Alberto Abruzzese

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5. Con questo Manuale. Ragionando del mondo che viene di Alberto Abruzzese

5.0 Premessa Qui mi si affida il compito di forzare l’approccio ai fenomeni sociali e culturali, da me solitamente svolto con un sguardo rivolto prevalentemente ai media, orientando invece il discorso mediologico verso una riflessione che abbia al suo centro, o almeno sappia privilegiare, la formazione, le teorie e tecniche della formazione; ne tenga a mente le preoccupazioni e le aspirazioni. I vincoli che essa ha con le culture di regimi etici tra-passati, in crisi, o in discredito, ma anche con ciò che di più necessario, autentico, vi è nel bisogno di formare e innanzi tutto formarsi alla vita. È in questa prospettiva, carica di domande e attese cruciali, che si può tornare a ragionare sui media, arricchendoli e arricchendosene dentro una esperienza comune, in comune. Senza utopie neocomunitarie, ma sapendo che il nodo di ogni esperienza è una relazione, la condivisone di qualcosa che conta, merce o dono che sia. Se, in altre parti di questo volume, i campi della formazione e delle scienze a essa applicate sono stati riletti anche in chiave comunicativa, a me tocca compiere ora uno sforzo opposto ma analogo, convergendo così nell’obiettivo di questo Manuale collegiale: scrollarsi di dosso il peso delle discipline, dei programmi didattici, dei contenuti sapienziali per tentare di arrivare meglio alla sostanza. E trovare questa sostanza in luoghi e oggetti dell’esperienza quotidiana. E, dalla natura situata di questa esperienza, fare discendere teorie e metodi duttili, più inclini a orientare la persona verso una sorta di saper essere ovvero sapere abitare il mondo, esserci, quindi agire e nel proprio agire relazionale con gli altri, con chi ti è prossimo, aver cura di sé ovvero dei contenuti e della forma delle proprie azioni. Un radicale ripensamento dei vincoli tra teorie e pratiche della comunicazione e della formazione può invece valere la fortunata occasione di produrre qualche maggiore apertura, qualche modificazione, qualche re-invenzione utile a spingersi oltre la meccanica opposizione tra le due prospettive, disciplinare e anti-disciplinare, in cui solitamente si dibattono un insegnante e un discente, anche quando, e anzi soprattutto quando, siano responsabili del proprio operato. Perché si apra un varco effettivo, reale, tra due scelte di segno opposto, c’è bisogno di fare perno – affidamento – su qualcosa che le superi e sia in grado di smascherare l’inconsistenza che si cela dietro una disputa di carattere comunque manicheo, appunto per questo disciplinare, inibitorio, punitivo. Ci vuole qualcosa che riesca a spezzare la natura continuista della mediazione dialettica, quel tipo di mediazione che – invece di fare forza su un contenuto esterno, dirom-


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pente, tale da scardinarne l’andamento sostanzialmente lineare, omogeneo, tra il polo positivo e il polo negativo dell’opposizione, si accontenta di trovare un compromesso tra le regole della tradizione e i mutamenti che la mettono in discussione. Il ragionamento dialettico è incardinato in una regola fondamentale del pensiero occidentale e cioè nella sua vocazione individualista, tesa a assoggettare il mondo dell’esperienza, a trasformare in oggetto ogni sua manifestazione, a ‘cosificarlo’, appunto ad appropriarsene, riducendolo a misura della propria soggettività, della propria prospettiva (la grande invenzione dell’arte rinascimentale), della propria centralità (il fulcro che ha generato il dispositivo delle metropoli moderne). Si tratta di una dimensione che diciamo «occidentale» perché ha riguardato in particolare la storia del capitalismo e della società industriale del Vecchio e Nuovo Mondo. Ed è questione inerente ai processi culturali nel senso più pieno del termine, e cioè processi insieme sociali e economici: si pensi alle tematiche del pensiero marxista sull’alienazione dei mezzi di produzione, e dell’essere umano dentro i fenomeni di industrializzazione e mercificazione della stessa vita quotidiana (Horkheimer – Adorno 1966). La dialettica riporta l’esperienza del mondo dentro un paradigma che, avendo al proprio centro il sapere, la sua rete di connessioni sociali e economico-politiche, è indotto a tras-curare l’esperienza viva delle cose, a non averne cura per il semplice fatto di escluderle dal proprio orizzonte o sottometterle alla propria visione del mondo. Ecco allora che, ragionando sul rapido trapasso che comunicazione e formazione stanno vivendo nel nostro presente, bisogna riuscire a sentire le cose dietro alle parole, di cui ci serviamo e ancora si servono i nostri interlocutori. Spesso, per esprimere i tumulti e i conflitti del presente, il lessico delle scienze non dispone della parola adatta, del termine giusto. I mutamenti della vita quotidiana, infatti, stanno correndo in modo più rapido dei vocabolari e delle grammatiche. Siamo in una fase di transizione, in cui i fatti si spingono oltre le nostre facoltà di rappresentazione sociale. Ecco allora che, cercando di definire contenuti che non sappiamo nominare e sostantivare, abbondiamo nel fare uso degli aggettivi nuovo (Abruzzese 2007) e diverso (assai più adatto a evitare le retoriche evoluzioniste e progressiste della modernizzazione).

