Flavio Russo
Sebeto storia del controverso fiume di Napoli con prefazioni di
Ermanno Corsi e Maurizio Barracco
Edizioni ScientiďŹ che e Artistiche
i Luoghi e la Storia 7
Flavio Russo
Sebeto storia del controverso ďŹ ume di Napoli
EDIZIONI SCIENTIFICHE E ARTISTICHE
Copertina: Elaborazione grafica di un’antica stampa di Antonio Vetrano Progetto grafico ed impaginazione: Helix Media - www.helixmedia.it
La casa editrice ringrazia la libreria Ideal Book di Antonio Salvemini per il sostegno offerto nella realizzazione del presente volume. I diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, archiviata anche con mezzi informatici, o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico, con fotocopia, registrazione o altro, senza la preventiva autorizzazione dei detentori dei diritti.
ISBN 978-88-95430-41-6 E.S.A.
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Edizioni Scientifiche e Artistiche
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PREFAZIONE STORICA
Un fiume o un mito? Il sottotitolo che Flavio Russo dà al suo libro sul Sebeto, è molto indicativo: “Storia del controverso fiume di Napoli”. Spicca subito, come il più aderente alla trattazione, l’aggettivo “controverso”. Infatti c’è da chiedersi: ma il Sebeto appartiene più alla geografia o alla mitologia? Più allo sviluppo territoriale della fascia vesuviana o alla letteratura (da quella antica a quella moderna)? Bisogna riconoscere che l’approfondito studio che viene ora pubblicato, con l’argomentato ragionamento che accompagna le pagine, è un contributo di grande rilievo dato da Flavio Russo alla conoscenza di un “fiume” che, indipendentemente dalla classificazione che se ne può redigere, è ben presente nell’immaginario collettivo, fonte di ispirazione creativa nei vari settori artistici. Certo: se in idrologia -come precisa l’autore- il termine fiume “designa un corso d’acqua che non secca mai”, la storia del Sebeto potrebbe cominciare e finire subito. Infatti, oggi, il Sebeto è inutile cercarlo. “È sparito. Potrebbe scorrere sotto via Pessina, a Napoli, Sant’Anna dei Lombardi, via Medina e piazza Municipio dove sorse la prima struttura portuale della città”. Tuttavia, a dispetto di chi parla di un fiume o un ruscello morto, la sua esistenza sopravvive nella fantasia popolare. Nei giorni scorsi, durante una tempesta che sembrava quasi “perfetta”, abbattutasi sul Centro Direzionale napoletano che ne è rimasto quasi completamente allagato, in molti hanno pensato al sollevamento delle acque del Sebeto che scorrono nel sottosuolo. Il libro di Flavio Russo parte da lontano. La storia del Sebeto sembra quasi un intelligente pretesto per rivisitare la formazione della città di Napoli partendo, appunto, dalla leggenda di Partenope (“colei che ha voce di fanciulla”):
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SEBETO
Pompeo Sarnella che, agli albori dell’illuminismo, si rivolgeva al “piccolo ma famoso Sebeto”, aggiungendo “ricco di fama sei e povero d’onde”. La presenza del Sebeto continua ad essere viva nei due secoli successivi. In un resoconto borbonico si dice che è tanto scarso di acqua quanto ricco di fama. Giovanni Prati coinvolge il Sebeto nei fermenti risorgimentali e scrive: “Dai dolor che arrivano, là dei sebezi climi dalla man degli esuli che lacrimando strinsi, oggi quest’ira attinsi che mi parea pietà”. Con una diversa immagine gli fa eco Vittorio Imbriani: “Figurarsi questo indomito stallon cilentano, sbrigliato per li paschi e tra le giumente sebetie, quali gesta compisse”. Nel Novecento gli aggettivi “sebetico” e “sebezio” entrano ancor più nel lessico comune diventando sinonimi di appartenenza napoletana o partenopea. Ne offre testimonianza Ardengo Soffici quando rivela: “Per distrarci dal torpore incombente, l’amico Flora c’intrattiene con arguzie sebetiche e aneddoti letterari”. Amilcare Lauria, romanziere napoletano, usa invece lo pseudonimo “Sebetius” quando scrive l’opera letteraria “Sebetia”. Nell’arco dei secoli non sono mancate testimonianze più direttamente “visive”: a cominciare con gli scavi che furono compiuti al Mercato del Carmine; rivelarono l’esistenza di un’edicola dedicata al Sebeto. E oggi proprio al Mercato, quartiere napoletano fra i più popolosi, c’è “via del Sebeto” che congiunge il corso Arnaldo Lucci con via Marina. Ma nell’Ottocento c’era anche un teatrino dei pupi che portava il nome di questo fiume ormai consacrato come un mito. Altre testimonianze non sono mancate successivamente, come un Premio di Giornalismo nel secondo Novecento, dedicato ai temi dello sviluppo socio-economico. Negli anni a noi più vicini è rinata, come simbolo di risveglio culturale, l’Associazione “Sebetia-ter” che, appunto per la terza volta, riprende ad agire. La prima volta avvenne (1805) per volontà di Gioacchino Murat. Ora l’Associazione, che è anche un Centro Studi, fa capo all’artista-matematico Ezio Ghidini Citro. Pubblica anche dal 1988 il “Corriere del Sebeto” che si occupa di Scienza, Letteratura e Arte. I riconoscimenti alle personalità più prestigiose che ogni anno vengono assegnati, hanno raggiunto le trenta edizioni.
