. Ma se smetto di difenderle, scriverò storia che non è mia. Ho bisogno di trasmettere, ma anche di scoprire come farlo. Il lavoro collettivo nella redazione di “The Open Page”, la rivista annuale che raccoglie articoli di donne che lavorano in teatro, e i contatti della rete del Magdalena Project mi orientano ad affrontare le necessità contraddittorie dell’essere tacita e concettuale, invisibile e presente. Quando leggo un volume di “The Open Page”, mi rendo conto che pochi articoli hanno un’autonoma forza storiografica o letteraria, ma che attraverso la relazione dei singoli testi ogni autrice partecipa a rendere udibile una voce chiara e singolare. La presenza è costruita da un condiviso impegno collettivo che si amalgama nella mente del lettore. La maggior parte di quello che so è basato sulla mia esperienza di attrice. Vorrei basare il mio impegno per la presenza visibile delle donne nella storia del teatro sull’esperienza della mia presenza scenica. Sento di dover stabilire una relazione tra il mio essere attrice e il mio modo di scrivere, organizzare e fare regia. Spesso allievi e partecipanti a seminari mi chiedono se ho scritto a proposito del mio processo di lavoro. Vorrebbero trovare su carta stampata gli esercizi e i consigli che ho suggerito loro per ricordarli con più esattezza. Ho sempre resistito a questa proposta perché la parola scritta si riveste di un velo di verità obiettiva, mentre nella pratica è inevitabile che mi contraddica secondo la situazione e le persone. Nel lavoro concreto ciò che è valido un giorno non lo è più


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Introduzione

Julia Varley nel Castello di Holstebro.

il giorno successivo. Ho paura che nella scrittura si perda il calore e il rapporto assolutamente personale, fondamentali nella pedagogia. Mancherebbe quella comunicazione che passa da corpo a corpo, da sensi a sensi, da cellule a cellule e che è alla base del mio sapere di attrice. Ma la domanda si è fatta sempre più insistente e le dimostrazioni di lavoro, anche se video-registrate, non rispondono a sufficienza. Sento l’obbligo di mettere per iscritto alcune tracce della mia esperienza sperando che le mie parole non risultino saccenti o diano sicurezze e verità definitive. Vorrei accontentare coloro che mi hanno chiesto di scrivere pur consapevole di non essere in grado di abbattere la barriera tra realtà e testo. Solitamente auguro buon lavoro quando termino un seminario. So che non si può insegnare, solo imparare. So che la strada è lunga e che ognuno deve tradurre e tradire ogni consiglio con una pratica personale. Mi riprometto di scrivere ricordando quello che ho spesso ripetuto nei seminari. Rimarrà sempre un residuo, qualcosa di non detto. Accetto questa responsabilità nell’illusione che queste pagine possano essere utili a un’attrice in cerca della sua voce. Comincio a scrivere spinta dal bisogno di dialogare con il passato, di forgiare parole di orientamento e di vedere anche nomi di donne nei libri di storia del teatro: una storia che danza con una forza vulnerabile e soggettiva.


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Primi passi

Diventare attrice Attrice: mi sono resa conto che lo ero quando ho scritto questa professione nel passaporto, dopo qualche anno che facevo parte dell’Odin Teatret, il gruppo di teatro danese fondato nel 1964. Da adolescente non avevo mai pensato di diventare attrice, era un lavoro che associavo alla falsità. Ero timida, parlare in pubblico mi costava fatica e non mi sarei mai immaginata su un palco. Un film che vidi a dieci anni è il primo ricordo che associo al teatro. Fu proiettato in una sala teatrale a Milano dove normalmente si presentavano commedie in inglese. Mi lasciò una piacevole sensazione. Raccontava la storia di alcuni ragazzi naufraghi e le loro avventure su un’isola. Un anno dopo mia nonna mi portò ai primi veri spettacoli. A Londra vidi danzare Nureyev e assistetti a una matinée di Sogno di una notte di mezza estate. Contai quante volte Nurejev incrociava le gambe quando si sollevava da terra in un salto che sembrava eterno. Nel Sogno di una notte di mezza estate, presentato in un parco all’aria aperta, mi divertirono i personaggi che apparivano da dietro gli alberi. Conoscevo Shakespeare da un libro per bambini in cui le tragedie erano state cambiate in storie a lieto fine. Quando mi capitò di vedere il film di Romeo e Giulietta di Zeffirelli, consumai un foulard in lacrime perché non mi aspettavo tanti suicidi. Isole di naufraghi, attività fisica e attori in mezzo al verde: queste mie prime immagini di teatro riaffiorano oggi come realtà, costrizione e necessità nel mio lavoro di attrice. Le isole galleggianti del terzo teatro, il training e gli spettacoli in luoghi inconsueti sono ormai riconosciuti come parte del variegato mondo del teatro. Per mettermi in contatto con questi aspetti, a suo tempo, ho dovuto sostituire la sensazione di falsità provocatami dal mestiere teatrale, così come me lo presentavano la televisione e i rotocalchi, con la concretezza che il diventare attrice mi ha richiesto. Il primo posto in cui ho fatto teatro è un garage a Milano. Svuotato dai veicoli


