39 minute read

Ieri avvenne Aldo Moro Pagina

Ieri avvenne

di Waimer Perinelli

Advertisement

In morte di ALDO MORO

Il corpo era nel portabagagli di una vettura Renault 4, rannicchiato con le le ginocchia verso il petto, come stanno seduti nel grembo materno i bimbi nascenti, ma era il corpo di un uomo di 61 anni; il suo nome Aldo Moro. Aldo Maria Luigi Moro era nato in Puglia, a Maglie, il 23 settembre del 1916 e in quel tragico 9 maggio del 1978 era il presidente della Democrazia Cristiana il partito di maggioranza relativa del Parlamento italiano, di cui era stato fondatore e rappresentante nella Costituente, poi segretario nel 1959. Un politico autorevole, colui che aveva ideato l’assurdo geometrico delle parallele convergenti giustificando la capriola con doppio salto in avanti per legare il partito Comunista Italiano al Governo della nazione e alla DC. Un salto mortale almeno per lui, visto che, una delle poche cose certe sulla sua morte è che venne assassinato per impedire, rallentare, frenare, il nascente governo, uno dei tanti, di Giulio Andreotti, nel quale entravano per la prima volta nella storia italiana i comunisti, guidati da Enrico Berlinguer. Era chiamato Compromesso Storico e rispondeva alle alla grave situazione socio-economica dell’Italia. Evidentemente a qualcuno non piaceva e il 16 marzo del 1968, lo stesso giorno in cui Andreotti avrebbe presentato al Parlamento i sui prescelti, l’auto che trasportava Aldo Moro dall’abitazione a Palazzo Montecitorio, fu intercettata da un nucleo armato, chiamato Brigate Rosse, che a colpi di mitraglietta, uccise due carabinieri, tre poliziotti di scorta per rapire il presidente della DC. Chi erano veramente le brigate rosse probabilmente non lo sapremo mai, forse direbbe John Le Carrè non lo sapevano nemmeno i membri;di certo sappiamo che a Trento si formò all’inizio degli anni 70 del 900 un gruppetto di estremisti rivoluzionari che trovarono a Milano l’humus e terreno per crescere e poi altrove, a Roma e stati stranieri, soldi e complicità. Fino a quel 1978 avevano sparato a destra, al centro, anche a sinistra, mica tutta la sinistra è buona, poi dopo il rapimento di Moro e la sua uccisione, qualcuno decise che non servivano più e, in poco tempo, lo Stato li imprigionò o costrinse alla fuga. Nel frattempo, il 5 giugno del 1975, la trentina Margherita Cagol, nome di battaglia Mara, annoverata tra i fondatori delle BR, era stata uccisa in un scontro a fuoco con i carabinieri. Ma torniamo al rapimento di Moro e alla sua prigionia. In un carcere segreto rimase per 55 giorni. Venne istituito un tribunale del popolo e subì un processo politico. Aldo Moro si difese e più o meno volontariamente scrisse molte lettere, alla famiglia, al governo agli amici di partito. Supplicava lo Stato di aprirsi al dialogo con i brigatisti anche a costo di accettarne le rivendicazioni (per la liberazione chiedevano il rilascio di alcuni terroristi detenuti). Il 19 aprile scrisse al segretario della DC Benigno Zaccagnini , lanciando presagire il peggio: “Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul paese…”. Il messaggio non fu ascoltato, il processo celebrato, la condanna emessa. L’ultimo comunicato dei terroristi, il numero nove, arrivò il 5 maggio. Annunciava la conclusione del processo popolare a carico dello statista: “Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo, eseguendo la sentenza”. Moro, con la scusa di un cambio di prigione, fu fatto accovacciare nel bagagliaio della vettura, poi gli fu gettata addosso una coperta e gli spararono 12 colpi di arma da fuoco. Egli sapeva della condanna e scrisse alla moglie : “Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunse incomprensibilmente l’ordine di esecuzione”. Quattro giorni dopo il suo corpo sarà ritrovato a via Caetani. Una strada scelta con cura: situata ad identica distanza di 150 metri, dalle sedi del Pci e della Dc.

Aldo Moro

Lo Stato rinnova ogni anno il ricordo dei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro, la morte della sua scorta e le altre vittime del terrorismo e delle stragi sui cui autori e motivazioni la verità non è ancora completamente emersa. Lo ha detto anche quest’anno il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha constatato il fallimento del progetto eversivo e ha aggiunto: “.. ci sono ancora ombre, spazi oscuri, complicità, non pienamente chiarite, l’esigenza di completa verità è molto sentita dai familiari. Ma è anche un’esigenza fondamentale per la Repubblica.” D’altra parte com’è stato più volte ricordato, s’indaga in un universo magmatico, di movimenti politici, di intrecci malavitosi che superarono fatalmente i confini con ruoli, mai fino in fondo chiariti, di alcuni apparati dello Stato. E non solo di quello italiano. Nel 2008, le tesi di un coinvolgimento degli Stati Uniti, furono avvalorate dalle confessioni di un ex funzionario di Whashington, Steve Pieczenik, che lavorò agli ordini dei segretari di stato Henry Kissinger, Cyrus Vance e James Baker. L’uomo raccontò alla stampa americana di aver partecipato al sabotaggio dei negoziati con le Br, affermando come l’idea fosse di “sacrificare Aldo Moro per il mantenimento della stabilità politica in Italia”. Il Pontefice, Paolo VI, amico intimo del politico della Democrazia Cristiana, si rivolse a Dio con parole molto forti: ...”Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico, disse, ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita.” Nel frattempo la giustizia umana ha

Ieri avvenne

Aldo Moro

lentamente, com’è consuetudine proseguito il cammino e a partire da quel 9 maggio, apogeo di una guerra civile strisciante, furono arrestati, processati e condannati alcune decine di brigatisti. Fra tutti Mario Moretti, all’epoca capo dell’organizzazione. I giudici hanno inflitto complessivamente 32 ergastoli e 316 anni di carcere.

