Eureka!

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Panoramica e formulazione di percorsi progettuali atti ad una ri-scoperta creativa consapevole

POLITECNICO DI TORINO Dipartimento di Architettura e Design Corso di Laurea in Design e Comunicazione Visiva Relatore Paolo Marco Tamborrini Candidato Eduardo Viviani

Febbraio 2015



Introduzione

“Ogni idea ha una genesi, piccoli eventi o situazioni che ne innescano l’inizio. Potrebbe essere una conversazione casuale, una passeggiata per strada, un foglio che hai letto... potrebbe essere la caduta di una mela in testa!” Ana Sousa Carvalho sintetizza così il suo progetto artistico di indagine sulle pietre focaie delle idee, istituendo un archivio digitale nella speranza di portare luce su questo processo che, nei primi decenni del duemila, assume ancora una conformazione dai tratti mistici. Da che il mondo ha prodotto idee, sono sorti interrogativi su quali dinamiche avrebbero potuto essere stimolanti per esse e del perchè alcuni individui apparissero come più “portati” ad innescarle. Questa tesi si propone di analizzare sei metodi che, dagli anni ‘70 ad oggi, si sono distinti nel processo di esplorazione, in un contesto americano costantemente in bilico tra un’approccio mentale logico ed uno sensoriale. In aggiunta, viene presentato l’esito di due esperimenti. Il primo, atto ad analizzare le lacune degli individui a proposito dei miti legati alla creatività e alle difficoltà nell’uso dello strumento del disegno, anche negli ambiti creativi per eccellenza, come il design. Il secondo, estrapolato dal mondo dell’animazione, ha come primo intento testare un possibile spunto per affrontare i processi mentali legati alla riproduzione visiva del mondo. In seconda battuta, costituisce una metafora del modo in cui è possibile affrontare un problema: scomponendolo, per poterlo guardare da un punto di vista diverso ed elaborarlo, come diceva Martin Luther King, “un gradino alla volta”.



Indice

1. Il fallimento dell’Ispirazione Miti archetipi In rapporti produttivi 2. Metodi Premessa De Bono e il Pensiero Laterale Edwards e la scissione cerebrale Cameron e i flussi energetici IDEO e il valore del condizionale Smith e la visione sensoriale July e l’esperienza emotiva 3. Creatività oggi Potere agli stupidi! Essere celebri su Tumblr Steal&Remix 4. Concept Art Origini Mitologie e fondamenta Richards e il remix visivo 5. Approcci educativi Rapporto scolastico Blocchi Casi Studio PROGETTO “Essere creativo”, test#1 “God is a DJ”, test#2 Applicazioni web Conclusioni Appendice Tavole di Progetto Bibliografia Sitografia



“La cultura è come il maiale: non si butta via niente.” Riccardo Guasco



Capitolo 1

Il fallimento dell’ispirazione

Miti Archetipi

non è la capacità di saper scegliere il colore adatto ad un logo. Il Creativo è, per dirlo con un’altra moda del momento, innanzitutto un problem solver. O, prima ancora, un problem “shaper”.

Le uniche immagini nella pagina di Wikipedia alla definizione “Creatività”, sono due bozzetti, disegnati da Leonardo Da Vinci. La più vasta enciclopedia online del momento rimanda etimologicamente al latino “creare”, ma visivamente riporta all’idea, radicata nella mente dell’uomo moderno, del genio con la “g” maiuscola. E’ ormai di pubblico dominio che il gene della “creatività” non sia solo appannaggio di pochi, ma risieda nel patrimonio genetico di ogni essere vivente. Molte specie di mammiferi, in particolare i Primati ed alcune specie di uccelli, hanno intuizioni creative che riescono a trasmettere ad altri soggetti per mezzo dell’imitazione e non si possono che definire “creative” le piante, le quali riescono ad elaborare il loro sviluppo in funzione del raggiungimento della più ampia gamma di sole ottenibile. La creatività

Tornando all’etimologia, il verbo “creare” in latino condivide con “crescere” la radice KAR. In sanscrito, “KAR-TR” è “colui che fa” (dal niente), il creatore. In una rilettura moderna potremmo dire che il creativo è “colui che si pone davanti a qualcosa e si interroga”. Non molti hanno perdonato all’arte moderna, e poi contemporanea, l’improvviso, e necessario, bisogno di porre interrogativi, abbandonando il confortante figurativismo verosimile alla realtà. Ma, se ora l’arte genera domande, la creatività, dunque, aiuta nell’esplorazione delle stesse, portando ad una ri-formulazione più corretta, articolandosi in “problem finding” (saper 11


scoprire problemi), problem shaping o problem setting (saper configurare i problemi correttamente) e, finalmente, problem solving (il saper trovare soluzioni). Esperti dell’indagare per trovare problemi da risolvere sono gli Innovatori Seriali: un gruppo di persone che segue la filosofia di pensiero dettata da Thomas Edison “Non voglio inventare qualcosa che nessuno comprerà”. Basandosi su questo ammonimento il gruppo accetta la tecnologia come un ambito destinato ad avere una fine, che le ditte siano parte del mondo del business

Bartezzaghi continua parlando di un uso dell’aggettivo, molto in vigore recentemente, che deriva dai corsi di scrittura creativa targati USA e riferisce di come gli stessi corsi mettano le mani avanti affermando che il talento (quello innato) non si possa apprendere e che, piuttosto, l’obbiettivo sia di insegnare un insieme di tecniche che rendano la scrittura più efficace per gli scopi che lo scrivente si propone. In questo caso, dunque, il fantomatico aggettivo è un posticcio seducente atto a catturare l’attenzione, “un’etichetta ingan-

Nonostante tutte le ricerche confermino che anche i talenti debbano faticare per esprimere le proprie potenzialità (come afferma il mantra di Edison “1% of inspiration, 99% of perspiration”), la ricerca instancabile della “dote innata” permane nevole” per nominare dei corsi di retorica contemporanea. Ma chi decide davvero quando è talento? Due ricercatori dell’università di Harvard, ChiaJung Tsay e Mahzarin R. Banaji, hanno voluto mettere a confronto i modi in cui sono percepiti i natural (coloro che riescono senza fatica) e gli striver (coloro che si formano con l’impegno). In un primo esperimento vengono paragonati due pianisti, dei quali i ricercatori forniscono note biografiche a un pubblico di 103 musicisti esperti: il primo pianista viene presentato come un talento naturale, il secondo come un talento che si costruito attraverso l’applicazione e l’esercizio. Vengono apprezzati gli sforzi del secondo, a cui si pronostica un futuro di successo, ma alla prova dei fatti (l’ascolto di un’esecuzione di entrambi) l’opinione del pubblico dichiara come migliore il primo pianista, il talento. L’esperimento viene ripetuto con un campione più ampio: 184 persone, e una terza volta con un campione ancora più grande: 549 partecipanti tra esperti e non esperti, ma entrambe le volte ad ottenere un gradimento più alto è la performance del pianista presentato come “talento naturale”. Tsay e Banaji concludono gli esperimenti rivelando che entrambe le performance sono svolte dallo stesso pianista e ipotizzano che, con ogni probabilità, il pregiudizio in favore del talento naturale non sia presente solo nel campo della musica, ma anche nel mondo dello sport o dell’impresa. E che gli esperti appaiano nei fatti molto più sedotti dall’idea di talento naturale di quanto non siano i non esperti.

solo per poterne ricavare profitto e che l’unica via in cui sia possibile continuare a sviluppare l’innovazione sia progettare un prodotto che andrà a risolvere i problemi degli utenti. Il processo degli Innovatori Seriali è basato su un iter ben definito di pensiero olistico che arriva a guardare il problema sotto ogni prospettiva possibile: solo nel momento in cui si sono acquisite abbastanza informazioni iniziano le connessioni fra le parti, in maniera da costruire un network di nozioni. Solo la capacità di sintetizzare le informazioni permetterà loro di raggiungere il momento dell’agognato “Aha!”, ovvero la risoluzione finale. Tuttavia ricerche in merito a questa capacità rivelano un’atteggiamento a tratti mistico degli stessi innovatori, considerandola alla stregua di “un dono” o di un “intuito innato”, sviluppato dalle ripetute ricerche immersive nell’esplorazione dei problemi. Al termine di un processo semi-analitico si ritorna nuovamente ad una leggenda legata ad una dote, un talento, sviluppato grazie a notevoli quantità di tempo e risorse che qualcuno ha provveduto a garantire, in una curiosa assonanza con il mecenatismo rinascimentale. Nei dizionari l’aggettivo “creativo” è datato 1395, e solo nel 1971 acquista una sua identità linguistica in alcuni ambiti, come quello pubblicitario, dove il “creativo” è chi svolge la mansione di ideare le campagne. Dapprima l’aggettivo veniva solamente relegato all’“atto creativo”, tramandando l’associazione con un alone di magia ed inafferrabilità. Oggi, tuttavia, è utilizzato come sostantivo per le professioni meno “esecutive” ma curiosamente vi è una distinzione netta fra il creativo ed l’artista. Come afferma Bartezzaghi nel suo “Elmo di Don Chisciotte”: “Creativo si applica meglio ad aspiranti artisti, artefici che personalizzano la propria opera fino a sperare che gli altri si accorgano delle sue qualità artistiche.”

Annie Murphy Paul, citando l’esperimento di Harvard, ribadisce che, a livello razionale, siamo tutti consapevoli dell’impegno che ci voglia per ottenere e mantenere buoni risultati, ma che preferiamo dimenticarcene, abituati a cullarci nella magica illusione che si possano raggiungere i propri obiettivi attraverso il minimo sforzo e che 12


la conquista di questi stessi sia tanto più ammirevole quanto più ogni idea di impegno sia stata esclusa in partenza. Nonostante tutte le ricerche confermino che anche i migliori talenti debbano investire tempo ed energie per esprimere le loro potenzialità (come il vecchio mantra di Edison ricorda “1 per cent of inspiration and 99 per cent of perspiration”), il pregiudizio del talento naturale e innato permane ed è dannoso soprattutto per gli studenti, che sono portati a focalizzarsi sull’apparire piuttosto che sull’essere, ad evitare

ra fredda, a pochi mesi dal lancio dello Sputnik2 russo con la cagnetta Laika a bordo, gli Stati Uniti sono scossi da un’ondata di fremente sostegno dell’istruzione con l’obbiettivo di incrementare le ricerche scientifiche e tecnologiche, nella speranza (poi concretizzata) di riuscire a raggiungere la Luna per primi. Il Ndea (National defense education act) riversò milioni di dollari nel sistema educativo, in un programma volto a rivoluzione il sistema universitario per sviluppare gli studi scientifici e incoraggiare le dinamiche del pensiero creativo.

le sfide e non ammettere le proprie debolezze. Segnali in chiara controtendenza sono quelli che arrivano dai grandi della letteratura e della scienza, i quali spesso tendono a ribadire come il loro processo per arrivare alla vetta sia stato costruito giorno per giorno con fatica e perseveranza. Hemingway stesso ammette: “The first draft of anything is shit.” (“La prima bozza di qualunque cosa è merda.”) e ancora “‘I write one page of masterpiece to ninety-one pages of shit. I try to put the shit in the wastebasket.” (“Ho scritto una pagina di capolavoro e novantuno pagine di merda. Ho cercato di buttare la merda nel cestino.”). Dello stesso avviso è l’attuale presidente dei Pixar Animation Studios, Edwin Catmull: “Almeno all’inizio, tutti i nostri film fanno schifo”. La nuova campagna pubblicitaria della ditta francese Bic sembra proprio incanalare queste affermazioni in immagini, in cui viene mostrato come, a monte di ogni grande corporazione, ci sia un’idea semplice e una storia fatta di piccoli passi, uno davanti all’altro.

Come sintetizza Annamaria Testa, autrice di “Minuti scritti, 12 esercizi di pensiero e scrittura”, allora come oggi l’approccio americano rimane lo stesso: pragmatico e corrispondente alla ricetta “tanti soldi più tanto addestramento”, il medesimo degli Innovatori Seriali, e ferreo nelle procedure e ingiunzioni: “Pensa fuori dagli schemi!”, “Sii rilassato!”, “Approfondisci!”... Il brain training, seppur in una diffusione sempre più crescente, non dispone ancora di incontrovertibili evidenze dei benefici, eccetto qualche dato che riguarda il contrastare il declino cognitivo legato all’età. Science Based Medicine pubblica un rapporto tra impegno e risultati ottenuti dalle tecniche di brain training, ammettendo che i medesimi risultati li potrebbe ottenere un individuo che si dedica a qualsiasi altro compito impegnativo sotto il profilo mentale: dal leggere un libro, all’imparare una lingua straniera, al giocare a scacchi. Negli ultimi decenni, sono state rivalutate diverse attività destinate alla salvaguardia di una buona salute mentale come l’esercizio fisico e il dedicare tempo sufficente al riposo notturno (quest’ultima sembrerebbe essere un’attività particolarmente “redditizia” e strettamente connessa alla sfera creativa). Uno studio svolto dall’università dell’Oklahoma afferma che per migliorare la creatività conviene lavorare sulle facoltà cognitive ma, soprattutto, su quelle euristiche, ossia sui modi (più o meno automatici) in cui si osserva, si analizza il contesto in cui ci si trova e ci si mette in relazione con esso. Ma la creatività, in qualsiasi campo, non può prescindere dalla competenza e, quindi, chiede esercizio costante e anche qualcosa di più: una pratica deliberata e intensiva. Psychology Today chiarisce ulteriormente: il potenziale creativo sembra dipendere in buona parte dai tratti di personalità e per non più del 10 per cento dalla componente genetica individuale; mentre uno studio realizzato dalla Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, condotto sotto la responsabilità della psichiatra Kay Redfield Jamison, ha evidenziato come il rilascio di dopamina da parte dell’ipotalamo contribuisca alla creazione veloce di immagini mentali che

La bomba “creatività” è ri-scoppiata negli ultimi vent’anni (attualmente è la parola più in voga tra i profili LinkedIn) e l’insegnamento del pensiero creativo è riuscito a far breccia anche nei corsi di ingegneria, scienze, di giurisprudenza, con la motivazione (insidacabile) che gli studenti, oltre alle conoscenze specifiche della materia, necessitano di un ingrediente che li guidi nella risoluzione dei problemi dei diversi ambiti nei quali sono impiegati, oltre che per affrontare gli eventuali blocchi e fallimenti. Fino ad oggi, la creatività, era sempre stata arginata a materia collaterale, studiata sotto il profilo psicologico o manageriale: da più di vent’anni la dottoressa Teresa Amabile, alla Harvard Business School, porta avanti ricerche sotto questo punto di vista, ora invece, in molte università americane ha raggiunto lo status di disciplina accademica, rivoluzionando almeno in parte la tassonomia degli obbiettivi educativi, con l’intento di sviluppare un approccio differente negli studenti. Businessweek registra un altro periodo di impennata nella ricerca creativa, nel corso della storia dell’educazione americana: nel mezzo della guer13


rendono visibile ciò che, pur sotto gli occhi di tutti, solo i creativi riescono davvero a vedere. Da un punto di vista prettamente neurobiologico sarebbe proprio questo particolare neurotrasmettitore della zona mesolimbica (ovvero quell’area centrale del cervello dova ha sede il cosiddetto ‘circuito della gratificazione’) a stimolare il pensiero creativo. La dopamina è ritenuta responsabile della genesi di stati d’animo positivi e uno dei suoi effetti consiste nel facilitare il flusso di pensieri: quando questo avviene, si generano molte associazioni

cui non mancano istinti inibitori e sono riducibili quantitativamente a quelli egoistici. Le distrazioni dei genii erano ritenute dal Lombroso come momenti di assenza epilettica, così come le visioni notturne (in Dostoevskij, Maupassant, Musset), le malinconie (Voltaire, Molière, Chopin, Giusti), i tentativi di suicidio (Rousseau, Cavour, Chateaubriand), le megalomanie (Maometto, Colombo, Savonarola, Bruno), la timidezza (Leopardi), l’amore infantilistico (Dante, Alfieri, Byron). Tuttavia questo procedimento per analogie e com-

mentali e la fantasia è automaticamente alimentata più del solito. Per contro, la dopamina è allo stesso tempo responsabile di atteggiamenti maniacali e schizofrenie generati dal medesimo fluire di pensieri e associazioni visive: il rilascio infatti ha effetti diversi a seconda dei soggetti e del loro umore di base, perciò laddove agisce si verifica su persone dall’umore pressoché neutrale favorisce l’originalità delle idee, ma quando si verifica su soggetti meno equilibrati e più problematici può far presentare atteggiamenti bipolari. Ed ecco che compare il famoso binomio “genio-follia”, in un certo qual modo scientificamente giustificato.

parazioni si rivelò fallimentare nel momento in cui i suoi seguaci tentarono di indagare in modo indipendente, al fine di dare riscontro alle teorie. Il fenomeno della genialità sfuggiva ad un’analisi sistematicamente scientifica e, da un punto di vista metodologico e statistico, i testi di Lombroso difettavano per l’esiguità e la mancanza di bilanciamento dei campioni considerati, ad ulteriore danno della scientificità delle conclusioni ottenute. Phil Hansen in un TED Talk afferma: “Molti pensano che la creatività abbia bisogno di una condizione di libertà assoluta e totale. Tuttavia, in assenza di vincoli esterni o autoimposti che ci obbligano a fare uno sforzo in più, noi tendiamo a replicare ciò che già, su questioni analoghe, ha funzionato in passato, oppure a perderci per strada.” Ciò che spesso si tende a vedere è la regola come imposizione castrante, piuttosto che un argine di un flusso altrimenti sconfinato. A tal proposito Stefano Bartezzaghi, giornalista ed erede del famoso enigmista, riflette sulla storia del Barone Rampante di Calvino: “Da bambini si sa benissimo che le regole del gioco possono essere sospese (“arimò!”) ma non possono essere disattese, e che alla libertà del gioco non corrisponde una libertà nel gioco. Anche i giochi senza regola implicano una regolarità, (...) una serie di obblighi, prescrizioni e proibizioni, implicati da un atto libero.” Si tende a pensare che la creatività sia svincolata da tutto e che, quindi, possa, da tutto, svincolarsi, quando invece si rende necessaria una griglia per non sconfinare nell’assoluto tutto (e nulla). Phil Hansen, per un disturbo neurologico, non può disegnare nel senso tradizione del termine, e decide, avendo scelto una carriera artistica, di strumentalizzare il tremore che accompagna il suo braccio destro in un percorso che lo porterà da un’arte figurativa composta di “scarabocchi” a performance video pittoriche in cui sovrappone livelli di pittura che dipinge sul suo corpo o durante i quali da vita, con il suo tremore (ormai marchio di fab-

Lo psicanalista Carl Jung ha etichettato come istinti la fame, la sessualità, l’attività, la riflessione e la creatività, e ha affermato che è l’istinto creativo a rendere differente l’uomo dalle altre specie viventi, muovendolo verso la spiritualità e la produzione di simboli. La psicoterapia jungiana è dunque volta allo sviluppo delle potenzialità creative latenti nel paziente stesso: ciò significa che c’è un profondo legame tra il manifestarsi della creatività e la psiche che si trasforma. L’individuo che è capace di rapportarsi in modo maturo col mondo sa anche avere relazioni e produrre visioni creative restando in contatto con il proprio Sé. Freud, più lineare e sistematico di Jung, ha decretato che la creatività è, invece, frutto della sublimazione di energie, scaturite da una situazione frustrante, e dal loro ri-orientamento in una direzione produttiva. L’attività creativa è dunque vista come uno sfogo positivo delle nevrosi, una gratificazione socialmente accettabile e tollerata. L’associazione genialità-follia ritorna con le teorie di Cesare Lombroso, in cui il cosiddetto “genio” si concretizza nella “creazione incosciente”, caratterizzata dall’istantaneità dell’ispirazione, dall’irresistibilità all’estro, dall’amnesia, accostabile al fenomeno dell’epilessia. I “mattoidi” venivano da lui situati al confine fra “saviezza” e “follia”, e caratterizzati da una paranoia a sé stante. Tra i delinquenti nati (epilettici, pazzi morali irriducibili) ed i delinquenti pazzi (dipsomani, isterici ed allucinati) si collocano quindi i criminaloidi, 14


Piramide di Maslow

brica) a memorie che gli confidano estranei al telefono, mentre lo guardano dipingere in livestream. L’archistar Frank Gehry definisce come “terribile” l’esperienza di dover progettare una casa senza nessun vincolo. “Le costrizioni ci offrono sempre un punto di partenza” e questo è fondamentale per un progettista, in qualsiasi ambito egli scelga di agire. Wired, in un articolo dedicato, parla di un esperimento in cui studenti che devono affrontare un ostacolo in più (un disturbo visivo o sonoro), mentre sono impegnati a risolvere anagrammi risultino, in compiti successivi, più capaci ad aprirsi ad una visione globale e di flessibilità concettuale rispetto ad altri studenti che non subiscono handicap.

Annamaria Testa, sull’Internazionale, conclude dicendo: “L’importanza è l’esposizione a stimoli nuovi, eterogenei fra loro, essendo disposti ad accoglierli e a elaborarli. E certo, si può anche decidere di modificare le proprie abitudini cominciando a lavarsi i denti con la mano sinistra (o con la destra se si è mancini), ma questo è solo un esempio, e forse nemmeno il migliore, del fatto che darsi un vincolo di qualsiasi tipo incoraggia sempre e comunque la ricerca di nuove strategie.”

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FOTO MAD MEN

“Da qualche parte, tra la nostra coscienza e il calderone che lavora nell’inconscio, c’è una stazione di passaggio attraverso cui corre il treno del pensiero. La maggior parte dei buoni creativi sa quando salire.” John M. Keil In rapporti produttivi

tare e convivere con quelli che sono i problemi più quotidiani: dall’elasticità delle tempistiche, allo stress da deadline, all’ansia da prestazione. Dieci anni dopo, una critica si fa strada nella stampa specializzata: la professoressa americana Teresa Amabile pubblica “How to kill creativity”. E’ il 1998 e l’articolo-saggio della docente di “Business Administration” alla Harvard Business School denuncia la vendetta dei manager nei confronti della creatività. Nonostante si dia, ora più che mai, un valore concreto a quelle che sono le nuove idee, ogni giorno la creatività viene sottostimata negli ambienti lavorativi in favore di quelli che la docente chiama “Imperativi del Massimo Business”: coordinazione, produttività e controllo. La Amabile non nega che i manager siano obbligati a sottostare a questi valori, tuttavia accusa il fatto che nella pratica manageriale odierna essi stiano soffocando i reparti creativi, e che la soluzione più auspicabile sia un ripensamento degli stessi. Mentre l’approcio di John M. Keil alla questione era one-to-one in un dialogo stretto con il lettore, i concetti esposti da Teresa Amabile ricercano una rivoluzione sistemica. Quest’ultima suddivide il concetto creatività in tre parti, in questo modo sarà per i manager più semplice andare ad inviduare le falle del loro modus operandi e potervi rimediare. I tre concetti sono: il “creative thinking skills”, che determina quanto le persone siano aperte e flessibili nell’affrontare i problemi che incontrano, “l’expertise”, ossia l’esperienza e il know-how dell’esercizio della propria professione, e infine la motivazione che li spinga a lavorare. Quest’ultimo si presenta come il valore più facile da influenzare, anche se occorre farlo con moderazione e dialogo. Amabile categorizza due tipi di motivazione: esterna ed intriseca. La forma di influenza più comune di un manager riguardo alla motivazione del creativo è la promessa di un

John Keil, guru creativo di Madison Avenue, utilizza l’aggettivo “creativo” nell’accezione impersonificata, in epoca 2.0, dal personaggio televisivo “Don Draper” della serie americana “Mad Men”. Vissuto in un’epoca in cui la maggiore delle responsabilità del direttore creativo era quella di riuscire a spronare in maniera positiva i propri pubblicitari, Keil, nel suo “Da zig a zag, Come essere originali e creativi con successo”, si pone davanti a diverse utenze: il direttore stesso, il manager, il pubblico, l’accounter..., mantenendo una coerenza e un’immedesimazione dettate dalle sue molteplici esperienze lavorative. Anticipando i tempi mostra come sia possibile affrontare i blocchi mentali che tipicamente si presentano alla maggioranza delle persone perennemente incaricate di scovare il “nuovo”, “l’originale”. Attraverso la ricerca guidata di nuove domande di mercato, la riuscita del processo di stesura delle proprie idee e la convivenza con lo stress di un lavoro in ambito pubblicitario, il direttore creativo della Dancer Fitzerald Sample (ora Saatchi & Saatch DFS Compoton) illustra i suoi esperimenti su come ognuno possa riuscire nella professione creativa, senza negare una certà predisposizione verso un campo grafico o manageriale o ingegneristico. Curiose sono le appendici al libro “Il mistero della creatività come dirigerla, svilluparla e renderla produttiva” riguardanti l’importanza dello “speech” illustrativo del proprio progetto: come persuadere il pubblico, la psicodinamica, il dominare l’ansia, l’offerta ad personam; la rilevanza della critica costruttiva, personale o altrui; e infine le regole (poiché di nuovo l’impostazione è molto americana e, in quanto tale, abbastanza tassativa) del convivere con un creativo. Quest’ultimo capitolo, che lo scrittore afferma essere stato fortemente consigliato dalla moglie, risulta estremamente attuale ed utile nel suo affron16


tare qualche specifica abilità al team. Al contrario gruppi omogenei tenderanno a provvedere a soluzioni in maniera più veloce e semplificata, poichè il loro modo di pensare è uniforme. “Everyone comes to the table with a similar mind-set. They leave with the same.” specifica la docente, mostrando uno degli esempi in cui l’amministrazione di un’azienda scelga di “uccidere” il processo creativo in favore di un’equazione in cui tempistiche più accellerate corrispondano a idee meno brillanti.

