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MINI MAL

L E S S

I S

M O R E

VOLUME 1 Gennaio - Maggio 2020 a cura di Eleonora Signorelli

/semestrale

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edit or Caro lettore, questa rivista tratterà del minimalismo a 360°.Troverai alcuni dei più importanti personaggi che utilizzano questo stile in campi differenti dalla letteratura, alla fotografia all’intirior deisgn.. Sottrarre per aggiungere. Il nostro è un’invito a soffermarci e ripensare al modo in cui viviamo e spendiamo il nostro tempo, infatti viene considerato un vero e proprio stile di vita. Secondo i minimalisti, al giorno d’oggi viviamo in un ambiente che è troppo stimolante. Inoltre, molti degli stimoli sono annunci interessati, il cui scopo è motivare al consumo, perciò arriviamo a pensare che sempre più oggetti sono indispensabili per il nostro benessere. La saggezza tradizionale ci ricorda che l’attaccamento alle cose materiali in qualche modo ci rende schiavi. Imparare a vivere il presente, orientarsi al futuro, godersi le piccole esperienze e accumulare solo ciò che serve davvero. Che ne pensate?

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// . m i n i m a l ar t

11. 12.

01 . Ar t i p l as t i c h e

16. 20.

26. 34.

44. 48.

54. 56. 58.

66. 72.

50.

6 modi per arredare una stanza in stile minimalista 5 interni in stile minimalista Cristian Sporzon

0 5 . fo to gr a f i a

40.

Nick Barclay Outmane Amahou

0 4 . i n t e r i or d e s i g n

24.

Ludvig Van Der Rhoe Dan Flavin

0 3 . gr a p h i c d e s i g n

14.

Carl Andre Dan Flavin

0 2 . Ar c h i t e t t u r a

06.

Minimalismo come stile di vita 7 modi per abbracciaere il minimalismo esistenziale

64.

Come riconoscerla Jonatan Smith

0 6 . m u s i ca 78.

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83. 88.

Philip Glass Steve Reich


content

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minimal ar t


// m i n i m a l ar t s t or i A E D O R I G I N I La minimal art è la principale tendenza che negli anni sessanta fu protagonista del radicale cambiamento del clima artistico, caratterizzata da un processo di riduzione della realtà, dall'antiespressività, dall'impersonalità, dalla freddezza emozionale, dall'enfasi sull'oggettualità e fisicità dell'opera, dalla riduzione alle strutture elementari geometriche. Il termine fu coniato nel 1965 dal filosofo dell'arte inglese Richard Wollheim nell'articolo intitolato, appunto, Minimal Art, all'interno della rivista Arts Magazine. Egli parla di "riduzione minimale", ma nel senso del contenuto artistico, relativamente a lavori dove entrano in gioco oggetti al limite indistinguibili dalla realtà quotidiana, oppure forme ed immagini con valenze anonime e impersonali, citando da un lato i ready-made di Duchamp, che sono un punto di riferimento fondamentale per quello che riguarda la componente concettuale di ogni operazione riduzionista, e dall'altro Reinhardt, dal quale trae l'aspetto relativo alla riduzione purista della pittura e la sua concezione dell'"arte per l'arte", tesa all'eliminazione di tutto ciò che viene percepito come non essenziale. Linee rette, geometria, industria, freddo, razionalità, spazio, quadrato, cerchio, monocromo, scultura, labi-

rinto, struttura, America, pulizia, bianco. Se dovessimo fare un brainstorming sul minimalismo, queste potrebbero essere alcune idee che direttamente si collegano a tale tendenza artistica. In effetti il minimalismo è stato un movimento basato sulla semplicità delle forme, freddezza e razionalità; l’elemento ricorrente è il cerchio e il quadrato. Insomma, una palese reazione al precedente espressionismo astratto (Pollock) e alla Pop Art che, fondandosi sulle icone del momento (pensiamo alle famose Marilyn di Warhol) e sui prodotti di massa fece dello sgargiante colore la sua cifra stilistica. Questa cosa è molto minimal” è un’espressione che sentiamo spesso, anche se raramente ci soffermiamo a pensare che cosa significhi davvero il termine “minimalista” e da dove provenga. La stragrande maggioranza di noi, ha un’ idea vaga e generale di cosa voglia dire minimal e, soprattutto, se la nostra professione non abbraccia campi come l’architettura, il design o l’arte, pecchiamo di ignoranza, magari sì, sappiamo di che cosa stiamo parlando, ma non siamo totalmente informati a riguardo e alla domanda “che cos’è il minimalismo?”, rischiamo di non dare una risposta chiara.

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Al giorno d’oggi, anche se in contraddizione con i suoi principi, il minimalismo ha influenzato ed è influenzato in modo tale che sia diventato un eclettico mix di stili che contraddicono uno dei suoi principi fondamentali: la conservazione di forme pure. Le origini La minimal art è caratterizzata da un processo di riduzione della realtà, della non espressività, dall’impersonalità, dalla freddezza emozionale, dall’enfasi sull’oggettualità e fisicità dell’opera, dalla riduzione alle strutture elementari geometriche, insomma di tutto ciò che era la ricerca dell’essenziale e che andava contro a tutto ciò che era venuto prima: una corrente che diceva chiaramente “basta con i fronzoli”. Il termine venne coniato nel 1965 dal fi-

losofo dell’arte inglese Richard Wollheim, quando venne scritto un articolo intitolato, appunto, Minimal Art, all’interno della rivista Arts Magazine. Wollheim tratta di “riduzione minimale”, ma nel senso del contenuto artistico, riguardo a lavori dove entrano in gioco oggetti al limite indistinguibili dalla realtà quotidiana, oppure forme ed immagini con valenze anonime e impersonali. Da un lato venne quindi citato il ready made di Duchamp, punto di riferimento fondamentale per quello che riguarda la componente concettuale di ogni operazione riduzionista. Mentre dall’altro venne nominato Reinhardt, dal quale trae l’aspetto relativo alla riduzione purista della pittura e la sua concezione dell’“arte per l’arte”, tesa all’eliminazione di tutto ciò che viene percepito come essenziale. I principi Il minimalismo è la riduzione all’essenza. Mies Van Der Rohe spiega nel suo manifesto “less is more”, che divenne poi lo slogan per antonomasia del movimento, che tutto si deve ridurre solamente agli elementi di base, quelli necessari, sempre rimanendo al passo con la modernità. Per seguire a pieno i principi del minimalismo allora, vedremo l’uso di colori neutri e di forme geometriche semplici e precise e soprattutto, ogni spazio deve veder latitare fronzoli e decorazioni non necessarie. Le cromie predilette da questo stile saranno il bianco e il nero, le pareti risulteranno principalmente bianche per mettere in evidenza tutte le sue sfumature. Il minimalismo pretende essenzialità, senza questa, non stiamo parlando di nulla. Il mobilio Parlare di mobilio rende tutto più complicato, anche se c’è da dire che una linea base c’è ed è quella di cui vi abbiamo parlato poc’anzi. Le forme geometriche devono avere un taglio netto ed essere sobrie, i colori che utilizzeremo saranno sempre cromie neutre, principalmente dei toni del bianco, del nero e talvolta del grigio. Sceglieremo solamente l’arredo necessario, lasciando perdere ciò che è superfluo: l’ambiente avrà un tono austero e sembrerà quasi vuoto per la mancanza di mobili che, all’interno di altre abitazioni in altri stili, sono molto usati. Si consiglia di lasciare le pareti così come sono, naturali e lisce o comunque rivestite in pietra monocromatica. Se proprio non potete fare a meno delle decorazioni, ricordate di decorare solo con piccoli dettagli, evitando l’eclatante. L’illuminazione La luce aiuta a percepire lo spazio più pulito e ordinato, due dei principi di questo stile. Quando la luce naturale fa spazio all’oscurità, ecco che entrano in gioco tutte le lampade e lampadine seminate per casa. Anche qui, la scelta dei nostri punti luce, verterà su forme semplici ed essenziali. Utilizzeremo quindi poche lampade, dall’illuminazione fredda e potente, possibilmente che incornicino bianco su altro bianco, per rendere meglio l’idea dello stile che stiamo abbracciando nella nostra abitazione. Con un’architettura giusta, un mobilio essenziale e dalle linee nette e un’illuminazione accattivante, riuscirete perfettamente a ricreare quel minimalismo del quale i grandi di un tempo parlavano e che ancora oggi fa tendenza e piace ai più.

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// m i n i m a l ar t VALZORIZZARE SOLO GLI OGGETTI PIÙ IMPORTANTI LA PERFEZIONE SI OTTIENE NON QUANDO NON C’È NIENT’ALTRO DA AGGIUNGERE, BENSÌ QUANDO NON C’È PIÙ NULLA DA TOGLIERE. Antoine de Saint-Exupéry

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// m i n i m a l ar t minimalismo

C O M E S T I L E D I V I TA Si tratta di una concezione di vita dove si tende a possedere, a volere e fare solo quello che davvero è necessario, pertanto essenziale. Al contrario di come la società concepisce il concetto di minimalismo, come stile di vita, dall'esterno, non si tratta solo di non possedere niente e quindi vivere in uno spazio vuoto o sterile e possedere un numero predefinito di oggetti. Lo stile di vita, si ispira a ciò da cui l'arte stessa ha preso spunti, ovvero la filosofia zen giapponese e dunque comprende non solo lo spazio fisico, ma anche mentale. È un modo per evadere agli eccessi del mondo che ci circonda — gli eccessi del consumismo, del materiale che si possiede, del disordine, dell'avere troppe cose futili che portano alla confusione. Quindi è sottinteso che dia un senso di libertà sia a livello fisico (per l'assenza di oggetti fisici, che potrebbero rendere l'ambiente in cui ci si trova opprimente) che mentale (praticando, ad esempio, la meditazione). Questo stile di vita permette di concentrare le proprie forze e la propria mente sulle cose più umili ed accessibili all'umano, cose che danno senso e valore alla vita.

Minimalismo e s i s t e n z ia l e

La società in cui viviamo è fondata su regole che ci danneggiano. Essa è strutturata per non consentirci di essere appagati. Ogni giorno ci costringe a dannarci l’anima per guadagnare sempre di più con l’obiettivo di acquistare oggetti che non soddisferanno le nostre esigenze primarie. Allo stesso modo, stipiamo nelle nostre agende impegni che non riusciremo a portare a termine. E ci creiamo aspettative per il futuro come se fossimo immortali e avessimo a disposizione un tempo infinito. Mi sono occupato di time management per anni senza rendermi conto dell’importanza del minimalismo in questo specifico campo. Nella società dell’informazione, o meglio nella società dell’overload di informazione in cui viviamo, il minimalismo è divenuto uno strumento di sopravvivenza.

V i v e r e da m i n i m a l i s ta

Applicare il minimalismo nella tua vita significa fare focus su ciò che conta. Rimuovere le distrazioni. Concentrarti su ciò che produce significato. Spendere il tempo che ci rimane in attività che rendano significativa la nostra vita. D’altra parte, quando togli il superfluo, ti rimangono piu soldi ed energie da investire in quello che fa la differenza. In accordo con il principio di Pareto, il minimalismo diventa uno strumento efficace per dare significato alle nostre attività. L’economista italiano Pareto riuscì a dimostrare come l’80 per cento dei risultati che ottieni siano riconducibili al 20 per cento delle attività che svolgi. Bisogna eliminare le distrazioni nella mia vita per concentrarmi sulle cose che le danno un senso.Per arrivare a questo punto di partenza è stata necessaria una profonda analisi di me stesso, che è scaturita dalle 13 difficili domande per capire chi sei che ho elencato in un precedente post. Bisogna applicarlo in differenti aree: possesso di oggetti fisici; indumenti; app sui dispositivi; attività; notizie; riposo; cibo; persone. Per ognuno di questi aspetti, si deve eliminare quanto non aggiunge valore.

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7 m od i P E R A B B R A C C I A R E IL MINIMALISMO e s i s t e n z ia l e

01 .

Inizia ad apprezzare quello che hai anziché stare a cercare quello che la società ti impone: per me ha significato definire il successo di questo piccolo blog in base agli apprezzamenti che ricevo online e offline anziché guardare al traffico o al numero di iscritti alla newsletter.

02.

Definisci te stesso: un passaggio di cui comprendo l’importanza mano a mano che procedo nella mia ricerca di come vivere intenzionalmente, e me ne accorgo per il numero di volte che richiamo il post in cui ho raccontato come sono riuscito a (ri) definire la mia vita.

03.

Chiarisci la tua visione del futuro: un altro passaggio fondamentale, di cui ho ampiamente trattato in Sognare per Vivere.

04.

Metti in agenda un obiettivo per volta, perché se non ti concentri su una cosa sola non sei in grado di evitare le distrazioni che la vita ti riserva, e perché il multitasking ti uccide.

05.

Procedi per piccoli passi: è l’unico modo che hai per raggiungere obiettivi frequentemente, aumentando così la dopamina che il tuo cervello rilancia e di conseguenza la tua forza di volontà nel raggiungere il tuo obiettivo finale, sapere sempre cosa fare e non trovarti mai dinanzi a uno scoglio insormontabile.

06. 07 .

Ignora il resto, che poi, se vogliamo, è la regola principale del minimalismo: quando hai deciso cosa conta, tutto quanto compete in termini di attenzione con questo lascialo andare. Imparare a meditare ti aiuterà nel trovare il corretto atteggiamento mentale. Svuota i cassetti e dai in beneficenza quanto avanza, oppure regalalo: è il modo più veloce, mi pare, di iniziare a fare pulizia fisica nella propria vita, in più aggiungendo un senso di piacere nel farlo. È un casino, ti avviso: lo sto facendo da mesi e non vedo ancora la fine! La verità è che la vita è un casino. Il fallimento è tale solo se arriva nell’ultima pagina. Altrimenti, è un colpo di scena. Rallentare. L’unico modo di evitare il fallimento finale è concentrarsi sulle cose davvero importarti. Per farlo c’è solo una strada: rallentare.

FARE O NON FARE. NON C’È PROVARE.

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- Yoda


// m i n i m a l ar t

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01 .