Bambine, fede e religione

di Franco Zadra

NEL CUORE DELLE BAMBINE DI KABUL

Contro i Talebani di Kabul che hanno decretato per le donne il divieto di lavoro, tranne che per mansioni che non possono essere svolte da uomini, che impongono l’esclusione delle bambine dalle scuole superiori, inseguendo un progetto criminale che vuole le donne cancellate dalla storia, invisibili, ignoranti e sottomesse, non si protesta solo nelle piazze. Ho la pretesa di farlo anche raccontando un fatto insignificante, del tutto invisibile alla cronaca giornalistica, occorso a una bambina di 10 anni, non a Kabul, ma proprio qui dalle nostre parti.

Un fatto del quale all’occorrenza saprei fornire tutte le “pezze d’appoggio” sufficienti a suffragarne la veridicità, corrispondendo completamente a tutti i canoni giornalistici, ma che nell’immediata lettura potrà apparire forse per ciò che non è, fantasioso e apologetico. Un fatto della cui concretezza testimonio in prima persona e dalla veridicità verificata e verificabile, ma per ovvi motivi solo in seconda istanza. È accaduto a una mia vecchia amica che si accompagnava con la nipote decenne, Victoria, per una visita a una chiesa delle nostre, un pomeriggio di alcuni giorni or sono. Accolte dalla penombra dell’edificio sacro dov’erano entrate per una breve sosta di preghiera, la mia amica disse subito alla nipote: «È vuota! Non c’è nessuno!». Capita di solito che sia il vuoto la prima cosa che ci colpisce, della quale ci sorprendiamo nell’istante che ci incontra. Capita anche se siamo “religiosi” e il nostro vecchio sguardo cerca ancora un Volto nella notte. Ma Victoria ebbe subito a ribadire, con una luce brillante negli occhi: «Non vedi nonna? È piena! È piena dell’amore di Dio!». Che cosa è accaduto? Perché lo racconto? Quando la mia amica mi disse di questo fatto, un senso di meraviglia mi riempì e mi complimentai con lei per la risposta della nipote. Poi, forse per il solito vizio che mi accompagna, di collegare i fatti, mi ricordai di quella preghiera che la Tradizione ci conserva, “Angelus Domini”, che coglie il nucleo pulsante dell’annuncio a Maria, con la quale possiamo partecipare di quell’abbandono al Mistero rappresentato dal “fiat” con cui Lei esprime la sua fede. «Nell’intimità impenetrabile di questo gesto di libera accettazione – scrive don Luigi Giussani – sta la chiave di volta per il misterioso incontro di Dio e di Maria, e la misura gigantesca di questa Donna «benedetta tra tutte», di questa viandante vittoriosa dell’umano cammino. Quale libertà ha avuto Maria di fronte al «fuori norma» assoluto che le stava accadendo, da cui è dipeso il destino di tutto il mondo!». Una bambina di 10 anni, in un contesto del tutto diverso da quello delle bambine di Kabul, ma con lo stesso cuore, gli stessi desideri di fondo, vede il pieno dove la nonna, come accade alla maggior parte di noi, vedeva il vuoto. E nello spazio di un soffio ha incontrato Dio. Collegando i fatti, mi ritrovo solidale con il mio collega, l’Evangelista Luca, che riporta un fatto della medesima concretezza di questo, accaduto duemila anni fa, che si ripropone oggi ai miei occhi di giornalista, per mostrare come sia possibile e credibile anche ciò che è accaduto alla Madonna, poiché si ripete in tutti i rapporti che fissano la trama della vita degli uomini e la trama che è dentro la storia, cioè la storia di Dio dentro la storia del mondo. Che cos’è la fede se non proprio quella forza piena di attenzione con cui l’anima aderisce al segno di cui Dio si è servito, e sta a questo segno con fedeltà, nonostante tutto? Niente a che vedere con le violenze talebane! Comprensibile però a un cuore di bambina. Non dimentichiamo le bambine di Kabul, come Maria, dopo che “l’Angelo partì da Lei”, rischiano quella solitudine, anche psicologica, nella quale si è trovata, nelle condizioni nuove nelle quali il Signore l’aveva messa, con tutti gli altri ignari e con il niente cui appoggiarsi, senza alcuna apparente motivazione se non la lealtà con il ricordo di un incontro.

La donna e la libertà

di Waimer Perinelli

ZAHARA AHMADI AFGHANA:

SOGNO UNA DONNA PRESIDENTE

“Nella mia vita ho imparato che lamentarsi serve a poco. E’ necessario essere padroni della propria vita, prenderla in mano e guidarla verso obiettivi precisi”. Zahara Ahmani, 32 anni, imprenditrice afghana ha esordito con queste parole al Festival Religion Today, rassegna internazionale del cinema di religione, di scena a fine settembre a Trento. Zahara, è una bella ragazza di 32 anni, capelli neri raccolti, occhi scuri ed un sorriso gentile. Ma non lasciatevi ingannare dietro l’apparente fragilità si nasconde una donna forte, determinata. Per quattro giorni è stata nascosta a Kabul dove i talebani la cercavano accusandola di incitare alla rivolta contro la conquista del potere da parte degli studenti delle scuole islamiche. La donna in effetti, poco prima della conquista della capitale Kabul da parte dei fondamentalisti islamici, aveva partecipato, assieme a centinaia di altre donne, ad una manifestazione pubblica contraria alla loro avanzata. Le stesse donne che da molto tempo si battono in favore dei diritti femminili. “Le donne in Afghanistan, ricorda Zahara, hanno scarsa considerazione sociale e fra i talebani, ma non solo, c’è chi le vuole costringere in casa, a svolgere mansioni di casalinga”. Un ruolo sociale che Zahara non ha accettato per sé. A Kabul dal 2017 ha infatti aperto due ristoranti svolgendo un’intensa attività economica senza trascurare l’impegno civile. Minacciata di morte si è dovuta nascondere fino a quando, aiutata da alcune amiche , è riuscita a salire, con altre 203 persone, sul mezzo dell’aeronautica italiana, diretto a Roma. “In Italia vive da tempo parte della mia famiglia , ricorda.” E’ il fratello Hamed ha fare da interprete. Lui abita da qualche anno a Venezia dove svolge l’attività di ristoratore ed è fra i fondatori della catena Orient Experience. “Non vedevo Zahara dal 2014 racconta Hamed, ma appena ho ricevuto alcune telefonate allarmanti, concitate nelle quali mia sorella si diceva disperata e di non sapere cosa fare né dove andare, mi sono mobilitato e sono riuscito a muovere la politica e la burocrazia”. Rapido ed efficiente l’intervento dell’Italia e dopo pochi giorni fratello e sorella si sono