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Prefazione storica
La voce “Sebeto” continua ad esercitare una propria magia. Perché ancora fonte o pretesto per tanta ispirazione? Forse perché è una “voce” che viene da lontano, ha risonanze classiche ed elegiache che attraversano i tempi con un lirismo naturalistico non estraneo alla sensibilità collettiva. L’accorata e dolente constatazione di Flavio Russo (“conclusasi l’espansione edilizia, scomparsa l’industria, sarebbe lecito attendersi il riaffiorare delle limpide acque del fiumicello nei pressi del Ponte della Maddalena. Ed in effetti qualcosa vi scorre: un lercio rigagnolo infestato dai rifiuti!”), suona come un severo monito per chi ha responsabilità rilevanti nei campi dello sviluppo e del sapere. Tuttavia, nonostante le deplorevoli dimenticanze, quella del Sebeto continua ad essere una storia di grande, suggestiva attrazione. Ermanno Corsi Giornalista e scrittore
Napoli, Dicembre 2011
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PREFAZIONE TECNICA
P arlare del Sebeto, il leggendario fiume dell’antica Napoli, è quantomai utile oggi, per comprendere meglio i processi di sviluppo delle aree metropolitane, come quella napoletana. Un fiume dalle origini mitiche (anche nella denominazione, variamente e confusamente data, di Clanio o Rubeolo o Bolla o Veseri), alimentato da varie sorgenti del monte Somma, la principale delle quali localizzata presso l’attuale Somma Vesuviana in località Santa Maria del Pozzo, lungo una decina di chilometri, che scorreva con una lieve pendenza nella pianura esistente tra il Vesuvio e le colline flegree e che, attraversando il territorio della città, lungo le attuali vie Pessina, Sant’Anna dei Lombardi e Medina, giungeva al mare, per alcuni dove oggi si trova piazza Municipio, mentre per altri invece vi sfociava nella zona orientale presso il ponte della Maddalena. Questo è il mito, la leggenda metropolitana. Nella realtà, probabilmente, si trattava piuttosto di un modesto corso d’acqua, non perenne, per lo più con funzioni di fosso iemale, vale a dire di canale di scolo delle acque meteoriche, di cui peraltro abbondava un territorio dalla conformazione orografica, geologica e idrogeologica tipica, quale quello compreso tra la zona vesuviana e l’attuale area partenopea-flegrea. Forse è questo uno dei motivi per cui né il Boccaccio né il Petrarca, pur essendo vissuti per svariati anni a Napoli, non ne parlano nei loro scritti letterari. D’altra parte, il Sebeto non si evince neanche sulle molteplici cartine di Napoli, che furono realizzate in largo numero nei secoli XVI, XVII e XVIII. Esso era presumibilmente uno dei canaloni d’impluvio che dalle colline scaricavano le acque meteoriche raccolte verso il mare, di certo quindi ca-
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ratterizzato da un regime torrentizio, con portate defluenti tanto maggiori quanto più intense risultavano le precipitazioni pluviali. Questa stessa modalità di funzionamento è oggi peculiare, ad esempio, dei grandi collettori fognari a uso “promiscuo” o “misto”, deputati al convogliamento combinato sia di acque nere (liquami civili) sia di acque bianche (piogge), largamente diffusi tra le infrastrutture fognarie urbane, con portate variabili da pochi litri al secondo a molti metri cubi al secondo. Oltre agli eventi che hanno contrassegnato la storia del Vesuvio, che nei secoli hanno trasformato strutturalmente con eventi catastrofici la rete idrografica alle pendici del vulcano, lo sviluppo della conurbazione napoletana (Parthenope � Palepoli � Neapolis) e le esigenze della popolazione crescente, e in termini numerici e per attività artigianali, commerciali e industriali, favorì un lento ma progressivo tombamento del Sebeto, a mano a mano che progrediva lo sviluppo antropico, ciò che finì per integrarlo probabilmente in parte assimilandolo e confondendolo con il sotterraneo acquedotto della Bolla o con quello del Carmignano e per ridurne la parte residuale in un rivolo maleodorante e stagnante. Pertanto, la storia enigmatica di questo mitico piccolo fiume, affascinante anche perché gli intrecci d’ipotesi – sia d’ispirazione umanistica che tecnica – sono quasi tutti verosimili e avvincenti, può rappresentare una vera e propria metafora dei nostri tempi, laddove lo sviluppo di un territorio non avviene in modo sostenibile, né tantomeno rispettoso dell’ambiente. Infatti, un fiume propriamente detto definisce lui stesso il paesaggio, praticamente lo impone, tendendo a un sinuoso tracciato di equilibrio. Di contro, il Sebeto fu stretto nella morsa della città, protesa ad accrescersi, per soddisfare le esigenze abitative e imprenditoriali della propria popolazione; al riguardo, esso ebbe una funzione motrice per i numerosi mulini ad acqua presenti nella città, al pari di altri canali defluenti in ambito urbano. Forse anche per una forma retorica di gratitudine gli fu dedicata la fontana monumentale omonima, progettata dal Fanzago, che può oggi ammirarsi a Napoli in largo Sermoneta. Abbiamo sempre più chiari e stridenti, ai nostri giorni, gli effetti nefasti che una gestione dissennata del territorio può produrre, in termini di dissesto idrogeologico, sovente con gravi costi umani e materiali. In tal senso,
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Prefazione tecnica
i danni provocati dalle alluvioni ne sono un triste esempio, crescendo anche in ragione dei mutamenti climatici, riconducibili tra l’altro all’inquinamento atmosferico prodotto dallo sviluppo tecnologico, quando non lungimirante e irrispettoso dell’ambiente. Ebbene, l’epopea del Sebeto è strettamente interconnessa sì all’azione del Vesuvio, che ha influito sulla specifica regimazione delle acque sottese, ma soprattutto alle modifiche del tessuto urbano che si sono avute nei millenni, da quando l’agglomerato originario, che solitamente nasceva sempre vicino a corsi d’acqua (come, per esempio, avvenne in Mesopotamia e in Egitto), beneficiava delle poche acque ruscellanti per sostenere i propri bisogni, al periodo successivo in cui necessitò di un più efficiente acquedotto sotterraneo da cui attingere le acque per le varie attività della propria comunità in crescita e via via più evoluta, fino ai giorni nostri che vedono ormai la conurbazione di Napoli definita e pressoché immodificabile. La controversa storia del Sebeto, quindi, può aiutarci a riflettere attentamente sullo sviluppo sostenibile dei centri urbani e delle aree metropolitane, fondato sulla memoria e sulla conoscenza dettagliata e documentata del territorio e delle sue infrastrutture materiali e immateriali. Tale modalità di sviluppo, l’unica a contemperare le molteplici esigenze delle comunità e il rispetto per l’ambiente, il paesaggio, il patrimonio culturale e le leggi vigenti, costituisce ormai la vera sfida, complessa, multidisciplinare e onerosa, che la città di Napoli e l’intera area metropolitana dovranno con coerenza affrontare e vincere, facendo leva sulle proprie energie ed eccellenze, per poter assicurare una realtà migliore alle future generazioni. Maurizio Barracco Presidente ARIN Azienda Risorse Idriche Napoli
