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La neutralità climatica come obiettivo comune
La neutralità climatica come obiettivo comune
La sostenibilità non è una moda, non più. Non lo è da nessun punto di vista e comunque la si intenda. E darle corso, in ogni ambito e con ogni mezzo, è una responsabilità in capo tanto alle imprese e ai Governi quanto ai consumatori. Ognuno nel suo ruolo
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di Sebastiano Corona
Comprare è un atto morale, oltre che economico. Lo dice la lettera enciclica Caritas in veritate firmata da Papa Benedetto XVI già nel giugno 2009. Lo dice più recentemente il Farm to Fork, la strategia pubblicata a maggio 2020 dalla Commissione europea che — nel proporre un piano ambizioso diretto a cambiare il sistema agroalimentare e non solo —, sottolinea che i consumatori dovranno essere più responsabili. Chi acquista non solo non deve più considerarsi impotente di fronte alle decisioni degli altri attori del mercato, ma deve essere consapevole della sua responsabilità, considerato che le sue scelte di fronte allo scaffale, hanno delle conseguenze sul piano economico, ambientale e sociale.
I mutamenti climatici, il depauperamento di risorse naturali, ma anche una scarsa qualità della vita di chi lavora, soprattutto in certi Paesi del mondo, sono unicamente responsabilità delle imprese oppure un ruolo importante, forse decisivo, è proprio di noi consumatori? In buona parte sì. Ne è convinto LEONARDO BECCHETTI, ordinario di Economia all’Università di Roma Tor Vergata e direttore del corso di specializzazione in European Economics and Business Law e del Master MESCI di Development and International Cooperation, che lancia un intrigante messaggio: votiamo con il portafoglio. Il nostro parere politico non si esprime solo nella cabina elettorale. Si può contribuire a definire le sorti del pianeta anche in altri gesti della vita quotidiana, primo tra tutti nel modo di fare la spesa. Tradotto, il potere economico è prima di tutto nelle mani di noi cittadini comuni.
Siamo noi a decidere le sorti di un prodotto, di un’impresa, di un canale commerciale, di un intero sistema economico. Siamo sempre noi a decidere se determinate filiere, mercati o Paesi dove manca il rispetto delle leggi minime, dei diritti universali, del pianeta debbano esistere o meno.
Il potere di chi acquista è notevole, per questo le scelte vanno fatte con responsabilità. Ognuno dovrebbe acquisire la consapevolezza del fatto che il proprio consumo o risparmio può fare la differenza nel sostenere o affossare aziende, territori, Stati e persino modelli produttivi.
Un semplice gesto, unito a quello di tanti altri che si muovono nella stessa direzione, genera un’azione politica vera e propria, destinata ad avere risvolti di sostenibilità ad ampio raggio.
Una sostenibilità che, come definita nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’Ambiente e lo sviluppo del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, si traduca in “uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente, senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
Una sostenibilità che si esprime dunque su tre elementi principali:
1. la tutela dell’ambiente, affinché vengano garantite la disponibilità e la qualità delle risorse naturali;
2. il sociale, perché si generi e si mantenga un elevato livello della qualità della vita, di equità, giustizia, di sicurezza e dei servizi per i cittadini;
3. infine l’economia, perché ogni intrapresa deve comunque garantire efficienza e reddito per l’impresa. Si tratta dunque di una visione attuale e futura dell’ambiente e dell’uomo che ne garantisce il proseguo senza sacrificare il profitto. Sostenibilità non significa infatti rinunciare alla ricchezza che l’impresa può generare. Tutt’altro. È il punto d’equilibrio tra le tre dimensioni, a cui ogni attore, per il suo ruolo, dovrebbe tendere.
A questo si è ispirata anche l’Assemblea Generale dell’ONU, che il 25 settembre 2015 ha adottato l’Agenda 2030, intitolata “Trasformare il nostro mondo. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”, dove definisce 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals), sancendo inoltre l’effettiva insostenibilità del modello di sviluppo attuale, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche sociale ed economico.
Ed è in tal senso molto chiaro il Green New Deal, il documento recentemente licenziato dalla Commissione europea, che prevede una serie di azioni politiche da attuare nei prossimi anni con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica nel Vecchio Continente entro il 2050 e che prevede, tra le varie cose, di ridurre di almeno il 50% le emissioni di gas a effetto serra nel prossimo decennio. L’intenzione è quella di rivedere ogni legge vigente in materia di clima e di introdurre nuove norme sull’economia circolare, sulla ristrutturazione degli edifici, sulla biodiversità, sull’agricoltura e sull’innovazione. Un piano straordinario che la presidente della Commissione europea, URSULA VON DER LEYEN, ha definitivo rivoluzionario «al pari dello sbarco dell’uomo sulla luna», poiché questo patto tra Stati renderebbe l’Europa il primo continente a neutralità climatica.