premio (denaro, riduzione dell’orario...) o una minaccia (licenziamento, straordinari...), questa seconda opzione, inutile specificarlo, è indicata come estremamente dannosa, poiché colloca il dipendente in una situazione di limbo, un ambiente incerto in cui, anche superata la crisi momentanea, egli avrà paura di ricadere. Inoltre la minaccia fa leva su processi mentali molto comuni, quali la fobia di essere sostituito, la perdita di originalità del lavoro, la curva discendente (di Bézier) del-

Gli anni ‘50 hanno prodotto ideali antidoti alla mancata produttività e sconcerta constatare come ancora oggi essi continuino a diffondersi, nonostante le diffuse critiche sulla dubbia efficacia. L’esempio conclusivo dell’articolo è quello della ditta Procter&Gamble, presentato come una ditta sull’orlo del fallimento che ha saputo re inventarsi troncando dei ponti con quella che era stata la produzione fino ad allora ed assumendo una nuova politica, più paerta e liberale. In termini di business le buone idee non possono essere solamente originali, devo essere appropriate, utili. Troppo spesso la politica di selezione è basata sull’idea che supervisori più critici appaiano come più intelligenti, e questa politica, afferma Teresa Amabile, sta degradando l’intero percorso creativo estendendosi fra colleghi creativi e manager: lo sforzo è tutto impiegato sul trovare ragione per non utilizzare una nuova idea, piuttosto che esplorarla e trovare in che modo poterla utilizzare. Fondando un clima di paura, le motivazioni intriseche di ognuno saranno represse fino al tracollo dell’intero sistema. Nell’esempio concreto di P&G la società, come soluzione in extremis, ha fondato un piccolo comitato di supervisione i cui membri non sono stati nominati ma si sono auto proposti. Quale migliore motivazione intriseca se non quella del volontario?! In tre anni, unidici progetti proposti dal comitato hanno ottenuto l’approvazione della direzione e sono stati messi in produzione, riposizionando sul mercato la ditta. Teresa Amabile afferma infine che i “casual friday” sono relativamente inutili se non avviene un rivoluzionamento della mentalità ed un’apertura al dialogo.

la propria carriera... Tutti tasti psicologici che un “buon” dirigente dovrebbe evitare di “suonare”. La professoressa di Harvard suggerisce invece di lavorare sulla motivazione interna all’individuo e, per fare ciò, c’è bisogno di un grado di empatia massimo e di costruire un ambiente di lavoro sano e riposante: questo influenzerà in maniera positiva l’umore e lo stimolo al lavoro sui dipendenti. La metodologia comporta inevitabilmente una corretta assegnazione di tempistiche a progetto: se è vero che il “rush” finale di un team creativo, rispetto alla propria consegna, non è da sottovalutare, è anche vero che il periodo che lo circonda sia particolarmente pregno di stress e che non possa essere l’unica modalità di lavoro. Il dialogo fra manager e creativi dev’essere limpido su situazione finanziarie e anche e soprattutto riguardo le tempistiche di lavorazione, in maniera da non ritrovarsi con scadenze improvvise o anticipi svantaggiosi sul cliente. Per il fattore “spazio”, l’articolo non detta leggi precise ma più che parlare di ambienti di lavoro ampi o ariosi, descrive l’importanza della libertà che dovrebbe vigere nei suddetti spazi, incoraggiando il dialogo fra le parti e la mobilità. Il dialogo fra i diversi team e fra i componenti interni ad un team è un pilastro inequivocabile all’interno di un’organizzazione lavorativa (studio, azienda, ufficio...) e dev’essere supportata ed incoraggiata dal manager. Maggiore sarà lo scambio di conoscenze e idee, maggiori saranno le informazioni a disposizione del creativo. Al contrario ogni attività che includa litigi personali, gossip e mobbing andranno a distogliere l’attenzione dal lavoro e per tanto sono situazioni potenzialmente molto negative. Anche la creazione dei gruppi di lavoro dovrebbe essere fatta accuratamente, per creare delle buone fondamenta per le relazioni future; la diversità, anche se non dovrebbe essere motivo di forzature, è un buon inizio, così che ogni membro possa por-

Gli anni ‘50 hanno prodotto ideali antidoti alla mancata produttività e sconcerta constatare come ancora oggi essi continuino a diffondersi, nonostante le diffuse critiche sulla dubbia efficacia: due tra i più noti simboli risolutivi sono l’open space e il brainstorming. L’ultima ricerca effettuata in proposito degli ambienti lavorativi è stata condotta dal neuroscienziato 17


Jack Lewis con il programma scientifico brittanico “The Secret Life of Buildings” e, secondo i test, il lavoro in open space riduce le prestazioni aziendali del 32% e fa diminuire la produttività dei lavoratori del 15%. Prima responsabile è la distrazione, causata dalle continue interruzioni acustiche e l’assenza di un proprio spazio privato. Quasi la metà dei lavoratori di open space interpellati dallo studio affermano che il rumore è per loro un problema significativo; un altro 30% accusa una vera mancanza di privacy. Negli anni ‘50 nasce il concetto di open space, così

degli uffici ha pochi muri separatori o non ne ha del tutto, secondo l’International Facility Management Association. La Silicon Valley è stata fra le prime ad abbattere i muri: Google, Yahoo, eBay, Goldman Sachs, American Express... Mark Zuckerberg, CEO del colossso Facebook, ha chiesto al famoso architetto Frank Gehry di progettare il più grande ufficio open space del mondo, perché potesse ospitare quasi 3.000 ingegneri tutti insieme. Il businessman Michael Bloomberg fu uno dei primi ad abbracciare la filosofia dell’open

Edward De Bono paragonava il brainstorming ad un uomo impossibilitato a suonare un violino per colpa delle mani legate: non è detto che, tagliando il nodo, egli avesse le capacità o l’esperienza per sapere come suonare lo strumento space, affermando che avrebbe promosso equità e trasparenza. Come noto, adottò lo stesso modello anche quando divenne sindaco di New York, rendendo gli open space del comune un simbolo dell’apertura e dell’accessibilità del municipio. Si distaccano dalla comune opinione aziende come la Pixar, dove, per decisione dell’allora direttore Steve Jobs, il complesso di uffici offre come spazio di condivisione la strada verso le “toilette”. La decisione era dettata da un incoraggiamento al dialogo fra colleghi, di scambio di opinioni anche su progetti di diversi dipartimenti, senza forzare la lavorazione in ambienti comuni e rumorosi. Ronnie Del Carmen, Story Supervisor alla Pixar, afferma: “Le persone più clamorosamente creative molto spesso sono introverse e poco propense agli scambi sociali. Sono abbastanza estroverse da scambiare proposte e idee, ma danno il meglio quando lavorano da sole.” E’ della stessa opinione il libro di Susan Cain, “Quiet”, in cui la scrittrice riflette a proposito dello sviluppo della concentrazione: “Come ha osservato lo psicologo Hans Eysenck, l’introversione stimola la creatività perché la mente si concentra sui compiti, evitando la dissipazione di energie provocata da questioni sessuali e sociali non legate al compito stesso. In altre parole, una persona seduta in santa pace in giardino, sotto un albero, mentre tutti gli altri stanno brindando in veranda, ha più probabilità di vedersi arrivare in testa una mela (Newton era un grande introverso)”. E questo si lega innegabilmente al fallimento del secondo mito produttivo: il brainstorming. Nonostante molti luoghi di lavoro continuino ancora a osannarlo, il brainstorming è provato risulti spesso uno strumento controproducente nello stimolo della creatività. Ricerche più recenti dimostrano che molte persone, quando sono in gruppo, si tirino indietro e facciano istintivamente proprie le opinioni altrui, perdendo di vista le loro e sp-

come lo definirono i consulenti tedeschi Schnelle, dove l’ufficio suddiviso in stanze, separate da muri e da porte, viene rimpiazzato da ampi spazi aperti. Da esso poi le numerose evoluzioni come l’Action Office di Robert Propst, nel 1964, e i moduli concepiti per non isolare il dipendente, mettendo l’impiegato in continua comunicazione con il resto dell’azienda. Le intenzioni di Propst erano tali per cui l’open space avrebbe garantito la privacy senza ricorrere ai muri, fornendo a ciascun impiegato un proprio spazio da personalizzare sia in orizzontale, con la scrivania, che in verticale, attaccando fogli e poster sulle pareti posticce. La parola d’ordine del suo “spazio lavorativo aperto” era “a portata di mano”, concetto che col passare del tempo è stato snaturato riducendo questi ambienti futuristici ad alveari composti da tante piccole celle ravvicinate. L’asetticità dell’ambiente, spiega lo psicologo della Exeter University Craig Knight, uno dei primi a sostenere l’importanza di permettere ai lavoratori di personalizzare la “postazione”, è essenziale per favorire la produttività: “Chi lavora in un ambiente colorato, con quadri e piante, risponde meglio agli input perché si sente più a suo agio, circondato da un contesto umano e confortevole”. Spesso l’open space è un pretesto per ridurre i costi e gli spazi a disposizione. Secondo la direttrice di Actinéo, “Osservatorio sulla qualità della vita alla scrivania”, la dimensione ideale perché un open space possa essere definito tale è di 15 mq per individuo. Sfortunatamente nella pratica si arriva anche ad un paradosso di 7-8 mq., contravvenendo totalmente alle leggi della prossemica, lo studio delle relazioni tra distanza psicologica e fisica, che varia rispetto alla popolazione, alla cultura, al sesso ma anche alla classe sociale e all’ambiente nel quale ci si trova. Nonostante i suoi ovvi difetti, gli open space continuano a essere “inflitti” a tantissimi lavoratori. Oggi negli Stati Uniti più o meno il 70 per cento 18


esso soccombendo alla pressione dei colleghi. Gregory Berns, neuroscienziato della Emory University, ha scoperto che quando prendiamo una posizione diversa da quella del gruppo attiviamo l’amigdala, la parte del cervello che gestisce la paura, in questo caso la paura di essere respinti. Berns lo definisce «il dolore dell’indipendenza». Alex Osborn, il pubblicitario che fra gli anni ‘40 e ‘50 mise a punto la tecnica del brainstorming, dettò regole fondamentali per la buona riuscita di una sessione e queste prevedevano che la critica fosse messa da parte, che fosse benvenuta la maggior quantità di idee possibili, modificando e riassemblando gli input dei colleghi. Tutto ciò è un’ottima base di partenza, ma non è abbastanza efficace presa isolatamente: il processo dev’essere un trampolino per avvicinarsi a tecniche più approfondite di filtraggio e decisione. La falsa credenza che le persone siano più creative quando stanno in gruppo viene detta dagli psicologi “illusion of group of productivity”. Bernard Nijstad e il suo gruppo di studio dell’Università di Amsterdam sostengono che durante le attività di gruppo, come il brainstorming, la tensione si allenti notevolmente a causa del continuo scambio di idee dei partecipanti, tanto da impedire ad alcuni di generarne di nuove. Mentre da soli non si possa nascondere la propria reale produttività. La filosofia del brainstorming presuppone che le idee siano già presenti nella testa dei creativi e non-creativi, dando per scontato nuovamente che i cosiddetti “non creativi” avranno semplicemente meno schemi mentali da abbattere, quando invece il confrontarsi apertamente è spesso causa di imbarazzanti silenzi, causati da una maggiore (e comprensibile) rigidità cerebrale, e seguiti da esortazioni a lasciarsi andare; spesso gli interrogativi dei brainstorming sono troppo complessi perché sia sufficiente l’abbattimento delle proprie barriere emotive possa risolverli. Edward De Bono paragonava la tecnica ad un uomo impossibilitato a suonare un violino per colpa delle mani legate: non è detto che, tagliando il nodo che gli rendeva impossibile muoversi, egli avesse le capacità o l’esperienza per sapere come suonare lo strumento. E’ per questo che, anche se capitata l’occasione in cui un gruppo di persone riunite in una sessione siano riuscite a risolvere un problema, questa possa capitare tutte le volte. Ulteriore spiacevole circostanza della tecnica riguarda la fase finale: dopo aver messo in condivisione innumerevoli spunti di progetto e potenziali soluzioni all’interrogativo iniziale, si richiede una scremature delle opzioni e questo, se non per il raggruppamento in famiglie semantiche (operazione che aiuta nell’ordinare il disordine creativo

generato) non viene contemplato. La compenetratura e la filtrazione delle idee si riduce spesso allo scartare quelle idee che vanno in controtendenza rispetto alla maggioranza, e risulta dunque priva di vera obbiettività, andando talvolta ad intaccare l’utilità del processo appena svolto. I fenomeni, presenti nel Brainstorming, di social loafing (l’approcio passivo di una parte del gruppo) e l’evaluation apprehension (il timore del giudizio delle proprie idee) trovano soluzione nella tecnica del “Brainwriting”. Elaborata da Horst Geschka, professore all’Institute of Frankfurt, e pubblicata nel 1988 sul libro “Techniques of Structured Problem Solving”: la tecnica consiste nel generare lo stesso calderone di possibilità esposte a mente aperta ma, anziché in confronto diretto verbale, le proposte sono sviluppate per iscritto. In questo modo ogni membro del gruppo sarà libero da pressioni e influenze interne al gruppo. Il confronto avviene scambiando i fogli fra i partecipanti e con una nuova elaborazione dell’idea, fondendo le proprie convinzioni con quelle presenti sul foglio ricevuto. L’operazione si ripete svariate volte, in maniera da ottenere una mappatura uniforme su ogni foglio dei pareri di ognuno. Ci sono poi specifiche tecniche di approfondimento fra cui la tecnica 6-3-5, in cui il numero di partecipanti è interconnesso ai minuti della durata dell’esercizio, una versione in cui lo scrivere è sostituito al disegno o al ritaglio, formando dei collage, e un’ultima possibilità in cui la tecnica è sviluppata tra partecipanti distanti, attraverso l’uso di piattaforme online come Google Spreadsheet, in tempo reale o con tempi più dilatati.

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Capitolo 2

Metodi

“La creatività è la combinazione di elasticità, originalità e la capacità di accettare con prontezza idee che permettono di abbandonare gli schemi di ragionamento abituali per schemi diversi e produttivi, tali da consentire all’individuo di soddisfare le proprie esigenze e, in qualche caso, anche quelle degli altri.” Tudor Powell Jones, “Creative learning in perspective”

Premessa

non coerente alla situazione, le capacità risolutive ne risulteranno inibite e, con molta probabilità, bloccate. Il secondo step del processo creativo, il quale risulta essere spesso deleterio per l’intero processo, risiede nella commistione delle percezioni sensoriali con i pregiudizi, i preconcetti ed i meccanismi analitici assunti, derivanti da esperienze passate e conoscenze pregresse. Voler risolvere una questione utilizzando necessariamente capacità acquisite, afferma Weisberg, spesso risulta essere controproducente e, pertanto, per giungere al termine del processo creativo può essere necessario cambiare la direzione presa. Data la natura cumulativa (proprietà di assorbire le esperienze vissute e di trarne il maggior vantaggio), propria della creatività, ogni cambio di direzione, anche divergente, sarà il prodotto di mescolanze di ispirazioni passate, spesso inconsapevoli.

Tutte le teorie formulate sulle capacità creative individuali pongono l’accento sulla necessità di sviluppare un pensiero divergente, che non sia ostacolato dalle vecchie concezioni o dagli antiquati metodi di ragionamento. Robert Weisberg, studioso della facoltà di legge di Stanford, dichiara che una soluzione può essere considerata creativa se risponde a due requisiti: che sia innovativa per l’individuo che la idea e che porti la risoluzione di un problema. Ma per arrivare a questi concetti costruisce una scalinata progettuale in cui il primo gradino, che porrà il soggetto in contatto con la natura del problema e con le sue capacità risolutive, è sempre rappresentato dalla percezione sensoriale: ciò che l’individuo vede, tocca e percepisce ha la massima importanza, delineando ciò il soggetto dovrà andare poi ad indagare e risolvere. Nel caso in cui la prima percezione fosse errata, o 20


Edward De Bono e il Pensiero Laterale

“Se potessimo immaginare il nostro pensiero come una freccia, potremmo vederlo cambiare direzione in continuazione, girare intorno in senso rotatorio, disegnare una spirale e non più una retta rivolta verso una sola unica direzione.” Edward De Bono è uno scrittore maltese che più di ogni altro ha incentrato la sua produzione saggistica (oltre settanta volumi) sul pensiero creativo e i maccenismi della mente, diffondendo le sue teorie tramite i libri, le conferenze tenute nei più importanti college del mondo e la fondazione a Malta del “World Centre for New Thinking” nel 2004, istituzione dedicata alla diffusione del pensiero creativo. È inoltre il creatore del concetto di “pensiero laterale”, espressione affermatasi nell’uso del linguaggio comune durante gli anni ‘90 e accolta come neol-

ogismo dall’Oxford Dictionary. Nel suo libro “Il Meccanismo della Mente”, ha descritto come la rete nervosa del cervello si comporti come un sistema auto-organizzato e, partendo da queste basi, dedotte da una formazione universitaria in medicina e psicologia e grazie al bagaglio di conoscenze mediche nei sistemi d’informazione biologici, ha modellato le sue metodologie del pensiero. La citazione iniziale dello studioso riassume figurativamente la base delle sue teorie sul Pensiero Laterale, come un nuovo metodo nato per concepire idee nuove, imparando ad uscire dalle regole convenzionali e le strade già percorse. Egli effettua un paragone rispetto “all’acqua che scendendo per i pendii, si raccoglie negli avvallamenti e affluisce nel fiume, così il pensiero verticale scorre lungo i declivi della maggior probabilità che, per ciò stesso, diventano 21

vie di scorrimento sempre più probabili. Se il pensiero verticale significa alta probabilità, quella laterale equivale alla bassa. Si scavino nuovi canali per deviare a forza il corso delle acque, ed i vecchi vengano sbarrati, nella speranza che la corrente trovi un letto diverso e migliore... A volte l’acqua, faticosamente risucchiata verso l’alto, diventa un sifone che di colpo fluisce liberamente. Ed è a questo risultato che il pensiero laterale mira costantemente.” L’obbiettivo che si pone questo nuovo modo di ragionare è quello di semplificare il più possibile le situazioni che si presentano in tutti gli ambiti del quotidiano e da questo trarne, per quanto possibilie, gli spunti per raggiungere ,nel migliore e più veloce modo possibile, delle soluzioni valide e pratiche. Ciò significa che il pensiero dovrebbe seguire uno schema, toccando i seguenti punti: Inquadramento delle


difficoltà, Identificazione delle idee dominanti, Ricerca e attuazione di nuovi metodi di ricerca della realtà, Evasione dal rigido controllo esercitato dalla vericalità del pensiero ed Utilizzo dei dati e delle circostanze fortuite. Quest’ultimo punto risulta uno dei più interessanti della teoria lateralista: De Bono considera gli eventi fortuiti come un elemento costitutivo ed essenziale, dal caso vengono spesso tratte soluzioni innovative ed ingegnose, ma solo nel momento in cui i dati forniti vengano rapidamente raccolti ed utilizzati. Solo chi sarà in grado di “sganciarsi” dal ragionamento verticale potrà cogliere gli indizi utili alla soluzione del proprio problema, vedendo anche nelle circostanze più impensate e nei dati più indesiderati, una possibilità. Un classico esempio di come gli errori e la casualità siano serviti a trovare la soluzione ad un problema, è scritto nella storia

genio creativo”, in cui viene dichiarato il concetto che spesso la soluzione creativa ad un problema non si trova dove è naturale cercarla, etichettato questo sistema di ritrovamento delle risposte come il “fulmine a ciel sereno”, ovvero quando l’osservazione di un oggetto, per un fortunato incidente, venga percepita come quella di uno differente. L’eureka di Hanks e Parry non è una mela che cade in testa e illumina lo scienziato sulla teoria della gravità, quanto il risultato semi conclusivo di un lungo processo di studio, trovato in un ambito differente da quello che si era ricercato, ma altrettanto valido. Un ulteriore passo in avanti con la teoria di Hanks e Parry è l’affiancare al concetto di casualità un altro aspetto della capacità creativa: il fulmine a ciel sereno funziona solo quando si possiede una base di conoscenza di ciò che si sta os-

che non si può logicamente apprendere, o ciò che, al più, si apprenderebbe molto più lentamente. L’espressione linguistica “capacità immaginativa”, che sintetizza le teorie di De Bono, Hanks, Parry e che riprende quella di Weinsberg esprime il concetto fondamentale che in ogni individuo esista la possibilità di compiere dei salti dell’immaginazione (“fulmini a ciel sereno”), sfruttando le possibilità che offerte dalla logica e dall’elasticità dell’intuizione. De Bono ribadisce che la capacità immaginativa dell’uomo può essere sfruttata anche per finalità non propriamente artistiche, e che riguardino anche ambiti come scienza, tecnica, quotidianità... Ma per fare ciò l’individuo deve essere pronto ad accettare questa realtà, apprezzando, sfruttando e e raccogliendo fino in fondo le sue possibilità concrete. Nel 1985, De Bono pubblica il

Bill Gates, citando indirettamente De Bono, ad una famosa conferenza dichiarerà: “Se si ha solo un martello, tutte le soluzioni avranno la forma di un chiodo”, concordando con l’agire a tutto tondo nei confronti di un problema. della medicina: nel periodo in cui Sir Alexander Fleming effettuava esperimenti con dei batteri, dimenticò una notte dei batteri in una bacinella che, per via della finestra aperta, formarono una muffa. Invece di buttare via la coltura di batteri ed unirsi alla schera di verticalisti, lo scienziato la esaminò e scoprì il “penicillinum notatum”: la muffa contaminante aveva bloccato la crescita batterica, causando la morte di alcuni batteri. Nacque così la penicillina, attraverso un incidente fortunato, riesaminato e preso in considerazione da una mente elastica ed aperta. Questa modalità creativa verrà ripresa anche da due moderni autori, Kurt Hanks e Jay Parry, nel loro libro”Svegliate il vostro

servando. Louis Pasteur, chimico e microbiologo francese, in proposito dichiarò: “Il successo favorisce la mente preparata.” Allo stesso modo Edward De Bono non nega l’utilità del pensiero verticale utilizzandolo in combinazione con quello laterale, in base alle necessità che si presentino: mentre il secondo sarà utile per rompere gli schemi e trovare soluzioni originali, il pensiero verticale, inteso come capacità logica organizzativa, servirà per fondere i risultati a cui ha condotto la “capacità immaginativa”. Quest’ultimo concetto intende descrivere quel processo che, in tutte le sue parti, permette all’individuo di compiere un salto creativo, e di vedere ciò 22

libro “Sei Cappelli per Pensare” guida pratica all’uso dell’omonimo metodo di cui è il fondatore. Il volume, immediatamente impiegato da aziende ed educatori di tutto il mondo, si presenta come risoluzione al problema del processo creativo svolto nelle riunioni in azienda (o in qualsiasi team lavorativo) dove le idee non riescono ad emergere e dove spesso le opinioni non sono presentate in maniera corretta. Attraverso l’uso, anche simbolico, di un accessorio come dei cappelli di sei colori differenti (bianco, rosso, verde, nero, blu e giallo) l’autore affronta la delicata questione dell’immedesimazione (ed empatia) reciproci, componente essenziale per un sano dibattito. Adottando una


visione differente del problema, rispetto alla propria, i partecipanti sono spinti ad assumere atteggiamenti a tutto tondo, distaccandosi dalla propria visione verticale. Bill Gates, citando indirettamente De Bono, ad una famosa conferenza dichiarerà: “Se si ha solo un martello, tutte le soluzioni avranno la forma di un chiodo.” concordando con l’agire a tutto tondo nei confronti di un problema. L’esercitazione dovrebbe essere svolta in forma di gioco, così da riuscire a coinvolgere maggiormente i partecipanti (da due a otto persone) e farli attenere con più facilità alle regole prescritte, ma lo stesso metodo, suggerisce De Bono, potrebbe essere attuato da una coppia per decidere la meta delle proprie vacanze. A seconda del colore, il cappello corrisponderà a diversi valori: il bianco alla raccolta delle informazioni, la documentazione e la praticità di un progetto, il momento di verificare i dati disponibili, il cappello bianco necessita un atteggiamento accurato, imparziale e verosimile; il giallo agli aspetti positivi,

l’ottimismo razionale motivato (non l’ingenuità), il “guardare il bicchiere mezzo pieno”, il momento delle proposte concrete e dei suggerimenti su guadagni e benefici; il verde alla creatività, le idee nuove, le iniziative, le alternative, un atteggiamento di tipo provocatorio nel guardare lateralmente le questioni, al contempo stimolante e umoristico (al verde, simboleggiando la “possibilità, corrisponde anche una risposta ulteriore oltre al Sì e al No, il “PO” abbreviazione per “Provocative Operation” una versione del “maybe” inglese, “e se facessimo...”); il rosso al dare sfogo alle emozioni e le domande, attività che spesso nelle riunioni formali non è permessa e spesso viene mascherata con dati semi falsi o proposte senza vere basi, il rosso nel positivo come nel negativo non necessita di motivazioni a tutti i costi ma ammette le sensazioni “a pelle”; il nero al pessimismo, le domande spinose e il rilevamento degli errori e dei difetti, il nero indica cautela mirando a non infrangere le regole, paragonando al passato e proiettan-

do nel futuro, senza stroncare sul nascere possibilità ed idee; al blu far rispettare le regole del gioco e dirigere le controversie, chiedendo nel caso di cambiare il cappello, per poi riassumere e concludere la riunione.

