Brutte storie, bella gente - Gianfranco Mattera (estratto)

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Realizzazione editoriale: studio pym / Milano Š EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2018 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-922-1358-6


A Marta, che sboccia al mondo



Prefazione

Le storie di Servizio Sociale che Gianfranco Mattera mette nero su bianco sono pagine di vita, patrimonio di ogni singolo assistente sociale che giorno dopo giorno, mese dopo mese, spende la propria professionalità al servizio degli altri per capire, aiutare, lavorare con le persone per creare insieme a loro futuri diversi e migliori. Ismail, la signora Abel, Mariuccia, Mansurah, Adele sono fotografie, tasselli di un puzzle che ogni giorno viene composto dall’assistente sociale Gatti (il protagonista): una mano che aiuta altre mani a muovere i fili della loro vita e a cercare un senso in momenti difficili, di passaggio, dolorosi. Il senso del lavoro di Gatti ha lo stesso sapore, lo stesso peso specifico di quello che i colleghi che appartengono all’Ordine svolgono nei vari contesti in cui esercitano la loro professione: accompagnare le persone che hanno bisogno di un aiuto verso un orizzonte migliore, lavorare affinché le comunità che ci ospitano possano essere nutrienti e inclusive. Mostrare la quotidianità dell’assistente sociale Alessandro Gatti è aprire una finestra sul nostro lavoro. Per il Consiglio nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali, i Consiglieri Federico Basigli e Valentina Raimondo 7



Prologo

Oggi niente ufficio, niente telefonate, niente mail, niente colloqui, niente relazioni. Sono in via Giuseppe Verdi numero ventisei, in università, presso la Facoltà di Sociologia di Trento, corso di Laurea in Servizio Sociale. Sono stato invitato a un seminario organizzato dalle tutors universitarie per dare testimonianza dell’operato degli assistenti sociali. A margine dell’incontro, durato due ore, due ore in cui mi sono sgolato, due ore in cui ho tentato di spiegare agli studenti i principi e i valori che incarnano la professione: dignità libertà unicità uguaglianza socialità solidarietà responsabilità partecipazione giustizia equità sociale; due ore in cui ho fatto esempi sulle situazioni e sulle problematiche di chi si rivolge ai Servizi Sociali, sulle modalità 9


di risposta ai bisogni da parte degli assistenti sociali; due ore in cui ho raccontato la mia esperienza, i miei vissuti, le mie impressioni, le difficoltà, le incombenze, le responsabilità, i luoghi comuni… dopo due ore: una studentessa ha alzato un dito. Le ho dato la parola. «Mi scusi, signor Gatti: in che modo risolve i problemi degli utenti?». È stata l’unica domanda che ho ricevuto dagli ottantatré studenti presenti in aula. Settantotto femmine, cinque maschi. È un dato di fatto: siamo in pochi, una minoranza. Rifletto su questo aspetto prima di dare una risposta alla studentessa: biondina, appariscente, poco più che ventenne, apparentemente sicura di sé. «Signorina, non risolvo problemi. Almeno non da solo. Aiuto le persone a riconoscerli. Ad affrontarli. In modo appropriato. Per quel che mi riesce». Silenzio in aula: non un commento, non un bisbiglio, solo qualche faccia contrita, qualcuno che scalpita per andare via. Forse a un’altra lezione, al bar, in bagno, in strada, comunque altrove. È visibilmente insoddisfatta, la studentessa, si aspettava altro, lo intuisco. Mi metto nei suoi panni: a vent’anni è complicato capire che spesso bisogna fare un passo indietro, che non s’interviene al posto delle persone, che non bastano il nostro impegno e le nostre conoscenze, che non è sufficiente la nostra professionalità, che sono le persone stesse a imporre dei limiti alle nostre azioni. Lavoriamo insieme, non possiamo sostituirci loro. Non sarebbe eticamente corretto. Nostro scopo è perseguire la loro autodeterminazione, renderle soggetti attivi del proprio progetto di vita. Ciò 10


