CARCERE E SPAZIO URBANO

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CARCERE E SPAZIO URBANO Strumenti, regole, strategie perchè i luoghi della detenzione tornino ad essere parte del progetto urbano. Il caso studio di Modena.

Laureandi: Eleonora Fraternali,Marco Marchini, Gianluca Savio

Relatori: Prof.ssa Francesca Leder, Prof. Sergio Fortini

Università degli Studi di Ferrara, Facoltà di Architettura,

Anno Accademico 2011|2012


Indice 0_ABSTRACT

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1_L’ESCLUSIONE E I SUOI LUOGHI Excursus storico tra i luoghi della segregazione urbana. La classicità Il Medioevo La modernità L’epoca contemporanea

014 015 017 017

2_DALLA FABBRICA AL CARCERE Come la struttura architettonica carceraria sia influenzata dall’economia e dalla società del proprio tempo. La realtà europea

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Inghilterra Olanda Impero asburgico

Il caso italiano

Excursus storico dal ‘500 all’Unità

3_L’ARCHITETTURA DELLA DETENZIONE Come la realtà urbana influenzi la progettazione delle carceri definendo scelte contraddittorie. Esempi esteri Le strutture americane I casi europei

Il caso italiano

Il Giardino degli Incontri di Giovanni Michelucci Il sistema Bollate

4_CARCERE SPAZIO URBANO Strumenti, regole, strategie perché i luoghi della detenzione tornino ad essere parte del progetto urbano. Casi studio italiani Venezia Firenze

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034 038

048


Il ruolo dell’architettura Schede di approfondimento: Carcere e città, un rapporto ancora esistente 5_L’ORDINAMENTO PENITENZIARIO ITALIANO Come l’architettura sia soggiogata a leggi e a dettami segregativi Il Piano Carceri Tipologia di intervento Criteri di intervento Criteri realizzativi Risorse finanziarie L’opinione pubblica

053 055

067

Le tipologie edilizie La popolazione detenuta La realtà carceraria emiliano romagnola

074 079 081

Schede di approfondimento: Le carceri d’Oro in Emilia Romagna

089

I dati regionali 2011|2012 L’intervento della Regione

6_LA SCELTA DEL CASO STUDIO: MODENA Sperimentazione replicabile per l’inserimento del carcere nella realtà urbana Tessuto Associativo|Cooperativo Storia urbana|Storia del carcere La regolamentazione urbanistica, dal Dopoguerra ad oggi

8_OBIETTIVO CARCERE Una realtà urbana scollegata, troppe volte dimenticata Carcere e lavoro, regolamentazione legislativa Proposte per favorire un reinserimento dei detenuti Scheda: Buone Pratiche: Progetti di recupero

167 171 177

9_DALLA STRATEGIA AL PROGETTO Pratiche progettuali per il reinserimento urbano dell’organismo carcere Programma funzionale I nuovi Users urbani Le Officine Sociali Il parco|vivaio circondariale Tra preesistenza e nuove costruzioni

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Un intervento di social housing come ricucitura morfologica|funzionale Il polo creativo Il mercato e il parco vivaio per l’integrazione urbana dei detenuti Le aree in attesa

Scheda: Abaco del Verde

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dai PRG storici all’urbanistica partecipata

Il Mercato immobiliare Schede di approfondimento: Associazionismo e carcere Schede di approfondimento: Progetti carcere-città Schede approfondimento: L’Effetto NIMBY 7_LA REALTA’ DEL QUARTIERE SANT’ANNA Una realtà urbana scollegata, troppe volte dimenticata Trama del verde Tessuto del costruito Gli Users Scheda: Interviste agli utilizzatori del quartiere Scheda: Il concetto di periurbano

125 127 131 137 Ringraziamenti 145 147 149 153 159

Bibliografia Sitografia Crediti Fotografici Elaborati grafici

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Abstract

Occuparsi di città, progettarla, proiettarla idealmente nel futuro, significa avere uno sguardo attento sui fenomeni sociali e sulle loro implicazioni, anche quando queste dovessero essere, come nel caso delle carceri, di difficile trattazione. La tesi infatti si propone di stimolare una riflessione critica sulla realtà carceraria italiana attraverso un approccio di tipo architettonicourbanistico. Nella parte dedicata all’analisi, la tesi esplora, in una prospettiva storica, l’evolversi della materia giuridica in ambito penale e l’impatto che questa ha avuto nel campo dell’elaborazione/ricerca architettonicaurbanistica relativamente alla progettazione delle carceri. Il tema di fondo evidenziato è il rapporto che una società instaura con le diversità presenti al suo interno, in questo caso con coloro che hanno arrecato un danno alla società stessa. In quest’ottica il carcere è un luogo da eliminare dallo spazio visibile della città, da collocare in uno spazio “altro” ed è per questo che fenomeni, quali la periferizzazione delle strutture carcerarie, hanno alterato la storia urbana delle città, rimuovendo quel sistema di relazioni che si radicano nella memoria collettiva attorno ad una struttura specialistica come quella penitenziaria. L’obiettivo di questa tesi è quello di arricchire il dibattito sulla necessità di riallacciare rapporti biunivoci tra città e penitenziari, prendendo in esame un contesto, quello della città di Modena, in cui istituzioni e attori sociali siano attivamente impegnati a far emergere il problema. Valorizzando le esperienze positive che abbiamo incontrato e studiando il contesto urbano in cui le strutture sono inserite, abbiamo concepito un progetto urbanistico gestionale per la Casa Circondariale


Sant’Anna. Il progetto riorganizza il contesto marginale in cui il carcere si trova attraverso l’innesto di funzioni utili al reinserimento dei detenuti e che diano contemporaneamente un significato ed una vitalità ai luoghi anonimi periurbani. La tesi promuove nuove configurazioni di ordine fisico, ristabilendo le relazioni tra la città e i suoi spazi rimossi e dando un senso di unitarietà alla frammentazione degli spazi periferici; affronta inoltre il problema carcerario con coraggio e positività, stimolando un cambiamento volto a migliorare concretamente la condizione generale dei detenuti e restituire un ruolo attivo allo spazio dimenticato del carcere nel contesto urbano contemporaneo.


Shalechet, Foglie Morte, Menashe Kadishman Museo ebraico, Berlino, 1997

L’esclusione e i suoi luoghi

Esiste uno stretto legame tra la separazione e le sanzioni spaziali. Le cause e i motivi sono molteplici: le epidemie, la razza, l’identità, la condotta non conforme alle regole del vivere civile e stili di vita particolari. In quest’ottica, il soggetto separato è colui che viene avvertito come un possibile pericolo, un problema per l’ordine. Alla base della segregazione c’è la paura, che si può manifestare come paura del contagio, paura di ciò che non si conosce, di venir meno a valori condivisi dalla società o dalla violazione delle norme, paura che ha portato ad una progettazione di spazi urbani particolari a cui si associano pratiche di esclusione che rendono materiale l’idea del rifiuto e del ripudio che la società ha verso certi soggetti. Quanto detto fa si che la città diventi luogo ospitante spazi, definibili altri, riservati a quei particolari soggetti su cui grava uno stigma che determina un’esigenza di separazione. Essi non fanno altro che ribadire la frattura interna alla società. L’ideologia dell’esclusione, cambiando aspetto, si protrae nei secoli per essere ancora presente nella società post moderna. Sono stati fatti dei passi avanti negli anni ’70 del 1900 per abbattere le barriere fisiche e sociali che separavano determinate strutture dal resto della città; ma i nostri centri urbani continuano a dare soluzioni solo temporanee, per situazioni di emergenza, come per esempio per le ondate migratorie in termini di controllo e segregazione e quindi si prosegue, consci di ricerche e letture, a produrre spazi di esclusione.


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La Classicità

Pisanello, studio preparatorio di un impiccato per l’affresco San Giorgio e la Principessa, Sant’Anastasia, Verona, 1429

Miniatura, torture umane

Nella società greca, il concetto di punizione è legato a quelli di colpa e purezza, perch il bene supremo risiede nella pubblica stima. Il controllo sociale si attua tramite il giudizio del popolo e il senso di colpa, alimentato dalla credenza nella contaminazione. Infatti, commettere alcuni atti comporta conseguenze disastrose non tanto per gli artefici, quanto per l’intera comunità di cui il responsabile fa parte. L’esigenza della purezza determina quindi forme di esclusione e separazione. Il reo viene quindi gettato da una rupe (nel caso di Atene dal Barathon, che si erge tra il Pireo e la città)e il suo corpo non conoscerà mai degna sepoltura perchè la purificazione della città avverrà solo dopo il disfacimento del cadavere ad opera degli agenti atmosferici. Il Barathon diventa quindi il luogo della separazione, il limite tra il dentro e il fuori, tra ciò che è corretto e ciò che deve esserlo. L’esclusione nella società romana ha le vesti della sacertas che comporta l’esclusione dalla comunità. Colui che commette delitti non è più all’altezza di far parte della civitas, non è più ammesso a vivere con gli uomini, ma nel medesimo tempo non può essere sacrificato perché impuro, viene quindi lasciato al suo destino. La sacertas appare come una manifestazione collettiva attraverso la quale si restituisce al gruppo l’energia che il delitto commesso minaccia di sottrargli. A Roma si comincia anche a trovare una particolare struttura per l’isolamento e la custodia dei soggetti in attesa di giudizio: il carcer. Livio attribuisce la fondazione del carcer ad Anco Marzio. L’edificio doveva trovarsi direttamente sul foro. Dell’intero edificio rimangono oggi solo due ambienti, venuti alla luce durante i lavori nella chiesa di San Giuseppe dei falegnami. I due ambienti sono sovrapposti, la parte

superiore svolge una funzione preventiva mentre, al piano sottostante, avvengono le esecuzioni capitali. Si tratta di una stanza per due terzi rotondi e per il restante terzo rettilinea, all’interno della quale il carnefice strangola il reo; in alternativa, quest’ultimo viene fatto morire di stenti. Nello spazio buio il reo viene abbandonato a se stesso seguendo l’ideologia dell’esilio, dell’allontanamento, viene lasciato in balia del proprio destino, questa volta in un luogo interno all’urbs, ma comunque classificabile come altro, rispetto ai luoghi della civitas.

Il Medioevo In epoca medioevale ritroviamo il concetto di catarsi nell’espiazione di un reato. “Durante la prima età moderna ogni grande città europea riserva uno spazio, in genere una piazza, alla celebrazione delle esecuzioni. La rappresentazione della pena capitale assumeva il carattere di un “teatro della giustizia” in cui regole e valori venivano comunicati ed illustrati ad una massa in larghissima parte analfabeta e turbolenta, usa a vivere (una a vivere) in dure condizioni di violenza e illegalità. In certi casi la teatralità raggiungeva livelli quasi assoluti: boia e condannato indossavano vesti particolari, il patibolo veniva eretto nel medesimo luogo ove era stato commesso il delitto e la giustizia eseguita con la stessa arma usata dal criminale”1. Oltre ai luoghi pubblici che ospitano le esecuzioni capitali, molte pene consistono in mutilazioni sfruttate come marco infamante per bollare il criminale e relegarlo nella cerchia degli esclusi. Per quello che riguarda i luoghi di reclusione, ci collochiamo nel filone classico di luoghi volti alla rimozione dell’individuo dalla società. Le prigioni sono quasi sempre sotterranei di castelli, monasteri, palazzi

signorili, edifici riutilizzati o strutture edificate appositamente nelle zone più malsane della città. Solo dal XIII secolo le prigioni vengono abitualmente divise tra uomini e donne e per differenza di reati. Esse sono destinate agli ultimi, agli umili, in quanto i ricchi trascorrono la loro reclusione nella casa del carceriere. La prigione ecclesiastica invece si basa sul concetto di espiazione privata; il reo espia la sua colpa per poi essere riammesso e riabilitato a far parte di una comunità. La prima idea si fa risalire a Giovanni Climaco, un santo anacoreta del VI secolo. Egli introduce nei cenobi, delle celle per la reclusione penitenziaria, celle sane e ben illuminate, dove i reclusi vengono occupati in lavori manuali. La stessa struttura viene ripresa dai Benedettini, i quali prevedono, in ogni abbazia, la presenza di un quartiere separato chiamato “domus semola”, per rinchiudervi i colpevoli. Per ogni prigione sono previste due stanze, una delle quali destinata al lavoro. Il modello cambia rapidamente, sostituito da celle buie ed umide in cui il colpevole è tenuto in isolamento ed è sottoposto a patimenti fisici come il digiuno, per espiare la colpa commessa. L’esclusione si realizza anche attraverso la creazione di spazi contenutivi costruiti fuori delle mura della città, la separazione è garantita dalla distanza, dalla frattura spaziale che divide la città dall’anticittà. Emblematici di questa ideologia sono il lebbrosario e il lazzaretto per gli appestati. Questi spazi sono simili, poichè entrambi rappresentano una risposta in termini spaziali alla paura del contagio, proponendo soluzioni che prevedono la separazione dei corpi, ma sono anche profondamente diversi. Foucault sottolinea come né i luoghi né i riti sono destinati a sopprimere la lebbra, ma a “mantenerla in una distanza consacrata, a fissarla in una esaltazione inversa. Ciò che resterà certo più a lungo


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Planimetria Lazzaretto Milano, Porta Orientale 1984

Prison Petite Roquette Parigi 1826

della lebbra e che si manterrà ancora in un’epoca in cui, già da molti anni, i lebbrosari saranno vuoti, sono i valori e le immagini che si sono legate al personaggio del lebbroso; è il significato di quell’esclusione, l’importanza di quell’immagine insistente e temibile che non viene allontanata senza aver tracciato un cerchio sacro attorno ad essa.” Le misure prese in funzione del contenimento di una malattia fortemente contagiosa e particolarmente aggressiva, sono alla base della costruzione di un altro spazio limite che è il lazzaretto per gli appestati. La distanza dal tessuto urbano è la precondizione nella definizione spaziale di questo luogo. Se l’obiettivo del lebbrosario è l’allontanamento rituale di soggetti su cui poggia uno stigma, frutto di superstizione e pregiudizio, il lazzaretto per la peste ha un fine curativo e preventivo, ovvero evitare il dilagare della malattia. La progettazione di questo spazio è dettata dalla predisposizione di tecniche particolari, come ad esempio lo scolo delle acque per evitare il contagio con la città sana. Il lazzaretto per la peste ha pertanto la forma di un quadrilatero e tutti gli spazi sono organizzati in funzione della separazione dei corpi. A Milano, ad esempio, il lazzaretto è costruito nel 1488, nella zona di Porta Orientale. Si tratta di un quadrilatero di 375 metri di lato, circondato su tre parti da portici sui quali si affacciano 288 celle. Da uno dei lati della struttura si accede al cimitero, destinato a coloro che non riescono a sopravvivere. Questo è diviso in 4 settori: uno per i sospetti, uno per gli appestati, uno per i convalescenti e quello per il personale medico. Le celle sono di forma quadrata e hanno lati di 4,75 metri. Al centro dell’edificio si trova una chiesa, simbolo di speranza, redenzione e salvezza. Un fossato d’acqua circonda l’intero quadrilatero, funzionando allo stesso tempo come scarico delle acque e spazio di separazione dalla zona circostante.

La Modernità Se per tutto il medioevo l’atteggiamento verso i poveri e i mendicanti è stato di tolleranza, a partire dal XVI e XVII secolo, si diffondono in tutta Europa istituzioni segreganti, aventi lo scopo di educare al lavoro e ad una vita moralmente sana derelitti di ogni genere. Nascono strutture specializzate e settoriali in ogni città per combattere la presenza degli “ultimi“per le strade. In Italia, ad esempio, i poveri sono considerati sovversivi e turbatori dell’ordine pubblico, quindi è interesse delle autorità civili arginare il fenomeno della mendicità. Fra le diverse esperienze segregative italiane ricordiamo: l’Ospedale dei Mendicanti di Venezia, l’Ospedale San Filippo Neri di Firenze e l’Ospedale di Santo Spirito a Roma. Il primo risale al XVI secolo, il suo scopo è il recupero e l’educazione di persone senza dimora e incapaci di sostentarsi. La sorveglianza è rigida, ci si può allontanare solo per recarsi in chiesa per chiedere l’elemosina e le fanciulle possono servire presso le famiglie benestanti. L’Ospedale San Filippo Neri, a Firenze, risalente al 1653, è diviso in tre sezioni: educazione, correzione e medicina. La prima ospita fanciulli senza tetto raccattati per strada durante la notte; dopo essere stati nutriti e vestiti vengono affidati a degli artigiani perché imparino un mestiere. Essi vengono inoltre retribuiti e l’istituto provvede alla loro formazione religiosa. Nella sezione correzione si trovano i ragazzi traviati, rinchiusi in piccole celle a scopo correttivo; questi ricevono solo il vitto. La terza sezione ospita i bambini malati; sia quelli che vivono all’ospedale, sia quelli che sono affidati alle famiglie. Anche attraverso queste istituzioni la città diviene il luogo in cui

comincia ad essere presente un sistema di strutture con lo scopo di attenuare una forma di disagio urbano, tramite servizi che è la stessa pubblica amministrazione a gestire. La nascita di queste istituzioni è da considerarsi quale punto di arrivo di una politica sociale iniziata al termine dell’età medioevale: gli antichi ospedali, mantenuti dalla carità dei fedeli e generalmente sottoposti ad un’autorità di tipo ecclesiastico, vanno ancora considerati come istituzioni di beneficenza. Bisogna infine ricordare che la realizzazione di molti ospedali, sorti in Italia in età rinascimentale, è frutto anche di quella spinta ideale che caratterizza la produzione intellettuale di quel periodo e che, con grande potenza evocativa, dà vita alla progettazione della cosiddetta città ideale, intesa come luogo immaginario che realizza i desideri materiali e spirituali di una determinata epoca, nella sintesi creativa della fondazione di una nuova città.

L’epoca contemporanea La progettazione di questi edifici si basa sulla concezione di spazi per l’esclusione. L’edificio deve svolgere una duplice funzione: limitare la libertà di movimento del detenuto ed essere mezzo di rieducazione attraverso il lavoro e la religione. Le caratteristiche che si ripetono sono la razionalizzazione degli spazi in funzione del controllo, la collocazione dell’edificio ai margini delle città e nessun rapporto con il tessuto urbano. Tutto ciò da vita ad uno spazio totale, cioè uno spazio in cui i soggetti sono sottoposti ad un rigido regolamento. Non esistono contatti con la realtà esterna e vige una disciplina fondata sulla sorveglianza continua. Le strutture penitenziarie assumono la forma del panopticon, teorizzato dal filosofo Jeremy Bentham. Si ha, a questo punto, il passaggio da


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prigione come monumento, a prigione come macchina. Si teorizza il potere dello sguardo: la consapevolezza di essere sempre osservati favorisce un retto comportamento. (es: Pentoville, 1842, Caledonian road, a nord di Londra). Il sistema della sorveglianza continua, si sostituisce al lavoro pensato come modo di reintegrazione sociale e fautore di rettitudine. Questo sistema si diffonde in tutte le altre strutture parallele ai penitenziari. (es: Petite Roquette , Parigi, 1836_San Vittore1789) Ovviamente la produzione di edilizia penitenziaria risente in questo periodo in Europa dell’idealismo funzionalista che si ritrova anche in altri edifici, quali i teatri e gli ospedali. Questa ideologia dà vita alla separazione dei detenuti per sessi, tipologia di reato, isolamento individuale notturno, installazioni igieniche, spazi per il passeggio quotidiano all’aria aperta e per il lavoro. La città, in questo scenario, riflette e concorre a definire il confine tra ciò che rientra nell’area della normalità e ciò che ne è al di fuori. L’ideologia della rieducazione e della cura giustifica questa separazione: il malato di mente, solo chiuso all’interno del manicomio potrà iniziare il suo percorso terapeutico, così come il criminale, solo se isolato potrà redimersi. L’isolamento diviene allora un fatto istituzionale; è compito del consorzio civile provvedere che tutte le forme di difesa sociale siano approntate e quindi manicomi, carceri e ogni sistema di difesa e di segregazione sarà direttamente gestita dallo stato. Assistiamo all’istituzionalizzazione dell’isolamento. Il carcere diventa la principale pratica di internamento a cui si accompagna uno sviluppo massiccio dell’edilizia carceraria, in cui i rapporti fra penitenziario e città sono studiati in funzione dell’isolamento sociale e spaziale della popolazione detenuta, rispetto all’ambiente urbano.

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Centro Detenzione per Migranti “Matorral”, Fuerteventura, Isole Canarie.

Dal Carcere alla fabbrica

“...rivisitare il problema delle carceri in Europa e negli Stati Uniti significa in realtà affrontare le ragioni di fondo dell’esistenza e della crisi del carcere nel nostro tempo e porsi il problema della congenialità delle istituzioni carcerarie ai modelli economici e politici della nostra società.” Esiste un rapporto tra il carcere, o comunque tra le forme di internamento, e la disciplina seguita e condotta all’interno della fabbrica, così come esiste un rapporto evidente e storico tra il modo di produrre e il modo di concepire il carcere e la sua organizzazione interna. Se in passato esistevano forme di lavoro produttivo all’interno delle strutture carcerarie, con l’avvento della società capitalistica, l’aumento demografico e l’introduzione di macchine, si nota un progressivo peggioramento delle condizioni detentive ed il passaggio da una reclusione, che poteva avere risvolti pratici e lavorativi, ad una reclusione fine solamente all’intimidazione. Se è possibile notare questo cambiamento, in tutte le sue tappe, in paesi come l’Olanda e l’Inghilterra, perché hanno conosciuto la cosiddetta rivoluzione industriale, non lo possiamo fare in un paese come l’Italia. Infatti, essendo l’Italia in ritardo nello sviluppo della manifattura, il sistema carcerario non conosce la prima fase di carcere come momento produttivo, ma solamente quello di carcere come fortezza repressiva. Viene saltato il passaggio del carcere utilizzato nel quadro dell’esigenza produttiva, quindi del carcere come luogo in cui sfruttare manodopera a basso costo.


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LA REALTA’ EUROPEA Inghilterra

Pass Room di Bridewell, disegno di Thomas Rowlandson e Augustus Pugin

Maison de Force Gand, planimetria e prospetti

Siamo nel periodo successivo alla Riforma che invade tutta l’Europa. La Riforma porta con se la secolarizzazione di beni ecclesiastici e la successiva cacciata dei contadini occupati nei terreni di proprietà della chiesa e l’impossibilità di sostenersi per coloro che vivono della carità ecclesiastica. Il sovrano concede il palazzo di Bridewell per accogliere vagabondi, poveracci, mendicanti, divenuti un numero spropositato, ai quali assicura un lavoro per il loro automantenimento. Il lavoro svolto è per di più nel ramo tessile. Istituzioni come quella del Bridewell divengono poi regolari per legge nel 1834 con la Poor Law di Elisabetta. Ma cominciamo da prima. Nel 1572 viene organizzato un sistema di “relief”, cioè di sussidi per il mantenimento dei poveri. Viene quindi avviata una trasformazione che porta il sistema della carità privata ad essere pubblico. Quattro anni dopo, il problema viene affrontato attraverso l’istituzione di case di correzione che dovrebbero servire per fornire lavoro ai disoccupati e per costringere a lavorare coloro che si rifiutano. Le workhouses sono anche investite del compito di tenere bassi e controllati i salari, istituendo un minimo di ricompensa per coloro che ne fanno parte e una giornata lavorativa più lunga del normale. Con il Workhouse o General Act del 1772|3 si permette di determinate comunità parrocchiane e di istituire case di lavoro entro le quali dovrebbero entrare tutti coloro che chiedono una qualche forma di assistenza. Inizialmente funzionano. Successivamente, cominciando a scarseggiare il lavoro, la filosofia della correzione comincia ad essere sostituita da quella della punizione. La stessa casa di correzione fa si che sempre più frequentemente la punizione predisposta sia di tipo

detentivo, andando praticamente a livellare le differenze esistenti all’inizio tra gaol e sistemi di reclusione quali il Bridewell. La crisi è legata alla rivoluzione industriale e al mutamento del sistema produttivo. Infatti, si assiste ad un incremento demografico e quindi un conseguente aumento della forza lavoro libera disponibile, oltre che ad un aumento dell’uso delle macchine all’interno delle fabbriche. Questo porta il lavoro manifatturiero, svolto all’interno delle case di lavoro, a non essere più competitivo e quindi destinato a scomparire. La borghesia abbraccia dunque un nuovo modello di workhouse e cioè la house of terror, casa del terrore, in cui il lavoro non viene scartato a priori, ma piuttosto soppiantato per importanza, dalla punizione. E’ in questa congiuntura storica che si inserisce il modello teorizzato da Jeremy Bentham del Panotticon. Questo modello è il tentativo, mai completamente realizzato, produttivo. La contraddizione che si trova alla base del progetto architettonico e poi funzionale della struttura detentiva pensata da Bentham diventa sempre più evidente, a seguito della Restaurazione. L’impossibilità di accoppiare il principio di riforma morale dell’intimidazione con quello dell’efficienza produttiva si manifesta chiaramente nel rifiuto, operato dai riformatori dei primi anni dell’’800, di accogliere l’idea dell’isolamento continuato su cui il sistema del panopticon si basa. La legge del 1810 e il Peel’s Gaol Act del 1823 portano ad una classificazione interna dei carcerati, all’ isolamento cellulare notturno, ma al lavoro collettivo diurno con possibilità di parlare, così come all’abolizione delle pene corporali e del profitto privato del carceriere. Alla radice di queste riforme troviamo personaggi come: John Howard, Jeremy Bentham, Sir Samuel Romilly, Miss Elisabeth Fry che si sono aspramente scontrati con una concezione repressiva. La contraddizione tra borghesia e proletariato compare con tutta la sua forza in questo periodo; la borghesia è

impaurita dalle masse del proletariato e quindi spinge per strutture e metodi segregativi sempre più coercitivi. Questo sollevamento sui temi della detenzione coincide con la disputa tra i due modelli americani di reclusione, quello di Auburn e quello di Philadelphia. L’ultimo, che ha scarsa fortuna in America, trova terreno fertile in Europa perché corrisponde all’ideale di carcere punitivo e deterrente senza uso di lavoro utile.

Olanda La casa di lavoro raggiunge qui nel XVII secolo la sua forma più completa e sviluppata. Nel 1596 si istituisce una casa di lavoro, in un ex convento nella città di Amsterdam, ricordata sotto il nome di “rasphuis“, che significa grattugiare con una sega a più lame un certo legno fino a farne polvere. La pianta è sviluppata su base cellulare; le celle possono ospitare da quattro a dodici detenuti. Il lavoro viene svolto o in cella o in cortile a seconda delle condizioni climatiche. Gli scopi che si cerca di raggiungere, teoricamente, con queste case di lavoro, sono due. Da una parte, formare una classe operosa e dedita al lavoro, dall’altra considerando le condizioni di vita in cui i detenuti sono costretti a vivere, innescare un’azione intimidatoria generale che scoraggi ogni tipo di comportamento che può sfociare nella reclusione in questi luoghi. La ragione del successo di istituzioni come queste risiede nella capacità di assicurare facile e veloci profitti che, nel caso di una realtà protetta come quella di Amsterdam, vengono descritti come eccezionali. E’ da considerare anche la necessità di dare agli internati delle capacità manuali a causa della sempre più scarsa manodopera. Nel corso del tempo vengono immessi in queste case di lavoro anche condannati, a


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causa di delitti più gravi, a pene più lunghe. Questo fatto porta dunque alla sostituzione con il carcere, degli altri tipi di detenzione. In tale atto è inscrivibile il primo passo che innesca poi la radicale trasformazione del modo di concepire l’internamento, arrivando alla sua definizione ottocentesca.

Impero Asburgico Alcune delle case di lavoro presenti in Germania vengono visitate dallo stesso Howard, il quale va a Osnabruck, Brema, Hannover, Amburgo. Un carcere particolarmente ammirato da Howard nel suo “censimento” è la Maison de Force di Gand, costruito per volontà di Maria Teresa. È uno tra i primi grandi stabilimenti carcerari a forma stellare|ortogonale basati sulla separazione delle celle dei criminali. Il lavoro viene svolto in grandi ambienti comuni. L’entusiasmo di Howard per questo progetto si spegnee quando, tornando in visita, ne vede il declino profondo. Le macchine e gli utensili da lavoro sono venduti, il lavoro scarseggia, le condizioni lavorative sono nettamente peggiorate e il salario corrisposto ai detenuti, drasticamente diminuito. Questa involuzione delle strutture, come le case da lavoro, è da collocare nel cambiamento socio economico che si sviluppa tra la fine del ‘700 e l’’800. Infatti, finché l’industria ha bisogno, nel periodo del mercantilismo, dei monopoli e dei privilegi accordatigli dall’istituzione, queste attività mantengono un ruolo importante, ma nel momento in cui si stabilisce il principio economico del laissez faire, laissez passer e della libera circolazione delle merci, non è più possibile la loro sopravvivenza. E’ importante comunque notare la stretta relazione tra il lavoro garantito all’interno di queste strutture e le condizioni di vita igieniche Panopticon di Jeremy Bentham, planimetria e spaccato assonometrico

dei detenuti; esiste un rapporto tra il lavoro produttivo e le migliori condizioni di vita, anche perché la forza lavoro deve essere preservata e rinnovata di giorno in giorno. E’ con l’esperienza delle case di lavoro che si comincia a riflettere sulla pena di morte e sulla tortura arrivando ad eliminarla, considerando la pena all’interno del carcere come più umana e più tollerabile. Il lavoro poi diventa la misura della pena stessa. “Il calcolo, la misura di pena in termini di valore-lavoro per unità di tempo, diviene possibile solo quando la pena è stata riempita di questo significato, quando si lavora o si addestra al lavoro (al lavoro salariato, al lavoro capitalistico)”. Questa affermazione rimane vera anche nel momento in cui in carcere non si svolge più un lavoro e vi si sostituisce, nell’ottica della misura, il tempo trascorso. Dalla restaurazione in poi non è più possibile affrontare la questione carceraria separata dallo scontro di classe; questa diviene infatti emblema di un’ostilità politica classista. Si comincia ad affermare la convinzione, a causa di una povertà dilagante, che il carcerato non possa godere di uno stile di vita simile a quello di un artigiano, cosa che fino alla fine del ’700 è stata possibile. Perché se da una parte le case lavoro servivano per assicurare una manodopera a basso costo e per abbassare il livello dei salari, queste persone avevano però vitto alloggio ed una remunerazione. Agli inizi dell’’800 le condizioni di vita dei detenuti cominciano a peggiorare e si registrano numerosi casi di malattie e morti negli istituti penitenziari. È in questo momento che l’interesse dei riformatori si rivolge ai due modelli di carcere americano. Il declino delle condizioni di vita all’interno dei carceri è da legare al lavoro e al suo uso sempre più limitato ed ostacolato, anche da considerazioni tecniche. Nel momento in cui nasce la fabbrica moderna, che prevede l’uso di macchine, lo stato dovrebbe investire


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in macchinari per dotare le strutture, quali le case lavoro, di mezzi per essere competitivi, anche perché il lavoro in carcere in un periodo come l’’800 è osteggiato dal popolo stesso poichè ci si trova in un momento storico di povertà. Così, il lavoro carcerario rappresenta una minaccia.

IL CASO ITALIANO Excursus storico dal ‘500 all’Unità

Ospizio San Michele, Roma

Real Albergo dei Poveri, il Serraglio, Napoli

Non si può sviluppare un discorso unico per l’Italia come si è fatto per gli altri paesi fino a qui analizzati, in quanto non esiste uno stato unitario e soprattutto un potere centrale. A Venezia, si tenta di mettere i poveri e i vagabondi a lavorare all’interno degli Arsenali con metà salario. Gli stati pontifici, essendo centro della cristianità attirano poveri e mendicanti in quantità esorbitanti che vengono trattati come problema di ordine e controllo sociale e rinchiusi in ospedali. Vengono creati ospedali per i poveri a Parma, Modena, Bologna, Torino, Genova e Pisa, dove per povero si intende il ladruncolo, il mendicante. A Firenze si verifica la più interessante esperienza carceraria dell’epoca in Italia ad opera di Filippo Franci. La struttura accoglie ragazzi di strada che vengono assistiti, albergati, formati e indirizzati verso il lavoro in qualche bottega artigiana cittadina. È necessario parlare della sezione di questo ospedale chiamata Ospizio di San Filippo Neri che viene costruita nel 1677 destinata, normalmente, a giovani di buona famiglia che i genitori stessi affidano a Franci per correggerli. La costruzione è costituita da 8 celle in cui i giovani vengono rinchiusi in un isolamento continuo.