Betty Edwards e la scissione cerebrale

ricerche fino al suo ritiro negli anni ‘90, quando si dedicherà alla fondazione del Centro per l’applicazione educativa delle ricerche sugli emisferi cerebrali. “Disegnare con la parte destra del cervello” rimane il libro esempio delle sue investigazioni, usato tutt’oggi come testo in moltissime scuole d’arte e tradotto in lingue come il russo e il giapponese. Il libro impartisce lezioni, tecniche e materiali per aiutare le persone nell’imparare a disegnare. Da artista e pittrice Edwards conosceva quelli che erano i problemi degli “addetti

ai lavori”, e la sua carriera di insegnante in scuole pubbliche e private le diede una panoramica delle più diffuse patologie (spesso di natura psicologica) che gli aspiranti disegnatori devono affrontare. La sua tecnica, basata sulle tecniche più basilari: il disegno base, la pittura, la storia dell’arte, la teoria del colore, la percezione della forma, si è sviluppata attraverso workshop in tutto il mondo, business consulting a grandi aziende nazionali ed internazionali e l’ampliamento con l’acquisizione delle nozioni dei pro-

Betty Edwards è un’insegnante americana ed autrice di libri fra cui “Disegnare con la parte destra del cervello”, best seller pubblicato nel 1979 ed oggi alla sua quarta edizione, ancora presente nelle classifiche dei libri più venduti in tutto il mondo nell’ambito artistico-formativo. Si diploma all’Istuto d’arte a Los Angeles nel 1947 e, dopo un master in arte applicata, svolge un dottorato in Arte, Educazione e Psicologia all’UCLA, dove rimarrà ad insegnare e svolgere

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I sei cappelli sono atteggiamenti mentali: ragione, emozioni, pessimismo, ottimismo, inventiva ed organizzazione. Saperli sfruttare in maniere fluida e corretta da l’accesso ad un dialogo stimolante all’interno di un ufficio o in un qualsiasi gruppo di persone a cui venga posto un problema articolato. Saper sfruttare tutti i componenti presenti ad una discussione e gli infiniti punti di vista che è possibile trarne è compito di un buon progettista, come sapersi avvalere di entrambi di emisferi cerebrali senza ridurre la questione ad un “razzismo emisferico”, così denominato dall’autore, etichettando come “più creativo” un lato rispetto all’altro.


cedimenti di problem solving. Il metodo Edwards di disegno e insegnamento fu considerato rivoluzionario appena pubblicato e ricevette un immediato responso positivo, largamento diffuso fra artisti, insegnanti e critici del mondo dell’arte. Il punto di svolta era la considerazione che ai due emisferi del cervello umano fossero associate specifiche funzioni: uno verbale ed analitico che ragiona per euristiche (ipotesi approsimative basate su modelli mentali), l’altro visuale e percettivo, e che il secondo fosse sempre stato prevaricato dal primo. Il modo, spiegato in “Disegnare con la parte destra del cervello”, per poter riuscire a dividere i due emisferi, durante il processo di disegno, era l’abbandono dei preconcetti su come il soggetto sarebbe dovuto apparire e, rinunciando al significato semantico associato ai diversi oggetti del mondo, visualizzare un incrocio di linee, spazi, relazioni di luce ed ombre e solo successivamente combinarli per poterne avere una visione gestaltica globale. L’inizio del processo della Edwards si basò in parte sulla sua conoscenza delle neuroscienze, in particolare delle ricerche del premio Nobel del 1981 Roger Sperry sulla duplice natura del cervello uman, teorie che attualmente vengono duramente criticate in favore di una divisione fra cervello alto e basso (teoria di studio pubblicato nel 1982 dal National Institute of Mental Health), e associando il processo verbale all’emisfero sinistro, mentro quello visivo aveva luogo nel destro. Successivamente, quando vennero pubblicate delle ricerche dell’università dello Utah che affermavano come fosse impossibile localizzare le funzioni cerebrali, la Edwards, mantenendo la concezione di “destra” an-

che se slegata dalla questione dei lobi temporali, continuò a denominarla “modalità destra” quella riferita alla visione globale, ad un quadro nel suo insieme, ad un sistema come prodotto di molteplici funzioni, come un organismo vivente o un processo industriale. L’ulteriore metafora della divisione cerebrale, azzardata dall’autrice, è con i contesti manageriali occidentali ed orientali: mentre i primi (corrispondenti al lato sinistro) sono improntati all’identificazione dei problemi e degli obbiettivi e in caso di mancanza di questi due propositi il processo subisce un blocco, il secondo (che si rispecchia nel lato destro) effettua una ricerca su quello che è il metodo complessivo, per individuarne possibili ottimizzazioni all’interno di esso, senza necessitare di un problema ma ragionando sui rapporti interni alle cose. Le lezioni di Betty Edwards fecero scalpore per le sue affermazioni fondate sulla convizione che tutti potessero imparare a disegnare, imparando a far emergere la capacità di “vedere artisticamente”, ossia di percepire la realtà non secondo gli schemi precostituiti della mente razionale, bensì attraverso lo sviluppo delle categorie intuitive e della creatività. La volontà utopica di Edwards era di democratizzare le capacità di disegno, instaurando un linguaggio che potesse superare quello della scrittura, poichè, al contrario di quest’ultima, solo il disegno dispone universalmente delle possibilità per oggettivare correttamente il pensiero. Come la scrittura comune è separata dalla letteratura, così l’autrice differenziava l’arta dal disegno semplice, base, alla portata di tutti. Attraverso le nozioni del libro, una serie di esercizi pratici e di 24

strategie per “ingannare” l’emisfero sinistro tendenzialmente dominante, l’autrice permetteva a quello destro di poter prendere il controllo e dirigere le operazioni. Alcune funzioni, come quelle legate al linguaggio orale, sono affidate all’emisfero sinistro, per questo sarebbe stato controproducente, dice la Edwards, parlare o ascoltare le parole di una canzone mentre si disegna, poiché si porrebbe in conflitto mentale e, in quel caso, la parte destra sarebbe quella che ne uscirebbe sconfitta. L’autrice stessa afferma più volte di come, anche nei suoi workshop, spesso la capacità di spiegare ad alta voce le operazioni venisse a mancarle mano a mano che disegno le “occupava la mente”, e di come faticasse a riprendere l’uso della parola per qualche secondo dopo una sessione di disegno intensivo. Il manuale, ricco di esempi tratti dalla vita personale dell’autrice e di disegni degli allievi, è un continuo banco di prova del metodo Edwards, presentato non come un procedimento scientifico (malgrado la schematica serie di esercizi) ma piuttosto come un approfondimento delle capacità che si è sempre stati forzati a nascondere. Il primo corso all’università, tenuto da Betty Edwards, si chiamava “Corso di disegno per chi non sa disegnare”. Attravero i diversi manuali l’insegnamento si fece più distante dalla semplice dualità e più insistente rispetto allo spazio che dovrebbe essere lasciato per la propria espressione artistica personale, attraverso la proposta stimolante (ed profondamente futuristica per il tempo) dell’esistenza di un potenziale creativo collettivo, esplorabile attraverso semplici tecniche e la padronanza del linguaggio del disegno.


Quale dei due emisferi utilizzi di più? Prova il test

Julia Cameron e i flussi energetici

Julia Cameron nasce nei sobborghi cattolici di Chicago, si forma in giornalismo alla Georgetown University, svolgendo un promettente tirocinio al Washington Post, per poi essere assunta dalla rivista musicale Rolling Stone. La biografia dell’artista descrive, parallelo all’inizio della carriera giornalistica, un periodo di abuso sempre maggiore di alcol, che la porterà ad una tale assuefazione da impedirle di portare avanti il suo lavoro. Nel 1987 attraverso un percorso di riabilitazione, riuscirà a mettere fine alle sue dipendenze e si troverà, trentenne, di fronte una carriera costruita su “ispirazioni lampo” dettate dalla perdita di inibizioni dell’alcol, dovendo necessariamente imparare a trasferire la propria creatività in una via alternativa, un flusso positivo che sarà l’inizio di un percorso spirituale. Abbandonando l’im-

magine drammatica dell’artista sofferente (costruita su fattori “zavorra” come le droghe, la promiscuità, il comportamento incostante ed autodistruttivo...), il creativo rinuncia agli alibi con cui giustifica la propria opera e si assume le responsabilità per ciò che decide di creare. Dapprima tramite lezioni private ad altri scrittori bloccati Cameron inizierà la formulazione di un metodo che sarà la base per dei corsi universitari su come affrontare i blocchi creativi e riuscire a superarli, dapprima solo per giornalisti e successivamente aperte a tutte le tipologie artistiche. Il successo che ne conseguirà sarà tale da indurla a raccogliere le sue lezioni e pubblicarle nel best seller internazionale “La via dell’Artista”, a cui in tempi più contemporanei ha seguito un blog ed un sito web. Cameron fonda al centro delle sue sperimentazioni la scrittura, come tecnica di auto-terapia psicologica: attraverso 25

l’impostazione di una routine di scrittura giornaliera induce i suoi pazienti ad un’analisi della propria vita, rivalutando vecchi desideri e aspirazioni di vita a cui si è deciso di rinunciare ed affrontando i traumi, cercando di individuarne la causa prima. “Tutti noi abbiamo sognato di dipingere, ballare, scrivere, comporre musica, ma poi, spesso, abbiamo rinunciato a quel sogno, convinti di non avere sufficiente talento per l’ “arte”.” descrive l’autrice nella prefazione del libro che guida attraverso l’idea che l’espressione artistica non sia qualcosa di artificiale o d’innato, ma la “naturale direzione della vita di ognuno”. Il libro, riprendendo dal workshop da cui è tratto la scansione in dodici settimane, dedica ad ogni step la riappropriazione di una caratteristica necessaria al processo artistico: la sicurezza, la forza, l’integrità... Valori morali per una vita sana che origini un percorso artistico altrettan-


IMMAGINE

to sano. L’intento della Cameron non è la qualità con cui si prefigge di dotare gli utenti al termine del percorso, ma piuttosto un quantitativo spiazzante di lavoro svolto, accessibile solo decidendo a venire a patti con i propri demoni interiori. Solo grazie ad un dialogo sereno con i propri io il lettore può sviluppare quei contenuti che aveva sempre negato a se stesso e sorprendersi di come essi vengano a galla facilmente, in un clima non atto sempre a castigare il proprio flusso creativo. La creatività, all’interno del percorso, è vista come un faro spirituale: il volere di un’entità superiore (prettamente cristiana nonostante la Cameron lasci piena libertà di un credo personale) di abbandonarsi ad un flusso di coscienza creativa. L’intero corso è descritto dall’autrice come un laboratorio spirituale diretto all’artista e soprattutto al non artista, per una trasformazione

della propria vita nel il recupero dei propri poteri creativi. Ogni settimana si articola su una lezione frontale condotta dalla stessa Cameron, in cui vengono suggeriti spunti diversi per un’analisi della propria vita quotidiana ed una serie di esercizi pratici, solitamente condotti tramite l’uso della scrittura, fra i quali i più frequenti sono le Pagine del Mattino, tre fogli di flusso di coscienza da scrivere appena svegli così da poter scaricare le tensioni notturne e potersi premunire di abbastanza carica positiva per affrontare la giornata, e l’appuntamento con l’artista, una ricorrenza settimanale in cui “incontrare” se stessi e poter arricchire il proprio archivio di ispirazioni: visitare un museo, andare al cinema, esplorare un parco, piccole attività in solitaria che obbligano a momenti di relax e riflessioni distaccate dalla propria routine. Gli insegnamenti sono in parti26

colare dedicati a quelle persone che avrebbero voluto intraprendere una carriera artistica ma che sono stati impossibilitati a farlo per le ragioni più disparate, innescando così un percorso di auto flagellazione e la nascita di sensi di colpa legati all’atto del creare. La dedizione alla creatività, per quanto non necessariamente debba concludersi in una carriera artistica, non dovrebbe essere negata. L’autrice parla di un periodo di lutto, causato dall’indagine profonda delle cause della propria insoddisfazione ed invidia, necessario per liberarsi dalle proprie concezioni antiquate e trasformare la propria paura in libertà. “La creatività non dipenderà dal fatto che il risultato finale sia un’idea originale o la soluzione ad un problema d’affari, ma il raggiumento di un benessere, la trasformazione della propria vita in un un’opera d’arte.”


IDEO e il valore del condizionale

Il design thinking può essere definito come l’applicazione di diverse metodologie di design usercentered (che pongono l’utente al centro del processo) atta a risolvere problemi di ambiti diversi: dall’ideazione di prodotti o servizi fino all’investigazione e definizione di un business, rispondendo a quattro prerogative: Sintesi, Prototipazione, Collaborazione ed Empatia. I punti cardinali a cui questo complesso di discipline devono rispondere sintetizzano i capacità che il progettista ideale dovrebbe incarnare: la capacità di saper armonizzare e dare una forma a idee e concetti eterogenei apparentemente in conflitto, l’importanza di una corretta e veloce messa in pratica, testando il prodotto (o il servizio) per toccare con mano e ottenere un feedback immediato, la collaborazione, necessaria per un sano lavoro in team

multidisciplinari, strutturati per affrontare problemi complessi in scenari differenti, ed infine l’abilità di saper coinvolgere le persone interessate per comprenderne i bisogni, strumento molto importante per creare prodotti o servizi che rispondano in maniera intelligente alle esigenze delle persone. Reso popolare dal lavoro di aziende innovative come IDEO e Intuit (in qualità di consulenti per multinazionali come Microsoft, British Airways, Shimano...) il Design Thinking rappresenta il punto di arrivo di un processo di definizione che ha coinvolto diversi campi di applicazione come la progettazione software, l’architettura, il design di prodotto, l’urbanistica e la pianificazione, e la cui origine può essere rintracciata nella nascita del partecipatory design (noto anche come cooperative design o scandinavian approach) nei paesi scandinavi a partire dagli anni ‘60.

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Il movimento del partecipatory design (letteralmente design partecipativo) nasce nel contesto di un crescente tentativo di democratizzazione dei processi industriali, teso a far crescere l’influenza dei lavoratori nei processi decisionali e a migliorare le condizioni nel posto di lavoro. L’etica del design partecipativo puntava al coinvolgimento di tutte le figure interessate da un progetto (gli stakeholders) nella creazione di uno strumento, al fine di migliorarne l’usabilità. La sperimentazione fece un passo ulteriore durante l’esportazione del metodo negli USA e partecipando al design di sistemi software sul finire degli anni ‘70, ponendo inizialmente l’enfasi su un approccio scientifico verso l’interazione tra utente e sistema e conferendo grande importanza ai test di usabilità ma trascurando spesso la risposta emozionale degli utilizzatori. Sarà la proposta, introdotta nella seconda metà degli anni


80 dal teorico Donald Norman, ad introdurre la nozione di “usercentered design”, tentando di rendere centrale il ruolo dell’utilizzatore nel processo di creazione di prodotti e sganciandolo dal ruolo di “cavia” che gli era stato conferito nei primi anni di sviluppo dei software. Il focus viene così spostato maggiormente verso i bisogni e desideri dell’utilizzatore e verso l’esperienza a tutto tondo nell’interagire con il prodotto. La riflessione sulle metodologie di design ha portato, a partire dallo stesso periodo, diversi teorici come Nigel Cross, Richard Buchanan e Donald Schon a interrogarsi sulla natura della creatività e a concepire il design come disciplina “ponte” per affrontare i cosiddetti “wicked problems”, problemi di difficile definizione e risoluzione che possono beneficiare di strumenti di pensiero basati su empatia, intuizione e messa in pratica. Il design viene a configurarsi sempre di più come un metodo che permetta sia l’integrazione tra diverse discipline sia l’alternarsi tra teoria e pratica, utile in campi riguardanti la comunicazione visiva, il design di oggetti, la progettazione di attività e l’ideazione di sistemi organizzativi complessi. Il concetto di “human centered design”, formulato da William Rouse, si sposava con queste considerazioni proponendo un visione del design con forti connotazioni antropologiche, secondo un approccio che fosse in grado di affrontare i complessi problemi dell’umanità collocando l’utente nel più ampio contesto sociale e tenendo in considerazione lo sviluppo delle aspirazioni e delle abilità umane. Questa prospettiva olistica rappresenta la base della nozione di service design proposta da Lucy Kimbell, non più orientata soltanto all’esperienza

dell’utente finale ma soprattutto valutata su tutti i punti di contatto dell’utente con un servizio e tesa al coinvolgimento dell’intera squadra di attori coinvolti nel suo rilascio sul mercato. La prospettiva del service design verifica tutte le fasi di contatto dell’utente con il prodotto: partendo da quando ne scopre l’esistenza, al momento dell’acquisto, alla relazione con gli addetti all’assistenza fino alla conclusione del suo ciclo di vita, utilizzando un approccio multidisciplinare focalizzato sulla sostenibilità del servizio. Perfezionato e popolarizzato da David Kelley, professore dell’Università di Stanford e fondatore nel 1991 della ditta IDEO (ditta di consultazione che può vantare fra i propri clienti P&G, Microsoft, Ford...), e da Tim Brown, attuale CEO della suddetta ditta, il concetto di design thinking, lontano dall’essere una formula dogmatica, tenta di riassumere queste riflessioni, proponendo un framework metodologico flessibile che possa incorporare le molte e varie metodologie di design sviluppate nel corso di questo millennio e metterle a disposizione per un’innovazione sociale utile e sostenibile (per l’uomo e per il pianeta), fondandosi sui bisogni dell’utente, l’empatia, la creatività, la prototipazione e il testing. Parafrasando una celebre frase di Henry Ford: “C’è vera innovazione se questa è sostenibile nel tempo”. Oggi le tecniche di Design Thinking vengono usate per numerosi ambiti tra cui il Business, la finanza, la medicina, l’educazione... Ma è altrettanto importante ricordare che il design thinking non è soltanto un’attitudine ma anche una collezione di tecniche che possono essere utilizzate al fine di accompagnare i progettisti 28

nell’evoluzione del prodotto. La fase iniziale prevede di entrare in “empatia” con i destinatari del servizio, scoprendo gli obiettivi delle persone coinvolte nel progetto e ottenendo degli “insights” (formandosi delle opinioni a riguardo) che saranno utili ad assicurare che le fasi successive possano portare ad un’approccio innovativo, attento ai bisogni delle persone e sostenibile in termini economici e di fattibilità. L’empatia è ottenibile attraverso la tecnica dell’osservazione partecipante, ovvero l’osservazione degli utilizzatori di un servizio nel loro contesto abituale. Il progettista, nei panni dell’antropologo, ha il compito di seguire i loro comportamenti, tenendo presente come essi reagiscano, in che modo, perché siano spinti ad agire così, che obiettivi cerchino di raggiungere, cosa potrebbe starli limitando... Un’altra tecnica, più esplicita rispetto alla precedente e dunque i cui risultati sono più inclini a subire l’influenze dell’opinione del partecipante, si basa sull’intervistare i potenziali utilizzatori di un (futuro) prodotto o servizio per comprendere i loro pensieri (preconcetti), le emozioni e le motivazioni, al fine tener conto delle loro necessità nel momento diretto della progettazione innovativa. L’intervistatore, ponendo domande aperte, deve incoraggiando le presa di posizione del soggetto intervistato, facendo emergere le sue opinioni e le ragioni che le motivano. Da tenere in giusta considerazione sono le inverviste ai cosidetti “utenti estremi”, ovvero soggetti che conoscano a fondo i problemi o gli ambiti trattati e che per questo manifestino desideri specifici, che potrebbero sfuggire nelle opinioni degli utenti medi. Un esempio di questo caso sarebbero i bibliofili nella ri-progettazione


di un servizio bibliotecario. Dopo la prima fase esplorativa, il metodo IDEO provvede una fase di analisi volta alla sintesi e definizione del problema di “design” da risolvere. La tecnica più efficace consiste nella creazione di frasi tese a definire in maniera sintetica i bisogni espressi dall’utente, in maniera da organizzare le idee e i dati

sono il disegno su fogli di carta e la resa in 3D del proprio progetto, in questo modo anomalie strutturali tenderanno a venire a galla e potranno essere affrontate prima di procedere. Il rischio di questo stadio è l’affezione di un progettista verso la propria idea, con la conseguente difficoltà ad saperne discutere con obbiettività e, nel caso, riuscire ad abbandonarla.

che viene scelto di affrontare), l’ideazione (produzione di idee diverse e soluzioni alternative), la creazione, (realizzazione di dimostrazioni dell’idea, solitamente materiali, per essere sottoposte a test e valutazioni). Ogni fase può costituire uno stimolo e un punto di ri-­partenza dell’intero processo: gli esiti del prodotto creato possono evidenziare nuove necessità

Lontane dal costituire un metodo rigido e statico le tecniche del design thinking sono intese come una cassetta degli attrezzi per costruire, di volta in volta, il processo più adatto emersi nella fase esplorativa, e di una iniziale stesura delle frasi su post per poter avere una visione globale al momento della discussione in team. La fase successiva è l’ideazione: in questa fase sarà opportuno facilitare la generazione di idee molteplici e diverse da loro senza porre troppi limiti, scegliendo poi quelle più adatte per la fase di prototipazione. Le idee emerse in questa fase potrebbero aprire nuove prospettive e richiedere una nuova iterazione della fase esplorativa e di definizione al fine di centrare al meglio la nuova direzione di progetto ipotizzata. Il verbo inglese “might” (potrebbe) permette un ragionamento distaccato fra il flusso creativo della fase di ideazione e le opinioni negative sugli aspetti economici e di fattibilità delle suddette idee. Utilizzando questa formula “How might we?” (Come potremmo...?) si invita il team a riflettere senza permettere alla razionalità di bloccare il flusso creativo insistendo su limiti fisici o economici. Quest’ultimo compito toccherà allo step successivo: la prototipazione. Attraverso questa fase si potrà sperimentare una versione embrionale delle idee sviluppate, senza sprecare il tempo e il denaro necessari ad un’effettivo modello funzionante ed in scala. I primi banchi di prova

L’ultimo passaggio si articolano in test che mettano alla prova il prototipo realizzato, essenziali per verificarne la corrispondenza ai bisogni degli utenti. I risultati ottenuti dal test potrebbero portare a rivedere i prototipi fissando alcuni problemi di usabilità o a generare ulteriori insight che richiederanno di reiterare alcune fasi precedenti, come quella esplorativa o di definizione e ideazione. Anche attraverso la discussione di un prototipo base (come il disegno 3D o la realizzazione manuale in carta) si effettua un testing rispetto a quelle che sono la reazione percettiva verso l’oggetto e le criticità connesse. Un esempio di critica costruttiva consiste nel metodo “I like I wish what if ” (Mi piace, io vorrei, e se fosse...): un metodo per incoraggiare il feedback aperto dei colleghi e degli stakeholders, attraverso la menzione degli aspetti considerati positivi, l’elenco dei potenziali desiderati, e le possibili soluzioni. Starà poi ai progettisti decidere se e in che modo incorporare il feedback ricevuto nelle specifiche di progetto. Sintetizzando, il processo, anche se applicababile in maniere differenti a seconda del team di progettisti e attori, fa riferimento a tre fasi principali: l’esplorazione, (osservazione e ricerca che porta i “thinkers”(pensatori) a definire e riassumere il problema 29

di esplorazione, o il bisogno di generare nuove idee o ancora richiedere la creazione di nuovi prototipi da poter valutare. Ogni momento del processo diventa così un momento conoscitivo, snodo di potenziali evoluzioni. Lontane dal costituire un metodo rigido e statico le tecniche sono intese come una cassetta degli attrezzi per costruire, di volta in volta, il processo più adatto, in base alle caratteristiche risultanti del progetto, e possono essere usate iterativamente per approfondire aspetti che erano sfuggiti nel corso di una fase e generare ulteriori insights e soluzioni, facendo così del processo di design thinking un metodo che possa portare a soluzioni innovative, senza perdere di vista sostenibilità, comunicazione ed efficacia.


Keri Smith e la visione sensoriale

Keri Smith è autrice di libri, illustratrice ed esponente della corrente artistica “guerilla art”(movimento artistico branca della street art che annovera, fra le altre caratteristiche, l’anonimato degli autori). Di nazionalità canadese ma trasferitasi negli USA, ha scritto diversi libri che analizzano e stimolano la creatività umana, fra i più noti ci sono: “Wreck this Journal” (Distruggi questo libro), “Guerilla Art Kit”, “Living Out Loud” (Vivere ad alto volume), How to be an explorer of the world (Come essere un esploratore del mondo). Dal 2010 è anche autrice di un popolare blog, Wish Jar (Barattolo dei desideri), accrescendo la popolarità e la viralità dei suoi interventi che l’hanno portata a tenere conferenze e workshop in tutti gli Stati Uniti. L’’autrice parla della creatività come di una capacità di per-

cepire il mondo sotto una luce vergine: scegliendo di osservare le innumerevoli possibili prospettive del mondo, senza forzare un giudizio, la percezione sarà libera dalle convenzioni e, in quanto tale, possiederà tutte le potenzialità (di idee e associazioni), insite in uno sguardo nuovo non circoscritto dagli schemi mentali tipici della cultura occidentale. L’autrice afferma: “La creatività è precipuamente un metodo di osservazione, implementabile attraverso l’utilizzo di tutti i sensi di cui disponiamo, e , come diceva J. Robert Oppenheimer: “La vita è sempre al confine con il mistero, al confine con l’ignoto.” mi piace pensarla come mi piace pensarla come “il mistero del come””. Keri Smith non nega la lezione di Betty Edwards e ammette che ci siano persone con una maggiore dominanza dell’emisfero destro e altre di quello sinistro, ma allo stesso tempo è convinta 30

che fra i motivi principali per cui la creatività sia così poco sviluppata nella società contemporanea sia l’influenzata dettata dal contesto di vita organizzato su un’organizzazione mentale schematica, non incoraggi l’uso dell’emisfero destro. Solo addestrando al di fuori delle modalità abituali di percezione del mondo, le persone potranno riacquista la capacità, perduta con l’educazione, di guardare le cose in maniera nuova, come neonati e bambini, i quali, non avendo etichette, non hanno paura di sperimentare in maniera sensoriale (toccando, annusando, suonando, osservando...) ciò che non conoscono. Il percorso conoscitivo dev’essere guidato parallelo a quello scolastico, incoraggiando i bambini a continuare il processo di sperimentazione del mondo, riusciscendo in questo modo a riequilibrare l’imposizione culturale dell’etichetta, della cate-


gorizzazione,dell’organizzazione. Richiamando la fenomenologia husserliana (Edmund Husserl, filosofo e matematico tedesco) attraverso la sospensione di un giudizio personale, Smith parla di come la sperimentazione richieda di entrare completamente nel processo del “non conosciuto”, di cui non si è in grado di controllare il risultato (aspirazione costante del nostro emisfero sinistro) e solo sperimentando l’errore ed il caos le persone saranno forzate ad uscire dalle abituali percezioni, aprendosi a nuove associazioni. Il processo, per quanto utile ad ognuno, diventa imperativo per gli aspiranti creativi che hanno il dovere di saper annullare il proprio pensiero razionale ed accettare idee e connessioni provenienti da direzioni che l’autrice definisce come “altri luoghi”, ovvero connessioni di due o più concetti apparentemente divergenti o irrilevanti, che mai sono stati messi in relazione prima. A tal proposito viene citata l’invenzione del velcro ad opera dell’ingegnere svizzero George de Mestral, il quale, andando a caccia con il proprio cane, tornando a casa trovò il suo aiutante quadrupede completamente coperto di trucioli. Parlando della relazione fra creatività e cervello l’artista parla di come, malgrado indagini scientifiche sempre più diffuse si stiano incentrando sull’origine di questa capacità (citando come esempio gli studi del dottor Semir Zeki, docente all’University College di Londra e direttore dell’Istituto di Neuroestetica, sulle “basi neurali” della fruizione e della produzione artistica, che porta, a supporto delle proprie ipotesi, risultati di risonanze magnetiche), sarebbe necessario focalizzarsi sul futuro della capacità prima che sull’origine materiale.