Religion Today 2021 - Zahara Ahmadi, imprenditrice afgana premiata a Trento

La donna e la libertà

incontrati a Roma e poi a Venezia dove Zahara ha ricevuto, durante la mostra internazionale del Cinema, il premio Women in Cinema Award, riservato alle persone coraggiose, intraprendenti, capaci di lottare per i propri ed altrui diritti. Lo hanno avuto, fra gli altri Liliana Cavani, Paola Cortellesi, la stilista Alberta Ferretti, Riccardo Milani, Donatella Palermo. Lasciata la Laguna, Zahara e Hamed, sono venuti fra i monti trentini per partecipare al Festival del film religioso, intitolato “Nomadi della Fede”, portando la loro esperienza. “Anch’io sono una nomade, dice Zahara. Non per nascita, nemmeno per scelta, ma obbligata dalla situazione

Religion Today 2021 - Inaugurazione

grave dell’Afghanistan, a girare il mondo per testimoniare la fede nel diritto delle donne a godere di privilegi e doveri come tutti i componenti della società”. Lo dice con rammarico abbandonando per un istante il naturale sorriso. Poi vola alto:” uguaglianza non solo sul lavoro, nella scuola, ma anche nella politica e nel ruolo sociale. La mia speranza è che in un prossimo futuro l’Afghanistan possa avere una donna presidente dello Stato.” Una speranza che accomuna anche noi italiani che, con una democrazia affermata da 76 anni, abbiamo avuto solo uomini come presidenti della Repubblica. Certo in Italia, le donne possono studiare liberamente, non sono obbligate a coprire il viso e possono praticare sport dove, come dicono con scandalo i talebani, mostrano il corpo; ma la politica larga di parole è poco generosa nell’assegnare cariche. Insomma sull’uguaglianza fra i generi abbiamo poco da insegnare.

I nostri artisti

di Gabriele Biancardi

DANIELE GROFF E LA MUSICA Il sogno che continua

Sono legato a Daniele Groff, tanto, fu grazie alla mia complicità che ebbi modo di fargli consegnare brevi manus Gianni Morandi la sua “cassetta”. Morandi, che è tutto tranne che impreparato, capì che il ragazzo aveva enormi potenzialità. Ma Daniele è stato artefice del suo successo. Effimero? Breve? Dipende da quale chiave di lettura si preferisce aprire il fascicolo che lo riguarda. Oramai il ragazzino si è fatto uomo e anche padre. A pensare che è vicino ai cinquanta anni, fa un pochino impressione. A Daniele non è mai mancato il coraggio, lo stesso che lo portò a girare prima Parigi e poi Londra, forte di un diploma al conservatorio in pianoforte, sì sa suonare, senza contare che suona abilmente chitarra, oboe e violoncello. La sua preparazione gli è servita nel comporre e nello stare a proprio agio su un palco suonando. Erano gli anni 90, dove il brit pop la faceva da padrone. Oasis in testa e lui non ha mai nascosto questa sua inclinazione. Daniele è una bella persona, lo dico sinceramente e credo che abbia avuto meno di quanto lui abbia dato a questo lavoro che può regalare momenti meravigliosi e crisi depressive subito dopo. Ricordo come un vecchio alpino, l’emozione di trovarmelo davanti al festival di Sanremo nel 1999 con “Adesso”, sembravamo due italiani che si trovano all’altro capo del mondo. Se andate a sbirciare sulla sua storia wikipediana, vi accorgerete che i nomi che hanno collaborato alla sua carriera sono tanti e importanti. Ma allora, cosa è successo? Perché non lo vediamo più in televisione? Non gli è mai mancato nemmeno il fisique du role per poter apparire. Lo spessore dei suoi testi è innegabile. Magari non ha la voce di Bocelli, ma questo è un altro discorso che magari affronteremo. Daniele semplicemente ha perso qualche treno. Magari non ha saputo approfittare del momento magico, magari non voleva scendere a compromessi (come i Bastard, altri trentini doc), o semplicemente hanno deciso che non era più “spendibile”. Vuoi che non ha mai attizzato la voyeristica nazionale che vede Barbara D’Urso fiera conduttrice di polemiche e scandali, vuoi che magari ha attraversato un periodo di appannamento artistico. Fare un brano che scali le classifiche, magari non è nemmeno difficile, continuare a inanellare successi, è davvero una impresa, che spesso non è nemmeno collegata alle doti e capacità dell’artista. Oggi un cantautore, categoria vilipesa a quanto pare dalle nuove generazioni, ha vita difficile. Forse Daniele è apparso in un periodo storico artistico sbagliato, non si può nemmeno dire che le sue canzoni siano calate di intensità, anzi, gli ultimi due singoli del 2015 “Bellissima la verità” e del 2016 “Sempre nella mia testa”, sono di ottima fattura. Ricordo che pure Lucio Dalla ha lavorato con lui. Daniele suona ancora ovviamente, serate, convention, ma credo che non sia facile per lui. Fortunatamente ha la pelle spessa e disincantata. Ma se vostro figlio venisse a dirvi che da grande vuole fare l’artista. Come la prendereste? Io credo che i sogni vadano seguiti, sarebbe orrendo perdere le emozioni di un artista, solo perché gli è stato impedito di esprimersi. Non avendo figli non posso capire la grande responsabilità di essere padre e quindi di offrire il meglio per la progenie. Chiaro che è un cammino erto e veramente difficile da fare. Oggi le meteore da classifica sono più numerose delle stelle cadenti nella notte di San Lorenzo. Ma non perdiamoci d’animo! Non possiamo fare a meno di arte, di poesia, di musica. Senza saremmo tutti più poveri. Daniele ha scelto di continuare sui palchi di tutta Italia. Esiste un posto dove bluffare non si può, dove se non sei preparato fai figure meschine. Il palco. E su questo, Daniele non è secondo a nessuno tant’è che se segui i suoi social, ti accorgi che ha date, certo, non lo vediamo all’arena, ma nemmeno al “grande fratello vip”. Per lui la musica è una cosa seria, da trattare con rispetto e amore, oggi le teenager che sognavano con “Daisy” sono grandicelle, ma se ascoltano ancora questa canzone, è perché evidentemente ha saputo entrare nei cuori. Io aspetto sempre suo materiale nuovo, non sono schiavo delle mode, sono schiavo delle produzioni oneste. In questo, e non solo, Daniele è in testa.