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Pietre d’acqua

la sera, il Teatro del Drago usava questo spazio per le prove tre volte la settimana. Il pavimento era sporco d’olio. I costumi erano jeans e magliette blu. Il gruppo era costituito da studenti che avevano fatto i primi passi con Massimo Schuster, un italiano che aveva collaborato con il Bread and Puppet Theatre negli Stati Uniti. Annoiata dalla lentezza e dal poco impegno del liceo, mi ero iscritta a un corso serale di tedesco per usare utilmente il mio tempo. Lì incontrai un ragazzo che mi parlò di un teatro “underground”. Mi incuriosì la parola “underground”: a quei tempi in Italia si usavano preferibilmente termini politici. Era il novembre del 1972. Avevo diciotto anni. Assistetti alle prove una sera, vi ritornai e fui subito introdotta in una scena: un’infermiera in una messinscena della poesia di Bertolt Brecht, Il soldato morto. Portavamo maschere e questo aiutava a nascondere il mio imbarazzo e la sensazione di essere tremendamente ridicola. Il teatro mi ha coinvolta subito senza che fossi io a decidere. Il garage, le persone presenti e la loro dedizione mi attraevano: avevano sapore di ribellione, senza perdere tempo in discorsi. Lì conobbi Marco Donati e Clara Bianchi. Per partecipare alle prove martedì e giovedì sera e la domenica mattina, rinunciai agli allenamenti di atletica e pallavolo negli stessi giorni, e ad andare a cavallo e a sciare durante i week-end. Eppure proprio quell’attività sportiva mi ha dato le prime informazioni basilari per il mestiere d’attrice. Le gare di sci mi avevano insegnato l’importanza della preparazione: l’allenatore mi faceva passare tutte le porte arrampicandomi sulla montagna con gli sci ai piedi, percorrendo il tragitto della gara all’inverso. Dovevo conoscere tutte le angolature, le cunette, i lastroni di ghiaccio che avrei attraversato, per poi poter fare la discesa senza esitare e in completa concentrazione. L’insegnante di educazione fisica mi aveva spiegato che non bisogna credere che la corsa termini al traguardo, ma che continua molto più in là. Questo atteggiamento evita il calo di velocità che viene dalla sensazione di essere già vicini al risultato. Nella pallavolo ero capitana della squadra del liceo. La consapevolezza di essere parte di un gruppo e la cooperazione di ogni singolo membro della squadra erano essenziali per vincere. Lo sapevo da quando riuscimmo a invertire il risultato di una partita che stavamo perdendo, dopo che avevo riunito e incoraggiato le mie compagne durante la pausa. A quattordici e quindici anni, durante le vacanze estive, insegnavo equitazione a bambini più piccoli. Non ero bravissima ad andare a cavallo, ma la responsabilità di guidare delle altre persone mi insegnò a mostrarmi sicura. Con il Teatro del Drago vidi 1789 del Théâtre du Soleil a Parigi. Questo spettacolo con la regia di Ariane Mnouchkine cambiò la mia accezione di cosa può essere il teatro e ancora oggi rimane per me un riferimento importante. Era la prima volta che vedevo gli spettatori in piedi circondati dagli attori, coinvolti a personificare il popolo della rivoluzione e la folla che compra al mercato. Era-


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Prove del Soldato morto, poesia di Bertolt Brecht, 1972: Clara Bianchi, Marco Donati, Mario Maffi, Julia Varley.

vamo andati al teatro di mattino, camminando lungo il Bois de Boulogne, per cercare di avere dei biglietti per lo spettacolo esaurito della sera. Erano le vacanze di Natale, vivevamo in tre in una stanza d’albergo a ore e non avevamo soldi. Ariane Mnouchkine, che stava lavorando al film Molière, con aria molto indaffarata ci mandò al botteghino con l’ordine di darci degli omaggi. Due anni dopo, il nostro gruppo del Teatro del Drago fu accolto da un’altra compagnia residente alla Cartoucherie per un festival di spettacoli antimilitaristi, e vedemmo come il Théâtre du Soleil aveva completamente trasformato il suo spazio per L’Âge d’Or. Il Teatro del Drago si spaccò dopo una discussione interna: non facevo più parte di un teatro “underground”, ma politico. Ero stata anarchica e poi militante in Avanguardia Operaia, uno dei gruppi della sinistra rivoluzionaria a Milano. In quegli anni, dal 1972 al 1976, fare teatro era il mio modo di partecipare alle lotte studentesche e operaie. Al Teatro del Drago, nelle ore libere dall’impegno politico e dalla costruzione di maschere e pupazzi, ci ponevamo il problema della nostra preparazione come persone che presentavano spettacoli e interventi teatrali. Il nostro teatro doveva essere utile e informare divertendo. La parola attore non faceva parte del nostro vocabolario. Non avevamo registi. Nei partiti


