c i h p a r G ign s e D e n o G d l i W
Graphic Desgin Gone Wild. Il progetto oltre il modernismo di Sara Poli
UniversitĂ iuav di Venezia fda clasvem 2007 | 2008 Corso di Storia della Grafica prof. Carlo Vinti
Indice
Introduzione Design Without Boundaries La prima rivoluzione digitale L’avvento della composizione a freddo Come cambiò il mestiere del tipografo Potenzialità e limiti Alla ricerca di una nuova estetica Reazioni al modernismo L’egemonia della scuola svizzera Come Weingart uscì dalla “gabbia” La tipografia espressiva Un ritorno all’Art Nouveau Dal pop al postmoderno: il vernacolare Pop Art e tipografia Un nuovo punto di vista La grafica auto-prodotta La controcultura giovanile Il fenomeno fanzine 1984: Il primo Macintosh Il 1984 non fu come 1984 Reazioni contrastanti La New Wave californiana Dalla Svizzera agli Stati Uniti Lo “stile” degli anni Ottanta
Introduzione
“Design without boundaries” A cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione di Neue Graphic, manifesto della scuola grafica svizzera, viene spontaneo domandarsi che fine abbiano fatto i canoni della buona composizione e l’interesse per l’estetica nel progetto grafico. La produzione contemporanea – nella sua maggior parte e senza interessarsi a tutto il fiorire di grafica non professionale spesso molto discutibile – sembra quanto di più lontano ci possa essere dall’ordinato approccio modernista. Tuttavia non sarebbe giusto pensare che il graphic design contemporaneo sia il frutto di un generico decadimento dei gusti o la traduzione visiva dell’involuzione di un’epoca – almeno non solo –. Lo stile o il “non stile” che si può iniziare a riconoscere già dagli anni Ottanta può essere riletto in modo un po’ meno negativo, partendo dall’analisi storica degli eventi che avvennero nei trent’anni precedenti. Così ci si può sorprendere nello scoprire, ad esempio, che la grafica californiana ha alcune origini in Svizzera, oppure che grafici quanto mai sperimentatori ebbero una formazione molto classica, nella profonda risoluzione che è necessario imparare le regole prima di romperle. Ma anche che, come sempre accade, anche la tecnologia gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo storico di qualunque disciplina. Non bisogna, comunque dimenticare che parallelamente agli avvenimenti più rivoluzionari e ai casi più eccezionali, si mantiene anche sempre vivo un fronte della grafica più tradizionale e tradizionalista che non venne mai travolta, se non in minima parte dall’ondata né del modernismo, né del postmodernismo – e talvolta neppure dallo studio del progetto grafico –.
nella pagina a fianco: copertina del catalogo della mostra Pacific Wave. California Graphic Design, John Hersey 1987.
Questa ricerca si pone come obiettivo di ripercorrere la storia dei più radicali cambiamenti della grafica a partire dal dogmatismo della Scuola Svizzera degli anni Cinquanta, fino alle più ardite sperimentazioni New Wave, analizzando i profondi mutamenti nello stile, per cercare di capire come il design abbia abbattuto tutto i suoi confini.
La prima rivoluzione digitale *
L’avvento della composizione “a freddo” Nel 1960 il Times Literary Supplement riferì di una nuova tecnologia “a freddo”: il procedimento di fotocomposizione, diceva il settimanale inglese, interessava il mondo della stampa, degli affari e della cultura in generale. Finalmente, dopo anni di gestazione iniziata a partire dal 1945, il mezzo che avrebbe rinnovato per sempre il mondo della grafica – e non solo, come ben si evince dal commento sopra citato – era arrivato sul mercato: la fotocomposizione avrebbe gettato le basi della rivoluzione digitale. Questa nuova tecnologia si basava sull’impressione chimica di pellicole fotografiche, su cui veniva riprodotto sia il testo, sia le immagini. Inizialmente la composizione a freddo funzionava con un procedimento simile a quello della Monotype: produceva un nastro perforato che trasmetteva delle istruzioni alla compositrice. La composizione che ne risultava, tuttavia, era difficile da correggere: era necessaria una nuova esposizione fotografica, ed era difficoltoso inserire anche una sola lettera nel testo già composto. Nel corso del decennio si cominciarono a utilizzare i computer, dotati di programmi per giustificare la composizione e con memorie che potevano richiamare il testo sul video crt (tubo a raggio catodico). Ma i primi programmi per computer non erano del tutto affidabili, dal momento che non sempre offrivano la stessa qualità nella spaziatura e nella sillabazione un tempo garantita da un buon compositore; un problema che in realtà continua a presentarsi tutt’oggi, non essendo mai stato completamente risolto. La composizione a caldo, comunque, venne poco alla volta sostituita da quella a freddo, meno costosa e più veloce, e dalla stampa offset, più adatta alla crescente domanda di una migliore qualità della stampa a colori. Questo procedimento, oltre a rivoluzionare il modo in cui i caratteri venivano utilizzati, influì anche sul modo in cui essi venivano progettati: un carattere poteva essere tracciato direttamente sul video, lasciando che il programma che il programma svolgesse i compiti più noiosi e ripetitivi. In questa evoluzione ebbe un ruolo importante il sistema Ikarus, elaborato da Peter Karow ad Amburgo. Lanciato nel 1974, fu subito adottato dalla Berthold e dalla Linotype e si diffuse in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone. Permetteva di convertire le immagini video in disegni al tratto, oppure i disegni su carta in informazioni digitalizzate. Elaborava inoltre automaticamente le varianti di un originale, facendo così risparmiare la fatica di creare i diversi spessori, le inclinazioni, le espansioni e le altre modifiche necessario per creare una famiglia completa di caratteri.
nella pagina a fianco: Progettisti, manifesto per la mostra allo Stedelijk Museum, Wim Crowel 1968.
* la maggior parte del testo di questo capitolo è tratto da Lewis Blackwell, Caratteri e tipografia del XX secolo, Zanichelli, Bologna 1995.