Daniele Groff (da All Music Italia)

Le violenze sui minori

di Patrizia Rapposelli

STATO DI EMERGENZA I bambini di cui non si parla

Lo stato perenne di emergenza ha posto l’attenzione su temi ormai triti e ritriti. Oggi si parla di vaccinazioni, di prof no pass, dei guariti non vaccinati discriminati, della pressione sul cittadino medio e la piccola impresa. E molto di più. Conseguenze di una pandemia che sembra non avere fine sotto molti punti di vista. Poco spazio è stato dedicato ad un altro aspetto in tempo di Covid. È un anno segnato dall’incremento della violenza sui minori e della pedopornografia in rete. Il report del Servizio analisi criminale mostra come nel 2021 sono aumentati i reati di adescamento di minorenni (più 18 per cento), di violenza sessuale aggravata (più 11 per cento) e di violenza sessuale di gruppo (più 19 per cento). Drammatiche sorprese. Aumentano i reati consumati sulla pelle dei più piccoli. E, nel Paese dell’emergenza, si scopre che nell’ultimo biennio, tra i minori maggiormente colpiti ci sono le bambine. Purtroppo, si parla di 11 abusi sessuali al mese, 5 sono online. Proprio così, nonostante l’anno di relazioni interrotte fisicamente anche, in alcuni momenti, con la scuola, il ridotto incontro con altre persone, se non nel perimetro domestico, ha fatto registrare dei picchi significativi. La complessità del fenomeno rende difficile la rilevazione ed emersione, contribuendo a renderlo un vero e proprio problema sociale. Pensiamo all’impatto sul benessere fisico, mentale e collettivo del minore. Nel 2020 l’OMS, sulla base di dati di circa 151 Paesi, ha calcolato che ogni anno nel mondo un miliardo di bambini è vittima di violenza. Numeri da riflessione. Piccoli tra i 2 e i 4 anni subisco punizioni violente da parte di genitori e ricordiamolo, uno su quattro assiste alle brutalità inflitte alla madre dal partner. È un grave e diffuso problema collettivo, sebbene poco conosciuto e scarsamente segnalato. Il fatto che milioni di minori sono stati costretti a rimanere chiusi in casa per un lungo periodo, ha drasticamente ristretto la cerchia di relazioni in contesti extrafamiliari, ha determinato da un lato l’aumento degli abusi (dalle violenze, ai maltrattamenti, alla trascuratezza) tra le mura domestica e dall’altra un accrescimento degli adescamenti online. Soffermandoci su quest’ultimo aspetto e confrontando i dati del 2019 con il 2020 emergono cifre inquietanti. Il numero dei video è più che raddoppiato, per capire, da 992.300 a 2.032.556, le chat sono aumentate da 323 a 456, così come le cartelle compresse da 325 a 692 e i link monitorati da 8.489 a 14.521. Oltre internet di superfice, il problema comprende anche il deep web e il dark web (la parte più grande di internet che non viene indicizzata nei motori di ricerca). E per parlare di un mondo vicino al nostro, anche gruppi di WhatsApp e Telegram. Ci vorrebbe forse più responsabilità da parte degli internet provider, degli amministratori dei siti e delle piattaforme di file-sharing, o più in generale sulla libertà della rete. Chi controlla però i minori connessi e abbandonati online? E dall’altra parte, i servizi di prevenzione e contrasto della violenza minorile hanno subito forti interruzioni durante questa emergenza sanitaria, esponendo i minori a un maggior rischio in determinati contesti familiari. Le chiusure scolastiche in corso e le restrizioni di movimento hanno lasciato molti bambini bloccati in casa, alla mercé di soggetti abusanti e sempre più frustati. Una pandemia dall’impatto devastante davvero su più fronti sociali.

Il personaggio

di Waimer Perinelli

AMISTADI PRESIDENTE MDGT TRENTINI UN POPOLO LIBERO

Ezio Amistadi ci riceve nell’ufficio più spazioso del palazzo di San Michele all’Adige, sede del prestigioso museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina. E’ presidente del Museo dal maggio del 2019 ma da soli quattro mesi, da quando c’è stato il cambio della direzione, ha preso possesso dell’ufficio. A parte Giuseppe Sebesta che del Museo è stato fondatore e direttore per più di vent’anni frequentando assiduamente le sale, i presidenti degli ultimi trent’anni sono transitati senza lasciare tracce profonde. Lui no, Ezio Amistadi vuole essere un presidente presente e partecipativo. Nato ad Arco nel 1950, residente nell’Alto Garda, è laureato in storia all’università Ca Foscari di Venezia e in giurisprudenza alla Statale di Milano. Presidente lo è diventato dice, inaspettatamente. “ A fine del 2018, racconta, mi hanno telefonato dalla Provincia e mi hanno chiesto se ero disponibile. Poi più nulla, fino a febbraio del 2019 quando mi hanno chiesto il documento antimafia ed è partita la pratica di nomina”. Con

Ezio Amistadi - Presidente MDCT

lui sono entrati nel Consiglio di amministrazione Iole Branz di Cles e Mauro Cecco nel Primiero. Le nomine hanno colto di sorpresa il mondo culturale trentino che generalmente ha guardato con indifferenza alla realtà di San Michele. “Male, dice Amsitadi, perché l’intero complesso ha un valore che supera gli undici milioni di euro e gestirlo comporta una spesa annua di un milione e duecentomila euro.” Molto male perché al di là del capitale investito, gli allestimenti delle sale raccontano la storia del popolo tentino. Ci sono falci e falcetti, martelli, carriole... attrezzi usati in agricoltura, nell’artigianato; ci sono i costumi della festa, le maschere dei carnevali, i burattini ideati da Sebesta, le divise degli armigeri e alcune sale sono allestite come le antiche cucine, salotti, camere da letto: l’arredamento di un intero appartamento traslocato nel Museo. Così vivevano i nostri nonni e padri. “Tutto questo però è solo una rappresentazione statica, dice Amistadi, noi dobbiamo uscire, collegarci al territorio, comunicare quello che potrebbe essere il futuro della nostra gente. Dobbiamo avere progetti e realizzarli. La nostra filosofia è quella di aprirsi a tutti, progettare con