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ar t i plastiche


0 1 . ar t i p l a s t i c h e

Dal punto di vista critico il termine minimalismo andrebbe applicato in senso stretto solo alle esperienze artistiche americane di questo tipo, ma viene normalmente utilizzato in senso più allargato, anche per definire l’insieme delle ricerche europee riduzionistiche e analitiche, in certi casi in anticipo rispetto a quelle oltreoceano. I lavori sono costituiti da grandi volumi geometrici, da unità elementari primarie, monolitiche, con forme cubiche, rettangolari e simili, da elementi organizzati in strutture aperte e sequenze seriali; i materiali utilizzati sono di tipo industriale ed edilizio (pannelli di legno, lastre di metallo, formica, plexiglas, vetro, mattoni, travi, tubi fluorescenti al neon) strettamente connessi alla forma e ai colori che coincidono

con quelli del materiale stesso oppure si riducono al bianco e al grigio; l’installazione degli elementi sul pavimento o sulle pareti è in diretto rapporto con lo spazio espositivo in modo da coinvolgerlo come componente stessa del lavoro artistico: all’assenza, o riduzione minimale delle relazioni interne, si contrappone l’esperienza delle relazioni esterne fra spazio e oggetti. Spesso le opere sono realizzate attraverso procedimenti industriali, a scapito dell’artigianalità. L’esecuzione è sottratta alla mano dell’artista e affidata alla precisione dello strumento meccanico. Minimalismo ovvero il massimo risultato con il minor impiego di mezzi possibile, una corrente di connotazione prevalentemente americana, con diffusa influenza anche in Europa.

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car l an d r e Carl Andre (Quincy, 16 settembre 1935) è un pittore e scultore statunitense, appartenente alla corrente minimalista. Le sue sculture sono forme semplici ottenute dall'accostamento di unità geometriche elementari di produzione industriale usate senza manipolazioni. Esse sono pensate e realizzate in relazione al luogo espositivo e non hanno nessun intento narrativo o allusivo ma dichiarano semplicemente se stesse come oggetti. Carl Andre riconosce come artisti che hanno influenzato il suo lavoro Frank Stella, Constantin Brâncusi e successivamente il costruttivismo russo. A 20 anni dall’ultima rassegna francese dedicata a Carl Andre, il Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris ospita un’imponente retrospettiva intitolata a uno dei padri del Minimalismo. Carl Andre. Sculpture as place, 1958 – 2010, allestita fino al 12 febbraio prossimo, ripercorre la lunga carriera dell’artista originario del Massachusetts attraverso un denso corpus di opere. Ben 40 sculture di dimensioni monumentali,

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numerose poesie, lavori su carta e fotografie testimoniano l’approccio multiforme e allergico alle definizioni adottato da Carl Andre sin dagli esordi, affiancando alcuni interventi mai esposti in precedenza come Dada Forgeries. Nume tutelare del Minimalismo insieme a Donald Judd e Robert Morris, ma anche strettamente legato alla corrente concettuale e della Land Art, Andre ha saputo imporsi grazie a un’ineguagliabile interpretazione del linguaggio scultoreo. La mostra parigina sottolinea il suo talento nel dare un nuovo significato a oggetti e materiali di uso comune, assemblandoli fino a comporre opere che innescano l’attiva partecipazione del pubblico. Legno, metallo, mattoni e oggetti di derivazione industriale costituiscono da sempre la materia prima usata dall’artista per le sue sculture. Assemblaggi realizzati all’interno di musei e gallerie ma anche sullo sfondo del paesaggio urbano, dando vita a un efficace rapporto di scambio e dialogo con il contesto ospite.


0 1 . ar t i p l a s t i c h e

SCULTURA A TERRA FIFTH COPPER TRIODE [QUINTO TRIODO DI RAME], 1975 Invita lo spettatore a camminare sulla superficie delle lastre metalliche.

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0 1 . ar t i p l a s t i c h e

C l a s t i ca

U N A V I A N E G A T I VA A L L A S C U L T U R A Della scultura Andre ha sovvertito ogni singolo aspetto: dalla verticalità (le sue opere si calpestano come aiuole), all’antropomorfismo della statuaria, trattandosi di meri assemblaggi di elementi preesistenti. Non sono opere classiche ma, per riprendere un termine tecnico riferito a rocce e minerali ed evocato dall’artista, clastiche, dal greco klastos: rotto, spezzato. In modo simile a Smithson, Andre sottrae la scultura alla sua genealogia per ricongiungerla con la petrografia. Niente colla, chiodi o viti: il materiale non viene trasformato, modellato, incollato, saldato, fuso, intagliato ma semplicemente assemblato o dentellato – e questa operazione è compiuta non nel chiuso del suo atelier ma direttamente nello spazio espositivo. Non c’è più una scultura in uno

spazio ma la scultura come spazio, “sculpture as place” come ha detto Andre, con una locuzione che è diventata un po’ il suo marchio di fabbrica. Non si tratta della negazione della scultura – cosa altro sono quelle di Andre se non sculture? –, piuttosto la volontà di percorrere una via negativa e affatto desolata. Vi si ritrovano, tra gli altri, Brancusi, Tatlin e il costruttivismo russo, le Sculture involontarie di Brassaï e Dalì (pubblicate su “Minotaure” nel 1933), il minimalismo in blocco, la Scultura da passeggio (1967) di Michelangelo Pistoletto, le One Minute Sculptures (1997-8) di Erwin Wurm, Gabriel Orozco eccetera. Ripetizione di unità identiche, la scultura di Andre resterà nella storia per aver sdraiato al suolo la colonna infinita di Brancusi.

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dan f l av i n

Dan Flavin (New York, 1º aprile 1933 – New York, 29 novembre 1996) è stato un artista statunitense. Era un artista minimalista autore di installazioni realizzate con comuni lampade al neon da parete. Questi lavori, da lui chiamati “icons”, sono comunemente riconosciuti come iniziatori del movimento minimalista del 1963. La più lunga serie di lavori di Flavin si chiama “Monuments to V. Tatlin”, un gruppo di installazioni a luce bianca in omaggio allo scultore costruttivista Vladimir Tatlin. Flavin ha studiato storia dell’arte per breve tempo alla New School for Social Research, e disegno e pittura alla Columbia University. Nel 1992, Flavin ha sposato Tracy Harris, nel Museo Guggenheim. Dan Flavin, nato in Jamaica, quartiere di classe media del Queens, a New York, ha sempre considerato se stesso più come un “impetuoso massimalista” che come un artista minimalista, così come era stato classificato. Portato ad utilizzare materiali industriali, forme geometriche semplici e facendo interagire queste con lo spazio circostante in cui esponeva le sue opere e con lo spettatore che le osservava, si può riportare il suo lavoro al pari di quello di altri artisti minimalisti, ma gli effetti e l’enfasi creati con la luce lo dispongono altrettanto fortemente nella corrente artistica della Op art, che si basa proprio sull’esplorazione

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delle variazioni di colori e di forme in base alle differenze di luci. Flavin, infatti, lavorava con la luce, con l’elettricità. In realtà andava ben oltre quello che gli artisti della Op art creavano, perchè in qualche modo assorbiva i concetti fondamentali e li traduceva in opere tridimensionali, in sculture. La carriera di Dan Flavin si basa molto anche sul negare molte interpretazioni che sono state fatte sulla sua arte. In primis ha negato che le sue opere di luce fossero delle sculture e che dietro le sue installazioni ci fosse qualche pensiero trascendentale. “È quello che è, e non è nient’altro”, diceva di ciò che creava, allontanandosi con veemenza da ogni tentativo di affibbiare ai suoi lavori dei simbolismi o delle dimensioni sublimi. Sosteneva che la sua arte consisteva solo nell’utilizzare luci fluorescenti che rispondessero ad una cornice architettonica ben precisa. Nonostante ciò, il suo modo di pensare all’arte era molto concettuale, per Flavin tutto si traduceva ad un pensiero: “Mi piace l’arte come pensiero più dell’arte come lavoro. Ho sempre sostenuto questo. È importante per me non sporcarmi le mani. Non perchè sono istintivamente pigro. È una dichiarazione: l’arte è pensiero.”


0 1 . ar t i p l a s t i c h e i s ta l l a z i o n i Luce contrapposta al buio, luce come salvezza, luce come divinità, luce come pace, luce come liberazione. Si potrebbe scrivere più di un trattato sui significati che la luce ha acquisito nel corso del tempo, ma in questa sede ci limitiano a dire che qualcuno, la luce, l’ha utilizzata come strumento per fare arte. E non parlo di luce resa a colpi di pennelate chiare sulla tela, ma luce derivata da una fonte di energia, da quella più ovvia: una lampadina. Dan Flavin è l’artista in questione, esponente di quella corrente artistica detta Minimalismo, che percorre gli anni 60 e che è caratterizzata dalla riduzione, dall’inespressività, dall’oggettualità che sovrasta la soggettualità. Uno degli scopi della corrente minimal, che influenza anche architettura, letteratura, design, è quello di eliminare il superfluo e valorizzare solo gli elementi necessari. E se guardia-

mo a quello che utilizza Dan Flavin per le sue installazioni capiamo che effettivamente servono solo un paio di oggetti: luce al neon e una stanza da illuminare. Le installazioni permanenti di Flavin in Italia sono due. A Milano si può ammirare la Chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, consacrata nel 1932. L’intervento dell’artista fu voluto dal parrocco della Chiesa e la progettazione dell’opera, iniziata nel Maggio 1996, fu completata soltanto due giorni prima della morte dell’artista, avvenuta il 29 Novembre dello stesso anno.Una sorta di testamento di un artista che era tutto, fuorchè cristiano e praticante. Sembra che inizialmente l’artista non volesse avere nulla a che fare con questo progetto, salvo poi cambiare idea dopo aver ricevuto una lettera dal sacerdote della Chiesa.

“UNO POTREBBE NON PENSARE ALLA LUCE COME UN DATO DI FATTO, MA IO LO PENSO. ED È, COME HO DETTO, COSÌ CHIARA E APERTA E DIRETTA, UN’ARTE COME NON LA TROVERETE MAI.”

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LA LUCE CONTRAPPOSTA AL BUIO, LUCE COME SALVEZZA, LUCE COME DIVINITÀ, LUCE COME PACE, LUCE COME LIBERAZIONE Lavorò quindi a distanza dal suo studio a New York, sui disegni e sulla planimetria dell’edificio, con l’intento di esaltare e illuminare i vari ambienti, creando un tutt’uno tra luce e architettura. Entrando nella navata, si è avvolti dal blu e dal verde, i colori dei tubi al neon che Flavin posiziona nel corpo centrale della Chiesa. Il transetto è invece occupato dalla luce rossa, l’abside è oro (essendo il luogo sacro per eccellenza dell’edificio). Nel transetto e nell’abside sono anche presenti delle file di neon a luce di Wood, più semplicemente a raggi UV. In questo modo gli spazi architettonici dell’edificio religioso sono divisi dai colori, e accompagnano il percorso del fedele dall’ingresso fino all’altare, il luogo più importante, intessendo di significati antichi la prima opera d’arte contemporanea progettata e conservata in un’edificio religioso. Un’altra installazione permanente si può vedere a Villa Panza a Varese. La Villa fu costuita nel 1748 dal marchese Paolo Antonio Menafoglio, successivamente, nel 1823, a causa della mala gestione delle finanze, la Villa passò a Pompeo Litta Visconti Arese, che la ampliò e la trasformò in una vera e propria dimora signorile. Dal 1956 il nuovo proprietario della Villa, Giuseppe Panza di Bumio, decise di raccogliere all’interno un’ampia collezione di arte contemporanea americana, di cui era appassionato. In questa Villa Flavin fu chiamato per trasformare, nel vero senso della parola, alcune stanze, alterandone la percezione degli ambienti. Posizionando i tubi al neon di diversi colori nelle stanze e nel corridoio, all’occhio del visitatore gli ambienti cambiano colore se osservati dall’interno o dall’esterno, in un gioco di colori complementari che rende l’idea solo se visto e sperimentato di persona. Un bell’esempio di arte che dialoga con lo spazio, o più precisamente, arte che è data dall’incontro tra lo spazio e la luce.

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0 1 . ar t i p l a s t i c h e

Villa Panza a Varese

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02.

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ar chitettura


0 2 . ar c h i t e t t u r a ridurre al massimo Lo stile di architettura minimalista si concentra sulla multifunzionalità e multigestione di uno spazio. Si tratta di rendere una stanza il più adatta possibile ad assumere più di una funzione; come fornendo ad una sala soggiorno un’apertura opzionale del soffitto per renderlo a proprio piacimento uno spazio semi-esterno, gradibile in una giornata estiva come in una giornata invernale, rinunciando ad esempio alla possibilità di avere una terrazza adiacente alla camera e preservando indubbiamente più spazio. Con multifunzionalità s’intende il ventaglio delle possibilità di funzione che uno spazio può fornire. Con multigestione invece s’intende maggior praticità di utilizzo delle funzioni che può assumere uno spazio, ad esempio, attraverso l’impiego di dispositivi domotici che facilitino ed ottimizzino la possibilità multifunzionale di una stanza. In tempi moderni si è voluto proporre una nuova concezione di modelli abitativi, che consiste in “casette” mobili sviluppate in un numero inferiore a una decina di metri quadrati. Estremizzando l’idea di risparmio spaziale, e coerentemente di quello materiale ed economico; così anche adattando il minimalismo adun’ideologia ambientalista. Con minimalismo complessivo s’intende l’idea di ridurre al massimo il numero di prodotti e materiali impiegati nella costruzione, ovvero nel componimento di un corpo archi-

tettonico. Con minimalismo locale s’intende invece l’idea di ridurre al massimo lo spazio urbano o semplicemente fisico che occuperebbe un corpo architettonico. Infine, con minimalismo detrattivo s’intende l’idea di ridurre al massimo le caratteristiche estetiche aggiuntive che possederebbe un corpo architettonico. A questa cifra stilistica che si è imposta sulla scena internazionale solo negli ultimi dieci anni, ma che si caratterizza per le profonde radici estetiche e culturali, Franco Bertoni dedica il recente volume Architettura minimalista, in cui, attraverso un’accurata analisi supportata da un apparato iconografico di grande consistenza e prestigio, cerca di superare i molti luoghi comuni e le inevitabili ovvietà, dovute da un lato alla superficialità con cui è stata frequentemente accusata di rigidità e dogmatismo una scelta estetica che presenta, al contrario, spesso perentorie motivazioni etiche, dall’altro alla straordinaria “voracità” dell’immaginario contemporaneo, che, alla continua ricerca di stimoli e novità, ha spesso confuso con una moda transitoria, inondando città e riviste di epigoni e copie, quella che appare, piuttosto, come una fondamentale esigenza di dignità e chiarezza, una specie di silenzioso “richiamo all’ordine” per quanti hanno fatto dell’architettura il palcoscenico privilegiato del proprio narcisismo e della propria auto-celebrazione.

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l u dw i g M i e s van d e r Accetta la modernità senza subirla. Disegna l’ordine e la razionalità. E quando prova a prendere sul serio le proprie domande di uomo, incontra il pensiero di Agostino e Tommaso. Terza puntata della serie sugli architetti contemporanei Lorenzo Margiotta e Carlo Maria Acerbi05.12.2012 Ludwig Mies van der Rohe è il padre dell’estetica architettonica contemporanea. Se Le Corbusier incarna l’anima più poetica del Movimento Moderno, l’architetto tedesco ne rappresenta l’aspetto più profondamente filosofico. Vive tra due mondi: l’Europa delle avanguardie, dove nasce nel 1886 (ad Aquisgrana, in Germania) e l’America della modernità e dei grattacieli, dove muore nel 1969. Il suo interesse per l’architettura nasce dal padre, scalpellino. Durante l’infanzia Mies aiuta nella cava di famiglia, frequenta un corso di arti e mestieri e, lavorando da artigiani locali, sviluppa una grande capacità di disegno a mano libera. A 19 anni si trasferisce a Berlino, dove dapprima lavora senza salario in vari cantieri della città, poi entra nello studio di Bruno Paul come disegnatore di mobili e frequenta l’accademia di belle arti. L’incontro con la grande architettura avviene nel 1907, quando Mies approda nello studio di Peter Behrens, uno dei maestri dell’architettura del tempo, dove lavora al fianco di Gropius e per breve tempo anche di Le Corbusier. Da Behrens apprende l’idea di architettura come «arte di costruire», oltre ad un «senso profondo della grande forma», ossia la forma monumentale, evocativa dello spirito del tempo.

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0 2 . ar c h i t e t t u r a

D A L b AU H AU s

p i l as t r o A C R O C E

ALL’ILLINOIS INSTITUTE OF TECHNOLOGY

E L’EDIFICIO AD AULA

Nel 1912 lascia lo studio di Behrens e l’anno successivo apre la propria attività a Berlino. Sono anni in cui si dedica alla ricerca teorica, scrive su importanti riviste d’avanguardia ed è autore di progetti-manifesto. Si afferma, dunque, come una delle principali personalità dell’architettura tedesca, cosa che gli vale un ruolo di primo piano tra i docenti del Bauhaus, la scuola d’arte, design e architettura moderne dove insegnano maestri come Gropius, Klee e Kandinsky. È in questi anni, come testimoniano alcuni documenti emersi dai suoi archivi, che conosce e diviene amico di Romano Guardini, che in quel periodo frequentava il mondo degli artisti d’avanguardia per capire i presupposti culturali di questi movimenti artistici. I due scambieranno importanti riflessioni sul grande tema della modernità e della sua relazione con l’uomo. Quando, a metà degli anni ‘30, il governo nazista dichiara apertamente la propria ostilità ai programmi del Bauhaus, Mies, allora direttore della scuola, è costretto a chiuderla e a lasciare l’Europa per gli Stati Uniti. Qui, dove la sua fama è già notevole, diviene preside della scuola di architettura Armour Institute of Technology di Chicago, dove formerà intere generazioni di giovani.

Le opere di Mies hanno segnato il punto più avanzato della modernità in architettura. Alcuni edifici, oltre a essere specialmente evocativi della sua poetica, rappresentano vere e proprie pietre miliari del costruire moderno. Il Padiglione di Barcellona, costruito per l’Esposizione Universale del 1929, è la sintesi di una lunga ricerca sull’abitazione e segna dei “punti di non ritorno” nella disciplina della composizione architettonica e nelle tecniche costruttive: il pilastro a croce in acciaio, la separazione degli spazi attraverso setti ortogonali indipendenti, la definizione dello spazio della casa attraverso l’uso di un recinto che la separa dalla strada. Nei Lake Shore Drive Buildings Apartments di Chicago (1948-‘51), invece, Mies inventa il cosiddetto curtain wall, un sistema di facciata realizzato in lastre di vetro sostenute da telai d’acciaio. Una novità epocale che rivoluziona il rapporto tra interno ed esterno degli edifici – prima di allora esisteva solo la tradizionale muratura con finestre – offrendo a tutti gli appartamenti l’affaccio sul lago Michigan. Nel Seagram Building di New York (1954-‘58) l’invenzione è urbana: Mies arretra il grattacielo rispetto al filo della strada quando nessuno lo faceva – la base dell’edificio occupava sempre l’intera superficie dell’isolato in cui era inserito. In tal modo lo mette in risalto e, attraverso la piazza, costruisce un rapporto con la città. Ci sono poi architetture che contribuiscono a definire in modo definitivo la tipologia dell’edificio ad aula. Il luogo più semplice e al contempo universale: uno spazio indiviso, libero da pilastri e definito solo da un tetto, in cui le persone possono riunirsi per le funzioni più diverse. Una sorta di moderna piazza coperta. Sono la Crown Hall di Chicago (1950-‘56), sede dell’Illinois Institute of Technology; la Convention Hall, sempre a Chicago, mai costruita; la Neue Nationalgalerie di Berlino. Non mancano progetti urbani, come Lafayette Park, un grande quartiere di Detroit (1955), in cui Mies realizza la progettazione urbana come un’opera di ordine e riafferma il principio caro al Movimento Moderno di città contemporanea costruita nella natura. Celeberrima, infine, è Casa Farnsworth, in cui Mies costruisce un luogo per stare nel bosco. La casa è, essenzialmente, il luogo dello stare – una parola magica per lui – e la qualità dello stare è definito dal rapporto con la natura. L’insieme di queste opere ha definito uno stile, nel tempo soggetto a molte copiature e a grosse riduzioni. Ma l’eredità più importante consiste in un metodo di lavoro, che ha tra i suoi presupposti fondamentali una straordinaria attività teorica.

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CHE COS'È L ' ar c h i t e t t u -

ra?

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«Quando ero giovane iniziammo a chiedere a noi stessi: “Cosa è architettura?”. Lo chiedemmo a chiunque. Essi dicevano: “Quello che noi costruiamo è architettura”. Ma non eravamo soddisfatti di questa risposta. Finché capimmo che era una domanda inerente la verità: cercammo di scoprire che cosa realmente fosse la verità. Rimanemmo incantati trovando una definizione di verità di Tommaso d’Aquino: “Adaequatio rei et intellectus”. Non l’ho mai dimenticato». Mies legge molto, fin da giovanissimo, «per avere le idee chiare su quanto accade, sui caratteri del nostro tempo e capire il significato di tutto». Per rispondere alle sue domande più profonde, gli sono d’aiuto soprattutto i filosofi e i teologi medievali, che Mies conosce per la sua origine e formazione cattolica romana: «Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino mi hanno spinto a pensare in modo più chiaro e credo che dopo averli studiati ho capito meglio i problemi». Si definisce un uomo religioso, anche se – afferma – «non sono affiliato a nessuna Chiesa». Il suo mestiere, il fare architettura, è il campo su cui mette in gioco le questioni fondamentali: «Dobbiamo mirare al nocciolo della verità. Le domande relative all’essenza delle cose sono le uniche domande importanti». In architettura, per Mies, la verità ha a che fare innanzitutto con il tema della costruzione. L’architettura stessa è, nella sua definizione, «chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta». Che cosa intenda per «chiarezza costruttiva» lo si comprende bene quando parla della cappella di Aquisgrana: «Ricordo che ad Aquisgrana, la mia città natale, c’era la cattedrale e la cappella era un edificio ottagonale fatto costruire da Carlo Magno. Nei secoli questa cattedrale è stata trasformata. In età barocca la intonacarono interamente e aggiunsero delle decorazioni. Quand’ero ragazzo tolsero l’intonaco. Poi però non poterono andare avanti perché vennero a mancare i fondi e così si potevano vedere le pietre originali. Guardando la costruzione antica priva di rivestimenti, osservando le belle murature in pietra o in mattoni, una costruzione limpida, fatta da artigiani davvero bravi, sentivo che avrei rinunciato a tutto per un simile edificio».


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IL NOSTRO tempo È COME UN COMPITO CHE DOBBIAMO ASSOLVERE «L’architettura è sempre legata al proprio tempo. Il nostro tempo non è per noi una strada estranea su cui corriamo. Ci è stato affidato come un compito che dobbiamo assolvere. Da quando l’ho capito, ho deciso che non avrei mai considerato con favore le mode in architettura e che dovevo cercare princìpi più profondi. L’essenza dell’epoca è l’unica cosa che possiamo esprimere davvero». La premessa teorica dell’opera di Mies è la volontà di costruire un’architettura moderna, liberata dalla sovrastruttura dell’architettura ottocentesca. Un’architettura espressiva dei valori del proprio tempo, così come lo sono gli edifici antichi: le cattedrali romaniche e gotiche, gli acquedotti romani e i moderni ponti sospesi, architetture dalla cui forza Mies rimane impressionato. «Tutti gli stili, i grandi stili, erano passati, ma essi erano ancora lì». Ma quali sono i valori di un’epoca e come si riconoscono? «Capire un’epoca – scrive – significa capire la sua essenza e non ogni cosa ci venga innanzi agli occhi». Per Mies il ‘900 è l’epoca dell’economia, della scienza, della tecnologia: «Niente più avviene che non sia osservabile. Dominiamo noi stessi e il mondo in cui ci troviamo. La forza guida del nostro tempo è l’economia». Qual è allora il ruolo dell’architetto in un tempo così descritto? «Dobbiamo accettarlo – afferma – anche se le sue forze ci appaiono così minacciose. Dobbiamo diventare padroni delle forze incontrollate e disporle in un nuovo ordine, ossia un ordine che dia libero spazio al dispiegamento della vita. Sì, però un ordine che si riferisca agli uomini». Non si tratta di ritirarsi dal proprio tempo né di rimpiangere epoche passate. Al contrario, «per quanto gigantesco possa essere

l’apparato economico, per quanto potente la tecnica, tutto ciò è soltanto materiale grezzo se confrontato con la vita. Non abbiamo bisogno di meno tecnica, bensì di più tecnica. Non abbiamo bisogno di meno scienza, ma di una scienza più spirituale; non di minori energie economiche, bensì di energie più mature». Colpisce notare la totale coincidenza con quanto Romano Guardini scrive, nella nona delle Lettere dal Lago di Como, sullo stesso tema: «Per poter renderci padroni del “nuovo”, dobbiamo in giusto modo penetrarlo. Dobbiamo dominare le forze scatenate onde farle attendere alla elaborazione di un ordine nuovo, che sia riferito all’uomo. Ma, in ultima analisi, questa opera non può compiersi ove si prendano come punto di partenza i problemi tecnici; essa è resa possibile solo partendo dall’uomo vivente. Si tratta, è vero, di problemi di natura tecnica, scientifica, politica; ma essi non possono essere risolti se non procedendo dall’uomo. O meglio: ciò che ci occorre è una tecnica più forte, più ponderata, più “umana”. Ci occorre più scienza, ma che sia più spiritualizzata, più sottomessa alla disciplina della forma; ci occorre più energia economica e politica, ma che sia più evoluta, più matura, più cosciente delle proprie responsabilità». Mies fa sue le parole di Romano Guardini, dando al Movimento Moderno una declinazione che potremmo definire umana. Egli si pone come missione quella di “umanizzare” il moderno, cogliendo quanto potessero essere pericolose quelle posizioni ideologiche che identificavano la modernità con il mito del progresso e della tecnica. Orientare la tecnica al servizio dell’uomo, e darle forma, sarà il lavoro di una vita.

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l e s s i s m or e «Sapete, ogni cosa è così complicata in un edificio. Per raggiungere una chiarezza dobbiamo semplificare praticamente ogni cosa. È un lavoro duro. Bisogna combattere, e combattere, e combattere». Tutto il lavoro di Mies e della sua scuola si fonda su due pilastri fondamentali: ordine e razionalità. Per Mies l’ordine non è qualcosa che si impone ma qualcosa che va cercato e trovato, il risultato di un processo di conoscenza della natura delle cose. L’architettura, allora, non è altro che una forma di conoscenza della realtà, la ricerca della forma più rispondente alla natura delle cose. La forma è il risultato di un percorso razionale, che non ha nulla a che vedere col fantasioso o l’arbitrario, ma che procede di scelta in scelta, dalla complessità all’essenzialità, fino al punto in cui nulla può essere aggiunto e nulla tolto. La misura esatta, l’esatta proporzione, il giusto uso del materiale. Si può allora comprendere la sua frase più famosa – “Less is more” – al di là del banale minimalismo e razionalismo a cui spesso viene ridotta: la semplificazione non è fine a se stessa, non è uno stile né un linguaggio, ma la riduzione della complessità dei fenomeni della realtà alla loro qualità essenziale. Ciò che porta Mies a realizzare architetture classiche e al contempo moderne. Senza tempo. L’ARCHITETTO DELLA SEMPLICITÀ DELLE STRUTTURE Il binomio architettura e minimalismo annovera uno dei principali maestri del Movimento Moderno, Ludwig Mies van der Rohe. Se Le Corbusier incarna l’anima più poetica del Movimento Moderno, l’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe ne rappresenta l’aspetto più profondamente filosofico. Vive tra due mondi: l’Europa delle avanguardie, dove nasce nel 1886 (ad Aquisgrana, in Germania) e l’America della modernità e dei grattacieli, dove muore nel 1969. L’incontro con la grande architettura avviene nel 1907, quando Mies approda nello studio di Peter Behrens, uno dei maestri dell’architettura del tempo, dove lavora al fianco di Gropius e per breve tempo anche di Le Corbusier. Tra le sue opere architettoniche: Padiglione di Barcellona, costruito per l’Esposizione Universale del 1929Villa Tugendhat in Brno, Czech Republic, 1930Farnsworth House, Chicago 1945-1951 (L’architettura della casa rappresenta la massima raffinatezza di espressione minimalista di struttura e spazio ) Nei Lake Shore Drive Buildings Apartments di Chicago (1948-‘51), Mies inventa il cosiddetto curtain wall, un sistema di facciata realizzato in lastre di vetro sostenute da telai d’acciaio. Una novità epocale che rivoluziona il rapporto tra interno ed esterno degli edifici – prima di allora esisteva solo la tradizionale muratura con finestre – offrendo a tutti gli appartamenti l’affaccio sul lago Michigan. Nel Seagram Building di New York (1954-‘58) l’invenzione è urbana: Mies arretra il grattacielo rispetto al filo della strada quando nessuno lo faceva – la base dell’edificio occupava sempre l’intera superficie dell’isolato in cui era inserito. In tal modo lo mette in risalto e, attraverso la piazza, costruisce un rapporto con la città.

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Non mancano i progetti urbani: Lafayette Park, un grande quartiere di Detroit (1955), qui riafferma il principio caro al Movimento Moderno di città contemporanea costruita nella natura Toronto-Dominion Centre, Toronto. 1967-1991 Chicago Federal Center (1974) Design e elementi di arredo: Gli elementi di arredo di Mies sono ancora oggi oggetti senza età, lontani dalle mode, semplici strutture in acciaio, lasciato a vista, depurati di ogni superflua aggettivazione e ridotti all’essenza. Il primo progetto di mobile, la sedia ‘ MR ‘ in acciaio tubolare, caratterizzata da una gracile eleganza e una forma chiara e compiuta. La poltrona Barcelona creata per l’Esposizione universale di Barcelona del 1929


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PADRE DELLA CELEBRE CITAZIONE “LESS IS MORE” L’ARCHITETTO MIES VAN DER ROHE È CONSIDERATO IL FONDATORE DEL MINIMALISMO Sintetizza la poetica di questo maestro dell’architettura: un minimalismo formale a cui giungere attraverso un lavoro di sottrazione, in un processo creativo di continua ricerca della semplicità.

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M Ar C E l l O M Or AN d I N I Tutto quello che si ritrova nelle sue opere è una continua rincorsa tra opposti che si completano: il bianco e il nero, il pieno e il vuoto geometrico, la forma minimalista e il significato, la staticità e il movimento. Chi osserva le opere di Morandini ne ha una fruizione diretta, immediata: sono opere che ti riempiono all’istante, allo stesso tempo maestose ma così leggere, complesse ma semplici. Tra le sue opere più significative: Ombra Latina collocata al Wilhelm Hack Museum di Ludwigshafen, e la Porta della Vita a Hattingen. Dopo l’elaborazione dell’idea base, Morandini affida lo sviluppo dell’opera alla certezza della matematica, all’equilibrio di rapporti formali scientificamente controllabili. Ritmi e volumi, una geniale alternanza di bianco e nero, propongono una moltiplicazione senza limiti di opere, con al proprio interno la chiave stessa della loro estensione. Nelle sue opere l’artista indaga diversi tipi di temi e di movimento nello spazio, come la torsione, la tensione, l’espansione, la sovrapposizione e traduce le sue indagini nel mondo della geometria, servendosi del linguaggio bidimensionale e tridimensionale. La base concettuale imprescindibile per Morandini è che tutto ciò che ci circonda possa essere inteso come “vivibile”. Tenendo fede al suo metodo sistematico, l’artista dà vita ad un mondo di creature nelle più diverse scale, dalla grafica alla scultura, dall’architettura al design, assolutamente originale, coerente e riconoscibile, rigoroso e creativo.

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0 2 . ar c h i t e t t u r a M ar c e l l o M or an d i n i S I R A C C O N TA

L’artista e architetto celebre per le geometrie in bianco e nero: «Ostracizzato dopo il ‘68 perché non contestavo apertamente». E a marzo, a Varese, inaugura il suo museo. «Sarà uno spazio nuovo per la città; sarà, soprattutto, un’occasione per tutti. Sono fiducioso e, alla fine, contento». Marcello Morandini in autunno vedrà completata la ristrutturazione della villa in via Staurenghi, nel centro di Varese, che ospiterà il suo museo. Finalmente una delle figure più poliedriche della nostra arte — architetto, scultore e designer — potrà dare una casa adeguata a una produzione straordinaria, spesso però apprezzata più all’estero che in Italia. La sua stessa Varese, incontrata all’età di sette anni dopo essere nato a Mantova, ha consumato un obbrobrio nei suoi confronti: una bellissima piazza progettata da lui è tuttora in stato di abbandono perché di mezzo c’è una proprietà che è privata e non pubblica. Davvero il pubblico non può forzare il privato per evitare uno scempio? Morandini allarga le braccia, sorride. Avrebbe da dire qualcosa di pepato (e il carattere per farlo non gli mancherebbe) ma preferisce la diplomazia, tornando su sé stesso, sul racconto di un percorso artistico che approda a un museo la cui gestazione non è stata affatto semplice: «La svolta sta nel fatto che alcune fondazioni hanno dato una mano alla mia. Per la fase iniziale è sufficiente, ma non basta per quanto dovrà seguire: dialogare con chi amministra la res publica sarà decisivo». Non a caso lo Spazio Morandini, la cui apertura avverrà l’11 marzo 2019 («Tra il termine del restauro e l’inizio delle attività ci sarà ancora parecchio lavoro»), si colloca a ridosso del Teatro Santuccio — regolato dall’amministrazione civica — e a duecento metri in linea d’aria da Palazzo Estense, oggi sede comunale ma già dimora di Maria Teresa d’Austria, alla quale Varese deve il catasto e le prime, importanti opere di urbanizzazione. «Il luogo lancia un messaggio: con molta discrezione, ma con altrettanta convinzione, conto di avviare un motore culturale nel cuore della città».

Morandini, a lei, signore del bianco e del nero, domandiamo: il mondo è bianco o è nero?

«È a colori. Per fortuna: siamo parte della Natura e grazie a Dio abbiamo questo beneficio. Però, in certi casi, alcuni colori sono più valorizzati e utilizzati, magari per chiarire meglio il proprio profilo professionale».

Quindi anche l’arte è a colori?

«Certo, l’arte è soprattutto a colori». Il bianco e il nero — lei sostiene — nella loro essenzialità consentono di concentrarsi sulla forma più che sull’estetica. «Sì, bianco e nero sono realtà molto precise. Si scrive, ad esempio, nero su bianco e guardate quante informazioni otteniamo. Non è necessario scrivere a colori, si perderebbero la concentrazione e il senso di ciò che si vuole dire». La sua geometria appare «dinamica». «Le forme suggeriscono messaggi infiniti. Io provo a scoprire il movimento della geometria e tutto quello che è nascosto al suo interno».

È vero che il design è architettura?

«Il design è l’architettura delle cose che usiamo ogni giorno. Fondamentalmente ogni oggetto dovrebbe essere armonico. Penso alle sedie, ai tavoli, alle posate, alle auto. Design è estetica abbinata alla funzione, nel rispetto dei sensi. Un esempio: una forchetta deve poter essere usata bene e deve funzionare senza che si sappia che è anche un oggetto di design».

«MI EMOZIONO PER UNA PUNTINA»

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Come è cominciato il suo viaggio nell’arte?

«Per caso, come grafico-designer. Aiutavo Angelo Fronzoni, a Milano, alla sera: guadagnavo qualche soldo in più rispetto allo stipendio che avevo di giorno. Gli facevo tutti i definitivi, che poi mostrava ai clienti. Per lui la grafica era la base della comunicazione. Ho imparato che per comunicare con gli altri non bisogna essere complicati: basta trasmettere in modo corretto e rispettoso ciò che si intende dire. Per me è stata una grande lezione che ho poi sviluppato quando ho aperto il mio studio. Fin dall’inizio mi sono dedicato alla ricerca delle forme: nel disegno, poi con i modelli in cartoncino e infine con lavori in legno verniciato o in altri materiali».

È più designer, scultore o architetto?

«Mi considero fortunato perché riesco a fondere le tre realtà. Se ne tralasciassi una, farei un torto alle altre. Però negli ultimi anni sono più orientato verso l’arte e la ricerca della forma pura. La vita è la conoscenza delle cose, dunque della forma, ma l’uso che si fa della forma diventa design. Dal conoscere una cosa all’usarla, e infine all’abitarla, il passo è breve. Ecco che l’approdo è l’architettura: io non vedo divisioni tra questi tre mondi».

Perché la scelta di lavorare spesso in Germania?

«Si lavora in un mondo aperto, ogni città ha più musei, ciascuno con una precisa realtà culturale che accetta e promuove culture diverse. Io ho sempre trovato la strada aperta per il mio lavoro: a Ludwigshafen, in 20 anni, lo stesso museo mi ha dedicato tre mostre ufficiali: deduco che non si siano sbagliati, più facile che abbiano creduto nel mio lavoro e nella mia professionalità».

L’Italia si è curata poco di lei?

«Assolutamente sì». Nemo propheta in patria… «I motivi sono stati politici, a causa del Sessantotto. Fin lì avevo avuto grande successo; nel 1967, a tre anni dall’inizio della mia carriera, avevo partecipato alla Biennale di San Paolo del Brasile. Quindi nel 1968, appena ventottenne, fui invitato a Venezia. Ero uno dei 22 italiani ed ero il più giovane. Fu l’anno della contestazione, delle cariche della Polizia. Non fui più invitato perché non avevo criticato quella Biennale. Non sono stato dichiaratamente uno di sinistra che contestava: detesto ogni forma di protesta. A causa dell’ostracismo, ho accettato l’invito di un gallerista svizzero che mi ha introdotto in Germania». È mancato da poco Gillo Dorfles, un suo mentore. «Era uno dei commissari della Biennale. Era stato lui a invitarmi a San Paolo. E ancora prima ero stato invitato da lui e da Umbrio Apollonio, capo dell’archivio storico, a rappresentare l’Italia in Austria con altri artisti. Dorfles mi seguì fin dall’inizio con affetto: era un amico ed è stato un grande uomo, importante per l’Italia».

Lei è spesso all’estero. Come vedono l’Italia gli stranieri?

«A settori. Gli elementi dominanti sono due: l’Italia che non funziona da un lato, il grande rispetto per il nostro Paese

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0 2 . ar c h i t e t t u r a dall’altro. Devo dire che predomina il secondo. C’è rispetto per l’Italia, per gli italiani che risolvono i problemi pur nelle difficoltà. E c’è ammirazione per le tante personalità che esprimiamo: ce le invidiano. Nell’arte siamo stati primi, grazie al nostro passato; ma lo siamo anche nell’arte moderna. Il guaio? Iniziamo tante cose importanti ma a volte non riusciamo a trasferirle in campo internazionale. Così altri ne approfittano e lo fanno al nostro posto».

La Triennale di Milano ha dedicato una mostra all’età dell’oro del design italiano. Tornerà un’era tanto felice?

«Viviamo un momento creativo e provocatorio del design, ma è internazionale. L’Italia avrà sempre un ruolo centrale, nel design, perché è stata la genitrice, però il resto del mondo ha imparato e oggi ci sono scuole fantastiche, nelle quali si mutuano varie esperienze senza affidarsi a un solo docente di riferimento. Concettualmente, è una novità straordinaria».

Aneddoti di una vita nell’arte?

«Parecchi. Girando per il mondo, incontro tante persone. Mi sento a casa in molti luoghi ed è bellissimo. Quando sono a mio agio, condivido ciò che è positivo. Alla fine, quando torni nella casa vera, ti scopri arricchito».

Quale pezzo di design indicherebbe quale sua icona?

«Ne avrei tantissimi, ci sono alcuni progetti che non smettono mai di emozionarmi. Preferisco però ricordare oggetti che non hanno nome ma che si utilizzano da sempre. Ad esempio la puntina da disegno. O la graffetta. Sono due cose semplici che ci hanno accompagnato e ci hanno permesso di vivere bene e di risolvere problemi quotidiani. In un dischetto di metallo basta piegare un triangolino e ottieni una puntina, ovvero un qualcosa che funziona in maniera fantastica. Questo è design, questo mi emoziona». Con il bianco e con il nero sembra che lei voglia esplorare la geometria, come se avesse un’anima. «Ogni volta entro nella geometria, anche attraverso la matematica semplice, per capire che cosa mi può dare una forma. La forma mi offre sempre una lezione di conoscenza per proseguire. Una linea non è mai solo tale: basta girarla e cambia tutto. Sono innamorato del mio lavoro: il campo della forma è la base di ogni studio in tante direzioni, inclusa la vita. E non ho bisogno del colore, per questo: sarebbe solo di disturbo per le mie scoperte. Se poi coloro un oggetto, può anche essere bello. Ma il colore non aggiunge nulla».

Quanto è necessaria la provocazione nel suo mestiere?

«Se non è violenta, molto. La provocazione è anche conoscenza, è voler rubare che cosa c’è dall’altra parte, è contribuire a un dialogo. La provocazione è costruzione e formazione».

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gr a phic desi gn


0 3 . gr a p h i c d e s i g n Il minimalismo nel design è stato per molto tempo sottostimato, ma oggi sembra tornato prepotentemente alla ribalta come alternativa a siti web, loghi, manifesti ecc. troppo ingombranti e prolissi. Per chi è nuovo a questa forma d’arte, il concetto di minimalismo si ottiene eliminando l’eccesso e posizionando strategicamente gli elementi rimanenti. Il risultato può trasmettere sia un effetto “calmante” che un design potente e ottimizzato per trasmettere un messaggio d’impatto. Potete trovare il minimalismo in tutte le forme d’arte, dall’architettura alla moda al design del logo. Per ottenere il massimo da un design minimalista, sia che si tratti di qualcosa di piccolo come un logo o grande come un cartellone pubblicitario, assicurarsi di utilizzare correttamente gli elementi giusti. Colore, layout, spazi vuoti, grafica e tipografia giocano tutti un ruolo importante nel minimalismo. Qui di seguito esamineremo i principi di questo particolare design.

LAYOUT EFFICACE Un layout di design minimalista è particolarmente impegnativo, perché ogni elemento con il quale si sta lavorando, è essenziale. Contenuti per siti web e poster dovranno essere disposti in modo tale che lo spettatore può trovare ciò di cui hanno bisogno senza pensarci troppo. In altre parole, la pagina deve avere un senso. LO SPAZIO NEGATIVO Lo spazio negativo serve a dare potere alla piccole parti di informazioni che circondano il design. Quanto maggiore è lo spazio vuoto, più la potenza di un oggetto al suo interno ne guadagna. Lo spazio negativo serve anche a strutturare un gruppo di elementi e a creare un equilibrio.

MINIMALISMO NEL WEB Negli ultimi dieci anni, il web design minimalista è diventato molto trendy. Purtroppo, alcuni designer hanno frainteso l’idea alla base del concetto di minimalismo e hanno creato pagine web vuote di contenuti che semplicemente non hanno senso. Tuttavia, alla radice del movimento minimalista, i grandi designer hanno creato siti web mozzafiato che non sono solo piacevoli da guardare, ma sono anche facili da navigare.

GRAFICA L’uso delle immagini nel minimalismo è molto intenzionale. I progettisti grafici per scegliere la loro efficacia in un design minimalista le usano quando diventano più efficaci di un messaggio scritto. La grafica dovrebbe essere usata con parsimonia e deve essere pertinente al tema.

MINIMALISMO NEI MEDIA Brochure, packaging e campagne pubblicitarie hanno la loro quota di design minimalista. Tuttavia, è nei manifesti e nei loghi che vedrete questo concetto prendere piede! Molti designer scelgono di utilizzare questo modello semplificato per tutto, dai poster cinematografici, poster di band, ai manifesti degli annunci. La ragione di questo è l’efficacia di trasmettere un messaggio forte in modo rapido e pulito. Usati correttamente, i manifesti minimalisti sono progettati per utilizzare ciascuno dei suoi elementi per inviare un messaggio. Il risultato è di solito un manifesto che non è solo funzionale ma anche esteticamente piacevole.

TIPOGRAFIA La tipografia nel minimalismo dovrebbe essere altrettanto strategica e importante come qualsiasi altro elemento. In ogni design minimalista, sono appropriati non più di due o tre stili dei caratteri. Molti disegni utilizzano un font per i titoli, uno per il corpo, ed eventualmente uno per la navigazione su siti web o per qualsiasi testo speciale o sottovoci. Di solito più di tre tipi di font da al design un aspetto disordinato e difficile da comprendere.

MINIMALISMO NEI LOGHI Il minimalismo nei loghi è un concetto importante, poiché lo scopo di un logo è quello di essere facilmente ricordato e associato a una società. Come risultato, i loghi minimalisti sono spesso del tipo più popolare dal momento che sono abbastanza semplici da essere memorabili nel tempo. La parte difficile di un logo minimalista è quella di fare un disegno che sia facilmente riconoscibile per l’azienda che rappresenta e che allo stesso tempo rifletta gli obiettivi del marchio.

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P E R C AT T U R A R E L’ AT T E N Z I O N E I L M E S S A G G I O D O V E VA E S S E R E E S P O S T O C O N c h i ar e z z a

Perché la tendenza minimalista riscuote tanto successo nell’ambito della comunicazione grafica?

Analizzando lo sviluppo del minimalismo in vari campi – dalla storia dell’arte al design, dalla letteratura alla pubblicità – è possibile capire come funziona il minimalismo nel graphic design, ma anche nella comunicazione in maniera più generale.Il primo elemento da tenere in considerazione è il tempo. La società moderna organizza tutto il tempo che ha a disposizione per poterlo sfruttare al meglio, dal tempo lavorativo al tempo libero. Inoltre, nessuno si sofferma più su informazioni troppo lunghe da leggere, si pretende di sapere tutto e subito con il minimo sforzo. Nel 1971, il politologo Herbert Simon mise in luce i suoi ragionamenti per la futura “età dell’informazione”. Spiega come i creativi si sarebbero trovati ad affrontare un grosso calo di attenzione a causa della sovrabbondanza di informazioni e fonti di informazioni. Si cominciò a pensare al minimalismo come ad una soluzione ottimale. Il minimalismo soddisfa il bisogno di tempo, mettendo a disposizione solo le informazioni e gli elementi utili al messaggio per incuriosire.

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Il fl at d e s i gn Con l’uscita di Windows 8 nel 2012, la Microsoft ha rivisto il vecchio sistema di interfacce costruito sul design scheumorfico – il cosiddetto design realistico – introducendo il Flat Design o “design piatto”. Da quel momento, flat è diventato quasi una necessità. Anche le infografiche, utilizzate per destrutturare e condensare tante informazioni in immagini, sono diventate sempre più “piatte” e nuovamente sulla vetta della popolarità. Il Flat Design si basa principalmente su tinte piatte con cromie innaturali e molto luminose, font semplici e forme elementari. Per quanto sembri estremamente semplice, il processo creativo nel minimalismo è molto complesso: semplice, infatti, non è minimalista. Non è necessario eccedere, esagerare o sovraccaricare: la semplicità garantisce il risultato migliore ma si tratta di un processo di riduzione ragionata degli elementi.

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N i c k b ar c l a y Nick Barclay è un grafico inglese di adozione australiana, che si è sempre distinto nella scena dei grafici contemporanei per la sua capacità riassuntiva e il suo stile minimalista. Dopo aver ri-immaginato una serie di dipinti, da Van Gogh a Botticelli, e dopo aver illustrato i giocatori dei mondiali attraverso delle forme astratte sempre più concettuali, il Barclay torna a far parlare di sé con una serie di cocktails illustrati. In un’intervista al Guardian Nick Barclay racconta del suo trasferimento a Sydney cinque anni fa e da quanto fu colpito dalla fiorente scena dei cocktail.

Dal primo sorso che fece di Negroni (gin, vermouth, Campari e uno spicchio d’arancia) fu subito amore. “E’ l’unico cocktail adatto ad un uomo”, dice, “perché è servito in un bel bicchiere virile ed è così maledettamente forte”. Dopo un periodo di lavoro per la rivista Australian Bartender, Barclay è stato ispirato per disegnare ricette di cocktails, raffigurati nella forma del bicchiere adatto. “Il mio lavoro è diventato sempre più minimale nel corso dell’ultimo anno”, dice Barclay

“ED È COSÌ CHE HO DECISO DI CREARE I COCKTAIL IN DIVERSI BLOCCHI DI COLORE NELLA LORO FORMA DI BASE”.

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0 3 . gr a p h i c d e s i g n L E m e t r o p o l i I N S T I L E M I N I M A L I S TA Nick Barclay nel mondo della semplificazione grafica non accenna a fermarsi: e allora eccolo tornare alla carica con una nuova serie di stampe dedicata alle grandi metropoli internazionali. O meglio, alle impressioni che le città in questione hanno suscitato nella mente del designer, trasformate in forme e colori. “La prima scintilla di questa idea mi è venuta mentre ero a Roma. – racconta Nick Barclay – È una tale fonte di ispirazione, i bar, la gente, persino le parti più diroccate erano così belle. Così ho deciso di provare a tramutare in forme e colori quei sentimenti unici che certe città sanno lasciarti nel cuore”. Così la nostra capitale è diventata una sovrapposizione di due quadrati, uno azzurro, l’altro rossastro. “La cosa che mi ha più colpito di Roma – continua – è stata la stratificazione di storia che si estende dalla terra al cielo. Un cielo blu che permette a tutto quanto di essere ammirato con la giusta luce. Così ho sovrapposto i quadrati per riferirmi ai vari strati di storia e architettura, mentre i colori sono dedicati ai marmi della città e al suo bellissimo cielo”. Dietro a ogni singola stampa, insomma, si può trovare un’interessante riflessione sulla cultura, la società e lo stile della metropoli rappresentata. “New York è una realtà a sé stante, come se fosse in una bolla. Per questo l’ho disegnata come un cerchio – che potrebbe quasi essere la semplificazione di una mela -, con i colori dei taxi, della Statua della Libertà e dei grattacieli. Londra, invece, è un’immensa città con un cuore molto concentrato: il rosso è quello dei bus e delle cabine telefoniche, il bianco è quello degli edifici. E il grigio rappresenta le costanti condizioni meteo, ovviamente”.

HO DECISO DI PROVARE A TRAMUTARE IN FORME E COLORI QUEI SENTIMENTI UNICI CHE CERTE CITTÀ SANNO LASCIARTI NEL CUORE

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O U T M AN E A M A H O U Tutti noi abbiamo studiato un po’ di storia dell’arte durante gli anni scolastici. Ricordiamo il Rinascimento con Leonardo da Vinci e Michelangelo, poi l’Impressionismo di Monet, il Surrealismo di Dalì ma andando avanti, le correnti artistiche si sono succedute rapidamente e non è facile focalizzarle. Ormai abbiamo capito che l’arte minimalista viene in nostro aiuto come anche questa volta!

MINIMALIST ART MOVEMENT POSTERS Il graphic designer francese Outmane Amahou si è chiesto se è possibile riassumere la storia dell’arte e i movimenti artistici in un poster. Il risultato è la serie Minimalist Art Movement Posters, realizzata nel 2012. Anche se il lavoro finale può sembrare molto semplice, quasi banale, il processo creativo di Amahou ci aiuta a capire quanto lavoro si nasconde dietro un “semplice” poster. In un’intervista, Amahou afferma “La serie è nata dalla mia osservazione. Quando immagino un movimento d’arte, nella mia mente vedo un’opera famosa, ne prendo un dettaglio e lo tramuto in disegno minimalista. Ad esempio, quando penso al Surrealismo, la prima immagine che mi viene in mente è un orologio che si scioglie.”[ndr. dall’opera di Salvador Dalì La persistenza della memoria]. Anche i colori di sfondo dei poster non sono casuali. Prendiamo in considerazione quello della Pop Art: il disegno ricorda le latte della zuppa Campbell, ormai icona dell’artista Andy Warhol; il colore rosso, invece, è il colore dell’etichetta della zuppa, colore dominante dell’opera. Come spettatori, possiamo associare rapidamente alcuni artisti a determinati movimenti artistici e poi possiamo imparare un po’ di più sugli artisti che non riusciamo immediatamente a riconoscere. Insieme arte fresca e lezione di storia, tutto in un imponente progetto. Ogni poster è quindi una sorta di riassunto visivo, creato nel modo più chiaro e leggibile anche per chi non è così ferrato in materia!. Le illustrazioni di Amahou sono disponibili presso il sito oamahou.com. Una serie di poster per provare a ricostruire, in stile asciutto e minimalista, le tappe fondamentali e recenti della storia dell’arte. E’ l’idea di Outmane Amahou, un graphic designer marocchino che vive in Francia, che ha deciso di ripercorrere le correnti più importanti dell’arte (Rinascimento, Espressionismo, Dadaismo e arte stratta) attraverso la stilizzazione delle opere più famose e conosciute. “Il colore dei poster non è casuale – spiega Amahou -. Il progetto, infatti, nasce dall’osservazione dei lavori più celebri, da una sorta di riassunto visivo, creato nel modo più chiaro e leggibile possibile anche per i non addetti ai lavori”.

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0 3 . gr a p h i c d e s i g n

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04.

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inter i or desi gn


0 4 . I n t i r i or d e s i g n T E N D E N Z E N E L L’ I N T E R I O R D E S I G N : Tutti parlano di minimalismo ma pochi sanno di cosa si tratta veramente. Il minimalismo è una corrente di pensiero trans-artistica nata nella seconda metà del ventesimo secolo. Dalla grafica all’arredamento d’interni, dall’industrial design all’arte concettuale, tutti i settori della produzione umana sono stati contagiati da questa visione. Sicuramente una risposta culturale al sovraccarico di segni, colori e forme che gli stili espressivi dei secoli precedenti avevano prodotto, ma anche una reazione alla sovrastimolazione sensoriale che la società dei consumi produce in molti ambienti e spazi pubblici.

LE 3 CARATTERISTICHE PRINCIPALI DELLO STILE MINIMALISTA

01 . 02. 03.

Sottrarre è meglio che aggiungere. Concetto riassunto nel celebre slogan, spesso incompreso: Less is more. Lasciare intorno agli oggetti (e ai segni grafici) lo spazio necessario per consentire alla mente dell’osservatore di cogliere il messaggio (lo stimolo) nella sua purezza, senza disturbi percettivi. Non avere paura del vuoto, perché nella nostra epoca il vuoto, il silenzio, l’assenza sono gli autentici simboli dello status sociale.

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QUESTI PRINCIPI, TRADOTTI NELL’INTERIOR DESIGN, DIVENTANO INDICAZIONI STILISTICHE PRECISE PER GLI ARCHITETTI E GLI ARREDATORI.

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C o l or i

Mobilio

pav i m e n t i

Scegliere una tinta principale discreta (non squillante) e un colore secondario (o due) più sgargianti per sottolineare i mobili e gli accessori. Sulle pareti prediligere i colori chiari, con solo uno o due pezzi d’arte per aggiungere colore.

Eliminare tutto il superfluo, lasciare solo l’indispensabile. Se possibile nascondere ed occultare. E in questo le porte a scomparsa, sia scorrevoli che a battente, svolgono un ruolo fondamentale, consentendo di separare gli spazi pubblici da quelli privati e gli spazi di servitù da quelli in cui si vive.

Generalmente può andar bene qualsiasi materiale (parquet, calcestruzzo, marmo satinato…) ma deve essere pulito, sgombro di orpelli grafici. Un tappeto di alta qualità può aggiungere colore e creare un punto focale nella stanza.


0 4 . I n t i r i or d e s i g n

COME RISULTA EVIDENTE L’EFFETTO GENERALE CHE UN ARREDAMENTO MINIMALISTA PUNTA A GENERARE È QUELLO DI UNA RAREFATTA SERENITÀ, DI UN’OPULENZA NON OSTENTATA CHE PRIVILEGIA L’ESSENZIALITÀ.

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6 m od i P E R A R R E D A R E U N A S TA N Z A I N S T I L E M I N I M A L I S TA

Colori neutri, linee geometriche semplici, assenza di elementi decorativi. Sono questi i principi su cui si base l'arredamento di una camera di stile minimalista. Ti offriamo sei esempi pratici di come rendere al meglio la tua stanza

01 . 02. 03. 04. 05. 06.

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Il bianco è il colore tipico dell’arredamento minimalista. Puoi utilizzare tutte le sue tonalità per darle un tocco più personale. In più, nello stile contemporaneo del minimalismo si usano blocchi di colore come il rosso per contrastare con i toni più neutri I mobili per gli spazi minimalisti devono tenere forme geometriche pure e linee rette. Si tratta di mobili bassi in toni chiari I tessuti che si utilizzano sono completamente lisci e si allontano da qualsiasi stampato. Questo serve per creare un aspetto più moderno e sofisticato Lo stile minimalista privilegia i dettagli architettonici prima degli elementi decorativi di una stanza. Per ciò è fondamentale che lo spazio non si riempia con decorazioni che non abbiano una funzione concreta La sobrietà è il fattore chiave per far sì che la stanza abbia un aspetto milanista. Prescindere al massimo di tutti gli elementi che non sono necessari è la regola base Mantenere la stanza ben ordinata


0 4 . I n t i r i or d e s i g n

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6 i n t e rn i in stile minimal da ammirare

I l b i an c o ma non s o lo

1.

L'astrazione e la geometria sono linee guida essenziali di ogni interno minimalista. Nel progetto rappresentato nell'immagine anche un camino a legna si trasforma in un elemento “freddo”: un sottile taglio orizzontale nella parete che trasforma il muro al di sopra in uno schermo algido e astratto, che pare sospeso nel vuoto.

3.

Il bianco è il colore, anzi il non colore del Minimalismo proprio a causa dell'azzeramento della carica emozionale che lo contraddistingue. Gli spazi minimali sono in generale inondati di luce, naturale e artificiale, e molto spesso ospitano un unico elemento più connotato dal punto di vista cromatico, per giocare sul contrasto: in questo caso l'ampio divano componibile e la parete scura.

I l tag l i o

2.

l ’ ar r e da m e n to Nello stile minimalista degli interni l’architettura e gli arredi interagiscono alo scopo di generare un ambiente il più coerente possibile sul piano espressivo. Nel caso riportato dall’immagine sopra, riferita all’interno di un’abitazione progettata dallo studio Burnazzi Feltrin, la struttura portante dell’edificio è risolta attraverso la presenza di un numero molto ridotto di pilastri interni, soluzione che contribuisce a valorizzare le qualità degli arredi hi-tech.

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0 4 . I n t i r i or d e s i g n le divisioni Anche un elemento di separazione può essere minimale. Osservato per esempio in che modo viene risolto il tema in questo interno: zona pranzo e soggiorno risultano separati ma in forte continuità.

4.

5.

la cucina

Ogni ambiente della casa investito dallo stile minimale acquisisce una propria specifica identità. La cucine per esempio amplifica la propria identità “meccanica”: tutti gli elementi tecnologici acquistano importanza e regnano l’acciaio a vista e le superfici lucide e laccate, naturalmente nell’universale bianco. Molto scenografico anche il grande piano di lavoro in Corian.

l a ca m e r a da l e t t o

6.

Fino ad ora abbiamo visto diverse declinazioni dello stile minimalismo nei diversi ambienti della zona a giorno della casa. Anche nella zona notte non è tuttavia esclusa la possibilità di intervenire con un approccio minimalista, che andrà calibrato sul calore che questo ambiente deve essere in grado comunque di comunicare. Ridurre il numero di elementi presenti e adottare soluzioni cromatiche neutre potranno essere poche e semplici soluzioni per ottenere una camera da letto accogliente ma minimale!

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C r i s t i an s p or z o n Classe 76 di origini brianzole

Laureato in Architettura al Politecnico di Milano e una carriera iniziata nella progettazione di punti vendita. È qui che scopre e si avvicina sempre più alla dimensione dell’interior design, rimettendo in gioco il suo background culturale e professionale per mescolarlo alla materia. Perché oggi, questo è il suo design: dà forma al quotidiano attraverso materiali dalle enormi potenzialità creative. Come il legno, protagonista della sua prima linea. La sua estrema duttilità e la sua naturale malleabilità hanno ispirato la realizzazione di questi pezzi unici, dove linee e forme iniziano senza mai chiudersi, in un gioco ottico e tattile che tende all’infinito.

Interior design o architettura d’interni consiste nella progettazione degli spazi interni che possono essere luoghi pubblici o privati. L’occhio più attento e informato può riconoscere chi ha progettato uno spazio dallo stile adottato, soprattutto se l’architetto è famoso o come spesso si usa dire “archistar”, dunque ingaggiato proprio per la sua firma, per il suo stile unico e riconoscibile. Oltre agli architetti famosi, quelli i cui lavori si possono ammirare, fotografare e visitare, ci sono tanti architetti che quotidianamente partecipano a gare, propongono soluzioni, ideano spazi. Alcuni di questi progetti si realizzano, altri rimangono inediti. Vogliamo con questo articolo inaugurare nella sezione dei progetti anche la pubblicazione dei lavori inediti che gli architetti realizzano solo su carta. Lavori piccoli o grandi, di case normali o straordinarie, progetti tutti virtuali che possono però sempre interessare, ispirare, parlare.

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0 4 . I n t i r i or d e s i g n T avo l o 7 0 s : UN CLASSICO DEL FUTURO Il tavolo 70s di Cristian Sporzon deve il suo nome, “seventy’s”, al design geometrico e lineare anni settanta da cui è stato ispirato, ma è a contempo un tavolo molto contemporaneo, quasi futuristico.

TAVOLO 70S: SENZA SPIGOLI, ANGOLI E GAMBE La rivisitazione del design anni 70 attuata da Sporzon è, infatti, radicale. Il tavolo 70s è geometrico come un pattern, ha una linea fluida, un profilo grafico. La rivoluzione è negli angoli che si arrotondano, negli spigoli che scompaiono, nelle gambe che diventano fascianti, avvolgenti, quasi elastiche. Il risultato è innovativo, un tavolo pronto per il futuro.

UN SUCCESSO IN DIVENIRE Anche se il tavolo 70s è stato esposto all’hotel di design nhow di Milano in occasione della mostra MAD, Milano arte e design, per ora è solo un prototipo. Questo primo esemplare ha il piano in MDF, mentre le gambe sono un accoppiamento tra listellare e multistrato, tutto rigorosamente bianco. “Credo che il bianco sia il suo colore, -ci ha raccontato Cristian Sporzon- mentre i colori come nero e rosso li vedrei invece adatti in contesti specifici, commerciali o lavorativi”. Per quanto riguarda i materiali, mi piacerebbe venisse realizzato in marmo, magari un bel Botticino, dove le venature lo renderebbero un pezzo unico. Tuttavia anche il Corian o il Cristalplant non sarebbero affatto male. Oltretutto questi ultimi offrono svariate possibilità cromatiche.

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0 4 . I n t i r i or d e s i g n

INTERIOR DESIGN: CRISTIAN SPORZON Questo primo progetto di interior design “virtuale” è dell’architetto Cristian Sporzon, di cui abbiamo già presentato il tavolo 70s. Si tratta di un appartamento di 110 metri quadri. Sporzon ci ha spiegato che il desiderio del cliente era quello di ottimizzare gli spazi ottenendo due camere (possibilmente matrimoniali), di cui una con bagno al suo interno, ricavando così un totale di due servizi. In questo progetto ho voluto dare più ordine e luce all’appartamento. Rispettando il volere del cliente, ho sviluppato la zona giorno dall’ingresso alla parte prospiciente la via principale, di sicuro impatto emozionale. Le camere sono state disposte in corrispondenza del prospetto secondario ed entrambe sono disimpegnate. La cucina è mantenuta nella precedente posizione ma grazie alla demolizione della preesistente parete entra a far parte della nuova zona giorno.

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BIANCO MINIMAL In linea con l’intenzione di rendere l’appartamento più luminoso e fluido, Sporzon ha mantenuto la divisione formale tra spazio cucina, composta da mobile e tavolo, e spazio living con tavolo, divano e area relax, abbattendo tuttavia le pareti divisorie. Dunque gli spazi sono funzionalmente separati ma spazialmente connessi. L’area notte è rigidamente divisa dal resto della casa ed è caratterizzata da due stanze matrimoniali quasi identiche, pressoché specchiate, con stessa soluzione di armadio. L’unica differenza è un servizio di pertinenza posto in una delle due camere come richiesto dalla committenza. Minimo comune denominatore nella scelta del mobilio è l’ispirazione minimal, accento contemporaneo e tono bianco. MOVIMENTO DI VOLUMI In questo ambiente monocolore -bianco, beige, acciaio e legno- l’architetto è andato a giocare con i volumi. Lampade cubiche in tutti gli ambienti; armadi dal design armonico nello spazio living; forme tonde per il bagno tra specchio e lavabo. Al contrario la cucina minimal è lineare, essenziale ed elegante, tanto da sparire nella parete.

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0 4 . I n t i r i or d e s i g n IN QUESTO PROGETTO HO VOLUTO DARE PIÙ ORDINE E LUCE ALL’APPARTAMENTO. Rispettando il volere del cliente, ho sviluppato la zona giorno dall’ingresso alla parte prospiciente la via principale, di sicuro impatto emozionale. Le camere sono state disposte in corrispondenza del prospetto secondario ed entrambe sono disimpegnate. La cucina è mantenuta nella precedente posizione ma grazie alla demolizione della preesistente parete entra a far parte della nuova zona giorno.

UNA CASA DA AIRBNB La casa progettata da Sporzon è esempio di un interior design minimale ed essenziale, certamente per design addicted. Una casa che potrebbe essere ideale per un Airbnb, dove la zona notte è rigidamente separata e c’è grande spazio, tra soggiorno e cucina, per vivere al massimo la convivialità.

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05.

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fo to gr a fia


0 5 . f o t o gr a f i a F O T O G R A F I A M I N I M A L I S TA : C O M E P U Ò M I G L I O R A R E L ’ I M PA T T O D E I T U O I l avor i Quella per la fotografia è una passione a dir poco dilagante. Sia che si possegga una macchina fotografica professionale che si preferisca scattare con un semplice smartphone, difficilmente si riesce a rinunciare alla voglia di immortalare ogni momento delle nostre giornate. Alle volte, però, si punta eccessivamente sul sensazionalismo, tentando ad ogni costo di stupire lo spettatore. Questo presupposto, però, potrebbe rivelarsi a dir poco sbagliato soprattutto se si considera che ad essere stupefacente non è tanto il sensazionalismo quanto, piuttosto, il minimalismo.

Cosa c’entra il minimalismo con il meraviglioso mondo della fotografia? Per prima cosa, quando si parla di minimalismo non si fa riferimento affatto ad una corrente dei nostri tempi. Il minimalismo, al contrario, è una corrente di pensiero che nel corso degli anni, seppur in maniera rivisitata, è stata protagonista delle arti visive in maniera pressoché ciclica. Per quanto riguarda la fotografia, quando si parla di minimalismo si fa riferimento ad una semplificazione che, oltre a rappresentare un vero e proprio esercizio di stile, è un ottimo modo per comunicare un messaggio in maniera semplice e diretta. Grazie al minimalismo, quindi, avrai la possibilità di prendere le distanze da ogni genere di artificio formale, lasciando spazio solo ed esclusivamente al contenuto e al messaggio che vuoi trasmettere allo spettatore. Il richiamo all’arte contemporanea è palese come, del resto, lo è quello alla cosiddetta minimal art, una manifestazione di natura artistica che mirava a ridurre al massimo ogni genere di elemento contenutistico, alla ricerca dell’oggettività e dell’emozione. Ma quali sono le caratteristiche della fotografia minimalista e perché questo tipo di fotografie sono così d’impatto?

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F O T O G R A F I C A M I N I M A L I S TA :

c o m e ri c o n os ce r l a

Se hai intenzione di approcciarti con la fotografia minimalista devi essere consapevole del fatto che la semplicità di questo stile non è sinonimo di pochezza di contenuti. Al contrario, rappresenta un valore aggiunto non indifferente. Quando si decide di scattare una fotografia in stile, appunto, minimalista si ha intenzione di stupire attraverso elementi semplici, uniformi e, soprattutto, puliti. A fare la differenza, quindi, devono essere solo i dettagli. Per riuscire a scattare una foto minimalista non dovrai fare altro che tenere a mente alcuni semplici consigli che riguardano principalmente la linearità delle forme che intendi immortalare, i dettagli, i colori scelti ed altri aspetti che di seguito ti illustrerò più nel dettaglio.

FAI ATTENZIONE ALLA COMPOSIZIONE Ricordandoti ancora una volta che semplicità non è affatto sinonimo di superficialità, la prima e più importante cosa che dovrai fare nel momento in cui deciderai di scattare una foto minimalista sarà appellarti alla tua creatività. Grazie ad essa, avrai la possibilità di collocare l’elemento da immortalare nella giusta posizione. La collocazione perfetta è ciò che consente alla foto di risultare agli occhi dello spettatore magnifica. Ricorda, poi, che l’oggetto che hai intenzione di fotografare non deve essere necessariamente grande, a patto che risulti particolarmente significativo e sia in grado di catturare l’attenzione dello spettatore. Volendo, potresti anche provare a scattare una foto in cui il soggetto risulti essere parzialmente fuori dall’obiettivo. Questa, però, è un’impresa molto ardua che ti consiglio di intraprendere solo dopo aver maturato un po’ più di esperienza in fatto di fotografia minimalista. In ogni caso, per riuscire a trovare l’inquadratura perfetta, ti consiglio di fare più di uno scatto e di confrontarli solo in seguito in modo tale da poter decidere se è il caso di continuare a fare tentativi o se, invece, tra quelli fatti c’è uno scatto che può fare al caso tuo. Dopo le prive volte, comunque, tutto sarà molto più semplice e riuscirai a scattare fotografie minimaliste anche al primo colpo.

Un consiglio: Cerca di fare buon uso della profondità di campo. Grazie ad essa avrai la possibilità di isolare alla perfezione il soggetto dallo sfondo sfruttando un’apertura del diaframma più ampia possibile. In merito, ti suggerisco di optare per il numero più piccolo di quelli a disposizione.

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0 5 . f o t o gr a f i a

I COLORI E LA TEXTURE A rendere speciali le fotografie minimaliste sono proprio i colori. Come ti spiegherò meglio in seguito, per rendere la foto perfetta serve un contrasto eccezionale. Il medesimo discorso, ovviamente, vale anche per la texture. Ciò vuol dire che, anche se al primo impatto avessi la sensazione che la foto scattata non sia venuta esattamente come la desideravi, dovresti cercare di guardarla con occhi diversi. In pratica, dovresti riuscire ad immedesimarti nello spettatore ed a capire se guardando quello scatto hai la sensazione di percepire la trama o se, invece, essa resta solo sullo sfondo. Quando si parla di colori e texture non c’è altro da fare che sperimentare. Più esperimenti farai e meglio riuscirai a capire quali sono i colori che tra loro generano un impatto visivo più forte e quali sono le texture che riescono ad andare al di là della foto.

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STORYTELLING: CERCA DI ESSERE BREVE E CONCISO La prima e più importante cosa che devi tenere a mente è che la tua foto deve raccontare una storia. Chi guarderà il tuo scatto dovrà riuscire a cogliere al volo il significato del messaggio che intendevi trasmettere e, proprio per questo motivo, il minimalismo è uno strumento molto importante. Per riuscire a scattare una fotografia minimalista devi assolutamente tenere conto di alcune semplici regole che dovranno diventare un vero e proprio mantra.

In primo luogo, lo sfondo della foto che andrai a scattare dovrà essere pulito. Inoltre, dovresti cercare anche di ricorrere allo spazio negativo ogni qual volta se ne dovesse presentare la necessità. Ti ricordo, poi, che l’argomento deve essere sempre molto ben definito. Per fare ciò ti consiglio di separare sempre lo sfondo dal soggetto, eliminando ogni genere di elemento distruttivo. Le eventuali distrazioni, quindi, devono essere ridotte al minimo se non addirittura eliminate. Dovresti, invece, cercare di esaltare al massimo lo spazio cosiddetto negativo e le sfocature in modo tale da mettere ancora più in evidenza l’argomento e attirare l’attenzione di chi guarderà il tuo scatto. In pratica, il tuo compito è quello di consentire alla foto di fare un ulteriore passo in avanti e di interloquire con lo spettatore. Scattando una fotografia minimalista, quindi, dovrai cercare di far emergere l’elemento umano di quell’immagine. Quello sarà, senza alcun dubbio, il plus valore della foto. In merito, devi sapere che alle volte l’ambiente e la storia si fondono alla perfezione. Altre volte, invece, dovrai essere tu a trovare quel sottile filo rosso in grado di unirli in un sodalizio eterno. Ovviamente, ti servirà tanta pazienza ma ti assicuro che il tuo lavorò sarà ben ripagato dagli sguardi sorpresi degli spettatori. L’unica cosa che dovrai imparare a fare, quindi, sarà riuscire ad aprirti al mondo e vedere tutto ciò che ti circonda non solo con gli occhi ma anche e soprattutto attraverso l’obiettivo.

IL TUO COMPITO È QUELLO DI CONSENTIRE ALLA FOTO DI FARE UN ULTERIORE PASSO IN AVANTI E DI INTERLOQUIRE CON LO SPETTATORE.

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RICORDATI DI ISOLARE IL SOGGETTO DELLA TUA FOTO Come ti ho già detto, la cosa più importante è concentrarsi sull’argomento della foto. Per fare ciò, devi tenere conto del fatto che il posizionamento del soggetto potrebbe essere cruciale. La cosa migliore da fare è andare alla ricerca di sfondi lisci ed il più possibile cremosi. Gli sfondi sfocati o solidi, al contrario, rischiano di mettere in ombra il soggetto e di mettere bene in evidenza il messaggio che si intende trasmettere con le foto. Ciò, comunque, dipende essenzialmente dal tipo di fotografia che si intende scattare. Se, ad esempio, dovessi decidere di immortalare un paesaggio, ti consiglio di ricorrere alle sfocature, anche se sempre con molta attenzione. L’importante è non dare troppa importanza a ciò che, invece, dovrebbe rimanere di sfondo. Ricorda sempre che nelle fotografie minimaliste sono i dettagli che contano. I panorami mozzafiato ti consiglio di lasciarli per le fotografie classiche.

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FAI ATTENZIONE AI CONTRASTI Come ti ho già detto, uno dei segreti della fotografia minimalista è l’utilizzo dei colori.A tale riguardo, ti consiglio di fare molta attenzione nella fase relativa alla scelta. Quando si parla di fotografia minimalista i colori devono essere utilizzati principalmente per creare un contrasto. Ciò non vuol dire che si deve andare alla ricerca forzata di una contrapposizione ma che, comunque, è bene che tu scelga colori che siano in grado di creare uno stacco particolarmente significativo. I contrasti servono per rimanere sempre ben legati a quella semplicità che tanto piace a chi predilige lo stile minimal. Una delle combinazioni migliori di colori in contrasto tra loro potrebbe essere, ad esempio, quella composta tra il rosso ed il blu.

Un consiglio: Spesso i colori che sembrano non essere accostabili sono proprio quelli che creano contrasti forti ed ideali per una fotografia minimalista. per questo motivo, ti invito a sperimentare il più possibile ed a fare più di uno scatto. In questo modo, avrai l’opportunità di selezionare il contrasto ideale per il tipo di messaggio che intendi trasmettere o, in alternativa, potrai decidere di continuare a scattare fino a che non riuscirai a trovare la giusta combinazione.

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0 5 . f o t o gr a f i a TIENI SEMPRE SOTTO CONTROLLO LE LINEE Come ti ho già detto, uno dei cardini della fotografia minimalista è la semplicità. Per questo motivo, i fotografi minimalisti tendono a scegliere texture e linee per rendere il racconto ancora più fluido e per accompagnare lo spettatore in un percorso fatto di emozioni e sensazioni. Il vero talento sta nell’individuare le linee guida cosiddette naturali in modo tale da consentire allo spettatore di guardare con i tuoi stessi occhi. Nel fare ciò, dovrai fare attenzione a non esagerare con gli elementi presenti nella foto. Per raccontare la storia ti servono solo gli elementi più significativi.

Ti stai chiedendo: Come si fa ad individuare le linee?

In realtà, non c’è niente di più semplice. Ti basterà andare alla ricerca di strade, ferrovie, marciapiedi e il gioco sarà fatto. Attenzione, però: anche in questo caso dovrai fare attenzione a non esagerare. Le linee, infatti, non devono rappresentare un elemento di disturbo ma, piuttosto, uno strumento attraverso il quale rendere più semplice lo scatto. Se non dovessi riuscire a raggiungere questo obiettivo, faresti meglio a cambiare soggetto. Ricorda sempre che se in una foto ci sono linee forti anche lo scatto sarà forte. Questa riflessione è un ottimo partenza per guardarsi intorno e trovare lo spunto giusto. Il mondo contemporaneo offre moltissime alternative a riguardo. Basti pensare, ad esempio, ai numerosi edifici che ci circondano, ma non solo: immortalare un uccello che si è posato su una linea dell’elettricità potrebbe rivelarsi uno scatto minimalista perfetto in cui a fare la differenza è proprio una linea.Non devi fare altro, quindi, che imparare a riconoscere le linee ed immortalarle al momento giusto. A questo punto, sei in possesso di tutti gli strumenti necessari per scattare fotografie minimaliste degne dei più grandi fotografi professionisti. Colori, linee, texture, contenuti, spazi e storie per te non hanno più segreti. Non ti resta altro da fare, quindi, che iniziare a sperimentare in modo tale da individuare un approccio del tutto personale con questo stile grazie al quale avrai la possibilità di farti riconoscere e di lasciare un segno nel mondo della fotografia. Come avrai capito, il segreto sta nel riuscire a mettere in ogni scatto una piccola parte di sé, Il minimalismo si basa essenzialmente sulla soggettività e sul punto di vista del fotografo. Per tale ragione, ti invito a fare tesoro dei consigli che ti ho appena dato, cercando, però, di metterci del tuo e di plasmarli esclusivamente sulla base delle tue esigenze e dei tuoi desideri. Pur essendo vero che per scattare foto minimaliste devono essere seguite determinate regole, è altrettanto vero che per riuscire a coinvolgere lo spettatore è necessario stupirlo. Semplicità e creatività, pertanto, devono andare di pari passo, dando forma ad una sinergia costruttiva e duratura attraverso la quale dovrai comunicare e cercare di trovare il giusto canale per comunicare con gli spettatori. Ricordati, infine, che le emozioni contano più di ogni altra cosa. Cerca, quindi, di scattare sempre e solo quando pensi di poter cogliere le sfumature di una storia. Così facendo, riuscirai ad entrare in empatia con chiunque si troverà davanti la tua foto, stabilendo una comunicazione basata essenzialmente sulle sensazioni condivise.

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j o h n a t h an s m i t h

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pa e s ag g I M I N I M A L I S T I Jonathan Smith è un fotografo inglese nato nel 1978. Ha studiato presso l'Istituto di Design Kent (KIAD) e il Centro Internazionale di Fotografia di New York. Dal 2000 al 2009 Smith ha lavorato nello studio del famoso fotografo di New York, Joel Meyerowitz. Nel 2001 ha iniziato a lavorare all'archivio di Meyerowitz, in particolare con le fotografie del World Trade Center e del Dipartimento Parchi, oggi parte del Museo della Città di New York. Il suo lavoro è apparso in riviste come Smithsonian e View magazines, PDN, Art and Architecture e The Royal Photographic Society Magazine.

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Jonathan ha ereditato da Meyerowitz la passione e l'attenzione per i paesaggi urbani e l'architettura. Nel suo progetto 'Est / Ovest', ad esempio, mette a confronto le due coste americane, mentre 'The Bridge Project' è una raccolta che rappresenta l'architettura industriale di New York. La sua estetica nel corso di questi lavori si caratterizza per l'uso di colori vivaci e per una particolare attenzione al rapporto luce/ombra. La serie che vi proponiamo è intitolata 'Streams' e rappresenta l'inverno in Islanda attraverso paesaggi minimalisti che contengono solo le linee blu disegnate dai torrenti che scorrono tra la neve bianca incontaminata del paesaggio. Lui realizza fotografia a colori in grande scala. Sono immagini che vogliono rappresentano la bellezza naturale e l’impermanenza e mutevolezza intrinseca di ogni paesaggio. In ogni fotografia il suo sguardo si focalizza sul mondo naturale, cerca di immortalare la complessa semplicità che compone ogni paesaggio e che determina le sue stesse immagini. Le fotografie che ottiene da questo attento sguardo nei confronti del mondo che lo circonda, si compongono di pochissimi elementi che a volte rendono difficile l’immediata comprensione della fotografia stessa. Ancora una volta sono solo poche linee, forme e due semplici colori a determinare il paesaggio per Jonathan Smith. “Stream” e “Glacier” sono due raccolte fotografiche che mostrano perfettamente il modo in cui Smith percepisce e si pone nei confronti del paesaggio con la sua macchina fotografica. Queste immagini mostrano paesaggi bicromi e minimalisti. La mutevole bellezza di questa natura semplificata è mascherata dietro a linee sinuose e forme astratte. Queste fotografie ricordano le opere d’arte astratta composte semplicemente da diversi colori e forme. Ad un primo sguardo infatti, è difficile che un osservatore identifichi, nelle immagini di Smith, un paesaggio. La composizione di queste immagini è perfettamente studiata e porta alla perdita della tridimensionalità del paesaggio, arrivando a rendere la natura qualcosa di puramente bidimensionale. Dunque la natura, in queste fotografie, si fa immagine astratta, forma e segno.

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musica


0 6 . m u s i ca “LA MUSICA OCCIDENTALE NELLA QUALE MI TROVAVO ERA AD UN PUNTO DI SVILUPPO MOLTO COMPLESSO ED IO VOLEVO RITROVARE LE ORIGINI, LE FONTI: LE FRASI RIPETUTE DEI PRIMI CANTI DELL’UMANITÀ.” ( Terry Riley uno dei primi compositori minimalisti).

Il minimalismo musicale, importante sorgente espressiva della musica della seconda metà del Novecento, analogamente e parallelamente al minimalismo delle arti visive, è nato negli Stati Uniti, principalmente sull'onda creativa di Philip Glass, Steve Reich, La Monte Young, e Terry Riley. Attualmente anche Ludovico Einaudi, Roberto Cacciapaglia (compositori e pianisti italiani) e Stefano Ianne (compositore e musicoterapeuta) sono considerati minimalisti. L'architettura della musica minimale si sviluppa su cellule melodiche brevi e semplici, e su figure ritmiche immediate, e dipana il discorso creativo sulla ripetizione, spesso ossessiva, di tali moduli, mentre il castello armonico e timbrico si evolve a formare la chiave espressiva dell'opera, utilizzando talvolta strumenti di raro utilizzo e sonorità inusuali, con la complicità dell'elettronica e della musica popolare.

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Per tutto l’Ottocento musicale impera il Romanticismo e tutte le sue teorie. Gli strumenti musicali rispettano il sistema di accordatura chiamato temperato equabile, cioè fatta da toni e semitoni che in tutto arrivano a 12 costituendo un ottava. Vi è sempre una sorta di gerarchia tra le note musicali e non si sente il bisogno di esplorare nuovi orizzonti: il sistema ben temperato era stato il riferimento musicale del passato. Tutte le convenzioni musicali si basano su questo sistema, che tuttavia non costituisce l’ordine naturale dei suoni. Alcuni musicisti, grazie alle misurazioni delle frequenze dei suoni rese possibili da nuovi macchinari di rilevazione e al fervore con cui affrontano questo problema, cominciano ad avere visuali diverse: si fa largo l’idea che gli strumenti possano essere esplorati: per es. per dirla alla Charles Ives, sarebbe necessario fisicamente inserirsi tra gli spazi dei tasti del pianoforte e vedere se è possibile ottenere nuove scale e nuovi suoni. In questo sistema di riferimento si inseriscono i primi minimalisti negli anni sessanta del novecento: i minimalisti rivendicavano un ordine naturale dei suoni che era stato prerogativa dei popoli antichi della Terra, ribadendo le relazioni matematiche tra i suoni e conferendo indirettamente un sapore mistico al movimento. Nella musica minimalista frammenti musicali molto brevi vengono ripetuti e sovrapposti in un continuo che procede per minime variazioni di ritmo, lunghezza, altezza e timbro. L’ascolto della musica minimalista, accompagnato da una particolare concentrazione, può portare ad uno stato di ipnosi, di coscienza meditativa. Il lento variare del materiale sonoro organizzato secondo uno stile minimalista, vuole porre l’attenzione sui piccoli particolari, sulle sfumature. In questo modo i compositori minimalisti intendono far percepire la musica come una “presenza” sonora, liberata dal dovere di comunicare per forza un messaggio, un’idea o una storia. Questa scoperta provocò un nuovo interesse nei confronti della ripetizione come pura tecnica di composizione musicale, caricandola di nuovi significati. Terry Riley Kyle Gann, noto professore e lui stesso musicista minimalista, in un suo articolo ha spiegato i tratti tipici del movimento. I

Philip Glass in maniera ciclica ripropone le sue armonie statiche in parecchie opere della gioventù (“Music in changing parts”, “Music in Twelve Parts”). David Borden compie un passo ulteriore nello sviluppo della corrente musicale introducendo nella composizione una valenza al contrappunto (“The continuing story of the counterpoint”). Il più importante e influente minimalista è La Monte Young che con un disco di quasi cinque ore “A Well Tuned Piano”, ricostruisce l’accordatura del pianoforte in modo da ottenere la just intonation. Questa composizione in cinque parti, ripetitiva, ossessiva, dichiara apertamente il suo amore per la musica concepita come organismo vivente: dallo strumento escono note che sembrano “stonate” alle nostre orecchie abituate alla convenzione dei 12 toni, ma che

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minimalisti si distinguono per alcune caratteristiche comuni: si muovono con una nota o poche note e utilizzano una corda o pochissime corde, usano la ripetizione, lavorano con un pattern di processi che viene integrato al massimo due volte nel brano. Quindi primo vero elemento innovatore è l’uso della ripetizione: in tal senso, Terry Riley mise in musica la suite “In C”, dove la lettera sta per il do musicale che si “ripete” per tutto il brano; costruisce poi 53 partiture per strumento che vengono man mano inserite. Un’altra innovazione sta nel “phasing” ed è dovuta a Steve Reich: il phasing è l’uso non sincronizzato di due suoni in maniera che l’uno segue l’altro; il processo applicato alle combinazioni non suolo di suoni ma anche dei ritmi e delle melodie produce un effetto reiterativo impressionante. Il violinista Tony Conrad e la sua allieva, la fisarmonicista Pauline Oliveros sono invece i fautori della “deep listening“: utilizzando anch’essi la just intonation, tendono a far emergere gli effetti di risonanza o di riverbero che possono venir fuori da spazi particolari come le cave, gli interni delle cattedrali, enormi sotteranei (cisterne). In particolare la Oliveros si distingue anche per la “sonic awareness” ossia l’abilità a concentrare l’attenzione sui suoni musicali, cercando di trarre dai suoni implicazioni terapeutiche, come descrive l’autrice nella sua teoria una sintesi della psicologia dei flussi della coscienza. I movimenti post-minimalisti hanno, non solo provveduto a recepire le istanze da altri generi musicali, ma anche ad effettuare particolare operazioni sul timbro degli strumenti. A proposito dei timbri, una brillante scoperta è stata effettuata da Gyorgy Ligeti e (ripresa anche da Stockhausen), che è riuscito a far emergere un nuovo concetto di polifonia vocale. La”micropolifonia” è una tecnica compositiva nella quale almeno dieci esecutori eseguono la propria parte in modo distinto da quella di altri dieci, in modo da creare degli effetti particolari: le armonie non cambiano improvvisamente, ma si mescolano lentamente l’una con l’altra: questi effetti si possono apprezzare pienamente nel brano “Lux Aeterna” che è un perfetto caleidoscopio di continue e singole figure polifoniche che si addensano in un meraviglioso amalgama.

fanno muovere il musicista e l’ascoltatore in un mondo musicale realmente diverso. Questa presunta “stonatura” dà luogo a continui cambiamenti nell’armonia e nei timbri e “costringe” il suo esecutore a rincorrerli con altre note o accordi che possano adeguarsi: il processo così va avanti, si evolve continuamente al pari degli organismi viventi e dà all’ascoltatore un senso di ipnosi. (e qui si nota come il fine musicale è parente di quei filoni musicali orientali). Un seguace dei nostri giorni di La Monte Young è Michael Harrison, il quale ha costruito pianoforti secondo un proprio metodo frutto dell’evoluzione di quello del suo maestro: la “pure intonation” ottenuta con un “harmonic piano” cioè un grand piano che offre la possibilità di suonare su un ottava fatta di 24 note.


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P R I N C I PA L I T E C N I C H E C O M P O S I T I V E U T I L I Z Z AT E D A I m i n i m a l i s t i a m e r i can i Assemblaggio per accumulazione e ritmi aumentati e diminuiti

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01 .

Giustapposione: assemblaggio orizzontale di piccoli frammenti ritmici e melodici per creare pensiero musicale

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Variazione: assemblaggio con giustapposizione cercando microvariazioni (con abbellimenti, note di passaggio, variazioni ritmiche, dinamiche, etc)

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Poliritmia: assemblaggio verticale con ritmi e /o melodie diverse

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Polimetria: assemblaggio verticale con metri contemporanei diversi

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Phasing (Reich) “Sfasamento� progressivo del ritmo per poi ritornare in fase (si verifica ad esempio quando i tergicristalli di una auto per un momento sono in sincronia con quelli dell’auto di fianco)

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Strutture ritmiche additive (Glass e Messiaen) Aggiunta di piccole cellule a una melodia (Glass)


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p h i l i p g l as s

IO SCRIVO PER UN PUBBLICO IDEALE, E PER ME IL PUBBLICO IDEALE È QUELLO CHE VUOLE ASCOLTARE SEMPRE QUALCOSA DI NUOVO. A MIO PARERE ESISTONO ESSENZIALMENTE DUE CATEGORIE DI COMPOSITORI: QUELLI CHE INVENTANO NUOVI LINGUAGGI E QUELLI CHE SI LIMITANO A RICICLARE DELLE FORMULE PREESISTENTI. QUESTE DUE TIPOLOGIE SI RITROVANO SIA NEL MONDO DELLA MUSICA CLASSICA SIA IN QUELLO DELLA MUSICA POP. MA LE ECCEZIONI ESISTONO IN TUTTI E DUE I CAMPI. ARTISTI COME DAVID BYRNE, DAVID BOWIE, LAURIE ANDERSON, NON SI LIMITANO A USARE DELLE FORMULE, MA HANNO SEMPRE CERCATO DI INNOVARE IL LINGUAGGIO MUSICALE CHE UTILIZZANO.

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Avan g uar d i e del 900 Tra le varie avanguardie musicali sorte lo scorso secolo, il minimalismo è stata una delle più significative e creative. Philip Glass, 77 anni, è uno dei padri spirituali di questo fenomeno artistico che si è sviluppato negli Stati Uniti all’inizio degli anni Sessanta. Oltre a Glass gli altri fondatori del minimalismo furono musicisti come La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich. Per minimalismo s’intende l’estrema riduzione del materiale musicale tradizionale e nella reiterazione di una frase con microvariazioni. Timbricamente uniformi, spesso tonali, e prive di una struttura musicale definita dall’armonia, le composizioni minimaliste cambiano progressivamente, ma in modo quasi impercettibile ed apparentemente statico, attraverso le ripetizioni e sovrapposizioni ritmiche di cellule melodiche che possono generare, a volte, tessuti sonori particolarmente complessi. Anticipato dal pianista francese Erik Satie, la cui composizione “Vexations” ebbe importanti ripercussioni sui compositori “ripetitivi”, e dalle opere di Earle Brown realizzate durante gli anni cinquanta, il minimalismo ebbe modo di affermarsi soprattutto grazie a compositori quali John Cage e Morton Feldman che, ispirati alla pittura d’avanguardia di New York, tentarono di proporre una musica di matrice statunitense. Philip Glass, nato a Baltimora nel 1937, dopo aver compiuto rigorosi studi accademici a New York, Chicago e Parigi, s’impose agli inizi degli anni ’60 come uno dei più prolifici e originali compositori della corrente minimalista e di musica contemporanea. In cinquant’anni di carriera professionale ha composto colonne sonore, musica da camera, dischi di pianoforte solista, sinfonie, dischi per orchestra, strumenti solisti e cori. Philip Glass è considerato come uno dei migliori compositori di musica colta e minimalista viventi per la sua estrema versatilità, originalità e eclettismo.

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0 6 . m u s i ca Nella seconda metà degli anni ’80 Philip Glass iniziò a scrivere una serie di composizioni minimaliste per solo pianoforte che raggiunsero il vertice con “Solo piano” uscito nel 1989. Il musicista statunitense voleva rendere omaggio in musica il capolavoro letterario “La metamorfosi” di Franz Kafka. Philip Glass compose cinque movimenti in cui emerge tutto il suo straordinario talento, la sua creatività nell’esprimere in musica l’enorme impatto culturale e letterario del romanzo di Kafka. Alcune composizioni furono utilizzate dal compositore anche per la colonna sonora di “The Hours” diretto da Stephen Daldry nel 2002. Il pianismo di Glass abbraccia un gran numero di influenze (Beethoven, Sostakovic, Schubert, Chopin, Bartok) ma la sua originalità lo rende come un vero e proprio caposcuola. Grazie alle sue composizioni il minimalismo (musica di non facile ascolto) si è imposta negli ultimi venti anni con l’apporto dei suoi ‘discepoli’ come Michael Nyman, Wim Martens, George Wiston, Brian Eno, Laurie Anderson, Arvo Part e Ludovico Einaudi. “Piano Solo” è sorta di ’summa’ del pianismo minimalista contemporaneo: l’ascoltatore rimane coinvolto e catturato da un continuo flusso di note che lo avvolgono in una melodia continua, senza fine. Una specie di magia pianistica che eleva questo strumento come il vertice assoluto per ogni compositore.

IL PROGETTO S O L O p i an o

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M I N I M A L I S TA M A

IMPREVEDIBILE

La presenza di Philip Glass in Italia non poteva che suscitare scalpore, considerata l'importanza del personaggio, indicato - alla stregua di Terry Riley, Steve Reich e La Monte Young - come uno dei padri indiscussi del minimalismo musicale. In lui, più che in altri, la scelta di esaurire nella ripetitività la propria ricerca si è affermata con tanta ostinazione. Irriducibile studioso della sfera ipnotica, egli ha individuato la quiete e la sublime bellezza nell'ostinata dimensione reiterativa sonora. Un'immutata sembianza tra il discinto, lo stravagante e l'irriguardoso accentua quell'alone di sapienza incantatrice che il musicista ha pazientemente deciso di costruire attorno a sé. Eppure si intuisce che anche per Philip Glass siano giunti gli attimi propri di una fama più effimera che duratura: il sopraggiungere nei suoi suoni di inflessioni appartenenti alla musica di consumo lo inducono oggi a prediligere elementi di conversazione che corrono sui binari della commercialità. La presentazione dal vivo delle musiche del film Koyaimisqatsi ha rappresentato il pretesto per una tournée che ha avuto inizio negli Stati Uniti, dove sono state toccate le città di Los Angeles, New Orleans, Saint Louis, per un totale di una quindicina di date; circa dello stesso numero di esibizioni si compone la serie di apparizioni europee, tra le quali Milano e Torino rappresentano le prime tappe.

Nel 1989 usciva “Solo piano” Capolavoro compositivo di eclettismo e creatività

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Fino a che punto si può parlare di libertà esecutiva in un tale contesto? L’accompagnamento del sonoro all’immagine cinematografica è utilizzato fin dai tempi del film muto e credo possegga a tutt’oggi un elevato potere emotivo. La musica eseguita dal vivo non consente di intervenire sulla struttura e sulla progressione dello spettacolo, bensì sulla dinamica; risulta quindi più efficace di una colonna sonora inserita in una sequela di immagini precedentemente registrate. E’ un intervento attivo ed eccitante. L’elemento fondamentale è la sincronizzazione, che deve essere molto precisa. Da sempre le sue composizioni si avvalgono di una serie di simbolismi che trovano una loro sublimazione nel legame con elementi extra-musicali (teatro, danza e cinema); Akhnaten, titolo della sua ultima opera incisa, ne rappresenta la più recente riprova. La musica, secondo me, deve avere inizio dal soggetto: l’opera si apre con il personaggio ed è lui, uomo raffigurante la religione, nel suo rapportarsi con la mia enfasi orchestrale, con la ricerca vocale e con la complessità del testo, a conferire un senso di misticismo al lavoro.Ho spesso tentato anche di dare vita a composizioni che non dovessero relazionarsi a qualcosa, ma mi sono reso conto che il mio massimo appagamento lo provo nel collaborare con altri artisti (Lucinda Childs, Twyla Tharp ... ) e solo così riesco a conferire un senso reale alla mia musica.

Come ha potuto trovare una connessione tra la musica occidentale classica e le musiche orientali? In realtà il mio interesse è particolarmente rivolto alla musica indiana meridionale (è grande amico di Ravi Shankar) e conosco bene la musica contemporanea giapponese. Per quanto mi riguarda l’aspetto più importante che io cerco di trasferire è quello ritmico, perché mi permette di dare corpo alle mie melodie senza che in esse vengano riconosciuti segnali provenienti dalle musiche orientali. Lei ha dichiarato di aver più volte utilizzato le strutture ritmiche come base, quasi a voler rovesciare le priorità contraddistintive della musica occidentale...Sì è vero. E questo risulta applicabile in particolar modo a quanto ho composto tra il 1965 e il 1975, ma soprattutto ho cercato di far coincidere un’idea melodica con la struttura ritmica. In prima istanza io lavoro su di una linea ritmica, successivamente su quella armonica ed infine su quella melodica: costruisco così la musica a partire dalla base. In Occidente si fa esattamente l’inverso.

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steve rEICh “ QUESTO PREMIO È IL SEGNO

DEL CAMBIAMENTO DELLE COSE; DOVEVA ARRIVARE PRIMA, MA MEGLIO TARDI CHE MAI.

Steve Reich è considerato uno dei padri del minimalismo. Ha studiato filosofia alla Cornell University e composizione alla Julliard School of Music di New York. Nel 2009 ha vinto il premio Pulizer per la musica con il brano “Double Sextet”. Nel 2014 gli è stato assegnato dalla Biennale Musica di Venezia il Leone D’oro alla carriera, al proposito del quale ha detto: “Questo premio è il segno del cambiamento delle cose; doveva arrivare prima, ma meglio tardi che mai”. “Music of Pieces of Wood” è uno dei pezzi scritti da questo compositore nel 1973. A questo brano di Steve Reich è stata sincronizzata, nel filmato qui sotto proposto, una grafica a tasselli colorati che ci permette di cogliere visivamente il variare e sovrapporsi di ritmi ottenuti con semplici bastoncini e blocchi di legno. In questo modo possiamo capire l’essenza della musica minimalista: l’apparente staticità di un brano che sembra ripetersi invariato nel suo fraseggio musicale, ma che in realtà si evolve continuamente con l’inserimento di nuove e “minime” variazioni ritmiche o melodiche, generando una suggestione ipnotica basata sul suono. Nel brano melodia e armonia sono assenti, solo un suono che si evolve via via costruito su una pulsazione costante e regolare (tasselli rossi). Sono anche evidenti qui le influenze musicali delle culture africane e asiatiche.

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0 6 . m u s i ca Come compositore, Steve Reich si muove in bilico su un filo sottile a metà tra la continuità della tradizione della musica occidentale e la sua più radicale sovversione attraverso suggestioni orientali o arcaiche; da queste connessioni eterogenee «risulta – come lo stesso Reich ci spiega – una situazione interessante, in cui l’influenza non occidentale si manifesta nella concezione dell’opera, ma non nel suono…l’influsso delle strutture musicali non occidentali sul sistema di pensiero di un compositore occidentale può effettivamente portare così a qualcosa di nuovo anziché a un’imitazione», ed è esattamente ciò che accade in Drumming, uno dei vertici estremi della creazione artistica del compositore statunitense. In questo suo lavoro, datato 1971, Steve Reich realizza molti degli spunti e degli interessi che andava esplorando nei suoi scritti teorici degli stessi anni oltre a concretizzare ed esaurire i motivi chiave della così detta minimal music; il compositore statunitense viene infatti considerato, con Philip Glass e Terry Riley, uno dei fondatori storici del minimalismo se non il suo esponente più illustre e prolifico. Nata tra gli anni Sessanta e Settanta, la corrente musicale minimalista si sviluppa proprio nel momento in cui le avanguardie e la Neue Musik cominciano a cristallizzarsi perdendo la loro dinamicità, e risponde al bisogno di sperimentare qualcosa di totalmente nuovo basandosi sulla chiarezza più estrema: senza rossori intellettualistici si recuperano la tonalità, il diatonismo consonante e si costruiscono strutture anche molto complesse a partire da pochi semplici elementi variati in maniera tanto graduale da permettere all’ascoltatore di av-

vertire chiaramente il cambiamento. In realtà, Steve Reich non accetta in maniera rigida la definizione di compositore minimalista poiché la sente come «un’etichetta» troppo riduttiva che rischia «di inscatolarti senza più farti uscire», ed effettivamente la sua esperienza artistica è talmente eclettica e complessa da non riuscire a rientrare in questa formula; se, però, si prendono in considerazione i suoi lavori di esordio fino a Drumming risulta chiaro come il compositore sia effettivamente la personalità artisticamente più rilevante della corrente minimalista, non solo per la sua musica ma anche per la chiarezza concettuale con cui teorizza la sua estetica. Nel breve saggio scritto nel 1968 e intitolato Musica come processo graduale, Reich spiega la sua concezione di composizione intesa appunto come processo «che sia tutt’uno con la realtà sonora» e che esemplifica pienamente l’idea minimalista: «la caratteristica dei processi musicali è che determinano simultaneamente tutti i dettagli, nota per nota, e la forma complessiva»; inoltre il pensiero primigenio dalla quale nasce poi la composizione deve essere percepibile e trasparente, bisogna «poter udire il processo nel suo svolgimento sonoro». Alla tecnica di composizione graduale si associa quella del phasing, ossia il processo attraverso il quale due elementi musicali identici o molto simili procedono parallelamente ma a velocità impercettibilmente differenti fino a raggiungere una progressiva sfasatura ritmica tra le due parti che induce l’ascoltatore a una forte concentrazione dandogli la sensazione contraddittoria di continuità assoluta e perpetuo cambiamento.

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Eleonora Signorelli

EURO 10,00


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