Mario Pireddu

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2. La città, le città di Mario Pireddu

Dover parlare di città, pur scegliendo di utilizzare il termine come metafora per ragionare su processi di mutamento culturale tra comunicazione ed educazione, mi impone una breve premessa. Un buon punto di partenza è sicuramente il riconoscere che non esiste la città, ma esistono diverse e distinte forme di vita urbana. La città è infatti un fatto concreto, materiale, giuridico e politico, ma è anche un’idea, un concetto potente: sede di utopie e distopie, per alcuni un luogo da costruire, per altri un ideale e un traguardo, per altri ancora qualcosa da lasciare alle spalle. Ancora, parlare di città senza cedere alla tentazione di seguire un ordine cronologico significa necessariamente analizzare in modo genealogico le logiche di strutturazione dei rapporti spaziali e temporali in contesti urbani di socializzazione e comunicazione. E questo implica affrontare la complessità dell’abitare umano in ambito cittadino, metropolitano o post-metropolitano, con la consapevolezza di una inevitabile parzialità dello sguardo e dell’analisi. Un ragionamento di questo tipo, infine, credo possa prendere corpo unicamente rendendo esplicito il punto di vista che si intende adottare, che in questo caso – e nello spirito di questo nostro Manuale – è frutto di un approccio mediologico al tema della città. In altre parole: le formazioni urbane sono qui intese come ambienti di mediazione, socializzazione, comunicazione ed educazione, ma anche come luoghi dell’immaginario e della costruzione sociale della realtà, dunque media nell’accezione mcluhaniana del termine. In quest’ottica, le città, le case e le strade hanno a che fare con la rimediazione continua dei modelli di associazione umana, quindi con gli scambi comunicativi, le costruzioni sociali e le forme di trasmissione del sapere (Bolter, Grusin 2002, McLuhan 2008).

2.1 Natura e cultura Il tema della città è legato a doppio filo ai concetti di civiltà e civilizzazione. Il termine civiltà deriva infatti dal latino civilitas, che a sua volta deriva dall’aggettivo civilis, formato a partire da civis, cittadino e abitante della civitas. A più riprese e in epoche diverse, quella del cittadino è stata la figura simbolica che ha giocato un ruolo strategico nella definizione di uomo, di umanità, di progresso sociale e tecnologico. Oggi il termine civiltà è utilizzato anche per indicare «il complesso di aspetti culturali e di organizzazione politica e sociale di popolazioni sia del passato che contemporanee», ma il principale significato della parola ha a che vedere da sempre con l’idea di «una costante evoluzione dell’umanità verso forme sempre più complesse di sviluppo sociale e tecnologico». Nelle varie lingue il termine corrispondente all’italiano civiltà indica di volta in volta l’affrancamento dalla natura, la presenza di


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città e istituzioni più o meno centralizzate, le capacità materiali e tecnologiche, l’espansione e la trasmissibilità dei saperi e delle conoscenze. Non pochi studiosi hanno sostenuto – e taluni ancora sostengono – che il cammino dell’uomo si realizzi attraverso una sorta di evoluzione culturale, attraverso la quale gli esseri umani passerebbero da stati «primitivi» a stati sempre più «civilizzati». Le diverse culture del pianeta sono state allora classificate a seconda dei casi come «selvagge», «barbare» e «civilizzate», soprattutto laddove una concezione evoluzionista della cultura è stata funzionale all’espansionismo colonialista di stampo europeo (in particolar modo dal XV secolo a oggi, ma, come si vedrà, anche ben prima).

