Elia La Gamma
MATERIALI Per studenti di Ingegneria dell’Energia e affini
Giugno 2019
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“Lo studio dei materiali mi ha reso piĂš consapevole della loro importanza nella vita di ogni giorno e mi ha fatto maturare un grande rispetto per tutti coloro che si occupano della loro produzione, o della loro messa in opera, o che lavorano nel campo della ricerca per svilupparne tanti altri sempre piĂš innovativi.. Ho anche meglio compreso il particolare valore di quei materiali, quali il cemento e le plastiche, spesso molto disprezzati, ma dietro i quali si cela un inestimabile sapere.â€? (Elia La Gamma)
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INDICE INTRODUZIONE
pag.
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1) L’ACQUA (cenni da un punto di vista più industriale)
pag.
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2) MATERIALI METALLICI e METALLURGIA (in particolare gli acciai)
pag. 13
3) LA CORROSIONE DEI METALLI (in particolare la corrosione a umido)
pag. 31
4) POLIMERI e MATERIALI POLIMERICI SINTETICI
pag. 55
5) MATERIALI CERAMICI
pag. 71
6) VETRI
pag. 83
7) MATERIALI COMPOSITI
pag. 93
8) LEGANTI (tra cui i cementi) IN EDILIZIA
pag. 99
9) MATERIALI ELETTRICI e MAGNETICI
pag. 119
BIBLIOGRAFIA
pag. 141
INDICE ANALITICO
pag. 143
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INTRODUZIONE Questo testo fornisce una descrizione di vari tipi di materiali e delle problematiche ad essi associate, più diversi cenni sugli aspetti produttivi e/o applicativi, per permettere allo studente di familiarizzare in maniera concreta con ciò che riguarda i principali materiali presenti al mondo. In molti casi gli argomenti sono complementari a quanto viene trattato nel corso di Materiali di Ingegneria dell’Energia. Nel complesso, per come è stato sviluppato il suo contenuto, questo elaborato si rivela utile per tanti tipi di lettori.
Note dell’autore: Quando iniziai a scrivere questo testo, nel 2012, lo feci con carta e penna, da studente universitario, con l’idea di scrivere un libricino destinato solamente a me. Desideravo infatti poter conoscere meglio le caratteristiche dei materiali presenti nella vita di ogni giorno e desideravo trovare risposta a molte di quelle domande che spesso mi ponevo e che immaginavo si ponessero anche tanti altri studenti di Ingegneria e non solo. E proprio perché col tempo ritenni che quanto stavo scrivendo potesse tornare utile anche agli altri studenti, decisi di passare alla scrittura al computer. Nato, quindi, come testo cartaceo dallo stile spartano (molto più evidente nel primo capitoletto sull’acqua), un testo che oltretutto era privo di immagini perché potevo andarle a rivedere ogni volta sui vari libri o sui siti internet che consultavo, esso finì per essere convertito pian piano in uno scritto rivolto anche alle altre persone. Adottai così un’impostazione più formale, cercando tuttavia di mantenere un linguaggio semplice e diretto. Dopo alcuni anni, posso dire di essere riuscito ad ultimare discretamente bene il lavoro nel suo contenuto, ma purtroppo non altrettanto bene nella sua forma. Sono due gli aspetti principali che spero mi perdonerete: l’assenza di immagini che non ho più avuto il tempo di aggiungere (a parte un diagramma qualitativo molto importante e pochi altri schemi, da me realizzati) e l’assenza di riferimenti bibliografici tra un paragrafo e l’altro. Questo secondo aspetto è dovuto alla bibliografia conservata fin da subito, ma scritta solamente a lavoro terminato, sia perché all’inizio non credevo che avrei avuto la pazienza (o la follia) di scrivere un testo rivolto anche agli altri studenti, sia perché a quel tempo non ero ancora esperto di come si dovessero redigere le note bibliografiche. Mi scuso quindi in anticipo e vi tranquillizzo, inoltre, sul fatto che la parte più inutile e prolissa, per non dire “pallosa”, di quanto da me scritto, sono solo queste “note dell’autore”. Il resto è scienza dei materiali, quindi buon studio!
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CAPITOLO 1 - L’ACQUA
1 L'A CQ UA
(cenni da un punto di vista più industriale)
Alcune sue classificazioni e informazioni sul contenuto; aspetti legati alla corrosività; principali trattamenti delle acque grezze. Lo studio dell'acqua, in ambito industriale, è importante non solo per i requisiti di potabilità della stessa, ma anche perché essa influisce sulla corrosione delle tubature, sulla durata di vari impianti, sulla qualità dei prodotti con essa realizzabili, ecc.. Eccone pertanto esposto un brevissimo capitolo.
Acque naturali: acque dolci, acque marine. Acque dolci: si suddividono in acque piovane, di superficie e sotterranee. - l'acqua piovana, prodotta dalla condensazione del vapor acqueo nell'atmosfera, ha un pH normalmente compreso tra 5.5 e 6.5. Questi valori sono dovuti in particolare al piccolo contenuto di acido carbonico, H2CO3 , prodotto dalla reazione delle gocce d’acqua con l’anidride carbonica presente in atmosfera. A causa anche dell’inquinamento atmosferico (zone industriali, o popolate, ecc.), l’acqua piovana acquista spesso un carattere ben più acido, soprattutto per l’emissione di ossidi di zolfo e ossidi di azoto, che, venendo assorbiti in atmosfera, portano, tramite varie reazioni, allo sviluppo finale dei rispettivi acidi solforico, H2SO4, e nitrico, HNO3 (le “piogge acide” hanno un pH circa compreso tra 2 e 5, ma nel mondo sono già stati localmente registrati valori addirittura inferiori a 2). - le acque superficiali, a contatto con atmosfera, suolo e in presenza di processi biologici, di inquinamento, eccetera, si arricchiscono in concentrazioni molto variabili di sostanze organiche e di minerali. Il contenuto salino delle acque superficiali dipende in particolare dalla conformazione geologica dei terreni a diretto contatto con esse. - le acque sotterranee, percolando attraverso il terreno, subiscono un naturale processo di filtrazione, che elimina le sostanze sospese e i batteri. Possono bastare alcuni metri di profondità (spessore del terreno) per avere un'acqua sterile (se non viene in qualche modo raggiunta da liquami inquinanti). Tuttavia, durante il percorso, l'acqua scioglie sostanze minerali contenute nel terreno e nelle rocce. Tra le acque dolci sono importanti quelle potabili (pH 6.5 ÷ 9.5), che derivano principalmente da acque sotterranee o sono ottenute per trattamento chimico-biologico delle acque superficiali.
Acque di mare: Le caratteristiche dell'acqua di mare variano con il luogo geografico, con la profondità e con il tempo (cicli stagionali, maree, notte-giorno). Le variazioni più accentuate si osservano vicino alle coste per miscelamento con acque dolci, per evaporazione da bacini chiusi, per l'inquinamento ambientale, eccetera. Gli strati superficiali delle acque di mare (da alcuni metri ad alcune decine di metri) risentono dei moti ondosi e delle perturbazioni atmosferiche, che tendono a uniformare composizione chimica, temperatura e densità, 7
CAPITOLO 1 - L’ACQUA
mentre più in profondità le proprietà delle acque variano in modo più graduale man mano che si scende di quota. L'acqua di mare contiene varie specie chimiche, gas disciolti, fasi solide disperse, vi avvengono processi biologici, ha una salinità media tra i 34 e 36 g/L , i principali ioni in essa presenti sono Na+, Mg2+ , Cl- , il pH è “leggermente” basico, con valori medi abbastanza costanti (valori indicativi sono tra 7.4 e 8.4).
Alcune informazioni legate agli effetti corrosivi dell’acqua L'ossigeno, O2 , è presente nelle acque naturali perché diffuso dall'atmosfera. La sua solubilità dipende dalla temperatura e dalla salinità dell'acqua. L'O2 disciolto nelle acque dolci o di mare determina la corrosione (spiegata nel terzo capitolo) di molti metalli, in particolare degli acciai. L'acidità dell'acqua influenza/provoca la corrosione dei metalli, inoltre influenza l'equilibrio carbonati/bicarbonati, quindi il potere incrostante dell'acqua stessa. Negli acquedotti si raccomanda un pH neutro-alcalino (cioè neutro-basico), specie per escludere corrosioni dovute alla reazione di evoluzione dell'idrogeno (cioè per riduzione di ioni H+ ad H2 ). La durezza totale è la concentrazione di ioni calcio e magnesio in un acqua. E' somma di durezza temporanea e durezza permanente. La durezza temporanea misura la quantità di calcio e magnesio presenti come bicarbonati, i quali determinano la precipitazione dei carbonati (che avviene, ad es., se si scalda l'acqua raggiungendo minimo circa 70 °C); la durezza permanente misura la quantità di ioni calcio e magnesio presenti come sali solubili (ad es. cloruri e solfati). La durezza totale viene spesso espressa in quantità equivalente di CaCO3 (in mg/L), ad es. in gradi francesi (1°f = 10 mg/L di CaCO3). Alla durezza è legato il potere incrostante: più l’acqua è dura, più è incrostante. Potere incrostante: propensione di un'acqua a depositare carbonato di calcio su una superficie a contatto con essa. Le incrostazioni di carbonato di calcio, principale componente del cosiddetto “calcare”, si formano dal bicarbonato di calcio Ca(HCO3)2 (bicarbonato e carbonato sono sali basici), presente solo in soluzione acquosa e molto più solubile del CaCO3 , e dipendono prima di tutto: - dalla concentrazione di bicarbonati/durezza temporanea dell’acqua (più bicarbonati ci sono, più è incrostante); - dalla durezza (totale) dell'acqua (maggiore concentrazione di calcio e magnesio, maggiore potere incrostante); - dal pH dell'acqua (più è alto, cioè più è basico, più è incrostante); - dalla temperatura (al suo crescere, diminuisce la solubilità del carbonato di calcio CaCO3 , quindi è più alto il potere incrostante dell'acqua). Per definire il potere incrostante, spesso si utilizza l'indice di saturazione o indice di Langelier: S.I. = pH - pHs dove pH è il pH dell'acqua in esame e pHs è il pH di saturazione per il quale non si ha né dissoluzione, né precipitazione di carbonato di calcio. (per S.I. > 0 acque incrostanti, per S.I < 0 acque aggressive a causa del rischio di corrosione per mancanza di incrostazione). La reazione che regola l’equilibrio bicarbonati/carbonati è: Ca(HCO3)2 (aq) ⇋ H2O (l ) + CO2 (g) + CaCO3 (s) ; si noti come la temperatura, salendo, favorisca la fuoriuscita di CO2 (g) dall’acqua, diminuendo così la solubilità del CaCO3 (s). Alla salinità totale è collegata la conducibilità elettrica di un'acqua (proporzionale al contenuto di sali disciolti), che favorisce la corrosione elettrochimica delle superfici metalliche. Cloruri e in parte i solfati sono le specie anioniche più aggressive per l'acciaio, e la loro concentrazione è un parametro spesso monitorato per valutare il grado di corrosività di un’acqua. 8
CAPITOLO 1 - L’ACQUA
In acqua esistono vari tipi di attacchi batterici in grado di corrodere i metalli, tra cui, ad es., quelli dei batteri solfato-riduttori, i quali proliferano in condizioni anaerobiche in presenza di ioni solfato, che vengono da essi ridotti a solfuri (l'attacco corrosivo è caratterizzato dalla formazione sul metallo di depositi neri, prodotto di corrosione, contenenti i solfuri). Molte acque industriali e le potabili sono perciò trattate con cloro, sotto forma di vari composti, che le rende più sterili, non solo per una loro idoneità all’organismo umano, ma per ridurre il rischio di attacchi batterici sulle superfici metalliche. Il cloro in eccesso in soluzione (cloro libero o residuo) continua ad esercitare l’azione di sterilizzazione a danno dei batteri per giorni, quindi si opera in modo che la concentrazione di cloro residuo sia tale da avere un effetto corrosivo, del cloro sui metalli, trascurabile. La temperatura ha effetti diversi sulla corrosione in base al tipo di acque e di superfici che le delimitano: ad es., aumentando, può velocizzare le reazioni di corrosione; o favorire lo sviluppo di prodotti di corrosione protettivi; o stimolare il depositarsi del calcare (notare che esso riduce sì la corrosione, ma pure lo scambio termico attraverso le pareti, utile ad es. negli scambiatori di calore).. La velocità dell'acqua nei condotti influenza vari aspetti: può rimuovere depositi protettivi (essi a loro volta influenzano il moto dell’acqua); o influire sui fenomeni di trasporto in soluzione; modificare l'efficacia di inibitori di corrosione; aumentare l'abrasività delle acque di lavoro contenenti sabbia..
TRATTAMENTI DELLE ACQUE GREZZE Siccome la distillazione costa troppo, i macchinari più usati per la rimozione dei solidi sospesi sono i sedimentatori e i filtri a sabbia, o a pressione. All'interno di un macchinario per la rimozione dei solidi sospesi il processo avviene in sequenza, fondamentalmente tramite le fasi di: grigliatura, sedimentazione e infine filtrazione (in questa sequenza possono essere aggiunte ulteriori fasi). I solidi sospesi (definiti tali se hanno dimensioni superiori a 0.45 μm) si distinguono in solidi sedimentabili e non sedimentabili, in base alla velocità di raggiungimento del fondo del recipiente. A seconda dei casi, può essere richiesta anche la rimozione dei colloidi, che in acqua si distinguono in colloidi idrofili (assorbono sulla loro superficie uno strato d'acqua) e in colloidi idrofobi. Un sistema colloidale è in pratica un sistema eterogeneo in cui la fase finemente dispersa, le cui particelle sono chiamate appunto colloidi, ha dimensioni quasi sempre inferiori a quelle dei solidi sospesi, ma maggiori di quelle dei soluti (quindi già per le dimensioni e per altre proprietà non si parla né di solidi, né di soluti). Spesso, in acqua, l'aspetto problematico dei colloidi è la repulsione elettrostatica tra le varie particelle (a causa della concentrazione di cariche disposte sulla loro superficie), che impedisce la formazione di aggregati più voluminosi e quindi più facilmente sedimentabili. Ecco, così, che, proprio e soprattutto per i colloidi, negli impianti di trattamento dell’acqua, può essere aggiunta la fase di chiariflocculazione, in cui con l'ausilio di reagenti chimici li si porta ad una conversione e accrescimento in fiocchi, che sono poi rimovibili. In generale, per facilitare l'agglomerazione di particelle, quindi la loro sedimentazione, si usano due tipi di sostanze: i coagulanti, di natura inorganica; o i polielettroliti, di natura organica. Alcuni esempi di coagulanti sono i sali di ferro e di alluminio. I polielettroliti sono invece macromolecole organiche ottenute da processi di polimerizzazione. Non per tutti gli usi, le acque necessitano di trattamenti complessi, ma in ogni caso le variabili e i parametri da monitorare/regolare sono molti (temperatura, pH, salinità, velocità dell’acqua, concentrazioni dei reagenti eventualmente introdotti, ecc.), sia per la loro influenza sulla corretta rimozione finale delle sostanze solide indesiderate, che per altri motivi. 9
CAPITOLO 1 - L’ACQUA
Il filtro a sabbia (accenno): è un recipiente riempito con materiali diversi, a strati sovrapposti sempre più compatti rispetto a quelli soprastanti, che lasciano filtrare l'acqua, trattenendo le particelle più grosse, ripulendola così man mano che scende di strato in strato. La massa filtrante dopo un certo periodo si satura e va quindi ripulita. Il trattamento per diminuire la durezza dell'acqua viene chiamato addolcimento e si può effettuare con il metodo calce-soda, il metodo al fosfato o con le resine scambiatrici di ioni:
Metodo calce-soda La calce, meglio se già calce idrata, cioè Ca(OH)2 , e la soda, Na2CO3, vengono miscelate a parte ed entrano poi a contatto con l'acqua nel reattore a forma cilindrica con il fondo a tronco di cono, dalla cui estremità usciranno i fanghi. Calce e soda in acqua servono a portare soprattutto alla formazione del CaCO3 (ma non solo), che funge da centro di aggregazione, ingrossandosi via via che procedono le reazioni di precipitazione. Mentre i fanghi si depositano sul fondo, l'acqua esce invece per troppo pieno tramite una valvola (alla fine l’acqua avrà circa 2-3 gradi francesi). Nota: prima di entrare nel reattore, l’acqua può passare anche attraverso uno scambiatore di calore che ne fa abbassare la viscosità per aumento della temperatura (dell'acqua), facilitando così la successiva separazione delle particelle solide.
Metodo al fosfato Questo è un metodo per abbassare i gradi francesi, che si impiega dopo il calce-soda, soltanto per trattamenti di affinazione, poiché il reagente utilizzato, l'Na3PO4 (fosfato di sodio), è molto costoso. Si usa tale metodo perché i fosfati di calcio e magnesio sono poco solubili in acqua, quindi facilmente separabili. L'acqua trattata con questo processo, prosegue infine in un filtro a pressa.
Resine scambiatrici di ioni Tale metodo si usa per demineralizzare l'acqua, cioè per rimuovere completamente tutte le sostanze sospese e/o disciolte in acqua (la quale deve avere una bassa concentrazione di ioni disciolti altrimenti tale metodo non è il più economico, anzi). Si definiscono scambiatrici di ioni quelle sostanze in grado di scambiare i loro ioni con quelli presenti in acqua. Le resine impiegate si dividono in resine cationiche, in grado di cedere ioni H+ in cambio di ioni metallici Mex+ , e anioniche (scambiano diversi tipi di anioni in base al tipo di resina inserita). Attualmente si usano resine di origine sintetica, introdotte in forma granulare ad elevata porosità. Per migliorare l'efficienza del processo, il trattamento con resine viene proceduto da uno stadio di filtrazione per ridurre al minimo la presenza di solidi sospesi nell'acqua in ingresso. Prima delle resine spesso si fa inoltre venire a contatto l'acqua con i carboni attivi, che evitano l'avvelenamento delle resine per l'eventuale presenza di ammoniaca o coloranti in acqua, che farebbero perdere alle resine la loro efficacia. Il tempo di contatto minimo tra l'acqua e la resina si aggira tra i 2 e 3 minuti (dipende dal tipo di resina) e la velocità di flusso dell'acqua deve essere inferiore a 1 m/h. I filtri vanno cambiati periodicamente sia perché saturano, sia perché la capacità dei carboni attivi va diminuendo, sia perché si possono formare microorganismi. Le resine con il tempo saturano anch’esse e vanno sostituite (ce se ne accorge mettendo a valle del processo un 10
CAPITOLO 1 - L’ACQUA
contatore di conducibilità elettrica dell'acqua). Per allungare la vita di una resina si può fare un processo di rigenerazione, con soluzioni concentrate di cloruri per le resine cationiche, o di soda caustica per le resine anioniche. I processi di rigenerazione vengono effettuati laddove l'acqua abbia concentrazione salina molto bassa e quindi le resine saturino lentamente nel tempo. Dissalazione o desalinizzazione di acque salmastre (o, in termine meno corretto, “dissalaggio”): il metodo dell'osmosi inversa. Per acque con salinità elevata, la rimozione di solidi disciolti viene effettuata con il metodo dell'osmosi inversa, che porta ad un'efficacia del 95% nella rimozione dei solidi disciolti e del 100% nella rimozione di batteri e virus.. L'osmosi fa sì che se in un recipiente è presente acqua pura e a fianco, separata da una membrana semipermeabile, acqua salina, allora l'acqua pura attraversa la membrana per ridurre la differenza di concentrazione salina tra le due soluzioni, portando ad un dislivello maggiore tra le acque, con un rialzo del livello per l'acqua salina e un abbassamento del livello per l'acqua pura. Il metodo dell'osmosi inversa sfrutta questo fenomeno al contrario, applicando sull'acqua salina una pressione superiore alla pressione osmotica e facendo così passare l'acqua da una soluzione concentrata ad una meno concentrata. Degassaggio di un'acqua Per il degassaggio quasi totale di un'acqua (da tutti i gas) si utilizza vapore d'acqua ad una pressione di 5 ata e una temperatura di 141 °C. L'acqua da degassare si preriscalda e viene inserita nella colonna di degassaggio a piatti, dove dal basso viene introdotto il vapore d'acqua. Per effetto dell'alta temperatura e della bassa pressione dei gas, essi vengono trasportati dal vapore verso l'alto, abbandonando l'acqua. Se interessa soprattutto eliminare la presenza di ossigeno dall'acqua, si utilizza la deossigenazione chimica con idrazina N2H4 (N2H4 + O2 > N2 + 2H2O). Non si usa però per acque potabili perché è oltretutto cancerogena. Sterilizzazione Per eliminare microorganismi nell'acqua, il metodo più diffuso è l'uso del cloro (il Cl verrà trattato durante il capitolo 3); altre tecniche sono l'utilizzo delle radiazioni ultraviolette e l'ozonizzazione. Osservazioni sul capitolo In questo capitolo, oltre ad aver riportato valori utili, si è voluto soprattutto far intuire quali siano alcuni aspetti che vengono presi in considerazione per l’acqua nell’ambito industriale, senza dover approfondire per forza tali aspetti. Si sarebbe potuto, ad esempio, spiegare esaustivamente i vari processi per il trattamento delle acque grezze (anche elencando tutte le reazioni chimiche che entrano in gioco, ecc.), ma ciò sarebbe risultato forse di maggior interesse per i chimici e gli ingegneri chimici, meno per gli altri studenti. In ogni caso, quanto di importante occorrerà sapere dell’acqua, per la comprensione dei capitoli successivi, verrà inserito negli stessi. 11
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CAPITOLO 2 - METALLI
2 MATERIALI METALLICI e METALLURGIA (in particolare gli acciai)
In questo e nei prossimi capitoli, si tralascerà quanto noto sugli elementi dai precedenti studi di chimica generale, dando per scontati, ad es., il significato di elettroni di valenza e la conoscenza dei vari tipi di legame chimico.. Per introdurre i materiali metallici si partirà piuttosto dalla loro struttura fisica, passando poi alla metallurgia, che verterà in specifico sugli acciai, per terminare poi con gli acciai legati (gli inox saranno però spiegati nel prossimo capitolo riguardante la corrosione dei metalli) e poche altre leghe/elementi puri.