Napoli, Dicembre 2011
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Ulisse e le sirene, in una stampa ottocentesca
PREMESSA
Più d’onor che d’acque altero
La vicenda del mitico fiume di Napoli, il Sebeto, pur vantando una pletora di menzioni letterarie e soprattutto artistiche non trova, però, in ambito storico ed idrogeologico una simmetrica rilevanza. Ne consegue una sostanziale divaricazione che finisce, come in ogni controversia, per generare opposti sostenitori. Per gli studiosi di estrazione umanistica il fiume sicuramente esistito, sebbene con un percorso non precisabile, fu sepolto dall’incuria, dall’avidità e forse dal Vesuvio, tant’è che nel sottosuolo di Napoli se ne scorge ancora il flusso idrico. Per quelli di matrice tecnica, invece, un fiume lambente la città, nella pienezza dell’accezione, non vi fu mai mancando in un ampio raggio sorgenti congrue ad alimentarlo e mancando pure le minime tracce che invece avrebbe necessariamente dovuto lasciare. Ad essere generosi forse fu un torrente, o un corso d’acqua a regime torrentizio: più che una favola, quindi, una esagerazione di narratori e poeti, complementare al mito della sirena Partenope che venne a morire presso la sua foce, conclusione che per varie ragioni sembra la più plausibile. Per evidenziarne la congruenza ci è parso sensato aprire delle ampie digressioni sugli ambiti inerenti storici e tecnici, avvicendatisi nel corso degli ultimi tre millenni.
Le acque correnti, naturali ed artificiali La vita, è risaputo, sul pianeta Terra dipende dalla presenza di acqua dolce, per cui laddove la prima ridonda è perché abbonda la seconda. Rigogliosità che può essere naturale, come nelle oasi o lungo le rive dei fiumi, o artificiale come nelle città, che non a caso vennero fondate preferibil-
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Greci sugli Etruschi nella battaglia di Cuma del 474 conobbe pure una sorta di filiazione con la fondazione di Neapolis, 470 a.C., ubicata a poca distanza su di un’altra altura costiera appena più bassa.6 Il sito prescelto, ovviamente per l’epoca, aveva già delle idoneità difensive alquanto vistose: dalla parte orientale, la meno impervia, una vasta palude mentre sui restanti lati dei profondi valloni, che convogliavano le acque defluenti dalle colline circostanti fino al mare, e dinanzi il mare. Facile integrare quelle propizie predisposizioni tattiche in una sistema difensivo efficace, tramite segmenti di mura, utilizzando quei canaloni ed i relativi corsi d’acqua, sia pure a regime fortemente torrentizio, come non irrilevante apporto idrico. Del resto oltre alle piogge in essi scaricavano pure alcune sorgenti limitrofe, per cui l’insieme ostentava una corrente senza dubbio misera ma pressoché perenne, che ben presto fece guadagnare loro il pomposo nome di fiumi. All’indomani della sua fondazione, con una superficie estesa ed una popolazione ridotta quale poteva essere il fabbisogno e l’approvvigionamento idrico della città? Certamente stando a Platone, Aristotele, Pausania e Procopio, per citare le principali fonti, una città greca era tale solo se disponeva di un acquedotto, o in alternativa di un discreto corso d’acqua limpido e abbondante. Ma a Napoli questa condizione che, giova sottolinearlo, doveva essere in pratica quasi contemporanea alla costruzione delle mura, non fosse altro che per ragioni tattiche, non sembra essere sussistita. Recenti valutazioni, infatti: “sulla falda acquifera nel perimetro della città di Napoli ci permettono di affermare che è possibile, tenendo conto delle ben diverse condizioni di permeabilità dei terreni allora esistenti e per le modeste dimensioni demografiche, che le risorse idriche interne fossero sufficienti ad alimentare i pozzi urbani. A tal proposito osserviamo che la città greca fu impiantata su un pianoro collinare declinante, con direzione NW-SE, dai 65 metri s.l.m. dell’acropoli ai 2012 del costone sul mare. Le linee isopiezometriche della falda acquifera cittadina vengono stimate, nel territorio interessato, variabili tra i 10 metri s.l.m. verso 6 - Cfr. M. NAPOLI, Topografia e archeologia, in Storia di Napoli, Napoli 1967, vol. I, pp. 391-98.
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Premessa - Più d’onor che d’acque altero
Nord ed i 2 metri verso la linea di costa, in prossimità della quale si ha notizia di affioramenti sorgentizi... La probabilità di scavare pozzi produttivi e non troppo profondi nell’ambito dell’area della città greca era dunque alta.”7 Da quanto appena citato appare evidente che la città antica non era servita da alcun acquedotto, bastando a soddisfare il suo fabbisogno idrico pozzi ed affioramenti costieri. Ma queste necessarie opportunità se sono senza dubbio sufficienti per gli usi alimentari non lo sono affatto per tutti gli altri che all’interno di un centro abitato, di qualsiasi epoca, devono essere espletati. Dalle attività industriali, per modeste che fossero quali la tessitura e la tinta dei panni, dalla concia delle pelli alla lavorazione dei metalli, dalla igiene personale a quella domestica, non era certamente attingendo acqua da pozzi più o meno profondi che si poteva sopperire a tali bisogni. Da qui la conclusione, più volte prospettata, che esistesse, magari in maniera rudimentale ed arcaica, una conduzione d’acqua da Bolla fin dentro l’abitato, e tramite una rete di cunicoli la distribuisse nei vari quartieri. Ma: “dispiace molto a chi scrive il non poter sicuramente riconoscere un’origine greca per l’acquedotto della Bolla... ma anzi di essere portato ad escluderla... Concorderemo intanto con R. Di Stefano, nel valutare che ‘nei primi tempi della vita urbana il piccolo nucleo di abitanti attingeva ai corsi d’acqua allora esistenti... ed alle sorgenti.”8 Del resto è interessane ricordare che fino alla costruzione del suo primo acquedotto nel 312 a.C. a Roma si beveva l’acqua del Tevere! Indispensabile perciò anche per Napoli, sia pure implicitamente in base a quanto detto, ipotizzare l’esistenza di uno o più corsi d’acqua, senza dubbio piccoli non perenni ma nel loro insieme sufficienti al fabbisogno elementare di una piccola comunità, trama idrica sconvolta non dal tempo ma dal Vesuvio! A confermare questa riduttiva ipotesi la molteplicità dei loro nomi pervenutici, Clanio, Rubeolo, Sebeto, formanti, se mai tali, una vesuviana Amsterdam! E non stupisce che constatando tanta molteplicità di nomi a fronte di tanta scarsità idrica, gli storici più razionali abbiano finito per supporre il sovrapporsi di più nomi al medesimo corso d’acqua, 7 - Da B. MICCIO, U. POTENZA, Gli acquedotti di Napoli, Napoli 1994, p. 14. 8 - Ibid., p. 15.