Smith ribadisce che l’approccio neuroscientifico all’arte e alla creatività siano utili nella comprensione dei processi cerebrali e che la società ne possa beneficiare ma non saranno d’aiuto nel trovare il modo corretto per diventare più creativi, e che al contrario, esso dipenderà dal metodo di indagine che si sceglierà per “esplorare” l’individuo. Anche riguardo la misurazione matematica di tale capacità il suo approcio rimane scettico: “C’è un vantaggio a determinare quanta creatività esista? Se determinassimo che la creatività è quantitativamente bassa, che cosa dovrebbe succedere? Quanta creatività è “abbastanza”? La questione più importante dovrebbe essere: come facciamo a implementare quotidianamente la creatività?” Forte delle immagini descritte nel libro “The Spell of the Sensuous” di David Abram, a proposito di un “pianeta animato” e di una visione nuovamente fenomenologica sulla percezione del mondo, Keri Smith descrive come indispensabile una significativa componente di mistero e di esperienza personale da aggiungere ai processi cerebrali, in funzione di un ripensamento di quelli che sono i processi progettuali e produttivi di oggi. Cita Buckminster Fuller nella dichiarazione: “Sono convinto che la creatività è un a-priori dell’integrità dell’universo, la vita rigenerativa, la conformità senza significato” e aggiunge che i problemi della società attuale sono filosofici, non economici, e pertanto dovrebbe essere affrontato con gli stessi termini per potersi aspettare risultati nel lungo periodo, al contrario delle risoluzioni in chiave puramente economica con cui si ottenengono soltanto risultati nel breve periodo. L’attuale crisi economica rappresenta, per l’autrice, un ciclo che si ripete. 31

Allo stesso modo persevererando con l’attuale sistema capitalistico, si otterranno sempre gli stessi (sempre più deludenti) risultati. L’attuale crisi energetica è stata prevista da decenni dagli specialisti e non dovrebbe essere motivo di sorpresa per nessuno... Occorre inventare modelli radicamente nuovi per ottenere risvolti differenti, basandosi sulla sostenibilità e sul maggior bene possibile per il pianeta e la società estesa. E la chiave di svolta per questo cambiamento, come ha affermato Einstein (“L’immaginazione è più importante della conoscenza”) è l’immaginazione. Stephen Duncombe nel suo libro “Dream: Re-Imagining Progressive Politics in an Age of Fantasy”, dice che è dell’artista il ruolo di re-immaginare e sognare ciò che il mondo può essere, nonostante non venga ritenuto possibile, anzi specialmente in questo caso. Keri Smith indica come questo l’inizio del processo creativo: spingendo il proprio io al di là dei confini della realtà, verso nuove ed inesplorate direzioni: “Il nuovo modo di vivere ha bisogno di ispirarsi alla realizzazione che i nuovi vantaggi sono stati acquisiti attraverso grandi brancolamenti al buio dell’ignoto, da sconosciuti esploratori intellettuali”. Nella pratica Smith agisce incitando, quasi forzando, i suoi lettori ad usare prospettive sempre diverse per guardare il mondo e questo significa in gran parte sperimentare nuovi utilizzi per quelli che si trasformano in nuovi utensili. Ispirandosi ai lavori “open work” di Umberto Eco, apre l’opera e chiama il lettore al ruolo di performer, osservatore e ascoltatore attivo. Portando a termine il progetto in maniera soggettiva, come suggerito anche nel lavoro di Italo Calvino di un’imple-


mentazione all’immaginazione tramite una conoscenza diretta, il lettore diventerà partecipe dell’esperienza, arricchendo un immaginario catalogo di infinite risoluzioni ai problemi esposti e fornendo il libro di destini e vite differenti. L’obbiettivo della scrittrice è quello di instillare, ai suoi lettori, il desiderio di fare esperienzia sensoriale del mondo, opponendosi alle barriere della visione attraverso gli schermi dei computer, dei telefoni, di tutto ciò che tecnologia significa allontanarsi dalla natura, di cui invece raccomanda di prendersi cura. La concretizzazione dell’approcio esperienziale si trova dapprima nel libro “Finisch this book (Finisci questo libro) in cui viene chiesto al lettore di completare i testi con informazioni soggettive e resoconti di storie personali, creando un ibrido libro diario che porti la testimanianza di chi lo ha completato. Senza le parti del lettore il volume si presenta per la maggior par-

te vuoto e poco interessante, solo grazie alla condivisione del lettore esso assume valore. Nel titolo del secondo libro della serie l’autrice riesce a condensare il messaggio dell’intero progetto a cui è chiamato a partecipare il lettore: “Wreck this journal” (Demolisci/distruggi/disfa questo libro). Attraverso una serie di compiti che il lettore è incaricato di portare a termine, Keri Smith guida nella smaterializzazione del prodotto libro come generalmente è inteso e nella sua fruizione nelle maniere più alternative: leggerlo sotto la doccia, camminarci sopra, lasciarlo in un posto pubblico per far scrivere qualcosa ad uno sconosciuto (andando a sfiorare il concetto di casualità, tipica delle performance urbane)... L’atto della distruzione è inteso come un atto creativo, un processo che comprende il riarrangiamento dei materiali in una nuova configurazione, consentendo a nuovi processi di emergere, sia intesa a livello

basilare come traformazione dell’oggetto in sé, sia, ad un livello più alto, come un esperimento finalizzato ad analizzare le conseguenze di determinate azioni: “Cosa accadrà se rovescio del caffè su questa pagina? Che forma prenderà al macchia? Cosa accade quando incorporiamo l’indeterminatezza, consentendo l’impatto di forze esterne (errore, gravità, tempo, velocità, altri esseri umani)? Cosa accade quando peridamo definitivamente il controllo?” Approcciando un oggetto quotidiano in un modo diverso da quello che ci hanno insegnato, l’autrice mira ad aprire i propri lettori ad una nuova esperienza dell’oggetto, superando le inibizioni iniziali e i giudizi sul buono o il cattivo risultato, spesso i colpevoli più frequenti di blocchi progettuali. Il libro è uno spazio per le idee ed i processi che si limitano ad esistere per essere esplorati, senza giudizio.

Miranda July e l’esperienza emotiva

sentimentale di due giovani artisti che stentano ad affermarsi nell’attuale epoca del precariato statunitense, si evidenzia chiaro l’intento dell’autrice di indagare quelli che sono gli impulsi che spingono alla creatività, attraverso i medium più disparati. Il nucleo dello studio è ciò che viene portato a galla dall’imput creativo, come si sviluppi dentro l’individuo e come ognuno abbia la tendenza a personalizzare il proprio processo creativo. Dall’incontro con l’artista contemporaneo Harrel Fletcher, specializzato in progetti interdisciplinari, nasce il progetto “Learning To Love You More” (Imparando a amare di più te stesso), un sito che nasce come

un punto di incontro fra la performance e la terapia. Senza pretendere di essere la soluzione definitiva al problema della scarsa autostima (fattore estremamente presente in quelli che sono considerati gli ambiti artistici) ma si pone come un’alternativa ai percorsi di affermazione di self help (“Io valgo”, “Io sono importante”, “Io non mi darò più per scontato”...), insegnando gli utenti a aprirsi verso il prossimo, a vivere sentimenti solitamente reclusi o semplicemente a divertirsi di più. Il sito si organizza in un elenco di settanta compiti fra cui sono presenti: realizza un documentario su un bambino, registra le urla dei tuoi vicini,

Miranda July, artista, scrittrice ed attrice statunitense si fa conoscere dal grande pubblico con il lungometraggio, datato 2005 “Me and You and Everyone we know”, film che dipinge un ritratto colorato e, al contempo, spietato delle relazioni in uno stile minimalista ed irriverente che ben caratterizza l’esordio alla regia della July, la quale colpisce per la sua capacità di stupirsi per le cose del mondo, riuscendo a sua volta a stupire lo spettatore. Dalla pubblicazione di una raccolta di racconti brevi e da un nuovo lungometraggio sulla vita

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cura una retrospettiva artistica in un luogo pubblico, costruisci una miniatura del tuo letto con la carta, trascrivi la telefonata che vorresti ricevere... Quando venne pubblicato il sito i compiti non erano ancora presenti e sono iniziati ad uscite con cadenza fissa, alternati ad un paio di giorni finalizzati alla realizzazione degli obbiettivi, malgrado gli stessi autori suggerissero che fossero realizzati se non il giorno stesso quello seguente: fondamentale era il presupposto che non potessero infiltrarsi nel processo creativo troppi pensieri, i quali avrebbero finito per corrompere l’intento. Le pratiche che venivano assegnate arrivarono a costruire una community, i cui lavori venivano pubblicati in sezioni apposite del sito, rendendo l’intera catena una performance collettiva costituita dall’accettazone di un compito, la realizzazione attraverso le tecniche prescritte (fotografia, testo, video...) e la messa online del proprio operato, senza possibilità di critica o commento su quelle altrui. Come una ricetta o una pratica meditativa la natura delle prescrizioni era intesa nell’interesse di guidare gli utenti attraverso loro personali esperienze e di poter“sbocciare” senza pudore dal bozzolo creativo creato. Il progetto è stato attivo dal 2002 al 2009 collezionando più 8000 partecipanti in tutto il mondo. Learning to Love you more non si è limitato ad essere solo un sito web, ma è anche stato un contenitore per una serie di esibizioni in musei, gallerie, scuole, show alla radio e televisivi, in cui spesso venivano esposti lavori di un particolare ambito, selezionati dal sito o qualche volta personali incentrate sull’intero progetto di qualche utente in particolare. Ai partecipanti venivano inviate, tramite email, implementazioni ai compiti

svolti, assieme alle specifiche di indirizzo e giorno dello show, con l’intento di radunare l’intera community e poter realizzare un happening, strumento artistico che, secondo gli autori, meglio poteva rappresentare ciò che il sito aveva costruito.

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Dal 2010 è possibile comprare una raccolta dei lavori più interessanti, curata dagli stessi autori del sito July e Fletcher, creando un collage della cultura pop che racconti in larga scala quella che è la vita di oggi.


Capitolo 3

Creatività oggi

Potere agli stupidi!

testualizzato correttamente e posto sotto una nuova luce, l’aggettivo si distacca dalla connotazione negativa alla quale è sempre stato associato, conquistando una sua dignità artistica. Siamo dunque di fronte a un momento di livellamento culturale in cui la gag dell’uomo che scivola sulla buccia di banana, se riproposta in salsa Vine (il social network che permette di tagliare e incollare scene riprese con il proprio telefonino, realizzando filmati di pochi minuti dal gusto rigo-

Dopo la genialità e la follia, il terzo concetto che racchiude la dissociazione delle idee e il gusto per l’originalità è l’idiozia. Nonostante non sia mai stata considerata una vera qualità, nell’ultimo ventennio la stupidità è entrata a far parte del pantheon delle caratteristiche desiderate in un buon progettista. “Stupido è chi lo stupido fa” affermava Tom Hanks nei panni di Forrest Gump nell’omonimo film, ma oggi, c’è una nuova postilla a ribaltarne il senso: “Stupido è chi lo stupido sa fare”. Se con 34


samente demenziale ed irriverente), raggiunge il favore del pubblico che, pur non ammettendo pubblicamente il suo apprezzamento, rimane incollato allo schermo del proprio computer? Oppure stiamo modificando la nostra percezione della “scemenza” promuovendola da elemento di bassa comicità ad ingrediente imprescindibile di un nuovo umorismo sagace e brillante? Il confine fra le due cose è ormai così sottile da trovare una sua autorevolezza soltanto nelle modalità di utilizzo. Come ripetono gli educatori agli alunni: “Occorre

Diesel come risposta, rilancia la pubblicità viralmente su internet, chiedendo di condividere in rete le foto il cui inno è oramai “Lunga vita agli stupidi”, riuscendo così a raddoppiare le visite al proprio portale (ma non le vendite), e Renzo Rosso, fondatore del marchio, pubblica lo stesso anno un libro con il medesimo slogan, dimostrando di essere l’uomo che, più di ogni altro, vive la filosofia “Be Stupid”. L’impreditore Rosso, nel corso della sua carriera, ha spesso fatto notizia per dirigere un’azienda dalla condotta fuori dagli schemi: assumendo col-

Non si tratta più di guardare al bambino che c’è in ognuno di noi, ma di tenere conto anche dell’adolescente, del “teenager” laboratori che lo avevano colpito più per la personalità che per l’esperienza, lanciando campagne pubblicitarie che ironizzavano sull’industria della moda ed acquistando intere società basandosi sul suo intuito, ma collezionando una lunga serie di successi. La casa editrice Rizzoli, a proposito del libro, scrive: “Quando Diesel ha lanciato la campagna Be Stupid, Rosso ha capito che non era solo una provocazione, ma che illustrava, con parole semplici, quello che lui e i suoi colleghi stavano facendo da anni: correre rischi, sfidare le convenzioni, seguire la passione, essere coraggiosi. Be Stupid non era solo uno slogan, era un manifesto.”

imparare quando si può scherzare e quando si deve essere seri.” oggi il processo creativo, anche e soprattutto delle grandi case di pubblicità, di moda, di design, sta attingendo sempre di più da quella idiozia così snobbata. La creatività sviluppata nelle alte sfere della pubblicità e della grafica si avvale di griglie matematiche, spesso elaborate all’inizio del secolo, e di uno stile rigoroso, ma preferisce elaborare i contenuti da trattare in una chiave più spensierata e “leggera”: ormai non si tratta più di guardare al bambino che c’è in ognuno di noi, ma di tenere conto anche dell’adolescente, del teenager. La campagna 2012 del marchio Diesel incarna il nuovo mito: “Stupid might fail. Smart doesn’t even try.” (Lo stupido potrà anche fallire, ma l’intelligente non ci avrà neppure provato). Avviene così il capovolgimento dei ruoli: l’ “intelligentone” (il nerd) non si sente di rischiare se i suoi calcoli analitici glielo sconsigliano, lo stupido invece, ragionando con il cuore e l’adrenalina, è provocatorio, ribelle, rivoluzionario e, per quanto possa risultare ridicolo nei suoi errori, non avrà rimpianti. Diesel, non a caso, è una famosa marca d’abbigliamento, famosa per i suoi jeans, capo da sempre simbolo di rivoluzione massificata, che riesce ancora una volta a rappresentare una nuova “way of life”: gli stupidi, coloro che non hanno paura, che rompono le regole (istituite dai nerd), che falliscono nel tentativo... La campagna riesce a prendere piede soprattutto come reale oggetto di spunto per teenager che, senza approfondire il messaggio, colgono il senso superficiale delle cartellonistica, iniziando ad emulare le stupidaggini oggetto del servizio fotografico al grido di “Gli intelligenti hanno il cervello ma gli stupidi hanno le palle”, portando, in un modo o nell’altro, altra pubblicità al marchio, nonostante le accese critiche e le richieste di ritiro della campagna da parte delle istituzioni scolastiche e religiose. 35


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Essere celebri su Tumblr

più immediata, veloce ed estemporanea. In un saggio sul blog Hyperallergic, le studiose Kate Durbin e Alicia Eler scrivono: “Questa estetica dirotta la nozione di adolescenza, provando a riportarla agli adulti attraverso nostalgia, corpi femminili ipersessualizzati e sentimenti effimeri, sdolcinati”. La Durbin arriverà a definire il movimento con il titolo di “teen girl Tumblr aesthetic” in cui il “girl” non fa necessariamente riferimento al genere sessuale di appartenenza (biologico o psicologico) ma più ad una virtuale condivisione di interessi fra cui “Disney, Apple, moda, celebrità, porno e usi abbietti del corpo”, il tutto rimescolato in un aspetto giocoso. Al contrario di Facebook e Twitter, social iper-identificativi, l’unica occasione in cui è possibile definire un utente su Tumblr è la sua scelta di caratterizzarsi tramite contenuti di un range ben definito. Un’intervistato della rivista giovanile Vice, interrogato sulla questione della popolarità su Tumblr, afferma: “A mio giudizio le immagini coordinate sono le più interessanti—e lo è soprattutto il modo in cui vengono manipolate

A differenza di applicazioni come Vine o l’attualissimo DubMash (app che permette il ridoppiaggio di famose scene di film o suoni di qualunque tipo e la consecutiva condivisione su internet), dove la stupidità è estremizzata fino al paradosso, il social network Tumblr si è, da sempre, aggiudicato il primo posto come social “alternativo”. Differentemente dai suoi colleghi Facebook, la cui funzione principale è l’esposizione della propria vita tramite foto e il mettere in contatto utenti, e Twitter, in cui vige una gara alla “cinguettata” da 140 caratteri più tagliente del web, Tumblr si ritaglia una postazione più intima e confidenziale, malgrado non abbia nessuna impostazione che regoli la privacy: su Tumblr si sceglie di postare o no, ma tutto ciò che è online è visibile, a tutti e sempre. Anche le regolamentazioni sui contenuti sono estremamente evasive, più volte il social è stato accusato di incitazione a comportamenti malsani quali l’anoressia uno su tutti, o riguardo i

L’estetica Tumbleriana privilegia la dissacrazione, le citazioni alla cultura pop-trash e il non sense, accostando elementi “insignificanti” tra loro nell’ostinata ricerca dei famosi “quindici minuti” di Andy Warhol. E dei like che ne conseguirebbero.

da utenti che possono indebolirne il significato originale, o almeno che riconoscono (consapevolmente o inconsapevolmente) come, mettendole insieme, queste assumano un diverso significato in virtù della loro malleabilità.”

preoccupanti messaggi di istinti suicidi. Questi due temi in particolare, assieme alle fotografie in bianco e nero, ai tatuaggi o i lividi (molto in vista o esposti in una dimensione intima), vanno a delineare una filosofia più o meno coerente dell’utente tipo del social network, a cui, malgrado l’estrema libertà, ci si senta spinti ad aderire. L’autolesionismo e i disturbi alimentari fanno parte da anni di un vocabolario visivo e comportamentale che si rivolge, nuovamente, ad una fascia di adolescenti più o meno cresciuti, ad accompagnamento di uno stereotipo nato da una vasta produzione cinematografica e musicale, che il social network ha contribuito a consolidare.

Come il Dadaismo di inizio novecento prendeva la letteratura e le arti visiva e le svuotava dei suoi standard, rifiutando logica e convenzione ed enfatizzando la stravaganza e la satira, così l’estetica Tumbleriana privilegia la dissacrazione, le citazioni alla cultura pop-trash e il non sense, accostando elementi “insignificanti tra loro” nell’ostinata ricerca dei famosi “quindici minuti” di Andy Warhol. E dei like che ne conseguirebbero.

Anche il porno è argomento di una critica molto aspra che spesso ricorre fra le lamentele pubbliche: non vi è, su tumblr, censura di alcun tipo, contribuendo alla trasformazione dello stesso genere pornografico e della sua fruizione 37


Steal&Remix

dere le tue fonti”, dove quest’ultimo inserisce anche (com’era tipico dello scienziato) una buona dose di ironia all’interno della frase, prendendosi di chi adotta questa tecnica e, al contempo, presentando una sua personale ammissione di “colpa”. Successivamente Ferguson, attraverso un’analisi cinematografica, estende il discorso focalizzandosi sui mash-up (letteralmente “poltiglia”, definita in ambito informatico come un sito o un’applicazione web che include dinamicamente informazioni o contenuti provenienti da più fonti) e sulla risposta del pubblico alla continua riproposta di temi sempre uguali. Negli ultimi dieci anni di blockbuster hollywoodiani, grandi produzioni che hanno l’intento di incassare molto al botteghino, settantaquattro film su cento facevano parte delle categorie sequel, prequel, adattamenti da romanzi, riadattamenti di altri film (vecchi o stranieri), come d’altro canto è sempre stato: già nell’età dell’oro di hollywood venivano girati un numero significativo di remake, riedizioni, serie... Dei restanti ventisei film su cento, più della metà rientravano negli stereotipi dei generi cinematografici: sci-fi, fantasy, poliziesco... Storie che, affidandosi a strutture e canoni già consolidati, cercano di ottenere il minor tasso di rischio

Nel mese di settembre del 2010 un giovane filmmaker di nome Kirby Ferguson apre il sito “Everything is a remix”, in cui carica quattro video, ideati e “remixati” da lui stesso, dalla piattaforma Vimeo e chiede un feedback agli utenti di internet, in un processo di rifinitura, che lo impegnerà per altri due anni. I video che compongono la serie sono, in ordine: “The song remains the same”, “Remix Inc.”, “The elements of creativity”, “System Failure” ed il successivo “Case study: the iPhone”. Nei quattro video (più il caso studio Apple, di prova alla teoria) Ferguson racconta di come la copia sia, in qualsiasi ambito, il primo ed il più naturale metodo di impare: “Non possiamo introdurre nulla di nuovo finché non riusciamo ad essere fluenti in quello che già è presente, e questo è fatto attraverso l’emulazione”. I primi esempi trattati sono musicali, in particolare, viene analizzata la discografia del celebre gruppo, pionere dell’hard rock, Led Zeppelin e di come la maggior parte dei loro successi sia tratta dalle melodie, ed in qualche caso anche dal testo, di altri brani più o meno noti o datati. Kirby Ferguson ci tiene a far presente di come, per questo, il gruppo metal sia stato spesso

Negli ultimi dieci anni di blockbuster hollywoodiani, settantaquattro film su cento facevano parte delle categorie sequel, prequel, adattamenti da romanzi, riadattamenti di altri film demonizzato, a differenza di cantanti che hanno costruito l’intera carriera sull’emulazione di altri artisti, mascherando come ispirazione il furto intellettuale o utilizzando strumenti come la cover, definita dall’autore del video come una “frode legalizzata”. Ferguson mantiene un tono neutrale (sua è anche la voce narrante che guida fra i video), senza giudicare ma analizzando i fatti in maniera analitica, quasi scientifica. Sempre dall’ambito musicale è estrapolato il termine (che darà il titolo al progetto di Ferguson), che definisce la pratica dei dj degli anni ‘80 di mescolare più canzoni insieme formando un brano differente: il remix. L’idea che ogni cosa sia il risultato di un rimescola-

“flop” possibile. Il remix culturale, in questo caso, si appoggia alla tendenza umana ad essere maggiormente a proprio agio in un territorio conosciuto, finendo quindi per privilegiarlo, senza sentire la necessità di apportare cambiamenti rivoluzionari. Un’altra pubblica accusa alla produzione Hollywoodiana “monocorde” viene dal lungometraggio del 2008 “RIP, a remix manifesto”, progetto rilasciato online sotto licenza Creative Commons, curato da un altro filmaker statunitense, Brett Gaylor, in collaborazione con il mash up artist Girl Talk. Girato e montato in sei anni, il film si basa sulla collaborazione e il remix di milioni di persone che hanno contribuito dapprima al sito, lanciato nella prima

mento culturale di influenze diverse è presente fin dalla nascita delle arti stesse, già duemila anni fa il filosofo Anassagora sosteneva: “Nulla nasce o si distrugge, ma vi sono mescolanza e separazione delle cose che esistono.”, ed era ben conosciuto il continuo processo di furto tra una disciplina artistica e l’altra ed all’interno delle stesse. Spesso a riconferma di questa opinione condivisa vengono citati Picasso: “I mediocri imitano, i geni copiano” o di nuovo Picasso: “L’arte è furto” o Einstein: “Il segreto della creatività è sapere come nascon-

versione beta nel 2004, “Open Source Cinema website” e successivamente a quello che è definito come il primo documentario sull’Open Source: “RIP”. Il regista stesso, dopo il rilascio, ha incoraggiato gli spettatori a ricreare un loro montaggio del film, utilizzando le risorse del sito da lui fondato, quelle gratuite di altre piattaforme come Youtube e Myspace, o ancora con contributi ottenuti tramite pirateria. Il lungometraggio traccia le quattro regole del Remixer, che il regista ha dettato dopo aver girato il mondo, nel tentativo di fondare un vero 38


e proprio movimento: “La cultura è sempre costruita sul passato.”, “Il passato cerca sempre di controllare il futuro”, “Il nostro futuro sta diventando meno libero”, “Per costruire una società libera tu devi limitare il controllo del passato”. Gaylor successivamente delimita una separazione tra le corporazioni, chiamate “copyRIGHT”, ed il pubblico dominio, inteso come libero interscambio di idee, denominato “copyLEFT”. Questo secondo è il flusso che Gaylor e Gillis, il collaboratore che con il nickname “Girl Talk” ha contribuito in buona parte alla riuscita del film, cercano di esplorare e diffondere per il mondo. Nonostante le ottime critiche nei riguardi del lungometraggio, al rilascio del film è scoppiata una battaglia legale di grandi dimensioni per i diritti di tutti gli ingredienti del remix, alcuni neppure accreditati e nessuno retribuito, che si conclude con il verdetto del giudice a favore dei due autori, appellatisi alla legge che tutela l’abilità di poter utilizzare materiale coperto da copywright per provare un concetto, in questo caso la battaglia indetta da Gaylor nei confronti di quelle stesse leggi di copywright e il diritto di un artista verso le proprie opere. Durante il lungometraggio è presentata la

prima registrazione di una regolamentazione sul copyright degli Stati Uniti d’America, datata 1790, la quale recitava “An act for the encouragement of learning” (Un atto all’incoraggiamento verso l’imparare) e la prima certificazione di una patente artistica, sempre del 1790, che veniva definita: “an act to promote the progress of useful Arts” (un atto di promozione al progresso delle Arti utili). Gaylor invoca il ritorno di queste libere interpretazioni oltre che un più largo utilizzo del “comune buon senso” rispetto alla fissità e alla complessità delle leggi ora in vigore, specie in relazione alle proprietà intellettuali. In un’epoca in cui ognuno, connettendosi ad internet, può trovare qualsiasi informazione richerchi, possa liberamente modificarla a suo piacimento e reinserirla nel web, vendendola come originale, il regista si interroga sull’utilità di un infinito elenco di reference (le fonti di un determinato progetto/materiale) che dovrebbe accompagnare pressochè ogni immagine del web. Fino a che punto c’è libertà digitale se possiamo accedere ai contenuti ma poi non poterli riportare perché protetti da UNcreative commons? Ed è libertà digitale quella di poter contemplare tutte le informazioni a nostra disposizione senza pot39


er verificare la veridicità di più della metà di esse? Queste sono fra le domande che si è posto un team di scienziati dell’Università dello stato dell’Indiana e dell’Instituto Gulbenkian de Ciencia in Portogallo, pubblicando uno studio intitolato “Computational fact checking from knowledge networks”, andando ad indagare il problema del fact checking, pratica che deriva dalla tradizione del giornalismo anglosassone basato su di un metodo empirico per dimostrare se dichiarazioni e fatti siano attendibili, attraverso la raccolta di informazioni e il confronto incrociato delle fonti. Cercando di progettare uno strumento che risponda a tale necessità, il sistema del progetto si baserebbe sull’automatizzazione della suddivisione delle affermazioni presenti sul world wide web in tre parti: soggetto, predicato e oggetto, individuando per ognuno di essi i collegamenti con altre informazioni presenti su internet, e, sfruttando le connessioni create, formulare un’ipotesi di quanto un’informazione possa essere considerata attendibile.