Come cambiò il mestiere del tipografo Il lavoro del tipografo, rimasto invariato per quasi cinque secoli, cambiò completamente, nel giro di pochissimi anni. Certo, anche l’invenzione di metodi di fusione meccanica come quelli della Monotype prima e dalla Linotype dopo, avevano profondamente mutato un mestiere antico e altamente specializzato; tuttavia, mai come con la fotocomposizione, e successivamente con il passaggio al Desktop Publishing, la professione aveva subito un cambiamento così radicale, che ne avrebbe per sempre modificato gli assetti e le qualità. Innanzitutto non era più necessario che i caratteri venissero disegnati a mano e poi incisi: il tipo digitale, che si materializza al positivo su una pellicola plastica, ha eliminato l’antico piombo, e con esso tutta il materismo da secoli legato sia alla composizione sia alla stampa. Anche il modo in cui la pagina tipografica veniva composta cambiò radicalmente: nelle forme, ma soprattutto negli sforzi richiesti per ottenere determinati aspetti. Ad esempio, aggiungere spazio, posizionando le lettere più lontane tra loro rispetto alla composizione normale, non era diffìcile nella composizione a caldo: bastava inserire un cuneo. Restringerlo era tutt’altra faccenda: bisognava limare la lettera di metallo, e per le sporgenti era necessario incidere un apposito punzone in cui la parte aggettante della lettera fuoriusciva dal fusto del carattere. Con la fotocomposizione, invece, bastava soltanto specificare che il testo andava composto con una o due unità di spaziatura in meno, e non era necessario aggiustare le lettere una per una. Tutto ciò consentiva di stringere i caratteri tanto da sovrapporre le lettere, di schiacciare le parole al punto da renderle illeggibili, raggiungendo forme fino ad allora pressoché inesplorate. Come nel caso del i passaggio alla composizione a caldo, i produttori si precipitarono a corredare i loro sistemi di fotocomposizione di un’imponente gamma di caratteri, alla quale aggiunsero qualsiasi cosa sapesse di novità; il risultato fu un inevitabile proliferazione di disegni approssimativi. Le distorsioni prodotte dalla pratica diffusa di ingrandire il carattere rispetto alla dimensione della matrice, anziché fornire matrici delle varie misure, erano imputabili a una mal riposta speranza di risparmiare tempo: non si considerava un aspetto ben noto a qualsiasi disegnatore professionista, cioè il fatto che, per mantenere al carattere lo stesso aspetto, sarebbe stato necessario apportarvi lievi cambiamenti nelle diverse dimensioni. In molti casi, inoltre, i fotocompositori non rispettavano gli standard compositivi di valore, equivalenti a quelli 10
in alto: composizione con caratteri di metallo. in basso: pellicola diatronica per la Berthold Fotosetter.
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della vcchia composizione a caldo. E il declino della qualità tipografica non si limitò ai metodi per creare i caratteri, ma si estese ai metodi di stampa. Il passaggio alla litografìa offset e l’avvento della stampa a getto d’inchiostro o a laser produssero una tale quantità di problemi da far auspicare nuove forme di controllo. a sinistra: pubblicità della metà degli anni Sessanta realizzata con la Photo Typositor,
Potenzialità e limiti
apparsa nel 1961.
Improvvisamente i caratteri erano diventati un’immagine flessibile, una pellicola in positivo, facile da manipolare fotograficamente, invece di essere un oggetto metallico, rigido, disegnato in rilievo e in negativo. Si potevano ingrandire, rimpicciolire, stringere, allargare, crenare, sovrapporre a piacimento; il tutto in pochi attimi, mentre un tempo occorrevano ore di composizione attenta prima di ordinarli sul banco del tipografo. Tutto questo era incoraggiante per chi amava le novità e la sperimentazione, anche la più azzardata in termini di leggibilità e funzionalità, e deprimente per coloro che erano attenti ai particolari e alla “buona composizione”. Cominciarono ad apparire lettere mal disegnate o “povere”, fornite da produttori di apparecchiature di fotocomposizione o da stampatori che ricavavano un’intera gamma di corpi a partire da una sola matrice, con l’inevitabile risultato di deformare il disegno. A ciò si aggiunga che chi utilizzava le nuove tecniche spesso non aveva una valida preparazione alle spalle: mentre nel procedimento a caldo contava soprattutto l’abilità del compositore, un’abilità in cui il grafico confidava, o che addirittura dava per scontata, con le nuove tecnologie scomparvero molte fasi di controllo intermedio nelle fasi di prestampa che garantivano alcuni aspetti di qualità del prodotto, come, ad esempio, una buona spaziatura. Scomparvero raffinatezze come le legature – in parte perché la crenatura, ormai più agevole, le aveva rese superflue – ma i tipografi più esperti ne sentirono la i mancanza, infatti, il nuovo sistema finì per svalutare la competenza del compositore, riducendola a quella di un buon dattilografo. 12
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L’invenzione del riconoscimento ottico dei caratteri (ocr), la creazione dei primi caratteri leggibili dal computer e la necessità di creare delle lettere che potessero essere visualizzate su un monitor, fornirono l’impulso adatto all’inizio della ricerca di un’estetica nuova, sviluppata sfruttando a pieno i nuovi mezzi offerti dal digitale, che scuotesse i dogmi della grafica tradizionale e tradizionalista, ma mantenesse anche degli adeguati valori di qualità del prodotto finito, senza tuttavia limitarsi al ridisegno di caratteri già esistenti e pensati per la composizione a caldo. L’ocr-a e l’ocr-b si ispirano agli standard per lettere leggibili al computer, stabiliti nel 1965 dalla European Computer Manifactures’ Association (ecma). L’ocr-a venne realizzato dagli ingegneri della ecma nel 1966. L’ocr-b venne prodotto due anni dopo, con la consulenza grafica di Adrian Frutiger: il disegno si basa su una matrice di 18x25 punti, ed è quindi circa quattro volte più dettagliato rispetto alla precedente versione. Tuttavia ancora una volta – dopo gli esperimenti di geometrizzazione svolti ad esempio all’interno della Bauhaus – lettere che erano esattamente descrivibili, come devono esserlo le forme generate al computer, non erano esteticamente soddisfacenti come quelle fatte a mano libera e così passata l’era spazial-robotica coincidente con la gara spaziale tra usa e urss questo tipo di carattere passò ben presto di moda. Un interessante punto di vista e di riflessione in questo settore lo offrì, però il grafico olandese Wim Crouwel che nel 1967 presentò il suo New Alphabet, un alfabeto semplificato, costituito unicamente da elementi verticali e orizzontali, privo cioè di diagonali e di curve, in cui tutti i caratteri avevano la stessa larghezza e alcune lettere erano talemente semplificate da richiedere un codice di lettura particolare. La provocazione di Crouwel va intesa – come egli stesso argomentò in seguito – «come una proposta di natura sostanzialmente teorica» perché «la macchina deve essere accettata come un dato essenziale, se vogliamo far fronte alla necessità della nostra epoca». Una lezione questa che sarebbe stata messa in pratica con successo negli anni successivi.
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The quick brown fox jumps over the lazy dog
Alla ricerca di una nuova estetica
in verticale: composizione in ocr-a ,
ecma
1966.
in alto: New Alphabet, copertina del volume dedicato, all’interno della collana sperimentale Kwadraatblad edita dall’azienda olandese De Jong & Co. in basso: New Alphabet, Wim Crouwel 1967.