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Ipotesi urbanistica della Napoli greco-romana del Beloch
PARTE PRIMA
Tra fuoco ed acqua
1.1 Il fenomeno della colonizzazione nell’antichità Una delle ipotesi basilari sull’esistenza del fiume Sebeto insiste sull’adiacenza, se non proprio imprescindibile almeno di ragguardevole frequenza, di un fiume al sito d’impianto delle colonie greche all’atto della loro fondazione. Opzione che sembra essere stata sempre alle spalle del vasto fenomeno coloniale, soprattutto nella Magna Grecia e, in particolare, in Campania. Il perché appare ovvio, tanto più che un fiume agevolava i trasporti da e per il mare aperto, favorendo gli scambi ed i commerci. E le coste campane al riguardo sono ideali poiché: “offrono buoni approdi, talora ottimi, pur se distanziati fra loro e non distribuiti in maniera omogenea. La morfologia è varia, alternandosi pianure e tratti scoscesi: quasi sempre, fin dalle foci dei fiumi, si possono seguire con gli occhi i percorsi segnati dalle valli, tramiti tra l’interno e la costa, elementari ma insostituibili cammini commerciali. Nonostante il clima generalmente mite, l’altezza dei monti situati all’interno delle terre raccoglie le nevicate invernali, favorendo così il flusso regolare dei fiumi, e l’alimentazione perenne delle sorgenti. Regolarità di regime che l’estesa forestazione facilitava, in antico, ancor di più...”1 Ovvio, perciò, concludere che il vero fattor comune della colonizzazione greca fu la formazione di nuove città, sempre strettamente connesse con il mare e con la sua pratica, dimostrandosi in ciò antitetica a quella italica, squisitamente terrestre e appenninica. In tale ottica l’adiacenza di una foce 1 - Da P.G. GUZZO, Le città scomparse della Magna Grecia. Dagli insediamenti protostorici alla conquista romana: un viaggio affascinante in una terra antichissima, Roma 1982, p. 16.
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o di una sponda fluviale, a seconda se di piccola o discreta portata, si conferma ideale per soddisfare tutte le stringenti esigenze. Non a caso le maggiori colonie saranno poi proprio quelle munite di porti validi in ampi golfi nei quali sfociano corsi d’acqua limitrofi perenni: così Siracusa con l’Anapo, così Taranto con il Patemisco, così Poseidonia con il Sele per citare le principali. Per vagliare l’aderenza dell’ipotesi anche per Napoli col suo Sebeto, occorre però esaminare, sia pure per ampie sintesi, la colonizzazione della Magna Grecia, ed in particolare quella campana, ricavandone perciò dei fattori comuni applicabili alla vicenda in esame. Trascurando le fasi prodromiche relative a migrazioni avvenute nella seconda metà del secondo millennio, la colonizzazione proveniente dalla Grecia, nella pienezza del significato demografico, si avviò soltanto a partire dall’VIII secolo a.C., e non ebbe neppure agli inizi una estrinsecazione equiparabile alla emigrazione, antica o moderna, propriamente detta, pur anticipandone in maniera identica la ragione di fondo. Una colonia greca, infatti, costituiva una decisione dello Stato stesso e non già di singoli cittadini disperati: certamente tale decisione scaturiva dallo stimolo primario di alleggerire i gravami sociali, altrimenti insostenibili, ma non per questo abbandonava i coloni al loro destino, come invece sembra avvenire nelle migrazioni italiche. In pratica, la città madre organizzava la colonizzazione indicando non solo dove dirigersi, attraverso una particolare sentenza dell’oracolo di Delfo, in realtà di tipo meramente confermativo, ma riconosceva la pienezza di appartenenza dei membri in partenza ad una città derivata, con tutta la solennità del caso. La componente religiosa anche in questo caso serviva a sancire meglio la sacralità della decisione e la sua buona probabilità di successo, essendo affidata e posta sotto la protezione di Apollo, lo stesso peraltro preposto pure alle primavere sacre italiche: la ragione potrebbe insistere nell’apparente allegoria dello spostarsi del Sole. In definitiva al pari delle comunità italiche anche quelle greche antiche insistevano su equilibri demografici delicatissimi quanto rigidissimi, per cui le città dell’Ellade, già con l’avvento del I millennio a.C., a causa della crescente popolazione, iniziarono a tradire evidenti sintomi di carenze di risorse, innescando il fenomeno della colonizzazione. Ma se le primavere
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PARTE SECONDA
Tracce storiche
2.1 Un fiume o un mito? Per molti aspetti il Sebeto, da intendersi come fiume propriamente detto e non come semplice corso d’acqua a regime non perenne, o addirittura torrentizio, fu una creazione poetico-letteraria che ebbe nel corso degli ultimi due millenni reiterate proposizioni e rilanci, ciascuno dei quali traeva credibilità dai precedenti. Quello che un celebre detto napoletano riassume in tienimi che ti tengo! Nessuna conferma però, paradossalmente, scaturiva dalla diretta osservazione delle sue acque, dalle sue rive, dalla sua foce. L’intera vicenda ricorda, perciò, molto da vicino la natura di alcuni odierni miti popolari, definiti anche leggende metropolitane, dalla parvenza fondatissimi ma di cui nessuno sa precisare l’origine, e che a più approfondite indagini si rivelano del tutto inesistenti nella realtà o almeno estremamente modesti, per cui più che di vera mistificazione si deve parlare di esagerazione apologetica, o come già definita nella prima parte morfologica, tipica della retorica. Non a caso i maggiori esaltatori ed elogiatori elegiaci, dettaglio non trascurabile, non erano napoletani né di Napoli, né dai loro scritti traspare un qualsiasi diretto contatto, anche meramente ottico, col Sebeto: nonostante ciò, spesso gareggiano per accentuare le affermazioni dei predecessori! Per valutare in maniera analitica anche questo aspetto connesso con la vicenda del Sebeto diviene interessante proporre le principali menzioni letterarie, poetiche e storiche, che hanno per oggetto in qualche modo le sue acque a partire dall’età classica, fornendo dove necessario gli opportuni commenti. La carrellata prende l’avvio dalla menzione di Virgilio, (70-19 a.C.), nell’Eneide, menzione che in seguito progressivamente venne ingigantita