5.1 Formazione e comunicazione Il riferimento all’inadeguatezza del pensiero dialettico a fronte della complessità di un mondo in cui i tratti di discontinuità si fanno sempre più intensi rispetto ai tratti di continuità, può fare da sfondo alle argomentazioni di questa nota. Eccone una traccia: l’esperienza vissuta è qualcosa che si spinge oltre l’individuo, persino oltre la singola persona o le molte diverse persone che sono nascoste nell’identità sociale, anagrafica, domiciliare dell’individuo; l’esperienza vissuta è qualcosa di plurale e relazionale che si situa in processi ibridi, in parte consapevoli e in parte automatici, remoti. Vale a dire in dimensioni che sono il risultato di corpi e ambienti umani tecnologicamente trasformati, accresciuti, espansi, grazie a modi di comunicare, essere in comune, relazionarsi sempre più in grado di connettere territori molteplici, animati e inanimati, vicini e lontani, declinati al presente e al passato. Rispetto a questa prospettiva multi-versale, i saperi ancora


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usati dalla formazione sono inadeguati. Riduttivi, sterili, spesso devianti. Rischiano di creare disadattati piuttosto che attori socialmente consapevoli e attivi, processi di sconnessione ancora più gravi di connessioni culturali ormai troppo obbligate e sterili. Sui regimi tradizionali della scuola e dell’università pesano culture autoritative (vuol dire che sono autoritarie anche quando non vogliono esserlo, anche quando sono deboli e permissive). Così è in particolare nel nostro sistema nazionale. Ma anche in molti altri Paesi d’Europa e del mondo, là dove la globalizzazione rade al suolo gli apparati educativi ed espressivi delle tradizioni istituzionali più convenzionalmente legate a valori umanistici, ovvero ai vecchi modelli di nazionalizzazione, internazionalizzazione, mondializzazione e cosmopolitismo dei sistemi moderni industriali e di massa. In questi sistemi il modello ispiratore dei processi culturali si è mantenuto tendenzialmente conservatore e restauratore (si pensi all’idea dominante nelle politiche sui beni storici e artistici in cui le parole chiave sono appunto conservazione e restauro). Esso ha continuato a pesare, in modi più o meno sotterranei, anche durante sistemi di potere progressisti, tendenzialmente democratici. La sua radice elitaria è stata trasformata, riformata, ma non estinta dai processi di collettivizzazione del Novecento e dalle democrazie di massa (Morin 2002). E ancora resiste dentro l’ondata dei processi di de-industrializzazione e de-massificazione, che sono sopraggiunti a cavallo tra il secolo passato e l’inizio del Terzo Millennio. La loro tendenza alla diversificazione e personalizzazione resta ancora costretta dentro valori identitari collettivi, dentro sistemi generalisti. In questi ultimi decenni, almeno a partire dalla seconda metà del Novecento, apparati e istituzioni della scuola e dell’università sono stati toccati o invasi dai processi sociali e dai consumi molto più che dai processi di modernizzazione dell’industria, delle tecnologie e delle economie di mercato. E dunque – isolati rispetto allo sviluppo tardo moderno e postmoderno – hanno vissuto i mutamenti della vita quotidiana come aggressione dall’esterno, espropriazione, mortificazione. La sfera pubblica della formazione era stata, insieme al servizio militare, il principale fattore di unificazione degli italiani o almeno di una parte di essi, facendo passare una mentalità nazionale, invece che locale e dialettale, un sentire dai tratti collettivi e civili apprezzabili, almeno rispetto alla frantumazione delle culture preunitarie. Ora la sfera dell’insegnamento e dell’educazione pubblica è invece un territorio sottosviluppato, una sorta di ‘terzo mondo’ rispetto alla condizione di sviluppo raggiunta dall’Italia economica e politica. Come dire che all’area della formazione è venuta comunque a mancare una parte essenziale di società e, a questa, una parte essenziale di formazione. Di tale distanza, un’incomprensione da ‘separati in casa’, hanno sofferto e soffrono inevitabilmente le zone di formazione sociale più situate e locali come la famiglia o la parrocchia o la piccola e media impresa, ma anche quelle più socialmente strutturate e globali come la grande impresa. Tranne rare eccezioni, infatti, nessuna di queste aree è riuscita a evitare di riprodurre i valori e le procedure tradizionalmente adottate dalla formazione pubblica, e tanto più a riempire di nuovi contenuti sociali il vuoto lasciato a seguito del loro declino, della loro marginalizzazione. Quando le grandi imprese decidono di intervenire nei campi della comunicazione sociale e della formazione culturale, finiscono per adottare forme di relazione culturalmente povere, a basso contenuto innovativo; oppure, quando pretendono di esser forti, o lo sono davvero, si rivelano socialmente monche, assai poco autonome e dunque assai poco riflessive.