dal sito ufficiale come “Adottiamo il remix”). La conferenza è, nella tradizione dell’organizzazione, di durata inferiore ai dieci minuti e riassume pressoché le svariate ricerche che il filmmaker ha portato avanti, anche grazie al supporto della comunità online, ma è l’atteggiamento del relatore a cambiare radicalmente, esponendo una visione più aperta nei confronti del remix, scegliendo di manifestare questo suo nuovo approccio all’argomento sin dal titolo “embrace” (abbracciare, accettare, afferrare...). Si potrebbe iniziare un compito di individuazione certosina di quelli che sono i furti, le imitazioni o semplicemente le ispirazioni in tutto il mondo ed in questo, ammette, i fan sono i detective più esperti, come l’utente di Youtube che ha montato le scene di alcuni lungometraggi animati Disney 2D che sfruttano gli stessi storyboard e linee d’azione per poter guadagnare tempo e risorse (in un’epoca in cui ogni inquadratura era ridisegnata a mano su carta), senza che i film stessi ne risentano, o i fan di Tarantino che hanno aperto e mantengono aggiornato un sito che, in un continuo frame-to-frame, è esclusivamente dedicato all’elenco delle generose influenze che il regista ha sfruttato per la serie di film di Kill Bill. Ferguson propone questa operazione di confronto analitico come un’ipotetica strada

Dopo due anni di lavoro, nel giugno 2012, Kirby Ferguson tiene una conferenza ai TEDTalk sul suo progetto, compiendo un passo ulteriore: titola il suo talk “Embrace the Remix” (tradotto in italiano

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eliminates the words he doesn’t need.” (prendete il New York Times, un pennarello indelebile ed eliminate le parole che non gli servono). Il New Yorker lo osannerà come “Il poeta che fa risorgere la carta in un’epoca in cui chiunque la ritiene materia morta”. L’amore dell’autore per la manualità rimane spiccato anche nel secondo lavoro di Kleon: un libro nella veste di guida step by step che lascia trasparire il legame alla filosofia “maker” del nuovo millennio, impersonificata e vissuta innanzitutto dall’autore

da percorrere, ma ammette anche che si rivelerebbe alquanto futile e sterile come compito, rispetto invece all’abbracciare l’idea di creare qualcosa di diverso. Sintetizza affermando: “La nostra creatività deriva dall’esterno, non dall’interno. Dipendiamo l’uno dall’altro, ammetterlo non è un’accettazione di mediocrità, ma una liberazione dai nostri schemi mentali, un’esortazione a non aspettarci troppo da noi stessi e semplicemente cominciare.” In un clima al confine fra il self help (emergente

Per affermare che al mondo sia già stato inventato di tutto Austin Kleon arriva a scomodare la Bibbia: “Non c’è niente di nuovo sotto il sole”, Ecclesiaste, 1:9 stesso, e resa palese attraverso le scelte del formato del libro, che appare come un blocco per appunti come tanti, e quelle grafiche delle impaginazioni e dei font prescelti, i quali danno l’impressione di essere la semplice digitalizzazione di testi scritti direttamente di suo pugno. Kleon, formatosi in un’epoca agli esordi della vera e propria diffusione del web, non rinuncia ad una comunicazione schietta e colloquiale, abbassando le barriere di un ipotetico ruolo di insegnante. La caratteristica che vuole dimostrare maggiormente ai suoi followers è l’autenticità delle proprie opinioni: solo attraverso il conseguimento della fiducia dei nativi digitali è convinto che essi potranno affidarsi alle sue lezioni di arte (e di vita) ed iniziare a metterle in pratica. Il titolo del secondo libro è“Ruba come un artista, impara a copiare idee per essere più creativo nel lavoro e nella vita” e l’intento di Kleon non si distacca troppo da quello di Kirby Ferguson: trasmettere il messaggio che da sempre i mondi della storia dell’arte e della scienza sono potuti avanzare grazie al copiare. Accettato il fatto che al mondo sia già stato inventato di tutto (e per affermarlo l’autore arriva a scomodare la Bibbia: “Non c’è niente di nuovo sotto il sole”, Ecclesiaste, 1:9), occorre ammettere che teorie e scoperte non sarebbero possibili senza uno scambio di “refurtiva” e dunque perchè, se anche i grandi artisti e scienziati lo hanno fatto, doversi esimere da questa pratica e, anzi, non sperimentarla negli anni per poter crescere e arrivare a capire quando e cosa vale la pena di rubare? L’autore cita Jonathan Lethem, scrittore e saggista statunitense noto per il suo stile letterario caratterizzato dal frequente amalgamarsi di una grande varietà di generi e registri, nel dire: “Quando si sostiene che qualcosa è originale, nove volte su dieci è perché non si conoscono i dettagli delle fonti”, pressoché la citazione di Einstein, con la differenza che Lethem non parla di occultare i

ma già diffuso movimento culturale e di mercato basato su libri, video, conferenze, spesso a pagamento, indirizzate a chi desidera concretizzare i propri desideri e “realizzare se stessi”) e l’indagine di quella che è la cultura contemporanea e come essa si è e si stia tutt’ora evolvendo, incontriamo Austin Kleon, ex bibliotecario, ex web designer ed ex pubblicitario texano, ora consulente e relatore per Google, Pixar, The Economist... Autodefinendosi uno “scrittore che disegna” (il suo utilizzo dei social network, in particolare di instagram, conferma il connubio) Kleon inquadra subito la sua figura di mentore/artista del nuovo millennio, raccogliendo gli insegnamenti della psicosomatica e le lezioni di Keri Smith, rinomata scrittrice ed esploratrice sensoriale, e si offre come guida friendly per aspiranti artisti/designer/curiosi. Austin Kleon ottiene il primo successo editoriale nel 2010 pubblicando “Newspaper Blackout”, una perfomance in formato libro o, anche definita, una serie di esercizi di stile. Ogni pagina di “Newspaper Blackout” è, come suggerisce il titolo, una parte di foglio di giornale o rivista in cui, con un pennarello nero, è stato annerito tutto il testo, ad eccezione di poche parole sparse che, lette in sequenza, danno origine ad una frase più o meno di senso compiuto. L’esercizio è ideato dallo stesso Kleon e ripetuto giornalmente sul suo blog per mesi, fino ad arrivare alla sperimentazione e al successo, in una serie di workshop in tutti gli Stati Uniti, da cui trae le risorse per la pubblicazione del libro-raccolta. La tensione del progettista, scaturita dalle prime fasi del processo creativo e dalle infinite possibilità a cui egli può accedere, simbolicamente rappresentate dal foglio bianco (cartaceo o virtuale), può essere affrontata con un metodo alternativo, accessibile in ogni momento tramite una sola regola e materiali alla portata di tutti. L’autore afferma: “Grabs the New York Times and a permanent marker and 41


proprio references ma, al contrario, esaltarli in una manifestazione di cultura personale. Se tutti citassero le proprie fonti in sincerità, il network che si comporrebbe andrebbe a beneficiare tutti gli utenti che ne entrino in contatto, ma questo significherebbe mettere da parte l’orgoglio d’artista e sentirsi liberi di rubare, rielaborare ed essere derubati. Kleon si sofferma sul concetto di genetica delle idee, come sovrapposizione di pensieri propri ed altrui in continuo mutamento e, non a caso, il primo esercizio che suggerisce, molto in voga fra gli illustratori, è quello di mappare le proprie influenze artistiche negli anni, in uno schema che individui quegli stili fatti propri, irrinunciabili per la composizione attuale del proprio stile. Lo scopo del costruire un albero genealogico artistico, oltre a quello di condividerlo sulla rete (primo abbozzo di network), è quello di analizzare le proprie ispirazioni e, se occorre, diversificarle: copiare un solo artista rende degli imitatori sterili, copiare una vasta gamma di artisti innesca processi mentali di fusione delle idee che mettono al mondo uno stile individuale. Le possibili ispirazioni, secondo Kleon, non si ritrovano solo su Art Project, iniziativa di Google che

si pensa di star solo bighellonando, coltivandole per gioco... ed è proprio quella la roba buona, durante la quale può nascere la magia”. Tralasciando il rimando all’accezione sovrannaturale dell’ispirazione, è risaputo come un rinvio produttivo (durante un blocco allontanarsi dal proprio lavoro e fare attività che coinvolgano il corpo come hobby o una semplice corsa) sia distensivo e stimolante per la mente, oltre che per il fisico, spesso costretto a molte ore di immobilità. Kleon propone anche l’idea di dedicarsi a più progetti, in maniera da oscillare da uno all’altro nei momenti di blocco, portando avanti un’elaborazione inconscia. “L’immagine romantica del genio creativo che abusa di ogni sorta di droghe e se la fa con chiunque è roba da superuomini, per gente che vuole morire giovane. La verità è che per essere creativi servono tantissime energie...” L’accento finale è una lezione diametralmente opposta alla campagna dei jeans Diesel, esortando a vivere una vita regolare, entusiasmente ma equilibrata. Come Patti Smith che raccomanda ai giovani artisti di andare dal dentista, così Austin Kleon raccomanda di dormire il più possibile, circondarsi di affetti ed essere gen-

“L’immagine romantica del genio creativo che abusa di ogni sorta di droghe è per gente che vuole morire giovane. La verità è che per essere creativi servono tantissime energie...” tile con il prossimo, riducendo la filosofia karmica ad un semplice alibi per alzarsi tutti i giorni con il sorriso e ricordarsi di ringraziare sempre.

permette di visitare le gallerie d’arte di ogni parte del mondo in maniera virtuale, o negli archivi online, che sempre più strutture museali decidono di mettere a disposizione in maniera gratuita, ma sono presenti ovunque. La spinta a ricercare, sia a guardare che ad osservare, a documentare, a fotografare è fortissima. Viene richiesta una perenne attenzione al mondo che circonda il lettore e un immancabile bloc notes per raccogliere informazioni: ogni impulso potrebbe essere utile, se non nel presente di certo nel futuro, ed ecco che, creando un proprio archivio visuale, si potrà essere in grado di accedervi in qualsiasi momento e di estrapolarne gli ingredienti pronti per essere rimescolati. Senza dimenticare mai la lezione di Linda Barry, fumettista americana, che recita: “Nell’era digitale, mai dimenticare di usare le dita”, l’autore di “Ruba come un artista” sottolinea l’importanza di imparare a fare pausa, allontanarsi dal proprio monitor (e dal proprio lavoro) e di non vivere solamente del proprio lavoro fisso. Al contrario presenta un interessamento sincero a proposito della vita e sulle abitudini comportamentali dei suoi lettori, a cui dedica diversi capitoli chiamati i “progetti collaterali”, ovvero quelle attività “in cui

Kirby Ferguson rubava la citazione di Isaac Newton (che a sua volta aveva rubato da Bernard of Chartres) dicendo che “possiamo vedere il futuro poichè siamo sulle spalle dei giganti del passato” e aggiungendo che questo non dovrebbe essere motivo di vergogna; Kleon, modificando il suo atteggiamento da mentore a figura semipaterna, aggiunge raccomandandosi: evita i debiti, onora il lavoro ordinario, fatti un calendario, e in ultimo “Take care” (Abbi cura di te).

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Capitolo 4

Concept Art


Origini

Wikipedia definisce il concept art come “apparente illustrazione il cui scopo è quello di dimostrare visualmente il design di qualcosa, un pensiero o un “mood”, applicabili successivamente a videogiochi, film, animazioni o fumetti.” Prima di essere portato allo stadio conclusivo, il concept art funge da “test”

La tecnica non ha una data di nascita precisa, facendo risalire il suo inizio ai disegni preparatori della Disney Company per il primo lungometraggio animato in inglese della storia datato 1937: “Biancaneve e i sette nani”. Nella lavorazione del film, eletto nel 2008 come “miglior film d’animazione americano di tutti i tempi”, l’au-

lestito nella sua casa a Hollywood Hills. Senza alcun insegnante, Babbit aveva reclutato un modello che posasse per lui e i suoi compagni animatori, organizzando le sedute settimanalmente. Un mese dopo, Walt Disney chiamò Babbit nel suo ufficio e si offrì di provvedere allo spazio di lavoro e ai modelli necessari se le sessioni

“Sorgeranno nuove città, ed un giorno qualcuno da qualche parte, guardando un progetto dirà “E’ simile a quelli di Ralph McQuarrie, il concept artist di Star Wars!” preparatorio, sviluppando ed esprimendo il senso di un’idea, la creazione di un contesto, la definizione di uno scenario o più nel dettaglio il design di un paesaggio, di un abito, di un’architettura o di qualsiasi altro elemento animato o inanimato. Il percorso progettuale si articola in una successione di concetti, progettati per rispondere alle iniziali linee guida (o distaccarsene) e compito del concept artist è, partendo da esse, andare ad indagare i microcosmi che le compongono e ipotizzare possibili sviluppi che verranno poi scremati ed elaborati fino alla fase di realizzazione della proposta finale. Un concept art, pertanto, costituendo una fase metaprogettuale, è diverso dal prodotto finale sia per il suo scopo che per la sua fruizione. Vengono realizzati prevalentemente per lo sviluppo di film o videogiochi ed alcuni di essi ottengono un successo culturale tale da diventare veri e propri fenomeni di massa senza essere di fatto mai stati prodotti ma solo visti digitalmente dal pubblico. Esempi di noti concept art sono le spade laser di “Guerre stellari”, la batmobile e la macchina del tempo “Delorean ” della trilogia cinematografica “Ritorno al futuro”...

torità primaria per il design era il concept artist Albert Hurter: tutti i disegni utilizzati nel film, dall’aspetto dei personaggi alla fisionomia delle rocce sullo sfondo, dovettero ottenere l’approvazione ultima di Hurter. A contribuire allo stile visivo di Biancaneve e i sette nani vi furono altri due concept artists: Ferdinand Hovarth (i cui disegni erano più complessi nella fase di animazione di quelli realizzati da Hurter, ma contenevano una profondità che il secondo non possedeva) e Gustaf Tenggren, il cui stile era preso in prestito da artisti del calibro di Arthur Rackham e John Bauer, attingendo alla qualità d’illustrazione europea a cui Walt Disney era interessato. Tenggren venne utilizzato principalmente come stilista di colore e per determinare la messa in scena e l’atmosfera di buona parte del film, oltre che le locandine pubblicitarie. Nonostante ciò solo Hurter compare nei titoli del film come disegnatore dei personaggi. Ma l’inizio di un vero stile targato “Disney” avvenne con l’iniziativa di Art Babbitt, un animatore che si era unito allo studio Disney nel 1932, di invitare alcuni dei suoi colleghi (che lavoravano nella sua stessa stanza) partecipare con lui ad un corso d’arte che egli stesso aveva al46

fossero state spostate negli edifici dello studio, accessibili a tutti. Babbit gestì le sessioni per un mese, finché l’animatore Hardie Gramatky suggerì di reclutare Don Graham, noto disegnatore del tempo. L’insegnante d’arte presso il Chouinard Institute tenne la sua prima conferenza allo studio il 15 novembre 1932, incentrando le sue lezioni principalmente sull’anatomia umana e il movimento, ed includendo successivamente analisi di azione, l’anatomia animale e la recitazione. Nonostante le lezioni fossero originariamente descritte come una “battaglia brutale”, con “istruttori e studenti poco esperti dei mestieri altrui”, l’entusiasmo e l’energia di entrambe le parti le rendevano stimolanti e utili per tutti i soggetti coinvolti. Don Graham spesso si ritrovava a proiettare cortometraggi Disney e, insieme con gli animatori, forniva una critica sui punti di forza e debolezza che si sarebbero rispettivamente dovuti sviluppare ed abbandonare per focalizzare quello stile, tutt’oggi rimasto così solido. Altre teorie indicano come primi lavori di concept design gli schizzi di Leonardo da Vinci ma, seppur quest’ultimo progettasse le sue opere senza provvedere


ad una effettiva produzione, queste miravano a rispondere a necessità pratiche riscontrate piuttosto che figurative, caratteristica fondamentale che fa prendere a Leonardo da Vinci le distanze dalla figura di un concept artist, indirizzandolo maggiormente verso quella di designer. Altre tesi qualificano come primi lavori di concept art, pur non essendo puramente visivi, i romanzi di Jules Verne e J.R.R.Tolkien, poichè essi sono formulazioni di interi micro cosmi, che hanno originato spunti per la medicina e le tecnologie esistenti per invenzioni realizzate in epoche successive. La definizione di “concept artist” venne legata dal 1930 all’ambito Disney (comparendo anche come ruolo fra i titoli di coda) fino a quando un giovane George Lucas commissionò il compito di progettare degli sketch da utilizzare nelle scene del film “Guerre Stellari”,

la cui produzione iniziò nel 1975. Ralph McQuarrie, indicato nella sua biografia come “Conceptual Designer” e illustratore americano, non credeva fosse realmente possibile realizzare in qualcosa di tangibile ciò che i suoi disegni illustravano: i costi per la produzione e i materiali sarebbero stati eccessivi, oltre al notevole tasso iper tecnologico che si sarebbero dovuto utilizzare. Lucas, invece, adottò i disegni di McQuarrie, traducendoli in scene reali del film e in personaggi, scaturiti dalla matita del disegnatore, come Chewbacca, R2-D2 e la famosa maschera/apparato respiratorio di Darth Vader. Alcune scene progettate da McQuarrie rimasero molto simili a quelle girate nei film di George Lucas, perfino a livello di gioco di inquadrature. Il regista stesso disse, parlando di McQuarrie: ”Il suo stile ha influenzato migliaia di artisti in tutto il mondo… e continuerà a farlo per intere 47

generazioni. Sorgeranno nuove città, ed un giorno qualcuno, da qualche parte, guardando un progetto dirà “E’ simile a quelli di Ralph McQuarrie!”. Un’ultimo esempio rimasto storico nella produzione del concept art, prima il processo si trasformasse nel fenomeno di massa attuale, fu quello legato al mondo dei fumetti di Akira Toriyama, nel suo lavoro più noto: la serie di DragonBall. Il fumetto, ispirato ad un classico della letteratura cinese “Il viaggio in Occidente” (testo buddhista nel quale viene narrato un viaggio di purificazione per giungere all’illuminazione), trasposto come cartone animato, si rivelò ben accolto dal pubblico di tutto il mondo e dalla critica, nonostante i notevoli scandali. La sua vendita fu bandita negli USA per un lasso di tempo, quando un rivenditore di Dallas accusò il manga di avere scene che sfioravano il cosiddetto “porno


soft”. E lo stesso processo vide una madre italiana denunciare per pedofilia nel 2000 la Star Comics (l’editore di DragonBall) quando, leggendo il fumetto, vide una scena da lei giudicata come pornografica. La causa fu vinta anche se non ebbe gran seguito, se non per qualche censura presente nei numeri successivi (rimosse successivamente) e per l’aggiunta di un box all’inizio di ogni fumetto, contenente l’avvertenza: “Tutti i personaggi del manga sono da ritenersi maggiorenni” (malgrado il personaggio di Goku, all’inizio della serie assumesse le sembianze di un bambino di 8 anni). Nessuno di questi tentati scandali scalfì la fama della serie, immortalandola fra le saghe animate più seguite ed elogiate di sempre..

Mitologie e fondamenti

Nell’ultimo decennio la crescente popolarità del concept art (come tutte quelle riguardanti le fasi di pre e post produz-

ione ad un lavoro) è aumentata a dismisura, soprattutto nei paesi con una vasta produzione negli ambiti più comuni del concept art (videogame, film, animazione...), con la conseguenza che, grazie a documentari e libri sull’argomento, molte più persone oggi siano a conoscenza di cosa si intenda quando se ne parla e molti più ragazzi siano spinti a tentare la carriera tramite nuovi corsi universitari che garantiscono specializzazioni in “game artist” o “concept artist”. La popolarità ha portato con sè, però, diverse credenze false a proposito. In un articolo che si propone di evidenziare questa diseducazione, il teorico e concept artist Anjin Anhut dichiara come ogni forma di arte rilasciata ufficialmente (o uscita di nascosto) dalle case produttrici sotto il titolo di “concept art” venga generata con l’intento di aumentare la curiosità degli appassionati, in merito spesso al rilascio di qual-

siasi progetto a cui sia riferito. I pubblicitari hanno il compito di alimentare l’aspettativa pubblica, le riviste e i blog investono sforzi per generare nuove e produttive visualizzazioni e pertanto, per corrispondere a questi obbiettivi, i rilasci artistici devono rappresentare accuratamente la visualizzazione finale del gioco/film e per fare questo esse devono essere selezionate o create dopo che il design è stato portato a conclusione. Quello che viene etichettato e pubblicizzato come concept art (dalle case di produzione, dai giornalisti, dai fan, dai siti che le collezionano e a volta anche da coloro che le hanno realizzate) è, in realtà nella maggioranza dei casi, “Promotional art”. Anjin Anhut dichiara questo fatto come tossico per coloro che voglio seriamente approciarsi alle tecniche e non sanno da dove cominciare, subendo le pressioni e le aspettative di un mondo che ha falsamente com-


preso in cosa esse consistano. Se la definizione di wikipedia non è completamente errata (“un’apparente illustrazione il cui scopo è quello di dimostrare visualmente il design...”) essa ignora il fatto che il lavoro del concept scompaia via via che ci si addentra nel processo di definizione. Per ogni modello finale il progettista colleziona centinaia di esplorazioni, archivi di references, sketches che verranno rifiutati dai diversi team di supervisione. E maggiore sarà l’esperienza dell’artista più ampia, si presuppone, risulterà la sua ricerca, esplorando campi nuovi e creando ancora più “carta da buttare”. Suzanne Helmigh, concept artist statunitense, paragona il processo al “dover aprire tutte le ostriche per riuscire a trovare una perla”. Data la mole di lavoro ciò che conta durante la fase di pre-produzione è l’impiego del minor tempo possibile e, solo al momento dei “pitch” di pre-

sentazione ai produttori o a partner esterni, l’attenzione si estende anche allo stile di rappresentazione ed esecuzione poichè entra in considerazione il secondo compito del concept art: affascinare e convincere la produzione ad investire maggiori risorse e denaro per poter continuare il progetto in corso, e agire sul team di artisti che dovrà essere in contatto con esso per lunghe tempistiche. Ecco perché i concept approvati per il rilascio pubblico debbono essere rappresentativi ed esteticamente gradevoli per contribuire all’opinione dell’utente su un dato progetto o casa produttrice, e questo è spesso portato a termine tramite “fake concept art”: ridipingendo sopra modelli 3d definitivi o “sporcando” la pulizia di un disegno concluso, creando l’illusione che esso sia ancora “work in progress”. Quest’ultima divisione delle aspettative in corrispondenza con 49

i ruoli si concretizza a pieno nelle grandi case di produzione, mentre la situazione si fa differente se il concept artist è freelancer o ancora se lavora per un piccolo studio indipendente, dove toccherà spesso a lui il compito di animare o sviluppare o ancora successivamente supervisionare ciò che è stato creato dalle linee guida d’inizio. Negli Stati Uniti, riprendo i voti scolastici in lettere, viene fatta una distinzione di “classe” fra i giochi, valutando i meriti su scala da una a tre “A”. La prima è data ai giochi considerati un successo da parte della critica (professionista o ottime recensioni degli utenti), la seconda “A” viene usata quando il gioco apporta innovazioni significative a livello di gameplay (termine che racchiude tutte le modalità di gioco) e dunque si distacca dal resto del mercato non solo per caratteristiche come trama, genere e grafica ma piuttosto come l’avanzare del gioco e l’interazione con il


“I direttori creativi vogliono vedere rappresentata la loro visione; I supervisori vogliono che le linee stilistiche siano rispettate; Gli scrittori vogliono essere certi che i loro personaggi siano ben rappresentati; I game designer vogliono un allestimento visuale chiaro; Gli animatori vogliono poter lavorare senza limitazioni o costrizioni economiche; Gli artisti 2D e 3D vogliono reference accurati cosĂŹ da mantenere una coerenzaâ€?