I materiali metallici allo stato solido presentano una struttura microscopicamente costituita da domini in cui il materiale è in forma cristallina ordinata, detti grani o cristalli, che sono però tra essi casualmente orientati nello spazio, di dimensioni variabili, eccetera (tutto ciò a meno di trattamenti mirati). Materiali siffatti sono detti policristallini. Gli atomi più esterni di tali grani costituiscono i bordi dei grani stessi. Nel reticolo cristallino dei grani e tra i vari bordi sono presenti vuoti o zone amorfe, anche detti zone interstiziali o interstizi. Nella struttura metallica, si può sempre individuare la cella unitaria, cioè la più piccola configurazione geometrica ordinata di atomi, che, ripetuta, forma l'intero reticolo cristallino dei grani. I reticoli cristallini effettivamente presenti nei metalli puri sono: - il reticolo cubico a corpo centrato
- il reticolo esagonale compatto
;
.
- il reticolo cubico a facce centrate
;
(le centrature sono dovute agli elementi delle celle unitarie adiacenti traslate/compenetrate)
All’interno di una struttura cristallina reale esistono zone in cui gli atomi non sono in ogni caso disposti ordinatamente. Ci sono, cioè, difetti puntuali (ad es. manca un atomo in un punto del reticolo), di linea (possono esserci semipiani di atomi in eccesso nel reticolo, che originano distorsioni nella distribuzione planare degli atomi del reticolo stesso, dette dislocazioni), o di superficie (legate ai bordi dei grani), alteranti le proprietà di un materiale e favorenti la presenza di impurità interstiziali e/o sostituzionali. Dato che tutti i difetti si spostano di continuo nella struttura di un materiale, con moto dipendente da temperatura e da sforzi meccanici, allora elementi e composti interstiziali o di sostituzione possono essere volutamente presenti nel materiale per migliorarne le caratteristiche meccaniche limitando il moto delle dislocazioni. Li si possono inoltre aggiungere per far acquisire o modificare ulteriori proprietà anche non meccaniche. I metalli se sottoposti a sollecitazioni esterne subiscono deformazioni di tipo elastico (sparita la sollecitazione si ripristina la forma iniziale) o, superata la tensione di snervamento, di tipo plastico (scorrimento irreversibile permanente del reticolo cristallino lungo direzioni/piani preferenziali: si parla di moto delle dislocazioni e di piani di dislocazione). Alcuni materiali, tra cui i metalli, in seguito a variazioni di temperatura o di pressione, possono modificare la propria struttura conservando la composizione chimica. Tali materiali sono detti polimorfi o allotropici. Ci sono due tipi di trasformazione polimorfa: trasformazione per distorsione, che implica la distorsione della struttura senza la rottura dei legami; e la trasformazione ricostruttiva, che implica la rottura dei legami e può essere irreversibile. Esse sono entrambe importanti specialmente per le leghe metalliche, le quali sono materiali ottenuti a partire da miscele di metalli, o di metalli più non metalli, che solidificando presentano proprietà metalliche. Tali leghe sono costituite dal metallo base più elementi di alligazione, che vengono appositamente studiati e dosati allo scopo di ottimizzare un insieme di proprietà o di ottenere proprietà specifiche. 13
CAPITOLO 2 - METALLI
Per quanto riguarda la loro struttura, le leghe possono essere costituite da: - soluzioni solide, dove nel reticolo cristallino formato dagli atomi dell’elemento principale (solvente) coesistono atomi di uno o più altri elementi (soluti), che sono presenti negli interstizi del reticolo stesso (avviene soprattutto se sono elementi più piccoli dell’elemento principale), oppure sono presenti in sostituzione di alcuni atomi del solvente stesso (ciò può capitare tra elementi con stessa valenza o comunque simili per dimensioni ed elettronegatività, insomma piuttosto vicini tra loro nella tavola periodica); - composti intermetallici, di composizione ben definita (Na2Au, MgZn2, Cu3Al ..) composta da metalli di elettronegatività spesso anche ben diversa (ben lontani tra loro nella tavola periodica); - miscele meccaniche, cioè miscele eterogenee di soluzioni solide e composti intermetallici o non metallici (vari composti, inoltre, esistono solo perché ottenuti durante la produzione delle leghe). Nota: da quanto sopra, ricordando che, quando si parla di fase (solida, liquida o gassosa) si intende una porzione di materia chimicamente e fisicamente ben definita e uniforme, si ha quindi che nelle leghe metalliche quasi sempre coesistono più fasi. Raramente, infatti, si ha una piena solubilità dei componenti minori nella struttura del componente maggiore, tale da formare alla fine un’unica fase omogenea.
Principali caratteristiche/proprietà meccaniche dei materiali metallici (e loro leghe) - isotropia: essi hanno proprietà indipendenti dal loro orientamento nello spazio e dalla direzione delle sollecitazioni. I policristallini hanno infatti un’isotropia di compenso, dovuta cioè alla casualità dell’orientamento/disposizione spaziale dei grani, che quindi si bilanciano mediamente tra loro; - resistenza meccanica: permette loro la sopportazione di sollecitazioni esterne di tipo meccanico; - elasticità: capacità di recuperare la forma iniziale al cessare delle sollecitazioni che hanno causato deformazioni (un po’ si riducono pure dopo che è cessata una tensione di snervamento o di rottura); - duttilità: capacità di deformarsi plasticamente e di snervarsi prima di arrivare alla rottura; - durezza: capacità di resistere alla penetrazione. Nei materiali metallici fornisce quindi una misura del grado di resistenza alla deformazione plastica. Di solito i materiali duri resistono meglio a tutti i tipi di corrosione meccanica (abrasione, ecc.). Reticoli cristallini compatti tendono a offrire più durezza; - tenacità: capacità di assorbire energia e ostacolare la propagazione di cricche/difetti localizzati prima di arrivare a frattura/rottura; - resilienza (significato italiano): capacità di resistere a sollecitazioni di tipo impulsivo (a urti vari..); - resistenza a fatica: resistenza a rottura da sollecitazioni ripetute;
Proprietà tecnologiche principali dei materiali metallici (e delle leghe metalliche) (naturalmente non da tutti possedute in eguale misura) - colabilità: capacità di fondere e riempire la forma del recipiente in cui vengono colati; - malleabilità: capacità di deformarsi plasticamente per compressione; - formabilità: capacità di ottenere la forma voluta tramite deformazione plastica; - saldabilità: capacità di poter essere uniti con altri materiali tramite fusione nella parte da collegare e senza che avvengano rotture o danneggiamenti; - temprabilità: capacità di modificare la propria durezza tramite un trattamento di tempra, cioè un riscaldamento fino ad alte temperature, seguito da un raffreddamento brusco; - lavorabilità: capacità di muoversi/deformarsi e all'occorrenza di perdere parti di materiale, quando sottoposti ad azioni esterne (ad es: asportazione di trucioli); 14
CAPITOLO 2 - METALLI
Schema di tutte le fasi e operazioni principali possibili in un processo metallurgico
Per i metalli il passaggio dallo stato liquido allo stato solido avviene in due stadi: nucleazione, cioè si formano i primi germi di struttura cristallina; accrescimento, cioè tali germi aumentano di dimensioni, prendendo il nome di grani. L'accrescimento si arresta quando i bordi dei vari grani vengono a reciproco contatto. Maggiore è il numero di grani, minori saranno le dimensioni finali dei grani (grani fini). Un modo per ottenere grani fini, è quello di aggiungere elementi che fondono a temperature di fusione più alte, così, nella fase di raffreddamento, i grani di tali aggiunte solidificano prima e i grani del materiale principale incontrano un ostacolo alla loro crescita. A parità di massa, per un materiale metallico, avere grani fini, invece che grossi, implica che esso si ritrova costituito da molti più grani. Ciò, poiché i bordi dei grani, le dimensioni dei grani stessi e la loro disposizione nel volume non sono mai del tutto omogenee/uniformi, comporta maggiori distorsioni nel reticolo cristallino, quindi minori dislocazioni. Questo è un bene perché permette di evitare un’eccessiva duttilità del materiale, migliorando la sua durezza e in parte la sua tenacità. Tuttavia, i bordi dei grani rappresentano una discontinuità nelle caratteristiche del materiale e gli atomi appartenenti a tali bordi sono più facilmente asportabili (a caldo, un materiale con grani fini, alto rapporto bordo/grano, diventa troppo fragile). La granulometria la si decide, quindi, in base alla temperatura e a seconda che si voglia un materiale più resistente meccanicamente, oppure più duttile (ad es. se, in caso di carico eccessivo, si vuol garantire il presentarsi di una maggiore deformazione da snervamento che evidenzi il pericolo di arrivare a rottura, con la possibilità così di intervenire prima che essa accada). 15
CAPITOLO 2 - METALLI
In base a quanto scritto, un metallo può essere rinforzato tramite:
- alligazione (si fa una lega): aggiunta di elementi "alliganti" nel metallo allo stato liquido, qui con lo scopo principale di distorcere il reticolo cristallino per ostacolare il moto delle dislocazioni (si ha soprattutto l’aumento della durezza del materiale, che però perde in duttilità..); - affinamento del grano (in fase di produzione del materiale, o con trattamenti termici successivi); - trattamenti termici di varie tipologie di riscaldamento e raffreddamento, con i quali si può appunto affinare il grano e/o si possono cambiare le caratteristiche strutturali finali, migliorando proprietà meccaniche e non solo, del metallo; - inserimento o agevolazione della formazione di precipitati, particelle deformabili o indeformabili nella struttura metallica (in fase di produzione o con trattamenti termici/termochimici), con lo stesso scopo degli elementi alliganti (dai quali spesso i composti precipitati traggono origine); - incrudimento: lavorazione plastica a freddo per creare tensioni che ostacolino il moto delle dislocazioni; si formano cioè apposta meccanicamente molte dislocazioni, così si bloccano tra loro (ad es. tramite pallinatura, ossia si martella il materiale metallico con un getto di pallini sferici). Nota: si parla di lavorazioni a freddo quando Tdi lavoro < 30 % Tfusione (in Kelvin) del metallo o lega su cui si opera, di lavorazioni a caldo quando Tdi lavoro > 60 % Tfusione e a tiepido per Tdi lavoro tra 0.3÷0.6 volte la Tfusione, ma spesso si trascura la distinzione tiepido/caldo chiamandole ambedue “lavorazioni a caldo”. di solito tutti i metodi per rinforzare un metallo ne peggiorano la duttilità (carattere più fragile).
GLI ACCIAI Per descrivere gli acciai, è utile fare prima una distinzione tra ghise e acciai, i due fondamentali tipi di leghe metalliche del ferro, il cui elemento alligante che le caratterizza è il carbonio: si chiamano ghise le leghe a base di ferro con un tenore di carbonio (cioè percentuale in massa di C) compreso tra il 2.1 % e il 6.7 %, acciai le leghe di ferro con percentuale in massa di carbonio minore del 2.1 %. La ghisa è un materiale isotropo a comportamento fragile, piuttosto duro, ha una buona resistenza alla corrosione (meglio di diversi acciai), ha resistenza meccanica inferiore a quella degli acciai (buona a compressione, scarsa a trazione), non può subire lavorazioni plastiche nemmeno a caldo.. L’acciaio, invece, ha comportamento duttile, è un materiale isotropo a struttura compatta dalla elevata resistenza meccanica, meno duro della ghisa e più corrodibile, ma è saldabile e lavorabile, conduce meglio calore ed elettricità, e, comunque, con opportune aggiunte di elementi di lega e trattamenti vari, la sua durezza, resistenza a corrosione, ecc., possono superare quelle della ghisa. L'acciaio si ottiene in pratica dall'affinazione della ghisa, o per rifusione di rottami.
Produzione della ghisa:
L'altoforno viene caricato dall'alto con una miscela di carbone (o meglio carbon coke, un derivato della distillazione del carbon fossile), minerali di ferro, fondenti (calce, calcare) ed aggiunte. Il calore sviluppato dalla combustione del coke, favorita anche dall'alta temperatura di un getto d'aria calda che investe dal basso e attraversa la carica, innesca una reazione chimica fra il carbonio del coke e l'ossigeno degli ossidi di ferro presenti nei minerali. Il ferro, liberatosi dai minerali, si lega con una parte di carbonio e forma ghisa fusa che cola verso il basso. La ghisa liquida viene periodicamente estratta dal fondo, mentre un diverso canale di scolo recupera le scorie e le avvia a successive fasi e trattamenti. 16
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Produzione dell'acciaio a partire dalla ghisa liquida: Alla ghisa liquida proveniente dall'altoforno si fa un processo di affinazione, con fondenti e con un convertitore ad ossigeno, al fine di asportare ulteriore carbonio dalla ghisa. Dopo, con un secondo forno, si riesce a separare le altre scorie dall'acciaio liquido, che viene fatto colare in lingottiere (o in continua) per essere poi messo in forma e lavorato.
Produzione dell'acciaio a partire dalla rifusione di rottami:
Si utilizza un forno elettrico che fonde i rottami. Durante la fusione si aggiunge la calce per addensare le impuritĂ e alla fine della fusione si introducono minerali di ferro per eliminare altri elementi (compreso il carbonio). Il ferro inizia ad ossidarsi, si spegne il forno e si eliminano le scorie. Si riaccende il forno, si fanno le aggiunte finali, si rimuovono le nuove scorie e si procede alla colata dell'acciaio liquido. Nei tipi di produzione della ghisa e dellâ&#x20AC;&#x2122;acciaio, sopra brevemente descritti, si possono riassumere tre operazioni siderurgiche fondamentali: - elaborazione: serie di processi che portano alla fase liquida del materiale desiderato; - colata: per il passaggio dallo stato liquido a quello solido; - messa in forma: per arrivare ad ottenere la forma desiderata.
Diagramma qualitativo Ferro - Carbonio (tipologie di leghe)
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Gli intervalli di temperatura, il punto eutettico, il punto eutettoide ecc., variano in base alla presenza di impurità, in base all’aggiunta di altri elementi di lega, in base alla pressione.. Leghe eutettiche e leghe eutettoidi (per capire: in inglese eutectoid significa eutectic-like) Gli elementi di una lega eutettica (o quelli di una lega eutettoide), sono in percentuali tali che essa si comporta come se fosse un composto puro riguardo a tempi e temperature di cambiamento di fase/struttura. Eutectic point Proprio di ogni lega eutettica, è definito, oltre che dalle percentuali in massa dei vari elementi di lega, anche da una precisa temperatura (per le ghise è circa 1147 °C con il 4.3% in massa di carbonio). Il punto eutettico è un punto di equilibrio delle varie fasi/strutture presenti all’interno di una lega, al di sopra del quale, una lega eutettica è in fase liquida e al di sotto del quale, scendendo di temperatura, tale lega vede i suoi diversi elementi solidificare contemporaneamente, dando vita ad una o più soluzioni solide con elementi o composti interstiziali ecc., che formano insieme un’unica macrostruttura. Eutectoid point Il punto eutettoide è identico a quello eutettico, con la differenza che la lega eutettoide, al di sopra di tale punto, è già presente in soluzione solida (per gli acciai è circa 723 °C con lo 0.8% in massa di carbonio). Al di sotto di tale punto, scendendo di temperatura, la lega eutettoide, subisce una trasformazione polimorfa, mediante cui i suoi vari elementi di lega formano una o più differenti soluzioni solide con elementi o composti interstiziali ecc., cooperanti simultaneamente a sviluppare un’unica nuova macrostruttura. Per gli acciai eutettoidi, la struttura austenitica si trasforma in ferrite e cementite, le quali contribuiscono entrambe a formare la struttura perlitica finale. Per gli acciai ipoeutettoidi, parte della ferrite, in quanto presente ancor prima della cementite, non è partecipe della formazione di perlite. Per gli acciai ipereutettoidi, al contrario, è parte della cementite, presente ancor prima della ferrite, a non contribuire alla formazione della perlite. (Per le ghise eutettiche al di sotto dei 1147 °C, il liquido si trasforma in Ledeburite I, cioè l’insieme strutturale di austenite e cementite, poi al di sotto dei 723 °C, la ledeburite I si trasforma a sua volta in ledeburite II, formata da perlite e cementite).
Principali tipologie di leghe e fasi presenti nelle leghe Ferro-Carbonio Ferrite α: è una soluzione solida interstiziale di C nel ferro α (la max. % di C è di circa 0.02% a 723 °C, dopodiché, per percentuali di Carbonio maggiori, la ferrite non è più presente da sola nel materiale in esame). La forma α ferromagnetica del ferro è stabile fino a circa 912 °C (al di sopra dei 770 °C circa perde la magnetizzazione permanente). Il reticolo del ferro α è cubico a corpo centrato. Se il materiale è costituito da sola ferrite α, esso viene praticamente considerato ferro puro, a causa della bassissima percentuale di C al suo interno (comunque, nella realtà è praticamente impossibile trovare un ferro che sia puro al 100%). 18
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Austenite: è una soluzione solida interstiziale di C nel ferro γ. Il Fe γ è forma stabile dai 912_°C fino ai circa 1394 °C. Il reticolo cristallino del Fe γ è cubico a facce centrate. L’Austenite esiste in forma stabile solo a partire dalla temperatura minima di 723 °C circa, sotto la quale, per raffreddamento, dall’austenite si ottengono tutta una serie di altre strutture stabili o metastabili. Ferrite δ: è una soluzione solida interstiziale di C nel ferro δ (la max. % di C è di 0.08% a circa 1487 °C). La forma δ del ferro è stabile dai 1394 °C fino al punto di fusione attorno ai 1538 °C. Il Fe δ ha reticolo cubico a corpo centrato. Perlite: è una struttura stabile costituita da un aggregato lamellare di ferrite α e cementite (7/8 di ferrite α, 1/8 di cementite), ottenuta spontaneamente dalla trasformazione dell'austenite per raffreddamento graduale al di sotto dei 723 °C. La lenta velocità di raffreddamento, consente infatti agli atomi di carbonio in eccesso nella ferrite α , via via convertitasi in tale forma dall’austenite, di diffondere dal reticolo cristallino e di combinarsi appunto in cementite. Cementite: l’Fe3C è un composto interstiziale a maglia ortorombica. E' una struttura metastabile che tende a decomporsi in austenite e grafite (carbonio puro) o in ferrite e grafite, ma che in base al tenore di carbonio presente nella lega di ferro, può permanere anche a basse temperature. Al di sotto dei 723 °C la cementite si può anche formare in seguito alla precipitazione di parte del carbonio diffuso dal reticolo cristallino della ferrite. La presenza di Fe3C in una lega diminuisce con il diminuire del tenore di carbonio. Nota: vari testi invece di “interstiziali” riportano “intermetallici”, inteso un po’ forzatamente come “situato tra metalli”, ma è equivocabile (in ogni caso il C non è un metallo!).
Martensite: è una soluzione solida sovrassatura di C nella ferrite, con reticolo tetragonale a corpo centrato, che si ottiene a partire dalla struttura austenitica tramite trasformazione dislocativa. Non è un sistema di equilibrio. Nei processi a raffreddamento continuo, per ottenere la struttura martensitica e renderla stabile a temperatura ambiente, è infatti necessario raffreddare bruscamente l’austenite per impedire agli atomi di carbonio di avere il tempo di diffondere dal reticolo cristallino della ferrite formantesi e di ricombinarsi in cementite. La trasformazione in martensite inizia sotto i 400 °C circa, mentre si può considerare prevalentemente ultimata sotto i 200 °C (il range di temperature varia però sensibilmente con il tenore di carbonio e soprattutto con la presenza di altri elementi nella lega). Durante il procedimento che porta alla costituzione della martensite, il carbonio origina delle deformazioni nel reticolo cristallino del ferro, le quali ostacolano il moto delle dislocazioni, aumentando la durezza della lega (più della perlite), ma rendendola al tempo stesso più fragile (anche a causa di maggiori tensioni interne dovute all’aumento di volume). Bainite: non è un sistema di equilibrio, ma un’altra delle possibili strutture ottenibili dall’austenite che è conservabile a temperatura ambiente solo raffreddando velocemente, molto più che per la perlite, ma più lentamente che per la martensite. La bainite è anch’essa, come la martensite, composta da ferrite sovrassatura di carbonio, in cui, però, grazie all’opportuna velocità di raffreddamento, rallentata o arrestata ad una temperatura intermedia tra quella perlitica e quella martensitica, parte del carbonio ha il tempo di precipitare formando carburi di ferro (tra i quali non solo cementite). La bainite, si differenzia in due tipi di struttura, delle quali quella 19
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effettivamente utilizzata, detta bainite inferiore, è costituita da aghi di ferrite, lungo cui i carburi di ferro sono dispersi obliquamente sotto forma di corte lamelle, che rendono la bainite più dura della perlite, ma meno dura della martensite (la bainite risulta comunque vantaggiosamente meno fragile della martensite). La trasformazione dell’austenite in bainite inizia attorno ai 550 °C e termina attorno ai 250 °C. Per ottenere una struttura di sola bainite inferiore, a parità di tenore di carbonio, il raffreddamento deve essere tale da scendere, da temperature austenitiche, giù velocemente attorno a temperature poco superiori a quella di inizio di trasformazione in martensite, Ms ,*(ciò non è possibile per le composizioni di acciai con M s > di 350 °C, poiché sopra i circa 350 °C si forma bainite superiore). A tali temperature il raffreddamento viene arrestato per il tempo utile ad ultimare la trasformazione isotermica in bainite inferiore, dopodiché si procede nuovamente ad un raffreddamento più o meno lento fino a temperatura ambiente. Note varie: - i range di temperatura sopra accennati per la martensite e la bainite sono approssimativi, a solo scopo indicativo, poiché essi variano notevolmente già con il variare della percentuale in massa di carbonio presente nella lega; - le velocità di raffreddamento che sono considerate brusche o rapide implicano una durata, del raffreddamento, di pochissimi secondi (quindi, ad esempio, anche discese di 400-500 °C/s), quelle moderate o intermedie richiedono una decina di secondi o al massimo circa un minuto, e infine, se siamo sull’ordine dei minuti, si parla di raffreddamenti lenti; *- La temperatura superiore di inizio trasformazione dell’austenite in martensite, per una determinata lega di ferro-carbonio (più eventuali altri elementi) viene spesso indicata con Ms ed è la più importante da tenere in considerazione, poiché, ad esempio, non è necessario rallentare o arrestare il raffreddamento fino alla temperatura di fine/completa trasformazione in martensite, oppure, altro esempio, basta conoscere soltanto la Ms e mantenersi un po’ sopra di essa per formare solamente bainite, ecc; - La più bassa velocità di raffreddamento con la quale è possibile ottenere la completa struttura martensitica si chiama velocità critica (o velocità critica di tempra), al di sotto della quale si formano via via anche la bainite, ecc. - Martensite e bainite non sono le uniche strutture metastabili in cui può convertirsi l’austenite, ma, tra di esse, sono sicuramente le più utilizzate per gli acciai. Gli acciai che, oltre al C, non contengono altri elementi di lega, sono detti “acciai al carbonio” o più correttamente acciai non legati. Gli acciai legati sono invece acciai in cui sono volutamente presenti altri elementi di lega e si suddividono in: - acciai basso legati: se nessun elemento di lega supera un tenore del 5%; - acciai alto legati:
se almeno un elemento di lega supera un tenore del 5%.