tutti perché questo aggiunge valore al bene e alla cultura”. Ezio Amistadi ha in questo campo la vasta esperienza di consulente esperto in strategie e azioni per lo sviluppo dell’impresa e del territorio, con indagini, proposte e progetti realizzati in Trentino, a Milano e Trieste. In campo antropologico ha pubblicato, due anni fa, il volume “ “Montanari si diventa. Storia di un popolo libero. I Trentini” nel quale raccoglie studi ed approfondimenti. Strumenti utili per una svolta del Museo. Nel rispetto della cultura e dell’ambiente. “Non basta e non è efficace proclamarsi contro qualcosa, occorre assumersi la responsabilità del dialogo, del confronto con gli altri, dice, Se la consapevolezza non è un patrimonio diffuso e condiviso rimarremo tutti inchiodati alle enunciazioni di principio: chi sostiene la tutela dell’ambiente e per contro chi a questo assioma oppone la priorità del lavoro per tutti”. E quando dice tutti intende proprio chiunque abbia a cuore le sorti del patrimonio etnografico e antropologico del Trentino: le associazioni del volontariato senza scopo di lucro che in provincia raccolgono il 23 per cento della popolazione al personale. Il Museo ha attualmente tredici dipendenti, ma quattro nuovi sono in arrivo. Pochi per lo svolgimento delle attività ordinarie e didattiche destinate fra l’altro ad aumentare. Ci sono accordi con l’Università di Trento, facoltà di Let-

Il personaggio

MUCGT-20 - Camera da letto

tere Sociologia, per lo sviluppo, anche, di un’antropologia turistica capace di raccogliere e rappresentare l’alimentazione, dal cibo al vino, al territorio, bene prezioso da preservare. “Il museo deve essere vivo, comunicare con il territorio, dice Amistadi, trasmettere un’etica di prospettiva, ossia una visione di lungo termine di come raggiungere l’obiettivo dell’equilibrio fra attività umane e cura del territorio”. A settembre sono state avviate alcune manifestazioni, dall’attività didattica un appuntamento tradizionale del Museo, al festival dei Burattini in musica diretto artisticamente da Luciano Gottardi e la giornata sulle Carte di Regola, ovvero gli antichi statuti che attraverso una serie di norme definivano modi e forme dello sfruttamento dei beni che appartenevano alle comunità tradizionali trentine. “Tutto questo va bene ma bisogna veramente vivacizzare le proposte, dice Amistadi, coinvolgere la gente, invogliarla a vedere il passato pensando al futuro, a come saremo. In questo progetto dovremo utilizzare le moderne tecnologie; i nostri reperti devono vivere, coinvolgere”. Nelle sale del Museo sono esposti antichi strumenti musicali. Testimoniano la passione del popolo trentino per la musica, il canto, la danza. Nel campo etnomusicale da molti anni è impegnato Renato Morelli, che ha raccolto spartiti di tutto il Trentino e ogni parte d’Europa, soprattutto dell’est. E non si tratta solo di pentagrammi, Morelli, interpreta con successo le note antiche e moderne. “Una vera miniera di note, dice Amistadi, stiamo pensando seriamente ad una collaborazione”.

COMUNICATO AI LETTORI

Chi desiderasse pubblicare un articolo o un qualsiasi testo su VALSUGANA NEWS può farlo inviando una email a: direttore@valsugananews.com Il testo (di massimo 30/35 righe) dovrà necessariamente contenere nome, cognome di chi lo ha scritto, nonché i dati anagrafici e di residenza integrati da un recapito telefonico per contatto e verifica. NON SI ACCETTANO

ARTICOLI O SCRITTI ANONIMI E SENZA I DATI RICHIESTI.

Il Direttore Responsabile si riserva la facoltà di approvare o meno la pubblicazione. Chi desiderasse non evidenziare il proprio nome e cognome dovrà richiederlo per iscritto e il suo articolo o testo sarà pubblicato con la dicitura “lettera firmata”. In questo caso l'articolo sarò conservato in archivio con tutti i dati richiesti.

Il senso religioso

di Franco Zadra

LA VERA STATURA DELL’ESSERE UMANO

Nella lettura de “Il senso religioso” di Luigi Giussani, abbiamo visto come il volto umano, quella “scintilla” che accende l’esistenza, l’energia profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le etnie si rapportano con tutto, sia riscontrabile in una esigenza della bontà, della giustizia, del vero, della felicità che fa cogliere come conseguenza logica e razionale, per quella esperienza elementare di cui tutte le madri, di ogni tempo e latitudine e allo stesso modo, dotano i loro figli, che la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito. Un Infinito che si può amare, nell’accettazione di una realtà che ci è data, oppure bestemmiare, prigionieri di una illusione di se come soggetto autonomo, ma destinato a dissolversi nel nulla.