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Il paradigma dominante resta quello di una formazione unidirezionale (proprio come si dice della comunicazione televisiva generalista), in cui il sapere si esaurisce nel suo apprendimento, nella sua memorizzazione, e l’esperienza viva delle cose che si insegnano viene gettata all’esterno dell’aula, spazio ancora sovrano, univoco, sull’intrattenimento tra docente e discente, e viene rimandata così al futuro mondo del lavoro, dei mestieri e delle professioni. Certo: molti maestri e insegnanti hanno cercato di cambiare metodi, contenuti, a volte persino se stessi, intervenendo sulle linee di confine tra ambiente didattico, famiglie, comunità di spirito e di territorio. È stato fatto in modo disomogeneo e dal basso assai più che dall’alto, essendo venuta a mancare qualsiasi capacità progettuale da parte delle istituzioni. Ma il paradigma ancora dominante nella mentalità dei sistemi socio-culturali interessati alla formazione è quello di un modello di trasmissione del sapere e del saper fare meccanicistico, dunque un agire formativo chiuso nel tempo e nello spazio. Niente che abbia a che vedere con la fluidità della vita quotidiana e persino molto meno di quanto offrono le dinamiche relazionali della vita sociale, spesso assai più affettive, emotive, coinvolgenti, di quanto si creda. La formazione insiste su una visione di se stessa universalista e insieme episodica, a tempo determinato. Non sa parlare di bisogni, ma di principi e doveri. Le conoscenze che impartisce funzionano più o meno alla maniera dei trasporti, con la loro stessa logica: come se si trattasse di smistare i propri blocchi di sapere da un contenitore, quello grande del formatore, all’altro, quello piccolo dell’apprendista. In linea di massima, anche in zone formative maggiormente innovative e qualificate, la cultura dei formatori e soprattutto gli ambienti formativi a disposizione – per l’arretratezza organizzativa, la povertà di risorse e mezzi dei loro spazi e apparati – fanno sì che si pratichino procedure troppo caute, ambigue o inibite e inibenti. Ci si limita a produrre una qualche dinamica relazionale a partire dai contenuti della formazione, senza essere in grado di ribaltare il loro paradigma e dunque lasciare nascere capacità cognitive e comportamentali non da contenuti preconfezionati, ma da situazioni relazionali. Qui, sta il nodo della questione, nodo che i new media hanno messo, in rilievo soprattutto nella loro prima fase di impatto con le culture tradizionali: si pensi alle reazioni di intellettuali, letterati, pedagogisti ed educatori, comunità religiose e movimenti anticonsumisti nei confronti dei videogiochi o di molte delle forme di intrattenimento diretto e non filtrato, quindi tendenzialmente incontrollato, di Internet. Le scienze della comunicazione formano comunicatori. E le scienze della formazione? Le scienze della formazione avrebbero non il semplice compito di impartire la capacità di formare, ma quello di formare formatori, che è già una scelta progettuale molto più avanzata rispetto a chi trascura drasticamente la necessità di innovare la didattica, limitandosi ad affidarla solo a nuovi programmi di studio. La formazione di formatori è sollecitata a tenere a mente le nuove doti personali, di cui i processi comunicativi e formativi devono potere disporre in modo stabile e continuativo. Ma le scienze della formazione dovrebbero dismettere con più decisione la loro natura di discipline settoriali, per individuare e organizzare ambienti comunicativi in grado di creare doti di formazione permanenti. Vale a dire che non dovrebbero limitarsi a produrre professionisti da congedare a compimento della formazione ricevuta, a esaurimento di un sapere strumentale a loro impartito e da loro assimilato. Ma dovrebbero creare operatori per i qua-