Comunque, tutti gli acciai, senza distinzioni, contengono sempre minime tracce di altri elementi, sia perché presenti come impurezze e scorie (soprattutto zolfo e fosforo, da mantenere al di sotto di percentuali limite bassissime e fissate dalle norme), oppure perché aggiunti in fase di produzione prevalentemente come deossidanti e desolforanti (principalmente tracce di silicio e manganese). Gli acciai non legati sono prodotti con percentuali di carbonio che raramente superano l’1% (è in pratica vero anche per gli acciai legati), anzi la maggior parte di essi possiede in effetti un tenore di carbonio ancora più basso (spesso sotto lo 0.5%). Per intuire qualitativamente 20
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le caratteristiche meccaniche di un acciaio al carbonio, in base al tenore di carbonio stesso, viene a volte usata una classificazione, più “da officina”, che parte dagli acciai “extradolci”, fino ad arrivare ad acciai via via più duri. Gli acciai “dolci” sono i più comunemente noti e diffusi, aventi percentuali in massa di C tra lo 0.15% e lo 0.25% circa, con una resistenza a trazione indicativamente di circa 360 MPa (quindi il carico di snervamento è ovviamente inferiore). In questo modo, sentendo parlare di un acciaio dolce, in mancanza di altre informazioni, si pensa subito ad un acciaio con un basso tenore di carbonio, poco duro e abbastanza duttile. Gli acciai al carbonio possono essere rinforzati mediante trattamenti termici, termochimici, lavorazioni meccaniche ecc., con la resistenza a rottura, sopportata dagli acciai al carbonio più resistenti, che si ferma comunque attorno ai 680 MPa. Gli acciai al carbonio hanno scarsa resistenza all’ossidazione e alla corrosione in generale, le quali, in assenza di opportuni accorgimenti, possono portare quantomeno ad un decadimento delle proprietà meccaniche. Per questi vari motivi, per la maggior parte delle applicazioni industriali e domestiche, agli acciai al carbonio vengono aggiunti ulteriori elementi di lega in fase di produzione, per incrementarne cioè le prestazioni meccaniche (almeno valorizzandone alcune a scapito di altre) e per meglio proteggere gli acciai stessi, nonché in vari casi per conferire proprietà elettriche, magnetiche ecc., specifiche. Per di più, è eseguendo i vari trattamenti termici, eccetera, sugli acciai legati che si possono ottenere i maggiori benefici (ovviamente produrre gli acciai legati può arrivare a costare molto di più degli acciai al carbonio).
PRINCIPALI TRATTAMENTI TERMICI PER GLI ACCIAI
(i range di temperatura variano
sensibilmente anche in base al tenore di ulteriori elementi di lega, oltre che al tenore di carbonio stesso)
Sono trattamenti che si differenziano tra loro soprattutto per temperatura di trattamento, tempo di permanenza a tale temperatura e velocità di raffreddamento.
Ricottura: riscaldamento fino a un’elevata temperatura, mantenendola a lungo, raffreddando poi molto lentamente (non tutti i tipi di ricotture sono in campo austenitico, alcune si fanno al di sotto della temperatura A1). In base al tipo di ricottura, si annullano completamente, o in buona parte, gli effetti dei trattamenti termici precedenti e in particolare le deformazioni plastiche, eliminando le tensioni residue (dovute pure all’eventuale incrudimento), tutto allo scopo di abbassare la durezza (si dice che la ricottura è un trattamento di addolcimento) per preparare l'acciaio a lavorazioni meccaniche successive. L’acciaio finale ha grani perlitici di dimensioni un po’ più fini e uniformi.
Normalizzazione: riscaldamento in campo austenitico (circa 60 °C sopra ad A3 , o ad Acm) e raffreddamento solitamente in aria calma (comunque meno lentamente che per la ricottura). Viene eseguita al posto di una ricottura completa, in confronto alla quale permette di ottenere grani ancora un po’ più fini e lascia una maggiore durezza finale al prodotto. Tuttavia, rispetto ad una ricottura completa, con la quale il raffreddamento avviene in maniera più controllata, la normalizzazione può portare ad un affinamento meno uniforme, quindi anche ad una durezza meno omogenea. Quindi, in caso di pezzi destinati ad essere lavorati alle macchine, può essere più sicuro ricorrere alla ricottura completa (oppure bisogna perfezionare la normalizzazione con trattamenti successivi). Tra i due trattamenti, la normalizzazione risulta, comunque, un po’ più semplice ed economica, conferendo all’acciaio proprietà meccaniche leggermente migliori. 21
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Tempra: il riscaldamento fino ad alte temperature per austenizzare l'acciaio (di solito non oltre una cinquantina di gradi centigradi in più rispetto alla temperatura A3 o Acm , sopra cui si ha la completa riconversione in austenite, per non ingrossare troppo i grani austenitici e quindi nemmeno quelli finali), la permanenza a tali temperature il tempo necessario a garantire l’equilibrio strutturale dell’acciaio (quantomeno nelle zone interessate dalla tempra), e soprattutto il seguente brusco raffreddamento, hanno quasi sempre lo scopo di ottenere una struttura martensitica, superficiale o completa, che ne aumenti la durezza (si parla di Tempra Diretta o di Tempra Martensitica, specie se completa). Tuttavia alcuni tipi di tempra vengono effettuati in modo tale da non far acquisire all’acciaio la struttura martensitica, quanto piuttosto quella bainitica oppure una bainitico-martensitica, aumentando comunque la durezza dell’acciaio finale, ma meno di quanto farebbe la tempra martensitica, la quale viene evitata in particolare per quegli acciai la cui sola struttura martensitica risulterebbe troppo fragile. Esistono vari tipi di trattamenti termici per gli acciai, che vanno sotto il generico nome di tempra. Inoltre, per sola analogia riguardante il concetto “riscaldamento e brusco raffreddamento” vengono chiamati “tempre” anche processi simili, effettuati su altre tipologie di materiali, quando lo scopo è quello di realizzare una struttura più dura, più resistente agli urti, eccetera (ad es., la tempra dei vetri).
Rinvenimento: Il rinvenimento è un processo compiuto principalmente su acciai martensitici. Viene spesso classificato in quattro stadi (ne esiste un quinto per alcuni acciai legati che formano particolari tipi di carburi) a seconda degli intervalli di temperatura a cui si riporta l'acciaio (a partire da temperature ambiente su fino a temperature alte, ma comunque inferiori a quelle di ricottura). Il rinvenimento, in base allo stadio, al tempo di permanenza alla temperatura scelta e alla velocità di raffreddamento successivo (che è lenta o comunque moderata), dapprima fa solamente aumentare la diffusione del carbonio dal reticolo cristallino, specie per la struttura martensitica (primo stadio), poi modifica via via l’acciaio: favorisce la formazione di carburi e la loro ridistribuzione più in forma globulare (quindi meno finemente dispersa), converte i grani austenitici residui e forma nel complesso ulteriori tipi di strutture. Tutto ciò, allo scopo di eliminare sempre più le tensioni residue prodotte dalla tempra precedente, omogeneizzando maggiormente la struttura e riducendo la fragilità dell’acciaio, ma a scapito di un po' di durezza. Quando eseguito (cioè quasi sempre), il rinvenimento è il primo trattamento fatto dopo la tempra (addirittura subito dopo per ridurre la probabile formazione di cricche, anche iniziando il riscaldamento prima ancora che l’acciaio sia sceso a temperatura ambiente). Di solito, a non necessitare del rinvenimento, sono in particolare gli acciai che hanno subito una tempra bainitica, la quale garantisce già di per sé discreta durezza e tenacità, permettendo così nel complesso minori costi di produzione. Esistono dinamiche legate alla struttura (specie se i grani sono grossi) e legate alla composizione chimica di alcuni acciai che, quando il riscaldamento di rinvenimento viene eseguito fino a certi intervalli critici di temperatura, possono condurre all’infragilimento da rinvenimento. Il problema riguarda la precipitazione di alcuni carburi ai bordi dei grani, più l’eventuale presenza di impurezze tra i bordi stessi.. Quindi, per evitare in generale un’eccessiva perdita di tenacità, il rinvenimento, per tali acciai, viene operato al di sotto di un determinato stadio, oppure se ne accelera il raffreddamento, oppure si preferisce risolvere il problema direttamente aggiungendo ulteriori e opportuni elementi di lega a monte del processo di produzione degli acciai.. 22
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Bonifica: costituita dalla tempra più il rinvenimento fino al IV stadio (solitamente almeno sopra i 550 °C), serve per arrivare ad un ottimo compromesso tra il mantenimento di una discreta durezza e l’ottenimento di buone caratteristiche meccaniche, più un’aumentata resilienza. Vi è chi tende a chiamare impropriamente “bonifica” qualsiasi trattamento termico che sia somma di una tempra più il successivo rinvenimento, a prescindere dal raggiungimento del IV stadio.
Distensione (o rinvenimento di distensione): è come un particolare tipo di rinvenimento che si compie riscaldando tra i 150 - 200 °C circa, raffreddando poi lentamente. Si esegue per ridurre leggermente le tensioni residue, senza abbassare troppo la durezza, che si vuole mantenere elevata (avviene quindi dopo la tempra). Non bisogna confondere questa distensione con i termini inglesi “stress relieving” che identificano un altro tipo di processo, effettuato a temperature attorno ai 650 °C per ridurre invece le tensioni interne fino anche del 90% circa. Altre informazioni -
In metallurgia, il termine invecchiamento indica pressappoco una generica trasformazione allotropica legata alla precipitazione di carburi o di vari altri composti, formatisi per effetto della diffusione di elementi interstiziali da una soluzione solida sovrassatura. Alcuni tipi di trattamenti termici vengono denominati invecchiamento, anche se esso è più propriamente il fenomeno che può verificarsi durante vari trattamenti termici, ma non solo. L’invecchiamento può infatti capitare, o essere volutamente ottenuto, anche in seguito ad una lavorazione meccanica a freddo. Inoltre, per alcuni tipi di acciai (e per altre leghe), la temperatura ambiente è già sufficiente a far avvenire spontaneamente la precipitazione dei carburi, modificando così la struttura del materiale, lentamente nei giorni. Si parla allora di “invecchiamento naturale” o spontaneo. Mentre per le leghe non ferrose (specie quelle leggere), l’invecchiamento, o meglio il processo di indurimento per precipitazione, permette di aumentare appunto la durezza (i precipitati si disperdono finemente ostacolando il moto delle dislocazioni) e permette anche di migliorare le caratteristiche meccaniche, per gli acciai esso è più un fenomeno indesiderato poiché aumenta sì la durezza, ma anche la fragilità. Inoltre per gli acciai l’invecchiamento può abbassare la tenacità e modificare anche le proprietà elettriche e magnetiche, specie se il fenomeno non viene limitato o se la dispersione dei precipitati in particelle fini non viene controllata adeguatamente.
- Quando in campo tecnico si parla di “spegnimento” dell’acciaio, si intende il procedimento o semplicemente l’atto di raffreddare velocemente l’acciaio, tipicamente in un bagno ad olio o ad acqua, ecc., per conservare/conferire maggiormente determinate caratteristiche strutturali e/o meccaniche del materiale stesso. Tuttavia, più in generale e sempre in metallurgia, il termine spegnimento viene banalmente utilizzato anche come sinonimo di raffreddamento (capita di sentire o trovare scritto “spegnimento lento”, “spegnimento in aria calma”, eccetera). 23
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PRINCIPALI TRATTAMENTI TERMOCHIMICI PER GLI ACCIAI (SFRUTTANO LA DIFFUSIONE) - (carbo)cementazione: processo con il quale avviene l'arricchimento superficiale di carbonio, più frequentemente in atmosfera gassosa, oppure in liquido carburante, per aumentare la resistenza all'usura dell'acciaio (spessori comuni dello strato cementato sono di almeno 0.3 mm circa o via via maggiori fino a poco più di 2 mm, con tenore superficiale di C che raramente supera lo 0.8%). Il processo si esegue specialmente per acciai non legati a basso tenore di carbonio, riscaldando in campo austenitico, prima della tempra, la quale serve poi a conferire tipicamente una struttura martensitica superficiale al prodotto finale. Il gradiente della concentrazione di carbonio nell’acciaio carbocementato, consente di passare progressivamente da una superficie più dura (grazie anche alle tensioni residue compressive, formatesi durante il trattamento, che inoltre migliorano la resistenza a fatica) al cuore più tenace, necessario per una maggiore resistenza meccanica complessiva dell’acciaio stesso. - nitrurazione: arricchimento superficiale di azoto atomico, il quale reagendo con l'acciaio forma diversi nitruri molto duri (di ferro, ma anche nitruri di cromo e di pochi altri elementi di lega, se presenti), che provocano la distorsione del reticolo cristallino, la formazione di tensioni residue compressive, ecc., aumentando la durezza, la resistenza all'usura e migliorando le proprietà meccaniche in generale. Gli acciai da nitrurazione sono acciai che presentano un’opportuna composizione chimica (contengono tipicamente percentuali di Cr e Mo, ma anche di Al o V), questo sia per ottenere la formazione di nitruri migliori di quelli del ferro e per ottenere solamente nitruri duri (alcuni elementi di lega negli acciai formano nitruri fragili), sia per evitare che la temperatura del processo di nitrurazione influisca sull’efficacia dei trattamenti termici precedenti. Infatti la nitrurazione avviene come ultimo trattamento termico su acciai che normalmente hanno subito la bonifica: si riscalda in campo ferritico a temperature tra i 500 e i 580 °C circa, a seconda del tipo di mezzo nitrurante, del tipo di acciaio ecc., e si cerca di stare al di sotto della temperatura del precedente rinvenimento (la presenza di molibdeno nell’acciaio permette di evitare la fragilità da rinvenimento). Per la diffusione dell’azoto nell’acciaio si utilizzano prevalentemente vapori di ammoniaca parzialmente dissociata, quindi contenente azoto atomico libero di diffondere, ma ad es. possono essere adoperati anche bagni di sali fusi (cianuri alcalini). La nitrurazione penetra meno in profondità della carbocementazione, ma lo strato nitrurato è qualitativamente migliore per proprietà conferite al prodotto finale. Purtroppo però, sulla superficie dell’acciaio nitrurato si forma anche un sottile sovrastrato fragile (fragile soprattutto per la sua porosità), chiamato coltre bianca, che va preferibilmente ridotto/rimosso, per esempio mediante rettifica (è una lavorazione meccanica di finitura). Inoltre la durata e i costi complessivi della nitrurazione sono maggiori di quelli necessari per la carbocementazione. Ciononostante, dato che si ottengono durezze più elevate e una migliore resistenza all’usura, nonché deformazioni assai limitate durante il processo, la nitrurazione viene preferita laddove la carbocementazione non sia sufficiente o non sia applicabile, quindi per prodotti destinati a forte usura meccanica, soprattutto in caso di sollecitazioni ripetute (per ingranaggi e altri componenti meccanici, specie se di forme spigolose o forati o comunque soggetti a effetti d’intaglio; per vari utensili; ecc.). 24
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- carbonitrurazione: arricchimento contemporaneo di carbonio e azoto, ceduti all'acciaio tramite una miscela gassosa o un liquido appositi, riscaldando in campo austenitico a temperature inferiori a quelle utilizzate per la carbocementazione. La carbonitrurazione avviene solo dopo un trattamento di distensione dell'acciaio e necessita poi della tempra (e degli ulteriori trattamenti/lavorazioni finali). Lo spessore massimo dello strato carbonitrurato non supera quasi mai gli 0.75 mm circa, ma, rispetto alla sola carbocementazione, basta a guadagnare buona parte dei vantaggi tipici della nitrurazione, tra cui il mantenimento di una buona durezza anche a temperature un po' più alte. Rispetto alla sola nitrurazione, la durezza superficiale è comunque un po’ inferiore, ma si ottiene una maggiore resistenza all'usura a secco e lo strato di coltre bianca risulta meno poroso e meno fragile (tale strato viene comunque preferibilmente rimosso). Nota: la scelta di quanto deve essere profondo uno strato carbocementato, nitrurato o carbonitrurato, dipende anche da ragioni economiche, poiché la diffusione di carbonio e/o azoto nell’acciaio diventa sempre più difficoltosa con il procedere del trattamento (che richiede sempre e comunque varie decine di ore), quindi più si cerca di arrivare in profondità, più aumentano i costi.
