I grandi del Lavoro sociale - Paulo Freire

Page 1

12

I grandi del Lavoro sociale agosto 2018

PRATICHE DI RIVOLUZIONE QUOTIDIANA L’etica di Paulo Freire nel lavoro sociale


I grandi del Lavoro sociale

di Paolo Gomarasca Università Cattolica di Milano

«L’operatore sociale svela e rende esplicito una specie di sogno a proposito dei legami sociali, un sogno che è politico» (cit. in Moch, 2009, p. 94). È il 1988, Paulo Freire si trova in Svezia. Sta parlando come plenary speaker alla conferenza dell’International Federation of Social Workers. Fin da subito è chiaro che il nesso tra la sua impresa educativa e il lavoro sociale non è una banale affinità elettiva, bensì una coimplicazione metodologica inevitabile. A patto di non ridurre la pratica e le azioni di chi opera nel sociale a una questione di mera expertise tecnica. Freire su questo non fa nessuno sconto: l’operatore sociale è un agente progressista; se per caso volesse mantenersi neutrale, semplicemente non sarebbe un operatore sociale, ma appunto un tecnico o, peggio, un burocrate. Tocca dunque fare la rivoluzione, un passo alla volta, atto dopo atto. Con quella «pazienza impaziente» che sa leggere criticamente quali margini di manovra reali ci sono: senza sopportare tutto, come fa il reazionario, perché tanto alla fine verrà il magico happy end della storia, quando tutti gli esclusi avranno accesso

al loro benessere da supermercato; ma evitando al contempo la sterile fretta di cancellare in un batter d’occhio le ingiustizie del capitalismo, come vuole il mediocre idealista, troppo narciso per capire che il sogno politico di cui Freire sta parlando non è l’utopia di un mondo redento dalle magnifiche sorti e progressive della lotta di classe. Basta leggere le ultime

parole del suo libro più famoso, La pedagogia degli oppressi (1968), per capire che la posta in gioco è proprio un’altra: «Se nulla resterà di queste pagine, speriamo che resti almeno la fiducia nel popolo. La nostra fede negli uomini e nella creazione di un mondo dove sia meno difficile amare».

13


14

agosto 2018

Paulo Freire è noto per il suo contributo a una pedagogia dialogica e antioppressiva. Ma la sua metodologia si rivela proficua anche nel lavoro sociale. Un’etica ribelle per un «sociale» davvero rivolto agli oppressi. Al loro fianco. UN SOGNO POLITICO Un mondo dove sia meno difficile amare. Non si creda ingenuamente che la cosa sia a buon mercato. A Freire, nel Brasile del 1964, questo suo modesto progetto creativo è costato il carcere, la tortura e infine l’esilio in Cile. Ma nulla è valso a fermare la sua immaginazione etica, la forza politica con cui quotidianamente ha fatto le sue mosse, ben sapendo che, il più delle volte, c’era spazio solo per delle micro-tattiche di resistenza all’oppressione. Esattamente come quando Basaglia, in un giorno di fine estate del 1961, entra per la prima volta nell’ospedale psichiatrico di Gorizia e vede un campo di concentramento, scientificamente organizzato per «disumanizzare» — il termine, come noto, è di Freire, ma si applica perfettamente anche al sogno basagliano — la relazione medico-paziente. La sua prima mossa? Restituire ai «matti» un comodino, un piccolo posto per conservare le proprie piccole cose, i brandelli di un’identità ferocemente sequestrata all’ingresso in ma-

nicomio (Pivetta, 2014). È così che si fa rivoluzione. Vale dunque la pena di vedere da vicino come Freire si muove, tanto per cominciare a capire che cosa concretamente implica la scommessa di sognare il suo stesso sogno politico.

RESISTERE ALL’EGEMONIA «Scusi, noi dovremmo stare zitti e lei parlare. Lei sa. Noi non sappiamo» (Freire, 1968).

FREIRE ILLUSTRATO Continua anche in questo numero l’interpretazione da parte dell’illustratore Lucio Schiavon di alcuni grandi pensatore del lavoro sociale: in questo caso Paulo Freire.