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Reazioni al modernismo
L’egemonia della Scuola Svizzera Con la fine della Seconda Guerra Mondiale la società occidentale conobbe un periodo di grande espansione economica e una situazione di relazioni internazionali relativamente stabile: erano gli anni del boom economico, caratterizzati da un generale senso di ottimismo nei confronti del progresso, inteso principalmente come produzione e consumo di massa. Questo diffuso clima di fiducia nei confronti del futuro trovò la sua espressione nello stile che si consolidò in Svizzera negli anni Cinquanta. La neutralità della Svizzera durante gli anni del conflitto mondiale, così come una forte tradizione di democrazia diretta e una società estremamente regolata da leggi e consuetudini condivise, giocarono un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’approccio grafico nazionale. Lì, piuttosto che altrove, poterono consolidarsi alcuni degli approcci modernisti nati negli anni Trenta in Germania. La pubblicità era vista essenzialmente come un mezzo d’informazione utile e in base a ciò doveva essere quanto più possibile oggettiva e impersonale. Se il prodotto doveva essere presentato in quanto tale, anche qualsiasi altro elaborato grafico veniva realizzato rispondendo a degli ideali di razionalizzazione dello spazio e pulizia formale, esemplificati da rigide gabbie compositive ed economia di corpi di caratteri. La dichiarazione fondativa di questo tipo di grafica può essere visto nel testo di Max Bill Über Typographie del 1946, in risposta agli attacchi che Ian Tschichold aveva mosso allo stile modernista dei designer delle scuole di Zurigo e Basilea. Ma è solo a metà degli anni Cinquanta che la tipografia svizzera si afferma a livello internazionale, grazie alla diffusione di riviste come Neue Graphik, fondata nel 1956 da Richard Lohse, Hans Neuburg, Carlo Vivarelli e Joseph Müller-Brockmann, che ne tracciano i dogmi: «il nuovo che questa grafica ha in sé – si legge nell’introduzione del primo numero – è innanzitutto la sua chiarezza quasi quantificabile. E nonostante i particolari avvincenti, essa non seduce ricorrendo al fascino dell’ornamento: impiega i mezzi che garantiscono l’equilibrio e la tensione formale e cromatica». Un’altra dichiarazione di principi della tipografia svizzera è presente nel testo di Karl Gerstner del 1959 Integrale Typographie, in cui si afferma che «testo e tipografia non sono tanto processi consecutivi, su diversi piani, quanto piuttosto elementi che si compenetrano» Ulteriori regole vengono esplicitate sempre da Müller-Brockmann nel 1961 quasi come in un manifesto programmatico: la tensione verso l’impersonalità e l’obiettività, attraverso l’eliminazione degli effetti espressivi o decorativi e 16
nella pagina a fianco: Visible Language, progetto di copertina per la rivista, sovrapposizione di collage e retini trattata in camera oscura, Wolfgang Weingart 1974–1976.
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l’applicazione di una gabbia rigorosa; la limitazione di corpi e caratteri; l’uso del testo non giustificato; l’utilizzo della fotografia piuttosto che dell’illustrazione. Il proliferare di regole applicate forse troppo rigidamente portò alla stagnazione dello stile svizzero in un elenco di vuoti stilemi che fecero nascere numerose polemiche all’interno del mondo della grafica. Le principali critiche che vi venivano mosse erano: un’eccessiva attenzione all’aspetto estetico della pagina, senza badare all’articolazione del contenuto; la riduzione delle parole a semplici blocchi di colore e all’annullamento del loro significato; l’eccessivo utilizzo di caratteri bastone; il rifiuto di espedienti quali la rientranza a inizio paragrafo e l’utilizzo di più corpi di composizione per articolare i testi; una mancanza di differenziazione degli elaborati. Inoltre il cambiamento degli assetti socio-politici mondiali rese sempre più difficile l’accettazione dello stile che era diventato il sinonimo delle corporate image delle multinazionali: con la fine di un’epoca caratterizzata dal confort e dalla fiducia nell’ordine costituito, alla fine degli anni Sessanta e ancor più durante la recessione degli anni Settanta, vennero meno gli elementi fondamentali della prosperità dello stile svizzero.
a partire da sinistra in alto in senso orario: numero 1 della rivista Neue Grafik 1958. Manifesto per la sicurezza stradale, Josef Müller-Brockmann 1953. L’intera gamma delle versioni del carattere Univers, Adrian Frutiger 1954–57. Manifesto
Come Weingart uscì dalla “gabbia”
per il Stadttheater di Zurigo, Josef Müller-Brockmann
Una delle reazioni più interessanti al modernismo della scuola svizzera nacque proprio al suo interno, nel lavoro di Wolfgang Weingart. Tedesco d’origine, dopo una formazione da artista e un apprendistato da compositore a Stoccarda, Weingart si trasferì nel 1964 a Basilea, il cuore della tipografia svizzera, dove ebbe come insegnante Emil Ruder, uno degli esponenti più conservatori dello stile svizzero. La sua ricerca si concentrò inizialmente sul tentativo di rinnovare la tradizione modernista nel campo della tipografia, portando ad una maggiore espressività della pagina e ad un marcato dinamismo della struttura visiva del testo. Il suo tentativo fu di lavorare per mezzo di essa – possibile grazie a sapienti cono18
1962. Copertina di Schiff Nach Europa, Karl Gestner 1957.
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scenze artigianali – a una nuova specie di tipografia, più adatta ai nuovi tempi. Così Weingart si allontanò dal gusto dell’ordine svizzero, realizzando strutture di spiazzamento e di disturbo nella configurazione dei materiali visivi, che tuttavia potevano essere a loro volta tacciate di formalismo, proprio come i modelli da cui desiderava in ogni modo allontanarsi. I suoi esperimenti non furono esclusivamente grafici, ma erano basati su un interesse per la semantica, la sintassi e campi di ricerca più propriamente linguistici. Il suo intervento sulla forma delle parole era anche volto a capire i limiti dentro ai quali i caratteri tipografici mantengono la loro leggibilità e il loro significato di lettere e, accostati tra loro, il loro significato di parole. Egli era convinto che alcune modifiche grafiche fossero addirittura in grado di accrescere il potere di medium significante dei caratteri. La sua peculiarità stava nel modo in cui, all’interno del suo repertorio limitato di caratteri, – la sua preferenza fu sempre per l’Akzidenz Grotesk, come afferma egli stesso «sono cresciuto con esso e lo amo, ha nella sua stessa natura una certa bruttezza che lo rende il mio preferito» – egli aggredì l’immagine delle lettere, tagliandole o distorcendole in molti modi. Ciò gli fu permesso anche dalla sua costante attenzione e curiosità per i mezzi tecnici della tipografia: «per me la grafica è una relazione a tre tra idee progettuali, elementi tipografici e tecniche di stampa». Così dopo aver sperimentato nei modi più imprevedibili le possibilità del tipo di metallo, accolse con entusiasmo il progresso tecnologico, sfruttando le nuove potenzialità delle stampe fotografiche su pellicola e dei nuovi materiali plastici, che gli consentirono di intrecciare elementi tipografici portati al limite del pittorico con immagini fotografiche, variamente rielaborate con raster e altri espedienti tecnici. Dal 1968, dopo il ritiro di Ruder, Weingart fu chiamato come insegnante a Basilea, proprio da Armin Hoffmann, altro esponente di spicco dello stile svizzero, che però aveva visto nel talento dell’allievo “terribile” il futuro della grafica dopo il modernismo. Infatti, grazie a Weingart, ai suoi insegnamenti e alle conferenze che dalla metà degli anni Settanta tenne negli Stati Uniti si sviluppò il movimento che nei decenni a venire avrebbe calpestato i dettami della scuola svizzera.