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giocatore è sviluppata, un’ultima “A” è considerata per i giochi definiti come successi economici, ossia che producono molto profitto. Un gioco AAA presuppone un’ottima giocabilità e spesso è considerato come il “gioco dell’anno”. Con l’avanzare del nuovo millennio molte case di produzione hanno cominciato a considerare i loro prodotti come “AAA” ancora prima dell’uscita nei negozi, giustificando questa decisione dati i grandi tempi di lavorazione e l’ammontare del budget destinato alla promozione. Questa pratica ha portato la declassificazione della scala, dato che non tutti i titoli presentati sono riusciti a mantere gli standard promessi e dimostrando il fatto che non tutti i giochi (soprattutto per consoles) forniti di alti budget riescono ad ottenere sul mercato successo di pubblico, di critica, mantendendo alto il grado di innovazione. Nell’ultimo periodo lo scarto, soprattutto nel mondo del videogame, si sta facendo più netto fra le grandi compagnie e quelle indie (abbreviazione inglese per “indipendent”), che si stanno legando a produzioni impegnative ma di ridotte dimensioni come i giochi mobile o altri device non finalizzati esclusivamente all’intrattenimento ludico. Le metodologie utilizzate dal concept artist che pratica la professione per conto proprio ed è contattato dalle aziende, lavorando a progetto, e quelle di uno che fa parte di un team progettuale fisso, non si differenziano molto: con l’avvento del computer e del web il livellamento culturale è stato avvertito molto, soprattutto in ambiti come questo, che ancora non dispongono di corsi universitari di lunga data e in cui, pertanto, l’autoapprendimento (spesso accompagnato da una formazione artisti-

ca) è ancora il più frequente. Il concept art ha abbracciato la tecnologia distaccandolo, almeno in parte dalle tecniche più tradizionali come la pittura d olio o ad acrilico, l’uso dei pantoni e delle matite colorate. Nonostante questione su come l’arte digitale non possa essere considerata vera arte, poichè non reale e manuale nel senso tradizionale del termine, sia ancora molto dibattuta, i medium si sono ormati evolti (perlomeno in ambito professionale) in favore della tecnologia. In una carriera, come quella del concept artist, in cui la modifica a lavori precedenti e la rielaborazione siano i compiti più frequenti, negare l’avvento della tecnologia sarebbe da ritenersi non soltanto un atteggiamento ottuso ma del tutto controproducente: le lavorazioni manuali, per quanto possano acquistare agli occhi di alcuni più valore, difettano per tempistiche e maneggiabilità. Senza considerare campi come il videogame e i film d’animazione, in cui la realizazzione digitale è obbligatoria, è da ritenersi assurdo il considerare esclusivamente il lavoro tramite mezzi tradizionali, quando è probabile che esso dovrà essere modificato, “remixato” e spedito dalla parte opposta del continente. In termini di budget anche la modifica più insignificante, significherebbe dover riniziare il lavoro ex novo. Negli ultimi anni i programmi per la manipolazione di foto e il dipinto digitale sono diventati più accessibili, così come gli hardware come le tavolette grafiche, provvedendo ad un netto salto qualitativo all’interno del lavoro virtuale. Tuttavia una nozione preliminare si rende necessaria: molti dei programmi utilizzati mirano ad emulare (e migliorare) le più comuni tecniche artistiche e l’ignoranza in campo pratico renderà press51

oché inutilizzabile il software. La tavoletta grafica è una periferica che permette l’immissione di dati all’interno di un computer, attraverso l’uso di un puntatore a forma di penna. Nei primi anni novanta essa conobbe un notevole impiego per software di disegno digitale, come il celebre AutoCAD, ma poi subendo un declino, a causa della maggiore diffusione dello scansionatore come periferica di acquisizione di immagini. Attualmente le tavolette grafiche, di ridotte dimensioni, sono utilizzate soprattutto per il disegno artistico, a mano libera e per il fotoritocco, come ausilio per la creazione di disegni e schizzi, usando una apposita penna (penna grafica) sul supporto. Il movimento della penna viene riconosciuto dalla tavoletta e si ha quindi una sensazione simile al disegno a mano libera, grazie anche al fatto che ormai le tavolette hanno accurati rilevatori di pressione (tipicamente 1024 livelli di pressione differenti) e sono quindi in grado, in combinazione con il software grafico, di interpretare tale pressione per variare dinamicamente, spessore della linea, intensità del colore... In commercio ne esistono alcuni modelli che abbinati all’uso di differenti strumenti conferiscono tocchi ed effetti pittorici differenti (aerografi, pennelli, etc.) La marca più conosciuta e diffusa è la Wacom, con diverse fasce di prodotti, a partire dalle tavolette entry-level “Bamboo fun”, il cui nome richiama l’utilizzo a fini ricreativi, passando per il modello “Intuos”, che raggiunge i livelli professionali e dispone di differenti formati, fino alle “Cintiq” dotate di un display interattivo solitamente superiore ai 20pollici HD, la cui particolarità è quella di poter agire direttamente su di esso, rav-


vicinando l’esperienza a quella originale della matita sul foglio. I software specializzati possono essere utilizzati in maniera differente a seconda dell’uso prescelto di imitazione di una tipologia di pittura o di un supporto pittorico particolare oppure ancora andando ad agire nel dettaglio estremo (il pixel), variando il proprio stile da stilizzato a fotorealistico. Per accordarsi su uno stile visivo spesso le compagnie commissionano al reparto artistico un vasta gamma di lavoro preliminare, rifacendosi a stili ed artisti diversi. Focalizzare in partenza la ricerca su uno stile definito probabilmente comprometterà il resto dello sviluppo, che rimarrà ancorato alla copia sterile senza riuscire a reinterpretarne le caratteristiche prescelte e fil-

ad olio o a tempera acrilica) le cui tempistiche si aggirano fra i 30 e i 90 minuti e in cui l’artista crea un mood, solitamente dando vita a scorci di paesaggi o situazioni chiave della storia dei personaggi in una veduta ampia che abbracci tutto ciò che li circonda; il matte painting, ovvero una tecnica che, rifacendosi al décollage (procedura inversa al collage molto utilizzata nella corrente artistica New Dada) utilizza la composizione e di fotografie, per poi scomporle e riposizionarle fino ad avere un’immagine composta, successivamente viene data un’uniformità tramite l’aggiunta di filtri di luce e di atmosfera; la pittura sopra un modello 3D, che in questo caso non si intende come modello definitivo ma solo un supporto rappresentante i volumi prin-

be essere utilizzato (se rielaborato) nella fase definitiva, come possibile sfondo ad una scena o per inquadrature che risulterebbero particolarmente complesse, tutte le altre rimangono nella fase pre produttiva di un progetto. A causa della visione distorta del concept art spesso agli occhi dell’opinione pubblica i metodi per velocizzare il lavoro sono interpretati come forme di imbroglio: tecniche come l’uso di stock di fotografie, il montaggio digitale di elementi pre esistenti, l’utilizzo di strumenti specchianti per ottenere elementi simmetrici, l’introduzione di vecchi dipinti all’interno di un lavoro nuovo, vengono male interpretate e paragonate all’atto del barare anziché ad un aiuto per svolgere l’inte-

Negare l’avvento della tecnologia è non soltanto un atteggiamento ottuso ma del tutto controproducente: le lavorazioni manuali, per quanto possano acquistare agli occhi di alcuni più valore, difettano per tempistiche e maneggiabilità trarle con altri imput provenienti dall’indagine. E dato che ogni rallentamento andrebbe a pesare sul budget riservato al lavoro, occorre che il reparto artistico, che lavora in pre-produzione ad un progetto, segua una tabella di marcia sostenuta, adottando tecniche di lavoro come: lo sketch, indagine strettamente manuale sviluppata su carta o tramite uso di software digitali, durante cui la mano andrà ad esplorare le forme di un dato soggetto portando nuove soluzioni alla luce, solitamente è integrata dall’uso di matite colorate, per delineare il contesto luminoso in cui si trova il soggetto, e di pennarelli pantone per elaborare velocemente uno schema cromatico; lo speed paint, evoluzione del digital painting (l’equivalente digitale di un quadro realizzato

cipali di una scena o di un edificio, tramite l’uso di programmi come SketchUp (per le costruzioni) e Marvelous Designer (per gli abiti) il concept artist rielabora forme che sottostanno a regole fisiche come la gravità e la teoria delle ombre; il thumbnails, dove il termine significa letteralmente unghia del pollice, in riferimento alle dimensioni contenute di questi elaborati, ideati come test preliminari di composizione e di schemi cromatici, che non richiedono attenzione per i dettagli necessaria ai lavori a schermo intero, così come nel design thinking un iniziale protoripo in cartone anticipava l’indagine dei problemi strutturali senza dover sostenere che costi e tempistiche estremamente contenuti. Di tutte le tecniche descritte solo il matte painting potreb52

ro lavoro in tempi più rapidi. Per produrre il concept di un ambiente verosmile alla realtà il progettista ha bisogno di conoscere le leggi fisiche che lo governano, il funzionamento delle strumentazioni e delle tecnologie presenti (come si attiva una porta anti-incendio o che meccanismi utilizza un phon ad esempio...), come i tessuti reagiscano a seconda delle condizioni (un drappo di seta bagnato, una scarpa in tessuto scamosciato, lo strappo ad una tenda...), senza queste indicazioni sarà impossibile per gli sviluppatori interpretare in maniera corretta il concept, senza dimenticare che molto spesso le ambientazioni di un film o di un videogame sono di ambito sci fi (il genere cinematografico che identifica la fantascienza, dall’inglese “science-fiction”), le cui regole gov-


ernanti, come la gravità, di norma subiscono delle alterazioni. Nell’ultimo lungometraggio animato Disney, distribuito nelle sale il 7 novembre 2014, “Big hero 6” i concept artist hanno dovuto ideare una città che fosse l’incrocio ideale tra Tokyo e San Francisco (il film ipotizzava distopicamente un avvicinamento dei due continenti, fino alla fusione delle due metropoli) e, per fare ciò, si sono recati in entrambe le città per poterne catture l’essenza, documentarla e solo successivamente poterle ammalgamare. La stessa cosa era accaduta l’anno precedente con “Frozen”, primo film in cui l’elemento atmosferico della neve è presente in quasi tutte le scene. L’inizio della realizzazione ha richiesto un viaggio, per il reparto artistico Disney, per studiare il fenomeno della neve

democratico archivio virtuale in cui tutti abbiano la possibilità di scambiarsi immagini e informazioni, dando più risalto ai contenuti che agli utenti singoli. Anche altri social sono fonte di ispirazione come Tumblr, per la vasta cultura visiva che contiene, e Facebook, come interscambio di feedback all’interno di gruppi specializzati. Grazie al binomio fotografie e commenti (punto forte di Facebook) è sempre più frequente incontrare su questo social network appassionati (e professionisti) che si radunano per discutere, confrontarsi e spesso aiutarsi fra di loro. Uno dei casi più famosi (per gli appassionati) è diventato il gruppo “Level Up”: fondato da due concept artist polacchi ancora agli inizi di una brillante carriera, Wojtek Fus e Darek Zabrocki, con l’intento di condi-

disegnare di più. Ogni giorno gli amministratori pubblicano dai tre ai cinque temi, molto differenti fra loro e tutti con un grande carica di originalità (spesso non sense), e gli utenti possono aderire scegliendo ognuno un tema e creando un’interpretazione visiva tramite la tecnica dello speedpainting, la cui durata non può superare i trenta minuti. In questo modo l’accento è spinto nuovamente sulla quantità di lavoro svolto, prima che sulla qualità, nella concretizzazione di un’idea. Nuovamente la comunità che si è formata attorno al gruppo si presenta come estremamente attiva e ricca di feedback. Altri social, molto più specializzati, sono DevianArt (storica piattaforma, ideata quando ancora il concetto di network stentava ad affermarsi), Instagram

Spesso l’opinione pubblica definisce forme di imbroglio i metodi per velocizzare il lavoro, anzichè comprendere che sono aiuti per uno svolgimento più rapido in tutte le sue manifestazioni e per analizzare la cultura artistica-iconografica locale. Dato l’ammontare di informazioni a cui deve fare riferimento il concept artist (e per la sempre più frequente condizione lavorativa di freelancer), i social network stanno occupando un posto di rilevanza per gli artisti del settore, uno su tutti: Pinterest. Il social, ideato per formare un proprio archivio visivo, si fonda sul collezionare (prendendo e rubando da tutto il web) riferimenti figurativi, per poi catalogarli a proprio piacimento nella bacheca personale. Come precursore di una forma di clouding Pinterest assume il fatto che nessuna immagine sia posseduta da coloro che la ottengono scaricandola o salvandola da fonti di terzi, e suggerisce un

videre le proprie conoscenze ed instaurare, all’interno del gruppo, un confronto costruttivo. Condividendo dei video in livestream (piattaforma che permette di vedere in streaming la diretta di un altro computer) in cui loro stessi davano lezioni ai membri più giovani e davano inizio a dibattiti che gli altri utenti in rete in contemporanea contribuivano ad arricchire, i due artisti hanno sviluppato una comunità estremamente attiva e produttiva, e si sono garantiti un successo che ha permesso loro di fondare un sito web incentrato sull’argomento ed avere, duranti i loro incontri settimanali (sempre in livestream) ospiti del settore di fama internazionale. Un altro gruppo abbastanza noto su Facebook è “Daily Speedpaiting” che si propone come stimolo quotidiano al 53

(di recente acquisto alla fascia di illustratori e disegnatori , ma che si sta ritagliando una buona popolarità, dettata soprattutto dalla facilità con cui è possibile navigare nel formato mobile) e ArtStation (per veri appassionati e professionisti, il sito ha una veste semi neutra per favorire l’attenzione sui lavori esposti). Notevoli sono anche i contributi di artisti già noti alla comunità neofita attraverso i canali di video tutorial di youtube, risorsa preziosa nel bagaglio di apprendimento di un autodidatta.


Paul Richards e il remix visivo

Paul Richards, concept artist con un’esperienza ventennale nelle più importanti case di produzione, viene chiamato nel 2010 a tenere una serie di conferenza sullo proprio processo progettuale. L’artista individua tre categorie e le denomina come “le tre R del Con-

design rimanda in linea diretta alla struttura delle tartarughe, incorciandolo con le zampe del polipo, il tutto riconvertito in una veste robotizzata. Anzichè sforzarsi di trovare delle forme nuove, l’autore Masamune Shirow ha utilizzato l’osservazione della natura, incentrandosi su quegli aspetti che gli sarebbero serviti. In questo modo ha

rapporti armonici più naturali e, paradossalmente, bilanciati. “Evita la metà” è il mantra che diffonde Richards, nell’arte e nella vita. L’elenco di situazioni in cui le persone preferiscono gli estremi di qualcosa rispetto alla sua mediazione sono frequentissimi: il calore di una bevanda (bollente o ghiacciato), il parere di un terzo soggetto

Gli uomini, afferma Richards, sono praticamente scimmie: vedono il loro vicino fare qualcosa bene e tentano di copiarlo. Un artista vede un tramonto, un nudo o un jet ed è ispirato a crearne una sua versione: “Monkey see, monkey do” cept Art”: research (ricerca), ratios (rapporto/proporzione) and rendering (esecuzione). Research Richards ricorda di come Chris Metzen, supervisore del reparto creativo della Blizzard Entertainment (casa produttrice di videogiochi statunitense, nota per la longevità dei suoi prodotti, fra cui spiccano le famose tre saghe StarCraft, Diablo e Warcraft), in occasione di un incontro di confronto sugli ultimi sviluppi del concept, gli avesse confidato: “L’originalità non esiste, è solo una buona manipolazione”. Gli uomini, afferma Richards, sono praticamente scimmie: vedono il loro vicino fare qualcosa bene e, per quanto possano, tentano di copiarlo. Un artista vede un tramonto, un nudo o un jet ed è immediatamente ispirato a crearne una sua versione. “Monkey see, monkey do.” (le scimmie vedono, le scimmie copiano) Una volta che si sia estirpata la ridicola credenza che ci possa essere qualcosa di “nuovo sotto il sole”, i progettisti potrebbero iniziare ad apprezzare e sintetizzare (e manipolare) ciò che esiste già, riducendo il proprio inutile sforzo mentale. Richard suggerisce, a questo punto, un esempio basato sul personaggio di una saga di cartoni, il cui

ottenuto una raffigurazione fimiliare ma unica. Attraverso l’imitazione si è creato una libreria visuale a cui poteva accedere anche quando “Google Images” non era reperibile. Ratios L’artista Toph Gorham, concept artist di storici giochi come Halo e Donkey kong, delinea il concetto di “Phi”, abbreviazione per Phidias, l’autore greco autore della regola aurea, sviluppando da lui il uno strumento di legno che denomina il “Misuratore della regola aurea”, il quale può essere utilizzato per misurare le proporzioni ideali fra oggetti vicini o a distanza. Alla domanda se tale utensile fosse necessario, ha risposto ironicamente: “No, i bravi designer pensano che sia istintivo.” Quello che Richards estrapola dalla vicenda è la convinzione che i disegnatori non sono dei matematici e ciò che dovrebbero prendere dalla regola di Fidia (e dalle altre regole basate su calcoli) è che le cose si presentano meglio quando non sono divise esattamente a metà. Quando la massa di un lato è superiore a quella dell’altro, o quando il fronte non eguaglia il retro, o ancora quando la luce di un verso è maggiore da una direzione, questo crea 54

all’interno di una discussione (a favore o in contrapposizione), la personalità di un individuo... E questo è evidente anche in natura: le cose non appaiono mai speculari. Carlo Arellano, professore di concept art, ha definito questo fenomeno come “business end”, ovvero che osservando le forme naturali (e quelle disegnate ancora di più) esse hanno una gerarchia precisa: la bocca di uno squalo, la chioma di un albero, la lama di un’ascia, tutti questi sono “dettagli” primari, il loro contorno è su un piano secondare, e questo è la differenza fra un oggetto statico ed uno che, pur stando fisso, esprime dinamica. Inoltre, continua Richards, in natura è praticamente impossibile ottenere una visione esattamente frontale o laterale di un elemento, per ottenerlo il soggetto osservante dovrebbe continuamente chiudere un occhio per annullare la visione steroscopica. Ogni cosa è vista da angoli e prospettive differenti (ed è perchè gli oggetti analizzati in uno schema di proiezioni ortogonali appaiono innaturali) e inoltre la memoria automaticamente fornisce mentalmente molteplici visuali per un oggetto, associandolo a cose già viste. Questo stesso processo di instabilità si presenta anche


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nelle ombre o nelle situazioni in cui si presentano colori caldi e freddi, i fenomeni non saranno mai bilanciati alla perfezione, ma un lato sarà sovraesposto rispetto all’altro. E ancora l’uso di linee sinuose e linee rette: un’immagini completamente composta di curve risulterà debole e “molliccia”, rischio che, con l’introduzione di

profondità fra i due elementi e confondendo il pubblico. L’autore parla di un uso corretto di assi semi paralleli che accompagnano lo spettatore suggerendo una dinamica o addirittura indirizzando la visione, ma è sempre da preferirsi il privilegiare un senso rispetto ad un altro, piuttosto che ritrovarsi il sovrapponimento diretto di

figura e creare contrasto all’interno di un’immagine. Il metodo più veloce di mostrare il volume di qualcosa è dotarlo di una silhouette ben definita, in maniera che già essa possa esprimere il carattere di un elemento. L’artista Nick Carver ha l’abitudine di esaminare i suoi modelli 3D con un filtro che oscura i volumi e permette di definire solo il cor-

“Make cuto into ugly, make macro into micro. Invert the Colors, invert the concept itself.” qualche spigolo, il disegnatore riuscirà ad evitare dando maggiore integrità al proprio quadro visivo. Così come il fumettista che sceglierà di scomporre il proprio soggetto in due riquadri di dimensioni nettamente diverse, rispetto a quello che propenderà per una divisione equa. L’ultimo esempio presentato è quello rispetto alle linee tangenti, ovvero quando linee di due oggetti diverse combaciano in punto, azzerando la

due elementi in un solo punto. Rendering Il “rendering” (rappresentazione) a cui intende riferirsi Richards non vuole essere inteso come il “rifinimento del lavoro” o “la bellezza di un disegno”, ma piuttosto il manifestare visualmente un volume o una forma. Esso è ottenibile attraverso diversi elementi. Uno di questi sono le ombre portate, utilizzare per delineare i contorni di una 56

torno esterno, per testare l’attrattiva degli stessi. Un disegno di Richards accompagna il tuo discorso, mostrando esplicitamente come un disegno che rispetti questi concetti, (e mantenendo un colore piatto) possa cambiare radicalmente nelle sue proprietà volumetriche. In seguito Paul Richards illustra diversi metodi (puramente rappresentativi) in cui poter esplorare una forma per trovare il design più accattivante, parten-


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do da tre silhouette identiche. Dapprima attraverso l’applicazione di differenti colori in parti diverse subito viene a crearsi una divisione fra le aree (identificate subito come pelle, tessuto, tessuti umani interni... Prima ancora di aver tracciato una linea la mente ha già cominciato il processo di confronto delle figure con altre già presenti in memoria, fino all’ipotesi definitiva soggettiva per ognuno ma che, in questo caso, potrebbe essere il viso di una creatura aliena. L’approcio successivo è attraverso le linee: tre trattamenti differenti vengono effettuati sulla sagoma, “rompendola” (in espansione o in sottrazione) in alcuni casi. Pur avendo esplorato la silhouette dapprima, essa rimane un suggerimento e non un deve staticamente formare un blocco per l’esploratore del

Per concludere la prima conferenza in un parallelo con il design, Richards cita la sua esperienza di quando, appena andato a vivere da solo, chiese consiglio a sua madre per sapere di cosa avrebbe avuto bisogno e lei rispose: “Vivi per un po’... la casa ti dirà lei stessa di cosa ha bisogno.”. Così non tutte le idee appaiono complete ma necessitano di “essere vissute” per trovare le loro necessità. La seconda lezione di Richard, riprendendo quelle nozioni diffuse dalla conferenza di Kirby Ferguson, è del tutto incentrata sul visual remix. In un primo parallelo musicale l’autore fa notare come spesso il gusto della maggior parte degli individui cominci a solidificarsi fra i venti e trent’anni, arrivando ad associare alcuni suoni

talk di “Everything is a Remix” e dei “mashup”, Richards evidenzia alcuni esempi dal folklore: il grifone (animale mitico in parte leone, in parte aquila), la sirena (metà donna e metà pesce), il centauro (metà uomo e metà cavallo) e poi sconfina nella cultura pop presentando il chococat, animale controparte di “Hello Kitty” e facente parte dello stesso marchio. Successivamente presenta il risultato del suo esercizio di mashup, invitando i lettori ad esperienziare la pratica a loro volta, personalizzando i proprio ingradienti a piacimento. Da lui sono scelti un gerbillo, animale della famiglia dei roditori, e un’orchidea, ideando un “gerchideo”. Ma da dove estrapolare le forme di ispirazione? E’ sbagliato che ingredienti che l’utente sce-

“Get out of it, but what is it? “ L’insistenza protratta con cui si incita all’uscita dalla “comfort zone” risulta non solo sterile ma controproducente per l’individuo concept. Anche la direzione principale della prospettiva ipotizzata risulta sempre diversa, sorprendendo lo spettatore. Inoltre Richards fa notare come le linee che riprendono la silhouette creino una forma di eco armonico ed è interessante utilizzarle talvolta con linee nella direzione opposta. Come le due tecniche appena mostrate sono molteplici le esplorazioni visuali in possesso del progettista come: l’uso del rim light (quando luce colpisce un oggetto da dietro o dal lato e si viene a formare una lama di luce che ne delinea le forme), le ombre portate che aggiungono profondità, la luce di riflesso (il raggio che, dopo aver colpito una superficie, va ad illuminare un soggetto, trasporando con sè una parte del colore della prima superficie)...

con tratti della propria identità. Quei suoni sono familiare, portano nostalgia e “colpiscono sempre i punti giusti”, e pertanto sono rassicuranti. Al contrario ci sono persone che hanno formato il proprio gusto su quello di generazioni passate ed inseguono sempre alla ricerca di ciò che si dimostra come “innovativo”, in un’investigazione che permane stimolante e che investe ogni genere musicale. Richards ipotizza la possibilità di incarnare entrambi gli individui rimanendo in contatto con ciò che ha rappresentato la propria formazione e di arricchirlo di vecchio e nuovo materiale per affinare il proprio gusto e continuare ad entusiasmarsi. Questa è la vera passione secondo l’autore, che guida in qualsiasi ambito: l’entusiasmo. Riprendendo la lezione del TED59

glie di utilizzare siano tratti dalla propria “comfort zone”? La definizione psicologica di “comfort zone” è quella di indicare uno stato mentale in contatto con elementi familiari, un individuo a proprio agio. Negli ultimi anni si è diffusa, come parte delle esclamazioni-ingiunzioni motivazionali (sempre di matrice americana) la dichiarazione: “Get out of your comfort zone” (esci dalla tua comfort zone). Richards rappresenta con un grafico le aree degli interessi della vita di un individuo: all’esterno si trovano le cose di cui a egli non importa, all’interno (in giallo) l’area delle cose che destano attenzione, nominata “area di apprendimento” poichè gli elementi qui presenti sono quelli che stimolano l’imparare e la ricerca, al centro (in verde) è l’area comfort, dove gli elemen-


ti presenti sono compresi e apprezzati e la quale, per quanto ci si possa provare, non riuscirà mai ad inglobare del tutto quella gialla. Richards rappresenta due stati corrispondenti a due individui (o a due periodi di tempo diversi dello stesso individuo) in cui, nel primo, si presenta un tasso di disinteresse molto forte, probabilmente dettato da

disegnare a memoria, solo in quel momento la zona di interesse si allarga. Ognuno ha la possibilità di rompere il loop e scegliere un remix nuovo: più interesse viene sviluppato, più comfort sarà conquistato. I materiali di ispirazione a disposizione sono abbondanti e le risorse per l’entusiasmo infinite. Tornando alla metafora musi-

prio soggetto tramite l’inquadratura, a catturare un momento unico e, non meno importante, a distaccarsi dalle discipline pittoriche per sperimentare una momentanea pausa. La foto può essere un ottima ispirazione per le dinamiche che si sono delineate, per un’armonia di colore o anche per una composizione scelta, ed ognuno di