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In questa antica mappa il Sebeto scorre fra le due città, la cui posizione è però invertita
Parte Seconda - Tracce storiche
per un periodo di qualche mese, è talmente stringente da costituire un indubbio riscontro per l’individuazione. Assurdo supporre un’incessante via vai di militi e bestie tra il campo e una grossa fonte limitrofa. Ancora più assurdo immaginare carovane di portatori, o canalizzazioni fisse, facili entrambe da interrompere o da inquinare da parte del nemico. Un campo base, in conclusione, non può supporsi più lontano di un centinaio di metri da un corso d’acqua di discreta rilevanza, dovendo scorrere anche d’estate la stagione delle operazioni militari. Pertanto va evidenziato che il sito d’impianto di un castra non veniva individuato strada facendo, ma accortamente predeterminato dagli esploratori, tenendo conto sia del non dover eccedere la distanza di marcia quotidiana solita, sia della necessità di un assetto del terreno pianeggiante. Sebbene il campo romano canonico sia posteriore al 327 a.C., è indubbio che quei criteri siano la raccolta di esperienze anteriori, a partire dall’esigenza di un corso d’acqua. La prima incombenza, pertanto, consisteva: “nello scegliere molto accuratamente il sito. Questo compito incombe sugli ufficiali e sul ‘metator’, i quali devono obbedire agli stessi principi che se dovessero stabilire dei ‘castra aestiua’: essi cercano un luogo agevolmente difendibile, non minacciato da nessuno strapiombo; badano a che il terreno sia in pendenza per facilitare l’areazione, e l’evacuazione dei liquami... [e che abbia] acqua a sufficienza...”4 Quanto stringente fosse quella normativa lo si può dedurre osservando i resti degli accampamenti romani utilizzati per l’assedio di Masada, tutti molto ben conservati. Nonostante si trovino in una regione desertica, nella quale l’approvvigionamento idrico era necessariamente svolto da apposite carovane e senza rischi di attacchi non esistendo più in zona alcun nemico, alle spalle di uno dei campi più integri si scorge distintamente il letto di un grosso corso d’acqua, al momento asciutto. Non può escludersi che all’epoca vi scorresse ancora qualche rivolo, o che in particolari stagioni vi fosse sia pure per breve tempo abbondanza d’acqua, contribuendo così al fabbisogno del campo. In ogni caso anche quella estrema potenzialità non venne trascurata. Un’eco residua della meticolosa cura 4 - Da Y. LE BOHEC, L’esercito..., cit., p. 210.
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destinata al corretto impianto dei castra la si può evincere dalle ordinanze menzionate da Flavio Vegezio Renato, (metà V sec.), quando ormai tali strutture ben raramente venivano realizzate. Precisava, dunque, con nostalgia il celebre trattatista militare che: “in prossimità del nemico, gli accampamenti devono esser posti sempre in un terreno protetto, dove abbondino il legname, lo strame e l’acqua; inoltre, se si prevede una lunga permanenza, si scelga un luogo salubre. È da evitare che nelle vicinanze si erga un monte che, se occupato dall’avversario, possa agevolarne l’attacco. Ci si preoccupi che il campo non sia soggetto ad eventuali straripamenti di torrenti, che possano causare disagi alla truppa...”5 Continuava precisando che: “si deve anche evitare che in estate... vi sia acqua inquinata nei pressi o l’ acqua salubre sia molto lontana; in inverno non scarseggi il foraggio o la legna... [e] non si trovi in luoghi scoscesi o fuori strada e, portando l’assedio agli avversari, non presenti una difficile via d’uscita; non vi giungano dalle alture i dardi scagliati dai nemici...”6 Il che, considerando la gittata delle macchine da lancio dell’epoca, significava una distanza non inferiore ai 400 m dal piede dell’altura, spazio nel caso in questione incompatibile con la supposta vicinanza fra le due città.
2.3 Tra Pelepoli, Neapolis e il Vesuvio Volendo esprimere un giudizio circa l’ubicazione del campo scelta da Publilio, in base a quanto riassunto, dal punto di vista strettamente tattico appare inverosimile e comunque, anche a voler per assurdo ignorare i principi basilari della castramentatio, non era di sicuro la migliore. Certamente interponendosi fra le due città, quale che ne fossero le dimensioni, avrebbe impedito ai relativi abitanti di aiutarsi reciprocamente ma, altrettanto certamente, si sarebbe trovato esposto su due opposti fronti, alle loro iniziative subendo perciò l’eventuale attacco simultaneo e coordinato ai fianchi. Considerando poi che Neapolis e Palepoli non dovevano distare molto fra loro, il campo si sarebbe, per giunta, trovato sotto un altura ubicazione, 5 - Da A. ANGELINI, L’arte militare di Flavio Renato Vegezio, Roma 1994, p. 32. Testo latino: lib. I, 22. 6 - Da A. ANGELINI, L’arte..., cit., p. 102. Testo latino: lib. III, 8.