2.1.1 Artificializzazione La costruzione del percorso umano nella storia come progressivo allontanamento dallo stato di natura, iniziata con la crescente concentrazione spaziale di attività specialistiche dovuta alla sedentarizzazione e alla scoperta di nuove tecniche costruttive, è attiva ancora oggi. Rispetto ai saperi dell’agricoltura, e dunque alla capacità di ordinare e controllare i cicli naturali, le tecnologie del fuoco e della lavorazione dei materiali hanno reso possibile in passato non solo la produzione delle forme degli artefatti, ma anche del materiale di cui essi erano composti. Se l’agricoltura è stata di fatto il primo sfruttamento tecnico della natura organica, la lavorazione a fuoco è stata il primo sfruttamento tecnico della natura inorganica. La produzione di energia (fornaci, combustibili, alte temperature per la fusione dei metalli, mantici ecc.) e di nuovi materiali tecnici comporta da allora un processo di impoverimento irreversibile delle risorse naturali. I metalli e i materiali per la produzione di energia vengono da sempre sottratti alla natura, come appare evidente dall’attuale dibattito sulla presunta fine del petrolio e sulla ricerca di fonti energetiche alternative. Se il contadino approfitta dei cicli della natura per le sue esigenze produttive, le attività specialistiche concentrate in villaggi e città danno vita a un processo lineare di produzione attraverso il quale «si prende qualcosa alla natura senza restituirgliela» (Popitz 1996). Secondo Heinrich Popitz la città è artificiale per definizione, perché elemento centrale del più vasto percorso di artificializzazione della natura e della società che caratterizza le comunità umane. Con la costruzione delle città, l’artificializzazione connessa alla produzione di utensili e alla coltivazione della terra diventa un sistema chiuso: nelle città, infatti, gli esseri umani vivono in mondi fatti di oggetti da loro costruiti. La trasformazione della natura e la presa di distanza dell’uomo dall’ambiente naturale sono quindi due aspetti dello stesso processo di artificializzazione. Si domina la natura (regolando la vita organica non umana secondo schemi utili all’uomo, modificando ambienti e paesaggi) e ci si allontana da essa (separando le attività quotidiane e lavorative dagli aspetti ‘selvaggi’ della natura). Le discussioni sulla quantità di verde negli spazi urbani – quasi sempre si tratta unicamente di prati e di parchi – mostrano come la forma città spinga inevitabilmente a chiedersi quanta ‘natura naturale’ debba essere accettata all’interno dei suoi confini. Mi soffermo su questi aspetti della vita urbana perché credo sia necessario per comprendere come il processo di manipolazione tecnologica del mondo da parte dell’essere


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umano sia connesso a una parallela reificazione del concetto di artificializzazione. In altri termini, reificazione significa qui che l’uomo si è immaginato e si immagina come altro dalla natura, in virtù dell’elevata capacità di pensiero simbolico e delle spiccate attitudini tecnologiche che lo caratterizzano. Per un movimento opposto, davanti alla diversità incomprensibile e all’alterità inaccettabile ci si rifugia invece in una appartenenza a una sorta di natura idealizzata e normalizzata, per cui ci si distanzia dal deforme, dal degenerato, da ciò che spaventa (è il caso dei cosiddetti freak, degli «esseri contro natura» ecc.). Il discorso è in realtà più complesso, ad esempio laddove si assiste al rifiuto del concetto di homo sapiens come homo technologicus proprio da parte di chi si è legato intimamente a una particolare tecnologia. È il caso paradossale di molta accademia contemporanea, pronta a indicare i rischi di una eterodirezione o di una sottomissione dell’uomo alla tecnologia, rifiutando al contempo di considerare tecnologica la pratica della scrittura, che costituisce tanta parte della sua identità, e non riuscendo a vedersi presa nelle maglie di un pensiero pienamente alfabetico e tipografico. Ma prima di affrontare direttamente il discorso sulle tecnologie della comunicazione e sui media è necessario continuare a esaminare i meccanismi della costruzione sociale della tensione dialettica tra natura e cultura.