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e nelle organizzazioni di base riconoscevamo dirigenti e responsabili, ma nel teatro eravamo anarchici e ribelli. Sapevo che Marco Donati, uno dei fondatori del Teatro del Drago, era più efficace di altri in scena, ma questo non gli dava il diritto di decidere. Dal garage eravamo passati a una cantina, poi alla sede di un collettivo politico e infine a una casa occupata in via Santa Marta nel centro di Milano. Lì aprimmo una scuola di teatro, musica, grafica e cinema come parte delle attività del Circolo La Comune, originariamente un’organizzazione di appoggio agli spettacoli di Dario Fo e Franca Rame, in seguito diventato autonomo. Per fare le prove spostavamo le sedie che ingombravano lo spazio dopo le riunioni e vuotavamo i portacenere. Centinaia di giovani prendevano parte ai corsi. Tra loro Claudio Coloberti, che entrò anche a far parte del Teatro del Drago. Io organizzavo seminari e lezioni, contattavo professionisti, insegnavo, scrivevo volantini e comunicati stampa, preparavo festival, modellavo maschere, recitavo negli spettacoli ovunque ci chiamassero, guidavo un vecchio furgoncino blu, contattavo giornalisti e sindacalisti, discutevo, indicevo e presiedevo riunioni, prendevo regolarmente parte ai corsi, riciclavo l’argilla, pitturavo i muri della casa occupata... Lavoravo di mattina per guadagnare, di pomeriggio andavo all’università e facevo tutto il resto la sera e la notte. Entusiasmo, passione, credo politico, convinzioni profonde, passione, poco riposo, poco denaro, riunioni dopo riunioni, assemblee, manifestazioni, feste popolari... erano il mio pane quotidiano. Un giorno passai degli esercizi di ginnastica ai miei compagni come riscaldamento. Ma i primi veri esercizi di teatro ci furono insegnati da alcuni membri della Comuna Baires, una compagnia argentina esiliata in Italia, e dal Teatro del Sole, un gruppo milanese di teatro per bambini. Esercitavamo ogni parte del corpo separatamente, muovevamo le spalle e il bacino, giocavamo con una palla immaginaria attraverso l’impulso di una parte del corpo. Facevamo capriole avanti e indietro, sopra e sotto i tavoli, saltando sopra sedie e persone, vincendo la nostra paura. Lo chiamavamo espressione corporale. Durante un esercizio, camminavo con gli occhi chiusi annusando e toccando degli oggetti in vari punti della sala. In un altro, correvo allegramente in circolo con altre persone mentre qualcuno da fuori ci dirigeva per cambiare le posizioni delle braccia. La nostra vera scuola furono le strade, le università, le fabbriche, i quartieri, i mercati e le feste popolari. Arrivavamo con il nostro vecchio pulmino con targa inglese, regalatoci da mio padre che lo aveva vinto a backgammon, scaricavamo il materiale e presentavamo lo spettacolo. Se avevamo fortuna ci davano 50.000 lire che, a quel tempo, servivano appena per pagare la benzina. Un nostro spettacolo denunciava il Golpe militare in Cile del 1973. Con una maschera da morto di cera rappresentavo un partito politico – la Democrazia Cristiana. Nell’azione scenica chiamata Carillon, che mostrava i vincoli tra industriali di diversi paesi, portavo la bombetta. In una scena dello spettacolo contro


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Spettacolo di controinformazione sul Golpe in Cile, 1973.

Parata per il referendum sul divorzio in Italia, 1974: Julia Varley porta la coppia Almirante/Fanfani.


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la guerra ero vestita da marine americano. Nella campagna per il referendum sul divorzio portavo una coppia di pupazzi sposi con i visi di Almirante e Fanfani (due uomini politici conservatori), vestiti con un sacco della spazzatura e il vestito da damigella che avevo indossato a sei anni al matrimonio di mia zia. Partecipavamo alle manifestazioni di protesta per le strade con grandi mascheroni che costruivamo per ogni occasione. Nei cortei contro l’imperialismo ero sotto una gigantesca tigre di carta, in quelli per il diritto al lavoro precedevo un elefante di stoffa rossa alto quattro metri. Vidi l’Odin Teatret per la prima volta alla televisione, assieme ai miei compagni del Teatro del Drago, del Centro Sociale Santa Marta e del Circolo La Comune. Il programma mostrava varie situazioni di “baratto” realizzate dall’Odin Teatret nei villaggi del Salento. Eravamo certi che la nostra realtà li avrebbe interessati. Mela Tomaselli e Luciano Fernicola, collaboratori della nostra scuola di teatro, avevano in precedenza avuto contatti con questo gruppo scandinavo. Andarono a Pontedera, dove l’Odin Teatret era in tournée, invitarono alcuni attori a dare un seminario e proposero un baratto con noi quando sarebbero venuti a Milano. Torgeir Wethal, uno degli attori fondatori dell’Odin Teatret, venne a Santa Marta. Altri due attori, Tage Larsen e Tom Fjordfalk, andarono all’Isola, un centro sociale con cui collaborammo per accogliere l’Odin Teatret, invitato ufficialmente a Milano dal CRT (Centro di Ricerca per il Teatro). Avevamo discusso a lungo come organizzare i seminari e selezionare i partecipanti. Ci chiedevamo se fosse corretto accettare la disponibilità solo diurna dei mitici attori nordici, dato che ci consideravamo “lavoratori” che facevano teatro solo la sera. Per la prima volta sentii parlare di “training”. Torgeir ci guidò nella creazione di esercizi inventati individualmente a partire dal movimento delle braccia e camminando sempre sulla punta dei piedi. Creavamo camminate, corse, salti e balzelli avanti e indietro con momenti di stop per mantenere l’equilibrio, senza mai appoggiare i talloni. Lavoravamo insieme nella sala, ma ognuno per sé, isolato dagli altri. Durante uno dei tre giorni di seminario, Torgeir ci domandò di fare un’improvvisazione su un avvenimento importante della nostra vita. Ci spiegò che l’improvvisazione doveva essere eseguita in silenzio lasciando che le nostre azioni si ispirassero a episodi della nostra biografia. Come punto di partenza ricordai mio nonno e il suo divieto di tagliarmi i capelli quando avevo dodici anni. Fu la prima associazione che mi venne in mente. Mi permetteva inoltre di usare i capelli come oggetto concreto. Era la prima volta che facevo un’improvvisazione da sola, senza oggetti, maschere o pupazzi. Con Torgeir facemmo anche alcuni esercizi di acrobatica, durante i quali mi tagliai il mento. Dovetti andare all’ospedale a farmi mettere dei punti. Il risultato di tutti gli esercizi fu un tale dolore ai muscoli del polpaccio, che non riuscivo a