comporta che spesso non si ottengono i risultati sperati, che sovente occorre fare i conti con il fallimento, e di conseguenza si evidenzia la necessità di ripensare un percorso, una strada, una pista progettuale. Forse è questo il segreto: considerare che è sempre tempo di mettersi in gioco, di provare ad andare lì dove si trovano le persone, di parlare la loro lingua, con le loro parole, nel loro ambiente di vita. L’aula si svuota velocemente. Resto in solitudine, spengo il proiettore, riordino le slide, sistemo la borsa, tiro le tende. Guardo fuori dalla finestra: mi rendo conto di non essere riuscito nel mio intento. Purtroppo sono rimasto in superficie, non ho raccontato storie, non per come avrei voluto, non per come avrei potuto. Ciò che è peggio: non ho suscitato emozioni, non ho destato interesse. In sostanza: non so quanto gli studenti abbiano raccolto dal mio intervento, che idea si siano fatti della professione, quanto si portino via dall’incontro odierno. Certo, si faranno sul campo, come ho fatto io. Ma in attesa che ciò avvenga: come spalancare loro le porte del mio ufficio? Come farli entrare e osservare chi vi entra? Come accendere il loro auricolare sui rumori del mondo?

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La signora Abel

Faccio accomodare la signora Abel, marocchina, cinquantun anni, separata, una storia di violenza familiare alle spalle, tre figli già adulti che l’hanno disconosciuta preferendo la convivenza con il padre. Il signor Abel beve. Per lui non è un problema, nemmeno le volte in cui ha riempito di botte la moglie, neanche quando l’ha mandata in ospedale con i lividi in faccia, il naso sanguinante, un polso slogato. È stata coraggiosa la signora Abel, rifiutando di sottomettersi. Ha denunciato, ha chiesto aiuto, si è ricostruita una vita: un lavoro come addetta alle pulizie in una ditta di Mattarello, un miniappartamento decoroso in periferia a Romagnano, il volontariato con le donne che tentano di uscire da una condizione simile alla sua. C’è però il peso dei figli da sostenere, l’insopportabile accettazione di sapersi rifiutata come donna e madre. Viene ogni settimana la signora Abel, parla poco, si esprime con il pianto, è la sua necessità: sentirsi accolta, poter piangere davanti a qualcuno che la sostenga e le faccia forza. Ringrazia sempre, la signora Abel, si scusa per il disturbo, si asciuga gli occhi, mi stringe la mano, con delicatezza. 13


«I figli… assistente» mi dice con un filo di voce strozzato in gola. «I figli. I figli no!», scrollando il capo. È da due settimane che la signora Abel non si presenta in ufficio. Non è da lei, non è nel suo stile non avvisare, non giustificare la propria assenza. Provo a contattarla sul cellulare: è irraggiungibile. Ritento dopo cinque minuti: parte la segreteria. Le lascio il messaggio di telefonarmi appena le sarà possibile. Non vorrei che le fosse accaduto qualcosa di spiacevole, un litigio con l’ex marito, una discussione con i figli, un problema sul lavoro. Proviamo a stare in equilibrio con la signora Abel, a consolidare la scelta di ricostruire un progetto di vita indipendente, a non cedere al ricatto psicologico messo in atto dall’ex marito. A lui è intestata la casa di Ravina in cui vive con i figli, lui ha investito i risparmi, lui gestisce il conto cointestato con le Casse Rurali e trattiene i bancomat, lui manipola i figli, lui li costringe a non avere contatti con la madre nel tentativo di coartare la signora Abel a chiedergli di ritornare con lui, sotto il suo tetto, sottostando alla sua autorità. Per questo procedo con colloqui ravvicinati: per sostenerla, per incoraggiarla, per non farla sentire sola. Gabriella, la segretaria del Servizio Sociale, mi avverte che in sala d’attesa c’è la signora Abel. Vorrebbe che la ricevessi subito: cinque minuti, non chiede altro. Ha da darmi una notizia, nulla di urgente, ma per lei sarebbe importante condividerla con me. Decido di farla entrare, anche se non ha un appuntamento, anche se ho una marea d’impegni e non so come districarmi, a chi o cosa dare precedenza. 14