Senza una pratica di lavoro sociale educativopedagogica, l’oppresso passerebbe tragicamente da una forma di oppressione all’altra


I grandi del Lavoro sociale

15


16

agosto 2018

PAULO FREIRE Nato a Recife (Brasile) nel 1921, mentre frequenta la facoltà di Legge studia anche filosofia e psicologia del linguaggio, iniziando presto a lavorare come docente in una scuola secondaria. Abbandonata la professione forense, si dedica ai temi dell’educazione popolare e della ricerca pedagogica. Critico nei confronti dell’educazione depositaria, in cui lo studente viene visto come un vuoto da riempire attraverso le conoscenze dell’insegnante, si propone anche di scardinare la dicotomia docente-studente. Quello che Freire suggerisce, al contrario, è una profonda reciprocità, in cui l’insegnante impara e lo studente insegna. La sua pedagogia dell’emancipazione si fonda così su un metodo dialogico e problematizzante, e intende promuovere fra le masse dei più poveri un’alfabetizzazione come presa di coscienza politica e avvio di un processo di liberazione personale e collettivo. Si costruisce così un percorso di apprendimento basato sul dialogo, inteso come strumento conoscitivo reciproco. Freire matura queste idee durante la sua esperienza in Pernambuco, Stato del Brasile che all’epoca contava 15 milioni di analfabeti (su una popolazione di 25 milioni). Qui, nominato direttore del Centro di Educazione e di Cultura del Servizio Sociale, fonda nel 1961 il Movimento di cultura popolare e ha la possibilità di applicare in modo diffuso le sue teorie: in soli 45 giorni riuscirà ad alfabetizzare 300 tagliatori di canna da zucchero, dando inizio a una vera e propria rivoluzione culturale delle classi più oppresse ed emarginate, soprattutto dei contadini. In seguito al colpo di Stato in Brasile nel 1964, fu dapprima imprigionato e poi costretto all’esilio in Cile. Dopo anni passati in Inghilterra e in Svizzera, poté rientrare in Brasile solo nel 1980. È morto a San Paolo nel 1997.

È la voce di un contadino. Sta parlando con Freire della sua condizione, ma all’improvviso si blocca e torna a fare l’unica cosa che sa fare da una vita, il contadino sottomesso al padrone. Qui si capisce bene che non basta dare o ridare la parola. Cosa sacrosanta, ovvio, ma Freire conosce bene Gramsci, quindi sa che gli oppressi si vedono ormai con gli occhi dell’oppressore. Così, quando finalmente hanno l’occasione di parlare, non parlano mai

veramente, essendo inconsapevolmente già «parlati» dall’Altro oppressore, che fissa la sintassi del «loro» discorso: noi non sappiamo, Lei sa. Anzi, a dirla tutta c’è da mettere in conto persino un’alienazione muscolare, come ci ricorda Augusto Boal, il geniale inventore del teatro Arena di San Paolo, un dispositivo teatrale che mette in scena letteralmente la pedagogia freiriana. Perché anche il corpo degli oppressi non sa fare altro se non piegarsi docilmente

EDUCAZIONE CRUCIALE Secondo Freire non esiste altro modo di far fronte all’egemonia culturale, che entra fin nelle fibre muscolari, se non attraverso l’educazione.


I grandi del Lavoro sociale

alla volontà dell’oppressore, eseguendo gesti di sottomissione normalizzati, senza più bisogno di chissà quali apparati coercitivi. Tutti sono convinti che sia giusto così. Si chiama egemonia culturale. Gramsci la spiega in una celebre nota del Quaderno

19, al paragrafo 24, risalente al 1935. Funziona in modo semplice e tremendamente efficace, come una «direzione intellettuale e morale». È una specie di ingiunzione superegoica, mascherata dal consenso interiorizzato alla propria disumanizzazione. Quindi

che fare? Trattenersi dal comprensibile desiderio di offrire la libertà agli oppressi, di dare loro finalmente l’occasione di dire la propria. Ci sarà tempo per la presa della parola. Del resto, la libertà «è una conquista e non un’elargizione» (Freire, 1968). C’è invece un complesso