Dal ‘700 inizia un nuovo sviluppo, soprattutto in agricoltura, testimoniato dall’aumento demografico. Si assiste ad un peggioramento costante delle classi subalterne e ad una proletarizzazione di artigiani e contadini. Negli Stati Sabaudi nel 1717, Vittorio Amedeo II promulga le “Instruzioni e regole degli Ospizi generali per i Poveri” dove ribadisce la differenziazione necessaria nello svolgere azioni di carità. Nel 1750 il marchese Gialione espone un programma pedagogico correzionale basato su “Frugalità e Lavoro” assieme al massimo grado di isolamento e la regola assoluta del silenzio. In questo caso capiamo che la funzione correzionale che viene affidata al lavoro è di ispirazione calvinista, l’individuo è visto come un animale da ammaestrare attraverso il lavoro e l’obbedienza. Nel momento storico descritto, in Italia si punta molto su case correzionali per ragazzi che si affiancano a programmi educativi e di recupero. Importante è l’esempio della casa di recupero di Milano che, per Howard, è l’unica esperienza che può essere equiparata a quelle contemporanee europee. Il tutto avviene a Milano perché la città conosce la dominazione austriaca e diventa il centro più fiorente dell’illuminismo italiano, dove la riflessione si porta anche sui temi dell’istituzione carceraria e della concezione della pena. È in questi anni che Cesare Beccaria scrive “Dei delitti e delle pene”. Tale casa di recupero è costituita da 140 celle singole in cui l’isolamento non è continuo e il lavoro è tenuto in ottima considerazione, tanto che i suoi ospiti lavorano in grandi stanzoni comuni. Notiamo come l’isolamento sia vissuto come pratica inumana, fino a giungere ad affermare che un giorno passato in isolamento, equivalga a due giorni normali passati in carcere. La struttura, non è concepita per poveri o

vagabondi, quanto per criminali ed il lavoro non ha fini correzionali o educativi, quanto produttivi. L’ergastolo invece ospita persone condannate a lunghi periodi di detenzione, a volte anche persone condannate a vita che vengono reimpiegate in lavori di pubblica utilità. Non esiste separazione in celle e ospita 359 detenuti. Il Veneto, secondo i racconti di Howard ospita i luoghi di reclusioni peggiori che abbia mai visitato. La Toscana è una regione che risente positivamente dell’influsso indiretto della dominazione asburgica. Tra il 1765 e il 1790 conosce un periodo di riforme soprattutto per opera di Pietro Leopoldo. Risale al 1786 la Legislazione criminale toscana che viene vista come concretizzazione delle teorie di Cesare Beccarla e di Howard. Si assiste all’abolizione della pena di morte e della tortura e contemporaneamente viene indicata la correzione come uno dei principali scopi della pena. Esempio da considerare risalente a questo periodo è la fortezza di Livorno contente 132 prigionieri. Gli autori di delitti più gravi sono rinchiusi nelle prigioni, gli altri sono impiegati nei lavori pubblici, la pena di morte viene sostituita con i lavori forzati. Coloro che ne sono obbligati, vengono condotti sul posto di lavoro incolonnati e incatenati a gruppi di due, impiegati nella pulizia del porto e nella costruzione di edifici pubblici. Nel Regno di Napoli domina ancora il sistema feudale, per quello che riguarda le problematiche della detenzione, si continua ad utilizzare la forca. Qui si concentrano anche la maggior parte delle strutture detentive in quanto si tratta del regno più popoloso della penisola. La prigione principale Vicaria accoglie 980 detenuti, Howard ce ne lascia una descrizione in cui ribadisce che alcuni carcerati potrebbero lavorare, ma la maggior parte non lo fa. Le condizioni igieniche sono


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Maschio di Volterra

Carcere le Stinche, Firenza, miniatura

precarie e il caldo soffocante costringe ad eliminare gli indumenti, gesto che spesso determina gravissime infezioni. Nel regno ci sono altri tre carceri per un totale di circa 150 detenuti, quattro galere che contengono 1.130 uomini e infine una casa per poveri, il Serraglio, che conta 360 persone e dove gli abili lavorano come manovali, mentre gli altri sono poveri, mendicanti. A Modena troviamo la situazione tipica italiana in cui masse di contadini devono fuggire dalle campagne che hanno per anni rappresentato il loro sostentamento, a causa dell’esosità dei tributi da versare ai padroni; queste persone diventano allora masse inurbate, andando ad incrementare il numero di poveri e mendicanti presenti nella città. Ci troviamo davanti ad una situazione in cui abbonda la manodopera, fino ad essere inutilizzata, e dove scarseggiano i capitali. In questo momento l’internamento deve avere un messaggio deterrente e quindi è concepito come una ”ideal house of terror” inglese. Interessanti sono le riflessioni fatte da Muratori, il quale sostiene che “ognuno deve vivere del suo, e procacciarselo in caso di bisogno col sudore della fronte, quando pure gli assistano le forze”, l’elemosina è vista come attrattore per i poveri, non incentivandoli a cambiare la loro situazione. Le stesse idee vengono recuperate successivamente, nel 1787, da Lodovico Ricci in Riforma degli istituti pii della città di Modena, in cui vengono criticati i sussidi dati ai poveri come la causa costante di povertà. Per quello che riguarda gli Stati pontifici, a Roma, viene costruito un Ospizio generale nel 1703 per volontà di Clemente XI, la cui sezione più famosa è l’Ospizio di San Michele che è la casa di correzione per i giovani. Riprende il concetto alla base del San Filippo Neri di Firenze, in quanto viene applicata una forzatura più ideologica per i giovani aristocratici e borghesi e invece una detenzione lavorativa per

chi deve scontare condanne giudiziarie, quindi per i proletari. Questa costruzione rappresenta il solito passaggio dalla punizione intesa in ottica mercantilistica che si basa sul lavoro e quindi, produttiva, a quella ottocentesca basata sulla volontà di imprimere una pena terroristica dal forte carattere ideologico. È anche considerabile come la prima compiuta prigione cellulare. Nel panorama sociale assistiamo a grandi cambiamenti, i saccheggi e le devastazioni causate dagli eserciti francesi e austriaci impoveriscono le campagne così come l’obbligo della leva militare elimina braccia all’agricoltura; inoltre, i tributi da pagare al nuovo stato, quello francese, sono sempre più esosi, con la diretta conseguenza dell’aumento esponenziale del brigantaggio. La riforma carceraria subisce una notevole accelerazione; il principio della pena detentiva affiliato al lavoro da svolgersi in carcere, viene ribadito dalle truppe francesi ed entra nella pratica dei sistemi carcerari italiani. Il periodo che segue la sconfitta francese non destabilizza in maniera incisiva lo sviluppo del nuovo ordine. Nel 1814 Vittorio Emanuele I, in Piemonte, decide di ripristinare l’ordine pre-rivoluzionario e reintroduce alcuni sistemi di tortura. Nel 1839 Carlo Alberto pubblica un nuovo codice per risolvere la questione penale e attraverso l’opera del conte Ilarione Petitti, viene operato un tentativo di riformare materialmente lo stato e le istituzioni carcerarie. Viene scelto il modello carcerario americano di Auburn che prevede segregazione notturna e lavoro comune in silenzio di giorno. Si costruiscono su questa idea i due carceri di Alessandria e Oneglia. Nel 1849 Cavour affronta nuovamente la questione, spingendo per adottare il sistema filadelfiano il quale alla fine viene approvato. Le accuse mossesono di due tipi; da una parte vertono sull’inumanità del

sistema e dall’altro tengono in considerazione l’ingente quantitativo di capitali che servono per riadattare le strutture esistenti a un modello che prevede la reclusione singola continuativa. Nel 1859 viene promulgato il codice penale sardo-italiano, che diventerà il codice penale del nuovo regno di Italia. Esso prevede la distinzione tra sei differenti tipi di pene. Ci sono le pene criminali che prevedono i lavori forzati per un determinato periodo o a vita, la reclusione e la relegazione; le pene correzionali, che prevedono il carcere e la custodia per tutti, ad eccezione della relegazione della custodia ed offrono la possibilità di scontare la pena lavorando. La Lombardia conosce un peggioramento delle condizioni detentive, a seguito della restaurazione della dominazione austriaca. Il codice austriaco del 1803 distingue le pene del carcere, del carcere duro e carcere durissimo, il quale viene descritto come una forma di lento supplizio. Si continua a portare avanti la necessità del lavoro, vista come unica fonte di sostentamento. È in Toscana l’esempio più rivoluzionario del periodo. La casa di Volterra viene destinata ai lavori forzati, viene abolita la prigione delle Stinche a Firenze, le donne vengono trasferite a San Gimignano e nel carcere delle Murate. Agli inizi degli anni 40 dell’’800 si trasformano il carcere delle Murate e il maschio di Volterra in strutture cellulari, sancendo il principio dell’isolamento notturno, del lavoro e della scuola in comune, con la possibilità di interagire durante il giorno. Il regolamento vieta una serie di retaggi medioevali, quali le finestre basse che permettono un contatto con l’esterno, l’uso di grandi banchetti per le festività e altri. Ci si avvia in questo modo verso la concezione borghese del carcere. Nel 1848 C. Peri scrive un libro “Cenni sulla riforma del sistema penitenziario in Toscana”. Si tratta di una documentazione minuziosa


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delle condizioni di vita all’interno dei carceri del Granducato di Toscana, che comportano una sorta di censimento. Comprende piante, annotazioni sul numero dei detenuti, la composizione dei carcerati e le malattie di cui soffrono. Nel 1849 si procede a istituire il sistema filadelfiano in tutti gli istituti, sostenuto tra gli altri anche dal Peri, un sistema che viene definitivamente sanzionato nel 1850. L’introduzione di tale sistema rappresenta un’ulteriore involuzione del lavoro in carcere, che ora mira al solo autosostentamento della struttura, a causa del pericolo concorrenziale che il lavoro dei detenuti può rappresentare sul mercato libero. Il 10 gennaio del 1860 si ha una riforma del sistema penitenziario a seguito di una commissione di indagine formata dopo la pubblicazione di un volume, Saggio di studi igienici sul regime penale della segregazione fra i reclusi, del medico C. Morelli. Viene abbracciato il modello di un carcere misto, secondo il quale la prima parte della pena viene scontata attraverso la segregazione continua e mentre la seconda, attraverso il lavoro in comune e il silenzio. Viene abolita la pena di morte, si riducono temporalmente le pene. Questo codice rimane in voga fino al codice Zanardelli, cioè fino al 1889. Nell’Italia che si avvia verso l’Unità, l’esistenza di vastissime fasce di un proletariato non occupato, induce il carcere a non perseguire finalità immediatamente risocializzanti, ma a dedicarsi alla gestione, ideologico-terroristica, di queste fasce di popolazione escluse dalla produzione.

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“Panopticon”, foto di IlConte, utente Flickr

L’architettura della detenzione

Le carceri post moderne sono sostanzialmente a corte con un cortile circondato da alte e spesse mura, il loro disegno e la filosofia ad esse sottesa, propongono un mix tra lo schema della fortezza e quello del monastero. Il carcere come noi oggi lo concepiamo nasce nel periodo illuministico, cioè quando si fissa la cesura con la tradizione precedente che si basava sulla punizione. Il nuovo ordinamento invece insiste sul diritto penale che è lo strumento della punizione regolata legalmente, definita in misura equa. I luoghi della pena post illuministi sono tutti caratterizzati dalla totale visibilità interna alla quale corrisponde un’altrettanta totale opacità da e verso l’interno. Sono i luoghi cosiddetti della sorveglianza e gli esempi più lampanti sono il Panopticon, ideato da Jeremy Bentham, in cui l’ispettore o la guardia carceraria hanno un posto centrale da cui può sorvegliare ciascun detenuto. In verità, il modello del Panopticon non ha mai trovato una realizzazione completa, ma ha dato vita a varianti centrate sul suo schema concettuale, tra cui la struttura radiale dello schema transilvanico e philadelfiano, la struttura a croce dei carceri nordici e la struttura a pettine, tipica dell’inizio del XX secolo. Solamente alla fine degli anni ‘80 viene stabilito un sistema di monitoraggio dei luoghi di segregazione istituendo un organismo indipendente e deputato a questa particolare funzione. Per arrivare a comprendere questo cambiamento occorre procedere per “convenzioni legislative”. Nel 1949 la Convezione Europea dei diritti umani fissa l’inderogabile principio che nessuno possa essere sottoposto a tortura, trattamenti e pene contrari al senso di umanità e alla dignità della persona detenuta. Nel 1987 la Convenzione Europea per la prevenzione della tortura comporta l’istituzione di un apposito comitato sovranazionale, a cui è garantito illimitato accesso ai luoghi


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Federal Correctional Complex, Allenwood, USA

di privazione della libertà, alle persone in esse ristrette e alla relativa documentazione. Tale apertura ed obbligo ad essere visti determina ovviamente un cambiamento nel modo di concepire la struttura e quindi un successivo mutamento tipologico nell’architettura dei penitenziari. Nell’occidente europeo si adotta progressivamente un modello architettonico carcerario con ampi corridoi e spazi per attività che fanno prefigurare il contributo della società esterna chiamata al volontariato. Gli spazi più articolati presuppongono anche la realizzazione di spettacoli, attività teatrali, associazioni tra i detenuti. Il problema è che le attività preposte sono passivamente offerte dalla società civile ai detenuti. La passività finisce per sminuire ogni innovazione e questi luoghi cominciano ad essere sfruttati come alloggi per far fronte al sovraffollamento. Nell’est Europa e negli Usa prevale un modello differente, centralizzato, completo ed autonomo che non tesse nessun tipo di rapporto con l’esterno, mentre nel nord Europa cominciano, già dagli anni ‘50, dei progetti per ricreare uno spazio interno il più possibile simile a quello esterno e a questa visione spaziale corrisponde una maggiore responsabilizzazione dei detenuti stessi, i qual sono liberi di prendere decisioni e possono svolgere attività che gli permettano di auto sostenersi.

ESEMPI ESTERI Le strutture americane

Federal Correctional Complex, Florence, Colorado, USA

Federal Correctional Complex (Allenwood). È uno dei complessi realizzati dal “Federal Bureau of Prison”, terminato nel 1994. Il commento a questa struttura è interessante soprattutto se

si pensa che viene edificata nello stato in cui, a fine Settecento, è elaborato il modello penitenziario pesilvanico o filadelfiano. La struttura carceraria, per 2.300 detenuti, situata alle pendici di una collina, è composta da tre strutture nettamente separate; una per la bassa sicurezza, una per la media ed una per l’alta, tutte tre dotate di una cinta muraria e spazi esterni di servizio. A queste tre sezioni se ne aggiunge un’altra, più piccola e separata, per i collaboratori di giustizia, 54 al massimo. Questa architettura carceraria mette assieme i dettami imposti dal Bureau of Prison e la morfologia degli edifici presenti nella regione. I vari blocchi sono bassi, uno o due piani, di muratura e vetro con coperture in metallo scuro. Il concepimento delle strutture si basa sull’idea di garantire la maggior interazione possibile tra i detenuti e il personale dello staff e sulla riabilitazione attraverso la dotazione di spazi per la formazione scolastica e professionale. Il complesso ad alta sicurezza, ospitante un massimo di 514 detenuti, è isolato rispetto al resto, cinto da una doppia recinzione di filo spinato. La supervisione costante è assicurata da sei torrette di guardia collocate in prossimità degli angoli del perimetro. Per questi detenuti i rapporti e gli scambi sociali sono limitati ed ogni spostamento è supervisionato grazie alla divisione in piccoli gruppi. Il reparto di media sicurezza segue un disegno planivolumetrico radiale, che permette l’ottimizzazione della sorveglianza, mentre gli spazi detentivi sono sempre a forma triangolare per favorire l’interazione detenuto-operatore. Il modello su cui si basa la sezione di bassa sorveglianza è quella di un campus universitario. Formato da due edifici ad L, ospitanti ognuno 248 detenuti, riflette la relativa libertà di cui godono i prigionieri.

Bartholomew County Jail, Columbus (Indiana) E’ realizzato in mattoni faccia a vista e pietra bianca per integrarlo nella morfologia edilizia locale mentre, la copertura a cupola, contribuisce a sottolineare la portanza civica della struttura. Al suo interno accoglie il dipartimento dello sceriffo con spazi pubblici annessi e l’edificio detentivo che ha una pianta poligonale. Il complesso è inserito nella lottizzazione urbana. Leon County Detention Facility, Thallahassee (Florida) Nasce come ampliamento di una struttura preesistete. Si passa da 300 posti a 776 ed una capienza massima di 1.443, possibile grazie ad un aumento di posti letti con una doppia cuccetta senza espansione della struttura. Lo spazio è organizzato per minimizzare i movimenti dei detenuti e facilitare il controllo diretto. Al suo interno il complesso contiene coloro che sono in attesa di giudizio, coloro che devono attendere un’esecuzione penale, siano essi uomini, donne o minori. Le celle sono raggruppate in più unità ed ogni raggruppamento ha un accesso alla sala colloqui e agli spazi per le attività.

Le strutture europee Penitenziario di Dordrecht, Olanda E’ nato dall’esito di un concorso indetto dal Ministero dei Lavori Pubblici in cui viene chiesto come requisito una maggiore attenzione al rapporto tra libertà e limitazione dei movimenti dei detenuti. Il concorso, vinto da Thomas Tavera, è basato su una successione di spazi pubblici, su modello urbano, strade, piazze, residenze. La pianta è a croce con bracci disuguali. Le strutture detentive e le aule per i laboratori si trovano in edifici a tre piani, organizzati in due ali non


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parallele con 24 celle a piano e terminanti in una stanza ovale. Gli altri edifici, più alti, ospitano gli uffici e una palestra. Gli edifici giocano su una varietà cromatica ispirata ai quadri di Mondrian. Penitanziario, Isola di Bastoy, Norvegia Il penitenziario a impatto zero, che usa pannelli solari, autoproduce i viveri ad esso necessari per sostentarsi e ricicla tutto quanto è possibile riciclare. Esso sorge nell’isola di Bastoey, 75 km a sud di Oslo. Più che un istituto di correzione sembra un campo estivo: i 115 detenuti hanno a disposizione campi da tennis, possono andare a cavallo nella riserva naturale che circonda la prigione e nuotare anche, quando le acque del Mare del Nord, in estate un po’ più calde, lo consentono. Evadere da questo paradiso? I “reclusi” non ci pensano nemmeno, anche perché la prigione di Bastoey non ha sbarre, agenti di custodia e nulla che assomigli a un carcere. L’idea di sposare la detenzione all’ambiente, ha spiegato ieri alla stampa il ministro della Giustizia Storberget, mira a educare i detenuti al rispetto dell’ambiente, oltre che della società e delle leggi. I costi sostenuti per mantenere attiva la struttura, saranno infatti recuperati, sostiene Storberget, se il reinserimento dei detenuti nella società avverrà in maniera corretta: solo, insomma, se come gli altri cittadini saranno in grado di ricominciare una vita normale e produttiva.

Casa delle vacanze, penitenziario Bastoy, Norvegia

Solarium, penitenziario Bastoy, Norvegia

Cucine autogestite, penitenziario Bastoy, Norvegia

Maison d’arret, Brest La Francia ha un patrimonio vecchio ed obsoleto, più di quello italiano e per rispondere alle mutate esigenze di sicurezza ed igiene, molti nuovi complessi sono stati concepiti con un approccio modulare che ne aumenti la futura flessibilità. I tre criteri basilari su cui si basa la progettazione sono: dignità,


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sicurezza e riabilitazione. La prigione in esame, è stata completata nel 1990. Il rigore dei prospetti esterni maschera l’organizzazione degli spazi interni; questi ultimi sono un insieme compatto ospitante tutti i servizi, tanto che solo l’amministrazione, il magazzino, le aule per i colloqui e gli spazi per semiliberi, sono separati. L’architettura, come disciplina, si inserisce in questo progetto attraverso una ricerca accurata della luce, lo studio planivolumetrico delle celle e le differenziazioni dei colori.

Carcere giudiziario Badu e Carros, Nuoro

IL CASO ITALIANO

attività di passaggio. Lo spazio del non luogo crea, per sua natura, solitudine, insicurezza e fragilità. Considerando il carcere alla stregua di spazi come i centri commerciali, le stazioni, i treni e gli ospedali, come possiamo umanizzarlo? Negli ultimi trent’anni, l’architettura è completamente avulsa dalla progettazione degli edifici carcerari quasi non ne fosse degna o in grado. Ma, procediamo con ordine e torniamo indietro nel tempo, analizzando i nomi e i progetti di coloro che si sono interessati di architettura penitenziaria. Uno dei primi che dobbiamo ricordare è Mario Ridolfi, architetto che, agli inizi degli anni ‘50, si pone il problema di cercare un punto di incontro tra le richieste detentive e deterrenti, con la riqualificazione architettonica dell’opera nel contesto ambientale. Egli si occupa prevalentemente della composizione architettonica, della ricerca di materiali e della continuità morfologica con gli edifici della tradizione. A lui si devono i progetti per il carcere di Nuoro e Cosenza. La figura più significativa nel panorama italiano rimane Sergio Lenci, architetto e grande conoscitore dell’edilizia e del patrimonio carcerario italiano, grazie al suo trascorso lavorativo presso la Direzione Regionale degli Istituti di Prevenzione e della Pena (DAP). Le sue riflessioni, definibili progressiste per l’Italia dell’epoca, prendono ispirazione dal patrimonio carcerario estero, nonché da strutture, quali studentati

queste, il nuovo sistema tipologico a ballatoio affacciante su uno spazio centrale aperto. Lavora sul perimetro, posizionando a cavallo della recinzione il fabbricato della direzione, creando un sistema di accesso più articolato, una corte ed uno spazio pubblico aperto. Progetta infine un sistema del verde per rendere meno alieno il complesso costruito rispetto all’intorno. Gli vengono commissionati altri lavori, più limitati, quali il carcere di Rimini, di Spoleto e di Livorno dove può sperimentare sempre soluzioni differenti. A Rimini idea un impianto a T su due livelli, mentre a Spoleto sperimenta una maggiore densità insistente su tre livelli, ottenibile grazie all’accorciamento dei corridoi di collegamento, all’aumento della scomposizione dei gruppi di celle attraverso lo sdoppiamento della sezione per trenta detenuti in una L. Il pian terreno è riservato ai collegamenti funzionali. Si aggiunge a ciò il complesso ad undici piani per la caserma degli agenti, una palestra e atri servizi. Tutta la struttura è realizzata in cemento armato con tamponature prefabbricate. Nel progetto della casa circondariale di Livorno dispone gli edifici contenenti le celle in modo da ottenere un affaccio verso l’esterno e l’ottimizzazione della luce naturale. L’edificio a torre, sempre contenente gli spazi per gli agenti, è un landmark nel paesaggio circostante. Un altro progetto da considerare è quello per Sollicciano a Firenze, realizzato da Mariotti, Inghirami, Campani ed altri, tutti architetti

In questo momento, storico, architettonico e sociale, l’architettura dovrebbe interrogarsi su quali siano le possibilità che può’ sfruttare per umanizzare un non luogo come il carcere. Parliamo di non luogo come concetto che si sta affermando in contrapposizione a quello di luogo e che sottintende tutte quelle situazioni ambientali destinate ad

o college. Si basano sulla ricerca e sulla successiva applicazione dei criteri di igiene, declinabili in aerazione, luminosità, facilità di manutenzione, inserimento nel verde. Il più grande progetto sviluppato è senza dubbio quello della casa circondariale di Rebibbia a Roma, commissionatogli nel 1959. Alcune proposte per questo progetto non vengono realizzate, altre si. Tra

fiorentini. Quest’ultimo è l’esito di un concorso indetto nel 1974 in cui vengono sperimentate soluzioni alternative, poi stroncate dalla riforma penitenziaria del 1975. Proprio quest’ultima sancisce l’inizio dell’emergenza carceraria; i temi di sperimentazione progettuale cambiano e l’architettura scompare lasciando il posto ad un progetto tipo, per tutte le costruzioni simili, definito da un pool di progettisti della

Bians a St Esteve, Sesrovire (Spagna) Vicino a Barcellona, terminato nel 1992 per 100 detenuti, segue un impianto regolare e rettilineo, basato sulla modularità che permette un facile aumento dei locali in caso di necessità. Mutter-Kindheim, Justizvollzugssanstalt III, Preungesheim (Germania) E’ un esempio di sperimentazione delle strutture per detenute madri con bambini, completata nel 1988. Il progetto ha cercato di limitare il più possibile l’effetto carcere eliminando, per esempio, le inferiate. Le scelte architettoniche limitano notevolmente le misure di sicurezza o comunque la loro percezione.

Casa Circondarilae, Cosenza


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Casa Circondariale Rebibbia, Roma

Casa Circondariale Rimini

Casa Circondariale Sollicciano, Firenze

direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena dell’Edilizia Statale. La qualità architettonica degli spazi soccombe in favore di una sempre maggior compattezza dei volumi e della loro successiva riduzione. Si verifica una chiusura anche del ciclo di gestazione e produzione del progetto del carcere, che porta alla proliferazione di strutture carcerarie in aree periferiche e sub urbane completamente avulse e decontestualizzate. Fatta eccezione per i citati esempi, dopo gli anni ‘70, ci sono solo episodi isolati in cui l’architettura si approccia alla progettazione del carcere e anche quando ciò avviene è sottoposta ad un “trattamento rieducativo”, nonché assoggettata ad una serie di criteri e normative da seguire rigidamente. L’unico esempio che dobbiamo citare in questa sede è l’operato dell’architetto Giovanni Michelucci, che negli anni’80 supera il disagio dell’architettura al progettare queste strutture, occupandosi del giardino interno del Carcere di Sollicciano.


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Il Giardino degli Incontri, interno, Casa Circondariale Sollicciano, Firenze

Il Giardino degli Incontri, planimetria esterno, Casa Circondariale Sollicciano, Firenze

Il Giardino degli incontri

Il sistema Bollate

La vicenda progettuale del ‘Giardino degli Incontri’ nel complesso carcerario di Sollicciano a Firenze, rappresenta una storia emblematica di erosione creativa del muro di pregiudizio e di esclusione quale è il carcere. “Innanzitutto non si tratta di un giardinetto carcerario ma di un giardino della città nel carcere con caratteristiche tali da favorire anche utilizzi sociali più ampi. Siamo sul confine tra “dentro e fuori”, tra “interno e esterno”.” L’opera è destinata agli incontri dei detenuti con i loro familiari, ma anche ad altre iniziative utili all’apertura di rapporti da parte della società civile e delle sue istituzioni al mondo del carcere. Il punto di partenza del progetto è la ricerca di una migliore risposta da parte dell’Istituto alle esigenze di incontro delle persone detenute con i propri familiari. Dal periodo in cui il progetto del Giardino è ideato e redatto, sono maturati nuovi problemi ed altre necessità per le quali una struttura versatile come il giardino può dare un suo contributo di spazi. Dal progetto di Michelucci emerge una reale volontà di cambiamento rispetto alla gestione di un carcere che è oggi soprattutto un grande contenitore di marginalità.

Questo esempio è interessante non tanto dal punto di vista architettonico, ma dal punto di vista organizzativo e del reinserimento sociale che comporta, successivamente, maggior flessibilità degli spazi architettonici stessi. La Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate apre nel 2000 e si configura come un istituto a custodia attenuata per i detenuti comuni. I presupposti del progetto sono: _la selezione dei detenuti che consente libertà di movimento all’interno della struttura e la partecipazione ai progetti proposti; _il peer support per sopperire alla mancanza di appoggi esterni a causa della penuria di fondi; _ poteri delegativi. Esiste un detenuto incaricato, per ogni sezione, che collabora attivamente con la direzione, facendosi portavoce dei suoi compagni. Uno degli obiettivi di questa istituzione è la condivisione dell’organizzazione con la pubblica amministrazione ed enti esterni assicurando quindi un sentimento di cooperazione. Quest’ultimo si attua attraverso tavoli di discussione con cadenza trimestrale che riuniscono tutte le realtà che operano a qualunque titolo all’interno del carcere per discutere dell’avanzamento dei progetti, per migliorarli e per redistribuire, qualora ne esistesse la necessità, gli spazi.

Carcere Milano Bollate, Vivaio interno

Carcere Milano Bollate, vista giardino


No Loitrin, street art

Carcere e spazio urbano

L’allontanamento delle carceri dal centro della vita cittadina, posizione che mantiene nel corso dei secoli, è spiegabile sotto vari aspetti. Da una parte occorre considerare le politiche igienico sanitarie cominciate all’inizio del 1800 da Napoleone e protrattesi per oltre un secolo e dall’altra la necessità e la scelta di separare l’edificio deputato alla detenzione dal tribunale. È proprio quest’ultima che porta alla nascita di una edilizia penitenziaria. Si comincia quindi un processo di studio continuo volto a migliorare i complessi esistenti e a crearne di nuovi, tipologicamente più funzionali, finendo per produrre luoghi sempre più chiusi in se stessi che si caratterizzano per una progressiva segregazione ed estraneazione dal contesto urbano. Il processo di “periferizzazione” si rafforza e afferma nel corso del Novecento, senza più mostrare alcun segno di inversione. Inizialmente, attorno agli anni ‘70 e ‘80 in concomitanza, per quello che riguarda l’Italia, con gli anni di piombo e le azioni terroristiche interne, si assiste ad una delocalizzazione degli istituti penitenziari dai centri cittadini ad aree periferiche. Questo viene fatto sia per una ragione igienico sanitaria, sia per carenza di spazi ma anche perché le strutture in cui sono inseriti i penitenziari, godono di un importante valore storico ed artistico. La dismissione delle vecchie carceri porta con se anche un notevole cambiamento nella storia urbana di una città, nel sistema di relazioni e di scambi, in quanto la rimozione fisica favorisce la rimozione dalla memoria. Ora come ora, si assiste ad un’espulsione fisica ancora più decisa di queste strutture, non limitandosi più alle estreme periferie ma dirottandole verso i cosiddetti terreni di frangia, al di là delle zone pianificate dai piani regolatori e al di là dello sprawl urbano, vicino alle grandi infrastrutture, nei terreni agricoli residuali o in situazioni estreme su isole.


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L’isolamento fisico di queste strutture si traduce in grandi difficoltà sia per coloro che devono raggiungere il carcere per visitare i propri cari, sia per coloro che in carcere lavorano. Il carcere non solo è lontano dai centri pulsanti della città e ad essa mal collegato, ma anche concepito morfologicamente come altro. Per le nuove carceri manca completamente la volontà o comunque un progetto per ricercare una qualsiasi contestualizzazione ed un’attenzione sugli spazi limitrofi concepibili come spazi cerniera. Nel 2000 viene proposto da Alessandro Margara un piano per la ristrutturazione e l’adeguamento delle strutture esistenti che viene ignorato, percorrendo invece una via più semplice, quella del piano carceri. Vengono mosse molteplici critiche al piano carceri varato dal governo Berlusconi, soprattutto perché sembra non faccia altro che replicare il modello e i problemi delle strutture delocalizzate già esistenti, concretizzandosi in padiglioni aggiuntivi che si installeranno all’interno dell’area di pertinenza delle strutture presenti, senza proporre nuove soluzioni alternative. Occorre comprendere che lo stato attuale in cui versa il comparto carcerario è la conseguenza di scelte legislative e di prassi amministrative pigre ed emergenziali. Un particolare filone di sociologi afferma che sia necessario riportare in città alcune forme di detenzione per favorire il reinserimento sociale dei detenuti, queste strutture potrebbero essere: le strutture per gli arresti domiciliari, le casa famiglia per le detenute madri, le case di semilibertà e le residenze per detenuti con bisogni di sostegno. Alla base di questa delocalizzazione c’è un pensiero che si basa sul concetto di capienza costituzionale. Oggi, per classificare il numero dei detenuti ci si basa su tre indicatori: la capienza regolamentare e la capienza effettiva delle strutture carcerarie e i dati reali (questi ultimi sono nettamente superiori delle previsioni delle precedenti); ma,

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se si cominciasse a parlare di capienza costituzionale, ossia non si considerasse il carcere come struttura che abbia funzione di raccolta dei “rifiuti” sociali, tossici, immigrati, poveri, non si supererebbero le 30.000 unità. Tutti gli altri sarebbero interessati da pene alternative al carcere, dislocate in strutture adeguatamente integrate nel tessuto urbano. Occorre pensare quindi ad una nuova forma di città che operativamente equivale a pensare ad una rete di edifici, radicata sul territorio, funzionali al trattamento penitenziario e alle finalità risocializzanti della pena e della privazione della libertà. Il rapporto tra la forma del carcere e la forma della città, inteso come lo stretto legame funzionale tra i due, rimanda alle prospettive offerte dalla normativa in materia di esecuzione penale e di assistenza sociale che, a partire dalla riforma del 1975, hanno sancito il principio di un carcere aperto alla realtà sociale esterna e che ha affiancato all’amministrazione penitenziaria l’ente locale alle differenti scale territoriali. Il concetto di carcere e di forma urbana verrebbe a concretizzarsi in una serie di strutture funzionali al trattamento penitenziario, cioè le strutture detentive e in strutture alternative alla detenzione, collocate sul territorio. Portiamo di seguito due esempi per ricostituire l’iter storico che sfocia nella delocalizzazione delle carceri attuali nel caso di Venezia e di Firenze.


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Planimetria sviluppo urbano Venezia XI secolo

Planimetria sviluppo urbano Venezia XIV secolo

Planimetria sviluppo urbano Venezia XIX secolo

Planimetria sviluppo urbano attuale

Il Palazzo Ducale, edificato a partire dal IX secolo a seguito del trasferimento della sede ducale da Malamocco all’odierna Venezia, ospita fin dall’inizio i luoghi deputati a prigione. Inizialmente le celle sono ricavate nella scomparsa Torresella, una torre fortificata, ma essendo in numero insufficiente ne vengono create di nuove sul lato sud al pian terreno e altre nel sottotetto. Il palazzo ducale è, in quest’epoca, il modello di palazzo signorile che ospita sia gli uffici giudiziari sia, al piano superiore, le celle detentive ad esse collegate. Le celle sono ricordate sotto il nome di Pozzi e Piombi. I primi sono luoghi insalubri in quanto costruiti al piano terra, in parte interrati e umidi, nonché soggetti ad allagamenti continui. I piombi, così chiamati per la copertura realizzata in piombo, sono un ambiente invivibile, estremamente caldo in estate e freddo in inverno.

Attorno al 1500, a causa dell’aumento della popolazione lagunare e del conseguente sviluppo urbano, le prigioni interne al Palazzo Ducale risultano insufficienti e vengono trasferite nel palazzo a fianco appositamente costruito: il Palazzo delle Prigioni Nuove. Il complesso viene collegato al Palazzo Ducale attraverso il Ponte dei Sospiri, così chiamato in quanto assicurava al giudicato un ultimo sguardo sulla laguna prima di essere incarcerato. Di notevole rilievo è l’importanza che tale ponte e tale palazzo hanno nell’ideologia collettiva veneziana, e non solo, grazie a celebri romanzi quali “La mia fuga dai Piombi” di Giacomo Casanova e le “Le mie Prigioni” di Silvio Pellico. Quest’ultimo descrive, attraverso dettagli minuziosi, la sua permanenza all’interno delle Prigioni Nuove, riportando gli stimoli che avverte dal mondo esterno. Annota i rintocchi delle campane della Basilica di San Marco, le grida provenienti dalla piazza antistante e i dialoghi instaurati con i giovani inquilini del palazzo di fronte. È una chiara testimonianza dell’importanza di una prigione inserita nei luoghi della vita urbana.

Dal 1942 il complesso conventuale di Sant’Eufemia sull’isola della Giudecca comincia ad ospitare detenute, esclusivamente donne e jugoslave, dopo questa data diviene Casa Circondariale e successivamente Casa di Reclusione Femminile. La struttura è interessante per vari aspetti. Rappresenta un caso emblematico di riuso di spazi architettonici riconvertiti a penitenziario. E’ un esempio di delocalizzazione delle strutture carcerarie; infatti, l’Isola della Giudecca rappresenta la “frontiera urbana” della città di Venezia in cui i primi insediamenti cominciano a svilupparsi nel XI secolo. E’ inizialmente luogo di evasione, per tramutarsi dal XVIII secolo, in un sobborgo operaio sviluppatosi attorno ad alcuni impianti industriali. Oggi il carcere della Giudecca è un complesso di sperimentazione per i luoghi di detenzione delle donne madri. Per ricreare un ambiente più “libero” sono eliminate le inferiate al piano terra e si agisce sulla differenziazione dei colori per i vari ambienti. È una struttura che potremmo definire “ricca” in cui tutte le detenute sono occupate.

La sezione maschile dal Carcere della Giudecca viene trasferita presso la Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore. La struttura, di nuova costruzione, ha un impianto a palo telegrafico articolato attorno ad un corridoio centrale. Sorge, inizialmente, in una zona scarsamente popolata di Venezia, vicino alla stazione di Santa Lucia ed ora si ritrova inglobata nel tessuto urbano e vicino al tribunale. La casa circondariale soffre degli usuali problemi di sovraffollamento; il sindaco di Venezia ha mostrato più volte l’intenzione di dismetterla, qualora potesse essere sostituita con una struttura esterna alla città.


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Planimetria sviluppo urbano Firenze XI secolo

Planimetria sviluppo urbano Firenze XIV secolo

Planimetria sviluppo urbano Firenze XIX secolo

Planimetria sviluppo urbano Firenze attuale

Le carceri più antiche di Firenze, utilizzate fino in epoca medioevale, sono ricordate con il nome di “Burellae”. Esse sono allestite nei sotterranei voltati dell’antico anfiteatro romano; è curioso notare come tuttora a Firenze esista via Burella. Successivamente, vengono adibite a luoghi detentivi le torri dei palazzi civici. Tra queste ricordiamo una torre nei pressi di San Salvatore al Vescovo e la Torre Pagliazza. Una delle celle più prestigiose è senza dubbio “l’ Alberghetto” nella torre di Arnolfo a Palazzo Vecchio. Qui vengono rinchiusi sia Cosimo il Vecchio sia Girolamo Savonarola.

Il carcere delle Stinche trae il nome dall’omonimo castello presso Greve di Chianti. Nel 1304 Firenze muove contro la fortezza, cattura i suoi abitanti e li imprigiona nel carcere, appunto delle Stinche. Diviene carcere politico e in seguito militare e civile, accogliendo personaggi quali Niccolò Macchiavelli e Cennino Cennini. La struttura, comprendente un intero isolato, denominato quindi Isola delle Stinche, è a pianta quadrata cinta da un altissimo muraglione. Esiste un unico ingresso, con una porticina recante la scritta “Oportet Miserer” (Occorre compatire), ricordata come La Porta della Miseria. Lungo la via che conduce dal carcere al “Parco della Giustizia”, sorgono una serie di tabernacoli affrescati con scene cristologiche per dare conforto a coloro che, per l’ultima volta, percorrono tale strada, quasi a simboleggiare una Via Crucis per i condannati a morte. Oggi ne rimangono solo alcuni, tra cui il Tabernacolo dei Malcontenti e quello delle Stinche. Il carcere viene chiuso nel 1830 e vi sorgono una filarmonica e l’attuale Teatro Verdi.

La struttura che ospita il carcere delle Murate fino al 1985, anno di apertura della Casa Circondariale di Sollicciano, è inizialmente un monastero, restaurato successivamente dall’Architetto Domenico Giraldi. Il carcere prende il nome dall’ex convento delle Murate, così chiamato in quanto le sue ospiti, dedite alla vita cenobitica, non hanno alcun contatto con il mondo esterno. Il carcere è tristemente noto durante la Seconda Guerra Mondiale come centro di raccolta e tortura dei prigionieri politici e dei partigiani catturati dai Nazifascisti in tutta la regione. Se ne ha memoria anche per il salvataggio dei detenuti durante l’alluvione del ‘66 da parte dei fiorentini. Oggi il complesso è completamente restaurato grazie ad un intervento di Renzo Piano.

