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Il Grasparossa è Cru

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Le Morette

Le Morette

di Federica Cornia

Siamo a Castelvetro, in provincia di Modena, sulle colline del Lambrusco Grasparossa in visita alla Fattoria Moretto

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L’azienda oggi è gestita da due fratelli, Fausto e Fabio, terza generazione della famiglia Altariva. Un amore per il vino e il territorio il loro, che parte da lontano, da quando negli anni ’60 Antonio Altariva, il nonno, scende da Pavullo nel Frignano verso le colline di Castelvetro per fare il mezzadro e comincia anche a vendere uva e vino in damigiana di produzione propria. Quando nel ’71 il figlio di Antonio, Domenico, detto Moretto, acquista una casa e 2,5 h di terra, ecco gettate le fondamenta della prima vigna di proprietà e della cantina. Nel 1991 il passo decisivo lo fanno i due fratelli, che dal padre ereditano la stessa passione per Lambrusco e viti- coltura, fondando l’azienda vitivinicola Fattoria Moretto, a cui danno questo nome proprio in onore di Domenico. Fabio e Fausto si dividono i compiti in base alle propensioni di ognuno: Fausto si occupa della parte produttiva, di vigna e cantina, Fabio della parte commerciale nazionale ed estera e del rapporto con gli agenti. Nel ’95 Fausto decide di coltivare la vigna secondo il metodo della lotta integrata, primo passo verso l’agricoltura biologica. Sono questi gli anni di un cambio radicale nella produzione del vino, gli anni che segnano l’evoluzione del Lambrusco della Fattoria con il passaggio dalvino rifermentato in bottiglia all’utilizzo di autoclavi d’acciaio. «L’obiettivo era ottenere vini più puliti, più eleganti e più costanti. Un vino che rispecchiasse le caratteristiche del territorio. È questa la mission dell’azienda» sottolinea Alessio Altariva, figlio di Fabio.

Laureato in Economia e marketing internazionale e in Enologia e viticoltura, è lui ad accogliermi e a ripercorrere con me la storia della Fattoria Moretto e il cambio di status che negli ultimi decenni ha interessato, e sta interessando, questo vino frizzante dall’anima contadina. Il carattere esuberante e la caratteristica spuma che lo contraddistinguono nascono dalla pratica della vendemmia tardiva cui il Grasparossa era soggetto: la buccia spessa degli acini permetteva alle famiglie contadine di posticipare la raccolta, senza alcun danno per l’uva — anche se la maturazione scappava un po’ —, e di portare così a termine i lavori che erano principale fonte di reddito. Ne conseguiva che si ottenevano mosti con elevato grado zuccherino. Col freddo la fermentazione non avveniva completamente, si bloccava per ripartire in primavera, quando le temperature tornavano a riattivare i lieviti ancora contenuti negli zuccheri che, in ambiente ermeticamente chiuso, facevano partire la seconda fermentazione. «Questo procedimento — sottolinea Alessio — oggi sta tornando un po’ di moda. Per noi però il controllo della temperatura nel processo di vinificazione, che nel Lambrusco un tempo veniva lasciato un po’ al caso, è fondamentale per ottenere un prodotto sempre più salubre e controllato in ogni suo passaggio».

Ben lontana dai grossi volumi delle grandi produzioni industriali, è in quest’ottica che l’azienda reinterpreta l’utilizzo dell’autoclave, strumento che da queste parti si è diffuso per le grandi produzioni negli anni ’60-’70.

Nelle zone pianeggianti dell’Emilia Romagna è diffusa la forma di allevamento a doppia spalliera (GDC-Geneva Double Curtain) che consente la totale meccanizzazione di tutte le operazioni colturali. Qui in collina che impianti utilizzate?

«Noi impieghiamo i due sistemi a controspalliera più utilizzati qui in zona, il cordone speronato e il guyot. Tra i due c’è una piccola differenza di resa e la scelta dell’impianto da utilizzare viene fatta in virtù più che altro del tipo di terreno. Come lavorazioni sono molto simili. Poi dipende dalle varietà che usi».

Siete stati tra i primi a lanciare nel vostro territorio l’idea della produzione di un vino Cru?

«Mi ricollego al discorso dell’autoclave. Sebbene nasca con l’intento di massificare le produzioni per renderle un po’ industriali, se utilizzata in un certo modo è uno strumento per aver più controllo sulla vinificazione e valorizzare di più quello che c’è “prima”, cioè l’uva, la vigna, il territorio. Ecco, a noi interessa proprio valorizzare vigna, uva e territorio. Come farlo? Questo è una zona di contadini che per la maggior parte aveva la vigna. Quello che si faceva una volta era di prendere tutte le uve, metterle insieme e fare una vinificazione abbastanza standard. A nessuno è mai venuto in mente, almeno fino a qualche anno fa, di tenere separate le uve di un vigneto da quelle di un altro perché sono diverse anche se sono di Lambrusco Grasparossa.

