Fabrizio Sinisi
Tre drammi di poesia La grande passeggiata Natura morta con attori Agamennone
Introduzione di Franco Perrelli Postfazione di Federico Tiezzi
Indice
Introduzione Il dramma trasversale di Fabrizio Sinisi di Franco Perrelli
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La grande passeggiata
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Natura morta con attori
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Agamennone 105 Postfazione Il pensiero feroce. Appunti su una drammaturgia in versi di Federico Tiezzi
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Introduzione Il dramma trasversale di Fabrizio Sinisi di Franco Perrelli
1. Il pugliese Fabrizio Sinisi – alle spalle buoni studi letterari con un’attenzione elettiva per la poesia italiana, nonché una personale e non effimera militanza di poeta1 – si è segnalato negli ultimi anni come drammaturgo e Dramaturg molto attivo sulle maggiori scene nazionali2. Nel 2010 collabora, infatti, in questa veste all’allestimento dei Promessi sposi alla prova di Giovanni Testori al milanese Piccolo Teatro Grassi; l’anno successivo, all’opera lirica Lo stesso mare di Fabio Vacchi e Amos Oz al Teatro Petruzzelli di Bari; nel 2013, presso il fiorentino Museo Nazionale del Bargello, a Un amore di Swann da Proust e, al Teatro Storchi di Modena, al pirandelliano Non si sa come (due regie di Federico Tiezzi). Sinisi ha tradotto, ancora, per Marietti, il testo Giobbe, o la tortura dagli amici di Fabrice Hadjadi. Nel 2011 ha curato – per Federico Tiezzi – la drammaturgia del Woyzeck di Büchner (Pontedera, Teatro Era), operazione di scrittura laboratoriale che non prevedeva «solo un prologo ex novo, ma addirittura due e di una certa autonoma articolazione scenica e narrativa»3. Seguono – in una sempre più assidua qualità di traduttore re-inventore di testi4 – rielaborazioni delle Confessioni di Agostino (Meeting Internazionale per Sinisi ha pubblicato i volumi di poesia La fame (Milano, Archinto, 2011), finalista Premio Camaiore, e Contrasto dell’uomo e della donna (Forlì, CartaCanta, 2014), presentato durante la XXVII edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino e finalista nel 2015 al Premio Carducci. In una Postfazione alla prima raccolta, un attore sensibilissimo alla poesia come Sandro Lombardi individuava una consonanza di questa lirica con Montale e soprattutto Luzi, aggiungendo: «Nella poesia italiana è stato sempre raro trovare voci in grado di coniugare ispirazione lirica con densità e chiarezza di pensiero» (p. 104). 2 Sinisi è Dramaturg della Compagnia Lombardi-Tiezzi e del Teatro Laboratorio della Toscana; dal 2015 è docente di Drammaturgia presso la Scuola di Scrittura Flannery O’Connor di Milano e, nel 2016, inizia una collaborazione come drammaturgo per il milanese Teatro degli Incamminati. 3 F. Sinisi Uno spettacolo in forma di cantiere, in AA.VV., Teatro Laboratorio della Toscana, a cura di L. Mello, Corazzano, Titivillus, 2013, p. 75; nonché Alcuni versi per una messinscena del “Woyzeck”, ivi, pp. 90 sgg. Sull’operazione condotta da Sinisi, vedi anche l’intervento di Federico Tiezzi, Appunti per “Scene di Woyzeck”, ivi, p. 85. 4 In merito a questa fitta attività – in un’intervista ad Andrea Porcheddu, Nuovi drammaturghi 1
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Introduzione
l’Amicizia fra i Popoli di Rimini, 2013) e dell’Annuncio a Maria di Paul Claudel, per la regia di Paolo Bignamini (2015). Nel 2014, con la compagnia del Teatro dei Borgia e in collaborazione con i Teatri di Bari, Sinisi inaugura un Progetto Goldoni: una trilogia di riscritture goldoniane proiettate nel meridione d’Italia di oggi – a Gl’innamorati seguirà, nel ’15, La locandiera. L’anno dopo, Sinisi interviene sui copioni delle messinscene di Questa sera si recita a soggetto di Pirandello (produzione del Piccolo Teatro di Milano), nonché di Calderón di Pasolini per il Teatro Argentina di Roma, regie di Federico Tiezzi. L’attenzione su Sinisi drammaturgo si era accesa, tuttavia, nel 2012, quand’era stato allestito il suo dramma in versi La grande passeggiata (debutto a Bari, al Teatro Royal, il 12 dicembre), con Sandro Lombardi protagonista e la regia di Federico Tiezzi5. Ottenuta la segnalazione tra i finalisti del Premio Riccione Tondelli, nel 2015, con il copione Jekyll, nell’estate del 2016, Sinisi ha poi presentato un suo Agamennone al Teatro Romano di Falerone, con musiche di Francesco Verdinelli e regia di Alessandro Machìa. Il 24 settembre 2016, nell’ambito del Festival Internazionale di Drammaturgia Contemporanea Tramedautore, sarebbe andata in scena, al Piccolo Teatro Grassi di Milano, Natura morta con attori, diretta ancora da Machìa. Nonostante la drammaturgia italiana più recente non sia priva di giovani emergenti, ciò che appare pur sempre singolare, in questa compatta e prestigiosa carriera, è la data di nascita di Fabrizio Sinisi: il 1987. 