Il carcere di Sollicciano è consegnato all’amministrazione fiorentina nel 1983 ed inaugurato nel 1986. Viene costruito nel momento massimo di sperimentazione architettonica per le strutture detentive. Progettato da Sergio Lenci, nasce in una zona periferica, in un paese a ovest di Firenze. Presenta uno studio planimetrico ricercato volto a ricreare il simbolo del giglio fiorentino, attraverso dei padiglioni semicircolari collegati con corridoi. Purtroppo l’incuria, la mancata manutenzione e il sovraffollamento, lo hanno trasformato in una struttura obsoleta, afflitta da una congenita mancanza di spazi e condizioni di vita inumane. Ricordiamo questa struttura anche per il progetto, eseguito dall’Architetto Giovanni Michelucci, con un gruppo di detenuti, per il Giardino degli Incontri, uno spazio versatile sia chiuso che aperto, che ripropone una dimensione di spazio pubblico urbano per stemperare la freddezza della zona colloqui e favorire i rapporti umani.


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Il ruolo dell’architettura Vari studiosi convengono sull’affermare che un carcere della riforma, inteso come traduzione spaziale dei principi affermati dalla sociologia, il costume, la politica, l’architettura, non esista. Dopo la riforma del 1975 non si riesce a cogliere un miglioramento sul tema della delocalizzazione delle nuove carceri, anzi questo viene incentivato e ciò provoca una rottura anche nella memoria collettiva rispetto alle storicità sedimentate, all’intreccio di relazioni sociali e culturali nate nel carcere e attorno ad esso. Si può quindi affermare che la riforma non abbia comportato il nascere di un dibattito o di un interessamento sull’importanza specifica in cui collocare un edificio detentivo, tanto meno di mantenere le persone in attesa di giudizio in un luogo ragionevolmente vicino alla sede in cui saranno giudicate o le persone in semilibertà in un luogo che possa consentire un agevole raggiungimento del posto di lavoro ed una reintegrazione efficace all’interno del tessuto sociale. Ovviamente l’architettura può inserirsi in un’ottica di miglioramento e rivoluzione degli spazi carcerari solamente in quegli ambiti caratterizzati da un’aria di rinnovamento perché, laddove fossero dominanti le prescrizioni della committenza, dove ci fosse una ripetitività e una rigidità degli schemi, l’architettura è scoraggiata a parteciparvi. Quest’ultimo fenomeno si verifica quando, a seguito della riforma, l’architettura non è considerata adeguata ad assumere lo specialismo carcerario, tanto che viene predisposto un modello tipologico unico di riferimento la cui traduzione, in un cospicuo numero di nuove carceri, è ripeta con minime variazioni. Gli anni dell’emergenza carceraria, iniziata nel 1975 e protrattasi per “Il Muro con le Catene”, Le Carceri di invenzione, Giovanni Battista Piranesi

circa un decennio, fanno calare il sipario sui programmi e sui progetti riformatori e innovatori di architettura carceraria. Con l’emergenza scompare l’architettura, non c’è più spazio per i concorsi, ne tanto meno per i tentativi di rielaborazione critica dei requisiti richiesti. In Italia, oggi, si sta parlando di piano carceri, da molti visto come il tentativo labile di promuovere qualche tamponamento per sopperire alla realtà attuale degli istituti penitenziari. La costruzioni di undici nuovi carceri e di venti padiglioni, per una crescita di 9.150 posti, sembra avvitata sul reperimento delle ingenti risorse necessarie. La vendita delle carceri storiche, inserite in centri urbani o considerate parti importanti del patrimonio edilizio penitenziario, è una delle strade indicate. Comunque si parla di qualunque cosa salvo che di architettura, di concorsi di progettazione e di rapporti con i territori di destinazione.


Alcatraz, ex carcere ad alta sicurezza, San Francisco

Carcere e città, un rapporto ancora esistente Le seguenti schede di approfondimento sono volte a far capire che esistono ancora, in Italia, città in cui la presenza del carcere è forte ed avvertibile. Sono le città in cui i luoghi della detenzione occupano ancora le loro sedi storiche, inserite nel contesto urbano consolidato.


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REGINA COELI

SAN VITTORE

STORIA: E’ il carcere principale e quello più conosciuto della Capitale e d’Italia. Sorge nel rione trastevere dove occupa gli spazi di un precedente convento. È un luogo simbolico e da sempre presente nella vita dei romani. Ha ospitato al suo interno personaggi politici quali Pertini e Saragat. Esso è il primo carcere italiano in cui un pontefice compie la sua visita. Vi si recano Giovanni XXIII, seguito poi da Paolo VI, Giovani Paolo II e Benedetto XVI.

STORIA: Il carcere di San Vittore, Milano, comincia ad essere costruito nel maggio del 1872 per essere inaugurato il 7 luglio del 1879, durante il regno di Umberto I. La sua edificazione è decisa a seguito dell’Unità d’Italia, inserita in un piano di miglioramento delle infrastrutture milanesi. Prima della sua edificazione i detenuti vengono rinchiusi nell’ex convento di Sant’Antonio Abate, nel tribunale e nell’ex convento di San Vittore. La nuova struttura sorge in un luogo allora isolato, in una zona periferica della città poco popolata. Per occuparsi del progetto viene chiamato l’ingegner Francesco Lucca, il quale si ispira al panopticon di Jeremy Bentham, creando una struttura a 6 braccia ciascuno di 3 piani. Tra i bracci vengono costruite le “rose” di passeggio, divise in 20 settori, uno per detenuto, per evitare che questi si incontrino. È soggetto in parte alla giurisdizione tedesca nel periodo bellico che va dal 1943 al 1945, quando le SS tedesche controllavano e gestivano uno dei suoi bracci. Dagli anni settanta soffre di un cronico problema di sovraffollamento.

SIMBOLOGIA: Esiste una particolare simbologia legata a questo carcere. Per raggiungerlo bisogna scendere dal piano stradale del Lungotevere della Farnesina, in quanto via Lungara si trova quasi a 3 metri più in basso. Per accedervi occorre scendere i famosi “3 scalin” che ne segnano l’entrata, nonché il lascia passare per ottenere la “patente di quirite” (il termine quirite deriva etimologicamente da SPQR, tuttora acronimo presente nello stemma della città di Roma, significa nel nostro caso ottenere la “patente di romanità”). Sui tre scalin sono scritte poesie e canzoni, retaggio della conoscenza popolare. La particolare ubicazione del carcere, subito a ridosso del panoramico colle del Gianicolo, rende la struttura vicinissima in linea d’aria ad alcuni punti di questa altura; la balconata del faro del Gianicolo, ad esempio, dista solo qualche decina di metri dalle celle d’angolo. In ragione di ciò e a dispetto della rigidità dei regolamenti carcerari, è consuetudine, fino a tempi assai recenti, che i familiari dei detenuti vi si riuniscano per comunicare con loro gridando.

Regina Coeli, vista dal colle del Gianicolo, Roma

Per una sorta di cavalleresco rispetto, è consolidata tradizione che le forze dell’ordine non intervengano a impedire queste comunicazioni, a condizione che lo scambio verbale riguardi effettivamente solo le notizie importanti e di stretta urgenza (ma i detenuti politici durante il fascismo ricevono messaggi in codice inoltrati impersonalmente). Inoltre al faro si trovano, fino a pochi anni fa, persone di tonalità possente che a turno si prestano gratuitamente a far da portavoce per conto delle donne e, più in generale, di chiunque possa averne eventualmente bisogno; essi hanno inoltre una funzione ordinatrice del traffico delle comunicazioni da e verso il carcere. Analogamente, all’interno della struttura, le comunicazioni vengono inoltrate, in arrivo e in partenza, passando per una sola delle celle, che diviene in pratica un centro di smistamento. Viene anche girato un film con Pippo Franco, che comunica dal Gianicolo con un parente detenuto nel carcere.

SIMBOLOGIA: Il nome del carcere, San Vitùr, assume nel dialetto milanese e nel linguaggio parlato, il ruolo di sinonimo della parola carcere. La struttura è al centro di alcune canzoni popolari tra cui quelle di Walter Valdi e dei Gufi; essa viene citata nelle canzoni Canto di Galera degli amici del Vento e 40 pass di Davide Van de Sfroos. Il carcere di San Vittore, ospita da quattro anni la manifestazione San Vittore Sing Sing, un festival di musica e cabaret realizzato con il patrocinio della provincia di Milano, su un’idea di Alessandra Lanza. I

Fotografia storica del Carcre di San Vittore, localizzazione, Milano, Archivio de L’Unità

media prestano sempre grande interesse per questo evento. Ritroviamo San Vittore in “Belli Dentro”, una sitcom italiana che parla della vita di alcuni detenuti in carcere. Ogni episodio della sitcom si divide in più scene, girate nella sezione maschile e femminile, che raccontano in modo umoristico la noia e la monotonia della vita quotidiana di un detenuto.


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POGGIOREALE

L’UCCIARDONE

STORIA: Un carcere che ospita prevalentemente detenuti in attesa di giudizio e che e’ diventato una delle strutture simbolo del problema del sovraffollamento. E’ il carcere di Poggioreale, struttura che puo’ ospitare 1679 detenuti, ma al suo interno sono presenti in 2686, stipati in alcuni casi in dieci nella stessa cella. Numeri drammatici, che fotografano una situazione di grave allarme che da anni caratterizza Poggioreale e che, nonostante le buone intenzioni teoriche, non è mai stata affrontata con serie intenzioni di risolverla. Costruito nell’omonimo quartiere della zona orientale di Napoli nel 1914, in un’area fino a quel momento considerata periferica, il carcere di Poggioreale viene realizzato proprio per far fronte al sovraffollamento delle carceri in funzione, all’epoca dell’inizio dei lavori, nel 1905: Vicaria, il Carcere del Carmine e del Forte di Vigliena. Occupa una superficie complessiva di 67mila metri quadrati ed è costituita da otto padiglioni, intersecati da un lungo corridoio di raccordo. I vari reparti, nel corso degli anni, prendono il nome di città italiane: Napoli, Milano, Firenze, Genova, Torino, Roma, Salerno, Avellino, Livorno e Venezia. Vengono successivamente creati il reparto Italia e il padiglione San Paolo, che ospita il Centro diagnostico terapeutico, l’ospedale del carcere. Con la costruzione del Centro direzionale nell’area adiacente al carcere, negli anni ‘90, è creato un tunnel che collega la struttura direttamente al Palazzo di Giustizia, lungo quasi un chilometro.

STORIA: “Non poteva che trovarsi di fronte al mare…perché a Palermo le cose più importanti sono in qualche modo legate al mare…” il carcere dell’Ucciardone è uno dei simboli della città. Il nome deriva dal siciliano “u ciarduni” che significa cardo, pare infatti che una volta questo ortaggio venisse coltivato nei lotti in cui è edificato il penitenziario. La struttura è situata nel pieno della città, nel quartiere Borgo Vecchio, vicino al porto. Il progetto è realizzato dall’architetto Nicolò Puglia all’inizio dell’’800, per poi essere rimaneggiato dall’architetto Emmanuele Palazzotto.

SIMBOLOGIA: All’interno dei reparti, di fronte alle celle, rimangono appesi degli enormi orologi fermi ognuno a un orario diverso. Senza

Murales rappresentante il muro del carcere di Poggioreale

tempo. E lo spazio diventa una fetta di libertà da spartire in fette sempre più piccole. L’area che si respira all’interno di Poggioreale ci viene ampiamente descritta nelle fiction che in questo luogo vengono ambientate e nelle note della canzone di Fabrizio De André “Don Raffae’”. La canzone racconta la storia di una guardia carceraria che lavora all’interno del carcere con il compito di sorvegliare il ricco boss camorrista Don Raffae’, verso il quale prova sentimenti di ammirazione e rispetto e da cui riesce ad avere dei piccoli favori per se stesso e per la sua famiglia. Viene evidenziata la condizione di vita agiata all’interno del carcere dello stesso boss.

SIMBOLOGIA: È un carcere tristemente legato alla mafia sin dalla sua origine. I grandi boss mafiosi possono permettersi di tutto all’interno del carcere, privilegi e agi, al punto che il carcere viene spesso ricordato come Grand Hotel l’Ucciardone. In carcere la mafia è sempre mafia. I grandi boss stanno bene là dentro, fasciati nelle loro vestaglie di seta e riveriti come pascià, serviti dai secondini, sempre attorniati da quella corte di «bravi ragazzi» dai gesti lenti, dai volti picareschi. Ritrovano qualche vecchio compare, nel cortile passeggiano tenendosi sotto braccio e lontano dagli altri, hanno in tasca le chiavi dell’infermeria, il direttore li ossequia e conta sulla loro autorità per mantenere l’ordine nella sua prigione. Al mattino, mandano le aragoste vive. Alla sera, brindava a champagne. Rifiutano «il cibo del governo», poiché disonorevole, dicono “che il carcere bisognava farlo con dignità.” Ma quei tempi non tornano più dopo le stragi. Nella notte tra il 19 e il 20 di luglio del ‘92 i parà della Folgore irromponoo nell’Ucciardone

Fotografia storica del Carcere L’Ucciardone, Palermo, Archivio de L’Unità

e deportano tutti i boss nelle isole di Pianosa e dell’Asinara. Viene approvato il regime duro, i prigionieri di Cosa Nostra li chiamano «i dannati» del 41 bis, isolati dagli altri detenuti, sbattuti in celle buie, costretti a vedere i familiari una volta al mese. L’Ucciardone è teatro dei più grandi processi mafiosi; negli anni ottanta vi si svolge il “maxiprocesso”, che ha tra i protagonisti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e porta alla condanna di centinaia di persone legate alla criminalità organizzata. Oggi le condizioni di vita interna sono al limite dell’umanità, tanto che i detenuti affianca lo sciopero della fame che, evidentemente non assicura abbastanza eco nella società civile, con la battitura delle inferiate. La battitura avviene ogni sera dalle 23:00 alle 24:00, è un segno di protesta non violenta per denunciare il trattamento disumano e degradante subito all’interno delle celle, dove in 15mq sono detenuti fino a dieci uomini “Cara Radiocarcere, come sai oltre allo sciopero della fame noi


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abbiamo anche fatto la battitura delle sbarre. Ebbene ti scriviamo per informarti che alcuni dei nostri compagni sono stati denunciati per schiamazzi notturni proprio perché, insieme ad altri, facevano la battitura. Noi siamo rimasti allibiti e poi ci domandiamo perché schiamazzi notturni se la battitura ha sempre cessato alle ore 24? Tuttavia sappi che noi tra poco riprenderemo sia la battitura che lo sciopero della fame, anche perché viviamo in celle sovraffollate e invase da topi, scarafaggi e zanzare. Insomma siamo davvero arrivati al limite della nostra sopportazione.” (La lettera inviata a Radiocarcere da gruppo di persone detenute nella nona sezione del carcere l’Ucciardone di Palermo)

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Street Art

L’ordinamento penitenziario italiano

Il primo codice dell’Italia unita,il Codice Zanardelli, viene stilato nel 1889 e approvato da Francesco Crispi. È considerato uno tra i più liberali e progrediti codici dell’epoca poiché abolisce infatti la pena di morte e sancisce la necessità di avere appositi spazi all’interno delle strutture carcerarie per attività laboratoriali, didattiche e di socializzazione. Per attuare tutto questo predispose il primo finanziamento pubblico all’architettura carceraria e trapianta in Italia il sistema di reclusione a Palo Telegrafico. L’idea di riabilitazione legata al concetto di pena viene ripresa e ribadita dalla Costituzione Italiana del 1948 nell’art 27 in cui si afferma che: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.” Questo concetto viene nuovamente sancito dall’Ordinamento Penitenziario del 1975, che tuttora regola la vita dei detenuti in carcere. Nell’art 1 si afferma che: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto e la dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari.


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I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli fino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione, in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

la limitazione della libertà e introduce l’art. 41Bis, il cosiddetto Carcere Duro. Le condizioni di vita dei carcerati si inaspriscono notevolmente anche a causa della paura dilagante di atti di terrorismo durante gli anni di piombo e da quel momento in poi non viene più invertita la rotta. A tutt’oggi il trattamento rieducativo è disatteso, in parte o completamente, in quasi tutti gli istituti italiani in quanto regolato da norme obsolete e vittima della crisi economica. Se nel passato, infatti, lo Stato predispone una serie di finanziamenti, regolati dalla Legge

Questa filosofia si interrompe a cominciare dalla Legge n°663, la Legge Gozzini che, se da una parte predispone una nuova serie di misure alternative al carcere, dall’altra innalza il numero di reati punibili con

n°193, la Legge Smuraglia, alle aziende od imprese che assumano ex detenuti o detenuti negli ultimi sei mesi di pena, per permetterne la reintegrazione nel tessuto sociale, garantendogli un tenore di vita

1860 Codice penale sardo|italiano

1889 Codice Zanardelli

1948 Costituzione Italiana art.27

che lo inviti a vivere secondo le prestabilite leggi morali e non della società, oggi, in un panorama di crisi generale del mondo del lavoro, l’impiego nelle strutture carcerarie si riduce ad opere di manutenzione ordinaria interna. Le condizioni di vita dentro le strutture carcerarie sono pessime, tanto che altissimo è il numero dei suicidi. Nel periodo che va dal 1980 al 2007 è stato venti volte maggiore rispetto allo stesso dato registrato nella popolazione libera. Il numero più elevato dei suicidi avviene nelle carceri più affollate e nei periodi iniziali della pena, cioè quando il detenuto deve confrontarsi per le prime volte con la prospettiva di una vita fatta di tempi vuoti da riempire, ma anche nel periodo più prossimo alla scarcerazione, in quanto il detenuto, che in un sistema infantilizzante come il nostro ha imparato a dipendere

1986 Legge n°663|Legge Gozzini

in tutto e per tutto dall’amministrazione penitenziaria, viene assalito dall’angoscia, all’idea di una vita fuori che potrebbe risultare vuota e magari priva di affetti, così come priva di entrate economiche. Attualmente esiste una fitta realtà di iniziative pubbliche e private, volta a migliorare alcuni aspetti della vita dei detenuti; ciò purtroppo determina una somma parziale di interventi che segmenta e distorce l’identità del detenuto in altrettante identità con rispettivi bisogni. Ci accorgiamo di come manchi un progetto globale e legislativo di reinserimento del recluso; esistono infatti iniziative frequenti, ma dissociate tra loro, gestite soprattutto da appositi enti locali, associazioni, volontari. Ciò determina una segmentazione dei bisogni dei carcerati e una limitata risposta a quello che è il reinserimento.

1991 Legge n°203

2010 Piano Carceri


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Il piano carceri Il piano carceri è concepito, sviluppato e diventato operativo a seguito di considerazioni sulla realtà degli istituti carcerari italiani. Questi ultimi sono infatti caratterizzati da inadeguatezza strutturale che comporta un grave rischio per l’incolumità e la salute dei detenuti stessi. Contemporaneamente all’azione di miglioramento delle strutture esistenti si è pensato di intervenire con la realizzazione di nuovi istituti, al fine di assicurare la tutela dei detenuti garantendone una migliore condizione di vita e incentivando la funzione rieducativa della pena stessa. Tutti questi interventi rivestono il carattere di straordinarietà; il piano carceri è infatti un piano emergenziale che sancisce lo stato di emergenza fino al 31 dicembre 2012. Il piano carceri si basa su: _ la tutela della persona umana e il miglioramento delle condizioni di permanenza per i ristretti; _ il miglioramento delle condizioni di lavoro presso le strutture carcerarie; _ la valorizzazione del patrimonio immobiliare carcerario; _ l’ammodernamento generale delle infrastrutture e l’incremento dell’utilizzo di nuove tecnologie per rendere più efficiente il sistema. Operativamente prevede quattro tipi di interventi: _ la realizzazione di padiglioni detentivi in ampliamento delle strutture esistenti; _ la realizzazione di nuovi istituti penitenziari; _ il completamento di padiglioni già’ avviati dal DAP (Dipartimento Abu Ghraib 52, Olio su Tela, Fernando Botero

dell’Amministrazione Penitenziaria) e la ristrutturazione di istituti esistenti; _ il completamento di nuovi istituti avviati dal Ministero delle Infrastrutture. I punti affrontati dal piano carceri sono tre: _ l’edilizia penitenziaria: è prevista la realizzazione di 11 nuovi istituti e 20 nuovi padiglioni per un totale di 9.150 posti; _ le misure deflattive: secondo il disegno di legge 2313 valido fino al 31 dicembre 2013, è prevista l’espiazione della pena presso il proprio domicilio per le pene detentive non superiori ad un anno escludendo, ovviamente, i colpevoli di reati gravi; _ l’implementazione degli organi della polizia penitenziaria: in cifre si traduce in un aumento degli agenti di 20.000 unità.

Tipologia di intervento Il piano carceri revede due tipi di intervento: _ la realizzazione di padiglioni detentivi in ampliamento delle strutture esistenti; _ la realizzazione di nuovi istituti penitenziari. I padiglioni sono concepiti, ove le condizioni lo consentano, come interventi funzionalmente autonomi. Si prevede, infatti, di dotare le nuove strutture dei servizi principali (luoghi per la socialità, laboratori, sale colloqui, luoghi per le attività fisiche, cucine etc.), con lo scopo di integrare le dotazioni presenti all’interno dell’istituto che le ospita e non gravare sulla funzionalità complessiva. La creazione di queste nuove strutture rappresenta un significativo contributo al miglioramento delle condizioni sia della popolazione detenuta, che del personale preposto


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al controllo. Con la loro realizzazione troveranno soluzione anche le problematiche relative alla gestione della popolazione carceraria femminile, in quanto, tra le esigenze poste alla base del Piano, risultano prioritarie anche le garanzie dei rapporti tra genitore detenuto e figlio minore. Dal punto di vista della sicurezza e della sorveglianza è previsto un attento e razionale uso di tecnologie per coadiuvare il personale preposto alla custodia nello svolgimento delle funzioni. I nuovi istituti penitenziari rappresentano l’occasione per mettere in atto soluzioni innovative per la complessa funzionalità dell’edilizia penitenziaria. E’ obiettivo del Piano individuare un modello tecnicamente e funzionalmente adeguato a favorire la riabilitazione del detenuto, supportandolo nel percorso riabilitativo e assistendolo in tutte le fasi della detenzione. Nuovi modelli aggregativi consentiranno di migliorare sia la qualità degli spazi destinati ad accogliere il detenuto, sia la gestione delle attività svolte al loro interno. Lo scopo è garantire un elevato livello di sicurezza attiva e passiva, abbandonando i vecchi principi dell’edilizia carceraria tradizionale, dispendiosa sia sotto il profilo realizzativo che manutentivo e gestionale.

Criteri di intervento

case di reclusione case circondariali Sovraffollamento degli istituti nazionali

Nuovi padiglioni realizzati dal Piano Carceri

aggiudicato appaltato bando in publicazione gara con anomalie

Nuovi padiglioni realizzati dal Piano Carceri

L’ampliamento delle strutture esistenti e la realizzazione di nuovi istituti consentiranno di aumentare la capacità ricettiva del sistema carcerario di circa 9.150 posti. L’obiettivo è realizzare strutture “moderne”, progettate in conformità ai programmi di detenzione e ai più avanzati standard internazionali del settore, per il reinserimento sociale dei detenuti e, quindi, con


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SITUAZIONE EMERGENZIALE sovraffollamento delle carceri italiane PRINCIPI 1 Tutela dei detenuti e miglioramento delle loro condizioni; 2 Incremento dei processi lavorativi interni ed esterni; 3 Valorizzazione del patrimonio immobiliare carcerario; 4 Incremento delle strutture e miglioramento dell’esistente. PIANO CARCERI OBIETTIVI + 20.000 POLIZIOTTI

1 Incremento polizia penitenziaria; scadenza 31|12|13

2 Nuovi istituti penitenziari; 3 Completamento di padiglioni già avviati dal DAP; 4 Nuovi padiglioni detentivi per ampliamento;

tecniche e principi ispiratori spesso diversi rispetto a quelli che hanno dato origine, negli scorsi decenni, alle strutture esistenti. Un ulteriore obiettivo prioritario è quello di decongestionare le aree più popolate delle grandi città mediante la realizzazione di nuovi insediamenti in aree decentrate e a basso impatto urbanistico. Gli interventi di ampliamento delle strutture carcerarie esistenti sono previsti unicamente dove queste ultime offrono disponibilità di adeguate aree di sedime e strutture di servizio capaci di soddisfare l’aumento della ricettività. L’aumento della capacità ricettiva non deve andare a discapito dei servizi trattamentali e degli spazi di socializzazione dei ristretti, né comportare aggravio di lavoro al personale di polizia penitenziaria.

Criteri realizzativi

Strutture prefabbricate

+ 11 nuovi istituti

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+ 430 MIL ¤ + 4.750 POSTI

1 Tecniche costruttive modulari; 2 Uso di fonti energetiche rinnovabili; 3 sistemi tecnologici integrati per

¤¤

il controllo e la gestione del detenuto; + 20 nuovi padiglioni

+ 231 MIL ¤ + 4.400 POSTI

¤¤

+ 675 MIL ¤ + 9.150 POSTI Schema riassuntivo del funzionamento del Piano Carceri

La rapida esecuzione delle opere può essere favorita, secondo le indicazioni del Piano, dall’impiego di tecniche costruttive modulari e dall’industrializzazione del processo realizzativo. Tale scelta garantisce il controllo della qualità dell’opera e degli elementi che la compongono e contribuisce alla riduzione dei costi economici e sociali dell’intervento. I progetti, inoltre, favoriranno soluzioni orientate all’uso di fonti energetiche rinnovabili con l’intento di contribuire al mantenimento degli edifici, se non addirittura all’autosufficienza delle strutture. Per gli aspetti riguardanti la sorveglianza, il Piano prevede di dotare ogni struttura di sistemi tecnologici integrati per il controllo e la gestione del detenuto. Ciò assicura un incremento del livello di sicurezza delle strutture e un più razionale utilizzo del personale addetto, con auspicabili risparmi della spesa di gestione ordinaria. Alcune funzioni di controllo che oggi sono demandate alla presenza costante degli

agenti potrebbero essere coadiuvate mediante l’uso di sistemi di videosorveglianza e antiaggressione che consentono un intervento mirato e veloce. L’innovazione tecnologica è concepita anche in ambito formativo, prevedendo la possibilità di dotare gli istituti di un sistema di formazione a distanza per il personale addetto, valorizzandone il percorso professionale, e per i detenuti, che raggiungeranno ulteriori fasi del percorso di riabilitazione.

Risorse finanziarie Il Piano carceri prevede la realizzazione di 9.150 posti detentivi per un impegno di spesa complessivamente stimato in 675 milioni di euro: - 4.400 posti - derivanti da ampliamenti di 20 nuovi padiglioni in istituti esistenti il cui costo stimato è di circa 231 milioni di euro; - 4.750 posti - derivanti dalla costruzione di 11 nuovi istituti il cui costo stimato è di circa 430 milioni di euro. La stima è basata sull’analisi dei costi effettuata preliminarmente che porta a ritenere che per ciascuna nuovo istituto siano necessari 40,5 milioni di euro e per ciascun ampliamento 11 milioni di euro. Naturalmente le condizioni di attuazione (economie di gara, ottimizzazione della progettazione, risorse aggiuntive, ecc.) potrebbero migliorare i costi di realizzazione dei singoli interventi, salvo che non si verifichino incrementi dettati dalle progettazioni successive e da eventuali strutturazioni finanziarie.


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L’ Opinione pubblica

‘Il sovraffollamento carceri è una vergogna per l’Italia.Una mortificante conferma dell’incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena.”

Giorgio Napolitano Presidente della Repubblica

“Che le carceri siano il luogo di una rieducazione della persona.”

Joseph Ratzinger

“Siamo al 3° anno di emergenza carceri. Si è favoleggiato intorno a piani di edilizia penitenziaria per poi fare i conti con la mancanza di soldi. Si sono presi provvedimenti definiti salva-carceri ma nulla e nessuno è stato salvato.”

Ass. Antigone Patrizio Gonnella

“Il mondo culturale non si è fermato a riflettere sulla qualità degli spazi di queste nuove strutture, se il carcere debba o no avere un rapporto con il territorio, se sia opportuno che non si facciano più concorsi per la realizzazione delle carceri.”

Architetto Urbanista Luca Zevi

Opinioni discordanti rispetto al Piano Carceri

Molte sono le critiche e i pareri sfavorevoli mossi alla nuova riforma del sistema carcerario proposta dal governo Berlusconi, conosciuto come Piano Carceri. Studiosi ed interessati alla materia, provenienti dal mondo politico piuttosto che da quello filosofico o architettonico, sono concordi nell’affermare che il sovraffollamento delle strutture sia un problema tecnico-amministrativo, nonché gestionale, dovuto all’incapacità della pubblica amministrazione di programmare e realizzare opere necessarie al soddisfacimento di una determinata domanda. Ovviamente tale deficit si è acuito nell’ultimo ventennio a causa dell’aumento costante del debito pubblico e della riduzione dei finanziamenti. Le accuse vengono mosse a cominciare dalla contraddittorietà dei capisaldi su cui la strategia di riforma deve o per meglio dire dovrebbe basarsi. Essi sono: 1_l’edilizia carceraria|penitenziaria; 2_incentivo alle misure e strutture alternative al carcere; 3_incremento del personale di polizia. Assimilati a slogan vengono additati come pura rappresentazione di una strategia comunicativa. Viene riscontrata nel piano carceri una contraddizione in termini che ne offusca la sostanza e cioè la saturazione degli spazi penitenziari, concepibile soltanto all’ombra del perdurare della violazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Studiosi vedono, dietro il fallimento del sistema penitenziario, il simbolo di un fallimento generalizzato del sistema penale, nonché il fallimento dell’ideologia della tolleranza zero e della sua confusione tra crimine, comportamento antisociale e

anormale. Il settore penitenziario è d’altra parte un settore dove per anni sono stati dirottati fondi dello stato sociale italiano, soprattutto per incrementare le misure di sicurezza e di repressione ma, dato il risultato fallimentare di tali misure, forse occorrerebbe domandarsi se l’incarcerazione di massa, senza distinzioni, sia ancora sostenibile dal punto di vista sociale, economico e culturale. É ovvio che le strutture carcerarie pensate solo per fronteggiare un aumento della popolazione detenuta non sono adeguate alla creazione di opportunità sociali e non favoriscono la crescita di un futuro reinserimento per queste persone, anzi si tramutano in sterili contenitori di corpi. La soluzione edilizia, da sola, in queste situazioni non può mai essere la risposta; infatti essa può avere una funzione di contenimento dell’affollamento penitenziario, solo se accompagnata a politiche di programmazione dei flussi di detenzione. La situazione ovviamente peggiora se si parla di un’architettura d’urgenza che non si propone di plasmare un modello nuovo quanto ripetibile per le strutture carcerarie, ma si limita a soddisfare un bisogno impellente, senza pensare alle conseguenze che questo potrebbe provocare, concependo degli spazi che non sono altro che il punto di partenza di una politica volta ad infliggere un periodo di punizione e privazione agli internati. Per poter riformare la situazione occorrerebbe, più che una manovra speculativa|edilizia all’interno delle strutture già esistenti, un attento dialogo tra differenti discipline e l’architettura, dal suo canto, dovrebbe concepire dei progetti che siano prima di tutto antropocentrici.


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Le tipologie edilizie Il patrimonio edilizio carcerario nazionale, ad oggi, conta circa duecento complessi demaniali. Gli edifici, realizzati in epoche differenti, mostrano i cambiamenti delle convenzioni architettoniche, delle norme legislative e delle tecnologie. Molte strutture sono state edificate per risolvere situazioni emergenziali e lo dimostrano chiaramente, tanto che si dimostrano le più difficoltose da riconvertire. Considerando l’aspetto strutturale e distributivo del patrimonio immobiliare, possiamo dividerlo in sei gruppi mostranti la trasformazione morfologica e la crescita tipologica dei complessi dalla metà del XIX secolo ad oggi. Edifici esistenti|Carcere storico di Forlì

A corte Rientrano in questo gruppo 55 complessi che rappresentano il 25% del patrimonio in uso. Ne fanno parte tutte quelle strutture convertite alla reclusione in un secondo momento, essendo per di più ex conventi, fortezze o palazzi signorili. Generalizzando, possiamo affermare che quasi tutte nascono attorno ad una corte centrale seguendo un impianto conventuale, molte sono dismesse altre, invece, verranno dismesse non appena saranno realizzati nuovi complessi. È vero che alla fatiscenza della struttura e alle carenze igienico sanitarie si contrappongono un maggior grado di libertà di movimento ed un inusuale rapporto con la città. Esempi sono il carcere di Pianosa e dell’Asinara.

Impianto stellare, carcere di San Vittore, MIlano

Radiale Rappresentano il 10% del patrimonio edilizio, presenti in numero di 22. Sono gli edifici realizzati nel periodo pre e post unitario fino al 1890. Sono detti ad impianto radiale o stellare per la disposizione dei padiglioni detentivi che si innestano su uno spazio centrale distributivo. SI differenziano gli istituti a impianto radiale semplice o ad unità radiale multipla. Fanno parte della prima categoria istituti quali il carcere di San Vittore, risalente al 1872, quello di Alessandria e quello di Perugia. Tra i complessi ad unità radiale multipla troviamo Regina Coeli, edificato tra il 1880 e il 1882 grazie all’impiego della manodopera dei detenuti stessi, le Nuove di Torino, l’Ucciadone che rappresenta l’unica opera realizzata per la specifica funzione ed eredità dello stato unitario dal Regno delle Due Sicilie. A palo telegrafico Questo gruppo è costituito da quegli edifici derivanti dallo studio e dal finanziamento della I e della II riforma penitenziaria datanti rispettivamente 1989 e il 1931. I complessi sono ad oggi 29 e rappresentano il 13,24% del patrimonio edilizio carcerario, sono caratterizzati dalla disposizione in pianta dei volumi a palo telegrafico, progressivamente più articolati. Questi nascono originariamente fuori dai centri urbani, per poi esserne inglobati completamente. Fanno parte di queste strutture, complessi di matrice austro ungarica che sono gli unici esempi di istituti detentivi nati in prossimità dei servizi giudiziari. Nel concreto sono i carceri di Gorizia, Trieste, Bolzano, Rovereto, Trento e Rovigo.

La prima riforma penitenziaria del 1899, inserita nel Codice Zanardelli, porta con se anche il primo finanziamento pubblico all’edilizia penitenziaria. Si prevede di reperire i proventi necessari alla realizzazione di tali strutture, dalle lavorazioni carcerarie e dalla vendita di alcuni immobili. Con la riforma del 1931 le competenze tecniche per l’edilizia penitenziaria vengono concentrate nel Ministero dei Lavori Pubblici ed il personale tecnico viene trasferito agli uffici del Genio Civile; all’amministrazione penitenziaria rimane un solo ingegnere con funzioni ispettive. La seconda riforma penitenziaria, varata nel 1932, non predispose un piano di finanziamento per l’edilizia che comincia a dipendere dai fondi dei Lavori Pubblici che risulteranno insufficienti. Questa stretta economica rappresenta il decadimento della ricerca e del modello architettonico. Differenziazione dei corpi edilizi Sono il 29% del patrimonio edilizio, 65 complessi realizzati a seguito dei finanziamenti emanati dal 1949 al 1977. Molti ripropongono ancora la tipologia a palo telegrafico rielaborandola e, alcune volte, superandola attraverso una caratterizzazione dei blocchi. Si inserisce in questo periodo architettonico sia l’operato di Sergio Lenci sia quello di Mario Ridolfi. Siamo nel più florido periodo di sperimentazione architettonica che punta a migliorare lo standard abitativo interno e il rapporto morfologico con l’esterno. Ritorno al palo telegrafico Occupano il 4% del patrimonio nazionale e propongono un’involuzione del modello architettonico ascrivibile alla particolare congiuntura


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storica e sociale degli anni ‘80 in Italia. Nasce in quest’epoca l’idea, legata al carcere, del bunker grigio localizzato in periferia e completamente avulso dal resto della città. Una volta sorpassata la fobia degli anni di piombo, lo studio planivolumetrico riprende lentamente, mostrando più interesse sui padiglioni per le attività associative, per gli edifici ospitanti la polizia penitenziaria e l’amministrazione, normalmente situati all’esterno del muro di cinta. Importante specificare quest’ultimo dettaglio, in quanto la recente riforma dell’amministrazione penitenziaria e del personale, ha introdotto nuovi diritti per i lavoratori che necessitano di posti più salubri, sani e sicuri in cui lavorare. Comparazione

Impianto a Palo telegrafico, carcere di Caltanissetta

Struttura sperimentale, Carcere di Rebibbia, Roma

Modello “Bunker“, carcere La Dozza, Bologna

Se proviamo a confrontare quattro schemi planimetrici mostranti le tipologie carcerarie differenti e successive, noteremo i cambiamenti che l’edilizia penitenziaria ha attraversato nel corso di un secolo. L’esame comparativo ci delinea il cambiamento del progetto che accompagna il progredire delle concezioni di trattamento e anche la loro involuzione legata alle fasi oscure della storia della politica del nostro paese.