“C’è una differenza fra disegnare una modella, e disegnare una modella che ha un segreto che non vuole rivelare.” stress o noia, mentre il secondo, il più desiderabile, evidenzia una zona di interesse ad imparare molto più ampia. Dopodichè l’autore spinge a tracciare un grafico della propria comfort zone per poter analizzare il proprio io artistico, e, dopo averlo tracciato, andare ad indagare cosa compone il proprio “loop” (termine musicale che indica la ripetizione continua di un elemento). Come ogni esercizio Richards è il primo a svolgerlo, mostrando tre elementi che compongono la sua zona verde: zucche di halloween, ragazze attraenti e elementi tecnologici nonsense, ma subito dopo afferma che, anche se disegnati ripetutamente, non significa che gli stessi elementi non possano beneficiare di studio ulteriore. Dopo di ciò assembla una serie di reference, ponendosi di fronte a nuove informazioni a proposito degli elementi predominanti nei suoi disegni e successivamente ripetendo l’esercizio, integrando le figure grazie ai nuovi dati acquisiti. L’ignoranza, dice, non è ciò che non sai, è ciò che pensi di sapere. Una volta rifornito il proprio “loop”, realizzando che anche ciò che si conosce alla perfezione può essere migliorato grazie all’osservazione di reference, piuttosto che ostinarsi a

cale Richards parla dell’importanzione di essere dei buoni selettori, citando un dj americano che afferma: “E’ quasi un elemento karmico il trovare un qualcosa che tu sei sicuro che userai, eri destinato a trovarlo, trovarti in quel luogo e in quel momento. Questa abilità non muterà un cattivo dj in uno bravo, ma certamente renderà uno bravo, un dj migliore.” Ma, maggiori sono i cd che un dj ha nella sua collezione, maggiori saranno le combinazioni possibili. E le chance di sbagliare l’accoppiata. Uno degli esercizi della “Via dell’Artista” di Julia Cameron è quello dell’Appuntamento con l’Artsta, scegliendo di prendersi un po’ di tempo per se stessi e per la propria maturazione artistica. E questo appuntamento è per Richards l’immaginativo negozio di dischi in cui scegliere e comprare qualcosa a lui totalmente sconosciuto, con la sicurezza che prima o poi si troverà nel momento “giusto” appena descritto e riuscirà a trovare qualcosa che era destinato a lui. Così come la nuova scoperta può avvenire tramite la “frequentazione” di una disciplina affine come può essere la fotografia per un illustratore che viene obbligato dalla macchina da presa a delimitare il pro60

questi elementi può essere riutilizzato sotto forma di nozione acquisita o di puro “furto”. Un’ultimo paragone musicale utilizzato da Richards è quello riferito allo stile e alle distorsioni armoniche. Quando un cantante non è contento con qualche nota o qualche parte del brano essa può essere modificata o filtrata. L’autore afferma di come non debbano esistere paure riferite al proprio lavoro, considerando il fatto che (in un progetto molto ridotto come un disegno) spesso gli unici autori sono gli stessi individui. Data la responsabilità sarebbe controproducente soffermarsi in una soluzione scomoda o non gradita, ad esclusione che essa non dipenda da un certo tipo di committenza. Una buona tecnica attirerà l’occhio ma lo lascerà vuoto per questo suggerisce: “Rendi carino il mostruoso, rendi macro il micro. Cerca di Invertire tutti i colori e così inverti lo stesso concept.”


Come affermava Carl Jung: “É la funzione della coscienza non solo di riconoscere ed assimilare il mondo esterno attraverso i sensi, ma di tradurlo nella realtà visibile del mondo dentro di noi” così Richards definisce il remix: “Prendere parti dell’ambiente e presentarli in modi completamente unici alla nostra esperienza. Date le stesse risorse non due persone condivideranno la medesima impressione o la medesima espressione.”


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Capitolo 5

Approcci educativi

Rapporto scolastico

più brevi) video di Youtube e dettò la trasformazione dei TED come fenomeno culturale globale. Il talk di Robinson rimane il più visto di tutti i TED, scaricato oltre venti milioni volte da piattaforme di oltre centocinquanta paesi del mondo e continua ad essere visto circa diecimila volte al giorno solo sul sito ufficiale. Sono misure povere se accostate agli ottocento milioni di download del “Gangnam Style” ma per essere una conferenza di venti minuti sull’educazione rimane impressionante poichè mostra come venga continuamente riproposto a conferenze e meeting in tutto il mondo. Quasi un decennio dopo le parole di Robinson continuano a conquistare perché concretizzano il pensiero, di persone ed organizzazioni, che il corrente sistema di educazione stia fallendo e che si debba correre ai ripari per idearne uno alternativo più adatto. Due sono i principali temi della conferenza: il pri-

Nel 2006 Sir Ken Robinson, educatore e scrittore britannico, tiene un TEDtalk su come “La scuola uccida la creatività”, sostenendo che nonostante il mondo sia consapevole delle potenzialità creative insite in ogni individuo, esse non sappiano essere direzionare nella maniera più corretta ed utile. La scuola ha il compito di preparare bambini e ragazzi ad un mondo ancora sconosciuto a chiunque, come può assolvere tale impegno? La conferenza di Robinson avviene in un periodo in cui ancora i TedTalk non erano così conosciuti: l’assemblea è di appena 1,200 persone ed era registrata su dvd, che solo successivamente diedero l’inizio al sito ufficiale dove sono tutt’oggi scaricabili più di settecento video. Il 2007 era l’anno in cui si stava concretizzando l’appetito dei social media per i contenuti formativi gratuiti offerti dai (sempre 63


mo è che ognuno nasca con delle capacità creative naturali e che i sistemi di educazione di massa tendano a reprimerle, la seconda è la crescente urgenza di coltivare queste capacità (per ragioni personali, economiche e culturali) e di ripensare l’approcio dominante dell’educazione. Una delle ragioni per cui la conferenza si è diffusa così ampiamente è la risonanza che questi temi assumono a livello personale, portando l’individuo al confronto diretto con la propria esperienza di educazione. Robinson accenna un libro in lavorazione dal titolo provvisorio di “Epifania” (poi modificato in “Come trovare la tua passione cambia ogni cosa”) in quel periodo in cui l’autore esplora il concetto della necessità individuale di trovare il proprio talento e di come le persone ne siano allontanate da genitori, familiari o educatori. La seconda ragione dell’impatto del talk è che le persone e le organizzazione si stanno accorgendo che il corrente sistema di educazione sta fallendo nell’incontro con le sfide che gli si stanno presentando di fronte: in molti paesi questo è concretizzato dalla politica nazionale e l’attitudine verso un cultura bloccata nel passato. Il sistema educativo dominante si basa su tre pincipii: la

ere la stessa importanza nell’educazione, della letteratura, così come la danza (non intesa come educazione al balletto) dovrebbe avere quella della matematica, seguendo l’istintiva necessità di quasi tutti i bambini di esprimersi attraverso la danza. Le idee, afferma in ultimo, non sono scritte nella pietra, quando esposte si modificano e si adattano in forme che hanno il potenziale di essere le migliori forme possibili. Ken Robinson elegge la manifestazione dei TED come possibile risorsa universale per accedere ad informazioni e a dibattiti sulla natura dell’educazione, mirati a svilupparle in nuove direzioni. Il testamento che lascia Chris Anderson, curatore dei TED, è che essi siano diventati, non solo un mezzo per esortare al cambiamento, ma uno dei modi più efficienti per apportarlo. Uno dei dibattiti più accesi degli ultimi anni a riguardo è la diatriba a proposito del progetto “STEM education”, oggetto di una discussione molto accesa fra istituzioni del business, dell’industria e del governo, negli Stati Uniti, il quale si presenta come la soluzione chiave per migliorare l’attivi-

L’insegnamento, afferma Robinson, ha creato il mito che l’errore sia il peggior sbaglio che una persona possa commettere, dando origine a generazioni di adulti che non riescono ad affidarsi allo stimolo creativo, per paura di fallire tà educativa e risolvere i persistenti problemi che affettano il sistema dell’istruzione americano. STEM è l’acronimo di “science, technology, engineering, math” (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) ma è più che la semplice addizione delle quattro materie, spesso nelle scuole unicamente rappresentate dalla prima e dall’ultima.

promozione standardizzata e la visione ristretta dell’intelligenza umana come divisione di talenti unica e personale, la convinzione che il progresso culturale non dipenda dalla coltivazione dell’immaginazione e la visione strettamente lineare che il corso della vita umana sia imprevedibile. Robinson invoca l’avvento di nuove forme di insegnamento basate non più su principii romantici ma sulla sostenibilità che il mondo dovrebbe offrire. L’insegnamento, afferma Robinson, ha creato il mito che l’errore sia il peggior sbaglio che una persona possa commettere, dando origine a generazioni di adulti che non riescono ad affidarsi allo stimolo creativo, per paura di fallire. Tutti i bambini sono nati creativi, l’obbiettivo dell’educazione dovrebbe essere quello di riuscire a mantenere viva questa abilità anzichè sotterrarla. La situazione attuale è tale per cui l’istruzione è impostata unicamente su abilità accademiche, maturando unicamente figure di professori universitari: Robinson evidenzia gli output che dal primo grado di scuola elementare fino all’università iniziano ad essere concentrati dapprima sulla parte superiore del corpo, poi solo alla testa, ed infine su un solo emisfero. La creatività, invece, dovrebbe assum-

STEM è l’approcio integrato ed applicato a queste materie, utilizzate per risolvere i problemi e le sfide che si presentano nel mondo “reale”. Questa maniera sperimentale di insegnare ed imparare consentirebbe agli studenti di comprendere e apprezzare la rilevanza di tali ambiti nel loro contesto abituale e la relavita importanza e necessità. Vince Bertram, CEO del primo progetto ad adottare la filosofia STEM, in un’intervista al Huffington Post, la definisce come“the core of everything” (il nucleo di tutto). Spesso il dibattito infuria a proposito della necessaria integrazione al programma di studio dell’ambito dell’arte e del design (STEAM), e quello della scrittura (STREAM) o ancora quello della musica (STEMM), ma Bertram dichiara la sterilità di tale discussione poichè non si tratterebbe di aggiungere acronimi, ma piuttosto di renderli pertinenti 64


Blocchi creativi

all’insegnamento: lo scopo del programma è dimostrare agli studenti come le materie “scientifiche” siano in contatto con le situazioni del loro mondo e provvedere a far in modo che essi le possano dominare per districarsi in problemi relativi a nuovi contesti. L’intento è allevare la curiosità dei ragazzi e aiutarli a sviluppare capacità di creatività, problem solving e pensiero critico. STEM non limita il suo significato solamente alle materie dell’acronimo, ma si estende ad una rivoluzionaria e coinvolgente strada per imparare ed insegnare. Bertram per esplicare il suo concetto presenta l’esempio di uno scambio di battute che ha vissuto in aeroporto con una sconosciuta: al momento della scoperta della carriera del sottoscritto, l’interlocutrice ha accusato il progetto di trascurare, persino rigettare le arti, tuttavia, osserva Bertram, dieci minuti dopo apriva il suo MacBook Pro per lavorare ai suoi progetti di “creative direction”. Chi ha ideato quel computer e sviluppato i software che ora le rendono possibile lavorare? STEM è connesso con ogni cosa, comprese le arti, la musica, lo sport o l’agricoltura. Che un dipinto sia realizzato attraverso un computer o una tela, la tecnologia ha messo a

James Adams è stato uno dei più efficaci insegnanti di creatività: il suo metodo, chiamato Conceptual Blockbusting, cerca di esprimere la possibilità della creatività di essere insegnata, e di conseguenza, appresa. Il suo metodo parte dall’analisi dei freni che possono inibire la creatività, per permettere ai potenziali “studenti” di essere consapevoli delle varie problematiche e dei diversi aspetti che sono implicati nel processo creativo. Attraverso tale consapevolezza, Adams cerca di indurre il suo pubblico a riflettere su queste condizione, e si sforza di incoraggiarlo a proseguire senza scoraggiarsi di fronte alle perplessità e ai dubbi. Adams ipotizza quattro classi di freni: Freni percettivi, questo tipo di freni inibisce il soggetto che, nell’affrontare un problema, si pone di fronte ad esso con delle aspettative, che gli derivano dalla propria esperienza percettiva. L’individuo è portato a mantenere il proprio punto di vista, senza distogliere l’attenzione dalle coordinate percettiva che ha acquistato nella sua vita: in questo modo è portato ad affrontare il problema sempre con lo stesso metodo,

“Chi ha ideato e costruito quel MacBook Pro e i software di grafica, così che lei ora possa lavorare ai suoi progetti di “art direction”?” rinunciando sin dall’inizio, alla possibilità di vedere qualcosa di nuovo, o quando meno di diverso. Adams propone come esempio il problema dei Nove Punti. Questo si basa sulla teoria gestaltica di fissazione: la ragione per la quale la maggior parte delle persone non riesce a risolvere questo problema è che la loro esperienza, precedentemente acquisita, interferisce in forma di supposizioni fatte a proposito del problema. I soggetti presuppongono regole che l’enunciazione non indica come limiti, come la fissazione che le linee da tracciare debbano rimanere all’interno del quadrato, rendendo impossibile la soluzione del prolema. Se la fissazione fosse abolita e il problema potesse essere affrontato nei termini precisi in cui viene espresso le possibilità di soluzione tornerebbero accessibili. Freni emotivi, una reazione emotiva negativa di fronte ad una situazione problematica può interferire nella capacità di esplorare e manipolare le idee. Un esempio tipico di freno emotivo è la paura del rischio, e per affrontare questo blocco Adams suggerisce di valutare in maniera obbiettiva le eventuali conseguenze ed implicazioni che potrebbero scaturire da una nuova idea. Un secondo tipo di freno emotivo è la tendenza

punto l’ingegneria grafica, la chimica ha permesso la composizione per creare colori brillanti e la stessa creatività che ha ispirato meraviglie artistiche è quella che ha permesso le invenzioni più brillanti, utili ed efficienti della storia. Ciò che ha reso la Corvette Stingray l’“Auto dell’Anno 2014” è il connubio di una perfetta tecnologia e un’estetica corretta ed accattivante, e lo stesso può essere detto di ogni prodotto (scarpe da corsa, macchinette del caffè, aule musicali acusticamente isolate) funzionale: l’arte e l’ingegneria necessitano di lavorare insieme, utilizzando il medesimo processo procettuale per sviluppare nuove soluzioni funzionali e all’avanguardia. Il metodo STEM, pertanto, può essere virtualmente applicato ad ogni insegnamento e in ogni prodotto, non rimanendo esclusivo delle discipline che materialmente lo compongono. La spinta che dev’essere fornita agli studenti deve voler integrare la conoscenza tecnica e le abilità creative per il compimento di nuove idee, che forniscano nuove tecnologie all’arte, nuovi strumenti alla musica, nuove macchine all’agricoltura e così via.

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umana al giudizio. Giudicare un’idea (propria o altrui), molto spesso prima di esserne ben coscienti, può inibire il sorgere di una nuova soluzione. Focalizzandosi sul giudizio i soggetti evitando di generare nuove idee, che sarebbero poi sottoposte a giudizio altrui, e pertanto spesso giudicando troppo in fretta un’idea appena elaborata la si scarta prima di prendere in consideraizone le implicazioni. Freni culturali ed ambientali, l’insistenza della nostra cultura sulla predominanza della logica e del ragionamento sul pensiero creativo, ha da sempre soffocato la creatività, la quale ha come base principalmente l’intuito: oltre all’impostazione generale della cultura collettiva, un importante freno è rappresentato dall’ambiente in cui si trova a vivere il soggetto, L’ambiente circostante può creare tensione e incapacità di sviluppare le proprie idee originali causato da fatti come una mancanza di collaborazione dei colleghi nel’ambiente di lavoro, oppure possono esserci troppe distrazioni all’interno dell’ambiente, che distolgono l’attenzione e la concentrazione del soggetto pensante. Possono dunque essere freni sia tipo fisico che emotivo, dettati dall’esterno o dalla psicologia dell’individuo o ancora dalle

sere più sensibili agli interrogativi che da quaesti possono scaturire. Questo traguardo è raggiunto o in maniera naturale o con uno sforzo consapevole, che mano mano porti il soggetto ad interrogarsi. Ponendo delle domande in maniera artificiale, induce a farlo sempre più come attitudine naturale. Un aiuto alla produzione di domande (e quindi di idee) può essere fornito dalla compilazione di elenchi, che possono aiutare a concentrarsi su di un problema, rendendo più facile la produzione di idee risolutive. Adams sottolinea poi la necessità di “liberare l’inconscio”, considerando il pensiero creativo strettamente connesso e dipendente da questo: spesso non si è creativi perché è l’inconscio a non consentirlo. Fra i metodo per liberre l’incoscio Adams suggerisce la psicoanalisi, sebbene sia un metodo non accessibile a tutti date le difficoltà di tempo e denaro che richiede, e l’adesione alle discipline discendenti dalla filosofia buddista e dalla pratica dello yoga. Tuttavia anche per questo caso, nonostante vi siano tecniche molto valide di liberazione dell’energia interiore (meditazione, esercizi di visualizzazione, rilassamento guidato...) di pone un nuovo problema di tempo e sforzo richiesti per apprendere tali discipline.

James Adams afferma: “Se non fossero frenate dal farlo, tutte le persone sarebbero in grado di pensare in maniera creativa.” Il metodo più semplice, suggerito dallo studioso, accessibile a tutti è l’apprendimento dei processi psicologici, conoscendo i processi psicologici il controllo dell’ego sull’incoscio può essere allentato e si può così liberare il pensiero del controllo cosciente. Fra i metodi più diffusi che Adams ritiene come più significativi nello scioglimento dei freni inconsci vi sono la mappa mentale del cognitivista inglese Tony Buzan, il brainstorming di Alex F. Osborn e il lavoro in team. Come evidenziato precedentemente queste teorie fanno riferimento a studi psicologici e scientifici oramai decaduti, e i cui risultati oggi, pur non essendo stati sostituiti da nuove teorie, ne hanno evidenziato la fallibilità.

sue modalità di interfacciarsi con il problema. Freni intellettuali e freni espressivi, quest’ultima categoria di inibizione è rappresentata dalle particolari attitudini che ogni persona possiede e sviluppa: le capacità intellettive dettate dall’esperienza, dagli studi svolti, dalle proprie capacità rielaborative. I freni intellettivi si presentano nel momento in cui un soggetto risulta incapace di affrontare il problema nella maniera più efficace. La sua incapacità può in questo caso derivare dall’inflessibilità nell’uso delle proprie strategie di soluzione dei problemi, o dalla mancanza di informazioni adeguate prima di iniziare ad affrontare il problema in questione. I freni espressivi sono invece riferiti ai problemi di comunicazione, sia interpersonale sia intrapersonale: questi interferiscono sulla capacità di comunicare le idee. Adams afferma infine che “Se non fossero frenate dal farlo, tutte le persone sarebbero in grado di pensare in maniera creativa.” I suoi studi esaminano in principio i metodi che permettono al soggetto di produrre idee che normalmente non produrrebbe: il metodo generale consiste nell’assumere un atteggiamento indagatore, imparando ad es66


Casi Studio

Tutti i metodi di riscoperta creativa esposti indicano come estremamente preziosa una parte di lavoro in gruppo, dedicata al confronto, al feedback reciproco, al dibattito delle idee e ad uno scambio esperienziale. Di seguito sono vagliati tre casi studio di guide a workshop formativi nell’ambito della creatività, attraverso medium differenti: un libro dall’approccio frontale, un corso online ed un volume interattivo. L’analisi degli aspetti positivi di ognuno dei casi esposti vuole costruire una rete di in-

formazioni utili all’organizzazione di un workshop dedicato ai neoimmatricolati della facoltà di design, con lo scopo di dotare gli studenti, a monte di una carriera da progettisti, di informazioni riguardanti quelli che sono i principali blocchi creativi ed alcuni dei metodi che sono stati sviluppati per affrontarli.

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ESSERE CREATIVI, UNA POSSIBILITA’ PER TUTTI | LIBRO PROGETTO Il team che ha partecipato alla genesi di questo libro è quantomeno eterogeneo: Massimo Carignano avvicina il suo essere ingegnere presso il Centro Richerce Fiat, ad una passione per le metodologie testuali e i giochi per l’educazione alla propensione creativa; Elisabetta Cavallari è un’archeologa che collabora alla realizzazione di giochi per lo sviluppo del training della creatività; Alessandro Dondo è un fisico; Francesco Rossetti è un avvocato specializzato in problematiche inerenti allo sviluppo aziendale; Fabio Schena si occupa di Economia Aziendale come Piccole e Medie Imprese. SCOPO Il contesto in cui viene inserito il lettore è quello del frenetico mondo odierno, dettato dall’esposizione continua a milioni di spunti e informazioni, ogni giorno, in un processo di Sovraccarico Cognitivo, con la conseguente insensibiltà che ne deriva. Il paragone fra scavo stratigrafico archeologico e studio della mente umana, è formulato su un certo tipo di “uomo antico” rispetto a quello “moderno”, e, se il primo riusciva a comprendere cosa fosse importante conservare (sia a livello materiale sia mentale), oggi “il dilemma è l’aver perso questa consapevolezza, oscillando schizofrenicamente fra l’impulso di conservazione e quello di distruzione”. Quello che “Essere creativi, una possibilità per tutti” vuole esplicare più a fondo è che la rottura del passato è sempre stata considerata fase necessaria alla creazione dell’”originale”, mentre ciò che serve, dice Carignano, sono occhi e mente nuovi per ri analizzare le informazioni in un recupero di ciò che è davvero importante. MEDIUM “Essere creativi, una possibilità per tutti” di Edizioni Creativa ha un buon equilibrio fra il manuale motivazionale e una guida pratica (l’ultimo capitolo è un vero Planning di Business Model). Cerca di rendere partecipe il lettore inserendo, al fondo di ogni capitolo, una due pagine bianche per la condivisione dei pensieri su carta. Il tentativo di coinvolgimento fallisce dato che i capitoli di per sé sono pensati con un inizio e una fine ben determinati, anche nella scansione delle opinioni e non danno spazio all’esplorazione dell’opinione del lettore. INCARICO Il libro si articola su due parti ben distinte: la prima, esclusivamente teorica, spiega le basi e lo sviluppo della teoria Genomica, mentre la seconda è composta da esempi concreti di Genomation formulati in diverse ed interessanti aree di sviluppo concreto. Il suggerimento ultimo del libro è quello di prendere il metodo e farlo proprio, oltre all’approfondimento delle molte suggestioni disseminate fra i capitoli. FOCUS La conclusione del discorso di “Essere Creativi, una possibilità per tutti” non è davvero un discorso sulla creatività quanto piuttosto sul moto d’innovazione, un incoraggiamento ad abbandonare quel “vivere tutto italiano” e cimentarsi nel risollevamento (e riscoperta) della propria vita. Antepone all’interfaccia uomo-macchina, quella uomo-realtà, attraverso l’osservazione (online e dal vivo), contribuendo così in prima persona alla propria crescita professionale ed esistenziale.

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SKILLSHARE | DISCOVERING WHAT’S POSSIBLE PROGETTO Il sito Skillshare nasce nel 2010 come piattaforma online di istruzione, basata sulla filosofia delle comunità MOOC (Massive Open Online Courses): corsi online pensati per una formazione a distanza che coinvolga un numero elevato di utenti. Il sito sceglie di differirsi dai mooc optando per una visione più “esclusiva”: introducendo una tassa di iscrizione per aderire ai singoli corsi, un accesso premium che permetta il tutoraggio personalizzato e la disponibilità di consultare le videolezioni dei corsi scelti solo su piattaforme interne al sito, senza affidarsi a siti come Vimeo o Youtube. Skillshare, come suggerisce il nome, vuole diffondere la cultura delle arti&mestieri ed è per questo che, malgrado il successo nettamente più legato ai corsi di graphic design, spazia dalla cucina alla falegnameria, in una rilettura Makers tutta nuovo millennio. SCOPO Il corso dedicato all’esplorazione del microcosmo della curiosità, tenuto da John Maeda designer e teorico della curiosità, esamina cosa spinga ad affrontare il processo creativo, gli aspetti utili dell’essere curiosi e quelli più insidiosi. John Maeda sceglie di titolare il corso: “Discovering what’s possible”, focalizzando l’attenzione sul mondo odierno, ai suoi cambiamenti continui e alla vastità di sfaccettature che contiene in esso, espone la teoria che sia necessario attuare un continuo processo di “Re-design Yourself over and over again”, accettando l’assenza di un vero punto di arrivo. Attraverso il confronto con esperti in diversi settori del design, instaurare un immaginario dialogo a tre con l’utente, fornendogli un calderone di topic e spunti su cui riflettere. MEDIUM La piattaforma di Skillshare si articola in videolezioni (solitamente di durata compresa fra i 5 e 15 minuti) e l’assegnazione di compiti che gli studenti possono svolgere in libertà di tempo e modalità, senza deadline di alcun tipo. Una sezione apposita di community, adibita allo scambio di consigli fra gli allievi, funge anche da vetrina di presentazione al docente degli step e del lavoro ultimato. Nella filosofia Maker, i cosidetti “wip” (Work In Progress) risultano più interessanti che il lavoro finale: è attraverso di essi che il docente può esaminare gli errori e i ragionamenti dell’allievo. Purtroppo la community manca di forza e coesione e il dialogo spesso si riduce ad un arido spazio di commenti entusiastici, senza alcun tipo di critica costruttiva. Inoltre la politica di privacy di evitare il download dei filmati rende impossibile la consultazione in modalità offline. INCARICO John Maeda condivide un percorso di ragionamenti e invita a riflettere sui concetti esposti. Sceglie volutamente di lasciare un finale aperto al suo corso e non trova riscontro nel concreto, perdendo l’occasione di potersi formalizzare ed essere ricordato maggiormente. Conclude con un glossario di fonti per approfondimenti personali assieme ad un interrogativo, che pone per primo a sé stesso, “What’s my next step?” FOCUS Ibrido. Le aspirazioni del mondo contemporaneo non si fermano più ad un dato e fisso traguardo. Le molte interviste, che si basano sull’approfondimento dei percorsi individuali dei designer rispetto a ciò che sognavano di diventare e come queste aspirazioni si siano modificate con il trascorrere del tempo, testimoniamo una nuova cultura in continua modellazione e definizione.