Acciai Legati: principali elementi di lega (cenni sulle varie proprietà/caratteristiche da essi conferiti agli acciai, citando alcuni vantaggi e svantaggi, rispetto soprattutto agli acciai al carbonio) Negli acciai, i vari elementi di lega possono trovarsi dissolti distintamente nel reticolo cristallino, o possono trovarsi sotto forma di vari composti, specie se si legano/interagiscono con il carbonio e con il ferro. Il modo in cui tali elementi di lega si distribuiscono nella struttura (in quanta parte sono dissolti, in quanta sono combinati in composti..), in particolare la capacità di formare carburi (o, ad esempio, nitruri), dipende prevalentemente dalla maggiore o minore predisposizione che essi hanno nel farlo rispetto al ferro. - Nichel: esso nell’acciaio non forma carburi, lo si trova dissolto nel reticolo cristallino; il nichel abbassa la temperatura eutettoide, allargando il campo austenitico, e in base al suo tenore rende possibile/più stabile la struttura austenitica a temperatura ambiente; abbassa quindi la temperatura di ricottura, abbassa la temperatura di tempra (di cui ne diminuisce la velocità critica e ne aumenta la penetrazione); migliora la durezza, ma anche la tenacità. Il nichel viene possibilmente evitato per acciai da nitrurazione (forma nitruri molto fragili). Se il tenore di Ni è del 36% (acciaio INVAR) si ha un coefficiente di dilatazione termica molto ridotto, se invece il tenore è del 20% si ha un coefficiente di dilatazione termica elevato. Anche le proprietà elettromagnetiche variano molto in base al tenore di nichel. - Cobalto: pure il cobalto non forma carburi e si dissolve nel reticolo cristallino del ferro. Anzi, nei trattamenti termici di solubilizzazione (che se utilizzati per gli acciai austenitici, riscaldandoli tra i 1050 - 1150 °C circa, servono per riportare in soluzione i carburi, al fine di impedirne poi, con un 25
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rapido raffreddamento, la precipitazione ai bordi dei grani), il cobalto, rallentando la crescita eccessiva dei grani nella fase di riscaldamento, permette di utilizzare temperature di solubilizzazione maggiori, quindi di far dissolvere maggiormente i vari carburi presenti (ad esempio, quelli di cromo, che altrimenti in certi casi, quando precipitano tra i bordi dei grani, originano corrosione intergranulare, spiegata nel prossimo capitolo). La presenza di cobalto aumenta la velocità critica di tempra, riducendone la penetrabilità, ma ha il vantaggio di ridurre al tempo stesso la coalescenza dei vari carburi (cioè la loro aggregazione in particelle più grandi), quindi la struttura martensitica ottenibile da una tempra superficiale, risulta più dura e stabile anche a temperature più alte (in ogni caso si avrà al massimo una precipitazione di carburi molto fini distribuiti più uniformemente in tutta la struttura dell’acciaio). Il cobalto agevola/migliora il rinvenimento. Per contro, la fragilità, specie quella delle superficie martensitiche è un po’ più alta, e in particolare la resilienza è inferiore rispetto ad altri tipi di acciai legati. Le peculiari caratteristiche del cobalto, vengono sfruttate maggiormente negli “acciai super rapidi”, così chiamati perché sono “acciai rapidi” (acciai da utensili per la lavorazione meccanica di altri metalli ad alte velocità, ad esempio per taglio o perforazione) con in più appunto percentuali di cobalto, il quale consente lavorazioni a velocità ancora più alte e prestazioni meccaniche mantenibili a temperature più elevate (questi acciai, o meglio il cobalto si evita però per utensili sottoposti invece a urti/sollecitazioni impulsive ripetuti, a causa appunto della minore resilienza). - Manganese: il manganese è quasi tutto presente dissolto in soluzione solida nell’acciaio, anche se una parte di esso può formare carburi, combinandosi principalmente con la cementite. Il manganese provoca effetti simili al nichel, cioè abbassa la temperatura eutettoide e rende possibile l’austenite a temperatura ambiente (con un tenore di Mn di almeno il 12%), abbassa la temperatura di ricottura e di tempra (di cui anch’esso ne diminuisce la velocità critica e ne aumenta la penetrazione), aumenta la tenacità, specie la resistenza a trazione, eccetera. Con la tempra si evita, però, di ottenere la struttura martensitica, perché troppo fragile. Nel complesso, per percentuali di Mn via via crescenti, si abbassa molto la “lavorabilità agli utensili” dell’acciaio, la cui durezza, di per sé non elevata, aumenta se l’acciaio è sottoposto a forti urti. Il manganese conferisce, cioè, un’ottima capacità di incrudimento superficiale (per cui con l'acciaio al manganese si realizzano casseforti). Con il manganese si rende sensibile l'acciaio al surriscaldamento (si ingrossano i grani perlitici), si peggiorano la conducibilità termica e le proprietà elettromagnetiche. - Cromo: all’interno della struttura di un acciaio, il cromo si ripartisce in parte dissolto e in parte sotto forma di carburi molto duri e stabili, secondo rapporti che dipendono dalla percentuale di carbonio e dall’eventuale presenza di altri elementi di lega più propensi a formare carburi. Il cromo alza la temperatura eutettoide, allargando il campo ferritico, incrementa la temprabilità e la stabilità al rinvenimento, aumenta la resistenza a trazione. Inoltre migliora la resistenza all'ossidazione e, se il Cr è in tenore superiore al'11% circa, esso inizia già a rendere l'acciaio inossidabile e resistente agli agenti chimici. La formazione di carburi di cromo aumenta anche la resistenza all'usura, per contro, se tali carburi precipitano ai bordi dei grani, allora comportano l’inizio di una corrosione locale molto pericolosa (spiegata nel prossimo capitolo). In generale il cromo diminuisce la conducibilità termica ed elettrica, migliora le proprietà magnetiche. 26
CAPITOLO 2 - METALLI
- Molibdeno: il molibdeno è simile al cromo, rispetto al quale forma carburi migliori e aumenta maggiormente la temprabilità dell’acciaio. Anch’esso è un elemento alfogeno (favorisce cioè la struttura ferritica) e in più stabilizza la martensite fino a temperature più elevate, mantenendo quindi le caratteristiche meccaniche della tempra anche a temperature alte e migliorando la resistenza a fatica; riduce inoltre la fragilità, evitando in particolare quella da rinvenimento. - Acciai al Cr-Mo: per sfruttare i vantaggi sia del cromo, che del molibdeno, specie negli acciai inox. - Acciai al nichel-cromo-molibdeno: in un certo senso sono i migliori in assoluto, specie per le caratteristiche meccaniche (ad esempio, aumenta notevolmente la resistenza a fatica), ma anche per la resistenza alla corrosione, soprattutto in caso di acciai inossidabili (i valori delle proprietà meccaniche e di quelle anticorrosive dipendono dalle percentuali in gioco di questi tre elementi, dal tipo di struttura dell’acciaio, ecc.). Tra gli acciai al nichel-cromo-molibdeno ci sono gli acciai inossidabili "duplex" con struttura austeno-ferritica (dai risultati ottimali se ferrite e austenite sono presenti in parti circa uguali, grazie ad un’attenta regolazione del rapporto tra il tenore di cromo e molibdeno, che allargano il campo ferritico, e il tenore di nichel, che allarga il campo austenitico). Gli acciai duplex sono ben più resistenti alla tensocorrosione rispetto agli acciai austenitici e più resistenti alla corrosione generalizzata rispetto agli acciai ferritici (corrosione sotto sforzo e corrosione generalizzata sono spiegate nel prossimo capitolo). Altri elementi di lega sono l’alluminio, il vanadio, il tungsteno.. Nota: un motivo per cui molti elementi di lega riducono la velocità critica di tempra di un acciaio, migliorando la penetrabilità della tempra stessa, è che essi rallentano la diffusione degli atomi di carbonio dal reticolo del ferro, permettendo di controllare meglio il processo di raffreddamento, quindi anche di avere una struttura più omogenea, eccetera. Inoltre, nel caso in cui si realizzi una struttura bainitica, spesso tali elementi formano carburi che conferiscono all’acciaio caratteristiche meccaniche superiori a quelle derivate dai carburi di ferro (sono stati selezionati apposta per ciò). Gli acciai legati presentano spesso anche elementi di lega (deossidanti e anticorrosivi, stabilizzanti, ecc.) in percentuali solitamente molto più basse rispetto agli altri elementi di lega veri e propri, in grado di migliorare un po’ la resistenza alla corrosione atmosferica, o di stabilizzare le varie strutture dell’acciaio per range di temperatura leggermente più ampi, oppure di perfezionare le proprietà conferite dagli elementi di lega principali, o di far conservare tutto ciò anche sotto certe condizioni d’impiego o ambientali, eccetera. Si tratta di elementi quasi sempre molto pregiati quali il rame, il titanio, il niobio.., che quindi aumentano ulteriormente il costo degli acciai. Elencare gli innumerevoli utilizzi per ogni tipo di acciaio, considerando le varie caratteristiche che scaturiscono dalle differenti composizioni chimiche, dal tipo di struttura, ecc., sarebbe stato assai complesso. Infatti gli acciai vengono impiegati quasi ovunque per molteplici scopi strutturali, per diverse costruzioni meccaniche, per componenti di macchinari industriali e di impianti energetici (tra cui anche per applicazioni magnetiche), si usano per realizzare diversi tipi di tralicci, di rotaie, li si trova nei cementi armati, o come tubazioni per acqua, gas ecc., negli elettrodomestici e nei set da cucina, in varie strumentazioni sanitarie, o musicali, per attrezzature sportive e armi.. 27
CAPITOLO 2 - METALLI
Cenni su altri principali metalli e leghe Rame: buone proprietà di conducibilità elettrica e termica, elevata duttilità e lavorabilità, buona resistenza alla corrosione, completa riciclabilità. Bronzi (di rame e stagno) e ottoni (di rame e zinco) consentono di migliorare la resistenza meccanica e la durezza, peggiorando però la duttilità. Il rame è impiegato comunemente nei fili conduttori della corrente elettrica e in vari componenti elettrici, nelle tubature, nelle grondaie e altri elementi di edifici..; gli ottoni sono utilizzati per realizzare vari strumenti musicali e vari tipi di componenti meccanici, si usano per realizzare rubinetti, maniglie e pomelli, si usano in bigiotteria..; leghe di rame sono usate per coniare varie monete, leghe in cupro-nichel (rame + nichel) sono utilizzate per l'ottima resistenza alla corrosione in ambienti marini o semplicemente acquosi.. Leghe di titanio: sono utilizzate per l’ottimo mix di resistenza meccanica e alla corrosione in rapporto alla loro leggerezza (leggere più del rame e dell’acciaio), per la buona durezza e soprattutto per la capacità di sopportare temperature estreme (sono una delle leghe più importanti per l’ingegneria aerospaziale). Il titanio viene spesso messo in lega con alluminio, ferro, manganese, molibdeno e alcuni non metalli. Il costo assai elevato delle leghe di titanio ne limita in parte le applicazioni, tuttavia, leghe metalliche di titanio, in particolare quelle di titanio e alluminio, sono utilizzate prevalentemente per valvole, bielle e vari componenti meccanici sottoposti a forti temperature (ad es. in motori a combustione), sono presenti in componenti di missili e vari tipi di proiettili, oppure anche nei motori aerei (come pale e altri componenti di compressore, turbina e ugello), per alcuni tipi di fusoliere, oppure per condutture in ambienti corrosivi o ad alte temperature.. Il titanio viene utilizzato anche in architettura per elementi strutturali e per il rivestimento di edifici moderni, laddove interessi più il prestigio che il costo (il titanio, oltre a godere di eccellenti proprietà meccaniche, ha un aspetto esteticamente elegante, dal colore grigio chiaro metallico, inoltre risponde alla corrosione atmosferica formando strati di ossidi superficiali uniformemente distribuiti, molto stabili e aderenti, che, in caso di graffi/abrasioni, si ripristinano spontaneamente in poco tempo). Il titanio lo troviamo anche per protesi bioniche in campo medico, oppure nella robotica, eccetera. Tra le leghe non metalliche, vi sono innanzitutto il carburo di titanio, TiC, e il nitruro di titanio, TiN, ossia composti ceramici durissimi e altamente refrattari, che cioè resistono per molto tempo ad elevate temperature senza reagire chimicamente con i materiali a contatto (TiC e TiN sono menzionati nel capitolo quinto sui materiali ceramici). Alluminio: ottima conducibilità elettrica e termica, elevata duttilità e lavorabilità, buona resistenza alla corrosione, leggerezza, riciclabilità. Le leghe di alluminio principali sono fatte con rame, magnesio, silicio, manganese, o zinco. Tali leghe hanno proprietà meccaniche inferiori rispetto agli acciai o alle leghe di titanio, ma pesano di meno. Le caratteristiche dell’alluminio lo rendono un elemento molto versatile: ci si realizzano vari componenti meccanici, telai di veicoli, viene utilizzato per produrre utensili, si impiega per vari scambiatori di calore (tra cui i “termosifoni” o meglio i radiatori in alluminio), oppure è adoperato come conduttore elettrico (ad es. è utilizzato nelle corde aeree per la trasmissione dell’energia elettrica), esistono i classici fogli di alluminio da imballaggio per vari prodotti, tra cui gli alimenti (l’alluminio è presente anche nei classici contenitori Tetra Pak), costituisce le tipiche lattine per le bibite, eccetera. 28
CAPITOLO 2 - METALLI
Zinco: è maggiormente noto per la sua presenza negli ottoni (ma è presente anche in altre leghe) e per il suo utilizzo come rivestimento protettivo dell'acciaio e di altre leghe/metalli (è raro che qualcuno non abbia mai sentito parlare di zincatura), allo scopo di proteggere da vari tipi di corrosione (come verrà spiegato nel prossimo capitolo, lo zinco si corrode al posto del metallo o lega che riveste). Per quanto riguarda le leghe di zinco, quelle principalmente adoperate hanno una composizione chimica tra loro simile, tanto che si usa chiamarle comunemente “zama” (dal marchio registrato Zamak), indicando una generica lega di zinco tipicamente in tenore superiore al 90%, più alluminio (sotto il 4.5% circa), rame, magnesio e tracce di altri pochi elementi. La zama è una lega dalla buona durezza, buona lavorabilità a caldo e buona resistenza alla corrosione, è utilizzata soprattutto nel campo dell’oggettistica e per vari accessori decorativi, ma anche per vari meccanismi e piccoli componenti meccanici, per cerniere di mobili, per maniglie, placche di interruttori, inoltre, grazie ad una buona conducibilità elettrica (comunque inferiore all’alluminio) e termica, la zama viene anche impiegata in elettronica per realizzare vari congegni, tra cui connettori elettrici, supporti per hard disk, dissipatori di calore, ma anche per schermare apparecchiature elettroniche dalle onde elettromagnetiche (lo zinco è diamagnetico).. Leghe di magnesio: sono ancor più leggere delle leghe di alluminio (il quale è un tipico elemento presente nelle leghe di magnesio), presentano discrete caratteristiche meccaniche, ottima lavorabilità e riciclabilità. Hanno grossi problemi di ossidazione e corrosione (soprattutto galvanica), che vengono ridotti con aggiunte di opportuni elementi di lega (tra cui anche il manganese) o limitati con trattamenti superficiali (ad es. tramite verniciatura). Il magnesio è in realtà maggiormente utilizzato come alligante in altre leghe (specie in quelle di alluminio), tuttavia le leghe di magnesio sono in continuo sviluppo, grazie a nuove tecnologie di produzione e alla continua ricerca di opportuni elementi da inserire in lega (soprattutto le cosiddette terre rare, cioè i lantanoidi, più torio, ittrio, scandio e zirconio) per migliorare le caratteristiche meccaniche, in particolare la resistenza alla deformazione sotto sforzo (si considera anche la sola forza di gravità e/o pressione esterna) ad alte temperature (creep). L’impiego di leghe di magnesio sta quindi aumentando in particolare nel settore automobilistico, aeronautico e aerospaziale, in generale per componenti meccaniche, strutturali, eccetera: ad es. cerchioni delle ruote, parti di telaio, scatole dal cambio, coperchi e diversi tipi di alloggiamento per altri elementi di auto/elicotteri/aerei e sonde spaziali, condotti di aspirazione, altri elementi di carrozzeria, ma anche come rivestimento di parti meccaniche o come elementi di rinforzo secondario.. Certe leghe di magnesio sono inoltre sfruttate come rivestimento protettivo/anticorrosivo in acque marine o in ambienti ad alte temperature (si “sacrificano” al posto del materiale da proteggere). Nichel: il nichel è leggero, duttile e facilmente lavorabile, abbastanza resistente alla corrosione atmosferica e all’ossidazione in generale (anche a caldo), in risposta alla quale forma uno strato protettivo di ossidi, che lo porta a resistere bene anche a vari tipi di acidi, è inoltre resistente agli alcali (o meglio idrossidi di metalli alcalini dal comportamento basico), mentre la sua debolezza ad altri tipi di attacchi chimici corrosivi viene spesso risolta applicandogli un rivestimento superficiale di cromo (il nichel e alcune sue leghe vengono impiegate per produrre vari tipi di recipienti nell’industria chimica). Il nichel è soprattutto utilizzato come elemento di lega negli acciai inox, ma è presente anche in altri tipi di leghe metalliche, è usato anche per coniare varie monete, si usa 29
CAPITOLO 2 - METALLI
(puro o in lega) per placcature e rivestimenti protettivi di vari metalli, lo si trova nelle batterie ricaricabili, in vari prodotti chimici, le leghe Monel (costituite principalmente da nichel e alti tenori di rame) sono sfruttate soprattutto in diversi settori industriali (dal chimico/petrolchimico all’aerospaziale e all’industria marina) per la buona resistenza meccanica e alla corrosione (si realizzano vari elementi e congegni meccanici, tra cui lame e parti di utensili, alberi ed elementi di fissaggio, oppure involucri e sezioni di armature..), il nichel è poi anche adoperato per applicazioni magnetiche (è ferromagnetico sotto i 353 °C circa), le leghe di nichel più alti tenori di cromo vengono impiegate per resistenze elettriche ad alte temperature e per altri dispositivi elettrici/elettronici.. Il nichel è molto importante anche nello sviluppo di superleghe resistenti (meccanicamente e alla corrosione) alle alte temperature (le superleghe a base nichel resistono fino a temperature massime attorno ai circa 1200 °C). Tali superleghe vengono utilizzate per vari tipi di motori a combustione (anche per le pale nei motori aerei), per componenti di missili, per le pale di turbine a gas o a vapore di impianti elettrici, insomma soprattutto per applicazioni che richiedono resistenza a temperature alte anche per periodi prolungati e che sono a contatto con fluidi caldi, gas incombusti, .. Cobalto: il cobalto e il nichel sono elementi piuttosto simili chimicamente e spesso questa somiglianza si ripercuote sulle proprietà conferite ai vari materiali. Anche il cobalto, ad esempio, permette di ottenere superleghe resistenti alle alte temperature, ma rispetto alle superleghe in base nichel, le superleghe di cobalto sopportano temperature e sollecitazioni meccaniche di valore inferiore, tuttavia sono più dure, più resistenti all’usura. Nel caso del cobalto, sono importanti ad esempio le stelliti, cioè leghe di cobalto e cromo, più bassi tenori di carbonio (utile soprattutto per una maggiore durezza), dalla buona resistenza meccanica e molto resistenti all’usura, ma abbastanza anche alla corrosione (la loro elevata durezza le rende però faticosamente lavorabili agli utensili). Nel complesso, il cobalto e le sue leghe, così come il nichel, vengono anch’essi impiegati largamente in svariati settori industriali, per applicazioni anticorrosive o protettive (rivestimenti e placcature varie, tubazioni..), per utensili e componenti meccaniche (supporti ed elementi di fissaggio, alberi, per le parti di motori soggette a maggiore usura..), li si trova in vari prodotti chimici, sono impiegati in applicazioni elettriche e magnetiche (anche il cobalto è ferromagnetico), eccetera. Osservazione: lo studio delle leghe leggere, soprattutto come possibile alternativa alle leghe ferrose, è diventato sempre più importante negli ultimi decenni, in particolare dal punto di vista energetico ed ambientale (basti pensare già al settore dei trasporti, dove minor peso strutturale dei veicoli equivale a minori consumi di carburante, minori emissioni di CO2 , ..).
Prove in laboratorio (accenno rapidissimo) Si fanno su componenti o provini per controllare la qualità del materiale e perché soddisfi alle normative di riferimento, sia adatto allo scopo per cui viene prodotto, eccetera. I principali tipi di prove sui metalli sono: prove di deformazione elastica; di durezza; di rottura (a trazione, torsione, flessione..), analisi di comportamento a fatica; di scorrimento viscoso a caldo o a freddo; analisi della rugosità; prove di attacco chimico; analisi presenza di eventuali cricche.. 30
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
3 LA CORROSIONE DEI METALLI (in particolare la corrosione a umido)
La vera e propria corrosione dei metalli è l'insieme dei fenomeni chimici o elettrochimici che portano all'alterazione chimico-fisica di un materiale metallico a contatto con l'ambiente esterno (atmosfera, suolo, acqua, reagenti chimici..), con progressiva perdita delle proprietà meccaniche (a seconda dei casi anche elettriche, magnetiche o termiche) del materiale stesso. La corrosione, danneggiando un prodotto metallico, può quindi provocarne il malfunzionamento, nonché la rottura. Con la corrosione si hanno danni diretti o indiretti che possono riguardare principalmente: arresto di impianti; calo di rendimenti; manutenzione più frequente e costi d'esercizio aumentati; perdite di prodotti o loro contaminazione; rischio per la salute e l'ambiente; responsabilità verso terzi se parte lesa; ma anche la semplice compromissione dell’estetica di un prodotto corroso.. Per un materiale metallico si distinguono due tipi di corrosione: - corrosione secca: di natura chimica, in ambiente atmosferico per azione di agenti chimici reattivi e in assenza di acqua (di solito avviene ad alte temperature, a umidità pressoché nulla); - corrosione a umido: di natura elettrochimica, in ambiente acquoso (anche solo in presenza di acqua condensata sul metallo) oppure a contatto con soluzioni non acquose elettrolitiche o contenenti degli elettroliti (in realtà i solventi corrosivi non acquosi sono spesso diluiti con acqua). Si ricordi che gli elettroliti sono sostanze in grado di dissociarsi in ioni e di condurre l’elettricità. L’acqua pura è un elettrolita debole, conduce poco, ma a seconda delle sostanze in essa disciolte, può diventare un buon conduttore elettrico e risultare maggiormente aggressiva per i metalli. In entrambi i casi si ha sempre un processo di ossidazione del materiale metallico (i suoi elementi cedono elettroni, diventando ioni che si possono anche staccare completamente dal materiale stesso..). Inoltre nella corrosione a umido si assiste a fenomeni di ossido-riduzione, che nel metallo stesso possono dare luogo sia a regioni anodiche (ossidazione), sia a regioni catodiche (riduzione). Prima di approfondire la corrosione a umido, è bene ricordarsi che: -
sostanza ossidante: capace di accettare elettroni da un'altra sostanza, allora si riduce. Esempi di riduzione o reazione catodica: F2 (g) + 2e- → 2F- (aq) ; Cl2 (g) + 2e- → 2Cl- (aq) ; Hg2+ (aq) + 2e- → 2Hg (l) ;
2H2O (l) + O2 (g) + 4e - → 4OH - (aq) ;
(CN)2 (g) + 2H+(aq) + 2e - → 2HCN (aq) ; -
Co(OH)3 (s) + e - → Co(OH)2 (s) + OH - (aq) ;
sostanza riducente: capace di cedere elettroni ad un'altra sostanza, allora si ossida. Esempi di ossidazione o reazione anodica: Cr2+ (aq) → Cr3+ (aq) + e - ; Fe (s) → Fe2+ (aq) + 2e - ; Se2- (aq) → Se (s) + 2e - ;
H2C2O4 (aq) → 2CO2 (g) + 2H+ (aq) + 2e - ; AsH3 (g) + 3OH- (aq) → As (s) + 3H2O (l) + 3e - ;
ecc.
Un importante esempio di fenomeno ossido-riduttivo è mostrato dalla seguente:
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2Fe (s) + 2H2O (l) + O2 (g) → 2Fe2+ (aq) + 4OH - (aq) → 2Fe(OH)2 (aq) 31
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
Precisazioni importanti Reazioni catodiche e anodiche sono più correttamente “semireazioni”. Il fenomeno ossidoriduttivo, sopracitato, è un esempio di reazione completa, costituita appunto dalla semireazione Fe → Fe2+ + 2e - (x2) e dalla semireazione 2H2O + O2 + 4e - → 4OH - ; A seconda delle circostanze, le sostanze possono ossidarsi o ridursi, quindi le semireazioni sopra scritte nel verso che potesse rendere inizialmente più semplice la loro comprensione, andrebbero in realtà, per convenzione e per altri motivi poi più chiari, scritte tutte come semireazioni di riduzione (cioè ad esempio Fe2+ + 2e - → Fe e non Fe → Fe2+ + 2e - ).