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salire le scale se non camminando all’indietro. In questo modo arrivai a Come! And the Day Will Be Ours (1976-1980), il primo spettacolo dell’Odin Teatret cui assistetti come spettatrice. Non capii lo spettacolo che trattava dell’incontro fra gli emigranti europei e le popolazioni indigene delle Americhe. Intanto preparavamo il baratto. Accompagnai Torgeir alla sede di Avanguardia Operaia alla ricerca di una tribuna per gli spettatori per la chiesa sconsacrata di San Carpoforo dove l’Odin Teatret avrebbe presentato una parte dello spettacolo Il libro delle danze (1974-1980). Nella chiesa vidi il cornicione che si sbriciolava sotto i piedi di Iben Nagel Rasmussen mentre provava come scendere lungo una corda con il suo costume bianco e con un tamburo decorato da lunghi nastri colorati. Vidi Tage Larsen ballare con la sua grande bandiera viola e arancione, Tom Fjordfalk saltare mulinando un lungo bastone mentre Roberta Carreri lo accompagnava suonando dei tamburi. Else Marie Laukvik era stata esonerata dal partecipare allo spettacolo. Noi eravamo arrivati con le nostre maschere e pupazzi. La chiesa era stracolma, molti spettatori erano rimasti fuori, mia madre fra loro. Io stessa vidi lo spettacolo da lontano, ma riconobbi nei colori e nelle danze dell’Odin Teatret qualcosa di familiare. Sentivo un’affinità verso quella tribù, anche se non avrei potuto spiegarne il perché. Non posso dire di aver avuto un primo giorno nel mio apprendistato come attrice, solo un lungo periodo caratterizzato da tutte le esperienze menzionate sopra. Quello che ricordo del secondo periodo di apprendistato è una profonda solitudine. Ero andata a visitare l’Odin Teatret in Danimarca con l’idea di imparare il più possibile durante tre mesi e condividere poi questo sapere con i miei compagni di Milano. Durante questo periodo a Holstebro avevo cercato di comprendere cosa fosse la presenza scenica a forza di verticali ed esercizi al muro per la schiena, mentre giorno dopo giorno si affievoliva la mia identità di persona responsabile, sicura, socialmente attiva e politicamente impegnata. Non parlavo la lingua – e in ogni caso non parlavano molto al Nord; non partecipavo a nessuno spettacolo o attività pubblica, non ero utile a nessuno ed ero confrontata quotidianamente con la mia ignoranza professionale. Bastarono solo tre mesi per sentire sparire la terra sotto i miei piedi. Sapevo solo una cosa: non potevo tornare a Milano e continuare a essere responsabile per centinaia di giovani basandomi semplicemente sull’entusiasmo e sulle parole. Avevo scelto il teatro come modo di dire no, per essere ribelle attraverso l’azione, perché non sopportavo di stare seduta a un banco di scuola o in un ufficio. All’Odin Teatret avevo scoperto che non sapevo cosa fosse realmente un’azione. L’unica cosa che potevo fare era apprenderlo in Danimarca. Mia madre era contenta. L’Italia stava andando incontro agli anni di piombo. Molti militanti sarebbero stati arrestati; avrei potuto essere una di loro. La politica avrebbe potuto essere il mio unico orizzonte. Cominciai invece a compiere i primi passi per diventare attrice.


