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IN DICE L’UTILITÀ DELLE MACCHINE INUTILI INTRODUZIONE A BRUNO MUNARI
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MUNARI E IL FUTURISMO
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L’APPRODO ALLE MACCHINE INUTILI
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LE CARATTERISTICHE DELLE MACCHINE INUTILI
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I MATERIALI DELLE MACCHINE INUTILI
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MUNARI E I MATERIALI
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L’UTILITÀ DEL DESIGN SECONDO MUNARI
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RIFLESSIONI SULL’ UTILITÀ DELLA MODA E DELLE MACCHINE INUTILI
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LA VISIONE DI JONATHAN ANDERSON INTRODUZIONE A JONATHAN ANDERSON
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DAI PRIMI APPROCCI ALLA MODA A OGGI
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ANDERSON E I MATERIALI
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VENDERE MODA OGGI
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L’UNIVERSO DI ANDERSON
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ANDERSON E PRADA
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MODA UOMO E DONNA
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RACCONTI DI RIVOLUZIONE CASE STUDY: MARKS & SPENCER E LA DEMOCRATIZZAZIONE DELLA MODA
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I TRE DAVID BRITANNICI
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CONCLUSIONE
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L’utilità delle Macchine Inutili 1 6-37 6.922/18.044 30’
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Introduzione a Bruno Munari Pittore, poeta, scultore, scrittore, illustratore, educatore, graphic designer e fotografo. Per l’intera lunghezza del capitolo, queste parole, e non solo, si alterneranno per descrivere la figura di Bruno Munari, uno dei grandi personaggi che hanno plasmato il volto del XX secolo. Prima di focalizzare l’attenzione sulla produzione delle Macchine Inutili, fulcro della ricerca, è opportuno tracciare una sintetico riassunto sulla produzione dell’eclettico artista, non con lo scopo di riportare un ritratto completo di Bruno Munari, ma di estrapolare i punti fondamentali della sua biografia ed offrire un primo approccio al lettore. Nato a Milano il 24 Ottobre 1907, Munari muove i suoi primi passi a fianco dei Futuristi. A soli vent’anni partecipa alla mostra “34 pittori futuristi” alla Galleria
Pesaro di Milano presentandosi come pittore di ben 4 opere. Durante lo stesso periodo entra nel campo della pubblicità come collaboratore bozzettista presso la Società Mauzan per poi continuare curando le copertine delle riviste L’Ufficio Moderno e Lidel. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Munari si allontana dalla scena futurista per immergersi nel campo della produzione industriale e dell’educazione infantile, attività che lo accompagneranno fino alla fine della sua vita. Dal 1935 al 1996, due anni prima della sua morte, Munari dà infatti vita ad una serie di oggetti di arredamento che contribuiscono fortemente alla creazione del concetto di Made in Italy, tra cui si rintracciano come più celebri il posacenere Cubo, le lampade Falkland e Bali, pro-
dotti da Danese, l’Abitacolo e lo scaffale con rotelle Vadevecum per Robots. Gli ultimi anni della sua carriera e della sua vita si caratterizzano per l’attenzione che Munari dedica al tema della comunicazione visiva, attraverso l’istituzione di seminari, in giro per il mondo, indirizzati sia ai bambini che agli adulti, incentrati sull’educazione artistica. I riconoscimenti per l’operato di Munari non tardano ad arrivare, dal Compasso d’Oro nel 1954 per la rivoluzionaria scimmietta Zizì seguito da altri due premi nel 1955 e nel 1979 e quello alla carriera nel 1995, fino alle molteplici mostre dedicategli nei maggiori centri di arte contemporanea nel mondo le quali danno ragione alla descrizione che Picasso aveva dato di lui quando lo aveva definito “il Leonardo dei nostri giorni”.
“Dopo le vacche ho avuto rap-
Munari, Amici della Sincron, 1991
porti carnali con l’arte e sono tornato a Milano nel 1929 e un giorno di nebbia ho conosciuto un poeta futurista Escodamè che mi fece il favore di presentarmi a Filippo Tommaso Marinetti e fu così che inventai le macchine inutili.”
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Munari e il Futurismo Nel 1925 Bruno Munari, all’età di 18 anni, si trasferisce dalla città di Badia Polesine nel Veneto per tornare al luogo che lo aveva visto nascere, Milano. Le prime esperienze artistiche di Munari sono influenzate dalle diverse correnti che convivono agli inizi del ‘900: Cubismo, Dada, Metafisica, Razionalismo e Astrattismo. Un periodo “fluido” quindi “nel quale uno spirito sperimentatore, quale è Munari, ha modo di filtrare tutti gli “ismi” più avanzati della cultura italiana ed europea”.1 È però un episodio particolare ad avvicinarlo ad una delle tante correnti innovatrici dell’epoca, come racconta lo stesso Munari: «Volevo fare il pittore ed arrivai a Milano. Sfogliavo un libro sulle macchine di Leonardo in Galleria San Cristoforo quando mi si avvicina un giovane che mi dice “se ti piacciono le macchine conosci i futuristi».2 Se questo primo incontro gli apre le porte al Futurismo, un altro, con Aligi Sassu, sembra spalancargliele completamente. I due si conoscono ai giardini pubblici dove passano il tempo a disegnare. L’amicizia nasce e cresce grazie agli interessi comuni fino a quando insieme decidono di entrare a far parte del movimento: «Ci sentivamo futuristi. E, un giorno, decidemmo di bussare alla loro porta».3 I due erano infatti venuti a sapere che Marinetti avrebbe conosciuto giovani artisti all’Hotel Corso di Milano. Marinetti è entusiasta e il giorno successivo li descrive come giovani promesse dell’arte italiana. Fondato nel 1909, il Futurismo è il primo movimento in Europa ad interessarsi e porre al proprio fulcro la tecnologia, la macchina e di conseguenza i concetti di
velocità, eroismo e amore del pericolo. Il periodo in cui Sassu e Munari ne hanno accesso è conosciuto come il “secondo Futurismo”, in cui l’esperienza “macchinista” sembra essere terminata per dare posto all’Aeropittura. Come il nome suggerisce, questa declinazione futuristica esalta l’idea del volo e il dinamismo dell’aeroplano. Il manifesto dell’Aeropittura viene pubblicato nel 1929 sulla Gazzetta del Popolo, ma solo la versione redatta dai “Futuristi milanesi” riporta la firma di Munari. Alla mostra del 1931 dell’Aeropittura tenutasi alla Galleria Pesaro di Milano, Munari espone diverse opere 4 in cui la sua “sensibilità si fa esclusivamente aerea”.5 È necessario però specificare che prima di diventare “aereo pittore” Munari aveva già partecipato a mostre futuriste precedenti. Nel mese di Ottobre del 1927 il suo nome aveva fatto la prima comparsa sul settimanale Domenica del Corriere. L’articolo, oltre riportare lo pseudonimo “bum” con cui Munari amava firmare i propri disegni ad inizio carriera, descrive lo spirito individuale dell’artista che “pur inquadrandosi nella catena futurista, ha già manifestazioni simpaticamente personali”.6 Nonostante quindi l’opera di Munari possa essere inserita all’interno del Futurismo, è importante ricordare che da parte sua non è mai avvenuta una totale adesione al movimento. Infatti sin dai primi anni di partecipazione appaiono evidenti a Munari i limiti dell’espressione futurista, la quale in modo paradossale utilizza tecniche statiche per rappresentare il movimento. Egli infatti sostiene: «Uno sbaglio che ho notato nei futuristi, credo che sia uno sbaglio, è quello di cercare di
esaltare il dinamismo con delle tecniche statiche. Se io faccio una scultura che vuol significare velocità però è ferma... sarà bella sotto altri aspetti, ma è sbagliata. Io devo prendere il cinema perché è una tecnica di movimento. Cioè mi pare che abbiano sbagliato a usare tutti quegli elementi compositivi che erano degli stereotipi mentali. Per esempio, quella scultura di Boccioni “Muscoli in velocità” è una statua ferma; mentre se io faccio una cosa che si muove, quella mi dà l’idea della mutazione.»7 A prova di ciò, nel 1928 Munari si unisce all’amico Sassu e firma il manifesto sul “Dinamismo e la Pittura Muscolare”. In esso i due teorizzano in uno stile esuberante, tipicamente giovanile, la creazione di un “mondo meccanico”. I due vogliono superare il concetto boccioniano di dinamismo che “annulla la materia” diluendola nell’atmosfera, per definirne uno completamente nuovo in cui la figura umana presenta una muscolatura moderna, “più potente e più dinamica”. Così facendo si otterranno “forme dinamiche nuove” che, accompagnate da “tinte pure fantastiche”, saranno in grado di “creare un mondo completamente nuovo ed originale”.8 Lo stesso desiderio di innovazione torna nel 1933, quando Munari si unisce a Riccardo Ricas nella pubblicazione dello scritto intitolato ”RADIOANTICAGLIE”. I due si erano già alleati tre anni prima nell’apertura dell’attiva autonoma Ricas+Munari, o R+M, studio grafico attraverso il quale i due mettono a disposizione la loro “fantasia di artisti” dando vita ai primi loghi per industrie, creando le prime campagne per la stampa e sperimentano tecniche artistiche innovative.
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Munari e il Futurismo
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*Leonardo da Vinci, Foglio 812r del Codice Atlantico, 1478
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*Munari, Mortificatore per zanzare, 1942
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In particolare, una testimonianza dello steso Ricas torna a sottolineare la distanza che separava i Futuristi dal genio singolare di Munari: «Con Munari siamo stati insieme fino alla guerra (…) essendo amici di Ponti, di Figini e Pollini, facevamo molte cose per la Triennale, ma facevamo anche delle risse in Galleria, forse Munari non ne ha mai fatte, anzi lui ci guardava con distacco, non è mai stato polemico. Lui era più avanzato come artista, avendo questo suo interesse per il design, era più avanti, io ero un pittore più tradizionale.»9 Ricas sembra quindi intravedere come motivo del distacco, l’interesse di Munari verso il design, peculiarità che lo distingue dagli altri colleghi Futuristi. A questo si può aggiungere l’attenzione che Munari, nonostante esponesse abitualmente accanto ai Futuristi, dimostra verso gli altri movimenti artistici. Tra questi, il dipinto Fillia, Femminilità (1927) si distingue per lo studio tipicamente cubista delle forme geometriche impiegate per la costruzione di figure umane. Ancora, si notano influenze surrealiste e dadaiste nel Ritratto (1930), che ritornano poi nelle illustrazioni per La rivista illustrata del Popolo d’Italia 10 questa volta unite a elementi dell’arte astratta. La spiegazione dell’eclettismo artistico di Munari si può rintracciare nella sua indole curiosa e desiderosa di sperimentare in ogni campo delle arti. E come sottolinea Meneguzzo:
venga considerato quasi secondo un andamento che vorrei definire “orizzontale”, cioè slegato da un prima e un dopo troppo determinati, troppo scanditi da un percorso storico costruito senza scossoni, senza scarti laterali, senza felici divagazioni e riprese, magari a distanza di decenni.»11 La più radicale rottura con l’esperienza futurista è rappresentata probabilmente dalle Macchine Inutili. Non solo poiché esse superano l’idea di un’arte statica che caratterizzava le opere futuriste, già criticate da Munari, ma soprattutto per il significato che la parola “inutile” viene a portare con sé. Al contrario dell’ideale di macchina futurista infatti queste “non producono beni di consumo materiale”, sono quindi l’esatta “negazione della retorica del progresso roboante” 12 di cui il Futurismo si faceva portavoce. Esse non hanno niente a che fare con l’aggressività delle macchine di Marinetti, sono opere silenziose ma che nel contempo introducono un elemento realmente dinamico all’interno della composizione, divenendo così il primo esempio di arte cinetica in Italia.
«Così Munari non vuole correre il rischio che tutto quello che ha fatto nel corso di più di sessant’anni di lavoro venga catalogato come un derivato futurista, per il solo fatto di aver partecipato – dal 1927 al 1936 circa – ad alcune mostre del movimento e alle Biennali e Quadriennali, come esponente del gruppo, ma al contrario pretende che il suo lavoro Munari e il Futurismo
1 Aldo Tanchis, L’arte anomala di Bruno Munari, Laterza, Bari, 1981 2 Cecilia de Carli e Francesco Tedeschi, Il presente si fa storia. Scritti in onore di Luciano Caramel, Vita e Pensiero, Milano 2008 3 Aligi Sassu, Un grido di colore, Todaro Editore, Lugano, 1998 4 Latitudine 18, La bella morte, Volo notturno, Zone atmosferiche, Volo nel corpo di lei, Infinito verticale, Volo a vela, Pilota, Volo senza rotaie, Sosta aerea, Aerocristallo, Aeropittura, Aeropittura 5 Mario Morini, Giampaolo Pignatari, Paolo Buzzi Futurismo scritti carteggi testimonianze. I quaderni di Palazzo Sormani, Ripartizione cultura e spettacolo biblioteca comunale, Tomo II, Palazzo Somarini, Corso di Porta Vittoria 6, Milano, 1983 6 A. M. Gianella, Fra le arti d’eccezione - Il pittore dei “coni” in La Domenica del Corriere, numero 42, anno XXIX, 16 ottobre 1927, Milano 7 Autori Vari, C’era due volte... Munari o della creatività, Rivista del Centro Studi Gianni Rodari N. 8 Anno IV Settembre 1997 8 Gruppo giovani futuristi milanesi, Manifesto della pittura “Dinamismo e riforma muscolare”, 1928 9 Riccardo Ricas, Su Munari, Edizioni Segesta Abitare, Milano, 1999 10 Il tifoso, L’inutile acrobazia 11 Marco Meneguzzo, Ritratto dell’artista da artista, Catalogo mostra Bruno Munari Opere 1930/1995, Galleria Fumagalli Bergamo, Edizioni Stefano Fumagalli, Bergamo, 1996 12 Ibidem
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L’approdo alle Macchine Inutili Il cammino che porta all’ideazione delle Macchine Inutili non è però immediato. In esso si rintraccia come punto di partenza l’attenzione che Munari insieme ai compagni Futuristi mostrano per il concetto di dinamismo legato a quello della macchina. Nel 1929 con le illustrazioni realizzate per il Corriere dei Piccoli, inserto settimanale per l’infanzia del Corriere della Sera, Munari dà vita a “una serie di personaggi-macchine costruiti semplificando le figure umane, animali e vegetali”13 in elementi geometrici basilari. Si tratta di cilindri, coni e sfere che combinati tra loro costruiscono nuovi modelli di illustrazione in cui è già rintracciabile un “approccio ludico ed ironico”, 14 che presto tornerà nelle imminenti Macchine Inutili. Ma l’associazione ancora più legata alle caratteristiche che emergeranno nelle Macchine, potrebbe persino essere fatta risalire agli anni di infanzia, alle “lunghe osservazioni dei mulini in Riva all’Adige con i loro movimenti lenti, sincronizzati con le forze della natura”, 15 i quali come già sottolineato si discostano dalla proposta futurista. L’aggettivo “inutile” che Munari decide di associare alle proprie Macchine infatti porta con sé una visione meno retorica, più distaccata ed ironica di intendere la macchina. Ruolo fondamentale e riconosciuto da Munari nell’approdo alle Macchine Inutili è ricoperto dall’incontro dell’artista con Mondrian. Le innovazioni compositive del pittore olandese, il quale perviene ad un’essenzialità senza decorazioni, vengono infatti assimilate e reinterpretate da Munari. Egli inizia così a maturare l’idea di sculture mobili superando la pittura da cavalletto.