2.1.2 Umanizzazione e modernità Immaginarsi altro dalla natura implica il vedersi distante da tutto ciò che in qualche modo appare come più vicino alla natura. E questo vale in primis per gli animali, ma anche e per lungo tempo per gli schiavi, le donne, i pagani, i folli e i malati, i neri, gli illetterati, i lavoratori manuali. È stato Bruno Latour a sottolineare come nelle società europee e nordamericane (cosiddette «occidentali») si manifesti una trascendenza, che egli definisce «inaudita»: la natura è vista come a-umana, talvolta inumana, in ogni caso extraumana. Secondo lo studioso francese noi saremmo gli unici a fare una distinzione assoluta tra natura e cultura (così come tra scienza e società), mentre in altre parti del pianeta non si separa ciò che è conoscenza da ciò che è società, quel che viene dalla natura così com’è da quel che richiedono le specifiche culture. La divisione tra umani e non umani definisce una seconda divisione, per la quale i moderni diventano altro rispetto ai premoderni (Latour 1995). Si tratta di un punto cruciale, perché da questo punto di vista lo stesso concetto di cultura è un prodotto artificiale, «creato da noi mettendo tra parentesi la natura». Per Latour i moderni tendono a distinguersi dai premoderni per il rapporto che hanno scelto di intrattenere con la contaminazione intesa in senso lato, e dunque culturale, organica, persino intellettuale. Gli «ibridi» sono stati visti a lungo come qualcosa da evitare a qualsiasi costo, attraverso una depurazione incessante e quasi maniacale. In realtà la divisione tra moderni, premoderni e postmoderni viene continuamente rivisitata e ridefinita, a ulteriore dimostrazione della non linearità dei processi culturali. Già i Greci con il termine di hybris intesero una qualsiasi violazione della norma della misura, ovvero dei limiti che l’uomo deve incontrare nei suoi rapporti con gli altri uomini, con la divinità e più in generale con l’ordine delle cose. Ordine e armonia erano visti come elementi necessari per porre un freno al divenire: la logica conseguenza di questa concezio-


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ne del mondo fu la tendenza a considerare il cambiamento come qualcosa che si oppone alla presunta natura delle cose, e quindi a ritenere qualsiasi mutamento come dannoso e pericoloso (Marchesini 2002). La stessa idea di città dei Greci, la pólis, risponde a questa visione: nella pólis vive e abita una determinata stirpe; esprimendo l’unità di persone appartenenti allo stesso génos, essa non può programmaticamente assorbire e integrare in sé la diversità. Se la civitas romana è il luogo in cui confluiscono insieme persone diverse per religione ed etnia al fine di concordare le leggi per la cittadinanza, la pólis è qualcosa che precede l’idea di cittadino, è il luogo originario del radicamento (Cacciari 2004). L’idea della città come spazio chiuso, pulito e armonico fa parte di un immaginario che in ogni epoca ha fatto da sfondo a diverse concretizzazioni materiali: non è difficile riscontrarlo anche in molte delle attuali politiche e retoriche della «sicurezza» e della «pulizia sociale», laddove l’elemento disarmonico viene di volta in volta individuato nello straniero, nell’immigrato, nel clandestino, nel migrante ecc. Il barbaro dei Greci, letteralmente il «balbuziente», cioè colui che non parla in modo comprensibile (bar-bar, appunto, dove la sillaba ripetuta indica il maldestro tentativo dello straniero di parlare il greco) e che non condivide la cultura del luogo, vive da sempre come figura emblematica dell’«incivile», di colui che «non è come noi», e per estensione non è cittadino, non è civilizzato.

2.1.3 Il prender forma La connotazione di inciviltà non è neutra, bensì è funzionale a una logica di alto/basso, di superiorità/inferiorità: una dicotomia che riguarda il posto dell’uomo nel mondo, nonché la definizione di alcuni uomini come più sviluppati (leggi più educati o più formati) di altri. Possiamo cominciare a intuire come l’idea stessa di formazione abbia a che fare con un prender forma che implica un movimento verticale e lineare in direzione di un allontanamento dalla natura. Movimento che nella sua versione ‘naturalistica’, all’opposto, considera l’uomo come essere biologicamente votato alla supremazia sul non-umano, e dunque individua nella formazione l’elemento indispensabile per la sua piena realizzazione. Bassi livelli di formazione o l’assenza di un modello educativo ‘alto’ comportano, in quest’ottica, un minor livello di civilizzazione e di conseguenza di umanità. Pertanto, sia che la natura venga vista come ciò da cui prendere le distanze attraverso la cultura, sia che venga vista come qualcosa da realizzare pienamente solo attraverso l’educazione, il nodo centrale resta sempre e comunque il movimento verticale verso l’alto di alcuni rispetto ad altri. Così anche i Romani – la cui idea di città si distingue da quella greca per l’assenza di fondamento etnico originario e per l’idea di cittadinanza come concordia tra genti diverse che sottostanno alle medesime leggi – utilizzano il termine barbari per indicare e porre a un livello inferiore i non romani. In epoca cristiana non romano equivale anche a non cristiano, corrispondenza che non è stata e non è tuttora priva di conseguenze. Se il prender forma connesso ai concetti di formazione ed educazione è sicuramente un modo per accettare l’idea di mutamento (anche quando lo si voglia regolare e indirizzare), dobbiamo riconoscere che, nella maggior parte dei casi, questo mutamento è inteso quasi sempre come un percorso necessario per arrivare a una forma ideale, statica, una