2. La grande passeggiata, testo in versi metrici tradizionali (perlopiù endecasillabi e settenari), prende spunto dalla clamorosa accusa di stupro su una cameriera d’hotel che, nel 2011, aveva stroncato l’ascesa politica dell’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn. L’arresto di questa personalità, il sospetto di un complotto, le pesanti ricadute politiche e l’archiviazione infine dell’accusa, non senza uno strascico di pettegolezzi e di polemiche, hanno occupato a lungo le cronache internazionali e potrebbero qualificare il tema del copione di Sinisi come d’attualità. Sarebbe sbagliato, tuttavia, fermarsi a questo dato di fatto, perché l’opera s’impernia essenzialmente su altro ovvero sul problema, che al momento si rivela crescono: Fabrizio Sinisi, su «gli Stati Generali» del 20 settembre 2016 (http://www.glistatigenerali. com/teatro/nuovi-drammaturghi-crescono-fabrizio-sinisi/) –, il nostro autore afferma: «Anziché rifare il patrimonio drammaturgico, affidandolo solo alle invenzioni o ai salti mortali dei registi, mi sembra più affascinante che le rivisitazioni dei “classici” siano affidate a drammaturghi: non “riletture”, ma re-invenzioni vere e proprie, con nuove coordinate». 5 Il testo sarà pubblicato in anteprima, a cura di Rodolfo Di Giammarco e Rossella Porcheddu, nel volume New Writing Italia, Roma, Editoria & Spettacolo, 2014. La scena 1 dell’atto II è in AA.VV., Teatro Laboratorio della Toscana cit., pp. 121 sgg., dove di può leggere anche il saggio di L. Mello, L’attualità si fa poesia (tra elegia e storia), ivi, pp. 115 sgg.
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centrale nella drammaturgia di Sinisi, dell’identità soggettiva, come riflessione su che cosa significhi consistere come persona e se – al di là del gioco delle apparenze sociali – si possa concepire un’autenticità dell’essere. Si osserverà che il tema non è nuovo nella drammaturgia moderna e spesso viene inquadrato con l’aggettivo “pirandelliano”. Diremo subito che, nei drammi di Sinisi, l’influsso di Pirandello è presente e quasi dichiarato, ma – almeno in questo dramma – la tecnica del nostro autore appare differente: manca il rovello, labirintico o talora circolare, dell’interrogazione insistente sull’essere e l’apparire, elettivamente nel quadro delle convenzioni borghesi. In Sinisi, il problema implode semmai liricamente dentro i personaggi a confronto con situazioni della vita in cui restano invischiati e che dischiudono per loro l’aggrovigliato aut-aut del rifugiarsi nella solidità dell’apparenza o dello scoprirsi nell’ardua avventura dell’essere. Ciò detto, ci si trova di fronte a un teatro eminentemente esistenziale, che non può che utilizzare lo strumento sottile e speculativo della poesia, avvertendolo privilegiato per demistificare la finta prosa della vita, che avvolge «il mistero che sta all’origine di ogni atto umano»6. Si tratta quindi di testi tessuti di una lirica sensibile e quasi vibratile, che riproduce realisticamente le petites perceptions dell’anima, la sua ansiosa drammatica ricerca o intuizione orizzontale e verticale di senso, non necessariamente destinate a esaudimento. Quello di Sinisi è, in sintesi, un dramma esistenziale, poetico e paradossalmente realistico proprio perché non assegna all’umanità traguardi edificanti, ma ne sfiora con pudica inquietudine la quasi impossibile tentazione o tensione verso una verità o un altrove, che tutti – potendo conciliarsi con se stessi – immaginano come una patria. Entrando in carcere, Jean-Paul, nella Grande passeggiata, recita assai più metaforicamente di quanto non sembri: «Che nostalgia mi prende / in questa strana sera. / Io che non ho dimora / voglio tornare a casa. / E non so cosa m’aspetta / di là, dall’altra parte: / nel fuoco dell’attesa...»7. La grande passeggiata, pertanto, appare solo superficialmente un moderno e 6 Su questa linea ci pare anche la dichiarazione dell’autore su «ilSussidiario.net» dell’11 dicembre 2012 (http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2012/12/11/TEATRO-Dominique-StraussKahn-arriva-a-Bari-e-ci-parla-del-destino/345962/), proprio in merito alla Grande passeggiata: «Non mi interessava, né mi ha mai interessato, la mera prurigine dell’aspetto sessuale, né tantomeno una facile retorica morale contro i potenti. Ciò che invece mi aveva colpito, quando scoppiò lo scandalo Strauss-Kahn, è stata la totale, apparente illogicità di quel gesto: da parte di un uomo che di lì a pochi mesi sarebbe con tutta probabilità diventato candidato premier del Partito Socialista Francese. Mi sono chiesto che cosa potesse spingere un uomo a distruggere così i propri progetti, le proprie ambizioni, i propri disegni. Mi è sembrato che quella vicenda rivelasse per l’ennesima volta una verità decisiva: che l’uomo è superiore ai progetti che ha su di sé; che la sua natura travalica gli schemi con cui cerchiamo di misurare e programmare la vita: al punto da poter degenerare in atti tragici, incomprensibili». 7 Le citazioni dai drammi, in questa Introduzione, provengono direttamente dai copioni di messinscena e non tengono conto di eventuali modifiche del testo intervenute successivamente.