Potenziali elettrochimici Per meglio stabilire se, in date condizioni, i processi di corrosione di un metallo possano avvenire spontaneamente, o meno, si utilizzano i potenziali di Nernst, detti anche potenziali standard di riduzione. I potenziali di Nernst sono potenziali elettrochimici relativi, i cui valori sono ottenuti misurando, tramite un potenziometro, la forza elettromotrice di una pila in condizioni standard (di temperatura, pressione e concentrazioni molari delle soluzioni). La pila è così ottenuta: Un elettrodo è il metallo di cui si vuole stabilire il potenziale elettrochimico. Tale elettrodo metallico è parzialmente immerso in una soluzione acquosa dei suoi ioni positivi, alla temperatura di 25 °C e con una concentrazione di 1 mol/L (l’insieme elettrodo-soluzione costituisce una semicella della pila). L'altro elettrodo funziona ad idrogeno, o meglio, l'idrogeno gassoso, H2 , alla pressione di 1 atm, viene convogliato, attraverso un sifone appropriato, su uno strato di platino (scelto perché chimicamente inerte), il quale è per metà immerso in una soluzione acquosa acida di ioni H+ (1 mol/L a 25 °C). A questa seconda semicella si attribuisce per convenzione potenziale zero, sicché la misura della forza elettromotrice della pila, cioè quindi la misura della differenza di potenziale tra i due elettrodi, dà, come valore, il “potenziale elettrochimico relativo” dell’elettrodo metallico. Le soluzioni delle due semicelle sono separate fisicamente da un ponte salino. Nella pila così costruita, quando i due elettrodi vengono messi elettricamente in contatto, se il metallo si ossida (cedendo elettroni) e gli ioni H+ si riducono (acquistando gli elettroni), il potenziale standard del metallo risulta minore di quello dell'idrogeno (quindi negativo). Viceversa, se sono gli H2 ad ossidarsi e gli ioni metallici a ridursi, allora il metallo ha potenziale standard positivo. Il ponte salino: è quasi sempre un sistema costituito da un elettrolita racchiuso in un sifone a “U rovesciata”, con estremità tappate da setti porosi, tutto ciò nel caso in cui le due soluzioni siano contenute in vasche separate, oppure a volte è semplicemente costituito da un apposito materiale poroso e semipermeabile, che separa esso stesso le due soluzioni presenti in una medesima vasca. Il ponte salino è in grado di consentire lo scambio di ioni con le soluzioni delle due semicelle, ma contemporaneamente limita al massimo lo scambio di altra materia e impedisce che le due semicelle entrino in contatto tra loro. Quando i rispettivi elettrodi vengono collegati tramite un potenziometro, che inizialmente per la misurazione della forza elettromotrice necessita di una circolazione di corrente elettrica, il ponte salino, consentendo il passaggio di cariche elettriche, permette di “chiudere” il 32
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
circuito elettrico (altrimenti, nel caso in cui le due soluzioni fossero completamente separate, il circuito rimarrebbe aperto). Per la misurazione della forza elettromotrice non si usa un normale voltmetro poiché il continuo passaggio di corrente elettrica (la resistenza del voltmetro è elevata, ma non infinita), perturberebbe la forza elettromotrice stessa della pila, mentre il potenziometro è fatto per poter essere tarato/regolato durante l’utilizzo, in modo che arrivando ad opporre una forza controelettromotrice (di valore uguale a quello della f.e.m. e di segno opposto) si annulli la corrente elettrica circolante nella pila, e si possa quindi leggere un più corretto e stabile valore della differenza di potenziale tra i due elettrodi. Il ponte salino ha perfino un altro scopo (soprattutto nell’utilizzo vero e proprio delle pile come generatori di f.e.m.), quello cioè di impedire la saturazione delle due semicelle, che avverrebbe altrimenti per accumulo di ioni, in una, e per diminuzione di ioni trasformati in molecole neutre, nell’altra, causando il rapido rallentamento e praticamente l’arresto di ulteriori reazioni redox. Laddove aumentano gli ioni nella soluzione della semicella anodica, l’elettrolita del ponte salino si dissocia infatti inviando ioni la cui carica è di segno opposto, laddove diminuiscono gli ioni nella soluzione della semicella catodica, fa arrivare altri ioni con carica dello stesso segno, mentre nel caso di un semplice setto poroso dividente le due soluzioni, il ponte salino permette il passaggio reciproco degli ioni in eccesso. I metalli che possiedono potenziali standard negativi, sono detti anodici, rispetto all'idrogeno, e se vengono immersi in una soluzione acquosa acida si ossidano ( M → Mn+ + ne- ) con produzione di idrogeno gassoso ( nH3O+ + ne- → (n/2)H2 + nH2O ) . in una soluzione acquosa, ogni ione idrogeno H+ (cioè un protone), eventualmente presente, non è mai libero, ma lo si trova debolmente legato ad una molecola d’acqua, costituendo nell’insieme l’Idrossonio, H3O+ . Quindi in realtà il pH di una soluzione si riferisce alla concentrazione molare di cationi H3O+ e solo indirettamente a quella degli ioni H+. I metalli che possiedono potenziali standard positivi, sono detti catodici, rispetto all'idrogeno, e non si ossidano in soluzioni acquose acide. Essi sono detti metalli nobili. In presenza di acqua (o di gocce di umidità..), non basta, però, accertarsi che il potenziale standard di un metallo sia inferiore al potenziale standard dell’idrogeno: se infatti vi è ossigeno gassoso, O2 , disciolto in acqua (caso più frequente), si corroderanno anche i metalli con potenziale standard inferiore a quello dell'ossigeno (che è un elemento fortemente reattivo). Inoltre, in una soluzione acquosa, il potenziale elettrochimico dell'idrogeno e quello dell'ossigeno variano anche in relazione alla concentrazione di ioni H+ , quindi al pH della soluzione a contatto con il metallo. Attenzione: quando si parla di potenziali elettrochimici, standard o meno, è più corretto intenderli e scriverli attribuiti alla semireazione di riduzione che intercorre tra l’elemento (o il composto) in una sua particolare forma ossidata e una sua particolare forma ridotta. Ad esempio è la semireazione 2H+ + 2e- → H2 ad avere per convenzione potenziale standard di 0 V, potenziale standard che può essere scritto anche come = 0 V in cui il simbolo del “cerchietto” ° indica le condizioni standard; è la semireazione Fe3+ + e- → Fe2+ che ha potenziale standard di +0.77 V , al quale ci si può riferire sinteticamente scrivendo = +0.77 V, eccetera. Forma ossidata e 33
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
forma ridotta, in equilibrio elettrochimico tra loro, costituiscono una coppia redox che può interagire con un’altra coppia redox se hanno differente potenziale elettrochimico. Ad esempio, in una pila di Nernst, abbinando alla semicella standard a idrogeno la semicella Zn2+/ Zn con = -0.76 V, l’elettrodo metallico di zinco si ossida e gli ioni H+ si riducono. Per calcolare il potenziale in condizioni non standard di una qualsiasi coppia redox esiste un’equazione chiamata Equazione di Nernst (essa è utile anche per capire quali coppie redox, tra più coppie redox in competizione, presenti in un sistema in esame, siano soggette a riduzione, quali a ossidazione). Nella realtà, infatti, raramente assistiamo a condizioni standard e, per esempio, già solamente l’acqua neutra, a pH 7, possiede ioni H+ e ioni OH - in concentrazioni di 10 -7 mol/L che obbligano all’utilizzo dell’equazione di Nernst per calcolare il potenziale di riduzione dell’idrogeno. Una volta noti i potenziali elettrochimici E in condizioni non standard, allora tra più sostanze con possibilità di ossidarsi, si ossidano quelle con potenziale elettrochimico più negativo, così come tra più sostanze con possibilità di ridursi, si riducono quelle con potenziale elettrochimico più positivo..
( CENNI SULL’EQ. DI NERNST:
l’Eq. di Nernst è
+
ln
dove è la costante dei gas, 8.314 [J∙mol-1∙K-1]; è la temperatura in kelvin; la costante di Faraday ≈ 96485 [C/mol]; il numero di elettroni scambiati nella semireazione di riduzione; attività delle specie ossidate e di quelle ridotte elevate al proprio coefficiente stechiometrico nella semireazione di riduzione stessa. Se le specie ossidate (o ridotte) sono soluti ionici, la loro attività è pari alla loro concentrazione in soluzione (in mol/L), se sono invece dei gas allora è pari alla loro pressione parziale, infine se le specie sono nelle loro condizioni standard allora la loro attività è pari a 1. Poiché il logaritmo neperiano è circa 1.23 volte il logaritmo in base dieci, allora a 25 °C risulta fissato il valore ≈ 0.05915626 , quindi l’Equazione di Nernst viene spesso riscritta come:
+
Log
.)
Valori dei potenziali elettrochimici delle semireazioni di riduzione riferite alla corrosività dell’acqua a 25 °C, in assenza o in presenza di ossigeno, O2 , disciolto in essa, al variare del pH dell’acqua stessa: senza ossigeno:
pH 0
2H+ + 2e- → H2
=
pH 7
2H+ + 2e- → H2
= -0.414 V
o meglio pH 14 con ossigeno:
0V
2H2O + 2e- → H2 + 2OH-
= -0.414 V
2H2O + 2e- → H2 + 2OH-
= -0.828 V
pH 0
O2 + 4H + + 4e- → 2H2O
= +1.229 V
pH 7
O2 + 4H + + 4e- → 2H2O
= +0.805 V
2H2O + O 2 + 4 e- → 4OH-
= +0.805 V
2H2O + O2 + 4e- → 4OH-
= +0.401 V
o meglio pH 14
34
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
(
=
Log
+
=+0.401 +( 0.059/4)
=+0.805V
dove 0.2 è la pressione parziale dell’ossigeno gassoso; oppure si calcola il potenziale standard dell’ossigeno in acqua con = + Log =+1.229 +( 0.059/4) =+0.805V . Queste particolari situazioni per l’acqua, cioè la possibilità di calcolare indifferentemente il potenziale di riduzione dell’ossigeno (oppure dell’idrogeno come nella = -0.414 o nella = -0.414), usando l’una o l’altra -
formula, a prescindere dal pH, capita proprio perché la concentrazione di ioni OH dipende dalla concentrazione di + + ioni H secondo la pOH = 14 - pH . In particolare bisognerebbe ricordare che si tratta di ioni OH e ioni H3O , che + esiste la reazione di autoprotolisi dell’acqua H2O + H2O ↔ H3O + OH , eccetera eccetera. )
Pertanto: mentre, ad esempio, in una soluzione acquosa completamente acida (pH nullo) tutti i metalli con potenziale standard negativo si corrodono ossidandosi e sviluppando idrogeno (H2), in caso di soluzione neutra (pH 7) si corrodono sviluppando idrogeno soltanto quelli con potenziale inferiore a -0.414 V (tra i quali Fe, Cr, Zn, Mn, ..), e in soluzione completamente basica (pH 14) solo quelli con potenziale inferiore a -0.828 V (Mn, Ti, Al, Mg, ..). La circostanza aggravante è che in ogni caso, però, se è presente l’ossidante per eccellenza, cioè l’ossigeno gassoso, O2 , tutti i metalli con potenziale inferiore a +0.401 V saranno sempre soggetti a corrosione ossidandosi e, via via che la soluzione acquosa diventa più acida (il pH diminuisce) e quindi più aggressiva, si ossideranno anche quelli con potenziali maggiori, fino al caso di una soluzione completamente acida, in cui solo i metalli con potenziale superiore a +1.229 V non si corroderanno più. Potenziali standard di riduzione per la coppia “forma ossidata/forma ridotta” più frequente di alcuni metalli in soluzione acida (in relazione al potenziale standard dell’elettrodo a idrogeno = 0 V): +
2+
- 1.63 V
Fe /Fe
2+
- 0.44 V
Pb/Pb
- 1.18 V
Co /Co
2+
- 0.28 V
Cu /Cu
2+
+ 0.34 V
2+
- 0.76 V
Ni /Ni
2+
- 0.26 V
Ag /Ag
+
+ 0.80 V
3+
- 0.74 V
Sn/Sn
2+
- 0.14 V
Au /Au
3+
+ 1.52 V
Li / Li
- 3.04 V
Ti / Ti
Na / Na
+
- 2.71 V
Mn / Mn
2+
- 2.36 V
Zn / Zn
- 1.67 V
Cr / Cr
Mg / Mg 3+
Al / Al
2+
2+
- 0.13 V
Considerazioni: il cromo è uno di quegli elementi per cui è più facile perdere 3 elettroni invece che
due, ossia Cr2+ + 2e- → Cr ha potenziale standard di -0.91 V, quindi in soluzione acida è più facile trovare il cromo trivalente, Cr3+. Per le varie sostanze, alcuni tipi di ioni o composti ionici sono inoltre più stabili in soluzione acida, mentre altri lo sono maggiormente in soluzione alcalina (basica). Ad esempio, in una soluzione a pH 0 è più stabile appunto il cromo trivalente, mentre a pH 14 è più stabile il cromo esavalente. ( Brevemente, oltre al potenziale elettrochimico, per capire la maggiore o minore spontaneità delle reazioni che portano un metallo a ossidarsi, liberando uno ione piuttosto che un altro, quindi per capire anche quali ioni/composti siano tra loro i più stabili in una particolare soluzione, supponendo che le reazioni procedano a temperatura T0 e pressione costanti, per ognuna di queste reazioni andrebbe soprattutto valutata la loro variazione di energia libera di Gibbs ΔG = ΔH - T0∙ΔS , dove ΔH e ΔS sono rispettivamente la variazione di entalpia e di entropia dei prodotti meno i reagenti della reazione/processo in esame (T0 è in Kelvin). Infatti essendo anche ΔG = -T0∙ΔSuniv , con ΔSuniv variazione di entropia dell’universo, un valore negativo della variazione di energia libera di Gibbs per la reazione chimica in esame, equivarrebbe ad un aumento dell’entropia dell’universo, quindi alla spontaneità della reazione chimica stessa. Tra due reazioni, inoltre risulterebbe essere maggiormente spontanea quella con ΔG inferiore. ) 35
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
( Dato un materiale metallico puro immerso in una soluzione acquosa, esistono i diagrammi di Pourbaix che individuano, all’equilibrio, le regioni di stabilità dei composti formabili dalle varie reazioni redox al variare del potenziale elettrochimico del metallo e al variare del pH dell’acqua, in assenza o presenza di O2. Essi mostrano così, al contempo, le regioni di corrosione del metallo, e dell’eventuale zona suscettibile di passivazione, spiegata a pag. 34, ma anche di immunità del metallo, dove a causa dell’elettrolisi dell’acqua, è essa stessa a cedere elettroni e non il metallo. Tali diagrammi sono però tutt’altro che esaustivi, poiché trattano dell’aspetto termodinamico del sistema, senza considerare la cinetica delle reazioni e trascurando la presenza di altri composti disciolti in acqua, che spesso variano di molto le condizioni di corrodibilità del metallo stesso. ) Curiosità: a temperatura ambiente, Il mercurio liquido, Hg 2 (l) , contrariamente a quanto si sente dire nel linguaggio comune, non corrode l’oro, Au (s), almeno non nel senso elettrochimico della parola. L’oro è più catodico del mercurio e non si ossida a contatto con esso ( = + 0.85 V), bensì il mercurio liquido, che è un elemento molto affine all’oro, sviluppa con esso un amalgama, cioè una soluzione di mercurio contenente come soluto l’oro stesso. (Amalgama è il nome dato alle leghe di mercurio con alliganti metallici, tra cui l’argento, lo zinco, ecc., leghe che in base alla composizione chimica e alle concentrazioni dei soluti metallici all’interno del mercurio, possono essere soluzioni solide o liquide, piuttosto granulose. Certi tipi di amalgama si usano tuttora in vari settori industriali, un tempo anche in odontotecnica.) La formazione di tale amalgama, portando spontaneamente in soluzione vari atomi d’oro, ad es. dalla superficie di un gioiello, provoca un danneggiamento, difficilmente reversibile, della superficie stessa, che subisce un’alterazione del colore e spesso anche distacchi parziali d’oro (a causa della sua facile solubilità nel mercurio liquido). Ciò, per chi compra gioielli, equivale quindi ad affermare che il mercurio “corrode” l’oro. VELOCITA’ NEL PROPAGARSI DELLA CORROSIONE: siccome, nel processo di corrosione a umido, il trasferimento di elettroni dalla sede della reazione anodica alla sede della reazione catodica equivale ad un passaggio di corrente elettrica (che per convenzione ha verso opposto a quello del moto degli elettroni), è la presenza o meno di una tale corrente, circolante tra le due sedi (e il suo verso) ad influire sul compiersi delle reazioni di ossidoriduzione. Pertanto ogni intervento o fenomeno che blocchi o rallenti la reazione catodica, impedendo o riducendo questa circolazione di corrente tra zona catodica e zona anodica, blocca o rallenta anche la reazione anodica e perciò la corrosione del metallo. Ogni fenomeno che invece stimoli la reazione catodica, velocizza anche la reazione anodica. Minore è la velocità con cui progredisce la corrosione, minori sono i rischi/danni causati. In base al tipo di metallo e alle condizioni ambientali, possono verificarsi: - processi di corrosione autostimolanti, per i quali la velocità di corrosione aumenta nel tempo (un esempio riguarda il ferro esposto all'atmosfera, la cui ruggine, mal distribuita, trattiene facilmente l’umidità e l’O2 , sicché quando la ruggine stessa si accumula e si sposta lungo la superficie del ferro, agisce addirittura da trasportatore di umidità, di ossigeno, ecc., stimolando la corrosione); - processi di corrosione autorallentanti, per i quali la velocità di corrosione diminuisce nel tempo, grazie a prodotti di corrosione che formano sul metallo una patina protettiva, la quale può arrivare anche a bloccare i fenomeni corrosivi stessi (ad esempio, sulla superficie dell’alluminio, la corrosione forma uno strato omogeneo di ossidi, meno sensibili alla stessa, che quindi rallenta). 36
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
MORFOLOGIA DELLA CORROSIONE LOCALIZZATA Prima di descrivere le circostanze che portano alla corrosione dei metalli e i metodi per evitarla, è utile accennare al tipo di forma/aspetto con cui la corrosione può manifestarsi e propagarsi. La corrosione può essere generalizzata, cioè diffusa su tutta la superficie più o meno uniformemente (è quella che dà meno problemi e di solito avanza lentamente nel tempo), oppure può essere localizzata, al ché, diventando sempre più profonda, aumenta di velocità (è la più pericolosa forma di corrosione). La corrosione localizzata si presenta fisicamente sotto forma di: - corrosione per vaiolatura (in inglese “pitting”): si creano moltissime cavità/fosse irregolari di varie forme (punta di spillo, o ulcere, o crateri, o caverne, ..) che, essendo originate principalmente da fattori esterni al materiale metallico, partono dalla sua superficie esterna e possono poi diventare molto profonde. Crescendo, possono quindi portare alla perforazione del metallo e alla sua rottura. - cricche intercristalline, intergranulari (per i metalli è abitudine parlare di grani, ma molti utilizzano equivalentemente il termine “cristalli”, maggiormente diffuso per ceramici e vetri) : avvengono tra i bordi dei grani del materiale metallico, per differenze di potenziale elettrochimico fra i bordi stessi, differenze che sono causate soprattutto da inclusioni di diversa natura tra i grani (ad esempio, la precipitazione di carburi di cromo tra i grani di un acciaio) oppure dalla diversa composizione chimica dei bordi stessi, facilitando così i fenomeni ossido-riduttivi. Le cricche intergranulari assomigliano, nell’aspetto, alle crepe che si allargano tra zolle distinte di terra arida, ma, nel caso del metallo, l’interno dei suoi grani non viene intaccato da tali cricche. La corrosione intergranulare, molto più probabile nelle leghe metalliche, portando all’infragilimento dei bordi dei grani, può addirittura causare il completo distacco dei grani coinvolti dal resto del materiale. - cricche transcristalline, transgranulari: sono le più pericolose, poiché si propagano linearmente o con ramificazioni simili a quelle delle cricche intergranulari, ma attraversando in questo caso i grani stessi. Possono essere originate sia da fattori esterni (ad es., quando in presenza di pitting il metallo è sottoposto anche a sollecitazioni meccaniche, le cricche transgranulari possono partire dalla forma iniziale a fossa per poi penetrare in profondità a forma di “fulmine” tra i grani del metallo), sia da fenomeni corrosivi interni (ad es., in caso di più elementi alliganti con rilevanti differenze di potenziale elettrochimico) e così, spuntando fino in superficie, possono avviare poi la vaiolatura.
PRINCIPALI SITUAZIONI CHE PORTANO ALLA CORROSIONE DI UN METALLO - Quando un metallo è esposto completamente ad un ambiente umido, o è immerso in una soluzione acquosa o in un altro elettrolita, se sono presenti differenze di potenziale elettrochimico tra il metallo e l’ambiente circostante (con il metallo che è più elettronegativo), esse danno luogo a regioni anodiche e catodiche, non ben distinte, che variano continuamente di posizione man mano che il processo di corrosione sulla superficie metallica prosegue, comportando una corrosione più o meno omogenea e diffusa. E' il caso della corrosione generalizzata. In mancanza di una protezione, colpisce tutti i metalli più elettronegativi di un tale ambiente, incluso gli acciai. - Quando due metalli con potenziali elettrochimici diversi, oltre ad essere esposti ad un ambiente aggressivo (ad es., un ambiente acido, un ambiente umido con presenza di ossigeno..), sono perfino a diretto contatto tra loro, allora si parla specificatamente di corrosione galvanica (circola corrente 37
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
tra ambiente-metallo-metallo), in cui il metallo con potenziale elettrochimico più negativo si comporta da anodo, l'altro da catodo. In ogni tipo di corrosione elettrochimica circola corrente, ma nel caso della corrosione galvanica essa è più intensa di quella che si avrebbe tra un singolo metallo e l’ambiente. La corrosione galvanica è più veloce di quella generalizzata, specie perché le regioni anodiche e catodiche sono ben più distinte tra loro, con i metalli, a diretto contatto tra loro, che sono pure buoni conduttori, quindi nel complesso le reazioni redox avvengono più rapidamente. Per ricordarsi che la causa principale della pericolosità della corrosione galvanica è il contatto diretto tra i due metalli (di diversa “nobiltà”), spesso viene anche chiamata corrosione “per contatto”, ma senza la presenza di un elettrolita o un ambiente aggressivo qualsiasi, la corrosione risulta già meno intensa. La corrosione galvanica o per contatto è prevalentemente un fenomeno localizzato: l’esempio più classico riguarda viti metalliche fissate su un metallo più catodico, dove le viti si consumano abbastanza velocemente anche perché la superficie anodica aggredita è piccola rispetto alla superficie catodica ben più estesa (molte particelle ossidanti a disposizione). La corrosione galvanica può inoltre verificarsi in un singolo metallo con sufficienti disomogeneità al suo interno, soprattutto quando contiene impurezze di metalli più nobili (ad es. ferro con impurezze di rame). - Quando l'ossigeno, su un metallo che presenti un velo di umidità, si diffonde con concentrazioni diverse (ad es. una goccia d'acqua spessa in centro e sottile alle estremità laterali, quindi con una concentrazione di ossigeno minore al centro), si parla di corrosione per “aerazione differenziale”. In pratica si forma una "pila di concentrazione" dove la zona periferica, con più ossigeno, ha potenziale elettrochimico maggiore e si comporta da catodo, mentre la zona centrale, con minor concentrazione di ossigeno, ha potenziale elettrochimico inferiore, quindi si comporta da anodo, corrodendosi. Un esempio è la goccia d'acqua sul ferro: nella zona sottostante alla parte centrale della goccia, si ha l'ossidazione del ferro, mentre nella zona periferica si ha la riduzione dell'ossigeno. Gli ioni OH- migrano così verso il centro, reagendo con gli ioni del ferro e formando soprattutto Fe(OH)2 , il quale poi a sua volta si ricombina in Fe2O3 (ossido ferrico), che è il principale costituente della ruggine (i vari processi di corrosione del ferro sono in realtà più complessi, la ruggine stessa è composta anche da altri ossidi del ferro ed ha una composizione chimica che varia molto in base alle condizioni ambientali, al pH dell’acqua e alla presenza di vari acidi e basi, alla concentrazione di ossigeno disciolto, eccetera). - Quando un ambiente aggressivo penetra negli interstizi del metallo (dovuti a precedenti cricche, intagli, saldature porose, collegamenti filettati,..), si parla di “corrosione interstiziale” o in fessura (in inglese, “crevice”). L'esempio frequente è una soluzione acquosa contenente O2 e ioni Cl- . Inizialmente l'ossidazione avviene lungo tutta la superficie interstiziale, ma poi la scarsa diffusione dell'ossigeno verso l'interno della fessura, fa sì che la zona del fondo diventi sempre più sede anodica, in cui la concentrazione originatasi di ioni metallici Mn+ richiama ioni negativi (nell'es. ioni Cl- ), con cui si formano composti metallici (nell'es. cloruri metallici). Tali composti subiscono poi una reazione di idrolisi, da cui la combinazione di ioni OH- con ioni Mn+ forma idrossidi insolubili, i quali si depositano ostruendo parte della fessura e diminuendo, così, ulteriormente la diffusione di O2. Nel mentre, la formazione di idracidi (nell'es. acido cloridrico, HCl) provoca una diminuzione del pH nell'interstizio, che accelera il processo corrosivo (gli idracidi reagiscono ulteriormente con il metallo, da cui strappano altri Mn+, formando sali per sostituzione dell'idrogeno). 38
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
La vaiolatura può essere considerata come una pericolosissima specie di corrosione in fessura: essa si verifica soprattutto quando si ha un ambiente ossidante contenente alogenuri (Fl- , Cl- , Br - , I- ) e il processo corrosivo avviene con le caratteristiche sopra descritte (man mano che si forma la caverna, o la "punta di spillo", ecc., rimane meno ossigeno, allora il fondo si anodizza, gli Mn+ richiamano gli anioni presenti in soluzione, ..). Si sappia che, quando nelle tubature circola acqua contenente O2 e alogenuri, il verificarsi del pitting (vaiolaura) è molto più probabile nei "gomiti" dei condotti metallici, soprattutto in presenza di cavitazione (cioè del vaporizzarsi del fluido a causa della depressione o alta temperatura), che ivi favorisce l’accumulo dei vari elementi e il depositarsi dei suddetti prodotti.., stimolando la corrosione.