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MANUALE CREATIVITA FAI DA TE PROGETTO Il manuale, realizzato su licenza della Creative Commons, si presenta come il risultato del progetto “Handmade Creative Thinking”, finanziato dal “Programma d’azione comunitaria nel campo dell’apprendimento permanente”, o “Lifelong Learning Programme” (programma dell’Unione europea per sostenere l’istruzione e la formazione). L’idea alla base del progetto Handmade Creative Thinking nasce dalla volontà e la necessità di sostenere le Industrie creative e culturali per affrontare le sfide del mercato europeo, nonché il riconoscimento del potenziale del Pensiero Creativo nei termini di innovazione e cambiamento. SCOPO L’obiettivo è rendere disponibili le tecniche di Pensiero Creativo raccolte in anni di ricerca, non solo per coloro già facenti parte del mondo del lavoro artigiano ed artistico, ma anche per chi, in futuro, si vorrà occupare di formazione (come formatori o apprendisti). Risultato di due anni di intenso lavoro, iniziato con la ricerca delle attuali esigenze delle arti applicate e del settore artigianale in Italia, Gran Bretagna e Malta, il Manuale Fai Da Te nasce con l’intento di trasformare il modo di implementare un cambiamento e di utilizzare l’innovazione, trasformando le difficoltà in sfide. MEDIUM Capture Arts ha alle spalle una lunga esperienza nell’ambito del lavoro con i bambini e del Pensiero Creativo, e ha sviluppato un nuovo strumento: il Capture System, (una combinazione incrociata delle tecniche di Pensiero Creativo e una consistente attività pratica), applicata con successo nel settore dell’educazione, all’interno della “Foundation Stage” dell’UK National Curriculum. Il consorzio ha riconosciuto in tale metodologia ciò che stava cercando come oggetto del “trasferimento”, ovvero attività innovative concrete per lo sviluppo del Pensiero Creativo, adattabili al target di riferimento del progetto. In particolare, tali attività sono utilizzabili dagli artigiani incaricati di creare e trasformare con le loro mani, idee in risultati tangibili, i quali stanno vivendo una crisi dovuta alle sfide sbilanciate della globalizzazione, legate allo sviluppo di nuove tecnologie per la comunicazione. Il cambiamento sostenibile richiesto comporta innovazione, senza la quale la possibilità di crescita in un mondo in continua evoluzione, sarà limitata. La vera innovazione inizia con l’acquistare una diversa percezione dei nostri processi produttivi, delle risorse e dei mercati: solo assumendo questo nuovo punto di vista sarà possibile modificare il modo in cui viene inteso il mondo degli affari. INCARICO Il manuale e le attività che vi sono allegate rappresentano i primi passi per iniziare a sviluppare le competenze necessarie per usare il Pensiero Creativo nei casi di gestione quotidiana delle imprese, delle attività artigianali o artistiche e nella propria sfera personale. L’intento è quello di stimolare il lettore e dare lo slancio e l’ispirazione necessarie per scoprire altre tecniche per continuare ad apprendere e migliorarsi. Il manuale è di facile consultazione e utilizzo, affinché il lettore possa sperimentare alcune delle attività di pensiero previste, permettendo di cominciare a dar spazio al Pensiero Creativo nel momento del bisogno. Fornendo un quadro di riferimento il libro si prefigge di aiutare ad affrontare e superare le sfide, trasformandole in opportunità. FOCUS Il pensiero creativo è un’abilità fondamentale che tende a mancare nella società moderna e che, ancora più frequentemente, viene fraintesa. Ne è spesso risaputa l’importanza, nonostante non sia chiaro che cosa esso sia di preciso e quale tipo di aiuto possa fornire. Affinché il Pensiero Creativo possa dare i propri frutti è necessario che si verifichino certe condizioni e nel mondo degli affari uno dei fattori più comuni che limitano la nascita di nuove idee è il concetto che ogni nuova idea debba avere successo. Una ricerca condotta negli Stati Uniti ha rilevato che solo due idee su dieci raggiungono il mercato. Questo significa che una delle sfide da affrontare consista nella necessità di sviluppare una cultura creativa anche all’interno delle imprese nazionali, con riferimento non semplicemente alle competenze di base ma anche a quelle commerciali.

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Test#1

L’essere creativo


Non potendo testare precendentemente l’intero percorso di workshop si è optato per soluzioni più concise, che fosse possibile svolgere in pressoché qualsiasi luogo e momento, e in cui non ci fosse la necessità di supporti, se non una foto ed un pennarello colorato, o la compilazione di un breve questionario.

una possibile ulteriore interpretazione dell’utente), sia simboleggiando il proprio ultimo pasto, citando così la pratica contemporanea, solitamente associata alla filosofia hipster, di fotografare il proprio cibo prima di mangiarlo per condividerlo sui social. Il richiamo al fenomeno del “foodporn” (spettacolizzazione visiva delle presentazioni culinarie e mangerecce, mostrate nel campo commerciale e pubblicitario) come condivisione visiva del proprio pasto, è ribaltato attraverso l’uso di un medium e di risultati, inequivocabilmente, differenti.

Il primo test di questa tesi è stato concepito come prova dimostrativa di alcune delle lacune latenti quali, ad esempio, la percezione dis-

Nonostante l’entusiasmo iniziale, il contatto con il disegno presente nell’esercizio causava negli utenti, emozioni intimidite miste ad atteggiamenti infantili, mentre il momento di azione corrispondeva in molti casi ad un blocco Il terzo interrogativo indica sei diverse modalità di approccio ai problemi della vita quotidiana e viene chiesto all’intervistato di segnalare quali di essere vengano solitamente (o spontaneamente) adottate. Tutti i sei “modus operandi” presenti possono essere utilizzati anche per descrivere diversi punti di vista progettuali e, richiamando il metodo dei “sei cappelli per pensare” di Edward De Bono, il test vuole indagare quali sono le modalità “preferite” in larga scala e se, e in che modo, queste siano associate tra loro. L’abilità di riuscire a separare la propria natura personale, all’interno del processo progettuale, può rivelare risultati inaspettati e positivi, portando il progettista ad esaminare soluzioni ed idee che non sarebbero state prese in considerazione. Il fine ultimo dell’esercizio è ribadire come l’empatia abbia un ruolo necessario, diventando motore guida all’interno del pensiero laterale. Il quarto ed ultimo step è indicato dalla frase “Ora agisci qui.” dove ogni parola detta le condizioni dell’esercizio, lasciando del tutto aperta l’interpretazione all’intervistato. L’ispirazione proviene dai metodi più sensoriali ed emotivi, come quelli di Keri Smith e Miranda July, e vuole coinvolgere l’utente in una massima lateralizzazione del foglio, ormai completo di pensieri ed opinioni personali. Il soggetto, se compreso il messaggio, sarà portato a sperimentare sul foglio nuove forme di rappresentazione, di azione o di utilizzo del supporto stesso. La grafica scelta per il test è del tutto neutra (ad eccezione della presenza del logo in riferimento al progetto di tesi) e richiama i fogli ciclostilati o le grafiche dei primi personal computer con font monospaziati e colori in scala di grigi. L’intento è quello di guidare l’intervistato nei passaggi ed illustrare con chiarezza i compiti da svolgere, senza influenzarlo in alcun modo.

torta della creatività oppure la relegazione del disegno ad un ambito prettamente artistico. Il test si articola in quattro richieste, che rimandano a quattro macro ambiti analizzati precedentemente, ognuno esposto tramite una domanda o una richiesta. Nel retro del foglio è presente un qr code con il rimando ad una pagina web in cui verrà caricata la tesi per intero, spunto da cui l’utente possa partire per approfondimenti sul relativo argomento. In questo modo lo stimolo è quello di incuriosire l’utente verso un percorso di crescita personale ed artistica. La prima domanda invita l’intervistato ad una riflessione sui miti che, ancora oggi, legano la creatività ad un’aurea mistica, nonostante da più di un ventennio esse siano state psicologicamente e scientificamente smentite. Indubbiamente il processo artistico, privato dal suo alone di mistero e pubblicamente analizzato come un procedimento semi analitico, sarebbe privato forse della più importante fra le fascinazioni a lui associate, dinamica che potrebbe scoraggiare i neofiti dall’intraprendere quella che è sempre stata considerata come un’alternativa alla strada logica. Ma è giusto continuare a mantenere l’idea mitologica del “talento” per amore della tradizione o sarebbe più corretto re-impostare i binari su cui scorre il mito creativo? La seconda parte si concentra sulla pratica del disegno come attività poco diffusa, anche in quegli ambiti a cui sarebbe spontaneo ricollegarla: l’accento è posto sull’analisi della frequenza con cui l’utente pratica il disegno, invitando a riflettere su quando sia stato l’ultimo disegno effettuato. In seguito viene richiesta la realizzazione sul foglio di un piccolo disegno, rappresentante “l’ultima cena”: il gioco di parole sdoppia il significato andando, al contempo, a richiamare il noto quadro di Leonardo Da Vinci, riproposto innumerevoli volte con personaggi e chiavi di lettura differenti (suggerendo 73


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Risultati

stesso compreso. Si potrebbe dunque affermare che, mentre la qualità di un certo prodotto artistico viene associata al talento, la creatività esprima una certa democraticità, accessibile solo a patto di essere ben predisposti verso di essa. L’indagine sulle modalità di approccio segnalano la scelta piuttosto frequente di segnare due modi di porsi con chiave opposta fra loro, ad esempio, “razionale-emozionale” o “ottimista-pessimista”. Evidentemente gli individui, sentendosi liberi di poter selezionare più opzioni, avevano la tendenza a cercare di rendere un intero quadro del proprio spettro di reazioni. Molto rari rimangono gli atteggiamenti propositivi, segnali di una nuova reazione intimidita al momento della richiesta di nuove idee. L’ultimo esercizio, chiede di agire, lasciando la massima libertà di espressione all’utente, che molto spesso però si riduce ad una personalizzazione decorativa con motivi floreali, complessi pattern o disegnini e faccine. Qualche caso riesce a cogliere un senso differente, rimanendo figurativo, come il lasciare l’impronta della propria scarpa o di un bacio, ma sono rari i casi di un vero cambio di azione come il mordere il foglio o l’applicare un elemento esterno tramite lo scotch o ancora creare un origami, tenendo ben presente di lasciare integre le informazioni all’interno (per quanto poco accessibili) come richiesto da consegna. Spesso le reazioni sono graduali, mescolando una titubanza iniziale, espressa tramite segni grafici, e poi, acquisita un po’ di confidenza, con la decisione incoscia di esprimere le proprie potenzialità espressive.

Il target analizzato prende in considerazione la fascia di età tra i 20 i 60 anni, la pratica degli individui in ambiti artistici diversi fra cui il teatro, la danza, il design e il circo, e la formazione professionale che varia dai settori umanistici, come giurisprudenza, cinema, lettere, psicologia, a quelli scientifici, come ingegneria e medicina. Nonostante l’entusiasmo iniziale, appena spiegato l’esercizio è stato spesso visto sotto una luce intimidatoria: utilizzando le parole (e le teorie) di Julia Cameron potremmo dire che “risvegliava immediatamente il censore interiore”, ovvero quella voce intima che spesso porta allo scoraggiamento, portando a valutare esclusivamente il lato negativo del proprio operato. L’unico modo per combattere il proprio censore, afferma la Cameron, è la pratica continuativa e caparbia della propria passione e l’educazione personale ad una sana tolleranza, in maniera da allenare una critica interiore non distruttiva. Il contatto con il disegno era la maggiore fonte di imbarazzo e di disagio, portando a galla disegni spesso dai tratti infantili. Le associazioni alla parola creatività, al contrario, avevano generalmente un’accezione estremamente positiva (gioia, luce, storie, bambini...) che solo qualcuno ricollegava, perlomeno in prima istanza, ad ambiti elitari (genio, divino, indole...). Molto più frequente è stata la relazione con verbi: fuggire, allenarsi, reagire, scommettere, tutti rappresentanti di un atteggiamento riconoscibile nei grandi creativi della storia ma che, al contempo, possono essere adottati da chiunque, l’utente 75


Test#2

God is a DJ

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Un’abitudine comune fra gli illustratori, diffusasi dagli Stati Uniti tramite i social network, è il “warm up”: una serie di esercizi/giochi mattinieri per “scaldare” la mano prima di iniziare la giornata lavorativa, indipendentemente se poi l’impiego riguardi il disegno vero e proprio. I warm up sono, frequentemente, svolti a mano con grafite o penne ad inchiostro su sketchbook o, in alternativa, tramite l’uso di tavolette grafiche al computer, e, solitamente, non prendono parte ad alcun progetto. Lo scopo è quello di non concentrarsi sul concept ma poter spaziare con le linee, sciogliendo la mano. Una delle più frequenti sperimentazioni consiste nel ricavare da una forma, spesso a fagiolo o a pera, soggetti diversi: dove una sporgenza sarà occupata dal naso, la stessa curva, in un altro schizzo, sarà il ginocchio o un lato della testa, dando vita a disegni molto cariturali o vere esplorazioni cartoon. L’esercizio acquista interesse quando ogni interpretazione è molto differente dalle altre per giochi di prospettiva, conformazione del personaggio, linee d’azione, ovvero quando, da una struttura base, l’immaginazione del creatore riesca a ricavare soggetti disparati fra loro. Il primo metodo nell’istruzione al disegno (compreso anche tra gli insegnamenti di Betty Edwards su come fronteggiare a piccoli passi il ragionamento visivo) è suddividere in forme basiche l’oggetto che si deve riprodurre. Non soffermarsi sui particolari aiuta a ragionare per proporzioni e volumetrie, così facendo il disegnatore non viene intimidito dalla complessità del soggetto ma riesce ad affrontare i problemi minori, legati agli elementi che lo compongono, srotolando il “bandolo della matassa” che compone la difficoltà maggiore. La mente del progettista ragiona per simboli, astrazioni che lui combina per produrre soluzioni innovative, ma per far ciò occorre avere una grande dimestichezza con quelle che sono le materie delle forme basilari: una su tutte la geometria. Johannes Kepler, scienziato tedesco, ha affermato “La geometria è Dio stesso!” e Paul Richards, nella sua conferenza “Thumb War”, aggiunge che è il progettista, quando incomincia il suo processo di ideazione, ha a disposizione gli stessi ingredienti di un puzzle che ha avuto un dio, autore del mondo, paragonango così l’entità superiore ad un grado massimo di remix creativo. I componenti da cui partire vengono presentati da Richards come forme “primitive”, dapprima bidimensionali, poi volumetrici e poi ancora, iniziano un contagio reciproco, combinandosi per ottenere infinite forme. Il mondo di Richards si articola come il gioco dei bambini delle costruzioni, in cui le forme primitive sono i componenti astratti.

L’esercizio a cui sono stati sottoposti conoscenti ed estranei si suddivide in due fasi: la prima è l’individuzione (tramite il disegno su un foglio lucido) delle forme geometriche che compongono il soggetto di una foto, la seconda è la reinterpretazione di quelle stesse forme individuate, in una nuova figura. Il gioco analizza la predisposizione a ricondurre, a prima vista, qualsiasi soggetto a modelli essenziali, mentre la seconda fase, come il gioco dei bambini di scovare forme riconoscibili nelle nuvole, mira a stimolare le capacità immaginative. Oltre ad essere la prima tappa in un percorso di rappresentazione dal vero, l’esercizio allude all’approcio che dovrebbe essere adottato verso un problema, indipendentemente dall’ambito in cui esso si trovi. Di fronte ad un nodo da risolvere il primo passo dovrebbe essere analizzarlo a fondo, scomporlo in questioni più semplici, per poter risolvere un problema alla volta. Il fine ultimo è fornire, ai soggetti del test, lo spunto per riflessioni (e osservazioni) future più “consapevoli”, perfezionando la tecnica, in maniera da poterla svolgere completamente a mente.

Risultati

La foto scelta per l’esercizio è tratta dalla conferenza di Paul Richards “Visual Remix”, in cui l’autore spiega come sia fondamentale dapprima individuare la struttura principale, stabilendo una gerarchia, per poi concentrarsi sui dettagli. Riconoscere le figure primitive è una capacità necessaria al disegnatore (e al progettista) poiché rende ogni soggetto gestibile, nonostante il grado di difficoltà. In termini di gerarchia la risposta degli utenti è stata piuttosto vaga: generalmente le prime forme individuate sono state quelle delle orecchie (inequivocabili triangoli) che tuttavia spesso rimanevano poi in scarsa comunicazione con il resto delle forme. Come dettagli erano spesso individuati gli occhi che, per quanto piccoli, sono il punto focale della foto, oppure le pietre attorno all’animale. Entrambi i dettagli spesso sono indicati con scarsa adesione a forme geometriche definita, sviluppando la tendenza a cedere al vincolo geometrico pur di inserire i due particolari. Le forme disegnate sono in maggioranza considerate come bidimensionali nonostante, le stesse figure, nella seconda parte vengano invece considerate come volumi posizionati nello spazio, se non addirittura componenti di figure ben definite nella realtà quotidiana. In molti casi la redefinizione delle forme ha portato a giochi visuali completamente astratti, mentre in altri ha suggerito immagini vissute in prima persona o, più spesso, aderenti ad archetipi. 78


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eureka!

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I contenuti sarebbero distribuiti in brevi video tematici, disponibili alla navigazione da qualsiasi dispositivo computer o cellulare e verrebbero integrati da esercitazioni mirate a stimolare l’utente

Applicazioni Web

ranno ad essere inseriti gli aggiornamenti, ed un dialogo di scambio tramite i social network. Le esercitazioni, anche se caldamente consigliate, non verranno mai imposte e saranno sviluppate cercando di evitare il più possibile i processi di stampa, per agevolarne la velocità e la fruibilità. L’esperienza di “Learning to love you more” insegna l’importanza di sfruttare supporti diversi per compiti diversi, sperimentando l’analogico come il digitale. Solo al completamento della visione di un video sarà possibile visionare quello successivo, incentivando la linearità del percorso ma, una volta ultimato, l’intera piattaforma rimarrà completamente accessibile all’utente.

La possibilità di estendere il percorso workshop in altre direzioni si concretizza nell’apertura di un sito web in cui sia possibile consultare tutte le lezioni presentate e scaricare i contenuti da utilizzare. Come già la guru degli scrittori e sceneggiatori Julia Cameron ha sperimentato nel sito, tratto dal suo famoso metodo “La vita dell’Artista”, la piattaforma web coniuga la diffusione delle proprie conoscenze a portata mondiale e l’opportunità di arricchire l’archivio online di informazioni a riguardo degli argomenti trattati. I contenuti, disponibili in due lingue, sarebbero distribuiti in video tematici dalla breve durata e, importati da piattaforme apposite, sarebbero disponibili alla navigazione da qualsiasi dispositivo computer o cellulare. Tramite una registrazione gratuita l’utente inizierebbe il suo percorso da un manifesto compilabile (come quello previsto dal Test n°1) come istantanea della propria situazione in quel dato momento; successivamente la visione dei video andrebbe a “sbloccare” esercitazioni a cui l’utente potrebbe scegliere se aderire o meno. L’arbitrio dell’utente durante lo svolgimento del percorso è una delle caratteristiche più importanti, lasciandogli la libertà di affrontarlo in qualunque modo voglia. Non è previsto alcun tipo di supervisione, se non quello di un blog di supporto in cui and-

I social network ritenuti più affini al progetto sono Facebook, in particolare nella creazione di una “Fan page” adibita alla condividere di aggiornamenti, comunicazioni e un dialogo fra utenti. Il secondo social network, di fruibilità molto differente, è Instagram, sfruttato come archivio di istantanee testimoni dei corsi individuali e momento di scambio e arricchimento reciproco. Al termine del corso verrà effettuata una seconda volta il test n°1 e, attraverso la comparazione, verrà invitato l’utente a riflettere su quelli che sono stati i suoi cambiamenti.

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Conclusioni

“Per un architetto, imparare dal paesaggio circostante, è un modo di essere rivoluzionario... la creatività dipende dall’osservare ciò che ci circonda.” Così Robert Venturi e Denise Scott Brown, la coppia di Philadelphia che nel 1972 scandalizzò l’America scrivendo il volume “Imparare da Las Vegas”, definiscono l’inizio del processo creativo. Quarant’anni dopo, Steven Johnson in un video-intervento molto famoso sul web indaga “Where good ideas come from?” (Da dove vengono le buone idee?), interrogandosi se davvero Internet stia danneggiando le menti, causando un tasso di A.D.H.D. (Disturbo da Deficit di Attenzione) galoppante. Occorre ridefinire il concetto di input, contestualizzandolo nella contemporaneità: le buone idee sono la combinazione di spunti di individui diversi, spesso in ambiti diversi, e, nonostante permanga l’importanza di propri cataloghi visivi fondati su elementi “primitivi”, si rivela fondamentale la creazione di un network di condivisione di essi. Maggiore sarà la rete, più alte saranno le probabilità di ottenere risultati innovativi. Il percorso condotto fino ad ora, composto di sei metodi più uno sperimentale, vuole fornire le basi per costruire un’ipotetica comunità, analogica o digitale, volta a testare i processi analizzati ed arricchirli o modificarli, se ritenuto necessario. In un’epoca in cui occorre prendere atto che il talento e l’ispirazione siano alibi, l’intento è quello di rompere alcune barriere mentali (o perlomeno scalfirle), intercettando la mela “newtoniana” e privilegiando il processo creativo rispetto all’attimo della folgorazione improvvisa, “rompendo la lampadina”.



Appendice

Tavole di Progetto











Bibliografia

Amabile, How to Kill Creativity, New York Times, 1998 Bartezzaghi, L’elmo di Don Chisciotte (contro la mitologia della creatività), Editori Laterza, 2009 Bransford, How people learn, Brown&Cocking, 1999 Cameron, La Via dell’Artista, Longanesi, 1998 Carignano, Rossetti, Essere creativi una possibilità per tutti, edizioni creativa, 2014 De Bono, Essere creativi, Tecniche del pensiero laterale, Edizione Il Sole 24 Ore, 2003 Edwards, Disegnare ascoltando l’artista che è in noi, Longanesi, 1987 Edwards, Disegnare con la parte destra del cervello, Longanesi, 1985 Falcinelli, Guardare Pensare Progettare, Neuroscienze per il design, Stampa Alternative & Graffiti, 2011 Handmade creative thinking, Manuale creatività fai da te, 2012 Kalam, Evaluating content based Animation through concept art, tesi di laurea, 2013 Kapoor, Applying psychology to study creativity, St.Xavier’s College, 2009 Keil, Da zig a zag, Come essere originali e creativi con successo”, McGraw-Hill libri italia srl, 1995 Keil, Il mistero della creatività come dirigerla e renderla produttiva, McGraw-Hill libri italia srl, 1987 Kleon, Ruba come un artista, Vallardi, 2013 Paci, Le metodologie partecipative, Poliste, 2013 Santucci, Sei cappelli per pensare, guida all’uso, BUR, 2003 Sawyer, Explaining the Science of Human Innovation, Oxford University, 2006 Smith, Wreck this journal, Penguin Books, 2012 Smith, Finisci questo libro, Esercizi pratici per conoscere il mondo, Penguin Books, 2011 Stickdorn, Schneider, This is Design Thinking, Bis, 2011 Tanggaard, Culture Psychology, SAGE, 2013 Venturi, Scott Brown, Learning from Las Vegas, Quodlibet, 1972

Sitografia

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Immagini Retro copertina Digital Painting, Sergey Kolesov Capitolo 1. Grafico Piramide di Maslow Foto promozionale “Mad men”

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Capitolo 2. Schema FCB metodi Esercitazione Illustr. Uomo a cavallo Test Sommers+Sommers, risultati Daily Routine of Famous People Fotografia Post-it “design thinking” “Wreck this book” before-after MIranda July photoshoot Libro raccolta “Learning to love you more”

pag.21 pag.24 pag.24 pag.26 pag.27 pag.30 pag.32 pag.33

Capitolo 3. Campagna Diesel “Be stupid” Archive di un utente Tumblr Opera Bansky esposizione al MOMA Meme Scarlett Johansson falling Frame to frame Kill Bill - Bruce Lee Metodo Ferguson, “Everything is a remix” “Newspaper Blackout”, Austin Kleon

pag.34-35 pag.36 pag.39 pag.40 pag.40 pag.43 pag.43

Capitolo 4. Concept Art varie, Even Mehl Amundsen pag.44-45 Concept Art per “Star Wars”, Ralph McQuarrie pag.47 Storyboard, Arthur Fong pag.48 Expressions Sheet per “Tangled”, Jin Kim pag.49 Comparison “Burial at Sea”-”This gun for hire” pag.50 Concept League of Legendsm Kienan Lafferty pag.50 Paul Richards pag.55 Concept Art, Riot Games pag.56 Process, Loish pag.57 Study, Claire Hummel pag.58 Digital Painting, Sergey Kolesov pag.61 Comparison style pag.62

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