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Introduzione
quasi scespiriano gioco dei potenti, che non si affrontano più a colpi di spada o di veleno, ma di dossier e di speculazioni borsistiche in grado di spiantare interi popoli, attraverso i canali immateriali della telematica. La grande passeggiata è, piuttosto, il dramma della verità esistenziale imbozzolata dentro l’apparenza, ma soprattutto della dialettica nostalgia di altro, che la disgrazia dell’arresto di Frédéric Jean-Paul, direttore del Fondo Internazionale, con l’infamante accusa di stupro, riaccende nel protagonista, nei termini larvali e discontinui, caratteristici della coscienza umana serrata nel flusso della storia e dell’economia, ciecamente trascinata dal Geist dell’epoca e dalle sue maschere. Il copione, conformato sulle tre unità classiche, offre scarsissime azioni e tale peculiarità – che pare un’altra ricorrenza in questi primi drammi di Sinisi – è accentuata da una desertificazione delle didascalie. Il teatro, per quanto riguarda questo autore, è motile ed essenziale scrittura poetica che s’innerva nei personaggi e li anima in una sorta di ritmo significante; tutto il resto è scrittura scenica, regia, qualcosa che concerne altre funzioni artistiche. Il testo, così, si propone come la spina dorsale dell’operazione teatrale, ma rivestirlo di muscoli e nervi pertiene ad altri. 3. «La grande passeggiata / sul tappeto rosso, illuminato dai flash» cui è abituato il potente Jean-Paul si è tramutata in una traduzione dal tribunale alla prigione e alle soglie della morte civile e fattuale. Registi della vita di Jean-Paul diventano ora Donald e Frank, una coppia di «clown» (come li definisce Barbara, moglie dell’imputato) o, meglio, «due inquietanti guardie che ci arrivano direttamente da Arancia meccanica di Kubrick» (come puntualizza Maria Grazia Gregori, nella sua recensione sull’«Unità» del 21 dicembre 2012). Per costoro, «quando la gloria / non sa essere fedele, / la sciagura, invece, lo è sempre, / come un cane affamato / s’attacca al suo benefattore». A ben vedere, per quasi tutto il copione, s’irradia una larga metaforizzazione bestiale, di carattere generalmente peggiorativo, come se i contemporanei animal spirits dell’economia avessero operato una metamorfosi ferina del genere umano. Così, all’arresto di Jean-Paul, mentre volpi e uccelli hanno un nido, l’imputato – abituato alle suites dei grandi alberghi – ora non ne ha nessuno. Del resto, viene definito una «bestia schifosa», la cui tristezza è ormai «tale / da spaventare i passeri», ma con lo sguardo fisso di «un animale sulla sua preda». Jean-Paul è proprio «uno strano animale»; anzi, con ulteriore slittamento, un animale che si mimetizza, da palcoscenico, e pertanto «sa / come giocare il proprio personaggio». Del resto, «il presidente è stato un grande attore. / La vita, lui, non l’ha mai conosciuta». Sulla ribalta dello scandalo, all’arresto, Jean-Paul si presenta, intanto, come un attore consumato, «con la naturalezza e lo sconforto / di chi s’appresta ad affrontare / una dura giornata, ed è già stanco / prima di cominciare», ma gli
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atteggiamenti del protagonista (ricorrentemente nel copione) appaiono bilanciati da una «sconfinata tristezza». La stessa da cui Jean-Paul è stato contagiato dalla cameriera che ha violentato, la quale, così, assurge a un vero e proprio «emissario di tristezza: / la tristezza divina, intollerabile / di quelle anime che chiamano sante, / di chi non è tutto di questo mondo. / [...] Non ho opposto resistenza» – confessa il protagonista –, «m’ha preso, / quella tristezza come un desiderio, / profondamente mia, / più che se fosse stata mia davvero, / mia da sempre per sempre in quell’istante». La tristezza della donna s’è fatta insomma specchio personale. Un po’ come nel Borkman ibseniano – dramma del denaro che già si emancipa metafisicamente dalla matrice borghese e che oggi rinasce in questo testo (come, in altra chiave, nella Lehman Trilogy di Stefano Massini) –, Jean-Paul è un affarista ineluttabilmente rovinato, eppure geniale e spregiudicato, che alle spalle ha uno scandalo economico colossale, legato a una fabbrica di automobili fallita, la quale, tra fondi neri e debiti fuori bilancio, alimentava i più vacui miraggi del consumismo. Dalla rovina di questa chimera, Jean-Paul è riuscito a realizzare il «miracolo» di essere scagionato. Ciò gli ha però attirato feroci rancori e forse ha precostituito la vendetta dell’attuale arresto, visto che, al tempo, si era salvato «solo lui, / perché sapeva come si sta in scena. / [...] Gli bastò recitare il personaggio / dell’uomo innocente, per diventarlo». Marcel Labiche, segretario del Partito socialista e suo avvocato – ma fin troppo coinvolto di persona nei segreti del suo cliente e, quindi, pure connotato ferinamente come «una piccola lonza / con la zampetta presa nella trappola» –, osserverà: «visto che ci credeva lui / ci hanno creduto i giudici. / La giustizia del mondo è una dote d’attori: / bisogna meritarseli gli applausi». Nonostante JeanPaul abbia così recitato la sua «parte» impeccabilmente, a un certo punto, però, ogni «scherzo» deve finire; soprattutto «il suo alto personaggio lo aspettava / con pazienza, fedele: / il suo cane, la sua persecuzione». Il fulcro del dramma sta qui: l’apparenza incorpora l’essere perché è più di una falsità dell’uomo, qualcosa