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a sinistra: Composizione circolare, riproduzione della stampa di un asseblaggio libero di tipi (verso), Wolfgang Weingart 1962–63.
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a destra:
a sinistra, in alto:
Composizione
due pagine del
circolare,
numero speciale
riproduzione
di Typografische
della stampa
Monatsblätter
di un asseblaggio
pubblicato
libero di tipi (recto),
nel dicembre 1976,
Wolfgang Weingart
progetto e commento
1962-63.
di Wolfgang Weingart. al centro: manifesto per il comune di Basilea, Wolfgang Weingart 1981. Copertina di un libro Wolfgang Weingart, 1972–73. in basso: Wolfgang Weingart 1981. Manifesto per una conferenza, Wolfgang Weingart 1980. Manifesto per una mostra di fotografia. Wolfgang Weingart 1976.
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La tipografia espressiva Non fu solo in Europa che si mise in discussione il canone modernista. Anche oltreoceano il progetto grafico, stimolato dalle nuove possibilità tecnologiche, si trovò sempre più stretto nelle ferree gabbie svizzere, soprattutto nelle agenzie pubblicitarie che cercavano un linguaggio in grado di sedurre i consumatori, ben lontano dal valore dell’obiettività applicabile nella società svizzera. Era ora possibile manipolare la tipografia, fino a renderla sempre più simile ad un’immagine, senza tuttavia ricercare elementi propri dell’illustrazione e senza rinunciare a una buona qualità formale, ma ricercando valori comunicativi fino ad allora impensabili. La “tipografia allusiva” sarebbe diventata un punto fermo dello stile delle agenzie pubblicitarie americane e inglesi. In questo tipo di lavoro il concetto era della massima importanza: una volta ridotta la comunicazione al suo elemento chiave e trasmesso il messaggio nel modo più semplice e divertente attraverso un’analogia tipografica, tutto il resto – leggibilità, precisione nella composizione del testo – passava in secondo piano. Tra i protagonisti dell’esplorazione del potenziale visivo e concettuale della tipografia ci furono numerosi grandi grafici ed art director che caratterizzarono fortemente il modo in cui i loro clienti venivano percepiti, sperimentando per primi tendenze che sarebbero sfociate nel branding. Ad esempio Reid Miles, col suo lavoro per la casa discografica Blue Note, creò un rapporto sempre più stretto tra carattere, impaginazione e fotografia, facendoli interagire tra loro, creando uno stile unico che rafforzò l’immagine dell’etichetta, facendone un punto di riferimento. Molte delle sperimentazioni visive del periodo sembrano piuttosto elaborate, ma i lavori migliori, nel presentare immagini a un pubblico sempre più esigente e ormai assuefatto alla comunicazione di massa, esplorano i doppi sensi e tutti i paradossi possibili della tipografia espressiva. In questo filone, particolarmente interessante è il lavoro di Herb Lubalin e i suoi esperimenti soprattutto nel lettering editoriale: Mother&child, AvantGarde – dal cui logo trasse il disegno dell’omonimo carattere adatto alle azzardate crenatura consentite dalla fotocomposizione –, U&lc, furono il fertile terreno in cui poté sperimentare non solo nuovi accordi tra caratteri mai prima di allora accostati, ma anche nuove forme di lettura, di tensioni visive di fronte ad un testo, e soprattutto l’interpretazione e l’uso psicologico dei caratteri. L’approccio riduttivo, concettualizzante, non poggiava soltanto su un principio 24
in alto: testate di riviste disegnate da Herb Lubalin. in basso: copertine di due album del jazzista Jackie McLean pubblicati dalla Blue Note, Reid Miles 1965.
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visivo, ma su una base più ampia, cercando di stimolare i sensi del pubblico cui era destinato, fondandosi sulle associazioni suggerite dal soggetto per arrivare a una soluzione più ampia della somma delle sue parti. Grazie a queste caratteristiche quest’orientamento diede vita a forme di pubblicità più stimolanti di quelle di stile modernista e mostrò vie alternative di approccio alla tipografia. a sinistra: copertina e doppie pagine della rivista
Un ritorno all’Art Nouveau
The Push Pin Graphic a destra dall’alto:
Non è un caso se come reazione ad un periodo in cui erano state esaltate le qualità dell’oggettività, della pulizia formale, della fotografia e dei valori industriali della modernità, si facesse strada una riscoperta dello stile Art Nouveau, esattamente ai suoi antipodi. La tendenza figurativa fu vista come una rivincita dell’idea e della personalità contro ogni sterile formalismo. Il recupero della decorazione, soprattutto floreale, dell’illustrazione, del lettering disegnato, di una sinuosa libertà espressiva, era il segno di un’estetica più vicina a quella della protesta giovanile della fine degli anni Sessanta: di nuovo il gusto per la decorazione divenne il veicolo di messaggi socialisti di rivolta. Una delle punte più interessanti raggiunte dal filone che negli anni Sessanta guarda a linguaggi più figurativi si trova nel lavoro del Push Pin Studio, attivo a New York dalla metà degli anni Cinquanta, a cui collaborarono grafici del calibro di Milton Glaser, Seynour Chwast e John Alcorn. Le caratteristiche fondamentali di questo studio – apprezzabili anche nei lavori dei singoli protagonisti, che seppur con proprie peculiarità mantennero qualità comuni – furono la perizia tecnica, l’alto livello di invenzione grafica, la capacità mimetica degli stili, l’incredibile talento illustrativo. Tuttavia, il valore raggiunto nei lavori del Push Pin Studio rappresenta una felice eccezione in una corrente stilistica che spesso non andava oltre il puro revival ottocentesco. D’altra parte non deve sorprendere se in un periodo di crisi dello stile si fosse tornati a guardare ad un periodo che aveva fatto proprio della mancanza di stile la sua caratteristica peculiare. 26
manifesto End Bad Breath, Seymour Chwast 1968. Manifesto per un concerto di Bob Dylan, Milton Glaser, 1967.