«Personalmente pensavo che, invece di dipingere quadrati o triangoli o altre forme geometriche dentro l’atmosfera ancora verista di un quadro, sarebbe stato interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle in aria, collegate fra loro, in modo che vivessero con noi nel nostro ambiente, sensibili all’atmosfera della realtà.»16 E ancora specifica Munari, introducendo come fonte di ispirazione anche l’astrattista Kandinsky: «L’aspetto non narrativo nelle arti visive era già presente in quel periodo. La pittura di Kandinsky, che allora consideravo mio maestro, era già astratta e non narrativa. Le mie “macchine inutili” nascono da una considerazione da me fatta su queste pitture. Mi accorsi infatti che l’arte astratta di allora era in realtà una rappresentazione verista di oggetti. Una natura morta di oggetti inventati: triangoli, quadrati, linee, piani... invece di bottiglie e pere. Effettivamente il colore del fondo dei dipinti astratti era ancora l’atmosfera uguale a quella delle pitture veriste. E c’era ancora la “composizione” nella quale esisteva un fondo con sopra degli oggetti colorati geometrici o no. L’osservazione di quel fatto mi spinse a estrarre dal dipinto le forme e costruirle nello spazio reale. Appendendo queste forme al soffitto del mio studio, mi accorsi che esse ruotavano e così le dipinsi anche dietro. Fu sufficiente collegare assieme due o più forme, per mezzo di bacchettine di legno ed ecco le “macchine inutili”.»17 L’intento di Munari è quindi di eliminare la staticità della raffigurazione sulla tela sospendendone
in aria le forme, dando loro una vita spaziale nell’ambiente. Così facendo egli riesce a sorpassare le tradizionali due dimensioni della pittura, tre dimensioni della scultura arrivando alle quattro dimensioni dello spazio-tempo. Il primo esperimento che l’artista compie per raggiungere questo obiettivo è testimoniato da Miroslava Hajek, storica d’arte e collaboratrice di Munari, la quale ci informa dell’installazione di una Macchina Inutile all’interno di una stanza vuota dei locali dello studio di grafica R+M. Munari aveva iniziato a studiarne le caratteristiche “illuminandolo in modo che le ombre dilatassero l’opera, creando relazioni con lo spazio.” 18 Nello stesso periodo aveva progettato inoltre una Macchina Aerea frutto però di una “ricerca parallela, successivamente abbandonata, perché secondo lui la macchina aerea era solo una scultura appesa.”19 Sono quindi queste, insieme alle Macchine Sensibili, a costituire la prima realizzazione di forme geometriche libere nell’aria. Quella aerea che verrà poi distrutta durante un trasloco e riproposta da Munari solo nel 1971 viene così descritta dall’artista: «L’oggetto costruito in legno e metallo, era alto 1 metro e 80, largo circa 60 x 30. Le sfere erano rosse, meno una piccola che era nera, tutte le bacchette erano bianche. Appeso ad una corda al soffitto di un ambiente, si muoveva lentamente, spinto da qualche corrente d’aria.» Il continuo sperimentalismo di Munari è ciò che lo porta quindi ad una nuova arte, che lo consacra come precursore di quella che solo più tardi verrà denominata arte cinetica.
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Sperimentalismo, quello della produzione munariana, evidente anche negli altri campi in cui l’artista opera. Nella prima metà degli anni ‘30 Munari intraprende infatti una collaborazione con la rivista L’ala d’Italia 20. Le illustrazioni mostrano contaminazioni tra fotografia, arte, cinematografia, le quali sono “sottratte da un controllo della logica” in qualche modo risultano “confrontabili con le celebri Macchine Inutili, in quanto meccanismi non destinati ad alcuna funzione pratica.” 21 Ancora, sperimentazioni che lo portano alla progettazione, insieme all’amico Ricas, di un cinema odoroso, realizzato al cinema di Corso Milano, in cui effluvi odorosi accompagnano la proiezione per raggiungere “la piena efficacia di un film.”22 Attraverso questo progetto si esprime quindi quel desiderio di dare autenticità ad ogni singola forma d’arte. Concetto che si sviluppa poco dopo nel Manifesto dell’aeroplastica. Redatto nel 1934 da Munari, Manzoni, Furlan, Ricas e Regina, il manifesto comunica l‘esigenza di un’ arte “che si esprima con mezzi al di là della pittura e della scultura, che contenga in sintesi del cinema, del ritmo, della materia, dell’aria e dello spazio.”23 Come esempio di questa nuova arte chiamata “aeroplastica futurista o progetto di paesaggio” vengono riportate all’interno del testo le Macchine Inutili e Aeree di Munari nella loro propensione a creare “senso meccanico allo stato puro.”24 Già l’anno precedente, in una lettera a Tullio D’Albisola, Munari aveva informato l’amico scrivendogli: «MILANO è TIPICAMENTE futurista, ma il futurismo che lo hanno fatto i novecentisti perché sono presi più in considerazione (o erano)... caro mio, ora sto facendo delle cose importantissime in fatto di pittura e di aeroplastica (ovvero macchine sensibili) ma tommaso non ci capisce un K in queste cose e ti esalta prima i disegni di camillo camillini di reg-
gio e poi si ricorda di quelli che seriamente studiano per alzare il nome del futurismo italiano che, porca miseria..»25 Nonostante qualche incomprensione, Munari inizia ad esporre le sue Macchine Inutili nel 1933 alla Galleria del Milione dove ha luogo la sua prima mostra personale e ancora nel 1934 con “Respiro di Macchina” alla mostra “Scelta futuristi venticinquenni” situata alla Galleria delle 2 Arti a Milano. In questa occasione Depero ci tiene a mettere a tacere le voci che trovano difficoltoso definire le opere esposte come opere d’arte e ancora una volta utilizza come esempio le Macchine Inutili di Munari: «Ma molti diranno: questa non è pittura, né scultura, ma altra cosa. Non importa, in arte non vi sono confini, occorre essenzialmente genialità creativa.[...]Perciò permettete ed ammettete che anche i futuristi, veri e geniali interpreti e scrutatori del tempo costruiscano quadri-macchine, plastici-macchine, complessi plastici motor umoristici come gli avevo definiti io, o macchine inutili come vuol chiamarle l’artista amico Munari.»26
china la leva”, ed “inutili perché (…) non producono niente di commerciabile”. Continuando Munari affronta poi la spiegazione della funzione delle Macchine le quali sono state appositamente studiate “per ottenere (…) varietà di accostamenti, di movimenti, di forme e di colori”. Munari precisa poi una distinzione tra le “prime Macchine Inutili”, “più complicate” e le “ultime”, le quali “trovano il loro motore nei fenomeni naturali”. Segue poi una lista delle diverse Macchine progettate, alcune da giardino, altre da tavola, altre ancora da terrazza, ma precisa Munari ciò che le accumuna è il loro essere inutili. Inoltre in tutte “ogni pezzo deve avere la sua funzione logica” in modo da creare un “esatto equilibrio di forme, di spazi, di volumi”.
Lo stesso Munari racconta la difficoltà con cui il pubblico ha accolto le Macchine Inutili: «Nelle gallerie d’arte nessuno la voleva esporre perché non era né pittura né scultura. Nessuna galleria d’arte le voleva esporre, mi dicevano: ma che roba é? non è pittura, non è scultura, si appendono al soffitto come i lampadari... » Forse per questa ragione nel luglio del 1937 viene pubblicato dalla rivista La lettura lo scritto di Munari “Che cosa sono le macchine inutili e perché”. All’interno del testo l’artista chiarisce il titolo che ha deciso di dare alla propria opera: “che siano macchine non c’è dubbio, dato che è una macL’approdo alle Macchine Inutili
13 Corriere dei Piccoli, 9 giugno 1929 14 Ibidem 15 da Munart.org 16 Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966 17 Arturo Carlo Quintavalle, Intervista a Munari, Catalogo mostra Bruno Munari, Università di Parma, Centro Studi e Archivio della Comunicazione,Quaderni n. 45, Parma, 1979 18 da una conversazione con Miroslava Hajek, 2008 19 Ibidem 20 Rivista di aeronautica attiva dal 1919 al 1943 21 Giovanna Nicoletti, La collezione Caproni, Litografia Stella, Rovereto, 2007 22 da Cinemalia - Rassegna d’arte cinematografica”, anno II, n. 4-5, 1928, Milano. 23 Manifesto tecnico dell’aeroplastica futurista, pubblicato sul giornale “Sant’Elia” il 1 marzo 1934 24 Ibidem 25 Danilo Presotto, Quaderni di Tullio D’Albisola, Editrice Liguria, Savona, 1981 26 Fortunato Depero, Discorso inaugurale della mostra “Scelta di futuristi venticinquenni”, 1934
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Le caratteristiche delle Macchine Inutili Dal 1933 al 1948 Munari si dedica alla progettazione di 93 Macchine Inutili, alcune delle quali vengono realizzate solo più tardi e presentano quindi una doppia datazione. Nel 1956 Munari per la prima volta realizza inoltre una produzione seriale di macchine con 20 diversi esemplari. Sono molteplici le caratteristiche che accomunano le Macchine Inutili, ci soffermeremo ora a descriverne le principali.
principio cinetico, un ambiente multidimensionale, suscitando in chi la osserva sensazioni di meraviglia e sorpresa. All’interno di questo perimetro lo spettatore dialoga con le geometrie della macchina, non solo quelle dirette, ma anche quelle derivate, vale a dire le ombre e rifrazione che si creano nell’ambiente e che variano a seconda dell’illuminazione presentando forme, colori e nitidezze mutevoli.
La proprietà più immediata che si decifra facilmente osservando una macchina è l’astrattismo delle forme geometriche che la compone: quadrati, rettangoli, cerchi. Nonostante Munari ci suggerisca di osservare le Macchine “come si guarda un complesso mobile di nubi” queste forme elementari non presentato nulla di naturale, sono infatti dipinte su entrambi i lati con tinte piatte, senza presentare alcuna caratteristica espressiva. Inoltre, come già detto, Munari parte dal concetto di smaterializzazione di arte, condizione quindi fondamentale per le Macchine è la dinamicità. Ogni pezzo è infatti in grado di creare forme e volumi dinamici, mutevolezza che permette alla struttura di non essere né scultura né pittura. Non si tratta solo di giochi di sagome ma, attraverso la sovrapposizioni di colori diversi delle materie plastiche che le costituiscono, si osservano inoltre continue variazioni di combinazioni cromatiche. La caratteristica di movimento non è legata solo alla macchina in sé ma presenta inoltre un duplice aspetto una volta che lo spettatore, muovendosi intorno alla struttura, vede la forma modificarsi. La vera essenza della macchina si esprime perciò quando una volta installata ed illuminata, essa è in grado di creare, attraverso il proprio
La potenza emozionale che le Macchine Inutili sono in grado di generare deriva secondo Munari dai movimenti casuali e spontanei indotti dall’ambiente circostante. Egli si accorge infatti che un cinetismo programmato, non interrotto dall’azione della casualità, si traduce in un superficiale decorativismo. Comprende quindi che è possibile ottenere il massimo dell’espressività attraverso un gioco di forze opposte, sintetizzate nello slogan de “la regola e il caso”, attraverso perciò l’equilibrio che si crea tra un evento casuale e la sua programmazione. Tutto ciò che di naturale si era perso nelle caratteristiche estetiche dei pezzi a tinte piatte è recuperato quindi in questo principio intrinseco delle Macchine le quali, come suggerisce Munari “trovano il loro motore nei fenomeni naturali, come spostamenti d’aria, sbalzi di temperatura, umidità, luce e ombra, ecc., assumendo l’aspetto di vita propria paragonabile al movimento delle erbe di un campo, al mutare delle nuvole, al rotolare di un sasso in un ruscello.”27 Munari cerca così una formula che allontani l’arte da un rigore razionale. Episodio emblematico avviene con la Macchina inutile a movimento giostra, realizzata nel 1953 sulla quale Munari lavora per dieci anni
con l’intento di rendere irregolare il funzionamento, utilizzando il meccanismo di un grammofono, ma riuscendo solo ad introdurre un elemento acustico. Le Macchine Inutili sono quindi la traccia di un processo che Munari attua verso il raggiungimento di una sintesi tra l’urgenza di imporre norme al progetto e la necessità di infrangerne la regola. Come infatti egli stesso ci ricorda nella conclusione de “La regola e il caso” , la combinazione fra tale urgenza e necessità “è la vita, è l’arte è la fantasia, è l’equilibrio.”
27 Munari, Che cosa sono le macchine inutili e perché. Pubblicato su “La Lettura”, luglio 1937
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*Macchina Inut
ile per Max Bill, 1951
Le caratteristiche delle Macchine Inutili
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I materiali delle Macchine Inutili Caratteristica fondamentale delle Macchine Inutili è il materiale impiegato per la loro realizzazione. Il desiderio di Munari di rappresentare il dinamismo come “passaggio di una forma (…) attraverso una metamorfosi, come fluida, per diventare un’altra” richiede all’artista l’utilizzo di materiali che permettano ai diversi “pezzi” della Macchina di muoversi nello spazio senza vincoli. Munari si serve perciò di materiali leggerissimi, quali bacchette di legno di balsa, fogli di cartoncino, vetro soffiato, fili di acciaio elastico e solo più tardi di natura industriale tra cui alluminio, plastica, metallo. Dino Buzzati, scrittore e giornalista de La Lettura, nel 1948 si riferisce ai materiali utilizzati definendoli “morti” come i “calcestruzzi della città”: «Non sono che degli stecchetti, dei bastoncini, delle fragili aste, appesi uno sull’altro e collegati con invisibili fili: il tutto attaccato al soffitto. Fatto e che questi bastoncini, come animati da un incantesimo, si mettono a vivere da soli, lentamente ruotano, vibrano, si inclinano, si schiudono a raggiera come code di pavone, tremolano come foglie.»28 L’utilizzo di materiali poveri da parte di Munari trova elementi di continuità con la poetica futurista. Considerato uno dei primi testi teorici dell’arte astratta in Italia, il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, redatto nel 1915 da Balla e Depero, ha infatti trasmesso a Munari l’interesse verso questa gamma di materiali tra cui compaiono “fili metallici, di cotone, lana, seta d’ogni spessore, colorati. Vetri colorati, carte veline, celluloidi, reti metalliche, trasparenti d’ogni genere, coloratissimi, tessuti, specchi, lamine metalliche, stagnole colorate, e tutte le sostanze sgargiantissime.