che tende a divenire una verità che accieca. Dirà Jean-Paul: «Ti affanni a costruire la tua immagine, / finché lei vive al tuo posto, / e sei tu, col tuo sangue, la tua ansia / a sostenerla oltre l’insostenibile, / scordandoti chi sei, / dimenticandoti di essere tu. / Così sono vissuto. / L’ansia di conformismo, / e questo disperato desiderio / di piacere a tutti, essere di tutti, / appartenere a tutti... / Sono stato lo schiavo di chiunque. / [...] Eppure io non ero / lì dove tutti credono. / Ero più giù, più in fondo, / sperduto nel frastuono. / Ora tutto questo non basta più. / [...] Che cosa voglio, io? / Che cosa voglio, adesso? / Non può morire chi / non ha risposta a questa sua domanda. / Ho vissuto troppo senza sapere. / Vi prego, vi scongiuro: / non fatemi morire». Il plot nei drammi di Sinisi – sappiamo – non è movimentato; i copioni tendono a svilupparsi per concentrati confronti, se non per duologhi. Così, Jean-
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Introduzione
Paul, riottoso, incontra la moglie – pure lei «povera piccola volpe» sconvolta – che tuttavia gli è sempre stata vicina, senza rimproverargli nulla, anche perché «chi nasconde qualcosa ha sempre torto»: «Il Frédéric che ho amato / risale il tempo, e invece di scontrarsi / con questo Frédéric che ha violentato / se ne completa, rende ancor più viva / la sua immagine in me. / [...] E quanto è intollerabile / questa capacità d’amare ancora, / sempre, ancora, anzi con tanta più forza / quanto cresce il bisogno / e diventa imminente / il pericolo di non essere più / quel che si deve. Sì, anche questo è l’uomo. / Pietà dell’uomo, occorre, ma non di lui / soltanto, ma di me, di noi, di tutti». Nella prigione, si ricompone, almeno nella memoria, il quadro familiare, nel quale appare fugace anche la bellissima figlia Camilla, per la quale il padre dev’essere sempre stato un mistero, tanto più che – nelle varie forme dell’amore – si resta ineluttabilmente sconosciuti l’uno all’altro: «Quando si ama qualcuno» – considererà Labiche – «arriva sempre / il giorno in cui guardandolo ti chiedi: / chi ho conosciuto in tutti questi anni? / Di chi sono stato amico, chi ho amato? / Chi era quella persona che toccavo? / Ma Frédéric non è mai stato, in fondo, / normale: ha sempre rincorso la norma / con l’ansia che ha solo chi odia la norma». Gli uomini di questo dramma, a diversi livelli, si rivelano dostoevskiane creature del sottosuolo, messe sotto una lente d’ingrandimento, e afferma ancora Labiche: «anche di noi non rimarrebbe niente – / scopriremmo di essere fatti male, / che siamo deboli / lì dove il cuore è tenero / e senza protezione; / scopriremmo anche noi / che non siamo innocenti». Se Barbara acquisisce la desolata certezza che gli uomini che l’attorniano sono «tutti uguali» nella loro inconsistenza, Labiche deve stare addosso a JeanPaul perché, in qualche cassetta di sicurezza, nasconde dossier compromettenti anche per la sua persona. Coerente con la metaforizzazione ferina, la seconda parte del dramma esibisce una lotta per la sopravvivenza di tutti i personaggi e, se quella di Labiche è puramente darwiniana, Jean-Paul – come il Caligola di Camus – s’aggrappa, nonostante tutto, alla disperata dichiarazione di essere ancora vivo. Il protagonista, per sopravvivere, cerca così giustificazioni che sono un po’ autentiche e un po’ macchiate dalla disperazione: la sua violenza è stata un tentativo «di toccare qualche cosa: / la carne, il fuoco, la roccia, la vita. / Raramente si riesce. Non si vive, / però, senza tentare»; ma soprattutto: «Di quello che ho fatto la sola cosa / che io senta veramente mia è una strana / nostalgia di tornare all’innocenza, / un’innocenza che io non ricordo / e che anche tuttavia m’è stata data / non nel mio tempo, ma nella mia carne. / Innocenza e colpa sono parole / che toccano uno che anch’io sto cercando, / uno in cui possa dire “io”, e riconoscermi / come quello che manca a ogni mio gesto. / Io benedico il buio / di questa mia violenza!». La seconda parte del copione correrebbe il rischio di rasentare a tratti il me-
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lodramma, se non fosse immancabilmente sorretta dalla nitida poesia che dà un corposo rilievo ai personaggi. Nel finale del dramma, infatti, l’intreccio si fa più poliziesco e Labiche briga e preme sempre più per ottenere il silenzio di JeanPaul e la chiave di una cassetta di sicurezza svizzera, nella quale giacciono le prove di un patto di complicità, che i due avevano imbastito, sul «commissariamento dell’Europa: / la vendita del debito ai cinesi / su una prospettiva di quattro anni». Sullo sfondo di questa apocalisse economica, lo “scambio” scellerato, che avrebbe permesso a Jean-Paul di correre per la presidenza della Repubblica francese, ma, con la sua carcerazione, gli accordi sono saltati e i temibili intrighi rischiano di venire a galla. Labiche, ancora sulla pista della politica, è ossessionato da questo passato come dal futuro («Desidero giorni senza passato, / giorni di puro presente, per sempre») e – invocando quella che è poi la percezione immediata del tempo degli animali – continua ad agitarsi nella sua ansia senza etica. Di contro, JeanPaul sembra estraniarsi progressivamente da certe logiche: «darei tutti i miei anni vuoti / e anche quelli a venire, pur di vivere, / di vivere anche solo per una volta / quell’abbraccio che non conosco». Jean-Paul