(
La chimica del cloro è sempre stata una delle più importanti in ambito industriale, per la produzione di solventi, per applicazioni legate alla sintesi di varie sostanze o alla realizzazione di vari prodotti/materiali, per la disinfezione delle acque, e altro ancora. Dal punto di vista della corrosione a umido, il cloro è tra gli alogeni più aggressivi per i metalli e per le leghe metalliche, in particolare per ferro e acciai (il cloro è un forte ossidante, può assumere numeri di ossidazione -1, +1, +3, +5, +7 e la semireazione Cl2 (g) + 2e- → 2Cl - (aq) ha potenziale di riduzione circa pari a 1.36 V, il più alto dopo quello del fluoro, che però può assumere solamente numero di ossidazione -1 e aggredisce maggiormente i materiali contenenti diossido di silicio, SiO2, quindi vetri e ceramiche). I composti del cloro sono numerosissimi (cloruri, anidridi, ipocloriti, clorati e perclorati, ecc., insomma soprattutto sali e acidi) e la maggior parte di essi reagisce facilmente con l’acqua e con l’ossigeno gassoso, aggredendo ancor di più i metalli. Inoltre, reagendo con gli ossidi, attaccano anche gli strati protettivi (di ossidi appunto) che eventualmente rivestono le superfici metalliche stesse, peggiorandone la capacità di rallentare la corrosione, anzi agevolando quella localizzata. In acqua, si vengono perciò a creare diversi tipi di scenari, da quelli effettivamente più aggressivi in cui il pH dell’acqua diminuisce, come accade per esempio con l’acido cloridrico, secondo la reazione HCl + H2O → Cl- + H3O+ , a quelle in cui il pH aumenta, come ad esempio con l’ipoclorito di sodio, secondo la NaOCl + H2O → HOCl + Na+ + OH- . Il cloro gassoso, Cl2 , che insieme agli ipocloriti di sodio e di calcio, è uno dei metodi più diffusi per la disinfezione delle acque, sviluppa acido cloridrico (per idrolisi), ma essendo quest’ultimo un acido forte (cioè in acqua si dissocia completamente), si può anche considerare direttamente la reazione Cl2 (g) + 2H2O (l) → HOCl (aq) + H3O+ (aq) + Cl- (aq) , da cui si nota come anche il cloro gassoso provochi la diminuzione del pH dell’acqua. La stabilità e la concentrazione in acqua dei vari composti del cloro, al di là della presenza di altre sostanze interagenti, dipendono molto dal pH e dalla temperatura dell’acqua stessa. Per citarne uno, l’acido ipocloroso, HOCl,, che si sviluppa facilmente a partire da vari composti del cloro stesso, è un acido debole che tende a dissociarsi, secondo la reazione HOCl + H2O → OCl- + H3O+ , soltanto a partire da valori di pH poco acidi, circa superiori a 6.5, fino ad arrivare alla dissociazione completa solamente sopra un pH di circa 8.5 . Pertanto, sia ad esempio per misure anticorrosive delle tubature contenenti acqua, o per misure a tutela della salute, ecc., oltre alle varie norme e ai controlli sulle concentrazioni di cloro e dei suoi composti in acqua, vengono attentamente monitorati anche il pH stesso dell’acqua e la sua temperatura.
) 39
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
- Quando un fluido liquido scorre tangenzialmente sulla superficie di un metallo (ad es. acqua marina in un condotto), se sono presenti prodotti di corrosione (o di altro tipo) che proteggono il metallo, allora essi possono essere strappati via dall'azione erosiva del fluido in moto, favorendo ulteriori processi corrosivi (si parla di corrosione per erosione). La corrosione per erosione, che è di natura meccanica, può essere agevolata anche dalla presenza di particelle solide (ad es. sabbie), o di bolle gassose, e risultare ancora più dannosa in caso di moti turbolenti. Si noti che, a prescindere dall’azione erosiva, il moto relativo tra fluido e metallo equivale ad osservare, su una porzione fissa di superficie metallica, una probabile variazione nel tempo della composizione chimica del fluido stesso, del suo pH, ecc., magari con un apporto costante o maggiore di sostanze ossidanti, tra cui ad es. l’O2 , in grado di perpetrare una corrosione in atto, o di provocarne spesso una nuova. - Quando si hanno due superfici solide a contatto in moto relativo tangenziale tra loro, si ha una “corrosione per sfregamento” (anch'essa di natura meccanica e non elettrochimica), la quale modificando la rugosità e lentamente la forma delle superficie stesse, può eventualmente facilitare la penetrazione di un ambiente elettrochimicamente corrosivo. Le corrosioni per erosione e sfregamento ci ricordano come i diversi fenomeni meccanici, chimici, termici, elettrici, eccetera, a cui un metallo può essere soggetto, favoriscano spesso lo sviluppo di processi di corrosione elettrochimica, specie se essi avvengono contemporaneamente. - Quando un metallo sottoposto a sollecitazioni meccaniche è esposto ad un ambiente corrosivo, si parla di tensocorrosione o di corrosione sotto sforzo. L'ambiente corrosivo, penetrando in un’eventuale cricca, fa sì che per allargarla bastino tensioni minori di quelle necessarie nel caso in cui l'ambiente sia invece inerte o poco nocivo. Quindi, un ambiente aggressivo aumenta sensibilmente anche il rischio di rottura a fatica, perché stimolando i processi corrosivi, abbassa notevolmente il valore minimo della tensione necessaria per la rottura da sollecitazioni ripetute. MECCANISMI DI RALLENTAMENTO DELLA CORROSIONE e METODI DI PROTEZIONE DEI METALLI Osservazione: Tensioni, correnti e resistività elettriche, entranti in gioco nella corrosione elettrochimica, non sono legate tra loro in modo semplice e lineare, inoltre possono variare sia nel tempo che nello spazio (in particolare a livello locale), sia a causa di alterazioni nell’ambiente, sia per mutamenti nei metalli da proteggere, sia per il procedere stesso delle reazioni redox. Basti già pensare che le reazioni di ossido-riduzione comportano una variazione delle concentrazioni molari iniziali delle varie specie chimiche, o, ad esempio, che gli elettroni e ancor di più gli ioni in moto, coinvolti nelle reazioni tra sedi anodiche e catodiche, possono avere svariate difficoltà energetiche ad attraversare i reticoli cristallini dei materiali (anche dovute a difetti microscopici nella struttura stessa dei materiali), tutto questo e altro ancora provocando quantomeno delle sovratensioni non sempre trascurabili e che comunque influiscono continuamente sull’andamento dei fenomeni corrosivi stessi. In definitiva, quindi, ogni tipo di meccanismo anticorrosivo, attivato tramite intervento sull’ambiente o tramite intervento sul materiale metallico da salvaguardare, non assicura mai un’efficacia perfetta o illimitata nel tempo. 40
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
- LA PASSIVAZIONE: In condizioni tipiche di corrodibilità di un materiale metallico immerso in un ambiente corrosivo circostante, con il termine “passivazione” ci si riferisce all’entrata della superficie metallica in uno stato di inerzia elettrochimica (totale o quasi) con l’ambiente stesso (in pratica le reazioni redox avvengono con una velocità nulla o assai ridotta). Infatti per alcuni metalli, quando la superficie è in via di corrosione (intendendola di natura elettrochimica), può avvenire un fenomeno di passivazione spontanea, che corrisponde alla trasformazione della superficie, attivamente coinvolta, in una superficie quasi inerte, inattiva, grazie alla formazione di una patina di ossidi (e/o idrossidi, o altri prodotti di corrosione), detta strato di passivazione (o strato/film passivante..). Lo strato rallenta o inibisce la corrosione, per merito soprattutto della sua elevata resistività elettrica, isolando e proteggendo così la zona anodica del metallo. La passivazione spontanea, però, si verifica solo tra i casi di corrosione generalizzata e solo entro certi range di differenza di potenziale elettrochimico tra metallo e ambiente, in pratica cioè solo se lo strato di ossidi, che si viene a formare, si distribuisce abbastanza uniformemente, presentando un’adeguata durezza e una bassissima porosità, che siano tali da rendere lo strato stesso chimicamente e meccanicamente stabile nel tempo, e soprattutto tali da impedire, o quanto meno da rallentare apprezzabilmente, la diffusione dell’ambiente corrosivo e in particolare dell’ossigeno gassoso attraverso di esso. (Esistono i diagrammi di Evans, che ricavati per ciascun tipo di metallo, al variare della corrente, permettono di capire meglio quali valori di potenziale elettrochimico del metallo in esame rendano effettivamente possibile la passivazione, mostrando, inoltre, come non tutti i metalli riescano realmente a passivare). Di solito, il film passivante, almeno quello spontaneo, è in realtà costituito da due o più strati sottili di diversa composizione, con il primo strato (cioè il primo a formarsi), che è quasi sempre composto da ossidi elementari e che risulta essere il più omogeneo, il più compatto e il più efficace per azione protettiva. Sopra di esso, i successivi strati si formano invece più lentamente, soprattutto in risposta alla percentuale di umidità dell’ambiente corrosivo con cui interagiscono, cosicché questi strati assumono una composizione chimica più complessa, costituita principalmente da idrossidi, e risultano più spessi, ma anche più porosi, quindi meno efficaci. La formazione e la funzionalità nel tempo di un tale film passivante (che rimane comunque piuttosto “vivo”, cioè con gli ossidi che spesso si staccano/decompongono e si riformano/ricompongono continuamente) sono influenzate dal tipo di ambiente corrosivo (dal suo pH, che se troppo acido ostacola la passivazione; dalle sostanze in esso contenute, tra cui, per esempio, se ci sono cloruri, essi aggrediscono lo strato e sono molto dannosi, specie quando si infiltrano nella porosità dello strato stesso; dalla temperatura, che influisce sugli spessori in via di sviluppo e che, se è troppo alta, destabilizza uno strato di passivazione già formato; ecc.) e sono influenzate naturalmente anche dal tipo di metallo e dalla composizione chimica e strutturale dei composti che vanno a costituire lo strato stesso, quindi dalle caratteristiche che essi gli conferiscono (ad esempio ossidi metallici troppo fragili, favorirebbero la propagazione di cricche superficiali, che, penetrando fino a raggiungere il materiale metallico sottostante, lo renderebbero più sensibile alla corrosione localizzata, causando perciò danni peggiori di quelli prodotti da una normale corrosione generalizzata). Molte leghe metalliche vengono utilizzate perché, in vari tipi di ambienti, passivano, presentando uno strato di passivazione omogeneo e sufficientemente spesso, che non richiede ulteriori protezioni (gli strati protettivi migliori in assoluto sono comunque sottili, da pochi nanometri ad al massimo dell’ordine 41
CAPITOLO 3 - LA CORROSIONE
dei micrometri, poiché all’aumentare dello spessore diminuisce la compattezza dello strato, la sua stabilità, ecc.). Alcuni esempi di leghe passivabili sono: gli acciai inossidabili, la cui passivazione è dovuta alla presenza del cromo, quale elemento alligante in tenore minimo dell’11% circa (di per sé, il cromo, ossidandosi, forma uno strato principalmente composto da Cr2O3 e da Cr(OH)3 , ma negli acciai la composizione è un po’ più complessa); varie leghe di alluminio (l'Al è passivabile, lo strato è formato essenzialmente da Al2O3 e Al(OH)3), il cui impiego è di solito limitato in ambienti in cui il pH sia circa compreso tra 4 e 9 (rispetto ad altri tipi di metalli, l'Al è più facilmente attaccabile sia in ambiente acido, che basico); leghe di titanio, poiché, soprattutto in acqua o a contatto con acidi ossidanti, il titanio si passiva facilmente (dei vari ossidi di Ti, quello più stabile e maggiormente presente nel film passivante è il TiO2), sicché le sue leghe sono utilizzate ad esempio in ambienti marini o in ambienti neutri contenenti cloruri. Nota: poiché la passivazione influisce sulla cinetica dei fenomeni corrosivi e non sui potenziali di riduzione, Al e Ti mostrano come, a parità di ambiente corrosivo, elementi con potenziale di Nernst alquanto negativo, ma in grado di passivare, siano di fatto “più nobili” di altri metalli con potenziale elettrochimico maggiore, ma non passivabili, che quindi si corroderanno più velocemente. è normalmente preferibile la presenza di un ambiente che sia abbastanza ossidante da passivare la superficie di un metallo passivabile, piuttosto che un ambiente scarsamente ossidante non in grado di farlo, poiché una superficie metallica scoperta è più attiva e più facilmente aggredibile dalla corrosione localizzata. Diversi materiali metallici possono essere protetti passivandone intenzionalmente la superficie (protezione anodica). A seconda del materiale metallico in questione, vi è infatti la possibilità di effettuare la passivazione "chimica", immergendo il metallo in un bagno costituito da una soluzione, opportunamente diluita, di acidi fortemente ossidanti (in passato si utilizzava quasi esclusivamente acido nitrico, HNO3, o solforico, H2SO4). La passivazione chimica (che viene eseguita per gli acciai inossidabili e altre leghe metalliche passivabili, qualora siano destinate ad applicazioni richiedenti ottima resistenza alla corrosione), grazie alla regolazione di tempi e temperatura di permanenza dei metalli nel bagno chimico, consente di ottenere uno strato di passivazione qualitativamente ed esteticamente migliore di quello che si otterrebbe per passivazione spontanea (la quale richiede sempre più tempo e risulta meno omogenea). Una tecnica di passivazione chimica, meno diretta, riguarda invece l’immissione di agenti passivanti nell'ambiente circostante il metallo, in grado di accelerare/favorire il processo di passivazione spontanea. Si immettono soprattutto composti con capacità ossidanti (ad es. cromati, pian piano in disuso perché cancerogeni, e nitriti), aggiungendoli quasi esclusivamente in soluzioni acquose, evitando acque stagnanti e monitorando/regolando costantemente le concentrazioni molari degli agenti passivanti inseriti in soluzione. Tutto ciò per garantire sempre la presenza di un’adeguata quantità di tali sostanze in prossimità delle superfici metalliche, altrimenti il film passivante si svilupperebbe in modo errato, a chiazze, o con scarsa compattezza, e aumenterebbe così il rischio di pitting. Un altro metodo di protezione anodica consiste nell’utilizzo di un potenziostato che, regolando il potenziale elettrico di un metallo passivabile, imponga un opportuno valore di tensione elettrica tra il metallo stesso e l’ambiente, che consenta a tale metallo di entrare nel suo 42
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dominio di passivazione. Esiste poi anche il metodo dei “catodi statici”, costituiti da metalli più nobili del matallo da proteggere, con il quale vengono messi a contatto, distribuendoli opportunamente sulla sua superficie. Si utilizzano laddove, per un metallo passivabile, la velocità delle reazioni redox (adesso stimolata non più solo dall’ambiente corrosivo, ma anche dalla presenza dei catodi stessi) venga sufficientemente aumentata, tanto da consentire la formazione del film passivante (con gli ossidi che si formano ora in poco tempo, riuscendo a realizzare uno strato che copre adeguatamente tutta la superficie..). Nel caso di un metallo non passivabile, i catodi statici porterebbero solo all’aumento della corrente di corrosione, velocizzando quindi la corrosione stessa. Quello dei catodi statici, non è tra i metodi preferiti nella pratica, in quanto a prestazioni anticorrosive, poiché, ad esempio, rispetto ad altri sistemi (alcuni dei quali spiegati poco più avanti nel capitolo), non esclude in modo altrettanto sicuro la possibilità che si verifichi la corrosione localizzata (per es. in caso di danneggiamento di un contatto catodo-metallo). - Un sistema per rallentare o bloccare il processo di corrosione, anche complementare ad altri metodi, è invece il ricorso agli inibitori di corrosione, cioè prodotti aggiunti nell'ambiente aggressivo che interferiscono nelle interazioni nocive tra ambiente e metallo. Si usano soprattutto in ambienti acquosi, ad esempio nei condotti idrici. Molti di essi agiscono favorendo lo sviluppo di depositi incrostanti sul materiale metallico, o preservano le incrostazioni già presenti, le quali impediscono fisicamente la corrosione del metallo (per la maggior parte, sono sostanze in grado di regolare i livelli di bicarbonati/carbonati in soluzione, aumentando la trasformazione dei bicarbonati in carbonati e la precipitazione di quest’ultimi, riducendo anche la solubilità delle incrostazioni di carbonati, i quali possono ovviamente essere considerati essi stessi degli inibitori di corrosione, specie se immessi artificialmente in soluzione). Altri tipi di inibitori vengono invece assorbiti sulla superficie stessa del metallo formando un film idrorepellente, che impedisce il contatto acqua-metallo. Vengono frequentemente considerati “inibitori” di corrosione anche gli agenti passivanti introdotti nell’ambiente. Vari inibitori sono scelti, piuttosto, per la loro funzione antibatterica/antimicrobiologica contro quei batteri e microorganismi vari che aggrediscono i metalli (i peggiori a livello industriale sono i solfato riduttori, ma esistono anche batteri che ossidano direttamente il ferro e altri elementi..). Soprattutto in ambiente marino, fluviale, o lacustre, possono essere necessari anche inibitori legati ad un’azione contrastante l’insediarsi di funghi, alghe e molluschi, che causano corrosione meccanica, od anche chimica/elettrochimica. - Due metodi di protezione, impiegati soprattutto per strutture metalliche interrate o immerse in acqua, sono la protezione catodica con anodo sacrificale e la protezione catodica per corrente impressa. La prima consiste nel collegare, con un conduttore elettrico, il metallo da proteggere ad un altro metallo meno nobile (cioè con potenziale elettrochimico più negativo), il quale viene detto “anodo sacrificale”, perché ora, così connessi, i due metalli costituiscono una pila (con il terreno/ambiente che “chiude” il circuito), in cui il metallo da proteggere funge da catodo (è meno elettronegativo dell’altro) e l'altro si comporta da anodo, che si ossida al suo posto, cedendo gli elettroni nelle reazioni redox con l’ambiente. Tale metodo non ha quindi una durata infinita, perché l'anodo sacrificale si consuma e inoltre su di esso si può formare uno strato di ossidi 43
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(potrebbe subire anche una completa passivazione), che lo può isolare dall'ambiente corrosivo, riducendo/annullando "l'effetto pila", o addirittura anche invertendo l'effetto pila stesso. Gli anodi usati maggiormente per proteggere gli acciai sono lo zinco, l'alluminio e il magnesio. Il metodo di protezione catodica per corrente impressa, consiste invece nel collegare il metallo da proteggere al polo negativo di un generatore esterno di corrente regolabile, mentre al polo positivo viene collegato un metallo anodico ausiliario, con il terreno/ambiente che “chiude il circuito”. Per convenzione del generatore, dal polo positivo del generatore parte la corrente elettrica verso l’anodo ausiliario, mentre, dal metallo da proteggere, collegato al polo negativo del generatore, la corrente entra nel generatore stesso, ma ciò equivale ad avere elettroni e altre cariche negative che al contrario muovono dal generatore verso il metallo da proteggere (che non cede elettroni e perciò non si corrode). L’anodo ausiliario, che funge inoltre da dispersore di corrente, ha il vantaggio di consumarsi meno di quanto farebbe invece un anodo sacrificale, poiché gli elettroni sono forniti dal generatore di corrente. Tuttavia, dato, che la direzione della circolazione degli elettroni, viene imposta dal generatore, il cosiddetto anodo sacrificale viene spesso scelto pressoché inerte e più nobile, catodico del metallo da proteggere (cioè più elettropositivo), in modo tale da non consumarsi quasi per nulla. Così facendo, però, in caso ad esempio di guasto del generatore di corrente, mentre un anodo ausiliario che sia effettivamente anodico rispetto al metallo da proteggere, si comporterebbe poi da anodo sacrificale, corrodendosi al suo posto, un anodo ausiliario catodico non impedirebbe al metallo da proteggere di iniziare a corrodersi. I dispersori di corrente più comuni sono in ferro-silicio, o in piombo all'argento. In entrambi i metodi di protezione catodica, si tengono comunque monitorati i potenziali del metallo da proteggere e dell'anodo. Protezione catodica con anodo sacrificale
Protezione catodica con generatore di corrente
- L'utilizzo di rivestimenti che costituiscono una barriera fisica tra il metallo e l'ambiente aggressivo, è uno dei metodi di protezione più affidabili e più adoperati nei vari tipi di ambienti possibili. I rivestimenti possono essere metallici: sono principalmente ottenuti per immersione in opportuni bagni di sostanze chimiche, sfruttando poi l’elettrodeposizione o la diffusione di un elemento anticorrosivo in lega; o per placcatura su prodotti piani durante la lavorazione a caldo (saldatura per diffusione); o per verniciatura (dalla più semplice a spruzzo alla più complessa per cataforesi); eccetera. Oppure possono essere non metallici: pitture o vernici (magari anche contenenti inibitori di corrosione), vetri e smalti, materie plastiche/gomme.. Nel caso di 44
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rivestimenti metallici, è molto meglio se il potenziale elettrochimico del rivestimento risulta inferiore a quello del metallo rivestito, così se il rivestimento si danneggia, scoprendo parte del metallo sottostante, può proteggerlo dalla corrosione galvanica. Per quanto riguarda i rivestimenti non metallici, essi sono scelti a volte semplicemente perché garantiscono un ulteriore protezione anticorrosiva, ma più spesso sono scelti in quanto forniscono una valida alternativa all’impiego di metalli pregiati non rivestiti, già resistenti alla corrosione, ma eccessivamente costosi per lo scopo a cui sono destinati; oppure al contrario si sfruttano proprio per proteggere metalli costosi dalla corrosione o da eventuali danneggiamenti meccanici; e/o per isolare anche elettromagneticamente vari componenti metallici. Tra i rivestimenti non metallici, la pittura o la verniciatura sono costituiti: da un "veicolo", cioè l'olio o un’apposita resina che forma il film di rivestimento; da un "pigmento" che può fornire opportune proprietà di protezione dalla corrosione; da un solvente che scioglie l'olio (o la resina) per farlo aderire omogeneamente al metallo (però ormai, dove possibile, si tende a preferire la pittura ad acqua per evitare l'uso di solventi dannosi per l'ambiente); e da additivi per fornire proprietà aggiuntive al rivestimento (possono essere coloranti, plastificanti, inibitori..). Solitamente si applicano almeno due "mani" di pittura o di verniciatura: uno strato di fondo per proteggere il metallo, un secondo strato di finitura per impermeabilizzare. Anche se pittura e verniciatura sono termini usati ormai quasi indistintamente, in realtà in origine i due si distinguevano per l’assenza di pigmenti nella verniciatura, che in tal caso fungeva da rivestimento anticorrosivo semplicemente per la propria azione fisica di isolante/impermeabilizzante. (plastiche materiali ceramici e vetri sono descritti nei prossimi capitoli). Anche i rivestimenti non metallici non garantiscono una protezione perfetta, poiché con il tempo si alterano/usurano e, ad esempio, l’O2 e l’umidità, possono lentamente diffondere attraverso di essi, raggiungendo il metallo sottostante. Spesso, prima di applicare rivestimenti metallici e non, si effettuano varie pulizie della superficie metallica: ad esempio di tipo meccanico, con l'uso di sabbie o spazzole, per pulire e levigare il metallo; e/o di tipo chimico con detergenti per eliminare grassi e sporco; e/o principalmente con il metodo del decapaggio per rimuovere ossidi e altre sostanze chimiche. Il decapaggio consiste nell'immergere il metallo in un bagno di acido nitrico, solforico, fosforico, o citrico (che è un acido tricarbossilico, usato perché rispetto ai primi tre è migliore per smaltibilità e tutela della salute), ad alta temperatura, per rimuovere le sostanze chimiche indesiderate che si trovano depositate sulla superficie. Se però si lascia a bagno il metallo per un tempo eccessivo, sulla sua superficie possono finirci vari atomi di idrogeno, o meglio H+, i quali poi diffondendo nel materiale metallico, lo rendono meccanicamente più fragile (si parla di infragilimento da idrogeno): essi, infatti, ricombinandosi poi in molecole biatomiche di idrogeno, H2, generano una pressione interna dagli interstizi del reticolo cristallino del metallo in cui si trovano, la quale riduce la duttilità e la resistenza a trazione del metallo stesso, con il rischio di provocare cricche. Il decapaggio può essere anche di natura elettrochimica, cioè si può adoperare un bagno acido percorso da corrente, per facilitare ulteriormente la rimozione delle sostanze chimiche indesiderate, ma se la funzione principale di questa tecnica è piuttosto quella di ridurre la rugosità della superficie metallica, si parla allora più correttamente di elettrolucidatura (molti metodi dai nomi differenti, sono in realtà simili per concetti di base, tecniche impiegate e benefici finali sul prodotto trattato, 45