Abbiamo pensato a territori più blasonati del nostro, per esempio la Langa del Barolo, la Borgogna in Francia, al loro modo di lavorare: non valorizzano più di tanto il vitigno in sé, quello che per noi sarebbe il Lambrusco Grasparossa, ma valorizzano il territorio. E come lo fanno? Con una classificazione che si basa, appunto, sul territorio stesso. Ogni collina, ogni spiazzo, ogni vigna ha caratteristiche diverse dalle altre e ha un nome che li identifica. Ci siamo ispirati un po’ a questo tipo di ragionamento e ci siamo detti “perché non farlo anche noi col Lambrusco?”

Se crediamo veramente che il Lambrusco sia un vino di qualità e vogliamo cercare di dimostrarlo e valorizzare il nostro territorio, penso che la direzione sia quella di iniziare a lavorare diversi vigneti, che si trovano in posti diversi, con terreni diversi, esposizioni diverse, ad altitudini diverse, e lavorarli separatamente, non più mettere tutte le uve insieme. È da questo approccio che sono nati i nostri due Cru, il Monovitigno e il Canova, due vini ottenuti dalle uve di due vecchie vigne, un impianto del ’69 e uno del ’71, che ad ogni vendemmia avevano qualcosa di diverso dalle altre uve: maturazioni migliori, più profondità di materia, più succo, più ricchezza. Questo è un po’ il concetto di Cru che nasce dalla Francia, passa attraverso il Piemonte e di cui oggi si parla sempre di più.

Fare questo discorso per il Lambrusco era un po’ da pazzi. Dato il valore che delle uve, chi te lo faceva fare di organizzare raccolte separate, stare attento a non mischiare tutto? Però per noi quella è stata la svolta: ad oggi i riconoscimenti e i premi che otteniamo li riceviamo spesso per queste due etichette. Penso che sia perché hanno qualcosa da dire».

Secondo voi il Lambrusco è penalizzato dal fatto che è considerato un vino da bere giovane?

«Penso che di questo aspetto il Lambrusco possa farne la sua forza. Non dobbiamo sempre ostinarci a pensare che tutti i vini migliori o più buoni siano vini da conservare in cantina per 15 anni per poi dover sprigionare chissà quali aromi. Ci sono vini che sono fatti per quello e vini, come il Lambrusco, che hanno una prontezza, una freschezza che pochi altri vini hanno.

A volte ci ostiniamo, anche per cultura, a pensare che una data cosa sia meglio di un’altra e tutti ci troviamo poi ad imitarla. Invece secondo me alle volte è meglio fare un passo indietro, capire che cosa si ha tra le mani e cercare di valorizzare quello che c’è. Secondo me deve essere un po’ questa la chiave dell’interpretazione. E penso che il Lambrusco possa essere recuperato. Che si possa riscattare dall’identificazione con un vino dolce, di bassa qualità ed economico». Reputazione, spiega Alessio, che risale agli anni ’70, momento di grande diffusione del Lambrusco e del boom delle esportazioni in USA, periodo in cui si sfruttava il fatto che fosse un vino di pronta beva e per questo lo si lasciava un po’ zuccherino, con gradazioni alcoliche bassissime, caratteristiche che gli fecero guadagnare la nomea di “Coca Cola italiana”. «In tutto questo — sottolinea — se non altro c’è stato l’aspetto positivo di diffondere la conoscenza dell’esistenza del Lambrusco nel mondo. Oggi c’è un’evoluzione in atto, iniziata da circa 15/20 anni, da quando tante piccole aziende si sono messe a produrre Lambrusco impegnandosi nella ricerca di qualità. È il lavoro di queste aziende che sta cambiando il mercato. Ce ne accorgiamo per la domanda e il tipo di domanda. Gli Stati Uniti, per esempio, tirano le fila del mercato del Lambrusco di qualità tanto che aziende molto grosse, che hanno sempre lavorato più sulla quantità, oggi hanno piccole linee dedicate proprio alla qualità».

Con il cambiamento a livello produttivo da parte dei viticoltori si può dire che sia cambiata e stia cambiando la percezione del Lambrusco da parte del pubblico quindi. E anche i costi sono cambiati.