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Dal pop al postmoderno: il gusto vernacolare
Pop Art e tipografia Gli enormi cambiamenti sociali, ma anche i cambiamenti tecnologici, dai grandi sistemi di stampa alle macchine per scrivere fino ai caratteri trasferibili, indussero a rimettere in discussione la grafica non solo in Europa, ormai libera dall’austerità postbellica, ma anche negli Stati Uniti, dove era in atto una ribellione al consumismo spensierato degli anni Cinquanta. Il più importante movimento artistico del periodo, la Pop Art, nacque dopo, o meglio contro, il predominio dell’arte astratta, e moltissimi tra gli artisti che vi si ispirarono misero nei propri lavori elementi della tipografia locale e della grafica popolare. In un mondo dominato dal consumo, la Pop Art respinge l’espressione dell’interiorità e dell’istintività e guarda, invece, al mondo esterno, al complesso di stimoli visivi che circondano l’uomo contemporaneo: il cosiddetto “folclore urbano”. È infatti un’arte aperta alle forme più popolari di comunicazione: i fumetti, la pubblicità, i quadri riprodotti in serie. Il voler elevare oggetti quotidiani a manifestazione artistica si può idealmente collegare al movimento svizzero Dada, ma completamente spogliato da quella carica anarchica e provocatoria. La Popular Art attinse i propri soggetti dall’universo del quotidiano – in particolare della società americana – e fondò la propria comprensibilità e la propria forza sul fatto che quei soggetti fossero in tutto il mondo e per tutti assolutamente noti e riconoscibili: con sfumature diverse, gli artisti ripresero le immagini dei mezzi di comunicazione di massa, del mondo del cinema e dell’intrattenimento, della pubblicità. La Pop Art infatti usa il medesimo linguaggio della pubblicità e risulta dunque perfettamente omogenea alla società dei consumi che l’ha prodotta. L’artista, di conseguenza, non trova più spazio per alcuna esperienza soggettiva e ciò lo configura quale puro manipolatore di immagini, oggetti e simboli già fabbricati a scopo industriale, pubblicitario o economico. Questi oggetti della strada, resi immagine nelle mani dell’artista pop sono completamente spersonalizzati e si trasformano nelle immagini istituzionalizzate dell’arte colta. L’ironia, le arguzie visive e verbali, l’intenzionale analisi della cultura consumistica “usa e getta” sono collegati ai paradossi e alle ironie della grafica degli anni Sessanta, che a sua volta influì sulla scelta dei caratteri e dell’impaginazione in un circolo vizioso e in un continuo scambio di contaminazioni. Il clima diverso, la rottura con le rigide idee di funzionalità del design e la comprensione del fatto che un messaggio serio poteva essere espresso con umorismo influenzarono profondamente i contenuti della comunicazione commerciale. 28
nella pagina a fianco: copertina di menù per il ristorante Florent, Tibor Kalman 1986.
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Un nuovo punto di vista La nuova attenzione per il mondo dei consumi e per la cultura “bassa” portarono ad una rinnovata attenzione dei progettisti per ciò che veniva prodotto senza essere progettato. La società veniva indagata privilegiando la cultura massiva e diffusa piuttosto che quella delle élite, i fenomeni reiterati piuttosto che gli eventi e gli accadimenti d’eccezione, gli artefatti comuni piuttosto che gli oggetti d’arte e di lusso, le tecniche e gli strumenti operativo-produttivi piuttosto che i costrutti simbolicorappresentativi, la mentalità diffusa invece dei grandi uomini. Per liberarsi dalla rigidezza degli stereotipi moderni, per affrancarsi dai dogmi di quanto appariva ormai come uno stanco e tardivo internazionalismo, alla grafica parve necessario ricorrere alla genuinità dell’ingenuità, alla destabilizzazione delle scuole di pensiero classiche, alle sgrammaticature anti-graziose colte on the road e alla decostruzione casuale del messaggio sino ai limiti più estremi. Nel campo della grafica, un importante contributo a questo sentire diffuso lo diede la pubblicazione nel 1961 del quarto numero della rivista Typographica dedicato interamente alla casualità delle scritture nello spazio urbano. Al suo interno appariva, tra gli altri, un articolo di Herbert Spencer – il direttore della rivista – intitolato “Mile-A-Minute Typography” in cui si proponeva di regolamentare per legge la segnaletica inglese, corredando lo scritto con una raccolta di fotografie in cui si mettono in luce i giochi creati dall’accostamento completamente inconsapevole di scritture diverse. Nello stesso numero era presente anche un altro reportage fotografico che mostrava un interesse per gli involontari décollage e decostruzioni dei muri inglesi; era il fortunato e pluricopiato negli anni successivi “Street Level” di Robert Brownjohn, autore anche della copertina del numero che accostava le immagini di tredici caratteri luminosi fino a comporre la testata della rivista. A dieci anni di distanza un altro importante contributo in questa direzione di recupero del vernacolare arrivò in campo architettonico: apparso per la prima volta nel 1972, Learning from Las Vegas si proponeva di “richiamare all’ordine” tutti quegli architetti che, nel contemplare le loro “eroiche” realizzazioni, si erano dimenticati di prestare attenzione ai bisogni della gente comune. Con questo volume Robert Venturi, Denise Scott Brown e Stefan Izenour si inseriscono a pieno diritto nel filone di pensiero che ha cercato di smantellare quella concezione totalizzante dell’architettura, riportandola dal perseguimento dell’utopia 30
a sinistra: copertina del numero 4 della nuova serie della rivista Typografica curatore Herbert Spencer, fotografie Robert Brownjohn, 1961.
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alla vita di ogni giorno. E Las Vegas, non pianificata e non progettata dagli architetti, rappresentava agli occhi dei tre autori ciò che contraddiceva quel razionalismo alla base dello sviluppo di molte città americane. Questo testo rappresentò una vera e propria sfida per il pensiero architettonico dominante: era necessario essere consapevoli del fatto che spesso i cittadini della “know-nothing culture” conoscessero di più il mondo rispetto agli architetti stessi e se ciò non si fosse compreso si sarebbe corso il rischio di continuare ad aumentare una distanza sempre più incolmabile tra i desideri del mondo reale e gli imperativi categorici dei progettisti. Questa lezione venne accolta con entusiasmo in ogni campo del progetto, fino a sfociare nell’atteggiamento postmoderno che può essere visto come l’accoglimento di tutto quello che il modernismo si diceva avesse rifiutato. Si diceva che il postmodernismo abbracciasse la complessità contro la semplicità, la non ortogonalità contro la griglia, l’essere popolare contro l’elitismo, la diversità contro la monocultura, l’antico contro il nuovo, fosse, insomma, il vero movimento dell’opposizione alla cultura precedente.
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a sinistra doppie pagine di Typographica 4 con la serie di fotografie Street Level, Robert Brownjohn 1961.