Appare insomma improcrastinabile l’attuazione di un sistema in cui le imprese e i Paesi che operano nel rispetto dell’ambiente e dei lavoratori vengano premiati, prima di tutto dai consumatori, nel momento in cui acquistano, ma in seconda battuta anche da meccanismi normativi incentivanti che conducano verso una politica di sostenibilità in senso ampio.
Ai Governi spetta il compito di sostenere le industrie che contribuiscono a questo modello, ma anche creare i presupposti per una giusta informazione e per un’educazione all’acquisto consapevole. Solo così il consumatore può prendere coscienza e rendersi conto dell’enorme impatto dei propri gesti sulle scelte delle imprese. Ricade dunque su di lui il compito di informarsi adeguatamente.
L’informazione non è infatti solo un diritto ma anche dovere. E ricade altresì su di lui una scelta d’acquisto che non sia condizionata unicamente dal prezzo, ma che tenga conto di ogni aspetto, dal canale d’acquisto all’impatto ambientale del packaging, dai chilometri che la materia prima o il prodotto trasformato hanno percorso prima di giungere allo scaffale, alle condizioni di vita e di lavoro di chi ha contribuito a realizzarlo, compresa la remunerazione di ogni anello della filiera e il rispetto, da parte dell’impresa produttrice e venditrice, della legge, non ultima quella fiscale e contributiva. Solo per fare alcuni esempi.
Ai consumatori manca però la consapevolezza del proprio potere: non sempre sono sufficientemente informati e, in certi casi, non sanno quanto le proprie decisioni possano influire. Eppure di esempi, anche recenti, di come l’opinione pubblica in un arco di tempo ragionevole sia riuscita a far cambiare meccanismi importanti, sono molti. Uno per tutti è quello dell’olio di palma, messo alla gogna per motivi diversi, forse in certi casi nemmeno del tutto noti a chi ha deciso di non acquistare più prodotti che lo contengano tra gli ingredienti. In pochi mesi molte delle industrie che lo utilizzavano non solo lo hanno sostituito con altri grassi, ma ora ne evidenziano l’assenza in ogni etichetta, trasformando quello che inizialmente è stato un problema, in una efficace leva di marketing.
Un altro esempio certamente meno clamoroso, ma ugualmente significativo, è quello del consumo dei ricci di mare in Sardegna. A seguito di un evidente depauperamento dei fondali dell’Isola, è partita infatti negli anni scorsi una campagna di sensibilizzazione del mercato finale che ha visto il coinvolgimento trasversale di consumatori ed operatori economici, perché ne venisse scoraggiato il consumo.
Il motto era quello di non consumarli oggi, per averli ancora domani, tanto più che il rischio di estinzione definitiva è tutt’altro che remoto.
Il risultato è stato che molti chef hanno tolto i ricci dai loro menu, stessa cosa hanno fatto alcune insegne della Grande Distribuzione Organizzata. Tutti operatori economici che, oltre ad aver lodevolmente contribuito alla causa sensibilizzando quei clienti che ancora non avevano fatto una riflessione sul delicato tema, nel rinunciare a commercializzare il prodotto, pur avendone avuto un immediato danno economico, hanno comunque registrato un ritorno in termini di immagine e di contributo fattivo ad una pesca sostenibile, che possa pertanto continuare sul lungo termine.
Azioni come quelle citate possono avere un effetto dirompente e su larga scala se si considera l’interdipendenza planetaria. La globalizzazione, infatti, non permette solo scambi commerciali tra economie lontane e diverse tra loro, ma si manifesta anche in altri ambiti e lo scambio velocissimo di informazioni può consentire in poco tempo che prese di coscienza locali vengano sposate in contesti ben più ampi e geograficamente distanti, con tutte le conseguenze del caso in termini di impatto sui mercati e sulla società.
«C’è un mondo che non ce la fa e che non può votare con il portafoglio nemmeno volendo. Ma c’è anche un’Italia che ha la disponibilità, che lo può fare e in certi casi lo fa con piacere, a prescindere dal prezzo a cui non bada in maniera eccessiva. Quelle persone devono votare con il portafoglio se vogliono creare un’economia migliore, che serva soprattutto a coloro che con il portafoglio in questo momento non possono votare»: questo risponde professor Becchetti a chi gli fa presente che il prezzo è per molti una scelta obbligata. Il tema merita in effetti un approfondimento specifico, poiché molto ci sarebbe da dire sulle ragioni che ci guidano negli acquisti, a prescindere dalla nostra reale disponibilità finanziaria. È sul serio il portafoglio il vero e unico problema? Si pensi alle spese discutibili che a volte si fanno. Non è soprattutto una questione di scelte?