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Parte Seconda - Tracce storiche
Il Ponte della Maddalena in un stampa di Joachim von Sandrart raffigurante l’eruzione del 1631. Napoli, Museo di S. Martino.
seppe fornirgli una soddisfacente risposta, e quando alla fine la ottenne ciò che gli venne mostrato era lontanissimo da quanto fantasticato. Del resto, già appare a dir poco inverosimile che per scovare un fiume interno a una città, sia che la lambisca sia che l’attraversi, occorra farselo indicare! Anzi, ad essere precisi, affermò di non aver visto il Sebeto -ed in 13 anni di soggiorno sarebbe per lo meno strano- salvo: “che non era quel rivolo senza nome che va al mare nelle paludi, tra le radici del monte Vesuvio e la città di Napoli; né altrove vidi acqua, né vestigia di essa.”35 La testimonianza è stringente: il rivolo scorre fino alla palude raggiungendo stentatamente il mare, dove la tradizione collocava da tempo il Sebeto e, se mai vi fossero dubbi al riguardo, non vi era nella città alcun altro corso d’acqua! Le parole di Boccaccio sono pertanto dirimenti, non essendo quelle di un semplice turista di 35 - La citazione di un frammento epistolare di Boccaccio, è tratta da E. DE GAETANO, Torre del Greco nella tradizione..., cit., p. 43, nota n. 2.
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passaggio, né di un memorialista forestiero, né meno che mai di un poeta: in tredici anni di soggiorno giovanile in una città, che all’epoca poteva contare al massimo un centinaio di migliaia di abitanti, il giovane verosimilmente vivace e curioso come tutti i coetanei, non vide alcun fiume in Napoli o nei suoi immediati paraggi per la semplice ragione che non vi era alcun fiume, ma soltanto dei modesti rivoli che si contendevano, nella cultura popolare, il nome di Sebeto o, per meglio dire, se ne disputavano le spoglie! In ogni caso fu con Boccaccio che si tornò a parlare del Sebeto, restituendo quel nome mitico al modesto Rubeolo che scorreva anch’esso ad oriente della città nei pressi delle sua mura, ruscello che per altri, invece, fu soltanto uno dei suoi affluenti. Come tale, infatti, si ritrova menzionato in uno strumento notarile del 1184, citato dal Celano, che così lo riassunse: “Oltre di che si trovò in uno istrumento originale in pergamena che si conserva nell’antico Archivio del Monistero di S. Marcellino, stipulto a 20 di Giugno dell’anno 1184 Indizione 2. che un tal Sergio Cape dona al Monistero un pezzo di terra, sito vicino al luogo dove passa quast’acqua, e nominando i confini così dice: «Non longe a loco, qui dicitur Porhianum foris flubium, justa Terram S.Gaudiosi: Flubium, qui dicitur Rubeolum», che quest’acqua passi per lo teritorio, che dicesi Porchiano, dov’al presente v’è una chiesetta governata da gran tempo dalla comunità de’ Sellari, che nominata viene S. Mari a Porchiano non v’è dubbio; dallo che si ricavò che questo fiume chiama vasi Rubeolo, e tirava a dirittura al mare ec.”36 Dunque ai giorni della permanenza di Boccaccio più che un fiume, che stando alle sue parole non esisteva in alcun luogo di Napoli, sembrerebbe lambire la città una sorta di canalone, peraltro abbastanza tipico delle colline napoletane, in cui si convogliavano anche le acque dell’alveo naturale.
2.7 Fu uno tsunami a seppellire il Sebeto? Una decina di anni dopo, per l’esattezza il 25 novembre del 1343, durante la seconda visita del Petrarca, si verificò la terribile mareggiata, ri36 - Il brano della X giornata di Carlo Celano, è tratto da A.VETRANI, Sebethi Vindiciae sive Antonii Vetrani dissertatio de Sebethi antiquitate, Napoli 1767, p. 200.
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Parte Seconda - Tracce storiche
espressione dialettale dei coloni dell’Eubea, nella quale la lettera B mutava in P e la vocale E in EI. Pertanto la vera dizione sarebbe stata appunto SEBETHOS e la divinità impressa sulla moneta l’avrebbe raffigurato. Interpretazione che non solo diradava le precedenti incertezze ma coinci- deva con l’abitudine dei coloni greci di divinizzare i fiumi, in ossequio alla loro basilare rilevanza, immaginandoli in sembianze umane. A titolo di curiosità una cantata per voce di basso e basso continuo di Alessandro Scarlatti, attualmente custodita presso la biblioteca del conservatorio di S.Pietro a Majella, si intitola “Nel mar che bagna al bel Sebeto il piede”. Stando alla lettera della scrittura musicale l’accento di Sebeto cade sulla seconda “e” ed é acuto: per cui si avrebbe Sebéto. Si tratta di una cantata d’argomento arcadico, secondo la moda bucolico-pastorale imperante, e vi si rievocano delle gare di imbarcazioni a vela effettuate alla foce del fiume, mentre al contempo si manifestava una sorta di giostra d’amore fra i due pastori Elpino e Nice.