affonda così sempre di più in una personale dimensione purgatoriale: «Continuo ad aspettarmi / che ad un punto qualsiasi della frana / qualcosa cambierà / e ne uscirò diverso... / anche se non so come». Il finale – che comincia a stringersi dalla notizia che la cameriera vittima della violenza si è suicidata – è forse un po’ costipato nella sua concitazione vagamente elisabettiana. L’intrigante Labiche «crolla, probabilmente morto», sparato da Barbara, che non intende più essere ostaggio degli intrighi del marito e del suo socio. Quindi, l’esecuzione di Jean-Paul, da parte dei due carcerieri – che trapassano da zanni ad angeli sterminatori – giunge inevitabile e rituale, ma, a suo modo, postuma: una sentenza capitale eseguita su un morto. Prima di dileguare dalla scena e dall’esistenza, Jean-Paul considera: «Fino a quando sapremo / riuscire a vivere senza capire? / Oh, che venga, che venga / la luce che aspetto, / anche una volta sola: / venga a prendersi il posto che le spetta. / Questo sì è veramente l’inizio!». Quindi, attorno alla crosta della vita, preme l’urgenza di questa luce metafisica, che stenta e lotta per trovare un varco, e a Donald è conferita l’ultima parola, un commento, venato d’un riflesso di passione: «tutto è compiuto». Nonostante la conclamata letterarietà, questo copione consistente e affascinante nasce da una sinergia con il lavoro di scena. Nella testimonianza menzionata (cfr. supra, nota 6), Sinisi precisa: Molti aspetti del testo sono venuti alla luce durante le prove per lo spettacolo. Delle circostanze particolarmente fortunate hanno voluto che questo testo nascesse in una dimensione già “comunitaria”, collettiva, com’è del resto la natura del lavoro teatrale.
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Mi sono formato all’interno del Teatro Laboratorio della Toscana diretto da Federico Tiezzi, insieme ad altri giovani professionisti, ed è lì – durante le prove del Woyzeck di Georg Büchner, che com’era ovvio mi ha influenzato moltissimo – che il testo ha visto le sue prime mosse. Insieme a Federico Tiezzi abbiamo cominciato a lavorare sul testo, sul suo sviluppo.
Lo spettacolo poi realizzato da questo regista estroso e rigoroso era peculiare e vivido per il cromatismo scenografico fortemente chiaroscurale nel contrasto, talora pressoché filmico, fra i vividi fondali animati da grafici di borsa, perlacei o rosso sangue, e i costumi bianchi e grigi, ma soprattutto per i ritmi della narrazione scanditi su una sobria gestualità biomeccanica, che esaltava il potenziale ora straniante ora musicale dei versi recitati. Insomma, «una regia allo stesso tempo profonda e di rara misura» – come ha scritto Maria Grazia Gregori, nella citata recensione sull’«Unità» –, valorizzata da «una colonna sonora che [andava] da Schubert a Badalamenti a Kill Everything», mentre «Sandro Lombardi, vestito di bianco, dona[va] una profondità e una verità fortissime» al protagonista e a tutta la vicenda. 4. Per Natura morta con attori, si dichiara – in una nota d’autore – di aver voluto inscenare «un redde rationem veritativo tra un uomo e una donna che, in una sera della vita, scelgono di chiedere tutto e di dire tutto»; un’operazione possibile solo in teatro, mezzo che «estremizza le questioni, costringe alla ve-rità, non tollera la menzogna, pone di per sé un’urgenza di radicalità. [...] ho tentato» – scrive Sinisi – «la scommessa di una lingua di poesia per il teatro – un linguaggio che, proprio nel suo essere inusuale, possa portare attori e spettatori in quell’“oltranza delle cose” che solo il teatro può rappresentare». Dopo La grande passeggiata, anche in questo testo, immediatamente successi-vo, del 2013 – come ha osservato Maria Grazia Gregori –, vibra essenzialmente «una parola innamorata di se stessa, [che] è una sfida sia per gli interpreti [...] sia per il regista»8. Tale sfida salva il copione da un pirandellismo più rotondo, in agguato in vari passaggi di Natura morta9, ma essenzialmente disciolto in speCfr. «delTeatro.it» del 27 settembre 2016 (http://www.delteatro.it/2016/09/27/naturamorta-attori/). 9 «Sono stanco di recitare la mia parte. / Sono stanco di dover essere qualcosa. / Ma qualcosa dovrò pur essere / io incapace / di riconoscermi in un gesto / naturale, qualcosa in cui possa / dire “io”. Perciò prima di compiere / qualsiasi cosa, spettatori e spettatrici, / fosse anche il più semplice / e il più insignificante / dei gesti avverto che dovrò sempre / aspettare un momento, / un attimo che forse dall’esterno / apparirà impercettibile. / Nessuno forse se ne accorgerà. Un tempo breve ma / col tempo sempre meno breve, / più o meno lungo ma / sempre meno lungo – / fino a quando arriva lui / provvidenziale e terribile: / il mio personaggio, / il personaggio di me. / Di me non resta che / qualcosa come un sogno: / il terrore del linguaggio, / la rabbia della poesia, / la furia delle nuvole, / la febbre della luce – / i frulli d’ali nere del mio sgomento». Quest’esposizione più schiet8
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a Sandro
Prima rappresentazione: Bari, Teatro Royal, 12 dicembre 2012. Regia di Federico Tiezzi, luci di Gianni Pollini, costumi di Antonietta Lucarelli. Con Sandro Lombardi (Jean-Paul), Marco Brinzi (Frank), Andrea Luini (Donald), Rosa Sarti (Barbara), Nicolò Todeschini (Labiche). Produzione Teatro Laboratorio della Toscana in collaborazione con il Comune di Bari.