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L’Odin Teatret Ero arrivata alla sede dell’Odin Teatret a Holstebro, in Danimarca, una notte d’ottobre del 1976. Ignoravo che prima di me erano venuti centinaia di altri aspiranti allievi durante i dodici anni di esistenza del gruppo. Non mi rendevo conto che quello che era nuovo per me era già vecchio per il gruppo che avevo incontrato da appena un mese. A Milano, e poi seguendo una loro tournée in Lombardia, avevo parlato con Torgeir Wethal e Iben Nagel Rasmussen indagando sulle possibilità di seguire per un periodo il loro lavoro per poi tornare in Italia e trasmettere ai miei compagni le nuove conoscenze. Un malinteso fra Torgeir e Iben fece sì che mi sentissi invitata in Danimarca. Iben mi aveva chiesto se ero interessata all’apprendistato come attrice o regista. Non capii la domanda perché al Centro Sociale Santa Marta e al Teatro del Drago non esistevano registi. Arrivata in Danimarca, carica di borse e valigie, entrai nel teatro di notte, dopo un lungo viaggio nel pulmino dell’Odin Teatret, durante il quale mi ero offerta come autista per rendermi utile. Il teatro mi apparve incredibilmente ordinato, pulito e ricco. Durante una riunione alla quale non partecipai, Eugenio Barba chiese chi intendeva assumersi la responsabilità di guidarmi. Era abitudine che una persona del gruppo si prendesse cura di un’ospite. Nessuno rispose. Immagino che la situazione sia stata imbarazzante. Dopo la riunione, gli attori “anziani” organizzarono per me diverse “classi”. Eugenio invece si comportò come se non esistessi, pensando che fosse ingiusto questo modo di introdurmi al teatro. Cercavamo di ignorarci a vicenda, anche quando ci incontravamo nei corridoi. Durante questo secondo periodo di apprendistato come attrice, la mia giornata era suddivisa in composizione (diversi modi di camminare che inventavo seguita da Silvia Ricciardelli, che era allieva all’Odin Teatret), acrobatica (sotto la guida di Toni Cots, altro allievo implacabile), lavoro con oggetti scenici (assieme a Francis Pardeilhan usando delle bandiere e dei piccoli trampoli, guidati da Tage Larsen) e voce (con Iben Nagel Rasmussen, fino a quando lei non si ammalò durante una tournée). Fu durante il primo incontro di lavoro vocale con Iben che mi resi conto che non conoscevo canzoni, riducendomi a ripetere infinite volte una filastrocca inglese. Ricordo ancora una camminata divertente fra le cinque che avevo fissato sotto la guida di Silvia: facevo i passi con le gambe diritte, alzando le punte dei piedi e le braccia tese con le mani in direzione opposta fra loro, piatte e perpendicolari. Ripetevo i cinque passi per ore, cambiando velocità, successione e direzione nello spazio. Il tempo per prendersi cura di ospiti e allievi si ridusse notevolmente quando l’Odin Teatret si trasferì alla periferia di Copenaghen per presentare i suoi spettacoli. Mi alzavo alle cinque per lavorare prima che il gruppo iniziasse il suo


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training alle sette. Continuavo da sola nel pomeriggio mentre gli “anziani” si riposavano prima dello spettacolo. La sera vendevo programmi e libri e aiutavo ad accomodare gli spettatori in sala. Tutta la mia giornata era dedicata al tentativo di costruire un training personale, rifacendomi alle esperienze precedenti a Milano, al primo seminario con Torgeir e alla composizione, all’acrobatica e all’utilizzo degli oggetti che stavo imparando in Danimarca. Quando non ero in sala, scrivevo pagine e pagine di diari. Eseguivo gli esercizi creati da Iben e Jens Christensen. Erano chiamati “svizzeri” perché erano stati visti per la prima volta da Eugenio durante una tournée dell’Odin Teatret in Svizzera. Li avevo appresi al Centro Sociale Santa Marta da Mela Tomaselli e poi rivisti nel film sul training fisico dell’Odin Teatret, che Torgeir ci aveva mostrato come parte del seminario. Del film, più degli esercizi, mi era rimasta impressa l’immagine finale. Iben, dopo aver improvvisato a lungo con gli esercizi, era andata ad accucciarsi ai piedi di Eugenio, mentre lui parlava e spiegava. Quel silenzio sottomesso mi aveva imbarazzato quanto la forza misteriosa di Iben nei suoi esercizi mi aveva affascinato. Nel film, Iben mostrava diversi modi di inginocchiarsi, sedersi, stendersi al suolo, alzarsi e cambiare direzione. Cercavo di assimilarli e padroneggiarli ripetendoli per ore. Non mi sono mai sentita tanto pesante quanto il giorno in cui, mentre cercavo di alzarmi senza usare le mani da una posizione con le gambe piegate lateralmente, Eugenio entrò nella sala “bianca” dell’Odin Teatret per mostrare il teatro a una nuova segretaria. Dopo una permanenza di tre mesi in Danimarca, si era infranto il mio sogno di tornare a Milano carica di conoscenze da trasmettere. L’unica certezza rimasta era che non sapevo niente. Non potevo tornare fra i miei compagni e sostenere il loro lavoro solo con la forza illusoria dell’ideologia e con la rabbia che provoca l’ingiustizia. Cominciavo a capire la differenza fra parole e azioni, fra ideali e capacità di realizzarli concretamente. Decisi di rimanere. Fui “adottata” da Tage. L’adozione era la soluzione escogitata da Eugenio per accontentare gli “anziani” che volevano inserire nuove persone nel gruppo. Eugenio non sentiva tale necessità ed esigeva che chi era motivato si assumesse la responsabilità economica e pedagogica per i giovani che invitavano a rimanere. Tage si assunse l’onere di farmi crescere, assieme all’altro allievo, l’americano Francis Pardeilhan. Nello stesso periodo Iben seguiva l’italiana Silvia Ricciardelli e lo spagnolo Toni Cots. Tage fu il mio primo maestro, e anche mio marito. Tornai a Milano per tre mesi a guadagnare dei soldi per essere economicamente indipendente il più a lungo possibile. Poi mi ripresentai all’Odin Teatret con l’intenzione di restare, con l’appoggio di Tage e contro la volontà di Eugenio.