17


18

agosto 2018

e urgente lavoro preliminare di rettifica soggettiva da innescare o, per usare il termine freiriano, di «coscientizzazione», cioè di sviluppo critico di una presa di coscienza della propria condizione di subalternità. Solo così vedremo l’ombra dell’oppressore cominciare pian piano a dileguare dalla mente e dal corpo dell’oppresso, lasciando finalmente lo spazio a una prassi autentica, che «non è bla-bla-bla né un attivismo, ma azione e riflessione». Ecco dunque perché l’educazione è cruciale, perché non c’è altro modo di far fronte all’egemonia che entra fin nelle fibre muscolari. Ma ecco anche perché la pratica del lavoro sociale, per Freire, non può che essere «intrinsecamente e sostanzialmente educativo-pedagogica» (cit. in Moch, 2009, p. 93), altrimenti l’oppresso passerebbe tragicamente da una forma di oppressione all’altra: dalle grinfie del padrone sfruttatore alle mani generose del suo «salvatore», l’uno e l’altro incapaci — per motivi opposti — di fare attenzione a quelle piccole e preziose tracce di autonomia che solo una relazione educativa autentica può generare. E così siamo giunti alla questione del potere, e alla seconda, fondamentale micro-tattica freiriana di resistenza all’oppressione.

RESISTERE ALL’IDEOLOGIA I poveri vanno aiutati. Ci sono molti modi di giustificare questo imperativo etico. E in un mondo retto da un sistema che i poveri tendenzialmente li scarta come inutili scorie, se a qualcuno venisse la fantasia di

aiutarli sarebbe senz’altro già un segnale. Ma c’è un’ideologia dell’aiuto assai pericolosa e devastante: quella secondo cui i poveri, essendo deboli, vadano presi sulle spalle, perché da soli proprio non ce la fanno. Freire, su questo punto, è straordinariamente spaesante: fai attenzione, sembra suggerire a ogni operatore sociale, al «potere che nascerà dalla debolezza degli oppressi». Solo questo sarà autenticamente liberatore. Il resto, come già si è detto, non è altro che il gioco perverso e dissimulato dell’oppressione. Troviamo allora il modo di resistere alla buona intenzione di «far del bene». Ci aiuta in questa pratica rivoluzionaria Toni Negri (2016). La sua definizione di povertà è francamente freiriana: «La povertà è una riduzione alla nudità, ma, a partire da questa riduzione — e senza distinguersene — è una tensione di vita, un desiderio, una richiesta di conoscenza, un’apertura agli altri».

ETICA RIBELLE Miseria assoluta e forza. Questo è il povero. Ma questo è ciascuno di noi, a pensarci

bene. E infatti Freire non teme di parlare di convivenza con gli oppressi, «sapendosi uno di loro». E noi lo dobbiamo dire con tutto il rispetto per chi la miseria la soffre fino al sangue. Senza però limitarsi al rispetto per chi non ce la fa. Non basta davvero, non se vuoi un mondo meno ingiusto, dove amare sia un po’ meno complicato. Si tratta invece di offrire agli oppressi una lotta comune. Questo sì è fare l’operatore sociale freiriano, teso nella perenne ricerca dei modi creativi di mettere in scena quella che Freire chiama «comunione creatrice», cosa che per lui equivale alla realizzazione del suo sogno politico. Così si capisce bene che l’etica freiriana del social work è, oggi più che mai, un’etica ribelle, perché non tace di fronte alle infinite forme di svilimento dell’umano, ma sa combattere insieme a chi soffre, per la «restaurazione dell’inter-soggettività». Ognuno scelga dunque con cura le sue micro-tattiche di resistenza. La partita dei legami sociali è ancora aperta. Ma davvero non c’è più molto tempo.

Riferimenti bibliografici Freire P. (1968), La pedagogia degli oppressi, trad. it. di L. Bimbi, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2011. Gramsci A. (1977), Quaderno 19. Risorgimento italiano, Torino, Einaudi. Moch M. (2009), A critical understanding of social work by Paulo Freire, «Journal of Progressive Human Services», vol. 20, pp. 92-97. Negri T. (2016), Figure della povertà, intervista di F. Raparelli, 26 settembre 2016, https://operavivamagazine.org/figure-della-poverta. Pivetta O. (2014), Franco Basaglia. Il dottore dei matti, Milano, Baldini&Castoldi. Su questo tema, news, saggi e molti altri materiali su

www.lavorosociale.com


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.