131
PARTE TERZA
Acqua e farina
3.1 Breve sintesi di una lunga storia L’assetto idrogeologico dei territori circumvesuviani sul finire del XIX secolo venne più accortamente studiato determinando, nella seconda metà dello stesso e nella prima del successivo una serie di interventi di regimentazione delle acque di notevole efficacia. Per quanto concerne i: “torrenti della falda occidentale del monte Somma e del Vesuvio scorrono nella zona dove (come si é detto innanzi) i basalti s’incontrano molto scarsamente... Essi sboccano nell’alveo comune di Pollena gran collettore artificiale della lunghezza di circa 6 km con foce a mare è sono: a) il Maddalena-Trocchia con gli influenti Lo Grado, Caracciolo, Nido dell’0rso e Duca della Regina; b) il Pollena con gli influenti Salerno I e Salerno II; c) il Molara con gli influenti Caraminio e Castelluccia; d) il Fosso S. Domenico; e) l’antico alveo Faraone che raccoglieva parte delle acque del Fosso della Vetrana; f) l’alveo-strada Catini, Figliuola, Censi e Pironti. La falda meridionale del Vesuvio, ricoperta in gran parte, specie nella zona più elevata, dalle spongiose lave basaltiche recenti, era eminentemente atta ad assorbire le acque meteoriche scorrenti lungo le pendici, e però nella parte più bassa (dove si estendono i ridenti abitati di Portici, Resina, Torre del Greco ecc., e le ubertose campagne circostanti) le acque scendevano in quantità limitate e non cariche di materiali. Erano quindi sufficienti pochi e ristretti colatori, poiché la rete delle vie campestri ed urbane si prestava allo
132
Parte Terza - Acqua e farina
Dal punto di vista geografico le cosiddette Paludi di Napoli sono: “un’am- pia spianata, la quale ad oriente di questa città capitale si estende sino alle falde del Vesuvio, e confina a mezzogiorno col mare ed a settentrione con le colline di Santa Maria del Pianto e di Caloria. Di là dal secondo miglio della regia strada delle Puglie questa pianura si restringe, e per altre due miglia a un bel circa prolungasi verso levante oltre alla sorgente del Volla; la quale altra lingua di terra rappresenta quelle che dimandano le ‘Paludi della Volla’... Sorgono in parecchi luoghi di questa contrada polle e vene di acque chiare, le quali condotte per canali e raccolte in rivoletti fanno irrigui quei campi, ed animano trentasette molini. Prima e principale si è la ricca sorgente della Volla, dalla quale prende origine il fiumicello Sebeto, e move una vena di limpide acque, che per un sotterraneo condotto corre alla volta di Napoli, ed insieme alle altre acque di Carmignano ne viene a dissetare gli abitanti. Questo rivolo, che ne’ tronchi più alti chiamano ‘della Volla della Corsea’, dà moto alle macine di dieci molini posti luogo a luogo: poi vengono i ruscelli di minor portata dimandati ‘Cozzone, di Caloria, di Sanseverono, Caraccolo, Sbauzone, Iannazzo, della Ferriera, Bronzato, dell’Inferno, della Fanfara, nascenti dove da una sola e dove da più polle d’acqua insieme raccolte; i quali animano gli altri molini onde tolgono il nome. E tutte queste acque confluendo in un alveo solo di sopra al ponte della Maddalena, e ripigliando il nome si ‘fiumicello Sebeto’, si scaricano nel mar vicino... Ed è certo ancora che gli scanni e le dune e i monti di sabbie, sospinti dalle tempeste contra queste spiagge, serrano l’uscita alle acque delle contrade basse, e cangiano queste in paludi e stagni; i quali da prima con le torbide portate da’ torrenti, e di poi col soccorso dell’opera dell’uomo si vanno sollevando, ed in fertili campi col volgere degli anni si tramutano…Questa era la condizione delle paludi, quando Carlo I d’Angiò volendo migliorare i luoghi bassi della città di Napoli ed aggrandirla, fece colmare lo stagno dove si maturava la canapa a mezzogiorno del colle del Salvatore; ed ivi fu eretta una Chiesa, che dal nome dell’antico Fusaro fu dimandata di S. Pietro a Fusariello; e questa maturazione portò nel fiumicello Rubeolo presso al ponte Guizzardo, cioè al di sopra al ponte della Maddalena...”4 4 - Dagli Annali delle bonificazioni che..., cit., p. 45
135
SEBETO
Circa i mulini a vento impiantati all’altezza del Ponte della Maddalena già una settantina di anni prima risultavano abbandonati, come si legge in questa relazione tradotta dal francese del 16 maggio 1632: “Si considera innanzitutto attentamente questo fiume tanto celebre, il Sebeto, che in quel punto [ponte della Maddalena] non è altro che un ruscello che in prossimità della sua foce ha una larghezza appena di buoni passi, ed una profondità di tre o quattro piedi, ed un corso di sei miglia, per cui non consente la navigazione ad alcuna barca e serve soltanto ad alimentare gli stagno o le ‘paludi’ attraverso le quali scorre, ed a muovere dei mulini... La piccolezza del fiume è compensata dalla grandezza del ponte…Si chiama della Maddalena a causa di una piccola chiesa che si trova alla sua entrata, a lato mare, presso la foce del fiume. All’uscita del ponte si trovano tre mulini a vento sulla marina, che ormai al giorno d’oggi sono abbandonati, come del resto in tutti gli altri luoghi dove vi sono stati in altri tempi, i Napoletani dicono che sono troppo complicati da governare, e si servono più volentieri di quelli ad acqua.”22
22 - J.J. BOUCHARD, L’éruption du Vésuve en 1631 Journal II. Un Parisien à Rome et à Naples en 1632, Paris 1897, pp. 211-12.
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CONCLUSIONI
Utopia e realtà In data 1841 veniva pubblicata la relazione dell’abate Teodoro Monticelli, segretario perpetuo della Reale Accademia delle scienze di Napoli, intitolata: Sull’origine della acque del Sebeto che per molti aspetti pose termine alla vicenda. Dopo aver riassunto le varie ipotesi avvicendatesi nel tempo sulle connotazioni morfologiche ed ideologiche del mitico Sebeto, espose quanto dalle sue dirette indagini sul territorio risultava al riguardo. Era per molti aspetti la conclusione della diatriba, che finalmente forniva una chiara definizione circa le origini, l’entità, il corso e la foce del corso d’acqua. Queste le sue parole: “Nasce dunque il Sebeto in quattro punti, e propriamente in quattro grotte sotterranee la prima delle quali... dicesi della Preziosa dal nome di un podere, che ora appartiene al marchese Costa. La seconda... si appella della Taverna Nuova, perché verso quella dritto risguarda. La terza ch’è più prossima alle radici del monte Somma è nel podere ora di Carafa, ed è forse la stessa, che Summonte chiama del Cancellaro, ed altri del Calzettaio. Lungo l’acquedotto di questa grotta se ne trova un’altra... che abbonda di molta acqua, la quale per un canale lungo 10 canne e mezzo... [si getta nel canale maggiore]. Da queste grotte artefatte stilla l’acqua a goccia a goccia tanto dalle loro volte, quanto dalle loro pareti, e nelle parti inferiori specialmente comparisce sensibile, e scappa fuori a zampa d’oca, come dicono i nostri fintanai, o sorge poco a poco ed a piccole bolle. Le acque delle due prime grotte si riuniscono per appositi canali sotterranei.., ove si trovano praticate le così dette Saracina, o chiuse per impedire il passaggio dell’acqua nel resto del canale quando vi si debba lavorare...