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La popolazione detenuta

Uomini 63.445

Stranieri 23.773

Tossicodipendenti 17.760

Donne 2.826

effettivi 66.271

Albania Algeria Egitto Marocco Nigeria Romania Tunisia Altre nazionalità

26,8% dei detenuti soffre di problemi di droga. Queste persone scontano la loro pena in carcere a causa della mancanza di strutture alternative “pubbliche” ed accessibili.

52,2% dei detenuti è in attesa di giudizio. Il problema risiede nell’ordinamento penitenziario italiano e nella difficoltà di accedere a sistemi di reclusione alternativi.

regolamentari 45.568

Capienza

11,9% 2,8% 2,3% 19,4% 4,4% 15,3% 12,7% 29,3%

Attesa di Giudizio 34.460 Dati popolazione carceraria nazionale

Prima di arrivare ad una dettagliata descrizione di quello che è l’iter storico legislativo che regola l’ordinamento penitenziario italiano dall’Unità ad oggi, soffermiamoci a capire chi effettivamente occupa le nostre carceri e perché. Se volessimo generalizzare, tracciando un profilo del detenuto medio, avremmo: un uomo (in proporzione sono reclusi 66.271 uomini e “solo” 2.826 donne), celibe, con un basso grado di istruzione. La maggior parte dei reclusi possiede la licenza di scuola media, mentre sono solo delle mosche bianche coloro in possesso di una laurea. Analizzando i dati del nostro passato recente, risalenti al settembre 2009, risulta evidente il sovraffollamento dei 217 penitenziari, del tutto simile a quello che nel 2006 porta all’indulto. Nello specifico nel 2009, sono presenti 67.593 detenuti su una capienza massima di 44.000 persone. I dati, ad oggi, hanno subito una lieve inflessione. Le statistiche riportate a Settembre 2012 del Ministero di Giustizia parlano di 66.271 detenuti, per una capienza massima di 45.568. Quest’ultimo dato è aumentato a fronte degli interventi di ampliamento delle strutture detentive esistenti, previsto dal piano carceri, avente come limite “teorico” marzo 2012. Guardando la popolazione detenuta da più vicino scopriamo che il 52% dei reclusi è in attesa di giudizio, di cui il 40 % sarà successivamente assolto, il 36% è straniero e il 27% tossicodipendente, in prigione per lo più per spaccio o possesso di sostanze stupefacenti. La maggior parte dei reati commessi è, in prima istanza, caratterizzata da quelli contro il patrimonio; successivamente si riconoscono i reati per droga e poi piccoli furti. Altro dato interessante è la recidiva, chi usufruisce

di misure alternative ha un tasso di recidiva del 5% contro quello nazionale di chi sconta tutta la durata della pena in carcere, che è del 60%. Traendo delle conclusioni ed arrivando a delle considerazioni personali, ma avvallate anche dal pensiero di intellettuali e non, possiamo vedere come, eliminando la percentuale dei tossicodipendenti e dei malati mentali, ricoverandoli quindi in apposite strutture, la popolazione carceraria diminuirebbe del 70%, così come se a coloro che sono in attesa di giudizio, venissero concessi i domiciliari si perderebbe un altro 20%. Qual è, dunque, il problema? Molto probabilmente il problema è da ricercarsi nell’ordinamento penitenziario italiano che dovrebbe essere rivisto, in quanto più che stimolare il reinserimento del detenuto, in un’ottica lavorativa, aumenta il numero di presenze nelle strutture. Occorrerebbe quindi una pianificazione strategica per rispondere ai bisogni dei carcerati, per un adeguamento delle strutture, in modo da concedere loro condizioni di vita più umane ed abbandonare quindi il consueto metodo dei provvedimenti emergenziali una tantum. Vediamo come si è giunti alla situazione attuale e come in questo quadro generale si possa inserire lo studio del Piano Carceri varato dal governo Berlusconi.


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La realtà’ carceraria emiliano romagnola Al Piano carceri viene mossa l’accusa di mancare di una visione a lungo termine e riformatrice, rispetto alle soluzioni già sperimentate e non rispondenti ai problemi che ciclicamente si ripresentano. Ad aggravare, poi, lo stato di sovraffollamento di spazi angusti ed invivibili è il fattore attività per il reinserimento. Alcune istituzioni, esistenti solo in funzione di tali attività, ne sono completamente prive. Suddette realtà sono state confermate da una più approfondita ricerca svolta sugli istituti penitenziari della regione Emilia Romagna. Quest’ultima ospita, nelle sue province, tutte le tipologie di detenzione presenti sul territorio nazionale: case circondariali suddivise per gradi di sicurezza, ospedali psichiatrico giudiziari, case di lavoro e case di reclusione. La maggior parte degli istituti regionali è interessata dal fenomeno di periferizzazione, ossia da un atteggiamento di esclusione di un’entità scomoda, che le amministrazioni hanno promosso e sostenuto, più o meno velatamente, nascondendo spinte speculative e/o sentimenti riconducibili all’effetto nimby. Avvalendoci delle parole di uno studioso delle realtà di segregazione, cerchiamo di spiegare meglio questo concetto: “Nella ricerca di un lontano fuori dalla concentrazione urbana, il nuovo sito carcerario viene individuato, generalmente dagli uffici comunali del piano urbanistico, al di là dai quartieri pianificati dell’edilizia economicapopolare o del bricolage dello sprawl urbano creato dalla compulsione edilizia degli ultimi decenni. La direzione obbligata, soprattutto in una situazione di penuria delle aree disponibili e di maggior valore della rendita fondiaria urbana, sembra essere quella delle riserve di spazio Illustrazione

delle aree suburbane e di frangia, degli spazi agricoli residuali. […] Nelle nuove localizzazioni il processo costitutivo di un rapporto tra città e carcere è infinitamente più lento e complicato a causa della maggiore lontananza dalla rete di servizi, che possono operare per rendere il carcere meno separato, e dal tessuto associativo che opera per favorire processi di ricucitura sociale e culturale. In questa situazione il carcere accentua il suo ruolo di luogo escludente e scansato. L’unica connessione territoriale ricercata per la cittadelle della pena è quella infrastrutturale, come la vicinanza a nodi stradali importanti: il carcere vicino all’autostrada. […] L’azione dismissione/nuova localizzazione cambia radicalmente il rapporto tra l’organismo urbano e il carcere, la rimozione fisica favorisce la rimozione di memoria.” (L’edilizia che non c’è, Corrado Marcetti) La maggior parte del patrimonio carcerario dell’Emilia Romagna viene rinnovata durante il passaggio tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, successivamente all’entrata in vigore della nuova Legge n. 354/1975, di riforma dell’ordinamento penitenziario. I nuovi fabbricati, tutti molto simili tra loro, rispondono ai requisiti di sicurezza e rapidità di esecuzione richiesti in quegli anni. La tecnologia del prefabbricato tuttavia mostra già i suoi limiti; infatti, molti istituti mostrano segni di degrado in alcune loro parti. “Con l’emergenza scomparve l’architettura dall’edilizia penitenziaria, il Ministero di Grazia e Giustizia e il Ministero dei Lavori Pubblici attraverso le Direzioni Generali degli Istituti di Prevenzione e Pena e dell’Edilizia Statale, produssero un progetto tipo per tutte le nuove costruzioni. Il requisito inderogabile della qualità del progetto cedette il passo ad altre caratteristiche come il maggiore compattamento possibile degli edifici e la riduzione drastica delle percorrenze senza nessuna altra riflessione sulle ragioni, gli spazi e le forme dell’architettura. […] I criteri generali


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da adottare per la progettazione ribadiscono l’importanza di conferire all’organismo la massima funzionalità, la necessaria sicurezza, la riduzione al minimo dei posti di servizio del personale penitenziario, la forte distinzione dei percorsi interni, l’automazione applicata in tutti i processi di controllo, la gestione dei processi da postazioni centralizzate. […] Va rimarcato che a fronte di una descrizione puntuale e dettagliata di tutti gli aspetti inerenti la sicurezza interna dalla geometria delle maglie della grata ai più sofisticati sistemi tecnologici di sorveglianza, estremamente generica e minima è quella relativa alle opere e alle strumentazioni necessarie alle attività trattamentali, a quelle didattiche e culturali, ricreative e di studio o a quelle sportive. Altrettanto deboli e limitate sono le indicazioni per i laboratori di lavoro e per quelli della formazione professionale in cui la raccomandazione di flessibilità non è certo sufficiente a coprire un vuoto di riflessione sugli spazi del lavoro e della formazione in carcere in epoca contemporanea.”(L’edilizia che non c’è, Corrado Marcetti) L’estromissione dell’architettura e dell’urbanistica da questo ambito, non ha portato solamente ad una omologazione delle soluzioni, ma soprattutto ad un’inerzia nella ricerca di ipotesi alternative che vedono l’Italia particolarmente arretrata rispetto ad altri paesi come Norvegia, Svezia, Danimarca, Olanda o più recentemente la Spagna, che sperimentano istituti responsabilizzanti e qualificanti il detenuto. Comunità ridotte nel numero per creare legami e prigioni, concepite alla stregua di cittadelle autonome. In Italia, invece, anche chi ha raggiunto la soglia della semilibertà deve comunque fare ritorno in carcere quotidianamente.

Percentuali ed indice di sovraffollamento in Emilia Romagna

I dati regionali 2011|2012 La relazione annuale sulla situazione delle carceri in Emilia-Romagna, elaborata dalla Regione per il 2011 fotografa la popolazione dei detenuti (4000 persone, di cui 3.855 uomini e 145 donne), i tipi di reato (al primo posto quelli contro il patrimonio, mentre il 56,5% degli stranieri è in carcere per reati legati alla droga), il tasso di sovraffollamento medio (oltre il 160% della capienza regolare), la posizione giuridica dei detenuti ( il 50,5% della popolazione carceraria è condannata in via definitiva, il 20% è in attesa del giudizio di primo grado e il 41,9% è condannato in via non definitiva). L’assessore Marzocchi ha sottolineato “Importante l’impegno economico e di collaborazione tra le istituzioni”, ma “il carcere resta in emergenza”. La Regione ha stanziato per i programmi relativi al carcere, risorse pari a 1 milione e 400 mila euro per il 2011. Ingente è anche l’impegno per quanto riguarda la salute negli istituti penitenziari, a cui sono stati destinati 17 milioni di euro . “L’impegno economico per il carcere in questo ultimo anno è stato significativo, come pure importante è stato il lavoro di rete che ha ulteriormente valorizzato l’impegno delle istituzioni e la collaborazione con il terzo settore e il volontariato. Ciò nonostante, il carcere resta in emergenza, e questo rapporto vuole nuovamente denunciare l’enormità di lavoro ancora da compiere, perché la giusta pena sia davvero ispirata ai più elementari principi costituzionali”. E’ quanto afferma l’assessore regionale alle Politiche sociali Teresa Marzocchi, che ha presentato in Giunta la relazione annuale sulla situazione penitenziaria in Emilia-Romagna, elaborata dalla Regione per il 2011. Il rapporto, che non ha dimenticato di ricordare le misure straordinarie


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in atto in questi giorni, per far fronte alle ulteriori difficoltà degli istituti penitenziari dei territori colpiti dal sisma, traccia il profilo della popolazione carceraria a dicembre 2011. Per la prima volta dopo molti anni il numero dei detenuti è in leggero calo: si passa infatti dai 4.373 detenuti del 2010 ai 4.000 del 2011. Sono 2.065 gli stranieri (51,62% del totale, contro una media nazionale del 36,14%). Circa le tipologie di reato, in Emilia-Romagna i reati contro il patrimonio sono al primo posto (57% ad opera di italiani e 34% di stranieri). I reati contro la persona sono la seconda causa di carcerazione per gli italiani, mentre il 56,5% dei detenuti stranieri è in carcere per reati legati alla droga, contro il 31% dei detenuti italiani. Nonostante il graduale e costante incremento delle misure alternative alla detenzione in carcere (1.263 nel 2011 contro le 804 del 2008), il tasso di sovraffollamento medio rispetto alla capienza regolamentare (2.394) resta superiore al 160%. Nel dettaglio, nelle strutture di Bologna e Ravenna i detenuti sono più del doppio, mentre nelle carceri di Piacenza, Reggio Emilia, Modena e Ferrara, il sovraffollamento si spinge oltre il 170%. Rispetto alla posizione giuridica, in Emilia-Romagna risultano condannati in via definitiva 2.023 detenuti (50,5%), mentre il 20% della popolazione carceraria è in attesa del giudizio di primo grado e il 41,9% è stata condannata in via non definitiva. In carcere lavora il 17,12% dei detenuti: 654 persone (312 stranieri) sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 31 di imprese o cooperative esterne. I lavori più diffusi sono quelli di tipo domestico, nonostante vengano svolte anche altri tipi di attività, come la manutenzione degli immobili, del verde e lavori agricoli.

Disposizioni Piano Carcere, Emilia Romagna

L’intervento della Regione Le attività e gli interventi che la Regione svolge a favore di detenuti ed ex-detenuti sono regolate da Protocolli d’intesa siglati con il ministero della Giustizia e riguardano attività svolte sia durante la carcerazione, che nel periodo successivo, per il reinserimento sociale. Lo strumento principale per la reinclusione degli ex detenuti è costituito dai finanziamenti regionali ai Comuni sedi di carcere, previsti dal Programma regionale per il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, affidato alla progettazione dei Piani sociali di zona. Le risorse per il 2011 sono state complessivamente pari a 1 milione e 400 mila euro. Nel dettaglio, la Regione ha destinato 245mila euro al programma carcere, ai quali si somma la quota di cofinanziamento da parte degli Enti locali di 214 mila euro. Inoltre, è stato confermato il contributo regionale di 100mila euro, previsto dalla legge regionale n. 3/2008 su “Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della regione Emilia-Romagna”, al quale alcuni Comuni hanno aggiunto una piccola quota di cofinanziamento. Per il progetto Teatro Carcere le risorse regionali sono state pari a 30 mila euro. Sono state inoltre impegnati 21 mila e 500 euro per la prima annualità del progetto “Cittadini Sempre” per la messa in rete del volontariato carcerario. Attraverso il Fondo sociale europeo, le Province hanno finanziato con 626 mila euro, progetti per la formazione e l’inserimento lavorativo di detenuti. Ingente è anche l’impegno per quanto riguarda la salute negli istituti penitenziari, sono state infatti destinate risorse pari a 17 milioni di euro. Di queste, oltre 12 milioni di euro sono risorse, assegnate alla


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Regione Emilia-Romagna dal Servizio sanitario nazionale nell’ambito del ripartimento del fondo per la medicina penitenziaria, suddivise per le diverse Aziende sanitarie dei comuni sede di carcere, alle quali va aggiunta l’azienda sanitaria di Cesena e quella di Imola. Particolare rilevanza è stata data al progetto “Salute mentale in carcere”, con la finalità di costituire un’equipe psichiatrica negli Istituti penitenziari della Regione.

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Carceri d’Oro, scultura in legno, ferro e cartapesta di Roberto Ciroli, 2000

Carceri d’Oro, regione Emilia Romagna Le pagine che seguono sono una raccolta descrittiva degli istituti penitenziari presenti nella regione Emilia Romagna. Da questa ricerca sono emerse caratteristiche comune alle differenti strutture che ci hanno permesso di comprendere i disagi da cui sono affette ma anche le loro potenzialità e quelle dei territori in cui sono inserite. Dalle rilevazioni è quindi emersa la possibilità di concepire un modello replicabile per tutti i capoluoghi emiliano romagnoli sedi di carceri.


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BOLOGNA TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa Circondariale; DOVE: Via del Gomito 2, Bologna; DISLOCAZIONE: Periferia nord, area d’espansione urbana; CAPIENZA: Regolamentare 483 persone; Tollerabile 882 persone; NUMERO DI DETENUTI: 1.006 [maggio 2012] SEZIONI: la CC è strutturata in tre reparti principali: un reparto circondariale, dove sono ubicati 846 detenuti, tra cui i detenuti in Alta Sicurezza e i detenuti “protetti”; un reparto penale, che ospita circa 100 detenuti; un reparto femminile, ove sono adesso ospitate 88 detenute. Vi sono poi sezioni diverse che alloggiano i detenuti di diverse etnie, così da evitare i conflitti.

La Dozza, Bologna, vista assonometrica

Stato della struttura L’anno di costruzione dell’edificio è il 1984 e la consegna nel 1986. La fabbrica in cemento armato e laterizi presenta uno stato di conservazione esterno buono; i problemi sorgono all’interno, soprattutto nelle celle a causa del grande sovraffollamento. Inoltre, uno spazio che nasceva come ampio corridoio è stato convertito in sala per attività di biblioteca o aule scolastiche per riuscire a mantenere fruibili i servizi interni.

Attività e socialità La possibilità di effettuare colloqui non incontra restrizioni particolari, se non quelle dettate dalla necessità di gestire le esigenze di una

vasta popolazione detenuta. Attualmente, a causa della carenza di spazi nella zona dedicata ai colloqui, i detenuti sono costretti ad una rotazione che gli consente di effettuare un colloquio a settimana della durata di un’ora. Per quello che riguarda le attività ludico-espressive e religiose sono previste 14 attività diverse, di cui 10 gestite da volontari, 3 dal comune di Bologna e 1 dal PRAP. In generale si segnalano i laboratori musicali , di clowning , di ceramica, di lettura e scrittura, più due progetti dedicati specificamente ai detenuti tossicodipendenti. Inoltre, sono attivi vari corsi di formazione professionale: uno di sartoria per la sezione femminile; altri per qualificare i detenuti nei settori del giardinaggio e dell’ortoflorovivaismo, nella tipografia, nella ristorazione, nel settore edile, nella falegnameria e nella decorazione. Sono attivi anche corsi di istruzione, i quali però hanno subito negli anni forti tagli nell’organico, riducendo in molti casi le ore di docenza.

Previsioni future Il piano carceri ha stanziato 11,8 milioni di euro per la costruzione di un nuovo padiglione che ospiterà 200 persone. Attualmente la gara di appalto è conclusa ma sono in corso di verifica offerte anomale.

Storia dell’istituto penale Storicamente le carceri cittadine erano collocate nell’ex convento

di San Giovanni in Monte nell’area gravitante attorno alle due torri. Sede conventuale fino all’epoca napoleonica, i suoi locali vennero successivamente adibiti a prigione ed in questa veste funzionarono come carcere giudiziario di Bologna fino agli anni Ottanta del secolo scorso.


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PARMA TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa di reclusione+Casa circondariale; DOVE: Strada Burla 59, Parma; DISLOCAZIONE: Periferia nord-est; CAPIENZA: Regolamentare 350 persone; NUMERO DI DETENUTI: 640 [fonte: Osservatorio Antigone, maggio 2012] SEZIONI: L’Istituto è sia Casa di Reclusione che Casa Circondariale (due blocchi materialmente distinti). Al suo interno vi sono inoltre una sezione per paraplegici, una sezione protetti (Z), e una sezione alta sicurezza (articolata in AS1, AS3, 41bis). Per quanto riguarda la casa di reclusione, la sezione alta sicurezza sta per essere sdoppiata, così che questo blocco si caratterizzerà in maniera prevalente, se non esclusiva, per ospitare questo tipo di detenuti. Sono inoltre presenti nell’istituto due Centri Diagnostici e Terapeutici (CDT), dotati di 12 e 18 posti (rispettivamente per i detenuti in regime di 41bis e per gli altri ). I due CDT sono chiusi da tempo, ma è prevista la loro imminente riapertura, a partire dalla fine del mese di maggio 2012.

Casa di Reclusione e Casa Circondariale , Parma, vista assonometrica

Stato della struttura L’edificio è stato costruito nel 1990 e inaugurato nel 1992, realizzato con tecnica costruttiva a prefabbricati. E’ un complesso ad aggregazione più aperta rispetto agli esempi di edilizia penitenziaria di metà anni Ottanta, con un’ area detentiva separata da quella amministrativodirezionale. Le condizioni generali esterne e interne (celle, gabinetti, docce, spazi per socialità, sportivi, attività, di culto, ecc.) sono buone, a parte l’affollamento delle celle, che ne riduce la luminosità.

Attività e socialità I detenuti hanno diritto a 10 minuti di telefonate a settimana a pagamento. I colloqui con i familiari si svolgono dal lunedì al sabato,

ma secondo una rotazione che tiene conto del diverso affollamento delle sezioni. I colloqui delle sezioni comuni si svolgono in salette attrezzate con tavoli e sedie di plastica senza barriere. Per le visite dei figli piccoli dei familiari sono state attrezzate due aree ludiche esterne ed interne, anche se non sempre in funzione per la carenza di personale addetto alla vigilanza delle stesse. E’ prevista una biblioteca per la casa circondariale e una per la casa di reclusione. Entrambe sono poco fornite, sono libri per lo piùdatati, non vi sono abbonamenti a riviste o quotidiani. Sono gestite da un detenuto (uno per la CC e uno per la CR), non vi sono spazi per la lettura e i libri vengono distribuiti nelle celle. All’interno sia della CC che della CR, oltre a vari corsi organizzati da associazioni esterne, sono presenti diversi istituti scolastici: elementari, medie e superiori, nella CR ci sono anche un istituto per ragionieri e uno per geometri. Soltanto per chi frequenta i corsi scolastici è a disposizione un’aula informatica ben fornita di computer.

Previsioni future Il piano carceri ha stanziato 13,1 milioni di euro per la costruzione di un nuovo padiglione che ospiterà 200 persone. Bando di gara per progettazione esecutiva ed esecuzione lavori è stato appaltato.

Storia dell’istituto penale Storicamente le carceri cittadine vennero collocate all’interno della

chiesa di San Francesco del Prato, in seguito alla soppressione degli ordini napoleonici alcuni interventi impropri snaturarono la leggibilità della fabbrica facendone perdere per sempre le tracce del passaggio del carcere.


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PIACENZA TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa circondariale; DOVE: Strada delle Novate 65, Piacenza; DISLOCAZIONE: Suburbana sud-ovest, aperta campagna; CAPIENZA: Regolamentare 178 persone; Tollerabile 362 persone; NUMERO DI DETENUTI: 337 [fonte: Il Piacenza, aprile 2012] SEZIONI: 328 uomini e 9 donne; 207 scontano una condanna definitiva [201 uomini e 6 donne] mentre 130 sono ancora in attesa di giudizio [127 uomini e 3 donne].

Ai detenuti sono consentiti colloqui con i familiari tre volte alla settimana in luoghi piuttosto angusti e poco puliti, manca un’area verde attrezzata per i colloqui con i minori. L’amministrazione non si occupa della gestione delle poche attività, la quale viene affidata ad associazioni di volontariato esterne. Viene posta, invece, più attenzione verso corsi di formazione e di istruzione. La scuola superiore aveva ottenuto l’istallazione di una serra a cui accedevano i comuni e i protetti, quest’ultima si trova attualmente in disuso per la mancanza di finanziamenti per la manutenzione. Casa Circondariale , Piacenza, vista assonometrica

Stato della struttura L’edificio è stato costruito nel 1984 e inaugurato nel 1992 con tecnica costruttiva a prefabbricati. Lo stato di manutenzione della struttura è in condizioni mediocri all’interno e anche gli ambienti esterni sono privi di attrezzature o adeguata cura (campo sportivo, serra). Altra piaga di questo istituto è la mancanza di personale.

Attività e socialità Il periodo di socialità interno ed esterno si svolge negli orari: 9-11; 1315; dalle 15 alle 17 è possibile accedere alle due salette per la socialità presenti per ciascuna sezione (50mq circa).

Previsioni future Il piano carceri ha appaltato la costruzione di un nuovo padiglione che ospiterà 200 persone per il quale sono stati stanziati fondi dalla regione Emilia Romagna stessa.

Storia dell’istituto penale Palazzo Madama, fatto costruire nel 1658, fu destinato a Dogana nel 1779 e, intorno al 1866, trasformato in carcere, funzione che ha mantenuto fino al 1992, quando furono ultimati i lavori della nuova casa circondariale alle Novate.


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REGGIO EMILIA TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa circondariale + Ospedale Psichiatrico Giudiziario; DOVE: Via Settembrini 8, Reggio Emilia; DISLOCAZIONE: Periferia sud, area d’espansione; CAPIENZA: Regolamentare 160 persone, tollerabile 279 persone [CC]; Regolamentare 132 persone, tollerabile 190 persone [OPG] NUMERO DI DETENUTI: 322 in CC, 211 in OPG [fonte: Comunicato stampa, maggio 2012] SEZIONI: 308 uomini e 14 donne in alta sicurezza per la circondariale. La CC contiene 186 definitivi, di cui 2 in regime di semilibertà, il 70% stranieri. Quanto alle presenze nell’Opg, 205 sono i detenuti presenti fisicamente in istituto, di cui 35 nel reparto “Centauro” (unica delle cinque sezioni chiusa e vigilata dal personale di polizia penitenziaria), 6 i detenuti in licenza temporanea.

Casa circondariale e Ospedale Psichiatrico Giudiziario,Reggio Emilia , vista assonometrica

Stato della struttura L’edificio è stato costruito nel 1985 e inaugurato nel 1991, fu realizzato con tecnica costruttiva a prefabbricati. La struttura si presenta in buono stato ed anche gli ambienti esterni sono particolarmente curati.

Attività e socialità Per la casa circondariale, i colloqui previsti sono solo tre alla settimana. Vi è una sala colloqui per i detenuti cosiddetti protetti ed una più grande per tutti gli altri. In estate si può usufruire di un’area verde per gli incontri con i bambini, mentre d’inverno c’è una ludoteca gestita dai volontari di Telefono Azzurro. Esistono corsi di alfabetizzazione, scuola elementare, media,

superiore (professionale) e corsi di formazione professionale tenuti in collaborazione con le cooperative. Vi è una sezione dell’Università di Reggio Emilia, provvista di aule con 20 posti, dotati di computer, dove i detenuti studenti apprenderanno a distanza. La Cremeria di Cavriago, finanziata con fondi provinciali, che gestisce il progetto “la cremeria di Cavriago”, è un laboratorio di pasticceria che produce diversi tipi di biscotti e dolci poi venduti nell’omonimo negozio di Cavriago, e un corso di creazione di impresa nel settore della ristorazione. La stessa Associazione gestisce anche corso di pittura e di teatro. La formazione dei detenuti prevede un corso per orto-florovivaisti per circa 10 persone, a cui seguono tirocini lavorativi con fondi regionali cofinanziati dal Comune. All’interno dell’OPG si fanno attività terapeutico riabilitative come musicoterapia, pet-therapy, ginnastico-terapia. Vi sono alcuni corsi di formazione professionale ENAIP (provincia), che rilasciano un attestato ufficiale: corso di ristorazione; corso di riparazione biciclette. Nonché attività educative: scuola elementare, scuola media, scuola superiore. Vi sono infine altri corsi che non rilasciano attestati di tipo professionale, come quello di falegnameria, d’informatica e varie attività ludico-espressive. Sono disponibili aule polivalenti, una biblioteca e un’area verde riservata ai soggetti senza problematiche gravi.

Previsioni future Il piano carceri ha stanziato 11,8 milioni di euro per la costruzione di un nuovo padiglione che ospiterà 200 persone. Attualmente in corso di valutazione.

Storia dell’istituto penale Storicamente le carceri cittadine erano collocate nell’ex monastero di San Tommaso entro le mura.


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FERRARA TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa Circondariale; DOVE: Via Arginone 327, Ferrara; DISLOCAZIONE: Periferia ovest, area d’espansione; CAPIENZA: Regolamentare 260 persone; Tollerabile 466 persone; NUMERO DI DETENUTI: 500 [numero di detenuti prima del sisma; dopo il quale il numero dei carcerati è stato dimezzato] SEZIONI: 4 sezioni comuni, 1 sezione reclusione, 1 sezione protetta, 1 sezione femminile per le esigenze connesse all’arresto, 1 sezione per collaboratori della giustizia, 1 sezione semiliberi.

Palio di Ferrara.

Previsioni future Il piano carceri ha stanziato 11,8 milioni di euro per la costruzione di un nuovo padiglione che ospiterà 200 persone. Attualmente la progettazione esecutiva e la successiva realizzazione sono state appaltate.

Storia dell’istituto penale Casa Circondariale Ferrara, vista assonometrica

Stato della struttura L’edificio è stato costruito nel 1986 e inaugurato nel 1992 e realizzato attraverso una tecnica costruttiva a prefabbricati. Alcuni edifici ed il campo sportivo sono in cattivo stato di manutenzione.

Attività e socialità Sono previste attività scolastiche quali corsi di alfabetizzazione, scuole elementari, medie e medie superiori, un corso di formazione per arbitri, attività culturali: incontri educazione alla salute, musica, pittura, scacchi, informatica, serigrafia digitale, cucina, giardinaggio e ricreative: tornei di calcio, calcetto, pallavolo, camminata podistica, rappresentazioni teatrali, rappresentazioni da parte dei contradaioli del

Storicamente le carceri cittadine erano collocate nei pressi della centralissima chiesa di San Paolo, per essere poi spostate poco più distanti dal centro ma comunque nell’interno mura, in via Piangipane (1912-1992) nell’ edificio che ospita l’odierno Museo dell’ebraismo.


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RAVENNA TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa Circondariale; DOVE: Via Port’Aurea 57, Ravenna; DISLOCAZIONE: Urbana centrale; CAPIENZA: Regolamentare 59 persone; Tollerabile 106 persone; NUMERO DI DETENUTI: 109 [fonte: Il Velino, aprile 2012] SEZIONI: I detenuti sono tutti uomini, di cui solo 27 risultano condannati in via definitiva, mentre 82 sono in attesa di giudizio. A fronte di una media nazionale del 50%, gli stranieri raggiungono il 70%, e anche la percentuale di detenuti tossicodipendenti è alta (circa il 48%). In uno stabile separato dal corpo principale della struttura, ma sempre all’interno della cinta muraria, è ospitata la sezione per i semiliberi e gli art. 21.

Casa Circondariale Ravenna, vista assonometrica

Stato della struttura L’edificio in muratura, ricavato in una vecchia rocca medioevale, risale alla fine del XIX secolo. Le condizioni all’esterno sono buone, mentre all’interno la situazione è peggiore, soprattutto nelle celle anguste e poco illuminate. Il generale stato di manutenzione è però buono e per questo risulta essere sufficientemente vivibile rispetto a molti altri carceri regionali.

Attività e socialità Il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Desi Bruno, ha voluto evidenziare che: “la sinergia fra carcere e città appare molto forte, favorita dalla collocazione

dell’istituto nel centro cittadino, dalle sue ridotte dimensioni, dalla capacità e dallo spirito di collaborazione fra i soggetti più direttamente coinvolti: la Direzione dell’istituto, la Polizia penitenziaria, il Comune, il volontariato”. In stretta collaborazione con la direzione della Casa circondariale e con il contributo del volontariato, il Comune di Ravenna mostra una particolare attenzione al tema dei lavori socialmente utili e alle attività formative: 6 detenuti frequentano un corso curato da docenti dell’Istituto alberghiero, altri 2 (non retribuiti) lavorano alla pulizia delle spiagge dei lidi sud e alla manutenzione del verde pubblico, 22 (a rotazione) sono impegnati nei lavori interni (pulizia e distribuzione dei pasti), 2 usufruiscono delle borse-lavoro del Comune che finanziano la raccolta differenziata dei rifiuti ed una attività presso il canile municipale. Si svolgono corsi di informatica e corsi di alfabetizzazione per stranieri ed è assicurata la scuola media.

Previsioni future Nessun ampliamento previsto per la struttura dal Piano Carceri.

Storia dell’istituto penale Le vecchie carceri della città sorgevano in un fabbricato seicentesco sul retro del palazzo legatizio che affaccia sulla Piazza del Popolo, nel centro cittadino, vennero ampliate dopo il 1860, accorpando scuderie,

rimesse e fienili. Le pessime condizioni igieniche e la crescita demografica imposero la costruzione di un nuovo penitenziario, quello attuale, ai prati dell’ex monastero di Sant’Andrea , uno spazio inedificato vicino le mura.


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FORLI TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa Circondariale; DOVE: Via della Rocca 4, Forlì; DISLOCAZIONE: Urbana centrale; CAPIENZA: Regolamentare 135 persone; Tollerabile 165 persone; NUMERO DI DETENUTI: 262 [fonte: Osservatorio Antigone, settembre 2009] SEZIONI: sezione maschile, sezione femminile (25 ca.), sezione a custodia attenuata, sezione semilibertà.

La socialità all’interno del carcere si articola nell’utilizzo di tre sale predisposte con biliardi, tavoli da ping-pong e giochi di società ed in questi locali si trova anche una piccola biblioteca. Viene svolto un laboratorio di pittura che, in collaborazione con un’azienda del territorio, partecipa alla produzione di lampade. Sono attivi dei corsi di istruzione (alfabetizzazione, scuola media, ragioneria), mentre non esistono corsi di formazione professionale.

Previsioni future Casa Circondariale Forlì, vista assonometrica

Stato della struttura E’ una struttura storica, in muratura del XIX secolo, ma ha anche fabbricati più recenti, su questo complesso vige un vincolo storicoambientale. Le condizioni manutentive sono buone all’esterno mentre all’interno, soprattutto nelle celle, la situazione è peggiore. Il generale stato di manutenzione però è da considerarsi buono, e l’istituto risulta essere sufficientemente vivibile rispetto a molti altri carceri.

Attività e socialità I colloqui con i familiari avvengono con cadenza bisettimanale e non vi sono particolare restrizione per quanto riguarda la ricezione di pacchi o le telefonate.

Nessun ampliamento previsto per la struttura dal Piano Carceri.

Storia dell’istituto penale Le attuali carceri vennero edificate sul finire dell’Ottocento all’interno della Rocca del Ravaldino o Rocca di Caterina Sforza, una struttura quattrocentesca costruita a partire dal 1481 che, con l’aumento della potenza delle artiglierie e con il cambiamento delle tecniche d’assedio, perse la propria funzione di baluardo difensivo, venendo gradualmente destinata a carcere.


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RIMINI TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa Circondariale; DOVE: Via Santa Cristina 19, Rimini; DISLOCAZIONE: Suburbana ovest, aperta campagna; CAPIENZA: Regolamentare 117 persone; NUMERO DI DETENUTI: 207 [fonte: Dire, agosto 2012] SEZIONI: I condannati in via definitiva sono 89, (più altri 12 con posizione giuridica mista, con almeno una condanna definitiva), 79 i tossicodipendenti (alcol dipendenti), 3 transessuali. Grande valore trattamentale derivante dall’esperienza del progetto Andromeda: in un locale ad hoc, staccato dalle ordinarie sezioni detentive, convivono in una dimensione comunitaria 13 detenuti (il reparto può ospitarne fino a 16), selezionati accuratamente dalla Direzione del carcere e dal Sert dell’Ausl, si tratta di tossicodipendenti o alcoldipendenti che, dopo aver sottoscritto un patto formativo con la Direzione, beneficiano di questa forma di custodia attenuata, in previsione dell’accesso a misure alternative alla detenzione in carcere.