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Maestre e maestri Fin dai primi giorni all’Odin Teatret, quando non ero ancora accettata ufficialmente come allieva, ho seguito come aiutante lo spettacolo di clown presentato nelle scuole danesi da Silvia Ricciardelli, Toni Cots e Francis Pardeilhan. Imparai a passare gli oggetti di scena nell’ordine giusto, a pulirli e impaccarli subito dopo l’uso e a preparare decine di litri di schiuma da barba per la scena comica finale. Ogni volta che era possibile, assistevo seduta tra gli spettatori agli spettacoli Come! And the Day Will Be Ours e Il libro delle danze. Osservavo la palese trasformazione che avveniva nei corpi di Roberta Carreri, Tom Fjordfalk, Tage Larsen, Else Marie Laukvik, Iben Nagel Rasmussen e Torgeir Wethal. Immagazzinavo immagini di tensioni, impulsi, salti, camminate, cadute, voci e canti in cui la storia raccontata si mischiava ai compiti tecnici, le emozioni al sudore. Ho iniziato a fare teatro in Italia nel periodo in cui il corpo era al centro dell’attenzione. Molti giovani volevano essere in scena e pochi ambivano a essere spettatori. La priorità era fare. Eventualmente si poteva osservare e imparare dopo. Il teatro era la risposta a bisogni collettivi e a spinte rivoltose, in cerca di coinvolgimento totale e divertimento. Non era una professione perché come tale era considerato falso e distante. L’allenamento fisico e la ricerca di maestri non erano conseguenze di un apprendistato che avrebbe dato diritto a un lavoro, ma facevano parte di un modo di ampliare, attraverso il teatro, gli orizzonti del coinvolgimento sociale. La serietà non era determinata dalla professionalità, ma dal valore dato al teatro. I gruppi imparavano al loro interno. I giovani si riunivano per scambiarsi quello che sapevano e quello che facevano finta di sapere. Le generazioni più anziane erano guardate con sospetto: rappresentavano forze conservatrici e una pratica che non poteva più essere interessante. Arrivando all’Odin Teatret nel 1976 ho imparato a riconoscere l’autorità delle attrici e degli attori del gruppo che erano maestre e maestri. Era una dote acquisita con anni di esperienza, resa evidente dall’effetto delle loro azioni dentro e fuori le sale di teatro. Sempre più sprofondavo nella certezza di non sapere niente. Dovevo costruire dalle fondamenta per poter esistere di nuovo, ispirandomi agli esempi che avevo davanti. Fra gli attori dell’Odin Teatret, Tage Larsen si era assunto la responsabilità di essere il mio maestro. Ha creato le condizioni per permettermi di imparare e ha garantito la continuità, la pazienza, la presenza quotidiana e la fiducia di poter commettere errori come allieva. È stato la silenziosa compagnia necessaria nel corso di vari anni, restandomi accanto durante i veri primi passi che ho appreso a compiere da sola. Seguita da Tage, durante il training, ho montato due scene per uno spettacolo di strada, una con Francis usando come oggetti scenici delle bandiere, e