Personaggi Donald, il capo-carceriere. Frank, il secondo carceriere. FrĂŠdĂŠric Jean-Paul, direttore del Fondo Monetario Internazionale. Barbara, sua moglie. Marcel Labiche, segretario del Partito socialista francese e avvocato di Jean-Paul.
Scena prima Donald e Frank. Donald
Sono già dodici ore che quell’uomo non è più un uomo.
Frank
È carne da giornale, selvaggina per i titoli di questa mattina. Il suo nome già crocchia nei gargarozzi delle casalinghe così che, già chiamandolo, nel suono vibri tutto il suo male.
Donald
A ognuno la sua pena: anche lui si è goduto la grande passeggiata sul tappeto rosso, illuminato dai flash. È così, caro Frank: quando la gloria non sa essere fedele, la sciagura, invece, lo è sempre, come un cane affamato s’attacca al suo benefattore. E anche l’ora di Frédéric Jean-Paul finalmente è venuta.
Frank
È uscito a testa alta dal commissariato, e subito tutti addosso per cavargli via la prima espressione prima che lui iniziasse
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a recitare la sua parte. Ma Jean-Paul ha saputo stupirci anche stavolta: è uscito così, come niente fosse, come pensando ad altro, con la naturalezza e lo sconforto di chi s’appresta ad affrontare una dura giornata, ed è già stanco prima di cominciare. Donald
Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli il loro nido ma Frédéric Jean-Paul non ha una pietra dove poter posare il capo.
Frank
Più che altro io non ho visto che una grande, sconfinata tristezza. Descriverla è impossibile.
Donald
Il presidente è stato un grande attore. La vita, lui, non l’ha mai conosciuta. Quando scoppiò lo scandalo Balthus forse te lo ricordi: le macchine pagate dallo Stato, i finanziamenti illeciti – si salvò solo lui, perché sapeva come si sta in scena. La Balthus era piena di debiti e le sue quotazioni sui mercati erano in doppia cifra perché continuava a indebitarsi: era il Ministero a passare i fondi, di nascosto, perché non chiudesse.
Frank
Come li hanno scoperti?
Donald
Qualcuno di Balthus fece una soffiata alla polizia e segnalò l’arrivo del furgone portavalori. Nello stesso giorno ai quotidiani furono spediti alcuni incartamenti
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con i trasferimenti di denaro dal Fondo di previdenza sociale su contocorrenti bancari fasulli mediante agenzie off-shore del Sudamerica. Si aprì una maxi-inchiesta e presto la Balthus dovette chiudere. Il ministro fu costretto a dimettersi. Un mucchio di gente finì in galera. Qualcuno si ammazzò per la vergogna. Frank
Di che cosa si stupivano, tutti? Di cosa si indignavano. Avrebbero dovuto essere grati a Jean-Paul: le Balthus erano belle – costavano poco. Non avrebbero dovuto arrestarli.
Donald
Jean-Paul non fu arrestato. Disse che non sapeva che il suo vice era un ladro; e tutti gli hanno creduto. Disse che i suoi rapporti col Ministro erano “esclusivamente formali”: tutti gli hanno creduto. Disse che non sapeva delle entrate clandestine in contanti, delle peripezie dei suoi azionisti, dei tassi d’interesse, dei falsi in bilancio. E dal primo all’ultimo tutti gli hanno creduto quasi malgrado sé, finivano col credergli. Non avrebbero creduto a nessuno, avrebbero odiato chiunque, ma Jean-Paul invece no. Jean-Paul, lui, fu prosciolto. Perché era un grande attore. Ricordo le immagini del processo: aveva la faccia dell’uomo giusto, quello che retto procede, e non siede al consiglio degli empi. Ma adesso è come tutti.
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La grande passeggiata
È caduto, ormai, caduto per sempre. Può sognarsele, adesso, le primarie del Partito Socialista Francese! Voleva candidarsi a giugno, il nostro amico Frédéric – e tutti, a Parigi, dalle banlieues ai bookmakers, lo davano vincente. Invece, invece, invece. Frank
Per questo dico: come, come ti salta in mente con tutto quel denaro, quel potere di violentare quella cameriera, di violentare, dico, cadere in tentazione come tutti – quando sei il presidente: hai tutto, tutto quello che un uomo possa mai desiderare; e quello che non hai non l’hai perché ancora non l’hai voluto mentre tutto ciò che vuoi tu puoi averlo in qualsiasi momento...
Donald
lo zittisce. Che cos’era, il telefono?
Frank
Che cosa? Era il telefono?
Donald
Sì, mi sembrava che fosse il telefono. Va’ a controllare, Frank. Frank va a controllare.
Frank
No. Falso allarme. Non era il telefono. Pausa. Il giornale sostiene che il tutto si sia svolto fra il tappeto ed il letto in poco meno di trenta minuti.