Ci sono quindi due scelte radicalmente opposte che si presentano alla nostra esperienza: affermare noi stessi all’infinito o accettare l’infinito come significato di sé e, il senso religioso che andiamo riscoprendo, dice chiaramente che «l’uomo afferma veramente sé stesso solo accettando il reale, tanto è vero che comincia ad affermare sé stesso accettando di esistere: accettando cioè una realtà che non si è data da sé». Capita a proposito, una scelta che per un milione o quasi di sottoscrittori del referendum su l’eutanasia legale sembra divenuta del tutto ragionevole e “umana”. Con quel referendum - per il quale siamo in attesa di un pronunciamento sulla ammissibilità del quesito proposto che intende riformare in parte l’articolo 579 del codice penale che punisce l’omicidio del consenziente prevedendo una pena da 6 a 15 anni -, si vorrebbe promuovere una sorta di diritto a morire, legalizzando di fatto l’eutanasia, affermando convintamente che il singolo uomo ha tutto il potere di determinare il suo significato ultimo e le azioni a esso tese. Una convinzione affascinante poiché sembra salvare interamente la statura dell’essere umano, che però si finisce per condividere solo nella dimenticanza di sé come creatura finita e senza alcuna consistenza permanente. È quindi dimostrazione di onestà intellettuale la precisazione del Giudice Costituzionale per dire che «non esiste un “diritto di morire” in quanto tale, dato che dall’art. 2 della Costituzione discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». Risulta ingannevole, invece, invocare un “diritto” a l’eutanasia “attiva” - come ha fatto il Comitato promotore del Referendum -, appellandosi alla sentenza sul caso Cappato, il dj Fabo, travisando di fatto i limiti e i principi che quella sentenza ha fissato. Ma come posso, io qui, avere la spudoratezza di contrastare la volontà di un milione di sottoscrittori il Referendum, miei connazionali? Con quale coscienza lo posso fare? Scrive Giussani: «L’esigenza della bontà, della giustizia, del vero, della felicità, costituiscono il volto ultimo, l’esigenza profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le razze accostano tutto, al punto che essi possono vivere tra loro un commercio di idee oltre che di cose, possono trasmettersi l’un l’altro ricchezze a distanza di secoli, e noi leggiamo con emozione frasi create migliaia di anni fa dagli antichi poeti con un’impressione di suggerimento al nostro presente, come talvolta non deriva dai rapporti quotidiani». Suggerisco in conclusione la lettura meditata (e perché no la memorizzazione?) del Salmo 87, «Signore, Dio della mia salvezza, davanti a te grido giorno e notte...». Libro suggerito: La libertà dell’ordine, un sentiero aperto per il ritorno, Gustave Thibon.

Un altro 11 settembre

di Guido Tommasini

Il Colpo di Stato in Cile nel 1973 40 MILA DESAPARECIDOS

Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto di recente l’estradizione di tre militari cileni Rafael Francisco Ahumada Valdarrama, Manuel Vasquez Chahuan e Orlando Moreno Basquez i quali avevano assassinato due persone di origine italiana: Omar Venturelli e Juan Josè Montiglio. Drammatici episodi di quasi cinquant’anni fa nell’ambito dell’Operacion Condor, un patto di collaborazione fra le dittature di Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay e Bolivia per perseguire anche fuori dai confini nazionali di quei cinque paesi i dissidenti politici. In Cile c’era stato un altro 11 Settembre, quello del 1973, il giorno del colpo di stato contro un presidente eletto. In sintesi quanto segue fu il decorso degli eventi. Nel 1970 il socialista Salvador Allende, candidato di Unidad Popular, che comprendeva cinque partiti di sinistra, era stato eletto presidente del Cile, una repubblica presidenziale dove il presidente veniva eletto direttamente dal corpo elettorale, ma nel caso in cui non fosse riuscito a raggiungere un certo quorum, era scelto dal congresso fra i candidati che avevano conseguito il numero più alto di voti. Questo meccanismo costituzionale comportava due conseguenze: in primo luogo che la scelta del presidente poteva risultare frutto di accordi successivi e secondariamente che il presidente poteva governare anche senza avere la maggioranza nel congresso stesso. Questo risultò proprio con Allende e fu alla base dei contrasti che emersero durante il suo mandato, senza contare le condizioni di marginalità strutturale dell’economia cilena dipendente in maggior parte dai paesi industrializzati.

Allende si apprestava così a governare in condizioni complicate in quanto doveva spesso accordarsi con la sinistra democristiana per avere la maggioranza in congresso, però sotto certe condizioni godeva del potere esclusivo presidenziale di espropriare industrie inattive o produttrici di articoli di estrema necessità , nonché di attuare altre riforme fondamentali come l’eliminazione del latifondo con distribuzioni delle terre ai contadini, per cui egli ebbe subito la possibilità di iniziare la transizione verso un’economia di tipo socialista. Rebus sic stantibus, ad un certo punto si formò un bicefalismo di potere fra presidente e congresso e ciò favorì uno spazio politico per l’inserimento dei militari come garanti costituzionali. All’inizio le forze armate svolsero correttamente quel ruolo. Poi contestualmente ai boicottaggi delle corporazioni multinazionali( in particolare l’ ITT) e degli USA , ma anche di Stati europei come la Germania Ovest (che smise di comprare il rame cileno), le opposizioni guidate dalla destra DC, cominciarono a bloccare tutte le iniziative governative, potendo anche godere del sostegno

Salvador Allende

dei principali quotidiani come El Mercurio e La Tercera, nonché della completa proprietà dell’industria della carta che agiva a loro favore, mentre Allende contava solo sul quotidiano di partito(El Mundo). Anche l’informazione audio era a favore dell’opposizione in un rapporto di circa 130 stazioni radio contro 20 mentre l’unica TV governativa pativa i boicottaggi interni dei sindacati dell’opposizione e doveva competere con tutte le altre, gestite dalle Università, i cui rettori erano in maggioranza contrari ad Allende. L’ostruzionismo ed i sabotaggi in breve cominciarono a scalfire il sistema creando inflazione e caos economico. Come accade in tali casi, la popolazione invece di prendersela con le multinazionali e gli Stati che bloccavano l’invio dei generi di prima necessità e boicottavano i prodotti cileni, manifestava contro il governo. L’estrema conseguenza di questo processo fu il golpe del 11 Settembre 1973, preparato da una fazione di militari guidati da Augusto Pinochet , Capo di Stato Maggiore, che riuscì ad estromettere preventivamente dalle loro funzioni (ed anche in qualche caso ad eliminare fisicamente) tutti gli alti ufficiali lealisti per evitare lo scontro armato fra reparti dell’esercito. I golpisti s’impadronirono in breve del paese dato che i lealisti erano pressoché privi di armi. Bombardata la Moneda (palazzo presidenziale) e morto Allende( ucciso o suicidatosi secondo le differenti versioni ) i nuovi detentori del potere si accanirono contro i democratici con furore belluino, ma la gamma di barbarità commesse non conosceva limiti in tutte le dittature del Cono Sur di quel periodo: i gorilla argentini non stavano a distinguere le nazionalità ed uccidevano suore francesi mentre quelli cileni facevano altrettanto, come nel caso citato, con gli oriundi italiani. Non era facile sfuggire alle grinfie della DINA – Direccion de inteligencia nacional - (la polizia segreta di Pinochet) nascondendosi nelle “conchas” (appartamenti rifugio attrezzati) per poi fuggire dal paese. Si ricorda che solo in Cile fra morti accertati e desaparecidos ci furono almeno 40.000 vittime. La dittatura di Pinochet durò fino al 1989, quando a seguito di un referendum vennero indette libere elezioni. Attualmente in Cile, dopo diversi governi di sinistra c’è un governo di destra e sull’estradizione dei tre assassini si pronuncerà la Suprema Corte di Giustizia cilena.