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li la vocazione e le capacità di formazione diventino il cardine della loro stessa professione, il nodo di una rete. Le istituzioni e gli apparati della formazione dovrebbero dunque tras-mettere nella vita quotidiana – prima ancora che nel mercato del lavoro – non semplici professionisti, ma inseminatori di zone e processi innovativi, veri e propri incubatori di situazioni formative. Questa idea di una formazione che crea zone di creatività attive sul territorio, enzimi capaci di fermentare, può sembrare un artificio intellettualistico, eppure si può arrivare a condividerla, ragionando anche soltanto sulla domanda – sin qui mai soddisfatta e anzi sempre più elusa – di una ricomposizione tra teorie e tecniche, tra sapere e sapere fare. Vecchio slogan: infatti sono evidenti le ambiguità e carenze con cui è stata portata avanti questa domanda, sempre divisa tra il sapere astratto delle tradizioni umanistiche, la distanza sociale delle scienze «dure» – matematica, fisica e via dicendo – e infine gli interessi strumentali dei mercati industriali e politici. Questa ricomposizione può avvenire solo riportando in uno stesso luogo e tempo la ricerca di contenuti e la loro sperimentazione dentro i processi produttivi: non quelli privilegiati da modelli culturali ancora troppo legati alla burocrazia e alla fabbrica, ma quelli che vivono dentro le relazioni sociali, territoriali, personali dei consumi. Può avvenire stringendo ricerca e sperimentazione, sino a farle coincidere tra loro. Riconoscendo che l’una nasce dall’altra. E riconoscendo che la separazione storica – professionale, urbanistica, architettonica, amministrativa – tra luoghi di formazione e luoghi dell’abitare non è più in grado di soddisfare una società sempre più complessa, sempre più veloce, fluida nei suo modi di vita e nell’espressione dei suoi bisogni. Quindi è naturale sperare in una piena assunzione di contenuti innovativi, attraverso il ricorso diretto all’estrema duttilità dei linguaggi digitali e delle pratiche relazionali online. I limiti, di cui avremo modo di accennare qui di seguito, serviranno soltanto a dimostrarci che tanto una tecnologia quanto un apparato disciplinare o professionale vivono del loro contenuto e che questo contenuto è sociale, dipende da un conflitto di potere e da una scelta di vita.

5.2 Innovazioni di contenuto e computer Il computer si presta a un’idea di formazione permanente? La vocazione formativa di cui si sta parlando, tendenzialmente ostile all’ordine disciplinare dei programmi e quindi delle forme di valutazione del loro rendimento, non ha molto a che vedere con i vecchi discorsi sulla formazione permanente. In sostanza questi non erano altro che la riproposizione dei vecchi paradigmi formativi, con la sola aggiunta correttiva di applicarli ripetendoli nel tempo e quindi come prolungamento dell’autorità del formatore, ovvero dei suoi valori e contenuti, dall’età scolastica sino all’educazione al lavoro o alla vita civile e infine al recupero e inserimento sociale degli anziani. In tutti questi momenti, a onta del loro intento progressista e democratico, ogni intervento di aggiornamento e riqualificazione non era in grado di superare la consueta posizione di subalternità (o estraneità) dell’aula rispetto al formatore. Molti di questi limiti possono essere superati dalla costante immersione in reti dedicate al crearsi di contenuti formativi, attraverso processi relazionali che sfruttino l’interfaccia del computer. E tanto più potranno essere superati quanto


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