Attività e socialità

Casa Circondariale Rimini, vista assonometrica

Stato della struttura La struttura risale ai primi anni Settanta, con successivi interventi integrativi negli anni Novanta per fare spazio alla Direzione, alla Caserma della Polizia Penitenziaria dotata con relativo spaccio aziendale e mensa. Attualmente un’ala degli edifici posti all’interno del muro di cinta è in fase di ristrutturazione. Ad ultimazione dei lavori, vi sarà predisposta una sala per i colloqui con gli avvocati , una sala magistrati, un nuovo reparto a custodia attenuata. Un’ala degli edifici è invece del tutto chiusa ed è in attesa di un intervento di ristrutturazione che renderebbe disponibili altre 8-10 celle, risolvendo buona parte dei problemi del sovraffollamento. In generale, gli spazi interni sono poco luminosi e molto affollati.

Per i colloqui e’ prevista un’ampia area verde all’esterno dove, durante il periodo estivo, vengono allestiti diversi gazebo. Particolarmente angusto è lo spazio dedicato ai colloqui con gli avvocati che avvengono in una sola sala con tre scrivanie appena separate da mobilio, senza un reale isolamento acustico e visivo tra le stesse. Sono presenti vari corsi scolastici e due diversi corsi di formazione professionale (ceramica e falegnameria), oltre a laboratori di musica e fotografia. Inoltre è attivo un laboratorio interculturale di inclusione sociale, predisposto in convenzione con la Regione Emilia Romagna e il Comune di Rimini, che ha determinato un netto calo degli episodi di intolleranza tra detenuti italiani e stranieri e tra detenuti di differenti nazionalità.

Previsioni future Nessun ampliamento previsto per la struttura dal Piano Carceri.


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CASTELFRANCO EMILIA TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa di Reclusione; DOVE: Via Forte Urbano 1, Castelfranco Emilia [Modena]; DISLOCAZIONE: Urbana, area di espansione; CAPIENZA: Regolamentare 80 persone [uomini]; NUMERO DI DETENUTI: 60 [fonte: SAPPE, novembre 2009]; sottoposti a misure di sicurezza (43), soggetti con problemi di tossicodipendenza in custodia attenuata (17 su 33 posti disponibili) [fonte: Dire, 26 marzo 2012] SEZIONI: Il carcere di Castelfranco era una “Casa di Lavoro” una struttura penitenziaria che ospitava circa trenta soggetti definiti “internati”, oggetto di provvedimenti di prevenzione a causa della loro pericolosità sociale. Viene poi trasformata a partire da marzo 2005 in Casa di Reclusione a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti che devono scontare pene definitive.

Casa di Reclusione Castelfranco Emilia, vista assonometrica

Stato della struttura

di verniciatura, giacciono completamente inutilizzate. E se definire sottoutilizzata l’azienda agricola è dire poco a causa delle decine di ettari di terreno non curati, assicura sempre la Garante, la vicenda più inspiegabile rimane quella dell’area pedagogica: all’interno degli oltre 2.000 metri quadrati di fabbricato si trovano infatti già pronti una biblioteca, laboratori, aule per le lezioni, in pratica una struttura che potrebbe tranquillamente ospitare una’università, semplifica la Bruno, ma si tratta di spazi quasi completamente inutilizzati. Per questo motivo si chiede l’intervento del nuovo capo di dipartimento, con l’auspicio che possa andare a verificare personalmente le potenzialità di aree tali da costituire una struttura a misura d’uomo e di diritti costituzionali. Secondo la Garante, infatti, San Giovanni potrebbe essere un progetto sperimentale che permetterebbe davvero ai detenuti di lavorare. [fonte: Dire, 26 marzo 2012]

Struttura storica in muratura del XVII secolo e fabbricati più recenti. Su questo complesso vige un vincolo storico-ambientale.

Previsioni future

Attività e socialità

Nessun ampliamento previsto per la struttura dal Piano Carceri. Acceso dibattito sull’abolizione delle quattro Case di Lavoro presenti nel territorio italiano a causa della mancanza di lavoro, presupposto base per la loro attività rieducativa e risocializzante.

“A stupire, e non di certo in positivo la Garante regionale sono state in particolare le potenzialità non espresse dalla casa di reclusione: ci sono infatti strutture di lavoro importanti, spiega la Bruno, ma ad esempio la lavanderia, che al momento occupa a tempo pieno sei persone in custodia attenuata e lavora per cinque carceri in regione e anche per due realtà esterne, viene sfruttata solo per metà delle sue possibilità, e due enormi officine meccaniche, con tanto di forno

Storia dell’istituto penale La costruzione del forte comincia per volontà di Urbano VIII nel 1628 ad opera di Giulio Buratti di Senigallia con Soprintendenza del cardinale

legato Bernardino Spada. Ci furono umerose difficoltà per reperire manodopera, materiali e denaro poi nel 1825 fu destinata a casa di pena. Nel 1835 fu destinato a lazzaretto di contumacia per ritornare alla funzione di reclusorio e tra 1915-18 fu campo di concentramento per prigionieri austriaci.


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SALICETA SAN GIULIANO TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa Lavoro; DOVE: Via Panni 28, Saliceta San Giuliano [Modena]; DISLOCAZIONE: Periferia sud, area di forte espansione; CAPIENZA: Regolamentare 68 persone [uomini]; NUMERO DI DETENUTI: Nella giornata del 06 giugno 2012, a seguito degli eventi sismici avvenuti nell’area emiliana che hanno causato danni all’istituto, dichiarato inagibile, i 65 internati sono stati spostati dalla polizia penitenziaria nei complessi di Parma (30) e Padova (35). [fonte: Modena Today] SEZIONI: In questa struttura vengono inseriti gli ex-detenuti che hanno già scontato una pena ma ai quali il magistrato ha applicato un’ulteriore misura di sicurezza perché considerati socialmente pericolosi. Tali misure di sicurezza hanno l’obbligo del lavoro come mezzo per arrivare al reinserimento sociale, ma, nella realtà, lavoro non ce n’è, così i periodi di internamento post carcere diventano a tutti gli effetti misure di sicurezza senza date finali certe ed il giudice di sorveglianza può prorogarli finché non ritenga cessata la pericolosità sociale. In sostanza senza lavoro non c’è reinserimento sociale e di conseguenza non c’è fine della pena. In questi casi si parla spesso di ergastolo bianco.

Previsioni future Nessun ampliamento previsto per la struttura dal Piano Carceri. Acceso dibattito sull’abolizione delle quattro Case di Lavoro presenti nel territorio italiano a causa della mancanza di lavoro, presupposto base per la loro attività rieducativa e risocializzante.

Storia dell’istituto penale Casa Lavoro Saliceta San Giuliano, vista assonometrica

Stato della struttura E’ una struttura storica in muratura risalente al XIX secolo in avanzato stato di degrado, ulteriormente compromessa dagli eventi sismici del maggio 2012. Su questo complesso vige un vincolo storico-ambientale.

Attività e socialità Gli occupati svolgono mansioni domestiche interne all’istituto. La struttura, in se stessa, ha forti potenzialità data la presenza di un edificio a tre piani in parte restaurato all’angolo fra via Panni e via Giardini utilizzabile per impiegare i detenuti in attività utili al loro reinserimento e come futuro spazio integrativo per la detenzione.

Storicamente nacque come opificio per la filatura e la tessitura della canapa ed era una Casa di lavoro forzato. In questo opificio, che ha dato il nome alla zona, via Panni, si lavorava per la pubblica amministrazione utilizzando la manodopera dei detenuti. Divenne successivamente reclusorio, l’Albergo dei poveri, di cui conserva ancora, per buona parte, l’antica forma. Dal 1846 venne utilizzato come “casa di forza”.


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MODENA TIPOLOGIA DI STRUTTURA: Casa Circondariale; DOVE: Via Sant’Anna 370, Modena; DISLOCAZIONE: Periferia nord, area d’espansione; CAPIENZA: Regolamentare 222 persone; Tollerabile 404 persone; NUMERO DI DETENUTI: 411[fonte: articolo Ristretti, 2012] SEZIONI: sezioni comuni, sezione femminile [30 recluse], sezione protetti [30 reclusi], sezione alta sicurezza [50 reclusi].

Casa Circondariale Modena, vista assonometrica

Stato della struttura Costruita nel 1985 e inaugurata nel 1991 è una delle ultime “carceri d’oro” costruite in Italia. Complesso ad aggregazione compatta di vari blocchi tipico dell’edilizia penitenziaria degli anni Ottanta, realizzato con tecnica costruttiva ad elementi prefabbricati. La struttura attualmente presenta seri problemi al tetto con infiltrazioni di acqua; nonostante ciò il livello manutentivo è sufficiente. Problematica è la situazione delle celle, le quali, pensate per una persona ospitano ora da tre a quattro persone.

Attività e socialità La possibilità di effettuare colloqui non incontra restrizioni La socialità

si articola in due ore d’aria di due ore ciascuna: 9|11, 13|15. É poi previsto un periodo di socialità dalle 17.30 alle 19.00 che si effettua nelle salette apposite dotate di tavolo da ping-pong, biliardino, carte da gioco. I detenuti non sono liberi di circolare in sezione. All’interno dell’istituto c’è un progetto di animazione per i figli dei detenuti, chiamato “Peter Pan”. Vengono organizzane feste in occasione di questi incontri genitori-figli con un’area attrezzata per il gioco dei bambini oppure, nel periodo estivo, si attrezza il giardino con gazebo. Oltre a corsi di istruzione e formazione professionale è presente un corso di agricoltura biologica e agricoltura condotto da un agronomo.

Previsioni future É previsto l’aumento di un padiglione per accogliere 350 detenuti aggiuntivi, già realizzato, da non inquadrare nei finanziamenti del Piano Carceri in quanto finanziato dai fondi regionali.

Storia dell’istituto penale Storicamente le carceri cittadine erano prima collocate nel Palazzo che oggi ospita gli uffici comunali, poi nell’ex convento di Sant’Eufemia, sempre collocato nel centro storico.


Piazza Grande Modena, vista sul Duomo

La scelta del caso studio: Modena

Ai fini della nostra ricerca di tesi, dopo aver analizzato il fenomeno della delocalizzazione, inerente alle carceri dell’Emilia-Romagna, ci siamo concentrati su una città in particolare che raccoglie in sé tutte le caratteristiche dei capoluoghi di provincia emiliano-romagnoli. Occorre chiarire i successivi step e le relative considerazioni che ci hanno portato a dirottare il nostro interesse su questa particolare città. In primo luogo, Modena, comprende, nel suo territorio comunale, due strutture detentive differenti, come apparso dalle schede precedenti, la casa circondariale Sant’Anna e la Casa di Lavoro Saliceta San Giuliano. Quest’ultima aveva, per prima, catalizzato il nostro interesse essendo una struttura a sicurezza attenuata che dovrebbe occuparsi del reinserimento lavorativo dei suoi ospiti, completamente assorbita dal contesto urbano. Dopo un colloquio con la direttrice della struttura e dopo il sisma del maggio 2012 abbiamo cominciato a considerare anche la seconda opzione. Questo soprattutto perché la realtà della Casa Lavoro è una realtà obsoleta ed illegale, retaggio dell’ordinamento fascista di cui era già stata preconizzata la chiusura da parte del Ministero di Grazia e Giustizia, accelerata dal sisma che avendo inferto problemi strutturali all’edificio, ha provocato il dirottamento dei detenuti verso l’istituto Sant’Anna e verso la casa Circondariale di Parma. Scegliendo definitivamente come sito di progetto il carcere Sant’Anna e la zona limitrofa, ci siamo occupati di ricostruire storicamente l’iter che l’ha portato in una zona periferica, industriale, al limite della città, a fianco del tracciato della tangenziale, ma anche di studiare il tessuto economico, associativo e cooperativo che da sempre ha contraddistinto le città emiliane, declinandolo nel nostro settore di studio specifico.


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Tessuto Associativo|Cooperativo Modena, e più in generale le città dell’Emilia Romagna, è storicamente votata all’associazionismo e alla cooperazione. Questi due fenomeni hanno radici molto profonde; infatti, le prime cooperative di consumo a Modena nascono già negli anni ‘60 per iniziativa della società di Mutuo Soccorso. Da tenere in considerazione è anche l’attrazione che una regione quale l’Emilia-Romagna ha da sempre esercitato verso gli ambiti di popolazione più deboli per ricchezza, servizi e qualità della vita e che ha perciò dirottato nel proprio territorio, fasce ingenti di coloro che oggi chiamiamo gli ultimi. È proprio verso questi soggetti che attualmente si concetrano le maggiori forze delle associazioni, del volontariato e delle cooperazioni. Nel territorio modenese sono molte le realtà che si occupano, non senza problemi, del miglioramento della vita dei detenuti e soprattutto dei detenuti stranieri, per cercare di assicurargli l’istruzione minima, condizioni di vita migliori e un’integrazione nel tessuto sociale. L’azione delle associazioni e dei volontari è fondamentale per avvicinare la società, che definiremmo civile, alla conoscenza di problematiche, molto spesso ignorate, che tuttavia affliggono una parte della popolazione. La sensibilizzazione della collettività risulta dunque un sostegno importante per il reinserimento del detenuto nella società, perché possa riappropriarsi del suo futuro. Analizziamo quindi le due associazioni che principalmente intrattengono rapporti con il carcere nella zona di Modena ed alcuni progetti promossi per migliorare la vita dei detenuti e per avvicinare al carcere la popolazione.

Nertwork associativo modenese


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1598

1860

1915

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Il libero Comune di Modena,istituitosi dopo l’anno 1000 si sottomise alla Signoria Este.

Gli Estensi trasportarono definitivamente a Modena la loro corte, avendo ceduto, a papa Clemente, il ducato di Ferrara.

I Modenesi si sottomisero, dopo la Seconda Guerra di Indipendenza a Vittorio Emanuele II.

Prima Guerra Mondiale

E’ l’epoca dei primi scioperi e del progressivo affermarsi del Partito Socialista, che si insedia al governo della città. In questi anni l’intera Emilia è caratterizzata dalla tensione tra “rossi e neri” che sfocia spesso in rappresaglie armate.

1933 Scoppio della Seconda Guerra Mondiale

1945

1950

1960

1970

1987

1991

1997

Liberazione

Gli anni successivi alla liberazione sono segnati dal clima di violenza soprattutto nella zona del cosiddetto “triangolo rosso” o “triangolo della morte”, una porzione di territorio modenese compresa nei comuni di Modena, Castelfranco,Nonantola, dove vengono assassinati religiosi e laici, ed esponenti dei partiti aderenti alla Resistenza su posizioni alternative a quelle del PCI.

Modena conosce il boom economico che si accompagna ad un aumento demografico

Isituzione della Regione Emilia Romagna

Il censimento mostra i cambiamenti avvenuti nella società modenese: l’agricoltura passa dal 56,2% del 1951 al 10% , l’industria dal 24,8% al 53,3%, il terziario dal 19% al 36,7%. Gli abitanti sono 180.312.

Inaugurazione Casa Circondariale Sant’Anna

Il duomo di Wiligelmo e la torre della Ghirlandina vengono dichiarate patrimonio dell’Unesco.

1560

1630

1825

1903

1948

1965

1989

“Pianta di Modona”, ultimi decenni del XIV secolo,Archivio di Stato.

“Pianta di Mutina con progetto di ampliamento a oriente”, seconda metà XVII secolo, Archivio di Stato

“Pianta di Modena, 1825” di Giuseppe Carandini

Pianta della città di Modena con delineazione del PRG Interno ed Esterno 1903-1904

Cartografia del Piano Regolatore del 1948 con delimitazione dell’area nord

Planimetria del Piano Regolatore redatto negli anni ‘60 con sviluppo urbano nel quadrante sud

Planimetria Piano Regolatore 1989 con zonizzazione funzionale

Storia urbana|Storia del carcere Per comprendere l’iter urbanistico che ha interessato le strutture detentive della città di Modena ci sembra opportuno introdurre brevemente una panoramica storica della città nel suo intero complesso. Il primo nome con cui ricordiamo Modena è Mutina, nome di origine etrusca, civiltà presente nella Pianura Padana a cominciare dal VI secolo a.C.. Nel 200 a.C. diventa un’importante colonia romana la cui influenza cresce, collocandosi sull’asse Piacenza-Rimini, a seguito della costruzione della Via Emilia. A quel tempo Modena é inoltre costellata da una fitta rete di canali navigabili collegati al Po (e di cui resta ancora traccia nei nomi di alcune strade cittadine). Nessun edificio o monumento d’epoca romana è però giunto fino a noi. Dopo la caduta dell’Impero Romano il territorio subisce le invasioni delle

popolazioni barbare del Nord Europa. Fra il V e il IX secolo conosce un periodo di grande decadenza. Le devastazioni causate dagli invasori e la violenza di piogge e inondazioni cancellano quasi completamente le ricche vestigia del passato. Ciò che rimane dell’antica dominazione romana è l’impianto di alcuni quartieri del centro storico e l’orditura dei campi coltivati che ripropone l’inclinazione dell’acro romano, parallelo alla Via Emilia. Soltanto a partire dalla fine del IX secolo prende avvio il processo di ricostruzione che dura più di duecento anni. Intorno all’anno 1000 le terre sono bonificate e città e villaggi vengono fortificati. Rifioriscono i commerci e le arti. Ed è a questo periodo che risale la costruzione di alcuni dei più notevoli gioielli di architettura romanica, tra cui la cattedrale. Dopo un periodo comunale nel 1288 i rettori di Modena si sottomettono, il Comune perde l’autonomia e la libertà politica:

le sorti della città sono legate alle vicende della famiglia d’Este. Salvo brevi interruzioni, la signoria degli Estensi dura fino alla fine del Settecento. Nel 1598 gli Estensi vi trasportano definitivamente la loro corte, avendo ceduto a Papa Clemente Il la prospera signoria di Ferrara. Rimangono quindi signori della città quasi ininterrottamente fino alla Seconda Guerra di Indipendenza quando Francesco V d’Este è costretto a fuggire, mentre la cittadinanza di Modena vota la sottomissione a Vittorio Emanuele II. Gli anni del Regno sono segnati da tensioni sociali, in particolare nelle campagne; è l’epoca dei primi scioperi e del progressivo affermarsi del Partito Socialista, che dopo gli anni difficili della Grande Guerra si insedia il 13 novembre 1920 al governo della città, con il sindaco Ferruccio Teglio. Nello stesso periodo si stanno già organizzando le squadre fasciste: in quegli anni l’intera Emilia è caratterizzata dalla tensione tra “rossi e neri”, che sfocia spesso in rappresaglie armate.

Il clima di violenza prosegue tuttavia anche dopo la Liberazione, soprattutto nella zona del cosiddetto “triangolo rosso” o “triangolo della morte”, una porzione di territorio modenese compresa tra i comuni di Modena, Castelfranco e Nonantola, dove vengono assassinati religiosi, laici ed esponenti dei partiti aderenti alla Resistenza con posizioni alternative a quelle del PCI. Negli anni del dopoguerra Modena conosce, in seguito al boom economico, un periodo di benessere senza precedenti. Il successo della città è legato soprattutto all’affermarsi di piccole e medie industrie dai prodotti unici al mondo, come Ferrari o Maserati o come il polo ceramico di Sassuolo, quello tessile di Carpi e quello biomedicale di Mirandola, ed alla valorizzazione dei prodotti tipici della regione. Questi settori trainanti fanno della provincia modenese una delle più ricche d’Italia e tra le più ricche dell’Unione Europea. Avendo coscienza delle caratteristiche dei diversi periodi storici


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Inquadramento urbano carcere medioevale

Inquadramento urbano carcere di Sant’Eufemia

cerchiamo di ricostruire la storia delle strutture detentive di questa città. Sin dal medioevo si cominciano a costruire edifici appositi per la detenzione, situati nel centro del borgo cittadino. Questi edifici, sovente divisi su due piani ospitano al pianterreno gli uffici del tribunale e gli spazi per il personale giudiziario, mentre al piano superiore le celle detentive. Nel caso specifico di Modena è l’attuale Palazzo Comunale ad ospitare al secondo e terzo piano i luoghi della detenzione, mentre al primo piano sono ospitate le aule del tribunale. Il palazzo si erge su Piazza Maggiore, dove affaccia la Cattedrale e il Palazzo Signorile. Lungo l’attuale via Albinelli, denominata “Contrada delle carceri”, fino al 1911 sorge la “Cmuuna”, termine del gergo modenese per indicare le prigioni comunali preventive, che vengono ospitate nello stesso palazzo fino al novembre 1818, quando sono accorpate alle prigioni criminali. Vicino a tale struttura, che si erge tra lo scomparso vicolo del Bue verso piazza Maggiore, all’angolo si trova l’Oratorio di San Giovanni, noto perché vi vengono condotti i condannati, per ricevere l’ultimo conforto. Le esecuzioni hanno luogo nelle piazze pubbliche, in presenza della cittadinanza; per questo particolare motivo sono tristemente ricordati i pilastri della torre dell’Orologio, il prato detto “La Forca” fuori l’ex Porta Sant’Agostino e i merli dell’antico Castello Estense. Esempio ne è anche il basamento su cui ora si erge la statua di Alessandro Tassoni, sulla quale i debitori, per evitare la prigionia, devono saltare e sedersi per ben tre volte dopo aver corso per la piazza. La tortura si concretizza nella presenza della trementina sul basamento e il divieto di indossare pantaloni. Le prigioni criminali vengono spostate in epoca estense dal Palazzo

Comunale al palazzo della Ragione, nella nuova ala a nord est del palazzo stesso. A metà dell’’800, a seguito dello sviluppo industriale, si ha un aumento demografico della popolazione di Modena, che comporta la necessità di accrescere il territorio urbanizzato estendendolo al di là della cinta muraria. Fino a questo momento, infatti, e per centinaia di anni, la città è stata chiusa entro le mura che ne costituiscono il guscio, il confine fisico oltre il quale comincia la campagna. Le strutture di reclusione vengono trasferite presso l’ex convento di Sant’Eufemia nell’omonima contrada. Vengono affiancate ai locali della polizia penitenziaria che vi rimane decisamente più a lungo; le carceri vi restano infatti fino al 1986, mentre i locali della polizia penitenziaria sono smantellati solo alcuni anni dopo. Le carceri di Sant’Eufemia rappresentano un esempio di riuso di uno spazio architettonico concepito con una funzione diametralmente opposta. Vengono chiuse a causa della mancanza di spazio e delle precarie condizioni igienico sanitarie. Oggi si rintracciano i segni di quest’antica presenza dalle epigrafi, tuttora rimaste, e dai nomi dei negozi limitrofi (es: spaccio carceri). La Casa Circondariale Sant’Anna viene inaugurata nel 1987 e, come già detto, rappresenta una delle ultime carceri d’oro italiane, costruita secondo il modello della prefabbricazione. Come sito di progetto è scelto un lotto non edificato nella zona di Modena Nord, all’interno della zona industriale della città. Tale scelta del quadrante nord viene effettuata per ragioni economiche e logistiche. La zona nord, oltre il limite della ferrovia, storicamente ospita le zone artigianali e industriali, nonché qualche quartiere operaio e un quartiere INA casa. Viene quindi prediletto un sito, per la realizzazione del nuovo carcere, non appetibile per il mercato immobiliare e per l’espansione cittadina.


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Questo si trova infatti vicino alle grandi infrastrutture che consentono l’entrata e l’uscita dalla città e presenta un basso valore immobiliare, se confrontato con valori di aree urbane centrali e con quelli delle zone limitrofe. Il tutto si integra perfettamente alla filosofia di rimozione psicologica e urbana della presenza di queste strutture.

LA REGOLAMENTAZIONE URBANISTICA DAL DOPOGUERRA AD OGGI

Inquadramento urbano Casa di Lavoro Saliceta San Giuliano

Inquadramento urbano Casa Circondariale Sant’Anna

La città contemporanea è sospesa tra omologazione e identità, è costituita da luoghi della memoria che, pur mantenendo inalterato il loro valore simbolico, hanno origine dal periodo storico che li ha attraversati. Citiamo per Modena, a dimostrazione di quanto affermato, la Cattedrale, la Ghirlandina e Piazza Grande, che rappresentano il cuore civile e religioso della città. Non sempre i segni di urbanità, però, sono così immediati e centrali. Dopo il secondo conflitto mondiale, per esempio, a Modena gli imprenditori locali sembrano aver perduto la spinta propulsiva e saranno gli operai a rilanciare il settore, forti delle loro competenze, abituati alla fatica e al sacrificio. Sono le fabbriche, quindi, a diventare il simbolo del coraggio, dell’intelligenza della città e dell’industriosità dell’uomo dal Dopoguerra in poi. Percepite per lungo tempo come aree marginali, ai limiti della città, squallide ed inquinate, le aree industriali vengono dimenticate per lungo tempo, rimosse dalla coscienza civica. Queste attraggono funzioni scomode che nessuno vorrebbe nel “proprio giardino”, ma diventano, recentemente, aree di trasformazione, di riuso, a causa del cambiamento delle condizioni di produzione e della crisi economica che colpisce l’Europa e l’Italia e che determina la chiusura di numerosi stabilimenti. Assistiamo quindi allo sviluppo di un’archeologia

industriale volta a fornire la possibilità di una nuova vita a questi relitti, a ciò che Marc Augè chiama i non luoghi. Con tale definizione si intendono luoghi in cui non è piacevole soggiornare, stare, fermarsi, che sono dunque percorsi frettolosamente e che affliggono le nostre città, innescando un’inversione di flussi ed un ribaltamento delle polarità urbane. Grazie a questo processo invertito, quelle zone che ci sembravano così lontane, ritornano ad essere presenti al centro della realtà urbana. Analizziamo a questo punto il processo d’isolamento che interessa in generale l’area di Modena Nord su cui insite la Casa Circondariale Sant’Anna.

Dai PRG storici all’urbanistica partecipata Le ragioni che portano Modena Nord ad essere storicamente isolata rispetto allo sviluppo urbanistico della città sono da ricercare negli strumenti pianificatori e legislativi adottati dal Dopoguerra ad oggi. Generalizzando, si può affermare che la crescita di Modena sia differente a Nord e a Sud della ferrovia. Il quadrante sud e quello lungo la Via Emilia conoscono, infatti, partendo dal centro storico, uno sviluppo concentrico, un aumento dei servizi e delle infrastrutture, mentre la zona Nord, per questioni logistiche, di soleggiamento e morfologiche, da sempre ospita le grandi industrie e le zone artigianali, nonché i quartieri operai e quelli di edilizia economica popolare INA casa.


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Aree industriali

Aree industriali Aree industriali dismesse

Aree industriali

Aree industriali

Aree residenziali Servizi Aree verdi

Aree residenziali Servizi Aree verdi

Aree residenziali Servizi Terziario

Aree residenziali Servizi Terziario

1. PRG 1958

2. PRG 1965

3. PRG 1989

4. PRG 2010

Il piano regolatore del 1958, redatto dall’ingegner Pucci, prevede una crescita enorme della città (526.000 abitanti) e una funzione ancora direzionale del centro storico. La via Emilia rimane l’asse portante, la principale direttrice di espansione, ma la potenzialità edificatoria è sovradimensionata e di conseguenza la dotazione di servizi risulta, al contrario, fortemente sottodimensionata. Il verde resta relegato alla fascia esterna, mentre la densificazione dell’area periferica è particolarmente forte. Si parla in questo piano di zonizzazione, cioè di divisione in zone con funzioni specifiche: la residenza è concentrata a sud e sud-est, l’attività produttiva nella fascia nord e sui due lati della via Emilia, mentre il sistema delle tangenziali chiude la città, la circonda avvolgendola come nel passato facevano le mura.

Lo schema viario non è più chiuso e radiocentrico, ma aperto e disposto secondo un reticolo ortogonale. Tra gli aspetti emerge l’esplicita scelta di orientare nuovamente l’asse dello sviluppo urbano dalla direttrice prevalente Ovest-Est, segnata dalla via Emilia, a quella Nord-Sud. Il mercato delle aree fabbricabili viene controllato mediante l’uso di strumenti legislativi, la speculazione è arginata attraverso il PEEP. Verde e servizi vengono particolarmente potenziati nelle aree ancora libere delle zone in cui sono già presenti insediamenti residenziali e produttivi. Il verde per la prima volta diventa elemento strutturale del Piano e viene integrato negli standard dei servizi. Si decide di collocare a Nord le aree destinate agli insediamenti produttivi e annonari e a Sud quelli residenziali, “eliminando per quanto è possibile la commistione fra abitazioni e fabbriche”.

Introduce per la prima volta i meccanismi di perequazione, finalizzati a meglio distribuire i vantaggi dell’urbanizzazione alle proprietà interessate del medesimo comparto, a la realizzazione di case a costi concordati e ad ottenere una migliore dislocazione dei servizi. Il piano è diviso in Piano Strutturale e Piano Operativo, con l’obiettivo di migliorare tempi e trasparenza della pianificazione. Un altro elemento riguarda le concatenate priorità della limitazione dell’espansione e del recupero delle aree industriali dismesse o in dismissione a ridosso della fascia ferroviaria. L’impatto crescente dell’immigrazione, soprattutto straniera, è assorbito, per quanto riguarda il fabbisogno abitativo, dal mercato dell’affitto, nel frattempo liberalizzato. Il piano cerca di intervenire sul sistema della mobilità attraverso interventi di pianificazione del traffico, dei parcheggi, delle soste, delle piste ciclabili.

Il piano regolatore generale di Modena è suddiviso in PSC, Piano Strutturale Comunale, POC, Piano Operativo Comunale e RUE, Regolamento Urbanistico Edilizio. All’interno del PSC vengono individuate le cosiddette “aree di azione” e gli indirizzi generali da seguire per gli interventi urbanistici edilizi. In relazione a numerose zone adiacenti al centro storico, per le quali sono previsti interventi di tutela e ricostruzione nell’ambito della coerenza e della salvaguardia dell’edificato circostante, il PSC riporta delle norme piuttosto puntuali per quanto riguarda gli interventi edilizi e urbanistici possibili. Spostandosi oltre la cerchia delle aree del centro, il piano indica alcune zone residenziali e miste in cui può essere previsto un consolidamento dell’edificato e delle funzioni; tali aree sono presenti sia a nord sia a sud della ferrovia. La zona della stazione ferroviaria è


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indicata come zona in cui concentrare strutture pubbliche ad elevata specializzazione. Tutti i quartieri residenziali che si sviluppano verso sud-ovest, adiacenti al tratto di ferrovia in corso di dismissione, sono indicati come aree di ricomposizione e riassetto urbano. In queste zone infatti sono presenti vari tipi di edificato: complessi industriali ed artigianali, aree residenziali ed anche piccole zone rurali. Vi sono poi alcune parti indicate come aree di rilievo ed interesse comunale; queste sono quasi tutte situate nella fascia nord della stazione, in prossimità delle ex fonderie e dei settori industriali vicino al carcere di Sant’Anna. Questi sono segnalati come possibili punti di localizzazione di strutture di interesse collettivo e comunale. Quasi tutti i quartieri a nord della stazione sono poi suggeriti come aree di sostituzione dei tessuti urbani e di riequilibrio dei tessuti carenti. Anche nell’analisi del PRG risulta quindi evidente che questa zona sia piuttosto disequilibrata per quanto riguarda il tessuto urbano e che presenti dei vuoti urbani e delle regioni da riconvertire e da rifunzionalizzare.

5. PSC 2012|2013 La città di Modena ha avviato una procedura di rivisitazione e correzione dei suoi strumenti urbanistici attuativi, cominciando dal PSC, per adeguare gli obiettivi e le previsioni di crescita al nuovo clima di crisi che il nostro paese sta attraversando. La pubblica amministrazione ha avviato un’opera consultiva con tutti gli Stati Generali della città che ha portato a fissare alcuni cardini attorno ai quali sviluppare l’intero lavoro: _flessibilità; _semplificazione; _fattibilità;

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_innovazione. Viene affermata una crescita ragionevole di Modena che non ne snaturerà la sua essenza di città medio grande, di capoluogo provinciale; così come viene dichiarato l’intento di limitare il consumo di territorio vergine, riservandolo alle sole opere pubbliche, di effettuare interventi di edilizia sociale ed attivare processi di riqualificazione ed espansione produttiva. Viene incrementato il patrimonio culturale, tecnologico ed economico con forme innovative di produzione e gestione, facendo leva sulla creatività e definendo una precisa idea di spazio urbano che nasce da un progetto condiviso di città. Si pensa alla realizzazione di una città che rompa definitivamente con l’idea dello sprawl per propendere per una città compatta e polifunzionale dove le residenze, il terziario, l’artigianato e gli spazi commerciali diffusi, si compenetrino. Guardando più in dettaglio le cifre, secondo uno studio del Cresme, la popolazione residente è di 186,400 abitanti nel 2012 e dovrebbe raggiungere i 198,156 abitanti nel 2020. Su questi dati viene quindi ipotizzato un fabbisogno di alloggi di 7.500|9.000 per il 2022 (tra 750 e 900 alloggi l’anno). Il fabbisogno così determinato sarebbe solo in minima parte nuovo. Come obiettivo associato all’aumento del fabbisogno abitativo vi è l’aumento della richiesta di edilizia sociale, sia in proprietà sia in affitto, che rimane inevasa da anni. Sempre uno studio del Cresme ci parla di 8.000 famiglie che tra dieci anni vivranno nel disagio abitativo. Vengono introdotti meccanismi di trasferimento della rendita fondiaria e immobiliare dalla proprietà privata alla collettività. La perequazione urbanistica attraverso i Peep e i PIPI (30|70), le norme per la trasformazione delle aree ad attrezzature generali (20|80) e l’art.14.1, che prevede che il maggior

valore del terreno frutto della trasformazione sia corrisposto per il 50% al Comune, costituiscono un quadro normativo a contenimento della rendita tra i più avanzati in Italia.

Il Mercato immobiliare Il comune di Modena è suddiviso in 27 zone omogenee (Zone OMI) comprensive anche delle zone cosiddette rurali. Il maggior numero di transazione normalizzate (NTN), in termini assoluti, si registra, secondo i dati del secondo semestre 2011, nell’area periferica sud con 171 transazioni andate a buon fine. Al secondo posto troviamo la zona sud compresa tra la periferia e il centro storico, con 122 e al terzo il centro storico. Le rimanenti zone attestano volumi di compravendite rappresentanti quote di mercato non superiori al 5% globale. Mostriamo quindi una tabella riassuntiva sui movimenti del mercato immobiliare di Modena per inquadrare velocemente la situazione della nostra area di progetto.

Valori immobiliari ¤|mq


Immagine campagna pubblicitaria United Colors of Benetton

Associazionismo e carcere Nel territorio modenese sono molte le realtà che si occupano delle condizioni di vita dei detenuti. Il loro contributo, assieme a quello dei volontari, è fondamentale per avvicinare la società , che definiremmo civile, alla conoscenza delle problematiche che affliggono strati della popolazione sensibilizzandola per ottenere un futuro e piÚ semplice reinserimento del detenuto stesso. Analizziamo quindi le due associazioni che principalmente intrattengono rapporti con il carcere nella zona di Modena ed alcuni progetti promossi per migliorare la vita dei detenuti e per avvicinare al carcere la popolazione.


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CARCERE CITTA’

PORTE APERTE CARCERE

TIPOLOGIA DI ASSOCIAZIONE: volontaristica; ORGANISMI COINVOLTI: Circolo giovanile “Proposte culturali” non più esistente, Circoscrizione Centro Storico, Circoscrizione San FaustinoSaliceta San Giuliano; ANNO DI FONDAZIONE: nasce a seguito di un convegno a Modena nel 1986 sul tema conflitti e devianze, carcere e città, è possibile una risposta oltre il carcere?;

TIPOLOGIA DI ASSOCIAZIONE: volontaristica; ORGANISMI COINVOLTI: Porta Aperta, Chiesa di Modena, Caritas; ANNO DI FONDAZIONE: 1980;

DESCRIZIONE MISSIONE: Il comitato promotore si definisce “Carcere – Città” perché il CARCERE, fino allora pezzo di una città di cui aver paura e da ignorare, aprendosi all’esterno, esca da quell’isolamento in cui per tanti anni è stato mantenuto; e la CITTA’, entrando al suo interno, lo riconosca come parte di sé. Il Gruppo, fin dalla costituzione, si attribuisce come finalità quella di agire su tre piani: all’interno del carcere e delle case di lavoro, con attività e percorsi concordati con i detenuti e le detenute; con gli internati, attività che rappresentino momenti di agire concreto e nello stesso tempo occasione di riflessione sia per loro che per il gruppo stesso, quali musica, poesia, sport, lavoro, pittura, arte-terapia; momenti di ascolto, relazione di aiuto, sostegno alle persone detenute/internate e alle loro famiglie e gestione del rapporto con le Istituzioni locali. Il gruppo inoltre punta sulla creazione del coordinamento di tutte le istituzioni con la partecipazione del volontariato, per sottrarre il carcere dalla provvisorietà degli interventi.