Donald
Mezz’ora d’abbandono nella vita di un uomo può compiere miracoli. Pausa. Stavolta era il telefono.
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La grande passeggiata
Frank
No, non era il telefono. Pausa. Pare che lei sia stata ferma, immobile, le mani lungo i fianchi.
Donald
Brutta, brutta tra l’altro... La cameriera. Brutta come un delitto, brutta da far paura. Non era bella neanche da ragazza: se non sei bella allora, quando sei in fiore, quando sei promessa, non lo sarai mai più.
Frank
E le gambe!
Donald
Due gambe da vacca: una mucca, sembra, e di quelle d’allevamento, che nascono e crescono in due metri per due di metafisica buoni appena per mangiare e muggire, e ascoltare ogni tanto il proprio puzzo. Squilla il telefono. Stavolta, sì, è il telefono! Frank, va’ a rispondere! Anzi, vado io. Va al telefono. Pronto? Sì. Riattacca. Frank, va’ a prendere il presidente. Portalo qui. Frank esce. Andiamo avanti anche per questa notte sperando che succeda qualche cosa di nuovo.
Scena seconda Donald, Frank, Jean-Paul.
Ed ecco... il presidente! Speriamo che si trovi bene nel breve tempo che dovrà restare qui.
Postfazione Il pensiero feroce. Appunti su una drammaturgia in versi di Federico Tiezzi
Nella primavera del 2012 ho letto La grande passeggiata. Il dramma è ispirato a un fatto di cronaca avvenuto in un albergo di New York e che aveva visto protagonisti Dominique Strauss-Khan e una cameriera afroamericana. Il fattaccio aveva attirato anche la mia attenzione di lettore di giornali. E su «Time», durante una lunghissima attesa all’aereoporto di Mumbai, mi ero appassionato alla minuziosa ricostruzione che un giornalista aveva fatto dell’accaduto, riportando anche le differenti versioni dei due attori della “scena”. Perché di teatro si trattava. Mi venne in mente Pirandello, naturalmente. Le due versioni erano in contrasto evidente. I personaggi erano ben delineati: il potente di Francia, in procinto di cadere, e la serva sfruttata e resa oggetto sessuale. Ma stavano davvero così le cose? Anche il giornalista di «Time» avanzava parecchie riserve. E l’articolo lasciava al lettore la decisione su chi dei due avversari avesse ragione, a chi avremmo dovuto credere. E su tutto dominava la parola di uno dei potenti di Francia. Il testo teatrale di Fabrizio Sinisi, che stavo leggendo, riportava trasfigurati i fatti essenziali di quell’accaduto. E li rilanciava nei termini mitologici del rapporto uomo-donna, anzi maschio-femmina, tema caro all’autore, che dopo qualche anno lo discuterà in una raccolta poetica dal titolo Contrasto dell’uomo e della donna. Sinisi aveva colto gli elementi teatrali della vicenda raccontata dalle televisioni e dai giornali. Ma essendo il teatro il luogo dell’analisi e non della cronaca aveva rigettato le possibilità documentaristiche che il fatto gli offriva, per scegliere invece quelle della “letteratura”. L’impressione fu quella che si trattasse di un testo “di getto”, di un’accensione della fantasia riguardo a un caso che assommava in sé sesso e politica, storia presente e mito. Ma la scrittura, si capiva, non era stata fatta di getto. La grande passeggiata è in endecasillabi e settenari. Una scrittura che ricorda quella del Pasolini drammaturgo. Non selettiva, sovrabbondante, estenuante, generosa e sincera. E a fuoco. Teatralmente il dramma, che sposta la cronaca sul racconto della crisi di coscienza di un uomo, ha una struttura ferrea, molto classica: recupera, nientemeno, le tre unità raciniane di tempo, luogo e azione. La vicenda si sviluppa per scene dove l’accensione poetica della lingua, la verseggiatura strin-
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gente, la scelta del vocabolario erodono il dramma, lo evaporano, lo mimetizzano. Allontanano la possibilità di “drammatizzazione” della cronaca, del farne “commedia”. Spingono il dramma in un piano secondo, quasi in un punto di fuga. Mentre i cinque personaggi dipanano un plot da hard boiled school contemporanea, con tentazioni alla Ellroy insomma, ecco, quei cinque personaggi hanno impennate liriche improvvise: una strada al mattino, la fisicità di uno sguardo di ragazza, un ricordo dovuto a una intermittenza del cuore. L’io che narra scompare e subentra l’immagine evocata dalla poesia, l’azzardo metaforico, lo straniamento dello sguardo che si posa sulla realtà. È un procedimento drammatico inusuale, il lettore si perde e poi si ritrova, sì, ma dopo un excursus durante il quale il dramma si è aperto a ulteriori orizzonti (il brivido lirico, il ritmo metrico, l’immagine strappata ai regesti urbani). Si parla del fattaccio dell’Hotel Sofitel di New York, dei possibili intrighi economico-politici che vi stanno dietro, della caduta di un uomo potente, e insieme si divaga, si commenta, ci si perde nella riflessione e nella memoria. Il legame con l’attualità è forte, evidente: non conosco un testo italiano che, ispirato da un fatto di cronaca attuale, sia reso stilisticamente attraverso la poesia. Ci sono autori di teatro civile ma nessuno, a parte il Pasolini di Bestia da stile o del poemetto (drammatico) Una disperata vitalità, mi sembra abbia fatto poesia raccontando il rumore della cronaca, il suono livido della livida palus