Non lo è per esempio in un Paese in cui si continua a spendere in maniera importante in gioco d’azzardo, fumo o altre diavolerie, sacrificando la qualità del cibo, con la giustificazione che non si riesce a sbarcare il lunario?
Talvolta — non sempre purtroppo — non è tanto o solo una questione di conto in banca ma di priorità e di educazione al consumo. Non può essere sempre e solo il prezzo a guidare gli acquisti. C’è un detto: quando una cosa costa troppo poco, devi preoccuparti. Forse c’è dietro una materia prima di scarsa qualità, lo sfruttamento dei lavoratori, il mancato riconoscimento dei diritti di chi ha contribuito a realizzarlo o una produzione eseguita in barba alle norme sulla sicurezza, l’ambiente, il fisco. Non è detto che sia così, ma una valutazione è d’obbligo e non è più una scelta.
È una responsabilità di chi acquista, anche e soprattutto quando a comprare è la Pubblica Amministrazione. A maggior ragione, quando a decidere è un ente pubblico che utilizza risorse di tutti. Speriamo sia definitivamente tramontata la stagione delle aste al ribasso, dove l’unico criterio di scelta era quello dell’offerta, in barba a tutti gli altri elementi di valutazione, anche quando si trattava di acquisti di prodotti alimentari. Se anche la PA vuole operare per la costruzione di un mondo sostenibile, non può che tenere in giusto conto gli aspetti che riguardano la vicinanza o meno delle filiere, la qualità, il rispetto dei lavoratori, dell’ambiente e delle norme.
Il potere dei Governi è, anche da questo punto di vista, notevole. Qualunque Paese può introdurre divieti — per esempio di processi produttivi che danneggino cose, persone o l’ambiente — oppure può incentivare nelle modalità più disparate, comuni cittadini, imprese ed enti ad operare in un certo modo. Gli esempi sono innumerevoli. Uno per tutti, quello attuato da anni dall’Unione Europea, che vede l’esclusione di certi settori produttivi considerati a grande impatto ambientale da qualunque provvedimento di sostegno che implica l’erogazione di aiuti di Stato. Lo scopo è, non potendo impedire l’esercizio di certe attività, almeno di non incoraggiarle con provvedimenti a sostegno.
Certe tipologie di intrapresa, ancorché non vietate, sono penalizzate su diversi fronti. Al contrario, gli incentivi pubblici, di qualunque natura essi siano, vedono e vedranno sempre di più in futuro un meccanismo di premialità che non si tradurrà solo in contributi economici, sgravi fiscali e contributivi, ma anche vantaggi o corsie preferenziali in occasione di appalti, affidamenti diretti, bandi, misure di sostegno varie.
La sostenibilità non è solo un elemento di grande appetibilità commerciale, la cui popolarità è destinata a crescere sempre di più tra i consumatori. È anche l’elemento in assenza del quale, alla lunga, un’impresa sarà costretta a scegliere tra vivere e morire. Se ne sono accorte le insegne della Grande Distribuzione Organizzata per ciò che concerne l’alimentare.
Se ne sono accordi i grandi fondi d’investimento mondiali, disposti ormai a scommettere solo su imprese che vadano verso quella direzione, ma anche il mondo della finanza in generale, che pur avendo come priorità il profitto, vede un brulicare di fondi etici che, senza trascurare la resa economica, operano con presupposti nuovi e inclusivi.
L’Italia è stata pioniera, anni fa, nell’introdurre regole sulle pratiche sleali tra imprese, adottando norme che nella contrattazione privata tutelassero la parte più debole. L’Unione Europea ha seguito la stessa strada di recente, nella convinzione che le azioni che danneggiano determinati anelli della filiera a vantaggio di altri non facciano che generare scompensi e ripercuotersi, a monte, sulla vita della persone, violandone i diritti, talvolta sfociando in azioni talmente gravi da configurarsi come reato. Qui sono chiamati in gioco, a vario titolo, operatori economici, canali distributivi, soggetti pubblici e consumatori.
Anche provvedimenti come questo vanno verso un modello di sostenibilità. Quella che vuole che ogni soggetto economico, soprattutto quelli più deboli nel mercato, non vengano schiacciati da chi detiene il maggior potere. Quel tipo di sbilanciamento non può infatti che tradursi in condizioni di lavoro inique, in mancanza di rispetto dei lavoratori e degli imprenditori più piccoli, talvolta anche in caporalato.
Insomma, alcune cose sono state fatte, molte restano da fare. Bisogna lavorare perché si crei l’assunzione di una nuova responsabilità. Prendere una direzione diversa non è facile, ma nemmeno impossibile. Come sostiene il professor Becchetti: «il mondo cambia con un’azione a quattro mani: Stato, Mercato, Cittadinanza attiva, Imprese responsabili». Se ognuno sta nel suo ruolo e lo esercita sino in fondo, è solo questione di tempo.
Sebastiano Corona