Premiazione della presidentessa dell’associazione Città Carcere, Paola Cigarini.

DESCRIZIONE MISSIONE: Porta Aperta è un organismo promosso dalla Chiesa Modenese, costituito per promuovere la solidarietà sociale e l’accettazione, con un’attenzione privilegiata ai poveri. Attualmente, i volontari sono coinvolti nelle seguenti attività: servizio alla mensa del Vescovo, Centro di ascolto della Caritas Diocesana, ambulatorio medico, oltre ai diversi centri residenziali per l’accoglienza di adulti e minori. L’associazione Porta Aperta Carcere nasce più di 30 anni fa, inizialmente come costola dell’associazione Porta Aperta: fondata da Adriana Luppi e oggi presieduta da Giulio Marini, opera in totale autonomia, pur continuando a collaborare con essa. Frutto di questa collaborazione è la presenza attuale di due detenuti che per tre giorni alla settimana ognuno, svolgono volontariato a Porta Aperta. Questa associazione inizia la sua attività nel carcere di S. Eufemia, quando il carcere modenese si trova ancora nel centro della città, per poi trasferirsi nell’attuale sede del S. Anna. Da sempre l’associazione si sostiene grazie ai finanziamenti della Curia, del Comune e con i versamenti personali dei volontari. Tanti sono i servizi che Porta Aperta Carcere, composta da soli dieci volontari, mette in campo per i detenuti: “Abbiamo iniziato la nostra attività occupandoci della formazione dei detenuti, dando loro lezioni di italiano. Nel tempo i nostri servizi sono un po’ cambiati, anche se alcuni sono rimasti invariati” spiega il presidente Giulio Marini “Dagli esordi della nostra

Consegna di beni di prima necessità

attività, infatti, ci occupiamo di promuovere dei colloqui individuali tra i carcerati e i nostri volontari, per cercare di rispondere a tutte le loro necessità, partendo da quella più basilare che è avere l’opportunità di poter parlare con qualcuno di esterno al carcere. Ci occupiamo inoltre di organizzare accompagnamenti in esterno e di effettuare versamenti in denaro a coloro che si ritrovano senza alcuna risorsa economica.”


San Vittore, Raccolta fotografica Osservatorio Antigone

Progetti carcere e città Riportiamo in queste schede i progetti che, nel corso degli ultimi due anni, sono stati intrapresi a Modena dalle associazioni gravitanti attorno alla casa circondariale Sant’Anna e, non solo, per recuperare un legame tra i cittadini e la realtà carceraria ma soprattutto tra i cittadini e i detenuti con lo scopo ultimo di abbattere il muro di paura e diffidenza che da sempre si lega a questa istituzione.


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BRUTTI MA BUONI

ORTI DI SANT’ANNA

TIPOLOGIA DI EVENTO: raccolta beni alimentari e non; ORGANISMI COINVOLTI: Coop Estense, Casa Circondariale Sant’Anna, Auser Modena; ANNO|DURATA: comincia nel 1989 in forma genrale, interessa la Casa Circondariale Sant’Anna dal novembre 2012;

TIPOLOGIA DI EVENTO: vendita prodotti biologici prodotti all’interno del carcere; ORGANISMI COINVOLTI: Associazione Città carcere, Casa Circondariale Sant’Anna, Slow Food; ANNO|DURATA: 2009;

DESCRIZIONE PROGETTO: Ogni giorno in tutto il paese tonnellate di beni ancora potenzialmente fruibili vengono buttati, generando una delle contraddizioni del nostro tempo: da un lato un’eccedenza di prodotti rimasti invenduti nelle piccole e grandi attività commerciali si trasforma inutilmente in rifiuto, dall’altra i bisogni primari di un numero sempre più grande di persone in difficoltà, rimangono senza risposta. È questa, in sintesi, l’idea che spinge la cooperativa ad attivare il progetto “Brutti ma Buoni”, attraverso il quale quotidianamente ritira dalla vendita beni alimentari e non alimentari, perché prossimi alla scadenza o con piccole imperfezioni estetiche, ma ancora buoni e perfettamente commestibili o utilizzabili, da destinare ai soggetti del territorio che operano a favore dei più bisognosi. Questo fantastico gesto di solidarietà è dirottato a partire da Novembre 2012 anche nel contesto del Carcere Sant’Anna verso la sezione femminile. La Coop Estense dona prodotti non più vendibili ma ancora idonei al consumo alla sezione femminile del penitenziario modenese, che conta circa una trentina di donne, struttura che attualmente è alle prese non solo con i problemi del sovraffollamento ma anche con i tagli alla spesa pubblica, dunque con la diminuzione dei fondi destinati

DESCRIZIONE PROGETTO: Verdura, miele, frutta e fiori biologici e di stagione, coltivati “dentro” e venduti “fuori”. Riparte anche il mercato contadino degli “Orti di Sant’Anna”, che mette in vendita, fuori dalla casa circondariale modenese, i prodotti coltivati dai detenuti all’interno delle mura del carcere. Giunta al suo terzo anno di vita, l’iniziativa offre ad una decina di reclusi l’opportunità di apprendere a coltivare la terra, ma anche quella di vendere “il frutto” del proprio lavoro. Ortaggi, pere, fiori e miele biologici diventano anche occasione, per tutti i cittadini, di conoscere meglio una parte di città spesso ignorata, quando non temuta, come quella nei pressi del carcere. “La Casa Circondariale di Sant’Anna – ha detto in una recente intervista Paola Cigarini del gruppo Carcere-città – si trova nel centro della città di Modena, non in un luogo isolato; tutt’intorno ci sono case, sta nascendo una nuova zona residenziale, quindi si tratta di un luogo che si vede ma è sconosciuto, un luogo nel quale ciascuno di noi non pensa mai di entrare ma soprattutto non pensa mai a chi c’è, li dentro”. Nel 2010, insieme ai volontari modenesi, anche un paio di detenuti ha venduto le verdure prodotte davanti al carcere. “Come gruppo – spiega Cigarini – abbiamo sempre sostenuto che è dall’incontro con le

Logo pubblicitario del progetto

all’acquisto del materiale di pulizia e per l’igiene personale delle detenute. L’accordo, in una prima fase sperimentale, ha il supporto dell’Auser di Modena, dove i suoi volontari, previa autorizzazione del magistrato di sorveglianza, possono entrare ogni mese nella struttura e consegnare i prodotti raccolti nei punti vendita.

Mercato di prodotti biologici davanti alla CC Sant’Anna, Modena

persone che ‘lo abitano’ che può nascere qualche interrogativo in più rispetto a che cos’è quel luogo. E ci teniamo a portare avanti l’attività proprio per queste piccole, grandi motivazioni”.


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IN BICI AGLI ORTI DI SANT’ANNA

LIBERTA’ NELLO SPORT

TIPOLOGIA DI EVENTO: acquisto sostenibile dei prodotti dei carcerati; ORGANISMI COINVOLTI: FIAB, Associazione Città carcere, Casa Circondariale Sant’Anna; ANNO|DURATA: 2012;

TIPOLOGIA DI EVENTO: sportivo; ORGANISMI COINVOLTI: Centro Sportivo Italiano Modena, Casa Circondariale Sant’Anna, Casa di Lavoro Castelfranco Emilia; ANNO|DURATA: 2011;

DESCRIZIONE PROGETTO: “Il dentro ed il fuori, in mezzo due ruote e gli orti di Sant’Anna. Questo lo slogan della “maratona ciclistica” che viene organizzata un sabato al mese, nel periodo estivo, dall’associazione FIAB, amanti della bicicletta, che collega “simbolicamente” il centro con il carcere Sant’Anna dove viene venduto il frutto del lavoro dei detenuti: ortaggi e frutta di stagione, piante ornamentali ed aromatiche. La vendita è resa possibile grazie ai volontari del Gruppo Carcere-Città ed alla collaborazione del personale dell’Amministrazione Penitenziaria che, quando è possibile, sono presenti insieme ad uno o più detenuti. Lo scopo del progetto non è solo quello di dare l’opportunità ai carcerati di occupare il proprio tempo lavorando, ma anche e soprattutto di creare un punto di unione tra la società ed il mondo del Carcere, che sono spesso due mondi estranei, separati, a volte in maniera drammatica e inconciliabile, gli uni dagli altri. L’associazione si propone quale tramite tra il bisogno di uscire fuori ed il desiderio di conoscere, di entrare in contatto con chi è dentro, utilizzando il mezzo che ci è più congeniale:la bicicletta: Sarà anche l’occasione per conoscere le piste ciclabili che attraversano la periferia nord della città.

DESCRIZIONE PROGETTO: Il progetto, che si svolge nel 2011, offre la possibilità, in primo luogo, di vivere momenti organizzati di svago e di praticare sport, come esperienza d’incontro e di scambio con i propri coetanei. Si svolgono dunque attività motorie per i detenuti under 30 della Casa Circondariale di Sant’Anna e della Casa Lavoro di Castelfranco Emilia: 90 carcerati (60 uomini, 30 donne) nella struttura di Modena, 30 in quella di Castelfranco. Il progetto risponde a diversi livelli di obiettivi. L’offerta infatti di opportunità di svago e apprendimento non formale, attraverso il linguaggio universale dello sport, dovrebbe allo stesso tempo permettere di comprendere che le diversità sociali non sono un limite o un problema, ma una ricchezza da salvaguardare attraverso il rispetto e la tolleranza. La finalità del progetto è quella di mostrare lo sport come vettore per incentivare uno stile di vita sano, offrendo un modo positivo per impiegare il proprio tempo, passando dall’io al noi. Ai detenuti dunque è offerto un momento di scambio comune, di educazione non formale, grazie al lavoro dei giovani volontari che, a loro volta, sviluppano una coscienza attiva in generale, che li rende consapevoli degli strumenti di cui possono disporre. Diventano così, parte attiva della comunità e portatori della cultura della pace, riaffermando i valori della solidarietà, della tolleranza, del rispetto dell’altro.

Volantino pubblicitario progetto

Squadra di Rugby entra in carcere, Terni


“Nascita di un inceneritore” Foto di Dacher70, utente Flickr

L’effetto NIMBY Con questa scheda d’approfondimento volevamo inquadrare la problematica legata al rifiuto egoistico dei cittadini di abitare in prossimità di strutture definite scomode, i meccanismi di svalutazione immobiliare che si innescano e il seguente effetto cosiddetto “calamita”.


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Il fenomeno delle opposizioni locali, che mettono in scacco gli insediamenti “utili ma sgradevoli”, è uno spettro che si aggira, ormai da molto tempo, in tutti i paesi democratici e che suscita allarmi, riflessioni e indagini. In Italia, esso si sta manifestando con qualche decennio di ritardo. Nei paesi del Nord America, compare sistematicamente, ormai da vent’anni, ogni volta che viene proposta la localizzazione di un impianto indesiderato (un inceneritore, un aeroporto, una diga, ecc.), tanto che, per designarlo, è stato introdotto un termine specifico, NIMBY, ormai utilizzato in tutto il mondo. L’acronimo NIMBY è un’etichetta malevola che riflette il punto di vista dei portatori degli interessi generali; lascia infatti intendere che le opposizioni siano mosse dal cieco egoismo di chi non vuole un certo impianto a casa propria, ma non muoverebbe un dito se esso fosse invece a casa d’altri. Non a caso, all’inizio le opposizioni locali sono sempre accompagnate da un pregiudizio sfavorevole, in quanto dotate di un orizzonte particolaristico e meschino. Chi lo desidera, ha anche a sua disposizione l’acronimo più neutrale LULU (Locally Unwanted Land Use), con cui ci si limita a constatare che certe utilizzazioni del territorio sono malviste sul piano locale. Che venga chiamata NIMBY o LULU, la sindrome del rifiuto contro le localizzazioni indesiderate rappresenta ormai un importante tema di dibattito pubblico, sia negli Stati Uniti che in Canada. Non è un caso che i paesi democratici siano afflitti dalla sindrome NIMBY. Essa è figlia diretta della democrazia, delle sue promesse di cittadinanza, di autogoverno e del diritto al pursuit of happiness. Nello stesso tempo, costituisce però una sfida per il sistema democratico, dal momento che apre un solco, difficilmente colmabile, tra il generale e il particolare, tra il nazionale e il locale, tra il benessere dei più e il sacrificio dei meno. Mette impietosamente in luce il logoramento dei

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tradizionali strumenti di articolazione e aggregazione degli interessi e sollecita una ricerca, notevolmente incerta, di strumenti alternativi. Ma sono anche frequenti i casi, più inquietanti, di NIMBY sociali, in cui i residenti si oppongono all’apertura di servizi sociali che minacciano di abbassare lo status del loro quartiere o di metterne in pericolo la sicurezza. Le cronache riferiscono, anche in Italia, un numero di proteste di questo tipo (spesso coronate da successo). I bersagli principali sono i servizi destinati agli stranieri (centri di accoglienza, campi nomadi, centri di raccolta in attesa di provvedimenti di espulsione), ai tossicodipendenti, ai malati mentali o semplicemente ai poveri. Questi tipi di protesta sono circondati, nell’opinione pubblica, da uno stigma ancora più negativo dal momento che si presentano come una lotta, odiosa e arrogante, del ricco contro il povero, del sano contro il malato, del normale contro il diverso. Qui non c’è solo un comprensibile egoismo; c’è il sospetto di insensibilità sociale, xenofobia, intolleranza e razzismo. Eppure le proteste per ragioni ambientali e quelle per ragioni sociali hanno motivazioni (e dinamiche) molto simili. Alla radice c’è infatti la comune esigenza di difendere uno status sociale faticosamente raggiunto, di contrastare la caduta dei valori immobiliari, di evitare di esporsi a nuovi rischi (per la salute o la sicurezza). Sono resistenze contro oscure minacce di degrado. L’unica vera differenza riguarda il cui prodest. Le proteste locali contro le minacce all’ambiente sono più facilmente (ma non sempre) raccolte e sostenute dalle associazioni ambientali e dalla sinistra, mentre la destra tende a farsi paladina delle proteste locali contro gli stranieri e i diversi. Si tratta di differenze che contano (e molto) nell’arena politica e nell’opinione pubblica, ma che sono -per così dire- esterne alle ragioni profonde di chi si trova a subire la minaccia. Le strategie che vengono solitamente usate per la scelta del sito

sono riconducibili a due approcci principali: l’approccio regolativo (o comprensivo) e l’approccio di mercato (o caso per caso). Con la prima strategia, la scelta del sito viene compiuta direttamente dall’autorità pubblica, attraverso uno scrutinio comparato delle localizzazioni alternative, valutate sulla base si criteri tecnici ed è poi imposta alle comunità locali in nome di un interesse superiore, mediante un provvedimento di carattere autoritativo. Con la seconda strategia, la scelta è rimessa al promotore dell’impianto che agisce secondo propri criteri di convenienza; una volta individuato il sito, il promotore si sottoporrà ai controlli pubblici previsti a seconda del caso (valutazione di impatto ambientale, autorizzazioni, ecc.) e cercherà di far accettare la propria scelta localizzativa alle autorità locali attraverso la persuasione e la negoziazione offrendo, per esempio, qualche forma di compensazione. In Italia la strategia dominante è sicuramente quella di mercato o “caso per caso”. Benché siano previste procedure diverse a seconda del tipo di impianto da localizzare, esiste uno schema comune e ricorrente: la scelta del sito è rimessa al singolo proponente dell’impianto, sia pure all’interno del quadro programmatico fissato, in modo più o meno stringente, dagli enti locali, dalla regione o, talvolta, dallo Stato. La verifica pubblica del sito prescelto è effettuata caso per caso, ex post (ossia dopo che la scelta di localizzazione è stata compiuta) e senza la possibilità di prendere in considerazione ubicazioni alternative. I comitati cittadini sono la specifica forma organizzativa che si accompagna alla sindrome NIMBY. Hanno un carattere reattivo: “non promuovono la mobilitazione per ottenere qualche vantaggio, ma per evitare quello che ritengono essere il danno che deriverebbe loro dalle decisioni che l’amministrazione intende assumere.”

Bisogna inoltre tenere conto del fatto che gli oppositori locali non temono soltanto gli effetti diretti del nuovo impianto, ma anche quello che potremmo chiamare “effetto calamita”, ossia che il nuovo impianto, una volta installato, abbia l’effetto di attrarre rifiuti da altre zone o ulteriori impianti sgradevoli. L’accettazione del singolo impianto può dare origine a una china scivolosa verso un processo inarrestabile di degrado. È difficile bollare di irrazionalità questa preoccupazione: il circolo vizioso per cui le zone degradate vengono destinate all’insediamento di impianti sgradevoli si è già verificato in più di un caso. Se si diffonde il timore che un certo impianto comporti pericoli per la salute, è probabile che i valori immobiliari scendano e, se i timori possono essere ingiustificati e aleatori, le perdite per i proprietari saranno terribilmente concrete. Quest’ultimo effetto confermerà ai residenti la convinzione che i loro timori sono fondati. La concezione utilitaristica considera come giuste quelle soluzioni che danno il maggior benessere al maggior numero di individui; e, quindi, nel nostro caso, ammette il sacrificio di singole comunità in nome di interessi collettivi più generali. La concezione della giustizia sociale (à la Rawls) considera come giuste quelle soluzioni che addossano i minori costi ai gruppi più svantaggiati; e quindi, nel nostro caso, favorisce quelle scelte che minimizzano i rischi per le comunità destinatarie.


Fermata dell’autobus Sant’Anna

La realtà del quartiere Sant’Anna

Soffermandoci ancora ad un’analisi a macroscala del territorio urbano abbiamo messo in relazione le caratteristiche, le mancanze e le opportunità del quartiere Sant’Anna rispetto all’intero territorio urbanizzato di Modena. L’isolamento del quartiere, nato per ragioni storico-pianificatorie, si ripercuote anche sugli aspetti fisici, morfologici e infrastrutturali rendendo il quartiere più lontano di quello che effettivamente è, dal centro cittadino. Questa analisi ha come obiettivo far emergere i punti di debolezza insiti nel quartiere, sviscerare le cause che hanno portato alla situazione attuale e proporre un primo tema di riflessione su come queste mancanze, interruzioni possano risolversi in sede di strategia progettuale A causa dei processi infrastrutturali della città e gestionali, il quartiere Sant’Anna è oggi isolato, in primo luogo, per quello che riguarda i trasporti pubblici. La fitta trama che serve Modena di autobus e filobus diventa disarticolata e discontinua nel quadrante nord ovest, tanto da interrompersi in prossimità della Casa Circondariale dove è predisposta, secondo il piano della mobilità, una fermata mai realizzata ed un punto di bike sharing, ultimato ma mai utilizzato. Si può riscontrare la stessa frammentazione anche nei percorsi di mobilità lenta e nei percorsi ciclabili. Dalla mappa ci accorgiamo di come anche tale tessuto sia spezzato, incoerente ed eterogeneo, mentre sarebbe opportuna una sua adeguata valorizzazione, poiché questo quartiere rappresenta la naturale porta di accesso che dal centro della città porta al percorso


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mobilità pubblica mobilità lenta

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sottopassaggi attraversamenti arterie principale limiti fisici

ciclabile naturalistico, lungo il fiume Secchia. La mancanza di un’adeguata maglia di connessioni pubbliche contribuisce sensibilmente a renderlo un quartiere più lontano di quello che effettivamente è, rispetto al centro storico e ai luoghi di vita urbana. Indubbiamente una prima fase di progetto che vuole ricostituire un legame tra la Casa Circondariale e la città, non deve prescindere da una ricucitura fisica del quartiere in cui il carcere insiste e il centro, superando i limiti fisici ed infrastrutturali presenti. Entrare nel quartiere Sant’Anna è semplice, ma non sicuramente piacevole. Vi si accede infatti tramite una serie di sottopassaggi che permettono di attraversare la ferrovia. Sono luoghi stretti e bui, fatta eccezione per quello centrale che serve la stazione stessa. Occorrerà quindi ripensare a questa tipologia di attraversamento per rendere più sicuro e piacevole lo scorrimento dei flussi.


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La trama del verde

campi coltivati parchi pubblici verde di risulta verde incolto

campi coltivati campi incolti verde pubblico verde di risulta margine

Modena è una città con un altissimo numero di aree verdi organizzate, parchi e giardini pubblici. La vegetazione urbana abbraccia il centro ricercando idealmente il perimetro delle antiche mura e si scompone in una serie di polmoni verdi, più o meno grandi, che danno respiro ad una città a tratti congestionata, rappresentando una via di fuga dal traffico, dallo smog e dal “cemento”. Purtroppo ancora una volta dobbiamo constatare come la grazia e l’armonia delle aree verdi si perda completamente oltrepassando la ferrovia. Ci troviamo di fronte ad un paesaggio frammentario, disordinato e a tratti incolto. Manca un disegno di insieme che dia omogeneità ad aree verdi di natura differente, rendendole leggibili e che si coniughi con la trama ordinata a sud della ferrovia. Ci troviamo davanti a zone verdi marginali, inquinate e sporche; al verde infrastrutturale, inteso come porzioni di terreno piantumate o meno che costeggiano le grandi arterie di traffico. Notiamo come siano rimasti nello sprawl edilizio e industriale dei vuoti

lasciati incolti che nessuno sente come propri e che di conseguenza non vengono utilizzati. A ciò fa eco il verde pubblico curato delle casette unifamiliari e bifamiliari, quello delle scuole e quello attrezzato. Il paesaggio intero è cinto da una fascia di verde agricolo che marca nettamente il passaggio tra la città e la campagna. Siamo di fronte ad una situazione di verde che forse definire periurbano non basterebbe, data la frammentazione e la disarticolazione dei diversi paesaggi. Anche in questo caso un progetto di riconnessone sociale urbana deve tenere in considerazione l’importanza rivestita dalle aree verdi in questo particolare periodo storico, sia come espediente per creare un piacevole disegno urbano e un’alta qualità della vita, sia come occasione per bloccare una crescita spropositata della città costruita, pronta a saturare ogni singolo spazio. Il secondo elemento su cui si fonderà il nostro progetto è quindi il verde e la necessità di attribuirgli una connotazione funzionale all’interno di un disegno globale.


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Il costruito

Commercio Servizi

A polisportiva B scuola elementare C moschea D chiesa E asili F centro commerciale G carabinieri

Strutture neglette 1 tangenziale nord 2 casa circondariale 3 Comunità islamica 4 centro identificazione ed espulsioni 5 ex stabilimento coca-cola 6 impianto elettrico pubblico

Facendo uno zoom sul quartiere Sant’Anna, cerchiamo di comprenderne la natura e la composizione. La maggior parte degli edifici è di natura industriale o artigianale e da una rapida comparazione con la data di realizzazione, risulta essere successiva al 1975. Oggi alcuni di questi fabbricati sono abbandonati o in via di dismissione e quindi obbligano ad una riflessione profonda su come possano essere gestiti in futuro e su come possa essere affrontato un eventuale effetto domino, che porterebbe alla formazione di un intero quartiere fantasma. Storicamente, dopo aver conosciuto questa prima colonizzazione industriale, artigiana e operaia, il quartiere si è tramutato in un’area dove inserire i servizi e le correlate funzioni definibili scomode o comunque ingombranti. Dapprima, alla fine degli anni ’80, viene costruita la Casa Circondariale che mobilita un ristretto numero di proteste da parte dei singoli cittadini e dei comitati di quartiere. La situazione viene poi estremizzata nel 1994 quando, nell’area limitrofa al carcere, viene costruito il centro di prima accoglienza. La presenza di queste due strutture, sommate alla successiva installazione, all’interno di un prefabbricato simil-industriale, di una Moschea e dei

relativi spazi concessi dalla Pubblica Amministrazione alla comunità mussulmana modenese, portano alla diminuzione dell’appetibilità dell’area dal punto di vista economico e finanziario. Questa situazione porta alla mobilitazione e a numerose proteste degli abitanti, facendo nascere dei moti interiori di egoismo sociale connessi alla vicinanza di strutture non qualificanti e mal viste dall’intera comunità. In questo scenario, tra gli alti capannoni, le loro aree di pertinenza e le infrastrutture, si creano quartieri residenziali nuovi a bassa densità, da sommare a quelli storici. Questi si formano in spazi residuali, quasi si trattasse di sacche, non collegati tra loro e sviluppatisi secondo regole architettoniche e morfologiche completamente differenti. Occorre anche in questo caso tenere in considerazione la possibilità di ricucire tale tessuto attraverso una logica morfologica che tenga conto della necessità di dotare Modena di housing sociale, integrato ad una serie di servizi di prossimità. Purtroppo, infatti, questi quartieri residenziali non sono dotati di alcun tipo di funzione accessoria, ad eccezione di una scuola media e di asili. Ciò comporta uno spostamento continuo dei residenti verso i quartieri adiacenti più orientali e verso il centro storico.


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Lavoratori

Gli Users

tessuto residenziale edifici abbandonati tessuto industriale capannoni dismessi

Se andiamo ad analizzare conseguentemente alle funzioni presenti, gli utilizzatori del quartiere, notiamo come essi siano legati a questa zona o per esigenze lavorative o abitative; nessuno infatti, salvo gli esponenti della religione islamica che hanno in questa area una moschea, vi si reca per piacere. Fatta eccezione per la comunità di pensionati piuttosto numerosa, i residenti del quartiere lasciano la loro casa durante la giornata per tornarvi solo la sera, senza sfruttare in nessun modo il territorio limitrofo. La categoria successiva di users è rappresentata dai dipendenti del carcere che frequentano il quartiere in base agli orari di lavoro e che non hanno a loro disposizione alcun luogo dove mangiare o svagarsi, uscendo dalle mura del carcere. Essi stessi, in un colloquio privato, ci hanno mostrato la necessità di avere degli spazi di evasione e in cui mangiare, spazi che favoriscano rapporti interpersonali nelle vicinanze del carcere, per evitare di infliggere ai dipendenti stessi una condizione di isolamento e repulsione del tutto simile a quella del carcerato e del luogo detentivo.

Altri users sono i membri delle associazioni ed i volontari che gravitano attorno al carcere, così come i parenti in visita che hanno difficoltà a raggiungere il luogo di reclusione se non possiedono mezzi propri, a causa dell’isolamento che questo vive, come dicevamo, nella trama dei trasporti pubblici. Infine dobbiamo considerare gli operai, che in base al loro orario, transitano in un ambiente urbano ostile che non offre possibilità di distrazione. L’intervento urbanistico dovrà prevedere un miglioramento dei servizi offerti a queste categorie, ma non limitarsi solo a questo; dovrà infatti anche garantire un uso continuativo dell’area che possa attrarre le fasce della popolazione più dinamiche e votate al cambiamento. Ci riferiamo alla necessità di attirare giovani, giovani lavoratori, artisti; coloro che, tramite l’organizzazione di eventi temporanei, workshop, allestimenti artistici, manifestazioni, possano contribuire a rendere quest’area un polo attrattivo che abbia il suo culmine nella rivalutazione del carcere, che potrebbe tramutarsi in un dispositivo urbano.


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“Le Zdaure di Via Beroaldo�

Interviste ai cittadini modenesi Per comprendere le necessità e i desideri di coloro che abitano il quartiere Sant’Anna abbiamo utilizzato lo strumento delle interviste dirette, instaurando un rapporto di fiducia tra noi e gli abitanti. Abbiamo quindi potuto cogliere i problemi, le consuetudini e i flussi che animano la vita del quartiere stesso e i pensieri che i cittadini medesimi hanno di questa particolare porzione urbana.


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Donna, 46 anni Ci parli dei servizi del quartiere di cui usufruisce? Purtroppo nel quartiere non è presente alcun servizio, eccezion fatta per il negozio di telefonia e la presenza dell’autostazione ATCM-SETA, per i servizi ci si sposta nel vicino quartiere Sacca o addirittura nel centro.

Immagine presa da: Etude des évolutions au travers des nouvelles pratiques, Ecole d’Architecture de Versaille, 2012

Per quello che riguarda le attrezzature sportive e scolastiche? Nel quartiere è presente la Scuola Elementare 3° Circolo Anna Frank è presente da quando esiste il quartiere, fortunatamente è stata dotata negli ultimi anni di una nuova palestra vicino alla quale è stata attrezzata anche un’area sportiva. Come vive la presenza del carcere nel quartiere? Non ho alcun timore derivante dalla presenza del carcere, ma quello che più disturba è la sporcizia lasciata lungo la strada e la ciclabile da chi visita i detenuti, e dal traffico costante.

Signora anziana, residente

Immagine presa da: Etude des évolutions au travers des nouvelles pratiques, Ecole d’Architecture de Versaille, 2012

Come vive la presenza del carcere nel quartiere? Non ho alcun problema collegato alla presenza del carcere poiché c’è sempre qualcuno e con qualcuno mi riferisco alla polizia penitenziaria. Il rammarico maggiore di questa vicinanza mi viene guardando le famiglie, donne e bambini che vengono in visita e sono costretti a percorrere la distanza tra il capolinea dell’autobus e il carcere a piedi su una strada senza percorso ciclo-pedonale e dissestata. L’autobus aveva capolinea al carcere e venne tolto poco tempo dopo l’apertura

dell’istituto lasciando una parte della zona scoperta dal trasporto pubblico.

Signora anziana, residente Come vive la presenza del carcere nel quartiere? Risiedo da poco nel quartiere, ma per quanto mi riguarda finora non ha percepito nessun timore o problema inerente alla presenza del carcere.

Commerciante, gestore telefonia, residente nel quartiere Come vive la presenza del carcere nel quartiere? Faccio il commerciante in questo quartiere e vi risiedo da vent’anni e la situazione mi appare migliorata con l’insediamento della struttura carceraria nella zona poiché vi è una costante sorveglianza. Intrattengo dei rapporti anche con i carcerati stessi che quando escono mi chiedono sempre di poter fare una chiamata con gentilezza e vogliono ripagarmi del favore.

Autista dell’autobus, dipendente SETA Che ripercussione ha la presenza del carcere sul suo lavoro? Sono in servizio per la ditta di trasporto pubblico da 15 anni, ma non lavoro costantemente sulla stessa linea. Non ha mai riscontrato problemi con i passeggeri in transito verso il carcere, anche perché spesso l’autobus, al capolinea giunge vuoto.

Anziani residenti a Modena sud

Qual è la sua opinione in merito alla zona di Modena Nord e in particolare del quartiere Sant’Anna? Io e mio marito abitiano nella zona sud, non conoscono la zona oltre la ferrovia e nemmeno ci andrei ad abitare in quanto considerata una zona morta e soprattutto io non voglio averci niente a che fare col carcere.

Giovane trentacinquenne residente in Via Giardini Qual è la sua opinione in merito alla zona di Modena Nord e in particolare del quartiere Sant’Anna? Io abito in via Giardini, abiterei a nord se potessi avere una bella casa una bella casa, conosco la zona perchè l’amico di mio babbo ha una concessionaria nella zona industriale limitrofa e la considero una zona tranquilla anche grazie alla presenza del carcere anche perchè sempre controllata.

Mamma straniera Qual è la sua opinione in merito alla zona di Modena Nord e in particolare del quartiere Sant’Anna? Ora abito in centro e mi vorrei trasferire ma sinceramente non ambisco a spostarmi nella zona del carcere non tanto per la presenza del penitenziario ma perché si sente parlare male del quartiere in generale.


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Paola Cigarini, ass. Carcere-città

Immagine presa da: Etude des évolutions au travers des nouvelles pratiques, Ecole d’Architecture de Versaille, 2012

Una sua personale visione delle vicende storico|urbanistiche del quartiere Sant’Anna? Inizialmente i residenti si lamentarono della scelta di localizzare il penitenziario in quest’area ma ben più consistenti furono le polemiche mosse dai residenti stessi del quartiere Sacca all’installazione del CIE nel 2002. I rapporti che esistono tra carcere e cittadinanza si sono stabilizzati nell’arco degli ultimi 3,4 anni attraverso alcune manifestazioni come la Festa dei Vicini ma sfortunatamente l’ultima edizione, nella quale si era organizzato tutto perché i residenti della zona arrivassero a festeggiare nell’area del carcere, venne annullata perché concomitante con l’attentato di Brindisi del 19 maggio 2012. Come si compone che porta ad un progetto in carcere? Tutti i progetti vengono proposti dalle associazioni attraverso il mezzo dell’autofinanziamento, poiché finanziamenti ministeriali sono sempre più esigui. La convenzione con Coop Estense ha permesso che 7-8 detenuti potessero essere assunti ed impiegati nella produzione agricola. Altri progetti sono portati avanti o da cooperative sociali inerentemente a progetti di formazione culinaria o manutenzione delle aree verdi.

Immagine presa da: Etude des évolutions au travers des nouvelles pratiques, Ecole d’Architecture de Versaille, 2012


“Nascita di un inceneritore” Foto di Dacher70, utente Flickr

Il concetto di periurbano Questa scheda di approfondimento ha come scopo quello di delineare più chiaramente il concetto di periurbano, concetto che ritorna diverse volte nel corso della nostra tesi in quanto si riferisce ai territori in cui, a seguito del processo di periferizzazione, sono inserite le carceri tra cui la Casa Circondariale Sant’Anna.


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Per parlare del concetto di periurbano e capire quindi come questo si adatti alla nostra area di progetto, partiamo da una prima definizione dello stesso termine fornitaci da Guido Martinotti. Egli scrive: “Per periurbano si intende, il luogo (fatto di aree un tempo considerate puramente extraurbane o rurali addirittura) della nuova redistribuzione sul territorio di parte delle attività produttive, di grandi insediamenti di servizio, attorno ai quali si sta organizzando l’insieme delle attività urbane). Il periurbano è quindi “un’area indistinta che viene generalmente definita con i termini di area metropolitana, hinterland, banlieu... e simili, cioè con quei vocaboli che mettono in risalto un aspetto residuale di luogo derivato e marginale”. Il periurbano nasce da un confronto tra la cosiddetta città compatta, in cui il paesaggio agricolo e quello urbano, sono entrambi esiti di un disegno pianificato e progettato, quindi entrambi ordinati, e la città disgregata. Quest’ultima è caratterizzata da un paesaggio urbano “scadente” e da un paesaggio agricolo contaminato dalle frange urbane e dalla disposizione del tessuto residenziale. Il nuovo contesto periurbano è intimamente legato ad una situazione di sprawl dove l’identità civica è incerta e dove campeggiano sentimenti di disagio e timore. È in questo contesto che ricadono quindi tutte le aree, come il quartiere Sant’Anna di Modena, in cui l’urbanizzazione è arrivata timidamente e altrettanto timidamente se ne è andata, lasciando dietro di se solamente strascichi indefiniti di città. È un luogo in attesa di diventare un “qualcosa” sia esso urbano, agricolo o entrambi, in cui sperimentare utilizzi del suolo differenti, se paragonati alla cementificazione selvaggia e deregolata, che ricreino ambienti urbani più raccolti e in comunicazione con la natura. Parliamo di spazi slow, dove la dimensione urbana si possa intrecciare

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con quella naturale e agricola. Al concetto di periurbano e in generale a quello di terreno di frangia, è legato un altro concetto, quello più generale di agricoltura urbana, declinabile in orticultura, fattorie didattiche, mercati sostenibili, produzione, che se da un lato attribuiscono una precisa funzionalizzazione alle aree, dall’altro coinvolgono in questo processo di rigenerazione strati diversi della popolazione.