del reale. Fin dalla prima lettura, avvenuta nel mio studio di Tizzano in Chianti (avevo davanti le tre colline: quella materna di Sezzate, quella a forma di cetaceo gigante, di balena gigantesca, di Meleto, e quella più distante di Castel Ruggero) ho intravisto la novità e l’inaspettata materia della cronaca farsi ritmo e tessitura di poesia. Procedevo attraverso una scrittura ben modellata nella sillabazione, nelle immagini figurate che si riallacciano alla poesia due-trecentesca italiana, nel rientro dei tempi e delle citazioni. Procedevo dentro un fatto di cronaca che non si faceva documento ma spazio analitico. Procedevo in questo spazio dove la poesia (come linguaggio) corre limitrofa al teatro (come linguaggio): i due linguaggi si specchiano, si rincorrono, si sfidano. L’attore come il regista sono frastornati da questa lotta celeste. La stessa che in altri tempi legò e separò Giacobbe e l’Angelo. Questo modo di scrivere utilizzando il verso – e, come nella Grande passeggiata, un verso metrico – non è una questione formale: è un linguaggio che di per sé fornisce un distacco, uno spazio critico. Il verso conferisce al fatto di cronaca narrato una distanza, raffredda la vicenda. È uno spazio di cui può godere il regista, perché fornisce una tastiera molto più ampia di azione rappresentativa; di cui gode l’attore, perché può scegliere dove e quando e in che misura posizionarsi dentro questo spazio; e di cui gode lo spettatore che incontra un tipo di testualità non impressionistica. È una lingua che si sfrena nella temperatura della poesia e si ricompone nella comunicazione drammatica attraverso un oltranzistico desiderio di controllo dato dalla scansione metrica. Ne deriva una testualità dalle modalità spericolate che la poesia non ingentilisce ma – per paradosso –
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rende più tagliente e agonistica, più razionale. Pronta alla vivisezione che ne farà il regista. Cercai di rintracciare, in quella mia prima lettura, la genealogia di questa scrittura: vi appariva l’Eliot di Cocktail party e il Lorca di Bodas de sangre; il Peter Weiss di Hölderlin e della Cantata come ponte di raccordo per Brecht. Il Luzi di Rosales e la tensione delle sceneggiature di Fabbri per Antonioni. E Pasolini drammaturgo, Pasolini poeta, Pasolini eretico. È un linguaggio drammatico che la drammaturgia italiana ha percorso poco – un esempio recente di scrittura teatrale in versi è Lehman Trilogy di Stefano Massini, un’epica umana, religiosa e finanziaria appunto impossibile da restituire in una dimensione naturalistica. È questa scrittura – che, proprio per la sua natura spregiudicata e “irrealistica”, offre e anzi prevede la possibilità di parlare di tutto – a interessarmi nel lavoro teatrale di Fabrizio Sinisi. Lo si vede nei testi che ha scritto finora: si corre da una vicenda di cronaca (come nella Grande passeggiata) a una variazione sentimentale sull’omicidio Pasolini (Natura morta con attori) fino a una riscrittura postmoderna di un classico tragico (Agamennone). In un’intervista a Leonardo Mello in occasione della mia regia della Grande passeggiata parlavo di Sinisi come di un giovane autore dal «pensiero feroce». È un suo istintivo pensare alla drammaturgia teatrale come un luogo di conflitto – sperimenta un tema scatenando una furia di immagini, facendo venire a reazione i temi e le figure più diverse, le più estreme. Certo: la sintassi drammaturgica ordinaria ne risulta stravolta: il plot è a volte confuso e poco chiaro, i nessi sembrano non seguire una logica visibile – da un discorso economico si passa alla descrizione di un’alba, da un intermezzo lirico a uno squarcio di black comedy, da una scena di estrema violenza a una severa riscrittura di Villon. Ciò che permette tutto questo è un lavoro di scatenamento linguistico e tematico che a volte travolge lo scopo prettamente “teatrale” – ed è proprio ciò che rende questi testi così interessanti. Il programma di Sinisi, finora coerente e quasi ossessivamente sistematico, è ambizioso: far convergere sulla scena la poesia, la narrativa, il saggio critico, la dissertazione, l’oratoria, la sequenza musicale, l’ekfrasis, il poema, il ritaglio di giornale, l’happening, il gesto performativo – insegue insomma quel sogno, delirante, di teatro della totalità linguistica che era il miraggio dei tentativi neosperimentali degli anni Settanta e Ottanta. Un tentativo folle e, si capisce, sempre incompiuto. Se infatti esiste in Sinisi un «tragico del contemporaneo», consiste credo – anche formalmente – in un furioso «non essere mai quel che si deve». Sinisi è fra i pochi drammaturghi a stabilire come premessa, come scrive Bernhard, che «un attore porta una corona sul capo / ma non è un Re»: mette in scena dei personaggi che in qualche modo sanno sempre di essere attori. Sono coinvolti nel dramma di un linguaggio che mai li vuole “naturali”, ma sempre in una mediazione stilistica in cui l’attore è più che mai chiamato a non «essere» personaggio, ma ad «attuarlo». È forse soprattutto in questo – nel cercare di accendere una lotta a tutti i livelli dell’operazione teatrale – la ferocia del suo pensiero e la più profonda specificità della sua scrittura.