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La grafica auto-prodotta
La controcultura giovanile Le rivolte studentesche del 1968, la protesta contro la guerra nel Vietnam e una più accesa lotta politica in tutto il mondo immisero una linfa nuova nel settore della comunicazione visiva. Parole d’ordine come «L’immaginazione al potere» o «Sii realista, chiedi l’impossibile», comparse per le strade di Parigi, tendevano a stravolgere il conformismo culturale dell’epoca; e il fatto che esse fossero scritte a mano sui muri apriva nuove prospettive alla comunicazione visiva. Si cerca una comunicazione che nasca dal basso, che dialoghi con le masse e che sia al servizio di tutti, secondo un sistema egualitario-utopico in cui ciascuno possa avere una voce: era l’inizio di un’ottica “do it yourself” che avrebbe trovato consensi successivamente, quando i mezzi tecnologici si fossero avvicinati alle masse e gli ideali ugualitari si fossero rinchiusi nell’edonismo del singolo. I manifesti politici di quegli anni proposero linguaggi alternativi rispetto a quelli egemoni nella comunicazione di massa: l’equilibrio tra la drammaticità degli argomenti e l’essenzialità della struttura grafica arrivò a creare figurazioni di forte impatto emotivo ed estetico. L’esigenza di comunicare la controcultura dell’epoca portò alla nascita di esperienze molto spontanee e dirette, non programmatiche, che traevano dagli scarsi mezzi non professionali a loro disposizione gli spunti e gli stimoli per un’estetica originale: erano gli anni della “generazione antiautoritaria” e la tipografia vi si stava adeguando. Un chiaro esempio dello spirito dell’epoca lo si trova nella produzione dell’anonimo collettivo francese Atelier Populaire, formato da studenti dell’Accademia di Belle Arti che nei giorni del maggio parigino occupò il laboratorio di litografia per creare manifesti che potessero «essere armi al servizio della lotta e inseparabile parte di essa. Il loro posto è al centro del conflitto, cioè nelle strade, sulle barricate o sui muri delle fabbriche». Un altro approccio meno politico, ma sempre legato alla controcultura giovanile si sviluppò soprattutto negli Stati Uniti, con la generazione del surf, degli hippy, del rock’n’roll. La convinzione che il crescente dominio della tecnologia e dei mezzi di comunicazione di massa andasse combattuto attraverso una creatività sempre più libera e spontanea portò ampi settori della cultura a perseguire nuovi modelli di rappresentazione visiva. La visione psichedelica, nella quale si tendeva a liberare le energie psichiche più profonde attraverso l’uso massiccio di droghe, prima tra tutte l’lsd, rappresentò così un terreno di sperimentazione 34
nella pagina a fianco: copertina del numero 49 della rivista The Face, (l’unica a composizione esclusivamente tipografica, senza l’ausilio di fotografie) Neville Brody 1986.
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che interessò anche la produzione grafica. Questo tipo di lavori – in prevalenza manifesti per concerti o altri eventi culturali – si caratterizzano per la disaggregazione delle immagini spesso bizzarre, per l’uso di colori luminosi e intensi a volte accostati in modo stridente, per l’aver portato il testo al limite dell’illeggibilità con parole scritte a mano o ingrandite fotograficamente. Venne così a crearsi una grafica percettiva che esprimeva tutta la contenuta energia della comunicazione, ma che tuttavia si rivelò infine alquanto effimera e finì col disperdersi nell’informe crogiolo della cultura underground. Uno delle tracce più significative di questo filone fu lasciata da Victor Moscoso, che nei suoi manifesti sapeva unire il mondo del grottesco dei fumetti underground, la visione psichedelica e la grafica.
dall’alto: rivista The Oracle vol.1 n° 6, art director Gabe Katz, San Francisco 1967. rivista Oz n° 35, art director Jon Goodchild Londra 1971. fanzine
Il fenomeno fanzine
Punk, vol.1 n° 2, copertina
Nella scia della contestazione studentesca del Sessantotto, prese sempre più rilievo la tendenza della “stampa alternativa”. Pur esistendo da anni pubblicazioni di opposizione ai sistemi politici e all’arte convenzionale, si trattava spesso di stampa occasionale, di opuscoli e giornali a circuito limitato. Tra le prime riviste del genere con un’organizzazione redazionale e una regolare distribuzione, nacque nel 1967 a Londra Oz, che da giornalino umoristico illustrato in stile psichedelico divenne un esempio di sovvertimento del linguaggio grafico, per essenzialità e aggressività nel trattamento delle immagini. Gli articoli di Oz uscivano con righe troppo lunghe che, se allineate a| destra, sbordavano a bandiera nel margine sinistro, e tutte venivano stampate in negativo su una fotografia indistinta. Lo scopo principale non era la leggibilità, bensì che la veste della rivista si facesse interprete della protesta. Il testo era spesso battuto a macchina, non soltanto perché costava poco, ma anche perché suggeriva, per associazione, il rifiuto dei processi industriali e quindi un prodotto nato dalla controcultura: una certo tipo di trasandatezza divenne lo stile ricercato dell’underground. 36
di John Holmstrom, fotografie nelle pagine interne di Guilemette Barbet Londra 1976. fanzine Sniffin’Glue, editor Mark Perry, Londra 1977.
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Con l’inasprirsi e l’estremizzarsi della lotta politica e del dissenso dovuto ad una sempre più crescente recessione, durante gli anni Settanta gli ideali e le forme estetiche del “peace and love” si infransero nella rabbia del movimento punk. I toni divennero cupi, le immagini violente, la natura meccanica della riproduzione mostrata con orgoglio: per contrasto con la generazione precedente non c’era più spazio per colori vivi, morbida illustrazioni e rivisitazioni Art Deco. Le fanzine erano la massima affermazione dell’estetica punk del “diy” (Do It Yourself): i collage di carta strappata, la tipografia disallineata di macchine da scrivere rotte e le immagini fotocopiate divennero la traduzione visiva di una musica chiassosa, stonata e distorta e di vestiti sdruciti e stracciati. La sperimentazione anarcoide con cui si progettavano queste riviste, da una parte evidenziava un eccessivo disordine e una faticosa lettura, ma dall’altra spesso produceva soluzioni originali che avrebbero fortemente influenzato anche lo stile di designer che dall’underground passarono al mainstream. Gli esempi più eclatanti di questa tendenza si vedono nel lavoro di due art director inglesi. Uno di essi fu Terry Jones, che portò i-D da semplice rivista di appassionati ad un enorme successo dell’editoria, in cui il senso delle parole era sovvertito da sovrimpressioni sgargianti, da fotografie sovraesposte o ridipinte, da scritte in negativo su quattro colori, da distorsioni ottenute con la fotocopiatrice e da numerosi altri esperimenti grafici di evidente origine punk, a cui ben presto si andò ad aggiungere anche la curiosità per la nuova tecnologia digitale. L’altro grafico nato nell’underground della fine degli anni Settanta fu Neville Brody, che con una folgorante carriera – nel 1988, prima di aver compiuto trent’anni ebbe il privilegio di una personale al Victoria & Albert Museum di Londra – lanciò uno stile che sarebbe stato molto copiato in seguito. La sua tecnica grafica giocava con le forme delle lettere, con i nuovi caratteri commerciali e con gli elementi tipografici della pagina quali strumenti espressivi, traeva ispirazioni dalle avanguardie del passato per tradurle in un intreccio di figurazioni in cui il linguaggio grafico si faceva messaggio. Non stupisce in questo tipo di approccio che egli fosse estremamente legato anche alla creazione dei contenuti dei suoi lavori, sviluppando a pieno il concetto di diy, diventando un chiaro esempio di grafico autore, figura sempre più diffusa nell’ambiente grafico, anche grazie alla nascita del mezzo che rendeva ciò pienamente possibile: il Personal Computer.