Avrei dovuto contattare la signora Abel nei giorni scorsi, chiederle il motivo per cui non si era presentata a recapito. Non ce l’ho fatta! Metto da parte le scartoffie: una richiesta di amministratore di sostegno al giudice di pace, l’attivazione di un servizio educativo a domicilio, il ripristino di un telesoccorso per un’anziana sola appena dimessa dall’ospedale. Le porterò a termine nel pomeriggio, sperando di non doverle rinviare a domani. Accolgo la signora Abel sulla porta: è raggiante, ha il miele negli occhi; una luce rara che ho visto poche volte durante i miei venti anni di professione. La signora Abel mi prende le mani, le stringe nei pugni, le sue tremano. Lei sempre così composta, al suo posto, discreta, dignitosa, pure nei momenti più difficili, quelli in cui si è fatta coraggio e ha denunciato l’ex marito – per le percosse, per gli abusi, per le violenze. Lei così pudica anche durante i suoi sfoghi, i suoi pianti, per l’insopportabile condizione di sapersi lontana dai figli, di non avere il loro appoggio, la loro solidarietà; nonostante abbiano assistito alle sfuriate del padre, agli spintoni, agli schiaffi, nonostante sappiano chi sia il padre: un alcolista, un violento, un uomo deprecabile che non si fa scrupolo di legarli a sé con il terrore. Non riesce a ordinare una parola dietro l’altra la signora Abel, a darsi un freno. Il mento le labbra le palpebre: è tutto un tremore. «Grzie… assestente» smozzica tra i denti. «Per cosa signora?». «… Per pazienza… Con me». «Ma si figuri!» le rispondo con il viso disteso e il tono accogliente per smorzare l’impaccio. 15


Faccio accomodare la signora Abel, mi siedo vicino a lei. Niente scrivania tra noi, niente divisione, per metterla a proprio agio: «Signora! Cos’è successo?». «Terzo figlio. Più piccolo. Mohammed». «Cos’ha combinato?». «Nienti. Lui bravo. Venuto me». «Oh! Che bella cosa». «Prima volta. Venuto. Miia casa». «Immagino sia contenta». «Sì». Piange la signora Abel. È un pianto finalmente felice, liberatorio, mischiato al sorriso. Dopo mesi di silenzi, d’impotenza, di solitudine. Mesi in cui ha aperto la porta del cuore e ha raccontato a uno sconosciuto assistente sociale il suo dramma di donna immigrata sottomessa a calci, a pugni, a improperi al suo ex marito. Si è fidata di un uomo la signora Abel, si è affidata. Non era semplice, non era scontato, dopo tutto quello che ha subito: ventiquattro giorni di ricovero in ospedale, un braccio spezzato, lividi profondi sul volto. Porta i segni la signora Abel, cicatrizzati sulla pelle. Poi il passo decisivo: la denuncia presso il comando dei Carabinieri di Trento. La decisione dei figli di non schierarsi con la madre, di non condannare il comportamento del padre, di restare con lui. Forse per paura, forse per cultura, forse per educazione: perché così si fa, così si deve. Il sostegno del centro antiviolenza, i tre mesi di accoglienza in casa rifugio, la lenta costruzione di un progetto di vita indipendente con il timore di non farcela, di cedere ai ricatti dell’ex marito: per i figli, per non perderli. La successiva partecipazione a un corso di formazione, un lavoro, 16


una casa, ma anche l’isolamento, l’emarginazione familiare. Più di un anno senza incontrare i figli, malgrado la mediazione tentata e fallita dal Servizio Sociale con il mio intervento. Qualche telefonata sporadica ai figli, mai spontanea fino in fondo, perché certi argomenti non si toccano con i maschi della famiglia, sono tabù per le donne. Dopo tutto questo buio alla fine del tunnel, un raggio di luce per la signora Abel, uno scorcio di azzurro fra nuvole fitte, la visita inaspettata del terzogenito Mohammed. Non entra nei dettagli la signora Abel, non è in grado, almeno non subito. Troppa la commozione, la contentezza: «Successo lunedì, per questo no venuta, pronta uscire, lui bussato». «Nessun problema». «Voleva dire te, tu aiuta me, dire cosa belle, no solo cosa brutte». «Giusto!». Esprimo alla signora Abel la mia gioia per lei. Quello che sembra un piccolo passo in circostanze normali per lei equivale a tornare a respirare, a guardare con il naso all’insù il cielo, ad accorgersi che esiste ancora, che non è cupo. Evidentemente a Mohammed mancava la madre e ha voluto incontrarla. Non si sono detti molto, soprattutto non hanno parlato del padre. Quel che conta è che madre e figlio si sono ritrovati. Mohammed le ha promesso di tornare a trovarla, con i due fratelli maggiori: anche loro avrebbero piacere di rivederla; e tanto basta alla signora Abel per la felicità. Cinque minuti si sono trasformati in tre quarti d’ora, concludo di non mettere sull’attenti la signora Abel, di non al17