Un altro 11 settembre

Il personaggio di casa nostra

di Renzo Francescotti

WAIMER PERINELLI

Waimer Perinelli: tanto lavoro culturale fatto, tante cose da dire. Da dove cominciare? Be’, cominciamo da una strada di Trento, via Grazioli, la più bella strada della città fuori del centro storico, una contrada lunga mezzo chilometro che partendo da Piazza Venezia va su al rione della Busa e al Fèrsina. Perché cominciare da una strada? Perché Waimer ci ha abitato per 24 anni in un palazzotto di fronte al Bar Sayonara, dove ha abitato anche don Mario Bebber, il grande poeta religioso che insegnava nel Vicino Tambosi, dove il suo primogenito ha uno studio di avvocato (Via Grazioli è la “Strada degli avvocati”) e dove da oltre mezzo secolo ci abito anch’io, che con Perinelli mi sono incrociato per anni, scambiando qualche battuta. Nato a Verona nel 1948, si iscrisse alla da poco nata Sociologia nel fatidico ’68. Suo padre, “uomo forte, coraggioso, generoso e fragile”, faceva il macchinista: come il protagonista del film di Germi, che fece lacrimare Waimer quando lo vide la prima volta. Stava guidando un camion nella ritirata di Russia quando fu fermato da un tedesco che gli disse di caricarlo: avrebbe procurato lui la benzina. L’autocarro avrebbe potuto caricare al massimo una quarantina di persone. Ma i soldati in ritirata continuavano a salire aggrappandosi al camion. Faceva così freddo che dopo un po’ erano stecchiti, assiderati. Il padre di Waimer raccontava che ogni tanto si doveva fermare per scaricare i morti. Quel tedesco si chiamava Waimer: procurando la benzina all’italiano, probabilmente gli salvò la vita, così come ai sodati italiani che non morirono assiderati. Ed ecco perché Waimer si chiama così (anche se all’anagrafe, per via d’una legge fascista, dovettero battezzarlo Walter). Quando Waimer dopo essersi diplomato disse a suo padre che voleva proseguire gli studi: “Lo vidi sconcertato quando gli dissi che sarei venuto a Trento per l’Università: Sono contento - mi disse - ma tu sai che non abbiamo soldi…“. Così per mantenersi Waimer fece diversi lavori, di sera e di notte: vinse anche un concorso da macchinista ferroviario, come suo padre, e vi lavorò qualche tempo.

Waimer Perinelli - Rai, primi incontri

Il personaggio di casa nostra

Nel 1971, a 23 anni sposò Laura Mansini, ragazza veronese, figlia di un affermato pittore, abilissimo restauratore di quadri e affreschi. Si chiamava Mario, era oriundo trentino perché sua madre era nonesa, di Smarano. Lui amava il Trentino; arrivava da Verona anche in bicicletta, almeno una volta all’anno, a trovare i parenti. Di cognome faceva ”Manzini”, ma quando lo avevano registrato all’anagrafe avevano scritto “Mansini”. Lui però continuava a firmarsi Manzini. Si sa che i veneti odiano la zeta e la sostituiscono con la esse (quando studiavo a Padova all’Università i miei amici veneti mi chiamavano ”Renso”). Waimer e Laura, una coppia molto affiatata e collaborativa, che ha messo al mondo due figli, Zeno e Marco Nicolò: il primo, nato il 28 febbraio 1973, mezz’ora prima che suo padre si laureasse in sociologia, abita a Rovereto, è avvocato a Trento, sposato con un’avvocata. Il secondo, Marco Nicolò, giornalista professionista e autore del romanzo Famagosta, è stato eletto sindaco di Tenna lo scorso anno. Ci sono anche due nipoti, Giulia e Azzurra, figlie di Marco Nicolò, che abitano nella stessa casa. Waimer aveva cominciato a scrivere su varie testate: la più nota era Tempo illustrato, settimanale pubblicato a Milano, su cui scriveva gente come Pier Paolo Pasolini e Giancarlo Vigorelli. Peccato che la rivista fallì e dovette chiudere nel 1976. Nel 1980, il Nostro divenne direttore giornalistico di Radio Dolomiti e addetto stampa del Teatro Stabile di Bolzano: begli anni in cui scoprì il teatro dal di dentro e conobbe gli attori dietro le quinte. Nel 1988, supportato dalla sua bella voce da speaker, fu assunto dalla Rai di Trento, andando in pensione nel 2013 con l’incarico di vicecapo redattore. Oltre a innumerevoli articoli, ha pubblicato due ricerche sociologiche ed un libro sui duecento anni del Teatro Sociale di Trento. Nonostante questo dice di sé: “Scrivo molto, ma non pubblico nulla, perché ho paura di rivelare la mia fragilità…”. E che cosa gli è rimasto dell’esperienza di sociologia? “Sono un sociologo non rivoluzionario. Considero la rivoluzione studentesca del ‘68 un atto borghese che, come sta succedendo oggi per i top manager, spostò solo la competizione sociale fuori della scuola italiana e aprì varchi di mobilità sociale alla media borghesia. Rispetto la rivoluzione operaia del ’68, stroncata dal terrorismo rosso, nero e da pezzi deviati dello Stato… Avevo il privilegio di essere studente lavora-