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un’altra con un allievo danese, Torben Bjelke, con delle grancasse. Creavo delle camminate ispirate alle danze indiane. Introducendo questo lavoro, Tage si era riferito ai danzatori classici dell’India, ma io non lo avevo capito. Supponevo parlasse degli indiani d’America e chiamai il mio quaderno di appunti “Geronimo”. Facevo improvvisazioni con la voce durante le quali nascondevo le mani nelle tasche della gonna: stringevo i pugni e mi ferivo con le mie stesse unghie per il nervosismo. Tage a volte eseguiva esercizi o camminate particolari in modo che potessi imitarlo, ma più spesso si comportava come se stessimo realizzando una ricerca comune, dove il mio contributo, le mie soluzioni, la mia capacità di inventiva e persistenza erano importanti quanto i suoi. Per i primi due anni ho seguito l’Odin Teatret in tournée aiutando come potevo. In Francia, in Spagna, in Norvegia, in Germania, la mia unica preoccupazione era recuperare una sala libera per lavorare da sola o sotto lo sguardo di Tage nelle ore disponibili dalle altre attività del gruppo. Sul palco del teatro Paul Éluard alla periferia di Parigi ebbi un’illuminazione: pensai di aver capito cosa fosse la composizione, dopo aver ripetuto all’infinito degli esercizi che mi erano stati insegnati. In un’altra sala a Lecco, in Italia, scoprii che era possibile raccontare una storia con le intonazioni della voce, a prescindere dal significato delle parole del testo, mentre a Bergen, in Norvegia, alcuni mesi prima avevo pianto disperatamente per la mia totale incapacità di improvvisare con la voce e sviluppare un tema che mi era stato dato. Non succedeva niente di particolare, era solo la sensazione fugace che il mio corpo avesse capito. Per un attimo l’esperienza mi svelava il suo perché intrinseco e mi suggeriva come continuare. I risultati arrivavano improvvisi e inaspettati dopo aver insistito per mesi e mesi in direzioni apparentemente sterili. Mi sembrava di avere fatto un balzo in avanti, per poi riprendere la quotidianità della scalata dallo stesso punto. Il ricordo del balzo mi aiutava però ad avere fiducia. A dicembre del 1977, a Rennes, in Francia, le “famiglie” degli allievi adottati dell’Odin Teatret fecero un “baratto” mostrandosi a vicenda il training in pubblico. Per la prima volta Francis e io, seguiti da Tage, e Toni e Silvia, seguiti da Iben, ci incontravamo per esporre il lavoro segreto e quotidiano davanti agli occhi di spettatori e degli altri membri del gruppo. Il tempo abituale dedicato a ogni esercizio passava velocemente e sudavamo molto di più. “Famiglie” diverse esibivano le loro danze, la loro musica e i loro canti per poi mischiarsi ed essere riconosciuti come appartenenti alla stessa tribù. Fui accettata ufficialmente come allieva dell’Odin Teatret dopo un periodo di tre mesi in cui il gruppo si separò per approfondire interessi individuali, e durante i quali io lavorai con Tage. Alcuni viaggiarono da soli, in coppie o piccoli gruppi per paesi lontani come l’India, Bali, il Brasile; altri rimasero in Danimarca. In vista di riprendere le attività insieme, in una riunione Eugenio annunciò che i “figli adottati” da Tage e Iben non erano più dei satelliti distanti, ma parte


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Pietre d’acqua

Con Tage Larsen nel Milione.

del gruppo. Erano passati diciotto mesi dal mio arrivo. Da quel momento avremmo ricevuto un quarto di salario mensile e avremmo condiviso, oltre ai privilegi, le responsabilità e il carico di lavoro che spetta a ogni membro dell’Odin Teatret. Da quel momento Iben decise di prendersi la responsabilità pedagogica dei giovani del gruppo in cambio di essere esentata da impegni di seminari esterni. Iben ci introdusse al “samurai” (diversi passi con le gambe molto piegate, il peso mantenuto verso terra e l’energia forte di un guerriero giapponese) e ci fece fissare una catena di azioni, cadute e salti che giorno per giorno si allungava con nuovi elementi che inventavamo. Ci allenavamo ogni giorno, anche durante le tournée, nelle sale più disparate, assieme a Francis, Torben e Ulrik Skeel (un attore di Min Fars Hus che era tornato all’Odin Teatret dopo tre anni di assenza). Cercavo di dare fermezza e precisione alle mie azioni, ma c’era sempre qualcosa in più o in meno, non riuscivo a fermare gli impulsi e il mio corpo rimbalzava come fosse di gomma. Nel 1981 Eugenio si assentò per tre mesi per la realizzazione della seconda sessione dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology). Chiese a Ingemar Lindh, un ex assistente svedese di Étienne Decroux, di prendersi la