Prisons, Raccolta fotografica, Francesco Cocco

Obiettivo carcere

Nella lontananza del quartiere Sant’Anna rispetto al resto del tessuto urbano dobbiamo rimarcare una lontananza ed una segregazione ancora più profonda che è quella che interessa il carcere. La Casa Circondariale Sant’Anna può essere percepita infatti come un satellite urbano chiuso in se stesso con scarse possibilità ed opportunità di innescare rapporti osmotici con il mondo esterno, rapporti comunque ostacolati dalla sua stessa morfologia e da quella dell’ambiente urbano in cui è inserito. Portando avanti un lavoro sui limiti e i bordi, vediamo come questa struttura sia autoreferenziale e che anche le visuali dall’interno verso l’esterno siano difficoltose per non dire inesistenti. Dall’ eserno a volte, causa la lontananza dai percorsi principali, la pesenza della vegetazione, non si riesce a percepire nemmeno questa presenza silenzionsa che continua a sua vita indipendentemente dal contesto. La Casa Circondariale Sant’Anna ha una superficie interna, contenuta nel muro di cinta di 48,000 mq ed una superficie complessiva di 104.000 mq, accedervi non è immediato e non è ovviamente libero ed incontrollato. Guardiamo ora i vari blocchi che articolano questo spazio, basandoci sull’assonometria funzionale, cominciando dal punto di accesso. Davanti all’ingresso del carcere troviamo un ampio parcheggio pubblico a cui corrisponde un altrettanto ampio parcheggio per i dipendenti. Il primo corpo che si incontra, varcando lo spazio del carcere cinto dalla rete metallica, è la portineria dove avviene il riconoscimento e il controllo delle persone in entrata, così come delle merci. Dietro si articola una serie di edifici che segue una disposizione a corte attorno ad un ampio ed assolato spazio vuoto, che sembrerebbe


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01. portineria 02. uffici direzionale 0.3 alloggi semiliberi 0.4 alloggi custodia attenuata 0.5 alloggi 06. azienda agricola 07. area colloqui 08. accoglienza 09. nuovo padiglione 10. detenzione 11. isolamento 12. serre 13. cucine|lavanderie 14. lavorazioni 15. sport 16.CIE Assonometria funzionale del carcere

alludere ad una piazza pubblica. Gli edifici ospitano funzioni definibili semipermeabili, rappresentando la transizione tra il mondo “civile” e quello che vive internamente al carcere. In questa zona insistono gli alloggi per la polizia penitenziaria, gli uffici direzionali, gli alloggi per i detenuti semiliberi e quelli per coloro che godono di un regime di custodia attenuata. Il tutto è inscritto in uno spazio pavimentato nel quale si ricavano zone verdi coltivate e aree in cui sono allestite “strutture sportive” all’aperto. Entrando nel cuore della Casa Circondariale, cioè nell’area cinta dal muro, troviamo gli edifici che ospitano gli spazi per i colloqui e quelli per l’accoglienza. Dietro si ergono i padiglioni con funzioni detentive, un padiglione per l’isolamento, gli spazi per i servizi come la cucina e la lavanderia e gli spazi per le attività da svolgere in laboratorio. Sul lato sud c’è il nuovo padiglione che dovrebbe accogliere 150 detenuti entro la fine del 2013, inserito nei progetti di integrazione promossi dal Piano Carcere, ma finanziato con fondi regionali. In quest’area ci sono delle serre e aree dove svolgere le discipline sportive. La sensazione che si ha di tale area è di noncuranza, nonché di desolazione, soprattutto per quello che concerne la zona destinata a verde, dove manca un disegno di insieme. Il costruito è realizzato in cemento armato con tecnica a prefabbricati, le coperture sono in poliuretano, soggette ad infiltrazioni interne. Le celle, pensate come singole, ospitano tre, quattro detenuti a causa del sovraffollamento, riducendo quindi lo spazio e la luce. La circolazione all’interno dei singoli padiglioni è libera. Parliamo ora degli utenti per così dire “stabili” del carcere e di coloro che invece lo vivono per momenti più o meno ampi della giornata, per motivi di lavoro, per volontariato. Gli users stabili sono i detenuti stessi, presenti nel numero di 423


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Sezione comune 470

Sezione protetti 30

Misure alternative 14

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Sezione femminile 30

Alta sicurezza 30

Attesa di giudizio 261

nella sezione comune a cui si aggiungono 30 recluse per la sezione femminile, 50 reclusi nella sezione ad alta sicurezza ed infine 30 reclusi nella sezione protetti. Di questi, secondo dati aggiornati al 2010, 180 sono tossicodipendenti, 6 sono affetti da HIV e quindi ospitati in un’apposita sezione, 120 soffrono di disturbi mentali. Ci sono poi 14 detenuti in misura alternativa, di cui 9 sono semiliberi. Ovviamente il fatto di godere o meno di un regime di semilibertà si riflette sia sul luogo fisico in cui si trova l’alloggio, sia sul grado di libertà di cui si avvale il detenuto e quindi sull’organizzazione della sua giornata. Quando parliamo di regime di semilibertà intendiamo un istituto finalizzato a consentire una modalità di esecuzione della pena detentiva particolarmente favorevole al consolidamento dell’evoluzione positiva della personalità del condannato, soprattutto attraverso il reinserimento, seppur parziale e controllato, nell’ambiente libero. L’art. 48, comma primo, dell’Ordinamento penitenziario recita, infatti: “Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale”, gli ampi margini di libertà concessi all’interessato e le possibilità di ripresa di contatto con l’ambiente libero, integrano gli estremi di “una vicenda profondamente modificativa delle modalità di esecuzione della pena”. Per un detenuto “normale” le attività si riducono ad attività intramurarie, due ore d’aria ed un momento di socialità serale. Tutti i pasti vengono serviti e consumati in cella, alle 20:00 le celle vengono chiuse, la libera circolazione si interrompe fino alla mattina successiva. Non dobbiamo inoltre dimenticarci, a questo punto, dell’utenza più o meno temporanea che gravita attorno al carcere. In primis la polizia penitenziaria che gode, all’interno del perimetro

del carcere, di appositi spazi sia per gli uffici, sia per il riposo, sia per i servizi. Successivamente, ricordiamo i famigliari dei detenuti che usufruiscono del servizio di portineria e degli appositi spazi per i colloqui. Infine, ci sono i volontari delle associazioni che lavorano in carcere e che, a seconda del progetto che intraprendono, utilizzano spazi differenti. Il nostro progetto, per quello che riguarda l’ambito del carcere, prenderà in considerazione la sistemazione delle aree esterne, con l’intento di uniformarle al disegno paesaggistico dell’area limitrofa su cui insisterà il cuore del progetto, per evitare che si percepisca anche visivamente questa differenziazione di ambiti. La sistemazione delle aree verdi sarà concatenata alla necessità di aumentare i programmi di lavoro interni per i detenuti che non possono godere di agevolazioni per possibilità lavorative esterne. In relazione a ciò verrà poi concessa grande attenzione ai progetti di recupero ed integrazione dei detenuti con uno scopo lavorativo, tramite inserimento di questi ultimi in progetti che prevedano uno scambio osmotico tra i detenuti stessi e la popolazione. Per quest’ultimo scopo, ci siamo basati sul Protocollo d’intesa firmato da il DAP e l’ANCI nel giungo 2012, che prevede un accordo tra l’amministrazione penitenziaria e quella pubblica che si concretizza in una serie di progetti lavorativi.

Carcere e lavoro, regolamentazione legislativa Il Lavoro diventa elemento fondamentale da tenere in considerazione per l’esecuzione della pena con la riforma penitenziaria del 1975, la quale sancisce l’importanza delle attività lavorative per promuovere il reinserimento sociale del detenuto e, conseguentemente, afferma che


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Routine giornaliera detenuti

Routine giornaliera semiliberi

tali attività non devono avere carattere afflittivo ma essere organizzate secondo metodi analoghi a quelli del lavoro nella società libera. La riforma sancisce anche la possibilità, per coloro che sono in stato di detenzione, con disposizione della direzione del carcere e provvedimento approvato dal magistrato di sorveglianza, di poter lavorare presso aziende e cooperative sociali del territorio. La legge favorisce le imprese che assumono detenuti concedendo agevolazioni fiscali e contributive. Grazie alle agevolazioni previste dalla legge 407/1990, in caso di assunzione con contratto a tempo indeterminato o part-time di lavoratori disoccupati da almeno 24 mesi, le imprese usufruiranno di una riduzione del 50% dei contributi previdenziali ed assistenziali, per 36 mesi. Per le Aziende artigiane, operanti nei territori del mezzogiorno, il beneficio consiste nell’esonero totale dei contributi per 36 mesi (art.8 comma 9 Legge 407/90). Pertanto, tale agevolazione può essere applicata anche a tutte le assunzioni a tempo indeterminato di detenuti ammessi al lavoro all’esterno (art.21 O.P.) che possiedono il requisito di “lavoratore disoccupato da almeno 24 mesi”. Tale requisito viene posseduto nel caso in cui il soggetto interessato abbia fornito la sua disponibilità al lavoro presso un Centro per l’Impiego da almeno 24 mesi (D. Lgs 181/00, come modificato dal D. Lgs 297/02). Più recentemente, il 20 giugno 2012 è stato firmato tra l’ANCI, Associazione Nazionale Comuni d’Italia e il DAP, Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria, un Protocollo d’intesa per la promozione del lavoro di pubblica utilità da parte dei detenuti, in favore della comunità locale. Questo accordo prevede il coinvolgimento lavorativo di circa 2.000 carcerati che, rispetto a quelli che lavorano oggi, è un numero molto consistente.

L’accordo prevede l’individuazione da parte dei comuni di possibili occasioni di sviluppo e di attività lavorative, valorizzando le risorse soggettive delle persone detenute attraverso il costante monitoraggio, nel proprio territorio di riferimento, dei fabbisogni lavorativi, con l’attenta ricognizione di: _ Settori ed attività per le quali, pur sussistendo fabbisogno di manodopera, non vi è domanda di lavoro (lavori umili o di fatica quali ad es.: raccolta di rifiuti urbani, pulitura delle strade) ; _ Tipologie di lavori particolarmente utili per la collettività; _ Attività formative idonee al recupero di fasce di lavoro artigianale ormai in disuso e destinato all’estinzione. _ Lavori di pubblica utilità in generale; _ Attivazione di un help desk dedicato ai Comuni, che possa fungere da ideale asse di collegamento tra il carcere e gli interlocutori esterni, al fine di agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro; Questo protocollo punta alla promozione di specifici progetti finalizzati all’acquisizione di competenze significative e sensibili nel mercato del lavoro, alla partecipazione a specifici bandi europei, alla promozione di specifici progetti da presentare alla Cassa delle ammende. Il progetto così presentato ha una durata di tre anni. Su queste basi legislative abbiamo pensato ai programmi di recupero e di reinserimento lavorativo e sociale per i detenuti di Modena in collaborazione con le associazioni che già gravitano attorno al carcere e con la Pubblica Amministrazione.


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Proposte per favorire un reimpiego dei detenuti. Considerando il protocollo firmato tra l’ANCI e il DAP e lo scopo della nostra tesi, cioè quello di proporre un progetto strategico che tenga in considerazione la reintegrazione lavorativa dei detenuti, abbiamo avanzato tre proposte per altrettanti progetti reintegrativi da attuarsi attraverso il lavoro. Le tre proposte sono calibrate in base alle possibilità dei reclusi di Modena di uscire dal carcere per intraprendere esperienze lavorative, tengono in considerazione gli enti, le associazioni e i soggetti privati che potrebbero investire in tali progetti e la possibilità di inserire strutture adeguate ad accogliere i medesimi progetti nella nostra area di intervento. Le proposte sono incentrate su progetti agricoli e di manutenzione del verde, questi sono infatti trattati come canale preferenziale per il reimpiego a fronte di considerazioni economiche generali, di preservazione del territorio e di bilancio economico dell’amministrazione comunale di Modena. In merito a quest’ultimo aspetto un primo progetto reintegrativo affonda le sue radici nel bisogno, dell’amministrazione comunale di Modena, di appoggiarsi a volontari per la manutenzione del verde a causa della penuria delle casse cittadine. A seguito di un’indagine sul verde pubblico modenese è emerso che a Modena ci sono 49,04 mq di verde pubblico a persona per un totale di 9,3 mil di mq tra aree protette, aree di forestazione per il progetto dell’alta velocità, parchi, aree verdi residenziali, orti sociali, impianti sportivi, aree cimiteriali e aree protette del parco del Secchia. In questo momento la manutenzione è affidata per il 26,88% a con coop sociali, per il 23,67% a convenzioni con volontari e per il 49,45% a ditte esterne tramite appalti. I detenuti si inserirebbero quindi in quest’ultima voce andando ad eliminare una Progetto lavorativo aree verdi

porzione di verde affidata ad esterni. Questo progetto è stato concepito come proposta avanzata dal comune di Modena in favore con la Casa Circondariale Sant’Anna, finanziato con fondi sociali europei e con quelli delle provincia. La parte finanziaria concerne l’organizzazione di un corso con durata mensile a cui partecipano 30 detenuti al termine del quale riceveranno, oltre che una formazione generale, un attestato spendibile nel mondo del lavoro anche una volta terminato il periodo segregativo. Il progetto si concretizza in un impegno di 6 h|gg per 5 gg a settimana per 20 detenuti. Il secondo progetto riguarda un numero più elevato di detenuti, 50 per la precisione ed ha come scopo quello di accordare un alto livello di responsabilizzazione ai detenuti attraverso l’acquisizione da parte degli stessi di competenze in ambito florovivaistico ed orticolo e la possibilità di interazione con i cittadini. Tale progetto, promosso dall’associazione Botanicamente di Modena, in collaborazione con Carcere e Città, viene finanziato attraverso fondi europei e provinciali e si concretizza in una scelta strategica a livello progettuale rispondente a tali necessità e cioè tramite l’istituzione di un vivaio nella zona limitrofa al carcere in cui i detenuti possano lavorare in ambito florovivaistico e possono incrementare i rapporti con l’esterno tramite la gestione della rivendita stessa. Il progetto si sviluppa per fasi, inizialmente si organizza un corso preliminare con tema la progettazione del verde, “cura e manutenzione di alberi, arbusti, piante erbacee perenni ed annuali”. Tale corso avrà una durata di 3 mesi a cui partecipano oltre ai 50 detenuti assieme ai cittadini che ne facciano richiesta. I corsi, organizzati dall’associazione Botanicamente, continueranno per aumentare le abilità dei detenuti i quali, in una prima fase di gestione del vivaio saranno affiancati


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da specialisti. L’ultimo progetto è stato pensato per coloro che, non potendo usufruire di progetti esterni necessitano di un percorso socio lavorativo interno. Per questo motivo viene pensata un’organizzazione dello spazio interno al carcere in modo che lo si possa destinare a coltivazioni agricole. In questo progetto vengono coinvolti 30 detenuti, il progetto è finanziato principalmente grazie ad una convenzione con Coop Estense. Infatti una parte di prodotti agricoli verrà venduta all’interno del circuito Coop, perseguendo il progetto Brutti ma Buoni mentre un’altra parte dovrà essere venduto in un mercato di quartiere installato vicino al carcere dove i detenuti possano vendere i loro prodotti a km0 assieme agli agricoltori del circondario, ottenendo un riscontro economico reimpiegabile per l’acquisto di nuove attrezzature o di beni necessari che nella situazione attuale non potrebbero permettersi. Attraverso questi progetti si ottiene un primo ravvicinamento dei detenuti ai cittadini e di conseguenza un avvicinamento della città al carcere e si identificano determinate funzioni concretizzabili in appositi spazi da inserire in ambito urbanistico, progettuale: un vivaio ed un mercato.

Progetto lavorativo Orto|Florovivaistico


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Progetto rete agricoltura


Rebibbia On the Wall, pittura muraria carcere di Rebibbia, Roma, Foto di: La Repubblica.it

Buone pratiche: il reiserimento sociale dei detenuti Sono riportate di seguito schede informative incentrate su programmi riabilitativi che coivolgono detenuti o tossicodipendenti in particolari strutture italiane.


Cascina Bollate, foto intra moenia.

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CASCINA BOLLATE Il SISTEMA BOLLATE fonda la propria efficacia nell’organizzazione condivisa delle attività tra enti pubblici, privato sociale e l’istituto. DOVE: Via Cristina Belgioioso 120, Milano; INIZIO COLLABORAZIONE: 2007; ISTITUTI INTERESSATI: Casa di reclusione Bollate; ORGANISMI COINVOLTI: Comune di Milano, Regione Lombardia; DESCRIZIONE PROGETTO: La casa di Reclusione di Milano-Bollate, sin dalla sua apertura, organizza il proprio progetto di recupero dei detenuti sulla cultura del peer support. Obiettivo fondamentale di ogni attività lavorativa proposta è la decarcerizzazione definitiva fornendo delle competenze utili ai fini di un inserimento lavorativo una volta usciti dal carcere. Cascina Bollate è una cooperativa sociale nata nel dicembre 2007 nella Casa di Reclusione di Milano Bollate. Vi lavorano giardinieri liberi insieme a giardinieri detenuti, soci della cooperativa stessa, cheimparano un mestiere e si impegnano in una produzione di qualità di piante insolite ed ortaggi. I detenuti vivaisti sono impiegati per tutta la settimana nella cura delle piante e non vengono controllati dalla polizia penitenziaria, lavorando così in piena autonomia e avendo una forte responsabilizzazione. I nostri obiettivi sono: da una parte portare “dentro” la stessa impostazione di lavoro di “fuori”, formando dei giardinieri professionali e non dei forzati del decespugliatore. Dall’altra portare “fuori” i lavoratori e, con loro, una qualità di lavoro

e di prodotto insospettabile se si pensa in modo tradizionale ad una casa di reclusione. E’ importante far capire ai cittadini che all’interno del muro di cinta si lavora per abbattere il rischio di recidiva, più che per migliorare “tout court” la qualità della vita dei detenuti.Il carcere, per antonomasia un luogo chiuso, si apre all’esterno con la stessa dignità di altre istituzioni territoriali, perdendo quei caratteri di autoreferenzialità tipici dell’istituzione totale. Chiunque ne abbia bisogno, a qualunque titolo, può conoscere i meccanismi di funzionamento della struttura. Infine, il cittadino che abbia interesse a conoscere il carcere può farlo e l’istituzione penitenziaria perde i connotati di luogo inaccessibile e terrorizzante, diventando un luogo di pena con propri obiettivi istituzionali, accessibile e trasparente. Diventa insomma quel “palazzo di vetro” tanto auspicato dai teorici dell’esecuzione penale detentiva. CONTATTI: http://www.cascinabollate.org/cms/index.php


Compagnia della fortezza, rappresentazioni teatrali intra moenia

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COMPAGNIA DELLA FORTEZZA

progetto rivoluzionario negli intenti, ma di fatto già in essere dopo quasi venticinque anni di ininterrotta attività.

Il progetto di Laboratorio Teatrale nel Carcere di Volterra nasce nell’agosto del 1988, a cura di Carte Blanche sotto la direzione di Armando Punzo. DOVE: Via Minzoni 49, Volterra;

CONTATTI: http://www.compagniadellafortezza.org/indexstatic.htm

INIZIO COLLABORAZIONE: 1988; ISTITUTI INTERESSATI: Carcere di Volterra; ORGANISMI COINVOLTI: -; DESCRIZIONE PROGETTO: In più di 20 anni di lavoro la Compagnia della Fortezza, composta dai detenuti-attori del Carcere di Volterra, ha prodotto circa ogni anno uno spettacolo nuovo. Il lavoro e l’impegno della Compagnia, fortemente orientato all’esito artistico e culturale, è stato riconosciuto a livello internazionale fin dagli albori ed è stato piùvolte insignito di premitra i più ambiti nel mondo delteatro. A partire dal 1993 gli spettacoli della Compagnia della Fortezza sono stati rappresentati fuori dal carcere e sono stati invitati nei principali teatri e festival italiani; numerosi inviti sono giunti anche dai maggiori festival internazionali, motivo per cui la Compagnia si è attivata perché l’Ordinamento Penitenziario riconosca la possibilità di andare in tournée anche al di là dei confini nazionali. Infatti dopo l’esperienzapilota nel 2008, anno in cui la Compagnia ha portato due spettacoli nella Repubblica di San Marino, a tutti gli effetti da considerarsi “Stato estero, si pensa ad una tournée europea. A livello nazionale, l’obiettivo dichiarato è quello di trasformare la propria esperienza nel primo“Teatro Stabile in Carcere” al mondo,


Locandina concorso per il logo del carcere di Torino

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POLO PRODUTTIVO CARCERE DI TORINO Nasce in un contesto partecipato frutto di un percorso condiviso che vuole proporre ai cittadini e alle forze economiche produttive un diverso utilizzo della detenzione, attraverso iniziative imprenditoriali. DOVE: Strada Pianezza 330, Torino; INIZIO COLLABORAZIONE: 2002; ISTITUTI INTERESSATI: Carcere Lorusso Cutugno; ORGANISMI COINVOLTI: Liberamensa, Ergonauti, Eta Beta, Extraliberi, Papili Factory, Pausa Cafè, Punto a capo, aziende private. DESCRIZIONE PROGETTO: Il “Polo Produttivo” nasce in un contesto, per così dire, partecipato, frutto di un percorso condiviso che vuole guardare al carcere non solo come al luogo di espiazione della pena ma anche come occasione di formazione e recupero, che vuole porre all’interesse di tutti i cittadini e delle stesse forze economiche produttive un diverso utilizzo della detenzione, attraverso l’implementazione di iniziative imprenditoriali che coinvolgano persone in esecuzione penale. Le cooperative del Polo svolgono attività di accompagnamento e orientamento nei confronti dei lavoratori detenuti non solo durante il periodo detentivo ma anche, con l’accompagnamento nella ricerca di una collocazione lavorativa e/o abitativa, nel momento della delicata fase dell’uscita dal carcere. La prima Cooperativa ha iniziato a lavorare all’interno del carcere nel 2002, attualmente le cooperative coinvolte sono 7 e alcune sono nate proprio con l’avvio di attività produttive molto diversificate:

si va dal catering per aziende e privati alla manutenzione di aree verdi,dall’assemblaggio di lampade a energia solare alla sartoria, dalla torrefazione di caffè e cacao alla produzione di elementi per l’arredo urbano e alla carpenteria, dall’informatica alla serigrafia. Le sette cooperative sono: Liberamensa, Ergonauti, Eta Beta, Extraliberi, Papili Factory, Pausa Cafè, Punto a capo. CONTATTI: http://www.circondarialetorino.it/


Comunità di San Patrignano, attività di floricultura e di orticultura.

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COMUNITA’ DI RECUPERO SAN PATRIGNANO La comunità di recupero nasce nel 1978 grazie a Vincenzo Muccioli e ad altri volontari che accolsero i primi ragazzi. Oggi è una realtà ricca volta a dare competenze specifiche ai suoi ospiti per reintegrarli nel tessuto sociale. DOVE: Via San Patrignano 53, Coriano (RN); INIZIO COLLABORAZIONE: 2001; ISTITUTI INTERESSATI: Comunità di recupero; ORGANISMI COINVOLTI: cooperativa Arcipelago- Pubblica Amministrazione, enti privati; DESCRIZIONE PROGETTO: Promuovere e sviluppare l’artigianato di qualità; aiutare i ragazzi che hanno concluso positivamente il loro percorso a trovare una occupazione; offrire ad imprese eprivati il patrimonio di serietà e professionalità consolidato nei laboratori della Comunità ecco qual è la missione perseguita dai volontari che lavorano assieme ai ragazzi tossicodipendenti ospiti della comunità di recupero di San Patrignano, I ragazzi eseguono attività diverse: dalla carpenteria alla lavorazione artigianale del ferro battuto, dai montaggi alla manutenzione, dall’installazione di impianti idraulici, termici e di condizionamento alla decorazione e tinteggiatura civile e industriale. Oltre a questi progetti vengono gestiti internamente laboratori e corsi di cucina, un ristorante, una pizzeria, una cantina vinicola, un vivaio e laboratori teatrali. San Patrignano è anche famosa per le copetizioni ippiche, la manifestazione enogastronomica “Squisito“ e per le rappresentazioni

teatrali. CONTATTI: http://www.sanpatrignano.org/?q=node/5117


Laboratorio enogastronomico interno, carcere di Siracusa.

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ENOGASTRONOMIA CARCERE DI SIRACUSA Promosso dalla Cooperativa sociale L’Arcolaio, attiva nelgli istituti penitenziari di Siracusa con progetti enogastronimici. DOVE: Viale Teracati 51/d, Siracusa; INIZIO COLLABORAZIONE: 2003; ISTITUTI INTERESSATI: Casa Circondariale di Siracusa; ORGANISMI COINVOLTI:aderisce ad un sistema consortile CGMWealfare Italia, socia di AIAB, Libera, Banca Etica; DESCRIZIONE PROGETTO: L’Arcolaio è una cooperativa sociale di tipo B nata a Siracusa nel 2003 con lo scopo primario di offrire percorsi qualificati di reinserimento sociale e lavorativo ai detenuti della Casa Circondariale di Siracusa. Il nome si ispira all’insegnamento di Gandhi, che fece dell’arcolaio un simbolo di libertà, invitando alla riscoperta dei mestieri tradizionali e all’utilizzo coerente delle ricchezze della propria terra. Fin dall’inizio, la cooperativa L’Arcolaio ha scelto di aderire all’agricoltura biologica, valorizzando alcuni prodotti di eccellenza del territorio, in particolare la Mandorla di Avola. Gli ingredienti di origine estera vengono acquistati attraverso il circuito del Commercio Equo e Solidale. I prodotti della cooperativa sono certificati da ICEA (Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale). L’Arcolaio vuole perseverare sulla linea scelta della qualità sociale globale, continuando a cercare coerenze di valori, legandosi al territorio e alle sue eccellenze. Intende inoltre continuare a dare il suo contributo

all’evoluzione del sistema penitenziario verso una vera funzione rieducativa; allo sviluppo del consumo critico e alla valorizzazione dei prodotti locali; all’attenzione alla salute eall’ambiente; alla solidarietà con i paesi del Sud del mondo; al rafforzamento delle esperienze di economia sociale come fattore evolutivo e riequilibrante del mercato. Dal punto di vista riabilitativo, il laboratorio è uno spazio nel quale diventa possibile costruire percorsi reali di cambiamento e di reinserimento sociale. Sotto la direzione di un maestro pasticciere i detenuti acquisiscono una professionalità e ritrovano la piena dignità di lavoratori, avendo riconosciuti tutti i diritti e le tutele previsti dal contratto nazionale di lavoro delle cooperative sociali.Particolare cura viene posta a stabilire delle relazioni che siano attente ai bisogni della persona, in un clima di rispetto reciproco, ottenendo l’adesione convinta dei detenuti ad una proposta lavorativa impegnativa, che esige la massima attenzione alle rigorose procedure richieste nella produzione di alimenti. CONTATTI: arcolaio@consolidas.it


San Vittore, Raccolta fotografica Prisons, Francesco Cocco

Dalla strategia al progetto

La strategia a macroscala del nostro progetto ha come obiettivo principale quello di avvicinare il carcere ai luoghi dell’urbanità modenese per riuscire a trasformare questa infrastruttura scomoda in un luogo di interesse, centro di attività sociali reintegrative e catalizzatore di curiosità. Ovviamente questo intento si concretizzerà attraverso la riqualificazione e successiva rifunzionalizzazione del quartiere Sant’Anna che lo ospita. Premessa indispensabile per la fattibilità del progetto è lo spostamento del deposito autocorriere SETA. Quest’ultimo insiste infatti sull’area adiacente al carcere, in un lotto completamente impermeabilizzato di proprietà pubblica. Onde evitare l’impermeabilizzazione di altro suolo vergine, il deposito viene spostato in prossimità della stazione ferroviaria nell’area dell’ex scalo merci configurandosi come integrazione del grande polo intermodale pensato per quest’area infrastrutturale. Questa delocalizzazione è fondamentale per ottenere una prima ricucitura urbana che permetta di riallacciare i rapporti visivi e compositivi tra i tessuti residenziali e per integrare funzioni sia a scala di quartiere sia a scala urbana e cioè quelle funzioni identificate a seguito dei progetti reintegrativi che coinvolgono i detenuti sia a quelle pensate per rivitalizzare il quartiere ed assicurargli il ruolo di attrattore urbano. Si prevede un primo intervento che, attraverso un nuovo disegno del verde ed un lavoro puntuale sugli accessi al quartiere, lo ricolleghi fisicamente e visivamente al centro storico oltrepassando il limite fisico della ferrovia. Viene quindi disegnato un corridoio verde che, partendo dal sottopassaggio ferroviario e riunendosi alla trama del verde già


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esistente, segni un chiaro percorso preferenziale per la mobilità lenta. Si configura una spina infrastrutturale composta da percorso pedonale e percorso ciclabile, scandita dal verde piantumato che diventa la via d’accesso principale al quartiere Sant’Anna e alla zona di progetto. Il corridoio verde permette, perseguendo un’idea di prevaricazione della mobilità lenta su quella pesante, di oltrepassare Via Lamarmora, ora arteria di traffico pesante, attraverso un sistema di passerelle sospese. La strada viene a sua volta riconfigurata in sezione ed integrata con spartitraffico verde per rallentarne la velocità di percorrenza. Il lotto di progetto è inserito all’interno di un sistema di protezioni naturali, quindi contemporaneamente alla creazione del percorso ciclo pedonale vengono disegnati dei bordi vegetali di protezione lungo le strade a traffico pesante. Questa scelta non deve essere vissuta come una volontà di chiusura rispetto al contesto, in quanto sarebbe una scelta contraria al concept del progetto, ma come esplicita volontà di proteggere dall’infrastrutturazione pesante un luogo di pregio e di vita urbana che si stà creando. Il corridoio verde, entrando nell’area di progetto, si allarga in un parco urbano con una porzione di verde destinata all’attività florovivaistica e a terreno di sperimentazione per la piantumazione di specie vegetali appartenenti alla macchia della pianura padana. Questo sistema degrada a sua volta lentamente, sfumando in parco agricolo all’interno del quale si realizza una rete di percorsi ciclabili che si innestano su quelli già esistenti che costeggiano il fiume Secchia e che conducono al parco naturalistico delle casse d’espansione del Secchia. L’interesse del progetto, una volta ristabilita un’importante connessione fisica, si sviluppa sull’area antistante al carcere, attraverso due operazioni inizialmente distinte: il progetto per un parco|vivaio urbano autosufficiente che, grazie alle sue attività, sia una risorsa per i cittadini, Vista assonometrica città di Modena, strategia progettuale


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ma che allo stesso tempo rappresenti una possibilità di reintegrazione lavorativa per i detenuti. Il progetto mira quindi a costituire una grande polarità funzionale nell’area del ex deposito SETA che sia in grado di attrarre nuovi flussi dal centro urbano e contemporaneamente riesca a riconfigurare un intero quartiere. Il progetto si svilupperà secondo una scansione temporale predefinita che tenga in considerazione i tempi di colonizzazione del lotto, la rifunzionalizzazione dei locali del deposito SETA e i tempi di crescita del verde. Le fasi stabilite sono quattro da attuarsi in un arco temporale di quattordici anni, dal 2014 al 2028. Area di progetto, situazione attuale

Macroaree Parco urbano Parco agricolo Bordi a parcheggio Demolizioni Riuso edifici esistenti Nuovi interventi Parco vivaio Funzioni A. B. C. D. E. F. G. H.

Area Sportiva Artigiantato Hub|Commercio Co-Working|sede associazioni Vivaio (Magazzino|Uffici) Mercato ortofrutticolo Fattoria didattica Presidio del parco

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Intervento residenziale (6 blocchi) Mensa|Sala prove Ludoteca|Centro di quartiere Presidio universitario|Foresteria|Ristorante

Area di progetto, nuovi rapporti

Programma funzionale Per quello che concerne il programma funzionale, il luogo di intervento viene suddiviso in macroaree: il parco urbano, il parco agricolo, il vivaio e il nuovo polo costruito: le Officine Sociali. Quest’ultimo, partendo da una rifunzionalizzazione dei locali adibiti a deposito ospiterà un mercato ed il vivaio cioè le due funzioni intimamente legate con il progetto di recupero dei carcerati. A questo primo blocco si aggiungono funzioni concepite per rivitalizzare il quartiere destinate a divenire un catalizzatore urbano. Queste ultime sono legate al mondo della creatività artistica ed artigianale nonché al panorama delle associazioni, soprattutto collegate al carcere, e delle nuove imprese avviate dai giovani. Il tutto si concretizza nell’installazione di hub creativi, spazi per giovani artigiani, designer, architetti...ed uffici per giovani start uppers. A coronamento di questo programma funzionale più “pesante” viene inserito un intervento di edilizia sociale e di appositi spazi per il quartiere quali: la sede del comitato del quartiere, una sala prove e una mensa.


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1. Fase temporale

2. Fase temporale

3. Fase temporale

4. Fase temporale

1. FASE

2. Fase

3. Fase

4. Fase

Nella prima fase progettuale viene istituito il parco agricolo da configurarsi quale apposizione di un vincolo tutelativo per il terreno di cintura di Modena per evitare l’espansione edilizia su terreni agricoli. Contemporaneamente viene creato il percorso ciclo-pedonale che deve ricollegare il centro cittadino con il percorso naturalistico del Secchia ed il primo attraversamento sopraelevato su viale la Marmora. Per quello che riguarda le aree del parco vivaio comincia la piantumazione delle essenze nobili su una superficie di 11,8 ha e metre si avvia la dismissione di alcuni locali Seta per un totale di 7.350 mq da mettere a destinazione vivaio e mercato a km0.

In questa fase, assieme alle essenze nobili, sul terreno del parco vivaio, vengono piantumate essenza con una crescita più rapida che diano il disegno di insieme del parco e che possano essere utilizzate, una volta cresciute le essenze della macchia della pianura padana, per la produzione di biomassa legnosa. Il costruito esistente viene rifunzionalizzato attraverso l’inserimento degli hub, dei locali per l’industria creativa, di spazi per il coworking, di esercizi commerciali. Viene istituito il presidio del parco in prossimità dell’accesso sud est del parco.

Questa fase prevede l’istallazione di nuovi interventi edificatori, volti ad unificare il disegno del nuovo comparto urbano e a fornire servizi per gli abitanti del quartiere. I nuovi volumi ospitano uno spazio per i comitati di quartiere,spazi destinati ad attività sportive libere, luoghi di aggregazione giovanile ed una mensa. Assieme a ciò si aggiunge un intervento di edilizia sociale di 6.732 mq che abbia anche una funzione di ricucitura urbana tra il nuovo intervento e le preesistenze. Contemporaneamente l’area destinata al parco e al vivaio viene attrezzata per accogliere punti di sosta, punti panoramici, giardini particolari...

Nell’ultima fase si assiste al completamento di tutto l’intervento di Officine Sociali, attraverso la costruzione di appositi locali con funzione ricettiva pensati e calibrati in base alle potenzialità attrattive delle nuove polarità. Il parco vivaio ed il parco urbano si configurano come porta d’accesso al percorso naturalistico lungo il Secchia e come nodo cardine di riconnessione dei flussi con l’ambiente urbano consolidato. Rappresentano grazie ai programmi reinseritivi abbracciati un esempio di osmosi tra la realtà urbana ed il carcere.


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Tipologie di spazi

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Strumenti

Obiettivi

Utenti

I nuovi Users urbani Grazie alla creazione di Officine Sociali, il volto del quartiere Sant’Anna cambia radicalmente, e la sua influenza nel panorama urbano cresce. Diventerà quindi un polo attrattore per coloro che volessero usufruire di spazi differenti dall’ordinario, spazi giovani e flessibili e intimamente legati alla natura. La rifunzionalizzazione porta con se un aumento ed una differenziazione degli Users urbani, inglobando categorie professionali e sociali fino ad ora esiliate da questi luoghi. Ovviamente non sono stati dimenticati in fase progettuale gli Users consolidati del quartiere e del carcere con i quali ci eravamo confrontati in sede di analisi per capire le loro esigenze e necessità. Quest’ultima affermazione spiega quindi l’inserimento di servizi a scala di quartiere, di facilitazioni per i lavoratori in fabbrica e per coloro che vivono il carcere in prima persona senza essere detenuti. A seguito di queste considerazioni abbiamo fatto una stima delle tipologie di utilizzatori che un intervento del genere potrebbe attrarre mettendoli poi in relazione con gli spazi che loro stessi andrebbero ad utilizzare. Questa analisi ci permette da una parte di dimensionare i servizi in base all’utenza che catalizzano e dall’altra di pianificare eventi collaterali di promozione dell’intervento stesso.