«Sì, sta cambiando. Tra chi ancora non spenderebbe una certa cifra per comprare una bottiglia di Lambrusco, c’è invece chi è curioso e la compra. Si sente interesse e c’è richiesta. Quello del costo è un passaggio importante, obbligatorio. I costi sono giustificati da investimenti e dall’offerta di servizi nuovi in un territorio a vocazione contadina, dove la mentalità è ancora quella e non molto orientata alla ricettività. Però anche qui c’è un cambio generazionale in atto. È un processo che richiede tempo, che sta avvenendo e che potrebbe essere una grande risorsa per il territorio. Ma c’è ancora molto da fare. Ad oggi siamo ancora indietro, sebbene ci sarebbe da cavalcare un’onda importante come quella di aver qui vicino, a Maranello, la Ferrari».

Fattoria Moretto in tal senso si è già organizzata: dal lunedì al sabato è possibile prenotare una degustazione, previa prenotazione, con visita in vigna e in cantina: «Nel turismo ci abbiamo puntato, creduto e investito quando, dieci anni fa, abbiamo inaugurato la nuova cantina con sala di degustazione nella quale siamo in grado di accogliere 10-15 persone. Dal 2015, anno in cui abbiamo iniziato, da 100 visitatori siamo passati a circa 700 all’anno. Poi c’è stata la battuta di arresto dovuta al Covid. Con un minimo di lungimiranza non si può non considerare questo aspetto di sviluppo e crescita. Abbiamo così tanto da offrire come territorio. Ci vuole però un’offerta affidabile. Che tenga conto che la gente vuol fare un’esperienza e bere vino».

Il cambio di status del Lambrusco ha a che fare con la qualità e anche con il tipo di consumo. Come promovete il vostro lavoro, il vostro prodotto?

«Io personalmente faccio parte del Gruppo Giovani del Consorzio Tutela Lambrusco di Modena con cui stiamo realizzando eventi ad hoc per cercare di promuovere l’abbinamento del Lambrusco con una cucina che sia diversa da quella tradizionale. Con diverse aziende del Consorzio, per esempio, abbiamo partecipato ad una serata di degustazione in un ristorante giapponese a Milano, in cui sono stati serviti 4 o 5 piatti, ognuno con un Lambrusco prodotto da un’azienda diversa, in base agli abbinamenti. A me piace molto il discorso dell’Asian food perché utilizza anche la carne di maiale, molto usata anche da noi, però con l’aggiunta di spezie e piccante. Il Lambrusco poi si abbina benissimo anche con la pizza. In base all’abbinamento con Sorbara o Grasparossa si può giocare sul condimento. Il Canova per esempio è un lambrusco che consiglierei con un qualcosa di strong, con una pizza che abbia come ingrediente la carne. Con una pizza più delicata, come può essere quella con prosciutto, pomodorino a crudo e stracciatella, vedo bene il Tasso. Comunque il Gruppo Giovani del Lambrusco è attivo e di progetti ne ha tanti. L’obiettivo è avvicinare i giovani al Lambrusco di qualità».

Cos’è il Progetto Montebarello 155?

«Montebarello 155 è un progetto che nasce, a livello pratico, nel 2019, prima del Covid; a livello teorico invece prende forma molto prima e nasce da una esigenza precisa, quella di valorizzare la produzione di Lambrusco Grasparossa di collina. La denominazione Grasparossa di Castelvetro comprende una zona pianeggiante, pedecollinare e collinare del territorio in provincia di Modena. Ma la viticoltura di pianura e quella di collina sono diverse: nella seconda hai più difficoltà perché, oltre alle pendenze, c’è il discorso delle rese più basse. Fai fatica a meccanizzare i processi, cosa che comporta operazioni anche manuali e dunque costi differenti. C’è poi differenza anche a livello organolettico, per via delle caratteristiche diverse del terreno. I costi sono più alti e le rese minori.

Nel 2019 così, insieme ad altre aziende, abbiamo deciso di promuovere l’istituzione di una sottozona, quella di Montebarello appunto. Lo abbiamo fatto proponendo un disciplinare aggiuntivo a quello del Lambrusco Grasparossa di Castelvetro DOP, che abbassa le rese massime e vuole creare un biodistretto. Chi aderisce deve praticare l’agricoltura biologica, o essere un’azienda in conversione, fare la raccolta, a mano, delle uve di Grasparossa al 100%. Vuole essere un disciplinare espressione di altissima qualità del prodotto del territorio di collina.

È una cosa che ci avvicina al discorso di prima, quando parlavamo delle Langhe e della Borgogna e della valorizzazione del territorio, non solo di un vitigno».

Avete progetti per il futuro?

«Abbiamo sempre dei progetti. Naturalmente a lungo termine». Federica Cornia

>> Link: www.fattoriamoretto.it

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