larmarla, di non puntualizzarle che la ripresa di un rapporto con il figlio è solo un inizio, non l’arrivo, e come tale dovrebbe essere colto. Più di tutto non significa che i figli giustifichino l’allontanamento della madre, qualsiasi ne sia il motivo. Adesso è giusto che la signora Abel si senta libera di gioire, di godersi l’istante, del resto bisogna pensare positivo: se Mohammed ha fatto un passo del genere con o senza il consenso del padre, qualcosa si è mosso, e se qualcosa si è mosso, niente vieta d’ipotizzare ulteriori sviluppi. Le relazioni mutano di pari passo alle persone, si trasformano, si evolvono, sono in continuo movimento, c’insegnano che nella vita si cambia, si può cambiare. A volte il cambiamento è necessario per noi stessi, per le persone a noi care: basta volerlo! Questo spererei per la signora Abel: l’amore dei figli, null’altro. Sono costretto a congedare la signora Abel, ci rivedremo più avanti, per fare il punto della situazione. Stamattina ero convocato in via Rosmini presso il Tribunale per i Minorenni per un’udienza davanti al giudice onorario. C’era in ballo il rinnovo della collocazione di un ragazzino presso una struttura residenziale a Riva del Garda. Al rientro negli uffici del Servizio Sociale la mia collega Anita mi ha avvisato che è passata a cercarmi la signora Abel. Non trovandomi si è intrattenuta con lei, confidandole che ha incontrato in un bar di via Manci i tre figli. A differenza della volta scorsa la signora Abel non ha mostrato felicità. Anita le ha scorto un velo di tristezza nello sguardo, forse trattenuto per pudore, forse perché la signora Abel non conosce Anita ed è difficile aprirsi e raccon18


tare di sé a una sconosciuta, seppure assistente sociale, seppure deputata istituzionalmente ad ascoltare i tuoi bisogni, il tuo stato d’animo, il dolore che ti attraversa. La signora Abel ritornerà la prossima settimana, giovedì mattina, alle nove e venti. Se avrà urgenza mi telefonerà: è questo l’accordo preso da Anita. La signora Abel ha fretta, è in ritardo, a mezzogiorno comincia le pulizie negli uffici delle poste, prima in via Muredei, poi in Viale Verona, poi in via Sant’Anna, infine a Mattarello. Colpa mia! Mi sono dilungato nei colloqui. Ultimamente le situazioni mi appaiono sempre più complesse, invece di dipanarsi si complicano, s’ingarbugliano, richiedono più attenzione, un maggiore dispendio di energie mentali. Dico alla signora Abel che Anita mi ha informato che lunedì scorso è stata a recapito, che ha atteso vanamente il mio arrivo, che ha rivisto i figli, ma che l’incontro non è andato come si aspettava. La signora Abel prende fiato, sospira, si tiene la pancia: i suoi figli le hanno chiesto di tornare a vivere con loro, con il papà, con l’uomo che l’ha malmenata e da cui è scappata. I suoi figli l’hanno pregata di mettere da parte il passato, di ritornare a essere una famiglia. La signora Abel ha rifiutato. Ha pagato il caffè, ha baciato i suoi tre figli, li ha abbracciati ed è andata via. Prima di uscire dal bar ha detto loro di chiamarla se hanno desiderio di vederla, se hanno bisogno di parlare con lei, se vogliono un suo consiglio: lei per loro ci sarà sempre. «Assestente! Manda da me lori padre». «Ti eri illusa». 19


«Io contenta. Io visto. Tutti tre. Loro sta bene». «Sei la loro mamma. Ti cercheranno. Li rivedrai». «Sì. Sì… Ora va. Lavoro. Pulisco uffisci». È una delle poche volte in cui io e la signora Abel ci salutiamo con un sorriso. Non credo che ritornerà presto al Servizio Sociale, è tempo di lasciarle la mano, di farla camminare da sola, oramai ha maturato le sue scelte, le ha sofferte, sedimentate. Ha una certa esperienza nell’attraversare il dolore, è pronta per affrontare il suo ex marito, i figli, per mettere da parte i mostri del passato.

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