Nuovo schema di relazioni


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Le Officine Sociali

Il sitema delle griglie

Localizzazione dei bordi attivi

Il sistema dei flussi

Per arrivare ad un disegno di insieme del masterplan in cui inserire il progetto Officine Sociali ci siamo basati su una regolamentazione di tale territorio avvalendoci di una griglia ideale, per la porzione destinata a parco che riprende l’inclinazione storica dell’agro modenese (nonché bolognese) di epoca romana, parallelo alla via Emilia. Tramite questa griglia che riprende suddetta inclinazione, siamo riusciti ad ottenere una prima compartimentazione dello spazio che si pone come cesura rispetto alle linee più regolari del costruito esistente e in continuità con l’ampio territorio agricolo circostante. La griglia nasce dalla dimensione di un particolare modulo di 10,5 x 25,5 m, concepito dall’esigenza di inserirvi determinate specie arboree, ossia quelle che compongono il Quercus Carpineto, un’associazione di vegetali autoctoni, disposti secondo un disegno naturalistico formato dallo strato alto arboreo, da un sottobosco arbustivo e da uno strato erbaceo. Da questo modulo si creano i relativi moduli e sottomoduli che danno vita, oltre che al disegno del verde, alla trama dei percorsi interni al parco. Per la regolamentazione del costruito esistente e dei nuovi interventi abbiamo concepito una seconda griglia, più regolare, che si adattasse alle preesistenze del sito di progetto e che riuscisse ad ottenere una continuità con la griglia utilizzata per il verde. Tale divisione si basa su un modulo di 10x10 metri e viene influenzata dalle direzione degli assi principali dell’intervento residenziale esistente. Su questo sistema regolare si innesta un lavoro sui bordi dell’intera area che, nel complesso vengono trattati come entità più organiche. I bordi si differenziano tra bordi membrana e bordi barriera a seconda che questi permettano o meno il passaggio dei flussi.


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I bordi barriera sono quelli sulle grandi arterie di traffico mentre i bordi membrana sono quelli piÚ interni che lasciano la libera circolazione dei flussi. I bordi sono poi differenziati a seconda che siano o meno attivi ossia se collaborino o meno con il sistema di comunicazione interno all’area di progetto. Dai bordi si diparte poi uno studio sui flussi. I flussi esistenti, in prevalenza carrabili, si attestano sui bordi attivi in cui sono inglobati le aree di sosta concepite come poli scambiatori e si integrano al nuovo sistema di flussi in prevalenza ciclo pedonali. Ne risulta un’intersezione tra la maglia dei percorsi lenti interni al parco e quella carrabile dell’esistente tramite parcheggi situati nelle zone di accesso preferenziale. Intervento, Le Officine Sociali, Masterplan, scala 1:200


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Il Parco|Vivaio “Circondariale” Come affermato precedentemente il disegno del parco si basa su uno schema regolare ottenuto da una griglia regolare di moduli e sotto moduli che riprende l’inclinazione della Via Emilia. Il modulo di 10,5x25,5 metri è regolato sugli spazi necessari alla piantumazione di particolari essenze che compongono il Quercus Carpineto. Quest’ultimo è l’insieme di essenze autoctone che si trovano nelle zone della bassa pianura padana. Le essenze che vanno ad inserirsi sono: la Farnia, il Carpino Bianco,il Frassino Maggiore, il Tiglio selvatico e il Pioppo Bianco, per quello che riguarda le specie arbore a queste si aggiunge un sottobosco arbustivo composto per la maggior parte da: la Berreta del prete, la Sanguinella e il Biancospino. La parte centrale del parco risulta essere più riccamente piantumata, caratterizzata da una vegetazione più fitta che degrada verso sud, verso la piattaforma di Officine Sociali. Lo scopo di questa differenziazione è quello di ottenere effetti luministici, ambientali e coloristici differenti giocando sulla densità delle masse arboree e sul loro aspetto. Sulla griglia che regola il verde si innesta una griglia di canali che riprende gli antichi canali tombati integrati con appositi canaletti legati alle vasche di fitodepurazione situate nell’area nord del parco. Tutto il parco è, infatti, pensato in un’ottica di autosufficienza ed è per questo che attraverso movimenti di terra si riesce ad attribuire la giusta inclinazione ai canali e ai fossati per la raccolta delle acque reflue in apposite vasche di stoccaggio sotterranee che, con un sistema di pompe, possano essere riutilizzate per l’irrigazione di tutta la superficie. All’interno del parco si disegnano tre percorsi: i percorsi principali, i percorsi tematici più sinuosi e i percorsi trasversali di collegamento tra i primi. Vista sul parco vivaio circondariale


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Sosta singola

Sosta doppia

Sosta composta

Agli innesti di questi percorsi ci sono zone di sosta, concepite su un modulo di 2,5x5 m, aggregati tra loro con un minimo di tre moduli che possono variamente ospitare micro giardini, attrezzature per il percorso vita, punti panoramici, aree soste attrezzate.... Questi moduli possono affiancarsi ai percorsi stessi o innestarsi in corrispondenza degli incroci, tematizzando il percorso stesso. È stato concepito, infine, un discorso sui bordi del parco, tenendo in considerazione l’intorno con cui si deve dialogare. Lungo il bordo che costeggia via Lamarmora viene previsto un movimento di terra che crei un declivio naturale dolce. La scelta è stata dettata dalla necessità e dalla volontà di schermare il parco dal traffico e dal conseguente rumore che esso genera, ma anche di ottenere un percorso panoramico in quota che assicuri una piena visuale dell’intero complesso. Su via Suore il bordo continua la forma organica della collinetta ma con una vegetazione più bassa che, al suo interno, si apre formando delle sacche atte ad ospitare i parcheggi, distribuiti lungo tutto il tratto. Questa forma più organica si ricollega alla maglia regolare del parco attraverso i percorsi stessi.inserisci il testo se servono i sottotitoli sono da inserire in questo momento


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Vista percorso ciclopedonale interno al parco


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tra preesistenze e nuove costruzioni Le scelte progettuali riguardanti il costruito sono state fortemente influenzate dalla presenza di ampi volumi coperti e dal quantitativo di suolo impermeabilizzato. Questi due presupposti ci hanno portato da una parte alla scelta di mantenere tutti i volumi presenti (fatta eccezione per uno), dall’altra di ridurre la volumetria del costruito, “confinandola” nella porzione di lotto su Strada Sant’Anna, in modo da ottenere una prima ricucitura con il quartiere residenziale esistente. Il fulcro del progetto si sviluppa negli ex locali SETA dove verranno installate funzioni in grado di riattivare l’intera dimensione del quartiere, portando giovani artisti, creativi, startupper e miscelandoli con attività legate al mercato a km0 e all’attività florovivaistica in cui rientrano i progetti di recupero che interessano i detenuti. Lo scopo perseguito è quello di ottenere mix funzionale per poter dare un volto sfaccettato, nuovo e giovane al quartiere Sant’Anna e che soprattutto non dimentichi la necessità principale di specializzazione lavorativa per i detenuti, al fine di ottenere un mélange socioculturale. Per ogni edificio delle Officine Sociali da rifunzionalizzare, sono stati previsti differenti contratti a tempo da stipularsi con la pubblica amministrazione. Ogni edificio, in base al contratto previsto e all’attività da installare, ha una durata temporale prefissata così da non perdere il connotato di area versatile e mutevole. Il collegamento tra gli edifici avverrà attraverso il vuoto, caratterizzandolo a volte come spazio urbano, a volte come spazio puramente di servizio per le attività più pesanti ed altre come spazio di pertinenza sfruttabile dalle funzioni stesse. Vista assonometrica dell’intervento


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Un intervento di social housing come ricucitura morfologica|funzionale Si è scelto di installare il quartiere residenziale lungo Strada Sant’Anna per proporre una mediazione tra le residenze unifamiliari, caratteristiche dello sprawl periferico, e i grandi monoliti delle Officine Sociali. L’intervento è pensato come una serie di edifici residenziali replicabili ed aggregabili che nascono da un’unica piastra al pianterreno. Quest’ultimo ha una superficie calpestabile di 470 mq che si divide in 5 appartamenti da 90 mq circa rispondenti alle esigenze del mercato immobiliare di Modena in deficit di housing sociale. Il piano superiore è ottenuto attraverso l’estrusione solo di alcune parti del volume sottostante, così da creare spazi aperti terrazzati. Le abitazioni hanno forma allungata, data dall’innestarsi dei percorsi prolungati a partire dal quartiere residenziale antistante e, allargandosi, formano corti interne considerabili spazi semi-privati, concessi in gestione agli abitanti stessi.

Il polo creativo I grandi volumi ad un unico piano dell’ex deposito SETA ospitano il polo creativo del progetto. Il primo edificio che incontriamo accedendo al sito da Strada Sant’Anna, con una superficie calpestabile di 5.500 mq ed un’altezza di 7 metri, ospiterà al suo interno gli spazi per l’industria creativa (1.640 mq), HUB (2.000 mq), esercizi commerciali (400 mq totali) e spazi coperti per attività sportive (1.100 mq). Questo intervento si compone quindi di una serie di spazi flessibili Planimetria Hub, scala 1:500

pensati da una parte per ospitare le realtà artigiani locali e dall’altra per incentivare la piccola imprenditoria giovanile. I primi, indirizzandosi soprattutto ai giovani creativi, intendendo con questo termine architetti, designer, artigiani ed artisti, propone al suo interno una serie di spazi autonomi con servizi condivisibili, aule laboratoriali e spazi per eventi pubblici come mostre, vernissage o workshop temporanei. Le aree destinate ad ospitare gli HUB si compongo di una serie di locali flessibili per postazioni mobili di lavoro. Inoltre l’edificio contiene una serie di spazi utilizzabili come aule conferenze, sale lettura e aree per la gestione di eventi temporanei. Tutto ciò, si indirizza a giovani imprese che necessitano di un luogo per nascere con basse spese di gestione e giovani startupper che entrano nel mondo del lavoro. I locali vengono assegnati attraverso un bando pubblico che predispone un contratto di comodato d’uso precario, il quale prevede che ogni occupante corrisponda per le proprie spese e per una parte proporzionale alle spese comuni con una durata di tre anni, più possibile rinnovo. La gestione dell’intero complesso che ha come finalità la promozione delle attività interne, è affidata sia alla pubblica amministrazione attraverso società cambiaMO spa, ma anche ad una società artigianale autonoma la FAM Famiglie Artigiani Modenesi e all’ Arci Modena, per la promozione di iniziative urbane ed eventi collettivi. All’interno di questa struttura sono poi inseriti esercizi commerciali con ingresso indipendente, affaccianti sul grande spazio pubblico antistante. Questi ultimi vengono affidati a privati o a società tramite bando pubblico che predispone un contratto di locazione commerciale per la durata di sei anni più rinnovo contratto. La scelta di porre degli esercizi commerciali è stata operata nell’ottica di mantenere una certa mixité, ma anche per fornire dei servizi di prossimità agli abitanti del quartiere, agli users urbani stanziali e a quelli nuovi.


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Antistante questa costruzione abbiamo inoltre posto un blocco, ospitante al pianoterra un servizio di ristorazione per un totale di 160 mq, che si innesta nell’edificio retrostante tramite una costruzione a ponte che permette la libera circolazione dei flussi lungo la via principale, ma chiude la visuale con un primo piano vetrato che accoglie i locali adibiti a foresteria. L’asse consolidato parte dal margine sud del lotto e il suo incipit è segnato da una costruzione dove è presente una ludoteca e sale per i comitati e le riunioni di quartiere, un edificio quindi che, rappresenta un trait d’union tra il nuovo intervento e il quartiere consolidato ed idealmente tra i nuovi users e i residenti del quartiere. Attraversando l’edificio a ponte l’asse principale conduce direttamente nel parco culminando in una “radura” attrezzata con punti di sosta, area pic nic... Consideriamo l’edificio a torre di sei piani (830 mq di superficie calpestabile a terra), che si differenzia dai precedenti per morfologia e struttura, in quanto ospitava l’amministrazione e riconvertito a spazi per co-working. Il fatto che ospitasse uffici già in precedenza ci permette di mantenere la struttura principale agendo solamente sulle partizioni interne, creando spazi più flessibili. Questi spazi sono stati pensati per ospitare sedi di giovani associazioni, di associazioni gravitanti attorno al carcere che potrebbero sfruttare la relativa vicinanza al carcere stesso, di associazioni di volontariato, ma anche dei giovani imprenditori e di giovani aziende. Anche questi luoghi vengono affidati alla gestione di Arci Modena ed assegnati tramite contratto di comodato d’uso precario, per la durata di tre anni più rinnovo contratto. Nella porzione impermeabilizzata retrostante oltre ad inserire una serie di spazi di manovra e di servizio, è installato un nuovo volume ospitante la mensa al pianoterra e superiormente una sala prove che Aree in attesa, eventi urbani

conta una superficie di 300 mq ed un’altezza di 7m . Questo edificio è stato pensato sia per offrire un servizio di ristorazione “low cost” per i nuovi lavoratori che si insedieranno nell’area, sia per gli operai delle fabbriche e per gli agenti della polizia penitenziaria che lavorano in carcere e lamentano la mancanza di appositi luoghi di “evasione”.

Il mercato e il parco vivaio per l’integrazione urbana dei detenuti L’edificio che chiude lo spazio pubblico verso sud, perpendicolare rispetto agli altri, è stato pensato per ospitare il mercato ortofrutticolo ed alimentare, concepito nell’ottica della distribuzione a km0 e della collaborazione con gli stessi carcerati. Esso risulta essere infatti una piattaforma in cui implementare la vendita di prodotti orticoli coltivati all’interno delle mura del carcere. Tale vendita permetterà, quindi, di aumentare il lavoro all’interno del penitenziario, aumentare il numero dei detenuti occupati e, incentivando l’acquisto di prodotti coltivati nell’area di prossimità, incrementare i ricavi interni del carcere stesso. L’ultimo edificio recuperato su questa piattaforma ospita la funzione più estesa e forse fondamentale per la giusta interpretazione del progetto. Viene installata un’azienda vivaistica ed orticola che usufruisce della preesistenza come rimessa per gli attrezzi e spazio amministrativo destinato ad uffici (1.700mq totali) espandendosi nello spazio esterno. La scelta di installare in questa particolare posizione un’azienda orto vivaistica non è stata casuale. Essa permette, per gli spazi che richiede, di avere una giusta sfumatura tra la superficie cementificata e l’immensa distesa verde; inoltre, attraverso il disegno di appositi spazi espositivi esterni per


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le coltivazioni in vaso, affiancate da orti famigliari dati in gestione alle famiglie del quartiere, agli anziani e alle fasce protette della popolazione e attraverso le serre, riesce a fornire anche un disegno all’immensa distesa cementificata e a stabilire un rapporto tra questa e il masterplan del parco, influenzando la scelta delle specie arboree ed i suoi percorsi. Consente infine di reinserire i detenuti in un processo lavorativo dopo la scarcerazione. Il vivaio viene affidato, da progetto, a due associazioni, “Carcere e città” e all’associazione “Botanicamente”. Quest’ultima organizza tuttora a Modena corsi di giardinaggio e corsi teorici sull’arte vivaistica, entrambi tenuti in una frazione a causa dalla mancanza di un’area di sperimentazione più prossima. Il parco, in collaborazione con le aree del vivaio, diventerà il terreno su cui organizzare questi corsi, permettendo lo sviluppo di un fenomeno di reintegrazione e scambi sociali tra detenuti e cittadini.

Orto di Vicinato

Piazza interattiva

Le aree in attesa

Area Gioco Sperimentale

Salotto urbano

Piazza Riciclo

Occorre a questo punto fare un’ultima constatazione sull’intervento urbanistico-strategico per la regolamentazione del costruito delle Officine Sociali. Data la vastità dell’area su cui abbiamo agito e la nostra volontà di realizzare un progetto, per fasi, quindi realizzabile secondo tempistiche differenti in base alla tipologia di progetto, la disponibilità economica....alcune aree vengono identificate come aree in attesa. Queste sono quindi aree localizzate sulla piastra stessa delle Officine Sociali che al tempo di realizzazione ultima del nostro progetto non hanno una particolare destinazione, sono cioè lasciate libere, concepite come un continuum in divenire del progetto stesso. Ospitano, in questo particolare step di avanzamento del progetto, eventi


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urbani, manifestazioni artistiche e funzioni temporanee. Sono pensate come aree flessibili in cui il suolo impermeabilizzato può tramutarsi sia in struttura sportiva all’aperto, sia come spazio per allestire workshop. Risultano essere fondamentali per perseguire l’intento del nostro progetto e per portare avanti il messaggio di continuità che ci deve essere in un intervento urbanistico di questo tipo. L’intervento così come da noi proposto non può arrestarsi su se stesso ma deve continuare tenendo in considerazione gli auspicabili processi che ci saranno anche nel campo della reintegrazione lavorativa per i detenuti. Queste aree in attesa non sono altro che il simbolo di una necessità di non smettere di studiare nuove soluzioni alternative urbane che si possano ripercuotere in nuovi concetti di socialità urbana. 1. Temporalità gestionale

2. Temporalità gestionale

3. Temporalità gestionale



Quercus Carpineto

Abaco del Verde La gestione dei beni architettonici, ambientali e naturali dovrebbe privilegiare soprattutto gli elementi tipici del territorio, cioè quelli autoctoni. Per questo motivo nel progettare il parco urbano si sono scelte tutte specie arboree ed arbustive autoctone andando così a rafforzare la biodiversità dell’area della pianura padana che da molto soffre lo sfruttamento agricolo. Le specie alloctone rientrano invece nel progetto solo per la parte vivaistica e di studio ricoprendo un’area limitata e circoscritta


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Cornus sanguinea Sanguinella

Crataegus monogyna Biancospino comune

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1

Euonymus europaeus Berretta del prete

1

Carpinus Betulus Carpino bianco

1

Altezza: fino a 5 metri

Altezza: da 3 a 8 metri

Altezza: fino a 40 metri

Altezza: da 15 a 25 metri

Ingombro medio: 3 metri

Ingombro medio: 3 metri

Ingombro medio: 10 metri

Ingombro medio: 8 metri

Portamento: Compatto

Portamento: Espanso

Portamento: Espanso, allungato

Foglie: Ovali di colore verde chiaro, rosse in autunno

Foglie: Forma lanceolata, rosse in autunno

Foglie: Verde scusa sopra e chiara sotto, arancio in autunno

Fioritura: Primaverile di colore bianco

Fioritura: Primaverile di colore verdastro

Fioritura: Di colore giallognolo

Portamento: Compatto, ovale, tronco eretto Foglie: Ovato-oblunghe, di colore giallo in autunno

Frutti: Dupre prima rosse poi nerastre

Frutti: Capsule a quattro lobi di colore rossastro

Frutti: Ghiande che vanno dal verde, al biancasrto, al bruno scuro

1

Syringa vulgaris Lillà

1

Altezza: tra 2 e 5 metri (massimo 10)

Altezza: da 2 a 3 metri

Ingombro medio: da 1,5 a 5 metri

Ingombro medio: da 2,5 a 4 metri

Portamento: Eretto e compatto

Tilla cordata Tiglio selvatico

Fioritura: Primaverile di colore verdastro Frutti: Acheni riuniti in complessi pendenti

Fraxinus excelsior Frassino maggiore

1

1 Altezza: fino a 30 metri

Altezza: fino a 40 metri

Ingombro medio: da 8 a 10 metri

Ingombro medio: 15 metri

Portamento: Eretto, espanso con l’età

Portamento: Globoso, conico

Portamento: Ovale poi arrotondato

Foglie: Obovate, lobate, di color verde chiaro

Foglie: Larghe cuoriformi di colore verde chiaro

Foglie: Forma ellittica lanceoalata verdeolivastro

Fioritura: Primaverile di colore bianco

Fioritura: Primaverile di colore bianco o lillà riuniti in pannocchie

Foglie: Ovate, appuntite verde scure, arancio in autunno Fioritura: odorosa di colore giallognolo

Fioritura: Di colore verdastro riuniti in pannocchie

Frutti: Piccoli arrotondati di colore grigiastro

Frutti: Samare, prima verdi poi brune in grappoli

Frutti: piccole drupe rosse, con polpa rosata

Viburnum tinus Viburno tino

1

Quercus robur Farnia

1

Frutti: Capsula triangolare verdastra, poi marrone

Buxus sempervirens Bosso comune

Juglans regia Noce bianco

Populus alba Pioppo bianco

1

1

Altezza: massimo 3 metri

Altezza: da 2 a 4 metri

Altezza: fino a 35 metri

Ingombro medio: 3 metri

Ingombro medio: 4 metri

Ingombro medio: 12 metri

Portamento: Compatto regolare

Portamento: Eretto e cespuglioso

Portamento: Espanso arrotondato

Foglie: Coriacee, persistenti di colore verde scuro

Foglie: Foglioline opposte persistenti di colore verde cupo

Foglie: Lamina rotondo-ovata con pagina inferiore bianca

Fioritura: Campanulata di colore bianco

Fioritura: Poco appariscente di colore giallo crema

Fioritura: Amenti pendenti dai rami

Frutti: Capsula coriacea sormontata da tre rostri

Frutti: Conici con semi cotonosi bianchi

Frutti: Piccole drupe ovoidali di colore bluastro

1 Altezza: massimo 30 metri Ingombro medio: da 10 a 12 metri Portamento: Espanso con chioma regolare fitta Foglie: Margine intero di colore verde scuro Fioritura: Amenti penduli Frutti: Drupe con endocarpo legnoso


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Prunus cerasus Amareno

Cercis siliquastrum Albero di Giuda

1

1

Altezza: fino a 10 metri

Altezza: da 2 a 8 metri

Ingombro medio: 12 metri

Ingombro medio: 5 metri

Portamento: Aperto ad imbuto

Portamento: Regolare espanso

Foglie: Lucide di colre verde chiaro e gialle in autunno

Foglie: Liscie di colore verde chiaro

Fioritura: di colore rosa, lillĂ o bianchi Frutti: Baccelli scuri pendenti

Fioritura: Primaverile di colore bianco Frutti: Rossi in forma sferica



Ringraziamenti Il primo ringraziamento è senza dubbio per Francesca Leder, per aver creduto in noi e nel nostro insolito argomento di tesi. Grazie per averci spronato e stimolato e per essersi fatta una cultura sui progetti di reintegrazione dei carcerati, grazie per i messaggi e le revisioni intimidatorie che ci hanno portato alla consegna definitiva. Vorremmo quindi ringraziare Sergio Fortini per aver contribuito, con una scossa di novità, alla nostra tesi aiutandoci a portarla a termine. Vorremmo ringraziare tutti coloro che, in questi mesi, hanno risposto alle nostre mail e alle nostre telefonate insistenti, in primo luogo Rosalba Caselli, la direttrice della Casa Circondariale Sant’Anna, per averci accolto nel suo ufficio e arricchito con spunti di riflessione profonda sulla situazione delle carceri italiane. Paola Cigarini, dell’associazione Carcere e Città, per averci aperto gli occhi sulla realtà del volontariato e della cooperazione sociale in ambiti delicati quali il carcere. Un ringraziamento particolare va a Corrado Marcetti per averci ricevuto presso la Fondazione Michelucci e fornito dettagli fondamentali per comprendere il ruolo dell’architettura e dell’urbanistica in ambiti delicati quali questo. Vorremmo ringraziare tutti coloro che ci hanno ascoltato trasmettendoci un po’ della loro esperienza: Massimo Ziccone (responsabile area trattamentale della C.C. La dozza), Giuseppe Vacirca e Marica Gambera (Direttore e responsabile trattamentale della C.R. Di Reggio Emilia), Federica Dallari e Vincenzo Abbondante (Direttore e Capo della Polizia Penitenziaria della Casa Di Lavoro Saliceta San Giuliano), Federico Cacciola (Direttore della C.C. Di Ferrara). Infine un ringraziamento particolare va ai bibliotecari della facoltà di architettura per aver preso a cuore la nostra causa e a noi stessi per essere riusciti, in un modo o nell’altro, a finire questo lungo percorso. Eleonora, Marco, Gianluca


Ci siamo, dopo sei anni posso scrivere anche io l’ unica pagina della tesi che tutti leggono...speriamo di essere all’altezza.

“Non ti sembra che il vostro percorso di tesi non sia stato sempre lineare?”

Ovviamente il mio primo pensiero va ad Anna e Mauro, semplicemente per essere la mia mia mamma ed il mio babbo, per aver creduto in me e nelle mie capacità, per avermi permesso di vivere questa bella esperienza così come l’ho vissuta, per il conforto e per l’amore con cui “sistemano” sempre i miei guai. Ringrazio la Franci per i messaggini di conforto, le lunghe passeggiate e i vestiti che mi ha prestato e che purtroppo dovrà prestarmi.

La domanda del relatore ha colto, non volendo, l’effettiva scansione degli eventi che si sono succeduti: dall’infinita serie di ostacoli incontrati, alle pause forzate, fino agli impedimenti di vario genere che si sono presentati sul nostro cammino da marzo 2012 ad oggi. Nonostante le lungaggini burocratico-amministrative penitenziarie, un notevole inanellamento di pessime revisioni, sino all’ebbrezza finale di un pc che cede ad una settimana dalla consegna, siamo comunque giunti alla scrittura dei ringraziamenti. Come d’obbligo il primo sincero ringraziamento va ad Anna e Robi, che hanno sostenuto, accompagnato ed accontentato ogni richiesta e scelta fatta in questi anni, probabilmente sacrificandosi spesso oltre le loro possibilità. Spero di ripagarli con la soddisfazione di una buona conclusione di questo percorso. La stessa soddisfazione spero di darla ai nonni che per tutti questi anni hanno con costanza atteso questo momento.

Ringrazio Filippo per “non essere più il mio migliore amico”, per non essere fuggito in Brasile in questi mesi, per i cioccolatini, il radicchio e le olive ascolane. Grazie per ogni piccola attenzione, il conforto e l’appoggio. Ringrazio la mia famiglia ferrarese: Roberta, Nicola e Federica per essere cresciuti con me, avermi insegnato a sbucciare una mela regalato degli anni indimenticabili. Ringrazio la Spall per essere sempre qui a supportarmi, farmi ridere, per essere semplicemente una grande amica. Ringrazio la Ceci per le ore passate al telefono, gli aneddoti, i mercoledì al cinema, la sua comprensione, la sua disponibilità incondizionata e per la gioia che riesce a trasmettermi. Ringrazio la Degiu, come poter dimenticare la prima persona conosciuta a Ferrara, grazie per le pause grattino, la tenerezza e i consigli. Un ringraziamento particolare va ai due uomini della mia tesi: Marco e Gianluca per aver sopportato una donna e le sue manie, per essere stati disponibili sempre e per aver evitato che usassi Illustrator. Da ultimo vorrei ringraziare tutti coloro che sono un tassello importante di questa avventura: Claudia, Giusi, Claudio, Cuci e Simo; e coloro che sono dei punti fermi nella mia vita: Giò, Dani, Mirka, Dea....Grazie! Eleonora

Per venire ai colleghi di (s)ventura. Lolli, la mia sconosciuta compagna di Erasmus bordolese che si è rivelata una fidata amica da cui imparare un po’ del tuo pragmatismo romagnolo, grazie per le battute che hanno alleggerito le giornate di lavoro, per gli aggiornamenti quotidiani di Centovetrine, per quelle affermazioni tagliagambe che sono il tuo segno distintivo Gianluca, sin dagli inizi della facoltà è forse più un fratello acquisito che un amico, grazie per aver concluso assieme questo percorso, per la sopportazione ed il sostegno che ha dimostrato e dimostra nel lavoro in gruppo quando mi sale l’ansia da tempi stretti, per le cose che vicendevolmente non sopportiamo l’uno dell’altro, per rendermi sicuro che su di te posso contare. Un ringraziamento a chi ci ha fornito supporto morale e apporto effettivo al completamento del lavoro: Bersa, Fra, Spall, Fili, Lise, Erblin, Daniele, Pinna, Thomas, Arianna, Vita, Munti, Fede, Mati, Syl, Lucia. Dopo anni in via quartieri si arriva a detestare la facoltà. Sebbene questo sia particolarmente veritiero in questo periodo, io devo ringraziare anche quel fatidico test d’ingresso di settembre 2006 che mi ha permesso di entrare in questo calderone di lavoro e amicizie che hanno reso questi anni perfetti.

Marco


Parto a dire “grazie” a Marco che mi ha costretto a farlo. Grazie Marco Marchini perché mi hai suppurato ma soprattutto sopportato molto fino alla fine, sia dentro che fuori dalla facoltà, nella gioia e nel dolore, nella salute e nell’ubriachezza molesta; sempre però con molta calma. Insieme a lui per completare la triade della laurea ringrazio Eleonora per averci spesso “trascinato” nel lavoro. Un grazie enorme a babbo e mamma che senza chiedere mai nulla mi hanno sempre appoggiato. Se finalmente ce l’ho fatta in fondo è solo merito vostro. Uno speciale ringraziamento/dedica và all’ammiraglio Savio; ti prometto che mi vestirò bene anche un altro giorno, magari anche con i capelli corti e la barba fatta. Molte persone ci sarebbero poi da ringraziare, gli amici, la ragazza, chi ci ha aiutato e chi ci ha ostacolato. Senza sprecare troppo inchiostro a voi dico che cercherò di ringraziarvi in un altro modo che non sia quello di scrivervi qui. E a tutti gli altri che abbiano la mia maledizione! Gianluca


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capitolo: Dispositivo della legge di T.A. Markus “the Architectural Rewiew”, ottobre 1954

cittadini in provvisoria libertà, con un’intervista di Enrico Deaglio al direttore del carcere di San Vittore e con una nota aggiornata sullo stato delle galere italiane, Sellerio Editore, Palermo, 1995 _Scarcella L., Di Croce D., Gli spazi della pena nei modelli architettonici, in Rassegna penitenziaria e criminologica, fascicolo 1/3, 2001

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STRATEGIA URBANA

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FASE PROGETTUALE _Lotus n° 149, Rivista semestrale, Editoriale Lotus s.r.l., 2011 _Lotus n° 150, Rivista semestrale, Editoriale Lotus s.r.l., 2012 _Territotio n°53, Rivista trimestrale del Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Franco Angeli, 2010 _A+T, Revista Indipendente de Arquitectura + Tecnologia, n° 39-40, a+t publishers, 2012 _A+T, Revista Indipendente de Arquitectura + Tecnologia, n° 37, a+t publishers, 2011 _A+T, Revista Indipendente de Arquitectura + Tecnologia, n° 38, a+t publishers, 2011 _A+T, Revista Indipendente de Arquitectura + Tecnologia, n° 25, a+t publishers, 2005 _Topos, The International Review of landscape architecture and urban design, n°79, 2012 _Topos, The International Review of landscape architecture and urban design, n°80, 2012 _Topos, The International Review of landscape architecture and urban design, n°78, 2012 _Arquitectura Viva, n°141, Madrid, 2011

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Sitografia sistema penitenziario _agoradelrockpoeta.blogspot.it _associazioneantigone.it/osservatorio/rapportoonline _clandestinoweb.com _corriere.it/inchieste/viaggio-dentro-carceri-italiani-dove-sovraffollamento _domusweb.it/it/architecture/sicurezza/ _doppiozero.com/materiali/che-fare/la-cella-e-il-territorio _eddyburg.it _giustizia.it/ _ristretti.it/ _temi.repubblica.it/micromega-online/ _www.carcerespaziourbano.it/menu/?portfolio=casi-studio _www.ilpost.it/2012/05/03/le-violenze-e-le-torture-nelle-carceri

sTORIA CARCERE|CITTA’ _alreeshdesigns.wordpress.com


_archiviofoto.unita.it

FASE PROGETTUALE

_archivioluce.com/archivio _wikipedia.org

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CASO STUDIO: MODENA _cartografia.comune.modena.it/index1.html

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Crediti fotografici

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flickr.com francescococco.com

STRATEGIA URBANA _collectifetc.com/category/blog _milan.the-hub.net/2012/07/innovazione-sociale-e-imprenditoria-sociale-non-la-stessa-cosa/ _provincia.mi.it/parcosud/comuni/index.html _www.temporiuso.org/ _www.urban-reuse.eu/?pageID=home _www.urbantactics.org/home.html

panoramio.com


Elaborati grafici Tavola 0. ABSTRACT Tavola 1. CARCERE E SPAZIO URBANO. Come la presenza del carcere influenzi la coscienza collettiva. Tavola 2. L’ARCHITETTURA DELLA DETEZIONE Come l’architettura sia soggiogata a leggi e dettami segregativi. Tavola 3. LA PERIFERIZZAZIONE IN EMILIA ROMAGNA Analisi delle dinamiche sociali indotte dall’esternilizzazione di struttre scomode. Tavola 4. CARCERE E SPAZIO URBANO. IL CASO DI MODENA Legame tra lo sviluppo storico urbanistico e il carcere. Tavola 5. ANALISI URBANA DI MODENA Punti di forza e debolezze per promuovere una ricucitura urbana del quartiere Sant’anna. Tavola 6. OBIETTIVO CARCERE Progetti e strategie per restituire dignità alla detenzione. Tavola 7. PRINCIPI ED AZIONI PER UNA STRATEGIA TERRITORIALE Regole per la colonizzazione del quartiere Sant’Anna. Tavola 8. TEMPORANEITA’ E TEMPORALITA’ Processo di rifunzionalizzazione dell’area di progetto. Tavola 9. OFFICINE SOCIALI Nuovo assetto urbano per l’intorno del carcere Tavola 10. OFFICINE SOCIALI Bordi organici per assicurare la permeabilità all’area di progetto Tavola 11. “PARCO VIVAIO CIRCONDARIALE” Linee guida per il disegno dell’area verde. Tavola 12. NUOVI AMBITI URBANI Riconfigurazione e gestione degli spazi Tavola 13. NUOVI SCENARI Reintegrazione urbana, visiva e sociale dell’organismo carcere












10. OFFICINE SOCIALI Bordi organici per assicurare la permeabilità all’area di progetto

Sezione A-A scala 1:500 bordo-barriera su Viale La Marmora

Sezione B-B scala 1:500 bordo-attivo su Via Suore

Sezione C-C scala 1:500 attacco parco urbano-parco agricolo

Sezione D-D scala 1:500 bordo-attivo su Strada Sant’Anna

Sezione E-E scala 1:500 attacco intervento residenziale-tessuto industriale

Università degli Studi di Ferrara|Facoltà di Architettura “Biagio Rossetti”|Anno Accedemico 2011|2012

CARCERE E SPAZIO URBANO. Strumenti, regole, strategie perchè i luoghi della detenzione tornino ad essere parte del progetto urbano. Il caso studio di Modena.

Relatori: Prof.ssa Francesca Leder, Prof. Sergio Fortini|Laureandi: Eleonora Fraternali, Marco Marchini, Gianluca Savio



12. NUOVI AMBITI URBANI Riconfigurazione e gestione degli spazi Organizzazione interna dell’hub Officine Sociali scala 1:500

Possibili scenari per le aree in attesa

Rifunzionalizzazione delle preesistenze e gestione del verde

Sezione trasversale

Università degli Studi di Ferrara|Facoltà di Architettura “Biagio Rossetti”|Anno Accedemico 2011|2012

CARCERE E SPAZIO URBANO. Strumenti, regole, strategie perchè i luoghi della detenzione tornino ad essere parte del progetto urbano. Il caso studio di Modena.

Relatori: Prof.ssa Francesca Leder, Prof. Sergio Fortini|Laureandi: Eleonora Fraternali, Marco Marchini, Gianluca Savio


13. NUOVI SCENARI Reintegrazione urbana, visiva e sociale dell’organismo carcere

Università degli Studi di Ferrara|Facoltà di Architettura “Biagio Rossetti”|Anno Accedemico 2011|2012

CARCERE E SPAZIO URBANO. Strumenti, regole, strategie perchè i luoghi della detenzione tornino ad essere parte del progetto urbano. Il caso studio di Modena.

Relatori: Prof.ssa Francesca Leder, Prof. Sergio Fortini|Laureandi: Eleonora Fraternali, Marco Marchini, Gianluca Savio



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