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responsabilità dei giovani dell’Odin Teatret durante quel periodo. Imparavamo elementi di base e figure del mimo corporale che studiavamo un’ora al giorno, poi ci concentravamo sulle tecniche di improvvisazione utilizzando elementi fissi che avevamo appreso o inventato durante il training. Ingemar insisteva a trasmetterci l’esplosione di energia degli impulsi. Durante il training, Francis era Njinskji, Ulrik passava da Salvador Dalí a Diaghilev, e io ero Isadora Duncan. I nostri esercizi, secondo Ingemar, dovevano essere sublimi. Dovevamo essere responsabili e pronti a non perdere le occasioni date dal caso e dalle circostanze come se il training fosse una forma di preghiera pratica. Il training doveva svilupparsi come una giornata di sole, che sorge e tramonta, finendo ogni volta con uno spettacolo. Ci esortava a muoverci come cavalli e non come foche, a essere aristocratici, a mostrare nonchalance anche nelle difficoltà e ad avere la scioltezza con cui un operaio apre una bottiglia di birra. Camminavamo a quattro zampe, oppure spingendo i talloni nel terreno come atleti, impegnandoci a mantenere la tensione nelle gambe come i cavalli, fluttuando nell’aria compensando con le anche, o sospinti da impulsi del bacino. Ingemar voleva che mi confrontassi con Lady Macbeth. Imparai un monologo di Shakespeare e un’aria dell’opera di Verdi. Fu il primo a farmi ballare nello spazio mentre cantavo, obbligandomi a dimenticare che pensavo di non saper cantare. Nel tempo libero mi esercitavo con un lungo bastone di legno e una bombetta per creare una scena di teatro di strada. Nel 1983 Eugenio prese un anno sabbatico dall’Odin Teatret. Ci annunciò questa decisione prima delle vacanze estive e ci lasciò poco dopo obbligandoci a trovare un diverso funzionamento interno per accudire alle tournée già programmate. In quel periodo lavoravo assieme a Silvia Ricciardelli e Ulrik Skeel allo spettacolo La notte dei vagabondi con la regia di Else Marie Laukvik. Else Marie ci faceva improvvisare assieme intere scene, testi, musiche e danze senza ripetere se non per sedimentare lentamente alcuni degli elementi che la interessavano. Else Marie mi ha insegnato la possibilità del disordine creativo e mi ha incoraggiato a non rispettare la letteralità di una situazione. Ho imparato molto da Iben e da Else Marie, consapevole che loro non mi consideravano una loro allieva. Marco Donati nel Teatro del Drago, Tage ed Eugenio all’Odin Teatret, invece sono gli esempi più persistenti dei miei maestri: tutti uomini. Mi è costato fatica trovare un’immagine autonoma di attrice che potesse essere femminile eppure forte. Non riuscivo neppure a vedere gli esempi vicino a me. Alcuni anni più tardi, il Magdalena Project, una rete di donne attive nel teatro contemporaneo, è stato lo spazio nel quale ho potuto scambiare esperienze professionali con altre donne. È un ambiente che mi ha dato fiducia nei confronti delle mie domande e della mia curiosità. Mi ha aiutato a scoprire un mio linguaggio personale e mi ha spinto a riflettere e scrivere sul mio lavoro.


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Dal primo festival a Cardiff nel 1986 fino a oggi, ogni appuntamento con queste donne artiste di teatro evidenzia per me una nuova sfida. Sin dall’inizio del mio apprendistato, il training ha avuto una grande importanza, ma sono stati gli spettacoli a farmi crescere. Per questo affermo che i personaggi sono i miei veri maestri. Mr. Peanut, che nacque per lo spettacolo di strada Anabasis, mi ha insegnato a ballare e improvvisare con libertà. Mrs. Peachum e Ilse Koch di Ceneri di Brecht mi hanno obbligato a sorridere anche quando non me la sentivo. Con la Donna-in-nero del Milione ho scoperto come trasformare l’incapacità di cantare in un modo di interpretare un testo. Giovanna d’Arco durante le prove del Vangelo di Oxyrhincus mi ha aiutato a concepire uno scenario che seguiva due storie autonome e parallele. Con la Donna-inbianco del Castello di Holstebro ho affrontato un intero spettacolo da sola. Kirsten Hastrup, l’antropologa di Talabot, mi ha insegnato a non cercare risultati e a lasciarli venire, Doña Musica di Kaosmos a essere e non essere, Dedalo di Mythos a entrare fiduciosamente nel labirinto, e Shahrazad del Sogno di Andersen a non avere paura di essere velata. I personaggi mi hanno immesso nel territorio rigoroso degli spettacoli, dove la qualità artigianale è un obbligo, e apprendere una conseguenza imprescindibile. Maestra è la pratica. In una delle mie dimostrazioni di lavoro definisco l’attrice come una persona che compie azioni. Sono arrivata a questa semplice definizione dopo anni di lavoro con l’Odin Teatret, nel tentativo di spiegare e condividere il mio percorso con altri. Sembra evidente, ma so bene che non è così, come risulta dai seminari quando chiedo ai partecipanti cosa sia un’azione. È difficile trovare una definizione comune. Allora chiedo di contare le azioni in una sequenza fisica, o di una scena, per scoprire la logica personale che ognuno sceglie per riconoscere un’azione. Poi – quando ancora non ci troviamo d’accordo – cerco di indicare le trasformazioni, anche minime: i cambiamenti di tono muscolare nel torso, che segnalano per me la transizione da un’azione all’altra. L’azione esiste quando qualcosa è mutato e la realtà non è più la stessa. Non è facile rendersi conto che l’azione sia la frazione più piccola di un movimento complesso, ma è in questo dettaglio che è contenuta la mia esperienza di attrice. L’azione crea cambiamenti. Il cambiamento più piccolo ha origine nel torso di chi agisce e si nota nelle tensioni che coinvolgono i piedi. Capovolgendo il mondo e il modo di concepire abituale, vorrei che l’intelligenza dei piedi fosse riconosciuta per la sua efficacia di pensiero dinamico. L’attrice che pensa con i piedi è capace di intuire la volontà del proprio corpo ben radicato sulla terra. Prendo spunto dal pensiero che ha radici nei piedi anche per spiegare la mia esperienza. Con l’Odin Teatret ho imparato ad ascoltare i miei piedi come dei maestri, con il Magdalena Project vorrei farli camminare fino a farli diventare maestre.


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