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cambia soprattutto la scopo primario sul quale si concentrano). A prescindere dalla sua natura, il decapaggio, volendo, può essere effettuato anche per ripulire superfici metalliche già rivestite, ma se si immerge un metallo rivestito in un bagno acido-galvanico, a causa della corrente, può capitare che l'idrogeno già eventualmente presente nel metallo, sia attirato in superficie e che tenda quindi a spingere sul rivestimento, generando dei rigonfiamenti a forma di bolle (blistering). Così, per prevenire l'infragilimento da idrogeno e possibili fenomeni di blistering, il decapaggio si esegue quasi sempre su metalli ancora da rivestire e inoltre, nel bagno, si inseriscono degli inibitori che impediscano/riducano la diffusione dell'idrogeno nel metallo (dovuta alla reazione tra bagno acido e metallo immerso). LA ZINCATURA La zincatura, cioè il processo con cui viene applicato un rivestimento di zinco sul metallo da proteggere, è il metodo di rivestimento metallico anticorrosivo a cui si ricorre più frequentemente, in particolare per ferro e acciaio. Al di là dei vantaggi tecnici ed economici, si esegue la zincatura perché lo zinco è anodico rispetto all’acciaio e a vari altri tipi di metalli e, a contatto con l’atmosfera o con un ambiente acquoso, resiste discretamente alla corrosione, formando ossidi che riducono la profondità degli attacchi corrosivi, senza realizzare un vero e proprio strato di passivazione. L’anodicità e la mancanza di un effettivo strato passivante, fanno sì che, quando un rivestimento di zinco si deteriora nel tempo in diverse zone, lasciando la sottostante superficie metallica esposta all’ambiente corrosivo, lo zinco restante, fungendo da anodo sacrificale, continua a ben proteggere il metallo per molto tempo ancora, evitando la corrosione galvanica e la vaiolatura (al contrario dello zinco, l’alluminio, passivandosi completamente, rimarrebbe ben più isolato dall’ambiente e, non potendo servire da anodo sacrificale, lascerebbe l’acciaio, laddove scoperto, vulnerabile al pitting). La durata in anni della zincatura dipende parecchio dal tipo di ambiente (molto buona in ambiente atmosferico o interrato, potendo durare perfino una ventina d’anni, dura già meno in ambienti marini, per la presenza di sali vari, e molto meno in ambienti industriali, specie in presenza di cloruri, durando in tal caso al massimo pochi anni, a meno di ulteriori trattamenti, anche semplicemente di rinnovo del rivestimento di zinco). Tra i principali metodi di applicazione di un rivestimento di zinco sull’acciaio, si distinguono: - la zincatura a caldo: è il più classico metodo impiegato per gli acciai (specie per elementi di grandi dimensioni), previa pulizia delle superficie (ad es. mediante decapaggio). Dopo la pulizia, si esegue un pretrattamento di “flussaggio”, quasi sempre immergendo l'acciaio in sali fusi (cloruro di zinco e cloruro di ammonio), con lo scopo principale di formare su di esso una pellicola di ZnO, che funge da antiossidante e protegge l’acciaio dall’atmosfera, in attesa del successivo trattamento di zincatura vero e proprio, nel quale la pellicola facilita anche la diffusione dello zinco liquido attraverso il reticolo cristallino del ferro (riduce la tensione superficiale tra zinco e ferro, aumentando così la bagnabilità della superficie dell’acciaio). Di fatti, dopo il flussaggio, il procedimento fondamentale della zincatura consiste nell'immergere l'acciaio, preriscaldato a 100 °C, in un bagno di zinco fuso a 450 °C circa, aspettando poi che l'acciaio raggiunga la stessa temperatura del bagno e che venga ben rivestito, per passare infine al suo raffreddamento/asciugatura e ad eventuali rifiniture della sua superficie zincata. 46
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Il rivestimento finale è formato da strati di varie leghe di zinco e ferro, che sono diversi tra loro per spessori, tenori e struttura in gioco, come conseguenza della tecnica di zincatura a caldo e dell’avanzare stesso della diffusione dello zinco nel ferro. Complessivamente lo spessore minimo del rivestimento è dell’ordine delle decine di micrometri (meccanicamente, i migliori rivestimenti di zinco a caldo si attestano su non più di un centinaio di µm di spessore). Il tenore di zinco in superficie è di quasi il 100%, poi, penetrando in profondità nell’acciaio, diminuisce via via rimanendo su valori comunque superiori al 70% (in massa). - la zincatura elettrolitica (o per elettrodeposizione): il metallo da zincare, dopo i processi di pulizia, viene collegato al polo negativo di un generatore di corrente e immerso in una soluzione elettrolitica, contenente sali di zinco. Al passaggio della corrente, si ha la separazione dei sali, con i cationi di zinco in soluzione che, per la differenza di potenziale, tendono a spostarsi verso il metallo. Inoltre, acquistando elettroni, tali ioni si riducono a zinco metallico, che alla fine risulta uniformemente depositato sulla superficie del metallo da rivestire. Al polo positivo del generatore è invece collegato dello zinco puro, almeno parzialmente immerso, che ossidandosi immette nuovi ioni di zinco in soluzione, mantenendo quindi inalterate le concentrazioni molari. L’elettrodeposizione permette di ottenere spessori anche molto piccoli, dell’ordine dei micrometri, inoltre non va a modificare la struttura superficiale del materiale metallico (non forma leghe..). La zincatura elettrolitica può quindi essere applicata su prodotti di varie dimensioni, ma viene apprezzata soprattutto per il rivestimento di componenti di precisione (ad es. vari tipi di ingranaggi di piccole dimensioni, viti e altri elementi filettati, ecc.). - la zincatura a spruzzo: consiste nello spruzzare zinco fuso, finemente nebulizzato, sulla superficie metallica da rivestire, adeguatamente pulita. Viene spruzzato tramite una pistola ad aria compressa, avente: un dispositivo di alimentazione del filo di zinco o delle polveri di zinco (così che venga caricato in continuo), un dispositivo di fusione dello zinco (ad arco elettrico, più raro a gas) e uno di nebulizzazione. La zincatura a spruzzo è una tecnica di deposizione meccanica, che richiede un’adeguata rugosità della superficie metallica da rivestire, in modo che si possa far aderire/trattenere meglio lo zinco sulla superficie stessa. Di solito la si applica manualmente, specie per prodotti di grandi dimensioni, per i quali essa viene adoperata quando la zincatura a caldo non è possibile (per le alte temperature che richiederebbe), ma può essere anche automatizzata per prodotti in serie di dimensioni contenute. Gli spessori possono variare da qualche decina di micrometri ad alcune centinaia di micrometri. Il rivestimento finale protegge alquanto efficacemente, ma rispetto a quelli da zincatura a caldo e da elettrodeposizione è più poroso e gli spessori sono meno omogenei. - la zincatura a freddo: è in realtà una tecnica di verniciatura, con la quale si applica una vernice a base di resine sintetiche e polveri di zinco metallico sulla superficie metallica da rivestire (previa opportuna pulitura). E’ eseguita come strato di fondo protettivo, a cui si fa quasi sempre seguire una verniciatura di finitura, anche solo per fini estetici. La zincatura a freddo ha prestazioni inferiori agli altri metodi di zincatura, ma è tra i più pratici da applicare su elementi in serie (per immersione in vasca) ed è sicuramente il più comodo per il fai-da-te. Attenzione: alcuni con zincatura a freddo si riferiscono purtroppo a quella elettrolitica. 47
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Dallo studio di quanto spiegato finora nel capitolo, specialmente considerando i potenziali di Nernst e la passivazione, potrebbe venire voglia di saperne di più su eventuali confronti tra rivestimenti in alluminio e rivestimenti in zinco. Ebbene, pur essendo il prezzo dell’alluminio inferiore a quello dello zinco (ma non di molto), “l’alluminatura” dell’acciaio è un processo che risulta al contrario più costoso e complesso della zincatura. Per averne un’idea, in ambito industriale, il tipo di tecnica di deposizione superficiale dell’alluminio che meglio combini costi contenuti e buone prestazioni finali del rivestimento è l’immersione a caldo, la quale tuttavia, a differenza della zincatura a caldo, richiede, preferibilmente, l’aggiunta di percentuali di silicio, un elemento non certamente “a buon mercato”, per regolare spessore e composizione dello strato intermetallico acciaio-alluminio. Infatti, tale strato, che è importante per far aderire meglio l’alluminio all’acciaio, è però costituito da composti intermetallici di alluminio e ferro che lo rendono più duro e fragile, sia dello strato di alluminio soprastante, sia dell’acciaio sottostante. Il silicio permette di limitare la formazione dei composti più dannosi di questo strato intermetallico e di ridurre al contempo la crescita dello spessore dello strato stesso, il quale, se fosse troppo spesso, comprometterebbe la duttilità dell’acciaio e l’efficacia del rivestimento di alluminio. Zinco e alluminio, comunque, non offrono all’acciaio proprietà del tutto simili: ad esempio, a causa della sua passivazione l’alluminio resiste molto meglio alla corrosione generalizzata di quanto non faccia lo zinco, ma si già è accennato al fatto che non riesce a fungere da anodo sacrificale qualora l’acciaio si ritrovi esposto localmente all’ambiente corrosivo. A parte tutto ciò, i rivestimenti protettivi in alluminio sono molto validi e pertanto sono preferiti a quelli in zinco laddove l’acciaio possa trarre evidenti benefici soprattutto dalle caratteristiche meccaniche, termiche e/o di conduzione elettrica dell’alluminio stesso. Quindi, ad esempio, gli acciai rivestiti in alluminio trovano impiego nei silenziatori e altri componenti meccanici dei sistemi di scarico dei gas dei veicoli, ma anche per varie canne fumarie, o come elementi di fornaci e forni vari, o si usano negli scambiatori di calore, ecc., poiché in tutti questi casi è richiesta una maggiore resistenza alla corrosione generalizzata a caldo e tra l’altro l’alluminio possiede anche una migliore resistenza alla corrosione per erosione rispetto allo zinco; i rivestimenti in acciaio alluminato si trovano anche come componenti elettriche o elettromagnetiche quali bobine, telai ed altri elementi strutturali conduttori di corrente, recinzioni elettriche, sono presenti in alcuni tipi di resistori, eccetera, poiché alle proprietà elettromagnetiche e termiche dell’alluminio abbinano appunto la sua buona resistenza alla corrosione. Esistono, inoltre, rivestimenti in lega di alluminio e zinco (più percentuali di silicio) che cercano di sfruttare al meglio le caratteristiche di entrambi i metalli. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti anticorrosivi, i rivestimenti in alluminio-zinco conferiscono agli acciai prestazioni intermedie tra quelle degli acciai zincati e quelle degli acciai alluminati, con il vantaggio, però, di proteggere adeguatamente gli acciai, sia dalla corrosione generalizzata (grazie all’alluminio) sia dalla corrosione localizzata (grazie allo zinco). In diversi casi, con essi è possibile evitare addirittura il ricorso ai più costosi acciai inossidabili e inoltre, siccome la durata in vita degli acciai rivestiti in zinco-alluminio è solitamente almeno il doppio di quella posseduta dagli acciai zincati, essi permettono di fornire un’interessante alternativa proprio alla zincatura, garantendo un ritorno economico nel medio termine, in anni, sui costi di produzione inizialmente più alti. 48
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Breve accenno alla fosfatazione La fosfatazione è un altro metodo di rivestimento piuttosto diffuso, specialmente per ferro e acciai non rivestiti (meno per acciai già rivestiti e per altri metalli, tra cui l’alluminio), a base appunto di fosfati (i migliori, per proprietà anticorrosive e meccaniche conferite, sono i fosfati di manganese e di zinco, peggio quelli di ferro). Di per sé, tale rivestimento non assicura grandi doti di resistenza alla corrosione, ma diventa assai efficace se impiegato come strato di fondo in preparazione a successivi rivestimenti metallici e non. La fosfatazione migliore è quella realizzata per immersione. Il procedimento completo richiede diversi stadi (considerando anche pre- e post-trattamenti vari di pulitura del metallo, eccetera), ma il processo fondamentale consiste in pratica nell’immergere il pezzo metallico da rivestire in un bagno di acido fosforico e sali fosfati. Alla fine si arriva alla conversione della superficie metallica in un sottilissimo strato di fosfati insolubili (dell’ordine dei micrometri), il quale, grazie alla sua struttura microscopica e alla sua particolare porosità e rugosità, permette agli ulteriori rivestimenti sopra applicabili, quali ad esempio la zincatura, di aderire molto meglio. Per certi impieghi, volendo rendere un componente fosfatato immune dalla corrosione, è sufficiente addirittura applicare soltanto degli olii lubrificanti sulla sua superficie, venendo essi ben assorbiti dal rivestimento fosfatico. Un’altra peculiarità molto apprezzata è che, grazie alle proprietà dielettriche dei fosfati, la fosfatazione permette di impedire fenomeni di corrosione galvanica, che si potrebbero altrimenti verificare tra un eventuale rivestimento metallico e il substrato del metallo sottostante. ACCIAI INOSSIDABILI Laddove proteggere gli acciai dalla corrosione mediante l’applicazione di rivestimenti vari non sia la soluzione più adatta (ad esempio per questioni termomeccaniche), si può ricorrere agli acciai inossidabili. Sostanzialmente gli elementi più importanti degli acciai inossidabili, o inox, sono tre: il cromo, il molibdeno e il nichel. Il cromo, a cui si deve l’inossidabilità, è l’unico elemento di lega indispensabile negli acciai inox, il molibdeno è quasi sempre presente almeno in tracce per evitare quantomeno l’infragilimento da rinvenimento, il nichel, invece, se presente, offre il suo miglior contributo quando è in percentuali in massa tali da far ottenere all’acciaio la struttura austenitica a temperatura ambiente (si ricorda che il nichel è fortemente austenizzante, mentre cromo e molibdeno sono alfogeni, cioè aiutano a conferire la struttura ferritica all’acciaio). Tutti e tre gli elementi, sopracitati, in base al bilanciamento delle loro percentuali in gioco, migliorano in generale sia le caratteristiche meccaniche che la resistenza alla corrosione, dove, per quest’ultima, alcuni punti percentuali in massa di molibdeno concorrono ad aumentare la resistenza al pitting, mentre il nichel contribuisce alla resistenza alla corrosione generalizzata. Per quanto riguarda l’elemento chiave, senza il quale molibdeno e nichel sarebbero molto meno utili, va innanzitutto precisato che, almeno secondo le norme europee, il cromo deve essere presente in percentuale minima del 10.5% in massa, affinché gli acciai possano essere definiti inossidabili. E’ però del 12% circa, il tenore minimo di Cr che garantisce uno strato passivante già completamente ricoprente la superficie dell’acciaio e discretamente efficace per proteggere, anche in soluzioni acquose, dai vari tipi di corrosione. Passivandosi, il Cr ricopre la superficie dell'acciaio con un sottilissimo strato composto da ossidi del cromo stesso e anche da ossidi del ferro, nei quali alcuni atomi di Fe sono 49
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sostituiti da quelli di Cr. Lo strato ha uno spessore dell’ordine dei nanometri, è piuttosto duro e compatto, e offre una resistenza alla corrosione anche a caldo. Inoltre, in caso di lievi abrasioni, graffi, ecc., la zona d’acciaio scalfita, rimanendo esposta all’ambiente, tende a passivare di nuovo, ripristinando sufficientemente lo strato di ossidi protettivo. Gli acciai inossidabili si caratterizzano poi per il basso contenuto di carbonio: spesso e volentieri è ben sotto lo 0.1% in massa per i principali tipi di acciai ferritici e austenitici, mentre è più alto per gli acciai inox martensitici, dove, comunque, solo alcune sue classi raggiungono al massimo un tenore dell’1.2% circa di C. Il basso tenore di carbonio influisce positivamente sulla resistenza alla corrosione, a svantaggio però della resistenza meccanica. Meno C serve soprattutto per ridurre la formazione di carburi di cromo, che, negli inox più che altrove, causerebbe spiacevoli problemi (che sono spiegati a fine pagina). Gli acciai inox, in base alla struttura a temperatura ambiente, si distinguono in 3 principali famiglie: - gli acciai inox martensitici: dalle elevate caratteristiche meccaniche (grazie al più alto tenore di C tra gli inox), ma dalla minore resistenza alla corrosione (perché hanno il più basso tenore di Cr, cioè tra l’11÷15% circa, più raro fino al 18%, ma anche perché il tenore di C è appunto il più alto); - gli acciai inox ferritici: dalla buona resistenza meccanica e buona resistenza alla corrosione. Le principali classi di acciai inox ferritici possiedono un tenore di Cr tra il 16-18% circa, ma vi sono in particolare alcune classi che hanno un più basso contenuto di cromo, e altre, sopra il 18%, che arrivano finanche ad una trentina di punti percentuali (tra i cosiddetti inox “superferritici”); - gli acciai inox austenitici: i più diffusi, dalle buonissime caratteristiche meccaniche e soprattutto dall’ottima resistenza alla corrosione. A parte alcuni casi, tutti gli acciai austenitici contengono come minimo il 16-18% di Cr e almeno l’8-10% di Ni. Tra gli acciai inox, gli austenitici sono un po’ più sensibili alla corrosione interstiziale (specie se in presenza di ioni Cl- ) e sono sofferenti in generale agli acidi a basse temperature. Comunque, la resistenza al pitting può essere migliorata già con l’aggiunta di molibdeno. Inoltre, a seconda del tipo di elementi inseriti in lega, alcuni acciai inox austenitici risultano ancor più resistenti alla corrosione a caldo, oppure altri alla corrosione in acque più aggressive (anche in acque di processo di impianti chimici/industriali..), eccetera. Esistono, inoltre, anche gli acciai duplex, con struttura doppia, austenitica e ferritica, dovuta sia al particolare processo di produzione, sia al preciso bilanciamento dei tenori in gioco di Cr, Ni e dell’eventuale Mo. I migliori acciai duplex contengono tutti e tre questi elementi, sicché, per l'alto tenore di Cr (dal 18 al 26% circa) e per la presenza di Mo, hanno un miglior grado di passivazione, quindi un’ottima resistenza alla corrosione (un po’ di più anche al pitting). La struttura duplex migliora in particolare la resistenza alla tensocorrosione, la resistenza alla trazione e allo snervamento. Gli acciai duplex furono sviluppati, notando che gli acciai austenitici resistevano meglio alla corrosione generalizzata e peggio alla tensocorrosione, viceversa per i ferritici. Riguardo alla corrosione localizzata, gli acciai inossidabili (soprattutto il ferritico e l’austenitico, che hanno il maggior contenuto di Cr) hanno un problema in particolare: quando essi si riscaldano a temperature via via sempre più sopra i 500 °C, il cromo in soluzione reagisce fortemente con il carbonio, formando carburi di cromo molto grossi (ossia i Cr23C6, carburi 50
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instabili che derivano dalla trasformazione degli altrettanto instabili Cr7C3, precedentemente formatisi per interazione della cementite, Fe3C, con il Cr dissolto in essa, eccetera eccetera; in ogni caso la questione è un po’ più complessa). Il cromo, infatti, di per sé è uno degli elementi che diffonde facilmente attraverso il reticolo del ferro e interagisce spontaneamente con il carbonio. Pertanto, mentre in altri tipi di acciai a basso contenuto di cromo, queste caratteristiche del cromo sono positive poiché in essi da vita soltanto a pochi carburi (specialmente i più stabili Cr3C2) che contribuiscono a migliorare le proprietà meccaniche senza particolari problemi locali, negli inox, invece, fanno sì che i carburi (specialmente quelli formantisi ad alte temperature), precipitando verso i bordi dei grani, avviino la corrosione intergranulare, peggiorando così le caratteristiche degli inox stessi, e rendendo vani i maggiori costi sostenuti per averli prodotti. Peggio ancora, il ridursi della percentuale di cromo libero (perché in parte combinatosi a formare carburi), rende più difficile la formazione di un buon strato inossidabile sulla superficie dell'acciaio (già il semplice e più stabile Cr3C2 può risultare indesiderato, laddove invece in altri acciai è maggiormente apprezzato per il miglioramento che offre in particolare alla durezza). Per evitare tutto ciò, si adottano quindi vari tipi di accorgimenti, tra cui l’utilizzo di acciai contenenti tracce di elementi stabilizzanti, per es. titanio e niobio, in grado di ostacolare le interazioni tra cromo e carbonio formando facilmente essi stessi carburi più stabili e molto meno nocivi; oppure, ad esempio per componenti in acciaio inox destinati ad essere saldati, l’impiego di acciai con un contenuto bassissimo di carbonio, cioè gli acciai L (Low carbon), con % C < 0.03% , riducendo così a priori la possibilità di formazione degli indesiderati carburi di cromo (il fatto che nella maggior parte degli acciai ferritici e austenitici, il tenore di C sia inferiore allo 0.1% è già comunque dovuto al voler limitare i carburi di cromo). Nota: Il costo elevato del Nichel è tra le prime cause che limitano la produzione e quindi l’impiego diffuso di acciai austenitici, che costituiscono comunque più del 60% della produzione di acciai inox, mentre però a loro volta gli acciai inox occupano solo alcuni punti percentuali dell’intera varietà di acciai prodotti nel mondo. Esistono, in effetti, anche acciai austenitici al Cr-Mn (il manganese è un altro elemento austenizzante), ma le caratteristiche conferite a tali acciai dal manganese sono piuttosto differenti, da quelle ottenibili grazie al nichel, e sono adatte a scopi piuttosto particolari (legati più che altro alle peculiari proprietà meccaniche acquisite, mentre la resistenza alla corrosione è meno buona di un acciaio al cromo-nichel). Pertanto negli inox, il manganese viene utilizzato più come aggiunta in basse percentuali che come elemento principale (comunque anche se meno costoso del nichel, il manganese non è affatto gratis, anzi). In generale, al posto degli acciai austenitici al cromo-nichel si cerca spesso, dove possibile, di ricorrere all’impiego di altri tipi di acciai, tra i quali, per quanto riguarda le proprietà anticorrosive, vi sono alcuni speciali acciai inox ferritici, che, pur avendo prestazioni meccaniche inferiori, consentono di avere una resistenza alla corrosione quasi paragonabile a quella degli acciai austenitici inossidabili: si tratta degli acciai ferritici a ridotta concentrazione di elementi interstiziali, carbonio e azoto in primis, denominati acciai ELI (Extra Low Interstitial), in cui il tenore di nichel arriva al massimo ad un paio di punti percentuali (sopra tale percentuale si potrebbero avere microstrutture austenitiche, non più trascurabili, all’interno dell’acciaio ferritico). Abbassare principalmente il contenuto di carbonio e azoto, quali elementi interstiziali nella soluzione solida del ferro α , aumenta notevolmente la resistenza alla corrosione, però diminuisce la resistenza meccanica. 51
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Digressione: Riguardo alla vaiolatura, per le varie classi di acciai, esistono alcuni indici di resistenza al pitting (in inglese chiamati “PREN” , cioè Pitting Resistance Equivalent Number), che, a priori, permettono di confrontare tra loro gli acciai, sulla sola base della rispettiva composizione chimica (considerando principalmente i tenori di cromo, molibdeno e azoto). Il più comunemente utilizzato è l’indice PREN = , che viene valutato soprattutto per gli acciai inox austenitici (se il PREN è maggiore di 34-36 la resistenza al pitting è già molto buona). In tali indici, bisogna stare attenti a non confondere il simbolo dell’azoto con quello del nichel, Ni, il quale non contribuisce ad aumentare la resistenza al pitting, specialmente perché la percentuale di nichel presente nel film passivante è molto bassa, tendendo tale elemento, durante la passivazione dell’acciaio, a spostarsi maggiormente al di sotto dello strato di ossidi che si viene a formare. L’azoto, al contrario, dà un contributo rilevante, inoltre è un elemento austenizzante come il nichel, quindi a volte viene volutamente inserito come alligante (più che altro in alcuni acciai inox austenitici). Comunque, quando presente, l’azoto lo si trova in piccole percentuali, se non addirittura in tracce, sicché in termini assoluti, anche il suo impatto sulla resistenza al pitting è comunque limitato. Citando i PREN, si può dare l’errata impressione che tali indici siano chissà quanto importanti. In realtà, questi indici possono sì essere utili, ad esempio per avere un riferimento di partenza su quale tipo di acciaio sia meglio utilizzare in determinati ambienti corrosivi, ma sono comunque approssimativi. Non a caso, a parità di composizione, gli acciai possono avere una resistenza al pitting diversa, oppure acciai di composizione diversa possono avere resistenza uguale, poiché sulla resistenza alla corrosione interstiziale influiscono anche i trattamenti che un determinato acciaio ha subito, il tipo di struttura che possiede, eccetera. Accenno ai rivestimenti in cromo Oltre all’importante ruolo svolto come elemento alligante anticorrosivo negli acciai inox, sopra descritti, il cromo, o meglio, i suoi composti vengono anche sfruttati per realizzare rivestimenti di vari materiali metallici non ferrosi, in primis; di acciai ossidabili, poi. In base alle caratteristiche strutturali e alle condizioni di utilizzo, si usano per ricoprire perfino materiali già rivestiti, come, ad esempio, gli acciai zincati. I rivestimenti di cromo sono infatti apprezzati sia per le proprietà anticorrosive, che per le ottime caratteristiche meccaniche derivanti dal cromo stesso, tra cui la durezza. Tali rivestimenti vengono applicati quasi sempre tramite complessi procedimenti galvanici, che coinvolgono prevalentemente composti di cromo esavalente e trivalente: a seconda degli scopi finali e delle tecniche impiegate (aspetti che qui non verranno approfonditi), ci si sta in pratica riferendo a diversi metodi di cromatura e di cromatazione, ma è molto utilizzata anche la cromizzazione, ossia un procedimento prettamente termochimico di diffusione di cromo gassoso attraverso la superficie del materiale, più specifico per gli acciai che per i metalli non ferrosi. Come accennato, i rivestimenti in cromo possono fungere da rivestimento anticorrosivo principale, oppure possono essere applicati come strato di base per successivi rivestimenti metallici e non; si usano per rinforzare componenti metalliche usuratesi in fase di esercizio; o per assolvere più semplicemente a funzioni estetico-decorative; eccetera. I metodi per rivestire in cromo i metalli sono, però, poco efficienti, con un elevato impiego di acque, che a valle dei processi risultano inoltre molto inquinate, anche per le elevate quantità di cromo disperso, che non si è riusciti a depositare 52
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sulle superfici metalliche (tali acque necessitano quindi di costosi trattamenti, prima della reimmissione nell’ambiente). I composti del cromo, soprattutto quelli contenenti cromo esavalente, sono infatti piuttosto nocivi/tossici per l’ambiente e per la salute dell’uomo (sono cancerogeni quantomeno per inalazione). Per tutti questi motivi, oltre all’aver pian piano cercato di sostituire il ricorso al cromo esavalente con l’uso dei soli composti di cromo trivalente, considerati molto meno dannosi (il cromo esavalente è ormai evitato anche come agente passivante), l’utilizzo di rivestimenti in cromo sta via via lasciando spazio a metodi di rivestimento alternativi.