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dall’alto: copertina del numero 70 della rivista The Face, Neville Brody 1988. Doppie pagine della rivista i-D art director Terry Jones, 1986 e 1988.
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1984: il primo Machintosh
“Il 1984 non fu come 1984” 22 gennaio 1984. xviii Super Bowl. Intervallo pubblicitario durante il terzo quarto. In un’ambientazione futuristica a metà tra Metropolis e Blade Runner – il regista dello spot è Ridley Scott – una folla fissa ipnotizzata un’immagine del Grande Fratello – il dittatore omniscente del romanzo 1984 di George Orwell – finché non irrompe un’atleta con una canottiera bianca con l’icona di un computer a liberare la folla e distruggere lo schermo, rivelando il testo «il 24 gennaio la Apple Computers lancerà il Macintosh e saprai perché il 1984 non sarà il 1984». Il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Apple, azienda nata in California nel 1977, si proponeva come l’unica antagonista pronta a contrastare lo strapotere della multinazionale informatica ibm e di offrire un computer di piccole dimensioni che potesse essere davvero alla portata di tutti, sia economicamente, sia a livello operativo. Contraddistinto dall’approccio user-friendly della sua interfaccia per l’elaborazione grafica, il Macintosh divenne uno strumento in grado di rivoluzionare la grafica e la sua produzione. Apple teneva nascoste le complessità del linguaggio operativo dei computer e presentava invece all’utente uno schermo che era la metafora di una scrivania e dava una rappresentazione cosiddetta “wysiwyg” (acronimo inglese dello slogan “What You See Is What You Get”). Diversamente dai computer di generazione precedente che esigevano una serie complessa di istruzioni da inserire nel documento sul quale si stava lavorando, sullo schermo del Macintosh appariva la simulazione del suo aspetto una volta stampato. Pertanto i grafici potevano usare il pc quale strumento per impaginare e inserire direttamente il testo a video. Anche se per il prodotto finale era ancora necessario affidarsi ad un sistema di stampa ad alta definizione, gli elementi grafici potevano essere visualizzati in modo più completo durante il processo creativo sia sul monitor del computer, sia grazie alla diffusione delle stampanti ad aghi; in precedenza, invece, ci si doveva rivolgere a fornitori esterni, con la conseguente mancanza di un controllo diretto e un aumento dei costi. Un tempo nel progetto grafico dell’art-director i caratteri, le immagini e gli altri elementi erano trattati separatamente e poi impaginati: da questo fatidico anno in poi, invece, per la prima volta la produzione diventò un unico processo in cui tutto il materiale poteva essere realizzato da una stessa unica persona, con un identico formato, quello digitale, e poteva passare attraverso i vari processi produttivi senza dover essere rielaborato. 40
nella pagina a fianco: fotogramma dello spot promozionale girato per il lancio sul mercato del Macintosh 128k, Ridley Scott, 1984.
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Reazioni contrastanti Quando nel 1984 venne introdotto il computer Macintosh, i graphic designer impararono presto ad amarlo e ad odiarlo allo stesso tempo, sempre che non l’avessero ancora gettato! Il generale senso di scetticismo era comprensibile: davanti agli occhi avevano una macchina promossa come lo “strumento indispensabile” per i grafici del futuro, ma tutto ciò che poteva mostrare erano crudi caratteri bitmap e pochi grezzi disegni e programmi di word-processing. Per molti professionisti il computer rappresentava un passo indietro: gli standard qualitativi nella creazione e gestione della tipografia e delle immagini aveva raggiunto livelli ben superiori a ciò che il Macintosh offriva, persino con la fotocomposizione. Nonostante le critiche però, il Macintosh si diffuse con celerità ed entusiasmo tra un altro nutrito gruppo di cosiddetti “desktop publisher”. Utenti che non erano veri e propri professionisti nel campo della grafica, ma segretari, impiegati in uffici e studenti. Ciò che essi apprezzavano di questo computer era che poteva gestire un discreto numero di applicazioni: li aiutava a creare volantini, bollettini, stampati scolastici e molti altri documenti caserecci, velocemente e a basso costo. Ovviamente questo tipo di pubblico non avvertiva il disagio e l’inadeguatezza nei confronti della scarsa qualità della tipografia e delle immagini avvertita dai designer che acquistavano un Macintosh. L’uso disinibito di diversi alfabeti e di vari “trucchetti” del Macintosh come i caratteri outline o ombreggiati, veniva considerato triste e scoraggiante per molti professionisti del campo grafico, che credevano che il Macintosh avrebbe contribuito alla degradazione e all’imbarbarimento del graphic design. Tuttavia a poco a poco anche i grafici professionisti iniziarono ad apprezzare il Macintosh grazie al lavoro di un piccolo gruppo di designer “pionieri”, affascinati da questo computer. Fin dall’inizio, essi videro nelle limitazioni imposte dal Macintosh di allora, una nuova sfida. Non solo riconoscevano che questo computer sarebbe servito a copiare e salvare ciò che era stato fatto prima, ma per primi riuscirono anche a cogliere nuove ispirazioni dalla sua iniziale rozzezza.
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a sinistra: il Macintosh 128 k, Apple 1984. in basso: uno screenshot del desktop del Macintosh 128 k.