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Indice
5 11
PREFAZIONE STORICA, di Ermanno Corsi PREFAZIONE TECNICA, di Maurizio Barracco PREMESSA - Più d’onor che d’acque altero
15
Le acque correnti, naturali ed artificiali
21
Le origini
25
Acqua e colonie: l’ipotesi di Carlo Celano
27
Questioni altimetriche PARTE PRIMA - Tra fuoco ed acqua
35
1.1
Il fenomeno della colonizzazione nell’antichità
40
1.2
L’acqua e le colonie greche nel golfo
42
1.3
La montagna del fuoco
46
1.4
Partenope, Palepoli e Neapolis
50
1.5
Idrografia vesuviana
54
1.6
Digressione sui “pozzi d’aria”
58
1.7
I cripto fiumi del Vesuvio
61
1.8
Il ‘fiume’ di Portici
63
1.9
Il ‘fiume’ di Torre del Greco
66
1.10 Il contributo del Vesuvio
68
1.11 Il ‘fiume’ di Torre Annunziata: l’unico realmente tale
69
1.12 Il ‘fiume’ di Somma Vesuviana
PARTE SECONDA - Tracce storiche 72
2.1
Un fiume o un mito?
76
2.2
Considerazioni castrensi
78
2.3
Tra Palepoli, Neapolis e il Vesuvio
83
2.4
Ulteriori testimonianze d’età classica
88
2.5
Testimonianze d’età medievale
92
2.6
Il Sebeto e i letterati toscati
94
2.7
Fu uno tsunami a seppellire il Sebeto?
98
2.8
Nel fossato aragonese
103
2.9
Menzioni rinascimentali
107
2.10 La fontana del Sebeto
112
2.11 Menzioni in età moderna
115
2.12 Divagazione idro-geo-morfologica
118
2.13 Prime ipotesi sul Sebeto
125
2.14 Sui qanat
128
2.15 Etimologia di un idronimo PARTE TERZA - Acqua e farina
132
3.1
Breve sintesi di una lunga storia
137
3.2
Molto grano e poca farina
144
3.3
Ruote idrauliche e mulini a Napoli
148
3.4
La via del grano: cabotaggio e corsari
149
3.5
I mulini a vento
153
3.6
Le tre torri: i mulini a vento di Napoli
CONCLUSIONI 155
Utopia e realtà
Illustrazione tratta dall’opera di Antonio Vetrano Dissertatio de Sebethi antiquitate, nomine, fama, cultu, origine, prisca magnitudine, decremento, atque alveis..., Napoli 1767.
Contenuti Extra
Finito di stampare presso presso Cangiano Grafica in Volla (NA) nel mese di Maggio 2012
E.S.A.
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Edizioni Scientifiche e Artistiche
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Per oltre due millenni si è discusso sulle connotazioni, sul corso e sull’eventuale portata del Sebeto, finendo spesso per reputarlo un gioioso fiume malvagiamente sottratto a Napoli e sepolto nelle sue viscere. In realtà tutti gli autori che si sono soffermati ad esaltarne la limpidezza delle acque e la suggestione delle lussureggianti rive, mai ebbero occasione di vederlo. Per contro quanti, come il Boccaccio, dopo meticolose indagini, riuscirono a rintracciarlo, restarono delusi per la sua estrema modestia: un ruscello, un rivolo che solo la più spudorata piaggeria elevò al rango di fiumicello. Questo volume, riproponendo quanto di più significativo scrissero sul Sebeto poeti, letterati, storici e naturalisti, integrandolo con vari approfondimenti, consente di attingere al perché un rigagnolo, ristagnante e ammorbato dai rifiuti, sia oggi il suo estremo retaggio.
Flavio Russo nasce a Torre del Greco, Napoli, nel 1947. Ingegnere, si è dedicato alla ricerca sull’architettura e la tecnologia nella storia militare, con una specializzazione nel campo dell’architettura fortificata. Ha tenuto vari cicli di seminari presso le Università del Molise, Federico II di Napoli e Salerno. Collabora da oltre vent’anni con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e con numerose riviste italiane di storia, tecnologia e archeologia. Ha pubblicato con questa casa editrice: 79 d.C. Rotta su Pompei, indagine sulla scomparsa di un Ammiraglio (2007); Li Turchi a la marina, torri, cannoni e corsari (2007); Pompei la tecnologia dimenticata, cenni di tecnica tra le pagine di un Ammiraglio (2008); Leonardo inventore? L’equivoco di un testimone del passato scambiato per un profeta del futuro (2009); Le torri costiere del Regno di Napoli (2009). Con altri editori (selezione): La difesa costiera del Regno di Napoli tra il XVI ed il XIX secolo (1989); Dai Sanniti all’Esercito Italiano, la regione fortificata del Matese (1991); Guerra di corsa (1996); Tormenta, venti secoli di artiglieria meccanica (2002); L’artiglieria delle legioni romane (2004); Ingegno e Paura, trenta secoli di fortificazioni in Italia, vol. I, II e III (2005); Indagine sulle Forche Caudine (2006); Techne il ruolo trainante della cultura militare nell’evoluzione tecnologica, vol. I-II-III (2009-2011).
ISBN 978‐88‐95430‐41‐6
€ 15,00
In copertina: elaborazione grafica di una stampa del XVIII sec.
9 788895 430416
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