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sorta di punto di arrivo. L’idea di un’essenza umana prestabilita o da raggiungere, talvolta persino omologata, se da una parte nega i fondamentali processi di ibridazione con l’alterità non-umana, dall’altra favorisce un antropocentrismo che assolutizza i modelli umani e pone l’uomo al di sopra di tutte le cose, rendendolo misura del mondo. I nostri modelli educativi sono ancorati fortemente al concetto di humanitas, vista come l’insieme di ciò che è «degno dell’uomo» e che lo rende civile, che lo innalza sopra la barbarie. Uno dei capisaldi di questa cornice teorica – formalizzatasi con l’Umanesimo ma già presente al tempo di Protagora – è il riconoscimento della totalità dell’uomo come essere «destinato a vivere nel mondo e a dominarlo» (Abbagnano 2006). La pretesa di fondare l’identità umana sulla contrapposizione a un’alterità non umana conduce inevitabilmente a una visione non di rado semplicistica di quest’ultima, che diventa omogenea nella diversità e arbitrariamente lontana dal divenire dell’uomo. Si appiattisce la pluralità del non umano in una macrocategoria poco coerente, ma funzionale alla costruzione dell’uomo come entità autosufficiente e svincolata dal resto del mondo. Penso ad esempio alla forzatura concettuale che spinge a tenere in uno stesso insieme mosche e scimmie, o a vedere molto vicine tra loro specie in realtà diversissime perché accomunate dall’essere «animali». In quest’ottica l’essere umano acquisisce diritti in nome di specifiche qualità estranee al mondo animale, secondo un ragionare tutt’altro che privo di incongruenze teoriche. L’essenzialismo, infatti, conduce a una contraddizione fondamentale nel discorso sulla «natura umana oggettiva»: si sostiene da una parte che noi siamo «altro dagli animali», per ribadire che non siamo bestie ma esseri superiori in quanto titolari di pensiero, cultura ecc.; dall’altra parte che la specificità umana è un dato di natura – e dunque che il nostro sapere, la nostra conoscenza e i mutamenti culturali in genere non sarebbero poi così importanti per la definizione di quel che siamo. Al di là dei tortuosi avvitamenti teorici verso i quali potrebbe condurre l’analisi delle visioni essenzialiste dell’essere umano, possiamo di fatto considerare la separazione cultura vs natura come un’operazione arbitraria condotta a posteriori dall’uomo, in poche parole una costruzione sociale della humanitas decisamente influente e pervasiva, strettamente connessa al vivere nelle città.

2.2 Ordine e disordine L’edizione di Wikipedia in lingua italiana definisce l’educazione, tra le altre cose, come «l’atto, l’effetto dell’educare o come buona creanza, modo di comportarsi corretto e urbano nei rapporti sociali» (settembre 2008). Cosa spinge i redattori di Wikipedia a utilizzare la coppia di concetti «corretto» e «urbano» per descrivere i processi educativi? Come ho già detto, la città è vista da sempre come l’ambiente che ha consentito all’uomo di vivere in un mondo di oggetti da lui creati, e in definitiva di ingentilirsi e di elevarsi sopra gli altri esseri viventi e sopra i suoi stessi simili. Nel suo scritto La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, Carlo Cattaneo, intorno alla metà del XIX secolo, descrive l’Asia come regione barbara, motivando tale definizione in base al fatto che, pur avendo quella terra molte città, si tratta di entità «senz’ordine municipale, senza diritto, senza dignità» (Cattaneo 2001). Allo stesso modo, le due vie della migra-


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