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La New Wave californiana
Dalla Svizzera agli Stati Uniti A partire dalla fine degli anni Settanta si iniziò a parlare di un’onda anomala destinata a scardinare per sempre le regole del buon design: era la New Wave fatta partire da Wolfgang Weingart e dalle sue ardite sperimentazioni “fuori gabbia”. Ma fu soprattutto grazie all’introduzione del pc che questa corrente poté definitivamente affermarsi, ora che aveva tutti i mezzi necessari per sperimentare a pieno senza più vincoli tecnici – o sfruttando come ispirazione i nuovi – e in generale per comunicare – e auto-comunicarsi – al mondo. Una delle più interessanti esponenti di questa corrente fu April Greiman. Studentessa a Basilea all’inizio degli anni Settanta ma di base a San Francisco, la Greiman dai blocchi a gradini e dai negativi di Weigart creò uno stile battezzato «iconografia ibrida»: uno scenario postmoderno inquieto e sperimentale estremamente variegato che attingendo ovunque, dalla cultura del computer a quella del video, giunse a risultati molto colorati e tipograficamente complessi, volti a rafforzare l’ordinamento e la stratificazione dell’informazione. Con April Greiman «la grafica americana finalmente pose rimedio alla rottura nella sua relazione con l’arte» come commentò nel 1994 Rick Poynor. Altri interessanti esperimenti nel campo dello strutturalismo e dei linguaggi – oltre che in campo grafico – che portarono alla destrutturazione della pagina di cui furono scardinati i principi, si iniziarono a svolgere nella Cranbrook Academy of Art in Michigan, grazie al lavoro iniziato nel 1971 da Katherine McCoy, di cui furono studenti personalità del calibro di Jeffery Keedy, Edward Fella, David Frej e Allen Hori. Fondamentale per lo sviluppo e per la visibilità della scuola fu uno dei primi progetti: l’impostazione grafica di un numero del 1978 di Visible Language, la rivista di teoria della comunicazione pubblicata da Cranbrook. II testo aveva subito tali manipolazioni tipografiche – testi in negativo, spazio tra le parole follemente esagerato, margini irregolari – da risultare quasi illeggibile. Per Katherine McCoy fu un’esercitazione per esplorare la “linguistica” della composizione: cercava di esprimere gli aspetti tipografici che costituiscono l’“hardware”, cioè le strutture elementari della comunicazione, e quelli che costituiscono il “software”, cioè il significato del lavoro. Lo scompiglio creato dalla decostruzione delle impaginazioni intendeva far emergere la distinzione tra significato e significante, sottolineando il ruolo primario che la semiotica rivestiva nei progetti della scuola e che in seguito avrebbe rivestito nei progetti dei progettisti lì formatisi. 44
nella pagina a fianco: Your turn. My turn, manifesto per il Pacific Design Center, April Greiman 1983.
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dall’alto:
a sinistra:
manifesto
manifesto
Workspace ‘87,
per la Cranbrook
Western
Academy of the Arts,
Merchandising Mart,
1985.
April Greiman 1987.
a destra:
Design Quarterly
doppie pagine
133,
di Visible Language,
April Greiman 1986.
Katherine McCoy
particolare
e studenti 1978.
del manifesto per il California Institute of the Arts, April Greiman con Jamie Odgers 1979.
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Lo “stile” degli anni Ottanta La New Wave non fu mai un gruppo o un movimento programmato come ben si evince da queste divertenti riflessioni di Micheal Vanderbyl del 1987: «Esiste un California Style? Cercando di rispondere alla domanda nella mia qualità di designer che opera in California, posso soltanto dire che non ne sono sicuro e chiedermi se Michelangelo abbia mai detto “Ragazzi, siamo proprio dentro a un gran bel Rinascimento!” o se non si sia limitato a fare il suo lavoro. I designer della California probabilmente non trasmettono al mondo una nuova estetica […] ci sono elementi che sembrano apparire più spesso nella grafica californiana: l’uso del colore, un senso della sperimentazione, fantasia, lirismo e revival sono tutti elementi che hanno un ruolo fondamentale nel design californiano. C’è chi lo chiama New Wave o Post Modern, ma io preferisco definirlo “Svizzero Californiano”, una “Scioltezza Strutturata”. […] Ammesso che ci sia un unico California Style è forse lo “Stile dei Molti Stili”.» Ancora una volta gli Stati Uniti e in particolare il West, furono il crogiolo in cui l’eclettismo trovò il suo terreno più fertile. L’erosione dei vecchi confini permise a nuove forme ibride di fiorire. La dissoluzione di regole condivise creò la condizione fluida in cui ogni cosa poteva essere messa in discussione: il prodotto della cultura postmoderna imperante negli anni Ottanta aveva caratteristiche come z frammentazione, impurità di forma, mancanza di profondità, indeterminatezza, intertestualità, pluralismo. L’originalità, nell’imperativo modernista di “creare il nuovo” cessò di essere un obiettivo; parodie, pastiche e ironici riciclaggi di forme passate proliferarono. L’oggetto postmoderno problematizza e moltiplica il significato, offrendo molteplici punti di vista e rendendosi più aperto possibile alle interpretazioni. È, dunque, su queste basi in totale transizione – tra significati, forme, assetti sociali e politici – che lo stile degli anni Ottanta tentò di fondarsi, finendo a sua volta per mutar aspetto fino a diventare il “non-stile” di fine Millennio.
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a sinistra: Connections, manifesto promozionale per Simpson Paper, Michael Vanderbyl, 1983.
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Bibliografia e sitografia generale
Daniele Baroni, Maurizio Vitta, Storia del design grafico, Longanesi, Milano 2003. Lewis Blackwell, Caratteri e tipografia del XX secolo, Zanichelli, Bologna 1995. Giorgio Camuffo (a cura di), Pacific Wave, California Graphic Design (catalogo della mostra), Palazzo Fortuny, Venezia, 27.09/27.12.1987, Magnus Edizioni, Udine 1987. Steven Heller, Merz to Emigré: AvantGarde Magazine Design of the Twentieth Century, Phaidon, Londra 2003. Richard Hollis, Graphic Design: a concise history, Thames and Hudson, Londra 2001. Robin Kinross, Tipografia moderna, Stampa Alternativa e Graffiti, Viterbo 2005. Sergio Polano, Pierpaolo Vetta, Abecedario. La grafica del Novecento, Electa, Milano 2005. Rick Poynor, Design without boundaries. Visual communication in transition, Booth–Clibborn Editions, Londra 1998. Rick Poynor, No more rules: graphic design and postmodernism, Yale University Press, Londra 2003. Dario Russo, Free Graphics. La grafica fuori delle regole nell’era digitale, Lupetti, Milano 2006. Rudy VanderLans, Zuzana Licko, Emigré (The Book). Graphic Design into the Digital Realm, Van Nostrand Reinhold, New York 1993.
Emigré Magazine, n° 1- 68, 1984 – 2005. The End – Emigré n°69 Final Issue, 2005.
http://keithtam.net/writings/ww/ww.html http://www.aiga.org/content.cfm/medalists http://www.computermuseum.it/history/index.htm http://www.emigre.com/index.php http://www.wikipedia.org
Venezia, settembre 2008 Testi composti in Filosofia, ŠZuzana Licko 1996