Congegni meccanici, elettrotecnici, musicali e rumoristi; liquidi chimicamente luminosi di colorazione variabile; molle; leve; tubi, ecc.”29 Varietà di elementi che ritornano nelle varie Macchine Inutili così elencate da Munari: «La n.21 è una altissima macchina da giardino, in ferro e legno, di colore grigio neutro (…) una piccola macchina inutile da tavolo con movimento interno di una veloce turbina a pale bianche e nere. La parte plastica è ricavata da una di quelle zucche che servono a certi contadini per conservare l’acqua, la parte mobile e le gambe sono in legno verniciato (…) La RGA9 è una macchina da giardino, in cemento bianco e alluminio, con movimento a corrente d’aria obbligata.» 30
28 Dino Buzzati, Pesci Rossi, n.10-11, ottobre-novembre 1948, anno XVII 29 Giacomo Balla, Fortunato Depero, astrattisti futuristi Ricostruzione futurista dell’universo, 11 marzo 1915, 30 Munari, Che cosa sono le macchine inutili e perché. Pubblicato su “La Lettura”, luglio 1937
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* Macchina Inutile,
1956-1958
I materiali delle Macchine Inutili
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*Macchina Intuile in alluminio e filo di nylon I materiali delle Macchine Inutili
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Munari e i materiali Come con le Macchine Inutili, sono numerosi gli episodi in cui Munari torna a prediligere l’utilizzo di materiali poveri a quelli tradizionali, nonostante la loro facile deperibilità. Basti pensare alle Sculture da viaggio del 1958 definite così per “demitizzare la scultura di bronzo o di marmo”31 e realizzate utilizzando cartoncino e lamiera verniciata. Ancora una volta Munari utilizza l’ironia per far riflettere e dice a proposito: “In effetti si può definire scultura tutto ciò che occupa uno spazio tridimensionale con piani o forme coerenti tra loro.”32 Munari si serve quindi di un cambio di materia per dar vita a sculture trasportabili e pieghevoli che ben si inseriscono nei dettami dell’era moderna del design. Altre volte invece sperimenta con materiali tradizionali ma sovvertendone le caratteristiche consuete. È il caso dei Libri Illeggibili, progettati per la prima volta nel 1949 come ricerca intorno alle possibilità di comunicazione visiva dei materiali. In essi vengono così omessi gli elementi che costituiscono il libro tradizionale, per lasciare che sia la carta stessa a comunicare un messaggio attraverso il proprio formato, colore e taglio. Munari nota infatti che “poco interesse viene portato alla carta e alla rilegatura del libro e al colore dell’inchiostro, a tutti quegli elementi con i quali si realizza il libro come oggetto” e decide quindi di investigare se il libro stesso, senza le parole stampate, possa comunicare qualcosa.33 La curiosità di Munari e l’interesse che mostra verso la sperimentazioni di diversi materiali si trasforma però pian piano da semplice curiosità - nata probabilmente sotto l’influenza dello zio liutaio Vittorio, nello studio del
quale Munari inizia a “costruire, tagliare, incollare, progettare”34-, a caratteristica che lo distingue dagli altri pittori i quali, mentre Munari è occupato con una rete d’acciaio alla progettazione di Concavo-Convesso, in massa imbrattano. 35 La molteplicità di materiali sperimentati da Munari nei primi anni di carriera si traducono presto nelle diverse “carriere” da lui intraprese più tardi. Come infatti racconta Tullio D’Albisola:
armata nel campo dei giocattoli con la scimmietta Zizì. Da non dimenticare, sempre nel campo dell’infanzia la creazione dei Laboratori Tattili. Nati ufficialmente nel 1977 e probabile tributo alle Tavole Tattili di Marinetti, i laboratori sono occasioni in cui i bambini imparano a relazionarsi con materiali inconsueti sia a livello sensoriale che psicologico.
«È ozioso scrivere che Munari (…)fa di tutto, dalla vetrina alle stoffe; che è un ceramista di eccezione; che è un cartellonista assolutamente nuovo, grande firma di un prossimo domani; un illustratore magico come si vede nel Cantastorie di Campari e un disegnatore spiritoso e boia come non ce n’è nessuno sull’almanacco Bompiani di quest’anno. Vi presento Munari poeta.»36 Nel 1952 Munari pubblica il Manifesto del Macchinismo in cui annuncia il desiderio di abbandonare le tradizionali categorie di pittura e scultura per muoversi verso la tecnologia, sostituendo così “i romantici pennelli, la polverosa tavolozza, la tela e il telaio” con “fiamma ossidrica, reagenti chimici, cromature, ruggine, colorazioni anodiche, alterazioni termiche (…) metalli, materie plastiche, gomme e resine sintetiche”. Anche se la citazione riportata è da trattare con cautela, l’intento di Munari con il Manifesto è infatti di fare ironia sulla grande quantità e la seriosità dei manifesti d’arte pubblicati all’epoca, ancora una volta si percepisce la volontà di scoprire i limiti dei materiali tradizionali e quelli nascenti, quelli cioè prodotti dalle industrie moderne che lo stesso anno porteranno Munari ad applicare la gommapiuma
31 Arturo Carlo Quintavalle, Intervista a Munari, Catalogo mostra Bruno Munari, Università di Parma, Centro Studi e Archivio della Comunicazione,Quaderni n. 45, Parma, 1979 32 Ibidem 33 Bruno Munari, Da cosa nasce cosa, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003 34 Alberto Munari, Munari interroga Munari in occasione della mostra milanese a Palazzo Reale, Domus n. 677, novembre 1986 35 Getulio Alviani, Su Munari, Edizioni Abitare 36 Tullio D’Albissola, La Santabarbara futurista di Milano, Futurismo, anno 2, n.41, Roma, 18 giugno 1933
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L’utilità del design secondo Munari Le Macchine Inutili così battezzate da Munari in quanto “non producono, come le altre macchine, beni di consumo materiale, non eliminano manodopera, non fanno aumentare il capitale”37 , vengono in realtà interpretate da molti come “utilissime” in quanto produttrici di “beni di consumo spirituale”38 e quindi capaci di mettere in moto la fantasia. Partendo da questa considerazione è opportuno riflettere ora sul concetto della reale utilità che secondo Munari il design deve ricoprire. Intervistato dal figlio, il designer racconta il metodo “più giusto per progettare bene”: 39 «Come si fa a sapere quando un quadro o un altro lavoro è finito? Per il lavoro del design potrei dire: quando tutte le componenti del problema sono risolte bene e assemblate con coerenza. E queste componenti sono materiche, tecnologiche, formali, spaziali, economiche, cromatiche, psicologiche, e naturalmente funzionali... Quando hai trovato i materiali più giusti per costruire quell’oggetto, le tecnologie più adatte a quel materiale scelto, la forma più giusta che ne consegue, quando l’ingombro è minimo e la funzionalità è massima, quando a parità di funzioni costa meno, quando la lavorazione di progettazione è la più semplice, quando la cosa non ha bisogno di manutenzioni speciali, quando la gente capisce subito che cosa è e a cosa serve, (...)Quando, a parità di funzioni, più semplice di così non si può fare.» 40 Munari ci informa quindi che il buon design deriva da un assemblaggio di diversi elementi. Nel libro Good Design ci presenta perciò l’arancia, “un oggetto quasi perfetto dove si riscontra l’assoluta coerenza tra forma, funzione e consumo”.41 In Arte
come mestiere Munari utilizza invece l’esempio di un “antico vaso etrusco” per aggiungere che al buon design non basta essere bello, ma è necessario considerare la funzione che l’oggetto andrà a coprire. Qualche riga dopo l’autore esprime il desiderio di tornare al tempo del vaso etrusco, un tempo in cui “l’arte e la vita erano assieme, non c’era un oggetto d’arte da guardare e un oggetto (…) da usare”. Munari prevede quindi la nascita di un nuovo artista, non più il “divo che produce soltanto capolavori per le persone più intelligenti”, ma una figura che “sappia avvicinarsi alle necessità umane” per far sì che la società raggiunga un “equilibrio vitale” in un mondo in cui gli oggetti usati quotidianamente diventano anche opere d’arte, senza che ci siano “cose belle da guardare e cose brutte da usare.”42 Questa figura viene a prendere il nome di designer, il quale non ha nulla a che vedere con quella dell’artista. Munari evidenzia infatti all’interno del libro Artista e designer le numerose differenze che distinguono le due professioni: se l’artista produce opere singole lavorando da solo, il designer produce multipli collaborando all’interno di un gruppo; se l’artista ha uno stile prefissato, il designer non ha stile e ancora se l’artista lavora con la fantasia, il designer usa la creatività.Queste due non potrebbero essere più diverse, se infatti la fantasia “vola nel cielo, la creatività si muove sulla terra” e permette, grazie all’unione di fantasia e ragione, di raggiungere risultati sempre realizzabili praticamente. Il designer è quindi l’artista che scende “dal suo piedistallo” per progettare “l’insegna del macellaio”, 43 un creativo i cui oggetti gli sopravvivono nel tempo anche se egli
viene dimenticato. Il pensiero che quindi deve guidare il designer, e che Munari afferma di aver sempre seguito, è quello di “fare un vero servizio al consumatore”: 44 «Gli oggetti da me disegnati sono spesso di basso costo, ma perfettamente funzionali: una lampada deve fare una buona qualità di luce, non deve anche essere molto cara. Il pubblico però diffida da quegli oggetti che non costano molto, “chi più spende meno spende” dice. E così cade nel consumismo. Io spero che col tempo la gente sappia comperare gli oggetti giusti per dei veri bisogni.» 45 Si rintraccia spesso il Munari che rimprovera al pubblico di confondere il “valore” degli oggetti con il loro “prezzo”, definendo così di lusso “quelle cose che costano di più”.46 Munari afferma infatti che gli italiani interessati non tanto alla comodità e all’abitabilità, “hanno il complesso del lusso”. A tale visione oppone la casa tradizionale giapponese, “povera ma accogliente, funzionale al massimo” in cui “non c’è spreco, la manutenzione è minima, i materiali sono giusti e veri”47. E ancora, in uno dei capitoli di Arte come mestiere, Munari ci diverte elencando una lunga lista di posate con uso specifico, dai coltelli per le bistecche al “cucchiaio per i fiori di zucca fritti”, opponendoli alle bacchette usa e getta della cucina orientale, “troppo semplici” per noi occidentali. Munari ama prendere in giro la gente più solenne, coloro che insomma installano in casa rubinetti d’oro senza però avere un depuratore d’acqua. Il lusso afferma Munari non è un problema di design anzi sta agli antipodi della vera utilità, in quanto la missione della dello stesso design è di migliorare la società educandone il gusto.
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98 37 Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966 38 Ibidem 39 Alberto Munari, Munari interroga Munari in occasione della mostra milanese a Palazzo Reale, Domus n. 677, novembre 1986 40 Ibidem 41 Bruno Munari, Good Design, Corraini Editore, Mantova, 1998 42 Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966 43 Ibidem 44 Arturo Carlo Quintavalle, Intervista a Munari, Catalogo mostra Bruno Munari, Università di Parma, Centro Studi e Archivio della Comunicazione,Quaderni n. 45, Parma, 1979 45 Ibidem 46 Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966 47 Arturo Carlo Quintavalle, Intervista a Munari, Catalogo mostra Bruno Munari, Università di Parma, Centro Studi e Archivio della Comunicazione,Quaderni n. 45, Parma, 1979 L’utilità del design secondo Munari
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Riflessioni sull’utilità della moda e delle Macchine Inutili In conclusione, continuando la riflessione a proposito delle Macchine Inutili le quali, come già detto, furono così denominate perché “non producono niente di commerciabile”, 48 è interessante riepilogare quanto detto finora creando un parallelo con il mondo della moda, protagonista assoluta del prossimo capitolo. Dopo aver infatti raccontato le Macchine Inutili e avere riflettuto a proposito della vera utilità che Munari assegna al mondo del design in contrasto all’idea della macchina futurista, è vantaggioso trasporre la stessa riflessione meditando intorno all’utilità e alla funzione del fenomeno moda. All’interno del volume “La moda” Simmel scrive: ”È nell’essere della moda accomunare tutte le individualità”. Il sociologo tedesco nel breve ma denso saggio riflette così a proposito del ruolo della moda all’interno della società moderna. Il dualismo che vive all’interno del fenomeno, caratterizzato da una parte dal bisogno di “coesione” e dall’altra da quello della “differenziazione”, viene più volte rimarcato dall’autore come fattore vitale della moda. Scrive infatti: “Quando mancherà anche una sola delle due tendenze sociali che devono convergere per creare la moda, la creazione della moda cesserà e sarà la fine del suo regno.”49 Simmel fa dunque corrispondere il concetto di moda a quello di arte elaborato da Kant, vale a dire quello di “finalità priva di scopo (...) le cui parti concorrono ad un fine perfettamente determinato.” 50 È necessario quindi distinguere tra la funzionalità di un capo, il quale è indossato per protegge il corpo rendendolo attraente e quella dell’abito alla moda che definisce l’apparenenza sociale di chi lo indossa. Afferma Simmel:
«Che la moda sia un puro prodotto di necessità sociali o psicologico-formali è provato nel modo più convincente dal fatto che infinite volte non si può trovare la minima giustificazione per le sue forme in rapporto a finalità pratiche o estetiche o di altro tipo. Mentre in generale il nostro abito è praticamente adatto alle nostre necessità, nelle decisioni della moda per dargli forma non c’è traccia di utilità pratica: come quando stabilisce se si debbano portare gonne larghe o strette, capelli lunghi o corti, cravatte nere o a colori. (...) proprio la casualità con la quale una volta impone l’inutile, un’altra l’assurdo, una terza ciò che è del tutto indifferente dal punto di vista pratico e da quello estetico, dimostra la sua completa noncuranza delle norme oggettive della vita e rinvia ad altre motivazioni, cioè a quelle tipicamente sociali che sole rimangono.» 51 La moda quindi come fattore di appartenenza sociale ma che allo stesso tempo permette di mantenere a chi la segue una propria individualità. Anche infatti nel caso in cui un individuo decide di non seguire una moda, spiega Simmel, egli “accetta il contenuto sociale” allo stesso modo del “maniaco della moda” plasmandolo nella categoria della negazione e trovando in questo modo appoggio in una cerchia sociale più ristretta. All’interno quindi della teoria simmeliana secondo la quale “l’essenza della moda consiste nell’appartenere sempre e soltanto ad una parte del gruppo mentre tutto il resto del gruppo è già avviato verso di essa”, in cui quindi la diversità occupa un ruolo vitale, Simmel sottolinea la capacità d’istantaneità degli oggetti della moda di “raggiungere la parità con lo stato superiore” poiché, a differenza di ciò che
avviene in altri campi, essi sono acquisibili attraverso il semplice uso di denaro. Simmel offre dunque una spiegazione della forza del linguaggio della moda, il più diretto e immediato verso una “liberazione del’individuo dalla responsabilità del suo gusto”. Confrontando il caso avvenuto nella Germania del 1300, in cui le donne iniziano ad indossare vesti delle “mode più stravaganti” per ritrovare una libertà negata dagli ordinamenti medievali, all’esperienza italiana in cui al contrario le donne avevano libertà simile a quella degli uomini senza dunque alcuna manifestazione di stranezza in fatto di moda, egli sottolinea il ruolo della moda per le donne come “surrogato di una posizione all’interno di uno status professionale”. La moda che ha in sé “il fascino della novità e contemporaneamente quello della caducità, in un mondo moderno in cui “gli elementi effimeri e mutevoli della vita occupano uno spazio sempre più ampio”, mantiene dunque una sua chiara utilità: “La moda è una forma sociale di ammirevole utilità, proprio perché, paragonabile in questo al diritto, coglie soltanto l’esteriorità della vita, il lato rivolto alla società. Fornisce all’uomo uno schema con cui provare in modo inconfutabile il suo legame con la collettività, la sua obbedienza alle norme che gli vengono dal suo tempo, dal suo status, dalla sua ristretta cerchia sociale: in cambio egli ottiene di poter concentrare la libertà concessa dalla vita nella sua interiorità e in ciò che per lui è essenziale.” Tornando ora invece all’esperienza di Munari, per arrivare a comprendere l’autentico valore delle Macchine Inutili in modo più chiaro possibile possiamo ser-
35 virci di un’esperienza che similmente all’interno della moda ha portato alla luce un nuovo modo di pensare. Tra l’opera munariana e il lavoro dello stilista Martin Margiela sembrano esserci infatti dei richiami che portano alla rivelazione di un modo fuori dal comune di comunicare, dando significato più profondo di quanto una lettura superficiale delle loro opere possa portare a pensare. La Maison Martin Margiela viene fondata nel 1988 a Parigi dallo stilista e diviene presto simbolo di una moda altamente anti-convenzionale. Ad un livello più superficiale Munari e Margiela possono essere accomunati da uno spirito DIY che porta il primo ad utilizzare materiali poveri quali legno e cartoncino per le creazione delle Macchine e il secondo a riciclare capi dismessi e di seconda mano come tela delle proprie creazioni. Lo stilista belga è infatti celebre per avere introdotto nel mondo della moda la tecnica del decostruttivismo, la cui azione è letteralmente quella di “disfare la costruzione di qualcosa”. Questo concetto marca l’incontro tra la moda e la filosofia, disciplina all’interno della quale l’operazione di decostruzione era stata precedentemente introdotta da Derrida, il quale aveva assegnato ad essa il compito di “mettere in discussione le fondamenta autoritarie su cui le basi del linguaggio poggiano, rivelando nuove possibilità di significato e rappresentanza.” 52 Nessun lavoro letterario secondo Derrida poteva avere quindi un significato fisso, vista la complessità del linguaggio e del suo utilizzo.53 Così quindi come Derrida espone aspetti inediti della filosofia tradizionale, Margiela ripensa al significato dei capi restituendo loro una nuova funzione. Lo stilista scompone e ricompone, tagliuzza e riassembla e nel 1989 fa sfilare a Parigi giacche recuperate che mostrano pinces e fodere all’esterno, una giacca smembrata con maniche che si legano intorno al braccio
attraverso un nastro e un completo realizzato in plastica con cuciture profilate con del metro da sarta bianco per accentuarne l’architettura. Margiela inizia così a “smantellare” le forme tradizionali dell’abito. Molti critici hanno provato a trovare una ragione dietro al fenomeno: Bill Cunningham, fotografo e scrittore di moda, sostiene che il decostruttivismo sia un riflesso degli avvenimenti del tempo, abiti decadenti che vogliono rispecchiare la recessione economica. Una risposta culturale al collasso politico e sociale dell’Europa di quegli anni quindi come testimoniano le location utilizzate da Margiela per le sfilate, la prima realizzata in un ghetto parigino. Alison Gill sostiene però che in questa maniera la moda sarebbe un mero riflesso passivo di avvenimenti, senza dominio ontologico.54 Il commento mosso da Margiela sembra quindi avere radici più profonde. Svelando elementi che solitamente rimangono all’interno degli abiti, lo stilista rivela il meccanismo della struttura che dà vita ad un capo e quindi in un certo senso svela il segreto della “magia” della moda. Decostruire diventa così una critica al mondo di cui lo stesso Margiela fa parte, una moda anti-moda. Da un lato nella produzione dello stilista e di altri del suo tempo tra cui Rei Kawakubo si rileva un attacco diretto all’idea occidentale di corpo perfetto promosso dalla moda, attraverso la creazione di abiti senza forma che non rivelino o accentuino le forme del corpo femminile; dall’altro una censura al consumismo non solo attraverso la nobilitazione di materiali scartati ma anche e soprattutto nel rifiuto di aderire alle continue e cieche richieste di novità da parte del mondo della moda. Con Margiela infatti “motivi come pinces, fodere, imbastiture che storicamente si sono ripetuti nella creazione di abiti, diventano elementi isolati ed evidenziati.” 55 Le creazioni presentate si
ripetono ogni volta con piccole modifiche nella consapevolezza che l’innovazione in termini di forma avviene attraverso una ripresa della tradizione. Quella di Margiela non è quindi una semplice rivoluzione anarchica che mira a schernire il mondo della moda, al contrario la sua operazione implica un fondamentale elemento di cura nella produzione di abiti ad alta tecnica sartoriale, provocando allo stesso tempo una riflessione, suscitando in questo modo reazioni intorno a norme stabilite. Munari e Margiela sono mossi quindi nella loro produzione dalle circostanze dei campi in cui operano ed entrambi sembrano svelarne il segreto. Le loro trasformazioni, per Munari dalla macchina futurista a quella inutile, per Margiela da un capo ad un altro opposto, vogliono rompere la funzione originaria del loro punto di partenza, la quale viene sovvertita per rivelare un significato originale, più nascosto, innescando una riflessione che permetta a chi guardi o indossi di stare al mondo con un atteggiamento più vero e consapevole. Le Macchine Inutili non sono che “scherzi, non privi di dottrina e di sale” come scrive Erasmo da Rotterdam riguardo alla follia, che “portano a cose serie (...) in modo che un lettore non del tutto privo di senno può trarne maggiore profitto che non da tante austere e pompose trattazioni.” 56 48 Munari, Che cosa sono le macchine inutili e perché. Pubblicato su “La Lettura”, luglio 1937 49 Georg Simmel, La moda, Mondadori, Milano, 1998 50 Georg Simmel, La moda e altri saggi di cultura filosofica, Longanesi, Roma, 1982 51 Georg Simmel, La moda, Mondadori, Milano, 1998 52 Flavia Loscialpo, Fashion and Philosophical Deconstruction: a Fashion in-deconstruction, 2009 53 Amy M.Spindler, Coming apart,The New York Times, 1993 54 Alison Gill, Deconstruction Fashion: The Making of Unfinished, Decomposing and Re-assembled Clothes, Fashion Theory, Volume 2, Issue 1, 1998 55 Ibidem 56 Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Mondadori, Milano, 1992
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Riflessioni sull’utilità della moda e delle Macchine Inutili
Munari, Che cosa sono le macchine inutili e perché.
n “Una macchina inutile che no nulla rappresenti assolutamente a cui è il congegno ideale grazie far possiamo tranquillamente rinascere la nostra fantasia, lle quotidianamente afflitta da macchine utili.”
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La visione di Jonathan Anderson 2 41-95 5.756/ 18.044 18’
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Introduzione a Jonathan Anderson La visione creativa dietro al marchio J.W. Anderson, brand tra i più innovativi di Londra degli ultimi tempi, appartiene al team di Jonathan William Anderson. Classe 1984, irlandese del nord, di Magherfelt più precisamente, Anderson a soli 23 anni debutta alla London Fashion Week con una collezione maschile che si distingue per l’uso di veri insetti inserti nei gioielli. Un inizio simbolico per un brand che negli anni a seguire verrà elogiato proprio per i suoi caratteri anti-convenzionali. È pero la collezione Primavera/Estate 2009, intitolata Occhio per occhio, a farlo notare tra i buyer per l’alta portabilità dei capi che allo stesso tempo si rendono porta voci di un nuovo modo di vestire maschile.
Nel 2008 lo stilista intraprende una collaborazione con Sunspel, marchio inglese fondato nel 1860 che condivide con Anderson la passione per l’utilizzo di tessuti britannici, per la creazione di una linea di maglioni, abiti, top e gonne che si distinguono per il solito tocco imprevedibile di Anderson. Due anni dopo allarga la propria offerta con in lancio di una linea di abbigliamento femminile messa in commercio dal settembre 2011 nello storico grande magazzino Liberty of London. Lo stesso anno Anderson è nominato Direttore Creativo di Sunspel, ma le collaborazioni continuano a crescere: nel 2012 crea una capsule collection per Topshop, il cui successo lo porta a crearne una seconda l’anno
successivo. Lo chiama poi Donatella Versace, che lo aveva già notato al momento della sua prima linea maschile, per disegnare la collezione Resort 2014 di Versus. Qualche mese dopo Anderson vince l’Emerging Talent Award ai premi della moda Britannica. I prossimi paragrafi tracceranno un ritratto dello stilista percorrendo nello specifico le tappe sopra elencate, dai primi passi mossi nel campo della moda al recente acquisto di una quota del brand da parte del gruppo Lvhm. Si scoprirà un Anderson visto dagli occhi estranei dei giornalisti di moda e uno raccontato da Jonathan Anderson stesso nelle numerose interviste e attraverso l’analisi dell’ethos che pervade il marchio.
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Dai primi approcci alla moda a oggi Da quanto racconta, da piccolo Anderson sognava di diventare veterinario.57 Cresciuto nella fattoria del nonno non è difficile capire il perché. Ma è stato l’altro nonno, quello materno ad avere avuto la meglio sul piccolo Jonathan. Direttore creativo di una grande fabbrica tessile specializzata in camouflage, Anderson ricorda il nonno stampare sui tessuti mentre la nonna lavorava a maglia e racconta di essere sempre stato consapevole del mondo della moda. I muri della sua cameretta erano ricoperti dalle pagine pubblicitarie di Vogue e da quelle strappate dai cataloghi di Prada. Comprava abiti da TK Maxx, un outlet di grandi marchi grazie al quale Anderson entra in contatto con Moschino, Jean Paul Gaultier, Dolce e Gabbana e compra i suoi tanto desiderati primi jeans Gucci. La strada sembra quindi indirizzata verso il mondo della moda, ma Anderson dopo diverse esperienze come attore al National Music Theatre di Londra, decide di seguire la passione per la recitazione. Si iscrive alla Julliard, ma durante il provino capisce di aver sbagliato. Torna così in Irlanda e inizia a lavorare come commesso di abbigliamento maschile per il negozio Brown Thomas. Qui si fa notare dal visual merchandiser di Prada che lo invita a conoscere Manuela Pavesi, coordinatrice della casa di moda milanese. L’incontro avverrà solo sei mesi dopo, quando Anderson si trasferirà a Londra per iscriversi al corso di menswear al London College of Fashion, che in realtà frequenterà di rado poiché la priorità sarà proprio lavorare presso Prada che presto lo avrebbe assunto come visual merchandiser. Come si vedrà successivamente, questa esperienza troverà ripercussioni nell’imminente carriera di stilista di Anderson. Egli stesso racconta
infatti di aver appreso importanti lezioni soltanto osservando il genio di Manuela Pavesi a lavoro. Venuta a mancare proprio quest’anno (13 marzo 2015), la Pavesi aveva iniziato la propria carriera a Vogue come stylist e fashion editor, lavorando con i più grandi fotografi della storia. L’esperienza l’aveva spinta poi a diventare fotografa lei stessa, collaborando con magazine tra cui i-D, Dazed and Confused, L’Uomo Vogue per poi diventare fashion coordinator per Prada. Fondamentale insegnamento che Anderson racconta di aver tratto durante il periodo con la Pavesi è l’adozione di un approccio intransigente verso la propria visione stilistica, senza cioè che questa debba scendere a compromessi.58 Nonostante tutti questi impegni, che lo vedono anche come stylist per il cantante Rufus Wainwright, Anderson si laurea nel 2005 con una collezione che ancora afferma di “odiare”, 59 ma che lo guida all’edificazione del proprio brand. Al debutto del 2007, segue la collezione ispirata al surrealismo russo, legata ancora alla sua propensione all’ambiente teatrale. Se infatti con le prime due collezioni mostra di essere un ottimo “storico”, con la collezione primavera estate 2009 intitolata An Eye for an Eye, mostra un lato meno concettuale e decisamente più commerciale. Prendendo ispirazione dalle rappresentazioni delle figure del cristianesimo, Anderson reinterpreta la tradizionale forma del vestire maschile. Da quel momento comincia a sfilare regolarmente a Londra e viene denominato dalla stampa il nuovo “maverick”, (anti-conformista). Ad alimentare questa percezione sono le collezioni che seguono, in cui Anderson continua a mettere in dubbio gli standard della moda
uomo. La collezione primavera estate 2010 per esempio inserisce dei tocchi femminili attraverso lunghi top che ricordano abiti o ancora utilizzando tessuti tipici dell’universo femminile. Si apre quindi per Anderson un dialogo tra il guardaroba uomo e donna, sempre più indirizzato verso un abbigliamento unisex. Come verrà analizzato nel capitolo seguente questa idea si fa ancora più evidente quando a partire dal 2010, l’introduzione della linea donna, riproponendo i medesimi tessuti e silhuoette delle collezioni uomo, genera un gioco di similitudini tra i due sessi che in realtà finisce per amplificarne le differenze. Il debutto della collezione donna, attraverso il lancio di un film diretto da Sharif Hamza, è testimone del successo che la linea uomo e accessorio aveva trovato tra il pubblico femminile, con le continue richieste provenienti dalle clienti stesse di taglie più piccole delle proposte della linea uomo. Ad oggi Anderson supervisiona 10 collezioni, 6 per il proprio brand, tra cui la linea resort, e 4 per Loewe, marchio spagnolo di lusso che, in seguito all’acquisto di una quota azionaria di minoranza da parte del gruppo Lvmh nel Settembre 2013, lo ha nominato nuovo direttore creativo.
57 Da un articolo pubblicato su Vogue. co.uk di S. Kilcooley-O’Halloran, 23 luglio 2014 58 Da How J.W. Anderson became a brand builder, di Kin Woo, pubblicato su www.businessoffashion.com, 28 gennaio 2013 59 Da J.W. Anderson – Beyond the fringe,di Tamsin Blanchard, pubblicato su fashion.telegraph.co.uk, 16 luglio 2011
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Anderson e i materiali Caratteristica distintiva del brand è la continua sperimentazione nell’utilizzo di materiali tessili. Sin dalle prime collezioni Anderson mostra interesse nel reinterpretare i codici tradizionali del vestire non solo attraverso l’inconsueta costruzione degli abiti, ma sperimentando direttamente sulla struttura portante di questi, il tessuto. Così nella collezione Modern peasantry (p/e 2014) alterna manipolazioni quali increspature, arricciature a punto smock, piegature su tessuti leggeri e delicati assemblate a elementi più pesanti come la pelle sintetica e rigidi tessuti di maglia. Altri esempi vedono l’utilizzo di cashmere bollito per simulare l’effetto pelle di montone (P/E 2012), piume di cigno sintetiche abbinate alla rafia (P/E 2012), seta combinata al nylon per ricavare un effetto metallizzato, raso stampato e termosaldato per ottenere un gioco tridimensionale (P/E 2013). Ancora, nella collezione a/i 2014 Anderson prende un tessuto rigido e caldo come la lana e
lavorandola in sbieco, le conferisce una fluidità che la fa sembrare seta. Trasformare il tessuto, innalzandolo ad un altro livello è infatti l’obiettivo di Anderson. Lezione imparata probabilmente nel periodo trascorso da Prada, che da sempre assembla tessuti poveri a tessuti di lusso, creando textures inedite a metà tra nylon e taffetà di seta, riuscendo a prevedere ciò che il pubblico, senza esserne al corrente, amerà e vorrà possedere. Per questo Anderson nella stessa collezione utilizza deliberatamente il “trasandato” velluto a coste, da lui stesso detestato, per avvolgere il corpo femminile, doppiandolo per modellare silhouette spigolose e sospese. Il tessuto è utilizzato, manipolato e stravolto quindi in funzione del risultato che si vuole ottenere e la visione innovativa che si vuole trasmettere. Per tutte queste ragioni il lavoro di Anderson viene più volte considerato un “ponte tra l’artigianato e la modernità”. La
collezione maschile P/E 2012 ne è un esempio lampante. Intitolata Craft Goes Machine, in essa Anderson esplora e fonde i poli opposti dell’artigianato e delle produzione industriale applicando a tessuti tecnici lavorazioni artigianali. I gilet composti da centinaia di piccoli esagoni in pelle ricavati da tagli laser, che aggiornano l’antica cotta di maglia, sono stati assemblati a mano con la tecnica del crochet. E ancora, la qualità ultra-moderna del motivo paisley, reinterpretato in un motivo astratto di natura molecolare, è stata affidata ai laboratori dell’azienda inglese Adamley la quale vanta più di cinquant’anni di esperienza nel settore oltre che un archivio risalente ai primi dell’800. Per la produzione dei tessuti della collezione lo stilista ha intrapreso infatti collaborazioni con le migliori fabbriche inglesi del campo manifatturiero, a cui Anderson è probabilmente affezionato per via del nonno impiegato nel settore tessile.
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Vendere moda oggi La sede del marchio J.W. Anderson, come già detto, è stata stabilita a Londra nel 2008. Dallo studio di Shacklewell Lane però Anderson riesce a raggiungere il mondo intero. Il brand possiede infatti una buona reputazione sul mercato nordamericano, europeo e in particolare in quello asiatico, dove la Cina si distingue come maggior acquirente. La formula vincente dietro al marchio che oggi conta più di 60 rivenditori, tra cui Dover Street Markert, 10 Corso Como e Barneys New York, può essere ricondotta a diverse “tattiche” adottate dal giovane stilista. Aspetto fondamentale è il team che lo circonda, che non raggiunge 50 persone, poche ma fidate, dice lo stesso Anderson, il quale non nasconde il ruolo essenziale che esse ricoprono nella creazione di una moda che superi i confini londinesi. Limiti che Anderson riesce ad abbattere anche attraverso il continuo utilizzo dei social media. Anderson ha capito presto che per ottenere il massimo della visibilità e poter quindi raggiungere una maggior fetta di pubblico sarebbe stato fondamentale rivolgersi direttamente a quest’ultimo. Così oltre ad una continua presenza su Instagram con un account personale e uno del marchio, il team Anderson ha adottato un sistema che permetta al pubblico di pre-ordinare i capi desiderati subito dopo la sfilata. Ma poiché secondo Anderson le sfilate raggiungono solo una minoranza, l’attenzione maggiore è stata dedicata al sito ufficiale del brand, dove il pubblico non solo può trovare una selezione di capi, ma può sfogliare tutte le campagne pubblicitarie e accedere ad una sezione dedicata ai libri appositamente scelti
dallo stilista. L’obiettivo è perciò quello di creare un mondo attorno a J.W. Anderson, dal logo studiato appositamente per trasmettere l’idea di un vero e proprio brand e non solo come ripresa del nome dello stilista, alla creazione di un e-commerce lanciato sul sito il 16 giugno 2014. Nonostante la natura concettuale che caratterizza le sue creazioni e che pervade le sfilate, Anderson è però in grado di introdurre, quasi silenziosamente, pezzi vincenti sul versante commerciale, offrendo lo stesso capo in diverse colorazioni e puntando su pezzi classici ma reinventati e interessanti, confortevoli e portabili. Anzi, spesso rivela, sono i capi più complicati a vendere di più in un mercato ormai saturo. Anderson riconosce che gestire un marchio comporta il 35% di creatività e il rimanente è puro business, per questo ritiene necessario controllare in continuazione l’andamento delle vendite, analizzando “i prodotti più venduti, la quantità di questi, da chi sono stati comprati e perché.” 60
60 Da J.W. Anderson – Anderson’s Winds Of Change Blow Loewe, di Lauren Milligan, pubblicato su Vogue.co.uk, 26 luglio 2014
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L’universo di Anderson Dopo essere stato nominato direttore creativo della casa di moda Loewe nel settembre 2013, Anderson ha iniziato il cammino verso la creazione di una nuova identità per il brand spagnolo. Mantenendo i caratteri tradizionali del marchio, ovvero l’attenzione per la rinomata lavorazione della pelletteria, Anderson ha proposto un makeover radicale. La classica borsa Flamenco è stata rivisitata e semplificata sostituendo le nappine con dei nodi minimal e il logo rinnovato ad opera da M/M Paris, per richiamare le origini germaniche del fondatore Enrique Loewe Roessberg. Anderson ha così dato il via al processo di rilancio di una tradizione che dura da quasi due secoli, aggiornandone i valori classici alla contemporaneità. Le campagne pubblicitarie hanno detto addio alle ambientazione del Ritz Hotel e al volto di Penelope Cruz, all’ideale della donna decisa e sofisticata per dare spazio ad un nuova immagine, più malinconica. Per la sua prima stagione da Loewe, Anderson si è infatti rivolto a Steven Meisel per fotografare la campagna, o meglio, ha chiesto al fotografo il permesso di utilizzare immagini di un suo editoriale per Vogue Italia risalente al 1997. Prima ancora che la collezione andasse in produzione quindi Maggie Rizer e Kirsten Owen erano diventati i “nuovi” volti della maison, riprodotti accanto alla riedizione della Flamenco bag sui cartelloni pubblicitari. Le immagini, che prendono ispirazione dai quadri di Alex Katz, ritraggono un gruppo di giovani su una spiaggia, non una scena divertita come potrebbe essere il cartellone pubblicitario per Abercrombie &Fitch, o sensuale alla Dolce e Gabbana ma, come dice lo stilista, un pae-
saggio “ipernaturale” abitato da personaggi caratterizzati da una certa delicatezza e leggerezza. 61 La scelta dell’ambientazione, dice Anderson, è dovuta all’essenza del brand madrileno che “un po’ superficialmente” non poteva non raccontare una scena tipica del paesaggio spagnolo, a lui già familiare sin da piccolo, quando era solito passare le vacanze ad Ibiza con i genitori. Un’altra serie di fotografie prodotte da Meisel è stata utilizzata anche per la collezione P/E uomo, includendo questa volta un autoritratto inedito del fotografo statunitense, che da artista diventa musa ispiratrice. La decisione di riutilizzare queste immagini da parte di Anderson è dovuta alla loro natura senza tempo, aspetto che Anderson desidera fortemente marcare nelle proprie creazioni. Nel concreto, lo stilista non ha fatto però altro che simulare l’atteggiamento instauratosi negli ultimi tempi all’interno della generazione post-tumbleriana: trovare un’immagine iconica e ripostarla. Nell’universo digitale in cui le immagine vengono postate, condivise e ribloggate in un flusso continuo l’operazione dello stilista è quindi la routine: “La possibilità di utilizzare immagini del passato senza troppa premura” 62 afferma Anderson, mostra un modo diverso e fuori dal comune di fare pubblicità, per uno stilista propenso alla modernità, non intesa come design futuristico quanto come innovazione nel sistema della comunicazione di moda. «Viviamo in un decennio in cui ogni giorno sempre più informazioni sono condivise sul web. Miliardi di immagini vengono caricate ogni giorno. Si può digitare qualsiasi cosa e trovare quello che si vuole. Le persone foto-
grafano immagini, immagini di fotografie. Tutto è riscansionato fino a diventare una fotocopia di se stesso. Quando ho approcciato Loewe, dovevo inevitabilmente mettere in atto quello che sta succedendo.» 63 Se molti suoi colleghi lamentano infatti la velocità della moda sui social media, Anderson ne è affascinato. Il fatto di poter comunicare ai propri clienti senza un figura mediatrice, rappresenta per lui l’aspetto più efficiente di quest’era digitale: «Ho sempre accolto il digitale. Il digitale non può essere approcciato in maniera aziendale, poiché è un mezzo organico. L’aspetto migliore del digitale è il potere che dà alle persone.» 64
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78 A prova di ciò, Ted Polhemus nel 2009 aveva già previsto le novità imminenti che la democratizzazione della moda attraverso il web avrebbe portato: «Per trovare quello che vogliono (…), i consumatori sempre più spesso si rivolgono a un nuovo e stimolante medium dello stile: siti web come, per es., www.thesartorialist. blogspot.com, www.worldstylefile.com, o www.lookbook.nu che fanno vedere ‘gente reale’ (essenzialmente non professionisti della moda) che mette insieme il suo look unico e personale, (…) un sistema che non ha alcun bisogno di giornalisti di moda professionisti. Se si osservano questi sviluppi, appare sempre più chiaro che alla fine del 21° sec. le nostre industrie globali dello stile saranno strutturate e funzioneranno in modo assai diverso dall’attuale industria della moda che, per molti versi, è ancora strutturata e ancora funziona come se fossimo nel 1947 e Dior stesse orgogliosamente lanciando il suo new look dando precise indicazioni sugli accessori, il make-up e l’acconciatura da abbinare a un certo abito. I consumatori sono andati avanti ed è tempo che i professionisti del design si mettano al passo con loro.» 65 Non è un caso che proprio quest’anno il CFDA, associazione di cui fanno parte più di 350 stilisti americani, pubblicherà un volume intitolato “Designers on Instagram: #Fashion” che in 5 sezioni - #Behind the Seams, #Selfies, #Inspiration, #Fashion, #TBT - raccoglierà le foto più popolari pubblicate sulla piattaforma Instagram delle maison oltreoceano. Una vera e propria celebrazione dell’ ormai simbiotica relazione tra la moda e social media. Infatti sempre maggior coinvolgimento è richiesto allo stilista di oggi, che non solo ha il compito di creare collezioni che venderanno, ma deve innanzitutto saper comunicare alla propria audience. Anderson si sente adatto
a questo compito, affermando: «In un modo strano, non mi ritengo un vero e proprio designer. Non sarò mai Azzedine Alaïa. Non è quello che sono. Sono il primo a dire che non potrò mai tagliare un vestito. Non so fare cartamodelli. Potrei provarci, potrei provare qualsiasi cosa ma non fa per me.» 66 «Anche se odio il concetto, è una questione di gusto. Sono qui per unire i team migliori e costruire qualche cosa di coerente ed efficace.» 67 Anderson, come altri designer della sua generazione, tra cui spicca la figura di Phoebe Philo, non possiede le tradizionali qualità dello stilista-genio “rinchiuso in una torre d’avorio” come poteva essere Christian Dior, ma è colui che riesce ad amalgamare tutti gli aspetti che personalizzano un marchio per costruirne un’immagine chiara e ben leggibile. È allo stesso tempo portavoce del marchio, direttore, business man, e social media manager in grado di cavalcare l’era digitale. Era in cui tutti possono essere fotografi e in cui l’immagine è assoluta attualità; in cui le sfilate vengono pensate per essere pubblicate su style.com e i diversi pezzi per essere venduti sull’ e-commerce. La scelta delle immagini di Meisel e di tutte le campagne per il brand J.W. Anderson si comprende quindi nel momento in cui lo stilista rivela la propria passione per la creazione di un linguaggio figurativo moderno: «Le campagne pubblicitarie si ricordano per sempre. Per me è ciò che perdura di più nel tempo. Le pubblicità vendono le borse e i vestiti ma volevo che fossero anche qualche cosa da ritagliare e appendere al muro.» 68
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80 Anderson, cresciuto con la “biblioteca visiva”di Hedi Slimane, Raf Simons, Phoebe Philo e Miuccia Prada, dice di essere stato fortemente influenzato dal patrimonio di immagini che questi brand sono stati in grado di trasmettere. Sul loro esempio ha riproposto un’immagine cristallina di Loewe da mostrare ad una nuova generazione, che come dimostra il fenomeno del fast-fashion, mai come oggi è in cerca di continua novità. A coloro che lo descrivono come stilista di una moda altamente concettuale, Anderson risponde quindi riportando l’esempio degli stilisti sopra citati. «Non voglio essere nostalgico nel mio voler guardare al passato. Non si trattava di moda, ma di creare un’ immagine chiara ed essenziale in quanto non eccessivamente calcolata.» 69 L’importanza di un’immagine che guidi la creazione della collezione è riflessa nel sistematico processo creativo che il team è abituato a svolgere, che inizia con “un’eccessiva quantità di ricerca” 70 di libri su libri che trattano dall’arte, alla ceramica, per poi passare ai vecchi editoriali e infine produrre una ventina di volumi di elenchi telefonici contenenti tutte le immagini selezionate. Solo dopo questo momento entrano in gioco i tessuti e gli schizzi delle silhouettes dei capi.
zione con Anderson. Lo stilista è consapevole dell’assoluta importanza di queste due figure affermando che “gli stilisti non esisterebbero senza i creatori di immagine e gli stylist” 71 e aggiunge poi: «Gestire un brand è esattamente ciò di cui si occupa la moda: ottimo design, ma anche un marchio con il quale la gente può sognare.» 72 Anderson è uno stilista che quindi non produce collezioni che la clientela seguirà ciecamente, come succedeva, racconta Peter York ai tempi di quando i redattori di Vogue dettavano legge, decidevano il colore della stagione e “in ogni parte della Terra i negozi presentavano vestiti beige banana o rosso corallo che tutti avrebbero indossato, vostra sorella, vostra zia, l’istruttrice della palestra” 73 ma una figura capace di creare un valore aggiunto al proprio brand, concetto da sempre fondamentale ma che oggi con i nuovi media trova nuovi modi, non tradizionali, di essere trasmesso in una realtà post-post moderna, in cui chi acquisterà l’oggetto desiderato e sognato potrà “produrre matrici di significato personali, uniche e semiologicamente potenti.” 74
Influenzato dal suo passato d’attore teatrale, l’obbiettivo di Anderson nelle campagne è di creare un vero e proprio personaggio o in altre parole di trasformare Loewe in un “cultural landscape”, paesaggio culturale in cui si attui la combinazione di tutto ciò che ama dell’artigianato, dell’arte, del design e dell’architettura. Per questo si serve del fidato stylist Benjamin Bruno, ex-assistente di Carine Rotfield a Vogue, e del fotografo Jamie Hawkesworth, chiamato dal marchio Miu Miu dopo la collaboraL’universo di Anderson
61 Jonathan Anderson, da un’intervista a POP Magazine, Primavera/Estate 2015 62 Ibidem 63 Jonathan Anderson,da un’intervista a Purple Fashion Magazine, Primavera/Estate 2015 64 Jonathan Anderson, da un’intervista a i-D Magazine, 336. The activist issue, Primavera 2015 65 Ted Polhemus, Dalla moda allo stile, 2009 66 Jonathan Anderson, da un’intervista a Purple Fashion Magazine, Primavera/ Estate 2015 67 Jonathan Anderson, da un’intervista a Bon Magazine, Primavera/ Estate 2015 68 Jonathan Anderson, da un’intervista a Vogue.co.uk, 26 Settembre 2013 69 Jonathan Anderson, da un’intervista a Purple Fashion Magazine, Primavera/Estate 2015 70 Jonathan Anderson, da un’intervista a Nytimes.com/, 20 Febbraio 2015 71 Jonathan Anderson, da un’intervista a Bon Magazine, Primavera/ Estate 2015 72 Kin Woo, How J.W. Anderson became a brand builder, di, pubblicato su www.businessoffashion.com, 28 gennaio 2013 73 Peter York, Modern times. Everybody wants ev-erything, 1984, pg.10, London, Heinemann 74 Ted Polhemus, Dalla moda allo stile, 2009
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Anderson e Prada La storia di Prada inizia nel 1913, quando i fratelli Mario e Martino Prada aprono in Galleria Vittorio Emanuele II il primo negozio di pelletteria di lusso. Le loro borse, valigie, bauli hanno grande successo da parte del pubblico aristocratico. Nel 1958 con la morte di Mario l’attività passa per la prima volte in mani femminili sotto il controllo della figlia Luisa e nel 1978 sotto quello della nipote Miuccia. Con lei la proposta di Prada si aggiorna e nel 1984 viene introdotta la celebre linea di zaini in nylon Pocono divenuta oggetto cult degli anni ‘90. Le prime sperimentazioni nel campo dell’abbigliamento sfociano poi nella collezione di abbigliamento femminile presentata per la prima volta sulla passerella nel 1989. Diciannove anni dopo Anderson debutta a Londra presentando caratteri affini alla casa di moda milanese. Come già detto, Anderson era infatti entrato a far parte dell’azienda Prada lavorando come visual merchandiser sotto la guida di Manuela Pavesi. Qui lo stilista aveva imparato a difendere la propria visione stilistica senza mai scendere a compromessi, indicando questa caratteristica di integrità come ragione del grande potere e successo di Prada. Famosa infatti per avere dato origine alla nozione dell’ugly chic, Miuccia è la stilista che per eccellenza glorifica il concetto dell’anti - prefisso che esprime contrasto, opposizione a dottrine e norme – riuscendo a produrre nei clienti il desiderio di qualcosa che l’opinione generale ritiene sgradito. «La bruttezza è attraente ed eccitante. La ricerca della bruttezza, per me, è molto più interessante dell’idea borghese della bellezza. Perché? Perché la bruttezza è umana, riguarda il lato peggiore e
sporco della gente. Ecco, dire tutto questo sembra uno scandalo perché parliamo di moda, ma in altri campi dell’arte è qualcosa di estremamente comune: in pittura e nei film è normale vedere la bruttezza. Invece nel fashion resta un tabù e sono stata molto criticata per aver inventato il “trash” e il “brutto.» 75 Ed è proprio questa moda “brutta” di Prada ad avere influenzato la visione di un’intera generazione di stilisti. Il quotidiano britannico The Indipendent afferma infatti che è grazie alla figura di Miuccia Prada che “qualcuno come JW Anderson” possa oggi affermare la necessità di creare collezioni che siano al 35% “scomode” per evitare che la moda si fossilizzi.76 Anderson, come Miuccia, nelle sue collezioni si concentra appunto sul concetto di “bruttezza”, sia esso legato ad abbinamenti di cattivo gusto, all’idea di scomodità o ancora a concezioni di virilità e femminilità non omologati. Lo stilista trova in ciò che è considerato sgradevole la forza della novità, fondamentale caratteristica della natura effimera della moda, effimera quindi in quanto la bruttezza prodotta diventa il nuovo trend della stagione. Afferma infatti: «Quando qualcosa è brutto e sbagliato, sento che è giusto. Non ne si è ancora abituati. Se viene capito immediatamente dalla persone, non ha senso.» 77 Il desiderio di giocare con il gusto e stravolgere l’ideale di bellezza tradizionale si riflette per entrambi gli stilisti nel rifiuto verso l’abito da sera. Ambedue riconoscono infatti nell’eveningwear un elemento fuori moda che pone limiti a chi lo indossa: Anderson lo descrive come una “performance, una convinzione forzata” che non richiede un atto
di intelligenza, Prada ne critica l’aspetto della banalità che unisce banalmente “belle donne a bei vestiti”. Le creazioni destinate alla sera vengono così sovvertite e realizzate in velluto a coste nel caso di Anderson e in lana pesante per Prada. O ancora con Miuccia nella collezione A/I 2011 le paillettes ingigantite diventano problematiche appesantendo l’abito al punto da renderlo quasi non indossabile. Un continuo tentativo quindi di superare i cliché promossi dalla moda è la peculiarità che unisce l’estetica di Anderson e Prada. “Ciò che molti interpretano come eccentrico”, dice Miuccia “è il mio tentativo di sovvertire il concetto di lusso introducendo elementi che sono considerati ordinari e usuali”. Anderson concorda e aggiunge che il lusso è ormai un concetto “datato”, “very airport life.” 78 Il vero lusso secondo Miuccia è un maglione in cashmere realizzato a mano che risulta semplice e umile, colmo di errori intenzionali che anche richiedendo costi estremamente alti non vende in quanto poco attraente. 79 “Credo che la gente debba essere messa alla prova” risponde Anderson a chi gli fa notare la difficile vestibilità di alcune sue creazioni. Durante una discussione sulla moda dello stilista irlandese, Bel Jacobs, ha proposto una riflessione a proposito di questo argomento. Riferendosi infatti ad un capo da lei indossato caratterizzato da una silhouette squadrata e a prima vista scomoda, con il passare del tempo l’abito si è rivelato morbido e comodo. La relazione che si instaura quindi tra il capo e chi lo indossa, che solitamente viene data per scontata in quanto azione quotidiana, viene invece ad evidenziarsi con gli abiti “architettonici” di Anderson.
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88 Un simile esperimento, che può essere affiancato agli esperimenti di deformazione del corpo umano attraverso l’abito, intrapresi da Weswood, Gaultier e Godely, è rintracciabile anche nella collezione A/I 2013, nella quale Anderson veste l’uomo in shorts appiattendo la zona inguinale in modo da rimodellare il corpo umano e riuscendo a “disturbare” l’occhio dello spettatore nel dare vita ad un guardaroba maschile alternativo.
al womenswear in modo da poter meglio relazionarsi con esso, lavorando verso una nuova architettura costruita sul corpo femminile mossa da una prospettiva maschile. Ciò che i giornalisti descrivono come rivoluzione dei sessi non è quindi una moda androgina, ma per Anderson non è altro che una proposta di un guardaroba condiviso, costituito da veri e propri oggetti capaci di dare vita ad un personaggio. Afferma infatti:
Anderson, per rompere i codici tradizionali, si serve anche delle tinte definite dai critici “incerte” e “terrose”, distinguendosi da quelle tipicamente estroverse delle passerelle londinesi. Lo stilista riconduce la propensione verso queste tonalità tenui al paesaggio piovoso irlandese in cui è cresciuto, dove i colori vividi sono rari. Allo stesso modo Miuccia utilizza il colore per rompere i codici tradizionali: con la collezione A/I 2010 volendo analizzare l’ossessione delle donne verso i dettagli femminili quali fiocchi e fronzoli, ancora una volta la stilista ne sovverte i valori tingendoli di marrone:
«Si tratta di indossare abiti che raccontano una storia e un’emozione, non di ruoli di genere.» 81
«A nessuno piace il marrone, per questo a me piace, perché è difficile e sgradevole.» 80 Per ultimo, il concetto di un guardaroba condiviso, carattere distintivo della moda di Anderson, è da sempre anche argomento trattato da Prada. La ricerca di Miuccia è spesso stata indirizzata “nel rendere le donne più importanti e gli uomini più deboli”, traslando la dignità tipicamente maschile nella moda femminile. L’ispirazione per le collezioni uomo e donna è la stessa, dice la stilista, lo sforzo sta nel capire le diverse possibilità di reinterpretazione della proposta femminile per indirizzarla verso l’uomo. Al contrario, Anderson, che trova ancora strano il concetto di un uomo che disegni abiti per donne, parte dal menswear per arrivare
Allo stesso tempo Miuccia, che, al contrario, non crede in un futuro in cui esisterà un guardaroba unico, si augura che le persone restino libere di vestirsi come desiderano e aggiunge: “Creo oggetti, che devono stare bene anche appesi, che si adattano a chi li indossa purché abbia uno spirito indipendente.” Alla sfilata Uomo A/I 2015, porta in passerella 30 modelli e 20 modelle che indossano look minimalisti, scuri che condividono una stessa estetica, ma nessuno shock, gli uomini indossano pantaloni, le donne si attengono alla gonna, “lui ha la camicia a scatola e i pantaloni a tubo, lei il vestito diritto; lui ha le spalline per le mostrine militari e la martingala, lei invece dei fiocchi piatti analogamente posizionati.” 82 Prada introduce così abiti femminili “pensati come un prolungamento di quelli maschili”; una vera e propria riflessione sul rapporto uomo-donna nella moda, rapporto che, come legge l’invito alla sfilata, è asimmetrico e mai lineare e, continua il manifesto stampato su un quadrato di nylon, che con la sfilata vuole essere “il momento perfetto per analizzare più profondamente questo soggetto, misurando cosa uomini e donne condividono e cosa traggono l’uno dall’altra.” Anderson e Prada
75 Miuccia Prada, da un’intervista al Telegraph, 25 agosto 2013 76 Alexander Fury, Prada, better, faster, stronger, Indipendent magazine, Novembre 2013 77 Jonathan Anderson, da un’intervista a Vogue.com, 15 maggio 2013 78 Jonathan Anderson, da un’intervista a Bon Magazine, Primavera/Estate 2015 79 Bolton, Koda, Thurnman , Schiaparelli & Prada: Impossible Conversations, Metropolitan Museum of Art, 2012 80 Ibidem 81 Da How J.W. Anderson became a brand builder, di Kin Woo, pubblicato su businessoffashion. com, 28 gennaio 2013 82 Filippini, Prada fa sfilare uomo e donna ma la moda unisex non c’entra, Ansa, 25 gennaio 2015
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Moda uomo e donna Nell’era postmoderna si è assistito a diversi tentativi di rompere i codici del vestire che da sempre dividono il sesso maschile e femminile. La moda con la sua abilità di trasmettere un messaggio in maniera chiara e diretta è senza dubbio il mezzo che meglio si presta ai giochi di genere. La convinzione infatti che la moda non debba discriminare, ha spinto molti stilisti nella creazione di linee e profumi unisex, il più noto è CK ONE, e più in generale nelle sperimentazione verso una moda più “fluida”. A volte si è trattato di semplici prestiti dal guardaroba opposto, com’è successo con Galliano per la collezione uomo A/I 2009 durante la quale i modelli hanno sfoggiato giarrettiere, altre volte senza lo scopo di shockare, ma di mettere alla prova la percezione tradizionale. È questo il caso di J.W. Anderson che utilizza cartamodelli della collezione donna per la sfilata maschile A/I 2013, operazione che la moda femminile sperimenta da tempo ormai, dichiarando che per lui “si tratta di vestiti e non di genere.” 83 Le stesse riflessioni hanno invaso le passerelle di quest’ ultima stagione. Da Gucci ad Armani, che rispettivamente fanno sfilare uomini e donne insieme e ne cambiano i codici tradizionali del vestire, la fusione di una moda maschile e femminile sembra aver preso piede in un momento di continuo cambiamento della società, in cui la legalizzazione dei matrimoni gay, le nuove ondate femministe e il crescente potere delle realtà LGBT stanno plasmato la società post-post moderna. Anche se passi sono stati fatti verso l’accettazione di un’uguaglianza dei sessi all’interno della moda, essa rimane comunque una realtà lontana. Se
si pensa per esempio al colore rosa, nonostante la campagna pubblicitaria di Joop urli “Real men wear pink”, esso è ancora identificato come colore femminile, sebbene solo cent’anni fa il colore rosa fosse associato alla mascolinità in quanto simile al rosso era ritenuto “colore più forte e deciso.” 84 Lo stesso succedeva per il tacco, per secoli appannaggio degli uomini delle classe più agiate, si pensi a Luigi XIV alto solo 1.63m, come simbolo di stato superiore per la sua impraticabilità e scomodità. I cambiamenti all’interno della moda maschile iniziano a manifestarsi con l’avvento dell’Illuminismo che pone maggiore importanza ai valori della razionalità e dell’utilità e spinge la moda maschile verso abiti più pratici e funzionali. In Inghilterra si assiste all’inizio della rivoluzione conosciuta come la Great Male Renunciation che vedrà gli uomini abbandonare gioielli, colori vivaci e ricchi tessuti in favore di una divisa più scura e sobria. Solo le subculture che si susseguiranno per tutto il corso del ‘900 attuano cambiamenti stilistici nel guardaroba maschile, con la riapparizione del tacco. Nonostante la maggioranza dei negozi oggi presenti ancora sezioni separate in “uomo” e “donna”, quest’anno un primo esperimento di fusione dei due dipartimenti è stato progettato dalla catena britannica di grandi magazzini Selfridges. Con la convinzione che il futuro sia una moda senza distinzioni di sesso, la catena ha infatti dato il via al progetto Agender in collaborazione con Scott Schuman, mente del popolare blog The Sartorialist. Mentre quest’ultimo ha collezionato una serie di immagini che testimoniassero il fenomeno
all’interno dello street style, il flagship store di Selfrdiges è stato stravolto e trasformato in uno spazio neutrale in cui si non esistono più i concetti di “suo” e “sua”. Faye Toogood, designer incaricato della trasformazione dello spazio, si è così dedicato alla creazione di manichini-scultura del tutto neutri in termine di sesso.
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94 La non distinzione tra i due sessi non è però un argomento di data recente. Virginia Woolf ne tratta già nel 1928 all’interno del romanzo Orlando in cui il protagonista dopo un lungo sonno si sveglia donna. Nel raccontarne l’evento, la Woolf mostra come la trasformazione che Orlando ha vissuto è più profonda di un semplice cambiamento di aspetto. Orlando è infatti capace di trattenere le qualità di entrambi i sessi, in continua trasformazione, indossando ora calzoni e ora un vestito di taffetà a fiori. 85 Un concetto che contestualizzato nel mondo odierno si sposa con l’insieme delle teorie sul gender, secondo le quali il sesso di una persona sarebbe solo una costruzione sociale. Secondo infatti un report condotto da Trendwatching.com oggi “persone di ogni età stanno costruendo la propria identità con maggiore libertà come mai prima”. Il risultato è quindi un completo stravolgimento dei modelli di consumo non più determinati ormai dai tradizionali segmenti democratici quali età, sesso, cittadinanza, reddito.
perciò non solo perché traboccante di capi interscambiabili, ma per l’importanza che la moda maschile, non più all’ombra di quella femminile, ha acquistato all’interno dell’intero sistema moda. Proprio a testimonianza della crescente attenzione verso la moda uomo il CFDA ha deciso l’inaugurazione della settimana della moda maschile a New York a partire dal 13 luglio di quest’anno in seguito al grande successo ottenuto dalla London Men Collection avviata soltanto tre anni fa.
Gli stilisti ammettono però di trovare ancora differenze nel disegnare collezioni destinate ad un pubblico maschile o femminile. Tuttavia, se una volta era la linea donna a dare libero sfogo all’immaginazione degli stilisti, oggi molti riconoscono le maggiori facilità che la progettazione di abiti per uomo offre. Tra tutti Miuccia Prada ne sottolinea la maggiore libertà e dichiara: “Quando fai la collezione donna, sei obbligato a mettere dentro tante cose, e non sei sempre in grado di concentrarti su qualcosa che ti interessa veramente.” Lo stesso concetto viene espresso dallo stilista inglese Jonathan Saunders che intravede nel menswear terreno fertile per sviluppare meglio la creatività attraverso dettagli silenziosi ma ingegnosi piuttosto che, come avviene per la donna, elementi eclatanti. Una moda unisex
83 Murray Healy, “The radical unisex designs of JW Anderson”, The Observer, 2013 84 Earnshaw’s Infants’ Department, Giugno 1918 85 Virginia Woolf, Orlando: A biography, Londra: Wordsworth Editions Ltd, 1953 Moda uomo-donna
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Case study: Marks & Spencer e la democratizzazione della moda La moda britannica viene spesso associata a Saville Row e alle subculture che dalla metà del ‘900 hanno preso piede in Inghilterra. Ancorandosi a queste vicende che, anche se fondamentali rimangono appannaggio delle minoranze, si rischia di trascurare l’evoluzione dell’abbigliamento di massa, essenziale per comprendere i modelli del pronto-moda odierni. Nel XX secolo infatti, la moda smette di essere prerogativa dei ricchi per diventare accessibile alla maggioranza della popolazione. Il motivo per il quale la storia si è focalizzata per lo più sulla moda di élite, trascurando lo studio del vestirsi ordinario, è dovuta alla celebre trickle-down theory 86, ovvero alla teoria de “l’effetto sgocciolamento dall’alto verso il basso”. Attribuita a Georg Simmel, la teoria è stata formulata all’inizio del 1900 e tenta di spiegare la dinamica della diffusione del gusto all’interno della società. Simmel sostiene infatti che le mode nascono all’interno della classe agiata, favorita a livello economico, per poi essere adottate dalle classi inferiori e quindi abbandonate da quella superiore, già indirizzata verso una nuova moda. Secondo questa teoria le tendenze si diffondono quindi “a cascata” ovvero attraverso l’imitazione da parte della maggioranza della popolazione della minoranza elitaria e la conseguente fuga di quest’ultima verso l’innovazione. Teorie più recenti rivelano però che questa visione non presenta reali specificità storiche e commette l’errore di concentrarsi su prodotti di lusso costosi dimenticando il contributo dell’abbigliamento più economico nell’espansione del mercato tessile. In particolare la tesi sviluppata da Fine e Leopold, al contrario di Simmel, non
fa risalire la produzione di massa di abbigliamento maschile al tradizionale abito sartoriale su misura, ma al contrario, ai precedenti mercati attraverso cui la classe operaia poteva trovare abbigliamento da lavoro a basso prezzo. 87 Un ruolo importante nella rivoluzione democratica della moda durante il periodo tra le due guerre è stato ricoperto dalle catene di retail britanniche. In particolare Marks & Spencer ha contribuito fortemente alla distribuzione di un abbigliamento di buona qualità a prezzo accessibile anche alle classi inferiori, andando così a creare una società sempre più omogenea. Fondato da Michael Marks e Tom Spencer, il marchio si presenta per la prima volta sottoforma di piccola bancarella all’open market di Leeds nel 1884 dove Marks si occupa della vendita di bottoni, aghi, spilli. Gli articoli riflettono le necessità di un pubblico che ancora cuce indumenti da sé e che, come sottolinea lo slogan “Don’t ask the price it’s a penny”, possiede redditi bassi. Lo staff di M&S si allarga velocemente e presto vengono aperti altri stand a Castelford e Wakefield fino a quando nel 1897 la sede principale viene aperta a Manchester. Nel 1903 M&S diventa una limited company (S.r.l.) e la firma Marks&Spencer Ltd viene registrata. Dal 1900 al 1916 la compagnia vive una rapida espansione passando da 36 filiali ad un totale di 140. Dal 1915 in poi l’abbigliamento diventa la sezione principale del business, in un momento, quello della Prima Guerra Mondiale, in cui i cambiamenti sociali portano a richieste di abiti meno formali, più semplici e comodi.
Il cammino di accettazione da parte del pubblico dell’abbigliamento ready-to-wear è però lento. A differenza infatti degli Stati Uniti in cui la società, meno legata alle gerarchie dell’abito, accetta con rapidità il pronto-moda, nel Regno Unito ciò non avviene in maniera immediata per motivi di diversa natura. Nonostante già prima del ‘900 esistessero biancheria intima readyto-wear prodotta a mano e abiti non-finiti da cucire su misura, il pronto-moda era ancora associato ad un’idea di scarsa qualità poiché presentava prezzi molto inferiori rispetto alle sartorie. Il pubblico della working class preferiva infatti affidarsi a negozi che vendevano abbigliamento di seconda mano, in quanto erano sicuri di comprare un prodotto di alta qualità ad un prezzo ridotto. Ancora, il gusto dell’ ‘800 fondato sul “good fit”, richiedeva che tutto fosse fatto su misura, ragione per la quale i primi successi del ready-to-wear nel campo femminile saranno indumenti che non richiedono un fit perfetto, quali i mantelli e gli abiti scivolati che caratterizzeranno la moda anni venti. Per ultimo i macchinari dell’industria dell’abbigliamento si basavano ancora su un utilizzo individuale della macchina per cucire ed erano quindi impari con l’industria tessile, la quale invece era già sviluppata e mostrava tutti i caratteri di una produzione di massa. L’introduzione però di una macchina per cucire applicabile ad una produzione su larga scala permette al pronto-modo di prendere piede e già a partire dal 1910 sono accessibili abiti confezionati integralmente.
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102 Altro fattore fondamentale favorevole alla diffusione del readyto-wear è il crollo del costo delle vita, che nel 1939 si abbassa del 11% rispetto al 1924; 88 contemporaneamente i salari nelle fabbriche aumentano concedendo un maggiore reddito e di conseguenza una migliore qualità di vita. Inoltre, le strutture sociali e gli schemi lavorativi dopo la Prima Guerra Mondiale cambiano e le donne, in particolare coloro che fanno parte della working class, non hanno più tempo per i fitting su misura. Abiti di buona qualità confezionati serialmente diventano quindi sempre più desiderabili per le donne di tutte le classi sociali e vanno così a livellare le distinzioni di ceto, creando una società in cui l’abito non è più indicatore dello status sociale di un individuo. L’interesse di Marks & Spencer e delle altre grandi catene (Debenhams, Selfridges) verso le classe operaia, target principale di riferimento, nella creazione di abiti ready-made per una fetta di popolazione che non ha più tempo di confezionare abiti da sé, riesce a chiudere il gap che sin dall’800 aveva diviso la popolazione in ricchi e poveri. Il pronto-moda diventa realtà quotidiana tanto che negli anni ’30 Marks & Spencer chiude il reparto merceria e, ancora, un report pubblicato dal Board of Trade nel 1932 riporta la chiusura di un grande quantità di sartorie locali. L’arrivo della Seconda Guerra Mondiale e la conseguente introduzione dell’ Utility Clothing Scheme, fu un altro aspetto vantaggioso per l’affermazione di un abito sempre più “democratico”. Introdotto nel 1942, il programma, in seguito alle carenze provocate dalla guerra, imponeva abiti semplici ed economici in modo da regolare la quantità di tessuto utilizzato per la produzione di capi. Tale razionamento limitava l’acquisto ad un numero fisso di abiti attraverso l’utilizzo di coupons, senza guardare al reddito
degli individui delle diverse classi sociali, dando così accesso a tutti ad abiti di medio-alta qualità, progettati da designer conosciuti. Sempre attraverso lo schema, il governo inglese permise la produzione di vestiario solo ad un numero limitato di fabbriche, eliminando quindi quelle situate in fondo al mercato. Prodotti di alta qualità divennero così la normalità anche per la porzione meno abbiente della popolazione. La guerra accelerò così il progresso scientifico e tecnologico all’interno dell’industria tessile e dell’abbigliamento e, in cerca di una qualità sempre maggiore richiesta dal pubblico inglese, a Marks&Spencer spettava il compito di attuare nuove strategie nel campo della produzione di abiti. L’innovazione tecnologica è basilare per il successo di Marks&Spencer. La compagnia investe infatti sin dagli inizi sulla ricerca tessile, intuendo il potenziale delle fibre man-made ancor prima che queste diventassero una realtà. Nel 1935 viene così fondato all’interno dell’azienda un laboratorio tessile, realtà quotidiana oggi ma mossa innovativa per il tempo, con l’obbiettivo di aumentare la qualità dei tessuti utilizzati per la produzione di abiti. Qui i tessuti vengono sottoposti a prove di restringimento, durabilità, colore e tra il 1935 e il 1939 il laboratorio produce più di 9.000 test in cerca di una qualità sempre maggiore. Esempi concreti delle migliorie apportate negli anni ‘50 sono l’introduzione del filo di nylon nelle calze di lana per uomo, che contribuiscono alla longevità di queste, o ancora l’utilizzo del filato doppio nella maglieria che permette di mantenere la forma del maglione una volta lavato. Marks&Spencer si dedica anche alla produzione e allo sviluppo delle fibre sintetiche per le loro qualità di facile manutenzione. Negli anni ‘60 le richieste dei clienti si concentrano infatti verso un abbiglia-
mento pratico, comodo e casual e le fibre tessili naturali quali cotone, lino e lana ritenute esauribili vengono sostituite, ma non completamente, da tessuti quali nylon, poliestere e triacetato. Mark&Spencer si distingue dai competitors per la velocità con cui riesce a mettere sul mercato questi tessuti: la Courtelle, per esempio, prima fibra acrilica prodotta nel Regno Unito nella metà degli anni ’50, viene sperimentata da Marks&Spencer già nel 1960. Ma, nonostante le vendite delle fibre sintetiche e man-made subirono un forte aumento nel 1970, 89 Mark&Spencer continua ad interessarsi alle fibre naturali, con l’obbiettivo di conferire ad esse qualità easy-care, occupando un ruolo da leader in questo settore. Accanto a queste innovazioni, che continuarono sino agli anni ‘90 con tessuti quali la microfibra, il Tactel e il Tencel, la società pensò anche di informare i clienti distribuendo opuscoli contenenti le istruzioni per la manutenzione dei tessuti. Fondamentale al progresso del pronto-moda, particolarmente per il guardaroba femminile, fu la creazione di un corretto sistema di taglie. Dalla fine degli anni ‘20 lo schema americano di taglie era utilizzato frequentemente dalle aziende tra cui anche Marks&Spencer. Nel 1957 l’azienda condusse un sondaggio rivolto alle proprie dipendenti mostrando che 6 donne su 10 commettevano un errore di taglia nel comprare i collant. Un nuova linea di “superfit” nylons venne messa così in produzione e da quel momento M&S si impegnò nella creazione di proposte di capi per donne la cui taglia non corrispondeva alla media delle statistiche, tra cui una linea per la maternità. Marks&Spencer utilizzò lo stesso sistema di taglie instauratosi nel 1951, fino al 1988, quando le misure e le altezze delle donne erano cambiate a causa di una migliore nutrizione e altri cambiamenti nella società ,tra cui l’uti-
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103 lizzo della pillola contraccettiva. Questi sviluppi sono significativi nel mostrare le difficoltà che negli anni si sono presentate nell’elaborazione di un sistema di taglie universale e nei continui tentavi dell’azienda di allagare l’offerta ad una maggiore fetta di pubblico. Accanto all’innovazione tecnologica, la forza di Marks&Spencer risiede anche nell’investimento verso lo sviluppo progettuale dei propri prodotti, la cui qualità non risiede solo nelle ottime performance ma anche nella corretta progettazione. Già a partire dalla metà degli anni ‘20 Sieff, direttore della compagnia, decide di rivoluzionare il tradizionale rapporto tra rivenditore e fornitore, riservando al primo un maggiore coinvolgimento nella produzione dei prodotti, in modo da assicurare una qualità sempre migliore. Al contrario delle abitudini del tempo, il marchio divenne così partecipe in tutti i passaggi della produzione, dalla ricerca dei filati all’installazione di nuovi macchinari nei laboratori dei fornitori. Nel 1936, per tenersi sempre di più al passo con i trend, viene inaugurato un dipartimento di design centrale nel quale vengono chiamati a lavorare team di tecnici ed esperti, creando legami sempre più stabili tra le aree tecnologiche e progettuali. All’interno del dipartimento ci si occupa sia della creazione e dello sviluppo dei cartamodelli che dello studio delle tendenze. Oltre a continui viaggi nelle capitali della moda, M&S ingaggia consulenti, tra cui Paul Smith nel 1985, per revisionare le linee del brand ogni mese e ricevere consigli e critiche per una moda sempre più moderna. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si assiste alla creazione di un dipartimento per la progettazione delle stampe e inizia così ad instaurarsi un sistema simile a quello odierno in cui si distin-
guono le figure del visual merchandiser e del buyer. E ancora, nel 1986 si introduce il design brief che verrà poi tradotto in una strategia d’acquisto appropriata, si inizia ad utilizzare il sistema CAD per la creazione di modelli al computer, si installano le prime cabine di prova. Accanto a tutto ciò le strategie di advertisment continuano a mutare, dalle sfilate nei centri commerciali già à metà degli anni ‘50, all’impiego delle top-model per assicurarsi maggior copertura mediatica. Passaggi che portano verso una moda che ormai diventata democratica non è più simbolo di appartenenza ad una classe sociale, ovvero un sistema che stravolge la teoria trickle-down citata all’inizio del paragrafo, che a partire degli anni ‘90 permette alle mode di nascere dalla high street per poi arrivare in passerella. Oggi il fenomeno della fast fashion permette infatti alle masse di accedere ai trend di stagione in continuo rinnovo e a prezzi del tutto accessibili. Il gruppo più conosciuto e di successo globale è certamente Inditex che controlla Zara, Massimo Dutti, Bershka, Pull&Bear, Stradivarius. Insieme ad altri tra cui Benetton, tra i progenitori del fenomeno, questi marchi sono capaci di trasformare uno sketch in abito in grande velocità, talvolta per vie non etiche, accelerando sempre più la produzione di abbigliamento e il relativo consumo. Si contano infatti più di 12 collezioni in un solo anno. A prova dei cambiamenti che il fenomeno ha causato, uno studio condotto dall’Università di Cambridge mostra che nel 2006 le persone hanno comprato un terzo in più di abbigliamento rispetto al 2002, sottolineando inoltre come il pubblico femminile possedeva nello stesso anno il quadruplo dei vestiti in confronto al 1980. Quando a tutto ciò si aggiunge inoltre il facile accesso alle sfilate, grazie ad un semplice click e il feno-
meno delle blogger, si comprende come la realtà oggi propenda sempre più verso una moda più “democratica”.
86 Georg Simmel, Fashion, International Quarterly, Vol. 10, 1904 87 Ben Fine, Ellen Leopold, The World of Consumption: The Material and Cultural Revisited, Routledge, Londra 1993 88 Elizabeth Wilson, Lou Taylor, Through the Looking Glass: A History of Dress from 1860 to the Present Day, BBC Pubns, Londra, 1991 89 Anonimo, Marks & Spencer archive, 1971
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I tre David britannici “Solo chi ha una apertura visiva diversa vede il mondo in un altro modo e può dare al prossimo una informazione tale da allargargli il suo campo visivo. Mescolate quindi i disegni, cambiate i colori degli occhi, abituiamoci a guardare il mondo con gli occhi degli altri.” 90 Così scrive Bruno Munari all’interno del libro Guardiamoci negli occhi. David Bailey, David Hockney e David Bowie, figure a cui questo capitolo è interamente dedicato ne sono una dimostrazione perfetta, tre personaggi che si sono distinti per avere plasmato una nuova era distruggendo i pregiudizi esistenti, ognuna nel proprio campo d’azione. Il Regno Unito è la patria delle rivoluzioni. Primo infatti ad abbracciare quella industriale, vede poi, due secoli più tardi, l’inizio di quella rivoluzione culturale che ha cambiato il volto del secondo ‘900. La moda, l’arte e la musica sono diventati i messaggeri dei nuovi valori all’interno di una nuova società di cui i giovani sono diventati per la prima volta i protagonisti assoluti. Agli albori dei Swinging Sixties le novità in fatto di moda si spostano dalla couture parigina a Londra. La modella Jean Shrimpton, a fianco della minigonna, rappresenta l’apice del mutamento avvenuto nel mondo della moda che vede le indossatrici dal look aristocratico, tipicamente anni ’50, essere sostituite da ragazze dall’aspetto adolescenziale e divertito. Creatore dell’iconica immagine della modella è David Bailey, che presto sarebbe diventato suo fidanzato. L’ascesa del fotografo nell’ambiente londinese del periodo è essa stessa segno della rivoluzione sociale che stava prendendo piede. Originario infatti dell’East End, quartiere della classe operaia, egli rap-
presentava l’esatto contrario del tipico fotografo del tempo. Brian Duffy, collega fotografo riferendosi a Bailey e a Terence Donovan, afferma a proposito: «Prima del 1960, un fotografo di moda era alto, magro ed effeminato. Ma noi tre siamo diversi: bassi, grassi ed etero.» Lo stesso Bailey racconta inoltre di essere stato spesso scambiato per il corriere mentre portava le fotografie scattate alla redazione di Town Magazine per cui lavorava. Ma sono proprio le sue umili origini ad aver plasmato il modo in cui egli da sempre lavora, ogni volta interagendo con le persone da dover ritrarre, in modo da trarre il più possibile la loro personalità. Ancora oggi, nel suo studio di Clerknwell, possiede infatti due divani su cui ama parlare con i propri “clienti” prima di iniziare la sessione fotografica che solitamente dura un’ora e dieci minuti, compreso il colloquio. Lavorando per Vogue, fu tra i primi a dar vita ai ritratti naturali, presentando le modelle come persone reali capaci di interagire con l’obiettivo della macchina e non più come manichini immobili. Fu egli infatti, con la Shrimpton a cambiare il ruolo dell’indossatrice ora messa in risalto rispetto all’abito indossato, dando via al fenomeno della supermodella. Il successo nel campo della moda fu infatti nella creazione di immagini che oggi rappresentano la normalità, ma che fino a quel momento le editrici di moda avevano da sempre vietato. Esempio lampante è il ritratto di Paulene Stone che inginocchiata conversa con un piccolo scoiattolo imbalsamato, apparsa sul Daily Express nel 1960. Bailey però non si dedicò solo
alla fotografia di moda, anzi da quanto racconta, questo settore lo annoiava parecchio. Anche se infatti era l’unico modo in cui al tempo un fotografo poteva mettere in gioco la propria creatività, Bailey stesso afferma di non essere mai stato interessato alla moda e, dopo aver realizzato più di 800 pagine per Vogue, decise di dedicarsi ad altri soggetti. Impiegando tecniche diverse, dalle Brownie del primo ‘900 alla più recente fotocamera del cellulare Nokia, Bailey ha infatti affrontato attraverso le sue fotografie diversi temi. Non solo celebrità, i cui ritratti sul celebre sfondo bianco vengono raccolti in Box of Pin-up e pubblicati cambiando lo status del fotografo, che per la prima volta vende la propria produzione in questo modo, ma anche i reportage africani risalenti al 1970, che documentano la difficile realtà della popolazione del Sudan. La mostra Stardust presentata nel 2014 alla National Portrat Gallery di Londra è infatti divisa nei diversi capitoli della vita artistica di Bailey. In essa sono presentati i viaggi tra gli Aborigeni australiani, quelli in India e in Papua Nuova Guinea. Una sezione è poi dedicata al progetto Democracy sviluppato tra il 2005 e il 2009, con cui Bailey, in una società ossessionata dal fenomeno delle celebrità, dà voce alla gente comune con l’obiettivo di creare immagini non posate ed organiche senza adoperare alcun ritocco nella post-produzione, in cui il soggetto si presenta senza abiti, non nudo specifica Bailey, in quanto in quel caso sarebbe il fotografo al centro.
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106 Operazione simile era avvenuta quando Bailey, rompendo le regole, aveva portato la moda nel realismo di Carnaby Street e dell’East End, democratizzandone l’aspetto. Una pubblicazione intitolata infatti Bailey’s East End raccoglie 620 fotografie di volti e di luoghi da lui incontrati nel quartiere di Londra in cui è cresciuto, divisi nelle diverse decadi in cui sono state scattate dagli anni ‘60 fino ad ora. Per essere un ragazzo che aveva abbandonato gli studi quasi analfabeta, Bailey ha rappresentato una rivoluzione nel campo della fotografia non tanto per lo stile da lui stesso definito semplice e crudo, ma per la novità dei soggetti che ha deciso di raccontare al momento giusto catturando lo spirito di una società che stava cambiando.
simbolo universale di modernità, appartengono a questo periodo. Nei quadri A Lawn Being Sprinkled e A bigger splash, Hockney escogita un nuova tecnica per rappresentare l’acqua. Nel secondo, in particolare, l’artista utilizza una palette limitata di blu, gialli, verdi e rossi su una tela di cotone duck. Tutti gli elementi, tranne lo spruzzo, sono stati verniciati su più strati utilizzando un rullo in modo da rimanere piatti ed omogenei. Il soggetto centrale invece, lo “splash”, è stato realizzato nel corso di due settimane utilizzando una varietà di piccoli pennelli. Ispirato infatti dagli studi sull’acqua di Leonardo, Hockney vuole fermare un evento che dura solo qualche secondo, come il tuffo in piscina che nel dipinto suggerisce una presenza umana.
Una rivoluzione equivalente nell’arte si può rintracciare nell’opera di David Hockney. Nato nel 1937, un anno prima dell’amico fotografo che più volte lo ha ritratto, Hockney è originario dello Yorkshire. Il golden boy dell’arte britannica del dopoguerra si inserisce nella cerchia dei maggori esponenti della pop art e in un sondaggio condotto nel 2011 in Gran Bretagna è stato votato l’artista più influente della storia. A 22 anni entra al Royal College of Art situato nella capitale inglese, ma trascorre gli anni della Swinging London in California. Dopo aver finito gli studi Hockney inizia infatti a viaggiare passando per Berlino, New York per poi fermarsi nel 1963 a Los Angeles, lavorando in uno studio di Santa Monica.
Le scene della serie delle piscine sono popolate da personaggi per lo più maschili. Infatti oltre alle tecniche utilizzate da Hockney per la rappresentazione dell’acqua, sono i soggetti e i temi che l’artista decide di affrontare, che lo rendono rivoluzionario in un momento in cui essere omosessuale era ancora argomento tabù. Il dipinto Peter getting out of Nick’s Pool ritrae infatti il corpo spogliato del compagno Peter Schlesinger nell’atto di uscire dalla piscina ma già quadri precedenti, risalenti agli anni al Royal College of Art, sono testimoni dell’ omosessualità a cui Hockney voleva dare voce. In un momento in cui il Sexual Offence Act, legge che avrebbe depenalizzato atti omosessuali in privato tra due uomini, non era ancora in vigore, (verrà passato nel 1967), l’artista si ispira alla tecnica del collage cubista e riempie i dipinti di scritte quali “queer”,“bold”, “unorthodox lover”, nomignoli offensivi che trae dai graffiti dei bagni pubblici. Hockney pensava infatti che utilizzare scritte avrebbe spinto lo spettatore a confrontarsi maggiormente con il tema che il pittore voleva condividere: «Il momento in cui metti una
Il paesaggio e lo stile di vita californiano diventano presto caratteristica fondamentale dei lavori dell’artista che per catturare l’atmosfera luminosa e vivace del posto, completamente opposta a quella della nativa Bradford, sostituisce la pittura ad olio con gli acrilici e sviluppa uno stile personalissimo a metà tra il naturalismo e l’arte realistica. I celebri quadri delle piscine, divenute
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parola in un dipinto le persone la leggono. Come con un occhio. Se c’è un occhio in un quadro, non si può ignorarlo, così non si può ignorare una scritta.» 91 Hockney è quindi esponente dell’arte pop non solo per aver innalzato oggetti di uso comune nella nuova società del consumo, un esempio sono le bustine di Tea Typhoo del 1961, ma soprattutto per avere compreso il potere della comunicazione moderna. Come scrive infatti il critico e giornalista inglese Jonathan Jones, “ciò che lo distingue da artisti come Francis Bacon o Lucian Freud, o ancora dal suo contemporaneo Howard Hodgkin” è la capacità di tenere a mente “i contrasti e le connessioni tra i media moderni che plasmano le nostre vite e l’arte antica.” 92 I suoi dipinti si adattano infatti al formato dei film, dei libri e dell’iPad. Lo stesso Hockney afferma di essere sempre stato interessato al concetto di replica dei proprio dipinti riconoscendolo come metodo in cui le proprie opere vengono conosciute. Afferma infatti: “Nel 1975 il mio primo libro era in bianco e nero, in modo che i dipinti venissero riprodotti meglio.” 93 Hockney non è solo pittore da pennello, ma sperimenta diverse tecniche di comunicazione visiva: dal fotocollage, immagini composte dall’assemblaggio di polaroid scattate da diverse prospettive e di soggetti in movimento, al Quantel PaintBox, precursore di Photoshop che permetteva all’artista di disegnare direttamente su uno schermo; dall’utilizzo del fax negli anni ’80 per inviare i disegni in giro per il mondo ai ritratti realizzati con fotocopiatrice Xerox. Hockney ha sempre abbracciato le novità tecnologiche e proprio nel 2012 l’artista ha inaugurato una mostra di 51 dipinti realizzati sull’iPad.
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109 Anche se lontano dall’Inghilterra, l’immaginario vivace dell’opera di Hockney e della Pop Art in generale ha invaso la Gran Bretagna e così i colori negli anni ‘60 cambiano: sono quelli della moda di Mary Quant, della musica dei Beatles e della tv che dal 1967 in Regno Unito non è più in bianco e nero. La rivoluzione sessuale che Hockney aveva raccontato in modo silenzioso, sarebbe presto esplosa con David Bowie. Oltre infatti ai contribuiti che il cantante apporta al campo della musica, Bowie dà vita ad una rivoluzione eclatante attraverso le sue performance, il suo aspetto e i costumi di scena, simbolo di una nuova libertà per l’identità sessuale di ciascuno. Morrissey, ex-frontman degli Smiths, in un capitolo della propria biografia, racconta l’esplosione che in quegli anni aveva investito la musica e l’arte raccontando come una figura in particolare, David Bowie appunto, era riuscita ad incarnarne la rivoluzione. Al vederlo la prima volta alla televisione Morrissey non riesce a credere all’esistenza di una personalità così innovatrice, tanto era “reale, incredibilmente affascinante, impavido ed inglese.” 94 Presentandosi come Ziggy Stardust, Bowie mostra al pubblico un nuovo concetto di moda. Indossa infatti abiti femminili che interrogano la gente sulla sua sessualità. Come infatti testimoniano i costumi dell’era glam rock di Kansai Yamamoto per l’Aladdin Sane tour, o ancora le tute trapuntate di Ziggy, l’artista negli anni è stato in grado di proiettare la sua identità plurima oltre che con la sua musica cosmica anche attraverso l’abito, che diventa estensione del proprio essere. Come racconta infatti la canzone Rebel Rebel, Bowie si fa portavoce di una nuova generazione in cerca di maggiori libertà:
confusione, non è sicura se sei un ragazzo o una ragazza.) La rilevanza dell’aspetto androgino di Bowie nella cultura britannica è stata dimostrata quando la popolazione lo ha nominato la persona meglio vestita nell’intera storia britannica in un sondaggio condotto dal BBC History magazine nel 2013. Non è un caso che lo stesso anno il Victoria&Albert Museum di Londra, luogo che da sempre ripercorre la storia del costume, gli ha dedicato una mostra intitolata David Bowie is in cui si ripercorre tutta la carriera dell’artista partendo dagli esordi che lo vedono durante gli anni della Swinging London come mimo e cantante folk nei locali di Soho. Bowie raccoglie in sé lo spirito dei cambiamenti di quel decennio che si chiude il 20 luglio 1969 con il primo allunaggio. La Bbc decide infatti di utilizzare come colonna sonora del lancio nello spazio la canzone Space Oddity in cui il protagonista, il Maggiore Tom è un astronauta in partenza per il viaggio spaziale. In realtà la canzone non pensata per l’evento, dice Bowie, è stata ispirata dal film 2001 Odissea nello spazio di Kubrick ed affronta il tema del sentirsi soli. Bowie racconta infatti della società che stava iniziando ad emergere che trent’anni dopo Bauman chiamerà “società liquida.” 95 ,
90 Bruno Munari, Guardiamoci negli occhi, Corraini, Mantova, 2003 91 Christopher Simon Sykes, David Hockney: The Biography, 1937-1975, Nan A. Talese, 2012 92 Jones, J., David Hockney enters new phase: no more Constable, pubblicato su Guardian.com, 28 Novembre 2014 93 Sykes,C. S., David Hockney: The Biography, 1937-1975, Nan A. Talese, Londra 2012 94 Morrissey, Autobiography, Penguin Classics, Londra, 2013 95 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma - Bari, 2003
«You got your mother in a whirl, she’s not sure if you’re a boy or a girl.» (Hai messo tua madre in I tre David britannici
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Conclusione In conclusione con questo elaborato di tesi ho voluto analizzare e giustapporre la figura di Bruno Munari a quella di Jonathan Anderson. Nella mia ricerca ho infatti riscontrato somiglianzetra i due protagonisti che nei loro campi d’azione hanno apportato una rivoluzione analoga a quella raccontata nel capitolo precedente. In particolare, entrambi riconoscono il proprio compito di designer contemporanei, rispettivamente come progettisti di oggetti e di moda, al servizio di una “comunità”: “un uomo attivo tra gli altri uomini” scrive Munari. Allo stesso modo Anderson, il quale dimostra di aver compreso come il cliente di oggi non esige più, come poteva accadere prima, precisa indicazione su come indossare un determinato trend, riconosce il suo ruolo non come stilista-”dittatore” in cerca di adulazione, ma come vero e proprio businessman capace di saper trasmettere un messaggio coerente non solo attraverso gli abiti ma anche e soprattutto attraverso i canali di comunicazione moderni. Designer i due quindi che sanno riconoscere le esigenze del pubblico, spesso precedendole. Così Munari dà vita ad oggetti “democratici”, come Flexy, una scultura in filo di acciaio inox, progettata apposta per una produzione in serie a basso prezzo in modo da “dare al maggior numero di persone lo stesso oggetto che comunica, manipolandolo, il massimo dell’informazione estetica.” Allo stesso modo, Anderson si allontana da una moda elitaria, affermando come i suoi vestiti debbano coinvolgere un vasto numero di clienti, ragione per la quale lo stilista ha intrapreso diverse collaborazioni, tra cui Sunspel, Versus e Topshop rivolte
a target diversificati. Mentre sull’operato di Anderson non è ancora possibile generare una riflessione completa in quanto sarà il tempo a rivelarne l’esito, si può invece affermare che la carriera di Munari è stata interamente dedicata ad una progettazione con “rapporti sociali importanti, che agisce sulla società del futuro” 96 per cercare di migliorarla. Questa è la vera natura di Munari che si è rivelata nella mia ricerca, una figura a cui si può applicare perfettamente la definizione che il filosofo Agamben dà della contemporaneità come la qualità di chi “non coincide perfettamente con il suo tempo, né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio questo scarto e questo anacronismo, egli è capace di più degli altri di percepire e afferrare il proprio tempo”. Così Munari è capace di superare la staticità dei dipinti futuristi passando all’atmosfera astratta delle quattro dimensioni attraverso le Macchine Inutili. Divertendosi col “gioco degli opposti”, 97 di cui i Libri Illeggibili e le Sculture da viaggio sono un altro esempio, Munari crea una macchina diversa, non più come quella mitizzata dai compagni Futuristi, ma “inutile”. Di essa ne studia accuratamente le parti, la struttura e i materiali per crearne giochi di colore e di forme messi in movimento dal semplice respiro di chi guarda. In un mondo in cui le macchine “sono oggi il nostro cibo consueto e indispensabile, al mattino a scaldarci l’acqua per il bagno, macchina a prepararci il caffè, macchina a portarci al luogo di lavoro”, 98 Munari sovverte la normalità riuscendo così a toccare la sensibilità di tutti noi. Operazione che si potrebbe dire simile a quella portata avanti da Anderson all’interno della moda quando lo
stilista sfida i canoni tradizionali dell’abito maschile e femminile, sovvertendo quindi le percezioni quotidiane che tutti noi abbiamo nell’azione del vestirci. Ancora di più infatti dell’arte, gli abiti, in quanto oggetti della quotidianità, sono capaci di dialogare con le persone creando in modo del tutto istantaneo una relazione con chi li indossa. Così Anderson attraverso la costruzione spesso a prima vista scomoda, i materiali insoliti e dettagli inaspettati dei propri capi riesce ad instaurare un dialogo nuovo con l’indossatore non lasciandolo indifferente. Infine Munari e Anderson operando attraverso il sovvertimento dell’usuale ci spingono a ripensarlo, rivalutarlo e spesso capirlo, riuscendo in un mondo di macchine “macchinose” e continui cambiamenti di mode a rallentare la frenesia della nostra esistenza.
96 Arturo Carlo Quintavalle, Intervista a Munari, Catalogo mostra Bruno Munari, Università di Parma, Centro Studi e Archivio della Comunicazione,Quaderni n. 45, Parma, 1979 97 Bruno Munari, Fantasia, Universale Laterza, Roma-Bari, 1998 98, Luigi Pralavorio, Delle macchine inutili e di altro di altro, Cronaca Prealpina, 1934
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20 1
4
Conclusione
118
*Libro illeggibile, 1953
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119
*A/I 20 13
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c ch i a M *
n u ti na I
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le , 1949
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I 20 *A/
14
Conclusione
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*Io non sono Bruno Munari