Rai, intervista con autografo a Paolo Rossi

Il personaggio di casa nostra

Vicecaporedattore Rai

tore e ritardai tre mesi la tesi di laurea perché quando dovevo sostenere l’ultimo esame, a novembre del 1972, la facoltà venne occupata. Solo dopo lunghe trattative riuscii a dare l’ultimo esame a dicembre”. Prima di scegliere Sociologia, aveva pensato di studiare Filosofia a Padova. Ma è anche appassionato di storia romana. Uno dei temi che più lo appassionano è quello della Provvidenza: “Credo fermamente nella Provvidenza; non nella manzoniana, ma la De Providentia di Lucio Seneca. Credo in Dio e nell’Ordine cosmico, temo il disordine umano”. Racconta accadimenti della sua vita: uno soprattutto. “Mia madre, fervente cattolica, è morta a 93 anni. Non la vedevo da un mese ed ero in Val Rendena, dove avevo accompagnato mia moglie, sindaco di Caldonazzo, per un incontro fra amministratori. Mia madre stava bene, ma nel primo pomeriggio, senza alcun motivo, sentii che dovevo andare a trovarla. Quando arrivai nel suo appartamentino, in una casa protetta a Peschiera sul Garda, era a letto. Fiacca, mi disse, stanca. Poi si addormentò. Le rimasi accanto tenendole mano e polso. Le dissi quanto era stata brava e del bene che le volevamo. Sentivo il battito del suo cuore, lento, sempre più lento. Poi si spense…”. Waimer abita con Laura a Tenna, in località Terrazze, con una splendida vista sul più grande lago del Trentino. Ha acquistato una villetta, alzandola di un piano per farci stare la famiglia del suo secondogenito. Quando risiedeva a Caldonazzo, nel 2011, fu eletto presidente del Centro d’Arte La Fonte, dando nuovo impulso a questa associazione fondata dal pittore Luigi Prati Marzari, oltre mezzo secolo fa, soprattutto rilanciando gli artisti di Caldonazzo (paese ricchissimo di artisti quali i fratelli Eugenio e Giulio Cesare Prati, il nipote Romualdo, Angelico Dallabrida, Edmondo Prati, Marzari, esponendo inoltre artisti famosi come Schweizer, Winkler, Verdini, Aldo Pancheri, con cataloghi curati dallo stesso Waimer, ospitando mostre in cui hanno figurato un centinaio di artisti). Nel dicembre del 2011, Perinelli organizzò per Manzini, scomparso nel 1992, una bella mostra con catalogo Entrato nella “riserva giornalistica” collabora con diletto al mensile Valsugana News ed è condirettore del periodico Feltrino News. Insomma, dai tempi in cui era studente-lavoratore, gli anni ruggenti di Sociologia, di lavoro culturale Waimer Perinelli ne ha fatto un bel po’…

Teatro Stabile di Bolzano con Valeria Ciangottini

L’Autonomia e i Comuni

di Marco Nicolò Perinelli *

LIBERI COMUNI IN LIBERA PROVINCIA

Una cosa è certa: alla battaglia di Legnano del 1176 i Comuni trentini non c’erano. Il Principato Vescovile emetteva i primi vagiti e le piccole Comunità trentine avevano ben altro da pensare. E anche oggi hanno altri pensieri e primo fra tutti quello di sopravvivere. Comuni grandi pensieri grandi; Comuni piccoli, pensieri ancora più grandi perché agli stessi problemi hanno risposte minori. Meno personale, meno soldi in cassa e da affrontare la gestione dei servizi, le strade comunali, i sentieri da ripristinare, i muretti di sostegno da ricostruire, il verde da curare e i monumenti da mantenere. Ma è proprio nei piccoli Comuni che risiede la vera essenza della nostra Autonomia, in quella cellula fondamentale che rappresenta la sua migliore espressione. Negli 845 anni che ci separano dalla Battaglia di Legnano, i Comuni trentini hanno imparato qualcosa che invece altrove è andato perduto, o comunque affievolito, ovvero la consapevolezza di essere parte di un sistema capace di autogovernarsi, facendo leva su un radico senso di appartenenza ereditato dalla storia e alimentato da quel principio di aiuto reciproco che caratterizza la gente di montagna, abituata da sempre a gestire le proprie risorse con oculatezza e a superare i lunghi inverni attraverso la collaborazione. Purtroppo oggi però i piccoli Comuni sono sempre più in difficoltà, di fronte a troppe incognite: ad oggi non sappiamo ancora, ad un anno dal Commissariamento, cosa sarà delle Comunità di Valle, un ente poco compreso ma che rappresenta per le realtà numericamente ridotte la salvezza sotto molto aspetti, a partire dai servizi sociali. E ancora vi è ambiguità – e siamo ad ottobre – su quel fondo strategico previsto dal Protocollo d’Intesa di Finanza locale almeno fino allo scorso anno, noto come Ex FIM, che costituisce ossigeno nel bilancio di tutte le municipalità. E mentre vengono presentati, almeno a mezzo stampa, progetti anacronistici per infrastrutture che quasi certamente non vedranno mai la realizzazione, ma che sicuramente saranno oggetto del dibattito della prossima campagna elettorale, ci si dovrebbe invece ricordare quanto la nostra Autonomia ci permetta di sognare in grande, di avere una visione diversa del futuro, di aprire nuove piste con uno sguardo verso l’Europa, verso l’agenda 20-30 e la creazione di un territorio davvero capace di guardare al futuro con quello sguardo che dona la cima delle montagne e non quello del fondovalle riservato a chi non ha la capacità, la voglia o gli strumenti per arrivare fino alla cima. Ci vuole coraggio, certo, ma ci vuole capacità e competenza, valorizzando quella classe dirigente che in Trentino c’è, ma che deve trovare stimoli per impegnarsi nell’amministrare. E questo si può fare valorizzando i Comuni, dando loro possibilità di portare avanti in autonomia i propri progetti, non costretti a recarsi a Trento con il cappello in mano, ma dando loro i mezzi per investire nel proprio futuro. Ora come ora i Comuni appaiono come “serbatoi” dove la Provincia può scaricare proprie responsabilità in periferia mentre accentra tutto il potere. Ma mentre Federico Barbarossa, nonostante la grande vittoria dei Comuni lombardi che si opposero alla spinta accentratrice, è passato alla storia come uno dei più grandi Imperatori del Medioevo e del Sacro Romano Impero, temo che il giudizio storico sarà meno clemente su questo nostro periodo. Fortunatamente oggi non abbiamo bisogno di Imperatori da sconfiggere e con la Provincia, dobbiamo dialogare, per dare ai 167 comuni trentini una nuova autonomia e libertà.

Strada chiusa, Tenna

*Marco Nicolò Perinelli è giornalista e sindaco di Tenna.

This article is from: