I ragni 2
I volti del primo marzo voci da un’altra Italia Testi Rosario Cauchi Massimiliano Perna Giorgio Ruta Fotografie Francesco Di Martino Giuseppe Portuesi
Prefazione Fabrizio Gatti
Marotta&Cafiero
editori
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“A Guadalupe, nella buona e nella cattiva sorte”
Prefazione Fabrizio Gatti
Presentazione
I miei compagni di classe, alla scuola materna, dicevano che non dovevo parlare con Elio. Eravamo bambini di quattro e cinque anni. Elio aveva un cognome lombardo, era discendente di una famiglia lombarda da generazioni. Ma aveva una colpa per la quale doveva essere escluso dai nostri giochi: Elio abitava con i terroni. Elio viveva in un caseggiato malmesso, affacciato su un cortile polveroso. E i suoi vicini di casa erano famiglie di calabresi, siciliani, campani che si ammassavano nei bilocali senza bagno, una porta e una sola finestra, in cambio di un lavoro come manovali, addetti alle pulizie, i più fortunati come operai nell’industria. Era il 1970 e Milano e la sua provincia avevano tre categorie di abitanti. C’erano i lombardi, baluardo dell’operosità e dell’onestà. C’erano i terroni del Nord, veneti e friulani, bravi, onesti pure loro, ma non mancavano le suore e i parroci che mettevano in guardia i teenager del posto, mai fidanzarsi con venete e friulane che, si sa, sono ragazze di facili costumi. Poi c’erano i terroni terroni: quegli incoscienti che fanno figli come conigli, non sanno nemmeno parlare l’italiano, non si lavano, anzi puzzano, Dio santo come si fa a vivere così, tengono le galline in cucina, piangono miseria, affitti la casa a uno di loro e te la ritrovi piena di gente, in Comune hanno sempre la precedenza nelle liste per le case popolari, così come per i libri a scuola, non hanno voglia di lavorare e lo Stato li premia, sono mafiosi, rubano, violentano le donne, guarda le loro mogli, si vestono di nero e le vecchie sono obbligate a portare il velo, ma come si fa, sono così diversi da noi, mica possiamo accoglierli tutti questi terroni, non siamo razzisti per
In tutta Italia volano palloncini gialli Massimiliano Perna
Primo marzo a Siracusa
Un popolo colorato di giallo, un sole che brucia di umanità e che ha cercato di squarciare l’oscurità che avvolge il nostro tempo e il tessuto sociale di un Paese sempre più disumano, individualista, privo di qualsiasi memoria. Il Primo Marzo, a partire da quest’anno, non sarà più una data qualsiasi. I migranti sono scesi in piazza per manifestare, per protestare contro la discriminazione, contro lo sfruttamento e la negazione di diritti fondamentali che, in un contesto che si professa democratico e civile, dovrebbero essere garantiti ad ogni essere umano. Le catene che un sistema crudele getta sulla dignità degli uomini e delle donne migranti provocano dolore: un dolore insopportabile che si acuisce ancora di più di fronte alla xenofobia, alla meschinità e all’indifferenza del popolo italiano, all’ispirazione razzista di leggi che ci riportano indietro verso gli orrori del passato. L’oppressione violenta nei confronti di un popolo di “stranieri” non può durare a lungo. La stretta liberticida e disumana che l’asse di governo Pdl-Lega (con il famigerato pacchetto-sicurezza di Maroni) ha impresso sui migranti, ci ha fatto piombare nel buio di una situazione che si pone in contrasto con quelli che dovrebbero essere i valori distintivi di una democrazia compiuta. Come spesso accade nella storia, però, nei momenti più oscuri c’è sempre un fiore che germoglia, una luce che appare. Piccoli segni, ma tangibili, individuabili. In Sicilia, ad esempio, esiste un fiore che nasce durante l’inverno e che ha l’affascinante compito di annunciare la primavera, la stagione in cui ognuno potrà
gustarne i frutti: è il fiore del mandorlo, che potremmo assumere a simbolo di speranza. La stessa speranza che viene condivisa da chi, in molte città italiane, ha dato vita al Comitato Primo Marzo. Un gruppo eterogeneo di persone, un insieme meticcio, pieno di culture e di colori diversi, di storie, di individui che nella diversità scoprono l’uguaglianza, si arricchiscono a vicenda, si confrontano, scoprono di avere in comune la cosa più importante, quella che, come diceva Ernesto Che Guevara, ci rende più che parenti, più che fratelli: la capacità di indignarsi di fronte a qualsiasi ingiustizia venga commessa nel mondo. E se quel mondo è in casa nostra, è visibile e ci riguarda tutti, allora diventa naturale, anche nell’Italia cloroformizzata di oggi, che, chi condivide l’indignazione, il senso di giustizia e di solidarietà, finisca per unirsi, per mettersi insieme. Il Primo Marzo è stato tutto questo, lo è ancora e lo sarà. Il giornalista Fabrizio Gatti, nel 2008, in un’intervista rilasciata per il documentario U Stisso sangu, aveva lanciato l’idea di uno sciopero nazionale dei lavoratori immigrati. Due anni dopo, quell’auspicio è divenuto realtà. E il Primo Marzo 2010 non è stato un punto di arrivo, bensì di partenza, nonostante le mille difficoltà, gli ostacoli, le invidie imbarazzanti di quelle organizzazioni sindacali che i lavoratori migranti (e non solo) li hanno troppo spesso ignorati o sacrificati all’altare del potere. Un movimento di 300mila persone, immigrati e italiani, comprese le seconde generazioni, i cui genitori hanno scelto l’Italia, lavorato duramente per rimanervi e per ottenere la cittadinanza. Una miscellanea di voci, accenti, sguardi, colori diversi, che, nel rumore civile dei cortei gialli, sono diventati un suono unico, un grido pacifico di ribellione ad un sistema politico ed economico che gioca con la vita degli esseri umani, mortificandone il sacrificio, umiliandone i sogni, attentando alle loro speranze. Ma non c’è regime che sia in grado di soffocare la speranza degli uomini. Chi ha la convinzione arrogante di fermare il mare con un dito, usando leggi e strategie della paura, maneggiando con disinvoltura lo strumento del ricatto e della repressione, spesso non tiene conto dell’effetto “perverso” (rispetto alle proprie intenzioni) che l’esasperazione di una strategia liberticida produce. Tutto si ritorcerà contro chi ha scelto di usare il destino di una massa di persone come mezzo di
Capitolo I
Storie, le strade del primo marzo Rosario Cauchi Giorgio Ruta Francesco Di Martino Giuseppe Portuesi
Cassibile, Siracusa, Catania: una staffetta per i diritti di base
Il lavoro migrante in Italia non può più descriversi alla stregua di un fenomeno sporadico: più di quattro milioni di presenze regolari; una costante attività in settori totalmente abbandonati dalla manodopera nostrana; apporti essenziali soprattutto in sostituzione di un welfare state defunto da decenni, qualora si fosse mai radicato nella penisola. Ma i lavoratori, come ovvio, non possono solo sottostare ad obblighi e doveri di ogni genere, per non parlare delle vessazioni e delle offese schiaviste sofferte da migranti privi di permesso di soggiorno, dovendo, invece, agire allo scopo di migliorare condizioni esistenziali, troppo spesso precarie. Migranti e diritti di base; disvelamento di falsi ed ingenui luoghi
comuni; rispetto e dignità. Pretese, o più semplicemente richieste, poste a fondamento di un’intera giornata dedicata al confronto, all’abbandono di una penombra troppo spesso soffocante, alla protesta ed alla progettualità di scenari, di vita e di coesistenza, altri rispetto all’esistente. Tutto questo è stato il primo Marzo italiano, al pari di quello siciliano. Un tragitto, ideale e fisico, ha unito, nel corso di un lunedì assai diverso dagli altri, tre città, Cassibile, Siracusa e Catania, nel tentativo di far comprendere, anche a chi non se ne interessa o finge di non accorgersene, l’attuale affronto patito da lavoratori, uomini e donne, vessati da normative e consuetudini sociali tutt’altro che conformi alle modalità dell’accoglienza e della solidarietà. “Qua a Siracusa si sta bene, io gioco a calcio in Promozione con una squadra che si chiama Belvedere, mi pagano, ho una casa insieme ad un amico; il vero problema, però, è che i giovani, anche della mia età, sono proprio scemi, quando mi vedono insieme ad altri africani iniziano a prendermi in giro per via della pelle; io capisco molto bene la differenza tra una battuta ed un insulto”; questo mi dice, mentre il corteo si accinge ad accedere all’area di Ortigia, Hamad, nato in Guinea, e giunto in Italia da quasi due anni, perseguendo la medesima sorte di alcuni fratelli stabilitisi, però, in Francia e Belgio. “Quello che non riesco a capire da quando sono nel vostro paese è la differenza che ho notato con altre nazioni; in Francia e Belgio
Capitolo II
I volti del primo marzo Rosario Cauchi Giorgio Ruta Francesco Di Martino
Moussa Un lavoro e un tetto
Moussa è alto, fisico da atleta coperto da jeans e polo blu. Moussa significa Mosè. E lui va fiero di questo nome. Viene dalla Costa D’Avorio, migliaia di chilometri distante da noi. È arrivato in Italia dopo un viaggio interminabile. Faceva l’autista ma un giorno decide di lasciare tutto. Una situazione politica insostenibile e una voglia di futuro. E per Moussa, come per tanti altri giovani, arriva il momento di tentare la fortuna: direzione Italia. Parte, ma il suo cammino dure tre anni. Tre lunghi ed interminabili anni a combattere contro parassiti che gli sottraevano denaro ma non la forza di fare ancora un passo verso la terra promessa. “Non avevo soldi e quindi mi dovevo fermare molto. Ci sono voluti tre anni prima di arrivare qui”. Ogni passo una conquista e un sogno sempre più vicino. Ogni passo ha, però, davanti a se mille ostacoli. “Non tutti ce la fanno a superare il deserto. Io ho camminato per quattro giorni e poi mi hanno arrestato i libici”. Sembra un macabro gioco dell’oca dove si rischia di ricominciare dal via o sostare in carcere. Un gioco dell’oca che ha come pedine uomini in carne e ossa. Uomini che rischiano tutto pur di sperare. Moussa ricorda bene le carceri libiche: non riesce a scordare quei luoghi dove la parola diritto non entra tra le mura grigie. “Io sono stato un mese in carcere. È stato orribile. Ci picchiavano ogni mattina.” – si ferma e ricomincia con un tono fermo – “Io ero malato. È stato difficile”. Ma dopo un mese Moussa esce e ricomincia ad avvicinarsi a quel mare che lo divide da una nuova vita. Moussa sa che un amico lo aspetta in Italia, ma non trova nessuno. Deve fare tutto da solo; si ritrova a Milano ma non sta bene e allora via verso
Sud. “Qui sto molto meglio. A Milano non mi sono trovato bene”. Moussa ha una storia simile a quella di tanti altri migranti. Una storia di sogni e soprusi. Ma la sua storia ha un presente raro, molto raro: ha un tetto e un lavoro: vive tra il barocco di Ortiga, a Siracusa. Divide una casa con un suo amico, pagandola 300 euro al mese. “Adesso pago tutto io, il mio amico non ha lavoro”. Moussa però è soddisfatto, ha una casa e pure un impiego. Lavora in un negozio e quando parla del suo datore di lavoro gli si illuminano gli occhi: “E’ una bravissima persona. Io devo tanto a lui. Adesso lavoro e sono felice”. Moussa ce l’ha fatta. Ha dovuto sudare tre anni di viaggio e di violenze per trovare un lavoro. Adesso si stenderà a casa soddisfatto, dopo una giornata a faticare, e manderà qualche soldo a casa. Con la speranza di poter rimettere piede presto nella sua Costa D’Avorio.
Capitolo III
I migranti sul territorio Rosario Cauchi Massimiliano Perna Giorgio Ruta
Capitolo IV
I nuovi schiavi
15 euro al giorno e nessun diritto. Queste sono le condizione lavorative di molti migranti in provincia di Ragusa. Il comune capofila di questa classifica del nuovo schiavismo è Vittoria. Città rossa e ricca; città che ha saputo trasformare le terre sabbiose in oro, costruendoci le serre. Adesso a lavorare nell’agroindustria sono soprattutto i migranti. Ragazzi provenienti dal Nord Africa e dall’Est Europa. Quest’anno la comunità rumena ha superato quella tunisina, storicamente impegnata nel comparto agricolo a Vittoria e ben integrata nella vita della città. Questo è il possibile risultato di un mutamento dei flussi dovuto a cause geopolitiche, ma anche, più semplicemente, a fattori economici: i romeni, tutto sommato, “costano” meno.C’è un’inversione di tendenza nel livello salariale. La crisi colpisce anche questo settore e si abbatte soprattutto sui migranti, meno protetti e più ricattabili. “La giornata di lavoro a Ragusa costa 50 euro lordi” – dice Peppe Scifo, segretario della Camera del lavoro di Vittoria – “e fino a qualche anno fa anche i magrebini venivano pagati tanto. Con l’arrivo dei romeni la situazione è cambiata. Lavorano anche dieci ore, per tutta la settimana, domenica inclusa, e vengono pagati una miseria: 1520 euro al giorno”. I romeni sono più ricattabili, vengono da villaggi molto poveri . Inoltre, incombe un’altra preoccupazione: c’è il rischio che ci sia un sistema di intermediazione tra la Romania e l’Italia. Una sorta di caporalato internazionale. È probabile che la criminalità rumena si possa trovare in sintonia con la criminalità locale per far arrivare e sfruttare lavoratori romeni. “È chiaro che l’inquinamento della criminalità organizzata c’è” – continua Peppe Scifo – “Abbiamo
Rosarno - Cassibile Testi Rosario Cauchi Massimiliano Perna
Cassibile e le terre del marchese
Cassibile è un quartiere di Siracusa, un borgo rurale distante circa 14 km dalla città. La sua storia è strettamente connessa con quella della stirpe del marchese Loffredo Silvestro da Messina, che fondò il borgo tra il 1850 e il 1870. Ma è soltanto nella prima metà del secolo scorso che Cassibile comincia a popolarsi, grazie all’arrivo di numerose famiglie di contadini, venuti da varie parti della Sicilia per lavorare la terra. È stata dunque l’immigrazione, quella interna all’isola, a far crescere il borgo dei marchesi, che oggi conta 5800 abitanti. Un paesino, che soffre la lontananza da Siracusa e che, al suo interno, vede crescere piccoli movimenti che da anni chiedono l’autonomia e la trasformazione in Comune. Una follia, un’idea che ha il solo scopo di consentire ad un consolidato gruppetto di notabili, che si diletta nella gestione politica del feudo rurale, di mantenere il proprio consenso elettorale e, dunque, le proprie poltrone in Consiglio comunale o in quello di quartiere. Non c’è distinzione tra maggioranza ed opposizione, in quel di Cassibile, quel che conta è solo mantenere vivi i rigurgiti di pancia della popolazione e trasformarli in voto. Ma l’autonomia è un sogno irrealizzabile oggi e quindi non basta per portare a compimento una tale strategia. E allora, poiché in Italia i furbi si moltiplicano a vista d’occhio, ecco che subito si annusa il tema principale, il collante che unisce il popolo, specialmente in un contesto chiuso ed isolato come Cassibile, nell’Italia di oggi: la questione immigrazione, affrontata in termini di sicurezza e di separazione Noi-Loro. Nel borgo che si sviluppò grazie ai lavoratori siciliani delle campagne, stagionali poi divenuti stanziali, i discendenti di quegli
immigrati siciliani si uniscono e fanno muro contro i nuovi migranti, quelle poche centinaia di nordafricani e centroafricani che giungono da ogni parte d’Italia per impiegarsi, da febbraio a giugno, nella raccolta delle lattughe, delle patate e delle fragole. Il punto di frattura culturale è sempre quello: l’assenza di memoria, il black-out di ogni sentimento di apertura, comprensione, la rinuncia preventiva a qualsiasi tentativo di incontro, di condivisione. Nel bel mezzo di tutto ciò, ovviamente, galleggia il malaffare, lo sfruttamento più becero, che fuoriesce dalla terra molle e allunga i suoi tentacoli, come catene pronte ad incollarsi sulle caviglie, sui polsi, sul collo di un esercito di nuovi schiavi, vessati, umiliati, feriti, costretti al silenzio per potersi guadagnare da vivere, obbligati, come se non bastasse, a sopportare gli insulti e il razzismo della gente del posto, la stessa sulle cui tavole fanno bella mostra prodotti della terra la cui polpa e il cui succo si mischiano con il sudore ed il sangue dello sfruttamento. Come Rosarno, anche Cassibile è luogo di lavoro nero, di negazione dei diritti, di un modello di neoschiavismo che si nutre, famelico, dell’indifferenza dei cittadini e delle istituzioni politiche e non solo. Le campagne sono piene di braccia a basso costo, la cui selezione è affidata quotidianamente ad una nutrita schiera di caporali che, nelle primissime ore del mattino, fanno comparsa lungo la via Nazionale, il rettilineo che attraversa il borgo tagliandolo in due, con la loro sfacciata flotta di automobili, furgoni e camioncini. Ad attenderli qualche centinaio di lavoratori, nordafricani o dell’Africa sub sahariana, per la gran parte giovani, giunti a Cassibile da altre zone della Sicilia, dalla Campania o dalla piana di Gioia Tauro. Arrivano a flussi sparsi, raggiungendo un totale che varia ogni anno dalle 300 alle 450 persone. Sono ragazzi stanchi nei pensieri e nel fisico, ma determinati a resistere, consapevoli di avere poche scelte. Devono lavorare, è l’unica maniera per vivere e per non rendere vana una vita di sacrifici, propri e delle proprie famiglie. Da fine febbraio a fine giugno, dunque, sono loro la manovalanza delle imprese agricole, sia di quelle grosse che di quelle più piccole. Migranti in cerca di lavoro, condannati ad un esodo perpetuo, in quel periodo giungono tra gli alberi e la terra di Cassibile, scompaiono nella notte e riappaiono la mattina all’alba, come fantasmi puntuali