Osservazioni sul capitolo: in questo capitolo è stato fornito un quadro generale sulla corrosione dei metalli, descrivendo poi quei sistemi di protezione più frequenti, che fossero significativi sia dal punto di vista accademico che pratico. Il tutto scegliendo di non fare eccessivi approfondimenti. Comunque, si è compreso che esistono molte tipologie di protezione (nuovi metodi sono sempre in via di sviluppo) e che i vari meccanismi vengono spesso combinati tra loro per garantire una maggiore salvaguardia dei materiali metallici. Si vuole qui precisare, tra l’altro, che i potenziali standard di riduzione, pur essendo i più corretti da utilizzare dal punto di vista teorico, non sono i più amati nella pratica, perché si preferisce valutare il potenziale dei metalli direttamente in soluzioni tipiche dell’ambiente in cui verranno in seguito adoperati (ad esempio, soluzioni di acqua marina, la quale contiene tanti altri tipi di ioni oltre a quelli del metallo in esame). Quindi, per ciascuno dei metalli, ma anche e volentieri per le leghe metalliche, spesso si determinano i potenziali elettrochimici (relativi) in funzione dell’ambiente reale (pur fissando alcuni valori di riferimento per la temperatura e per le concentrazioni di ioni e di gas disciolti, tipicamente presenti, eccetera) e si controlla sotto quali valori di tensione essi si corrodano (esistono infatti i potenziali di dissoluzione, con rispettive tabelle dove andare a recuperare i valori per metalli, ecc.).
CENNI SU PROVE DI CORROSIONE E METODI DI CONTROLLO Le prove e i controlli riguardano il metallo e/o il sistema di protezione. Sono eseguiti in laboratorio su provini o su modelli in scala, ma esistono anche prove in sito. Consistono tutte nel valutare l'intensità del processo corrosivo, tramite analisi su perdite di massa, o su velocità di penetrazione dell'attacco corrosivo, o sulle densità di corrente nelle reazioni elettrochimiche in atto. Per esempio, ci sono "camere di corrosione" che permettono di simulare ambienti aggressivi per vederne gli effetti sul metallo, come la camera a nebbia salina, con cui si può valutare la qualità di un rivestimento mediante il conteggio dei punti di vaiolatura. Oppure, ad esempio per le leghe di rame, si possono fare controlli immergendo il componente in un bagno di nitrato mercurioso, che permette di individuare le cricche, evidenziandole con un deposito di mercurio di color argento. Per le saldature, si può ricorrere alla radiografia microscopica, che rivela eventuali difetti e porosità, che potrebbero provocare corrosione. In molti casi vengono comunque monitorati i materiali metallici anche durante il loro reale utilizzo, ad esempio attraverso dei sensori che misurano i potenziali elettrochimici (e loro variazioni), o che misurano la resistività elettrica del metallo. Altri sensori possono misurare lo spessore del metallo per calcolare la velocità di corrosione, eccetera. 53
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CAPITOLO 4 - POLIMERI
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POLIMERI E MATERIALI POLIMERICI SINTETICI
I POLIMERI I polimeri sono macromolecole organiche dal peso molecolare minimo di 1500 u (u indica l’unità di massa atomica, con 1 u ≈ 1.66∙10-27 kg), costituite da catene di piccole unità chimiche ripetute, ottenute partendo da monomeri. I monomeri sono molecole a basso peso molecolare, costituite prevalentemente da C, H, O (e poi più di rado da N, Cl, Fl o pochi altri elementi), legati tra loro da legami covalenti. Il monomero è definito tale solo se può formare due o più legami covalenti con altre molecole. E' così che si possono combinare più monomeri uguali o diversi, formando le catene, quindi i polimeri. Il processo che porta alla formazione di un polimero si chiama polimerizzazione. Ciò che caratterizza una catena polimerica è la sua lunghezza, la sua struttura/architettura e la composizione chimica dei suoi monomeri. Il legame tra monomeri è tipicamente reso possibile dalla capacità del carbonio, elemento fondamentale in essi presente, di costituire doppi, tripli o quadrupli legami covalenti, piuttosto forti, con altri atomi di carbonio e non. Questo rende una catena polimerica molto resistente lungo la sua direzione longitudinale, mentre eventuali forze di legame tra catene risultano più deboli, ma comunque importanti. Esistono tuttavia monomeri che in vece del carbonio hanno il silicio, o più raramente altri elementi del loro stesso gruppo (IV A) della tavola periodica (i polimeri inorganici sono importante oggetto di studio e sviluppo). I polimeri possono essere classificati in vari modi, principalmente in base: - all'origine (naturali o sintetici); - alla struttura (lineari, ramificati, reticolati); - al comportamento termico (termoplastici o termoindurenti); - ai meccanismi di polimerizzazione (reazione a catena/addizione o di condensazione/a stadio). Tra i polimeri naturali ci sono la cellulosa (importantissimo polisaccaride), alcune resine e gomme di origine vegetale (quindi pure il caucciù), l'ambra, altri polisaccaridi, proteine.. Monomeri che possono formare solo due legami danno vita a polimeri lineari, costituiti cioè da lunghe catene, più o meno raggomitolate/flessibili (i legami C-C consentono buone rotazioni), prive di diramazioni; mentre monomeri che possono formare più di due legami permettono di ottenere polimeri ramificati, cioè dalle catene principali si dipartono ramificazioni laterali, o di ottenere polimeri reticolati, in cui alcune ramificazioni secondarie connettono più catene tra loro. Quando il polimero è costituito da un solo tipo di monomero ripetuto, viene anche chiamato omopolimero, se invece sono presenti due monomeri diversi ripetuti lo si chiama copolimero, se tre terpolimero, o pure eteropolimero se tre o più (spesso si usa il termine copolimero anche per più di due monomeri). In base alla disposizione dei monomeri nella catena, si parla di: copolimeri statistici, con disposizione casuale dei monomeri; copolimeri alternati, con disposizione in sequenze regolari di monomeri; copolimeri a blocchi, con disposizione in sequenza di blocchi di omopolimeri; e copolimeri a innesto, in cui sequenze di monomeri sono innestate sulla catena principale come ramificazioni. Durante il processo produttivo, un materiale polimerico allo stato liquido è costituito da tantissime 55
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piccole catene, tra loro scorrevoli, che tendono a disporsi in modo casuale nello spazio, aggrovigliandosi. Lo scorrimento relativo diminuisce al crescere della lunghezza delle catene, poiché esse, venendo a reciproco contatto, iniziano a bloccarsi tra loro, fin quando la sostanza nel suo insieme diviene macroscopicamente rigida, cioè un solido polimerico, che nella maggior parte dei casi conserva ancora la struttura del liquido (assenza di reticolo cristallino). Pertanto, i polimeri allo stato solido presentano una struttura amorfa, dove la disposizione spaziale delle catene è casuale; o sono semicristallini, cioè, vi sono zone amorfe e regioni in cui lunghi tratti di catene sono paralleli tra loro, disposti in gruppi formanti strutture planari (lamelle); o in altri casi hanno una struttura quasi completamente cristallina, ottenuta intervenendo artificialmente sulle catene di polimeri lineari (che devono possedere una configurazione geometrica completamente regolare e che le renda ben accostabili tra loro). I materiali polimerici amorfi sono i meno densi e spesso sono molto trasparenti, mentre i materiali polimerici cristallini hanno una maggiore densità e tendono ad essere opachi. L'aumento di temperatura ha influenza diversa a seconda dei polimeri. Per quelli cristallini e per quelli piuttosto reticolati, si ha un'elevata diminuzione delle proprietà meccaniche solo all’avvicinarsi della propria temperatura di fusione, mentre per gli altri polimeri amorfi o semicristallini esistono prima due transizioni ad intervalli di temperatura variabili da polimero a polimero: la transizione vetrosa, alla temperatura Tg , e la transizione di rammollimento, alla temperatura Tr . Al superamento di Tg si ha il passaggio da uno stato ancora parzialmente rigido-vetroso a uno più malleabile-gommoso; il superamento di Tr rappresenta il passaggio dallo stato gommoso a quello quasi fuso. Superata poi la temperatura di fusione, esiste anche una temperatura limite, per ogni tipo di polimero, oltre la quale esso si degrada e prima, o dopo, della quale si decompone completamente (quest’ultima è la temperatura di depolimerizzazione, il “prima o dopo” dipende dai monomeri che esso contiene). In ogni caso tutti i polimeri hanno una scarsa resistenza alle alte temperature (il “Teflon”, tra i polimeri più termoresistenti, ha punto di fusione attorno ai 327 °C). Si distinguono inoltre: i polimeri termoplastici, costituiti da catene lineari/ramificate, i quali hanno Tg e Tr ben definite e i quali si possono modellare plasticamente a caldo nell'intervallo tra queste due temperature; i polimeri termoindurenti, costituiti da catene reticolate, i quali, ultimato il processo di formatura (una volta ottenuta una forma), non sono più modellabili e per i quali un progressivo aumento di temperatura provocherebbe un'alterazione irreversibile e in seguito la combustione (bruciano), degradandosi completamente. Sebbene i polimeri termoindurenti siano più rigidi e robusti, i polimeri termoplastici trovano largo impiego grazie alla possibilità di essere riscaldati e formati infinite volte, quindi sono riciclabili. In ogni caso, dei materiali polimerici, termoplastici o termoindurenti che siano, sono apprezzate soprattutto la leggerezza, la possibilità di ottenere varie forme complicate, la possibilità di usarli come isolanti termici o elettrici e spesso le buone proprietà meccaniche (specialmente quest’ultime sempre più perfezionate grazie al miglioramento delle tecniche di produzione e di formatura). La polimerizzazione per addizione avviene formando la catena a partire da un centro reattivo, in genere un radicale (molecola che contiene un elettrone disaccoppiato, quindi la molecola è molto instabile, reattiva) o uno ione. Alla sua presenza, un primo monomero insaturo, quindi contenente almeno un gruppo funzionale che abbia un legame doppio spezzabile, reagisce rompendo il proprio legame doppio, che diventa singolo, e, con uno dei due elettroni liberatisi, forma un 56
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legame con il centro reattivo, mentre con l'altro elettrone interagisce con un secondo monomero insaturo. Inizia così la fase di propagazione, che è una vera e propria reazione a catena in cui ogni monomero insaturo, "catturato" per ultimo, ne attrae un altro, arrivando infine alla fase di terminazione, in cui il processo si arresta perché la catena si lega ad un radicale o comunque subisce altri tipi di reazione che saturano la macromolecola fin lì ottenuta. Durante la fase di propagazione, la presenza di vari altri radicali (infatti di solito si polimerizzano più catene alla volta), può dar luogo a fenomeni di trasferimento di catena: ad es., uno dei radicali, che stanno propagando la catena, può saturarla strappando un atomo (che molto spesso è di idrogeno) da una qualsiasi altra catena, in crescita o già conclusa, generando in questa un punto di attacco per la crescita di una ramificazione laterale (con la polimerizzazione per addizione si formano soprattutto catene lineari). La polimerizzazione a stadio avviene con una reazione tra monomeri contenenti ciascuno almeno due gruppi funzionali reattivi, che porta alla formazione di una molecola dalla composizione chimica diversa, a sua volta reattiva, e spesso alla formazione di prodotti di scarto, che sono molecole semplici, quali H2O, NH3 e HCl.. L'accrescimento delle catene avviene per blocchi, perché procedono contemporaneamente più reazioni di polimerizzazione, quindi diversi pezzi di catene interagiscono tra loro e, se i monomeri scelti sono polifunzionali (qui inteso come più di due gruppi funzionali), si possono ottenere polimeri ramificati/reticolati. Via via che procedono le reazioni, diminuiscono i centri reattivi e l'arresto dell’intero processo macroscopico avviene così per motivi prevalentemente fisici, cioè si esauriscono i monomeri disponibili, o diminuisce rapidamente la velocità di ciascuna polimerizzazione, perché i pochi centri reattivi rimasti sono lontani tra loro. Nota: I processi produttivi (in certi casi le reazioni sono fortemente esotermiche) operano anche a temperature di diverse centinaia di gradi celsius. Spesso si ricorre all'utilizzo di catalizzatori (sia per la polimerizzazione per addizione, sia per quella a stadio), con i quali accelerare i processi, o semplicemente renderli possibili, o per ottenere il più possibile catene lineari, o tutti e tre gli scopi. Poiché le catene polimeriche sono più resistenti longitudinalmente, un materiale polimerico con struttura reticolata ha una resistenza meccanica maggiore rispetto ad un materiale polimerico amorfo (di catene lineari/ramificate). Nei polimeri sotto forma di fibre, però, una struttura reticolata non basta a eliminare l’anisotropia delle fibre stesse. Quindi, ad es. nei materiali planari, dove una delle tre dimensioni risulta molto inferiore alle altre due, le fibre vengono disposte a maglia, o secondo opportuni intrecci, che rendano la resistenza del materiale, il più possibile indipendente dalla direzione delle sollecitazioni. In ogni caso, ove sia utile una reticolazione intenzionale dei polimeri, uno dei metodi più diffusi è il processo di vulcanizzazione, usato per polimeri insaturi, che contengano almeno dei doppi legami residui nelle catene molecolari. Esso consiste nel riscaldare il polimero in presenza di zolfo (o, in base al tipo di polimeri, si usano perossidi organici o diammine..), il quale porta alla rottura dei doppi (o tripli) legami e alla formazione di ponti di zolfo tra catene, a due a due. La vulcanizzazione di un materiale polimerico si usa quando se ne vuole aumentare il modulo elastico (cioè maggiore rigidità), la durezza e la resistenza meccanica, che migliorano al crescere del grado di reticolazione del materiale polimerico. Con la vulcanizzazione si cerca di solito coinvolgere solo circa il 10% dei doppi legami presenti nel materiale, altrimenti esso diventa troppo rigido e perde eccessivamente in elasticità (in certi casi si può invece voler ottenere proprio 57
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questi effetti). Comunque, a prescindere dal processo di vulcanizzazione, le catene lineari e ramificate risentono giĂ della vicinanza reciproca con le altre catene, con le quali possono essere tenute insieme dalle forze di Van Der Waals, o da interazioni ioniche, o con cui possono spesso formare ponti a idrogeno, eccetera, aumentando lo stato di reticolazione e influenzando quindi le proprietĂ inizialmente volute con la polimerizzazione effettuata (sia che sia per addizione, sia che sia a stadio). Infatti, la reticolazione o meno delle catene, la loro lunghezza eccetera, non è mai ottenuta alla perfezione, ma di queste caratteristiche se ne valutano le medie (di vari tipi), ed è soprattutto la scelta iniziale dei monomeri (in base ai loro gruppi funzionali) che consente di ottenere il piĂš possibile, a livello macroscopico, le proprietĂ desiderate per il materiale polimerico finale. Nota: la maggior parte dei gruppi funzionali, utili per i processi di polimerizzazione, sono contenuti negli idrocarburi (composti organici che contengono C e H), nelle ammine (composti organici che contengono N) e negli acidi carbossilici (contenenti il gruppo carbossilico - COOH). Ai materiali polimerici vengono quasi sempre fatte aggiunte per migliorarne alcune caratteristiche e/o per ridurne i costi di produzione. Tali sostanze possono essere: plastificanti che migliorano soprattutto la flessibilitĂ (abbassando la Tg..); rinforzanti per migliorare la resistenza meccanica e termica; cariche o riempitivi per materiali polimerici poco densi; stabilizzanti per ridurre il degrado chimico dei polimeri dovuto all'ossigeno dell'atmosfera, o dovuto alla luce, o al calore..; lubrificanti durante la lavorazione (che possono impermeabilizzare meglio la superficie, ridurre gli attriti, proteggere dalla corrosione i polimeri stessi o i metalli da essi rivestiti..); ritardanti di fiamma per ridurre la probabilitĂ d'incendio dei polimeri (spesso facilmente infiammabili); coloranti e pigmenti per fini estetici; additivi in grado di aumentare la biodegradabilitĂ ; eccetera. LA CELLULOSA (cenni) La cellulosa è forse il piĂš importante polisaccaride presente in natura ed il primo polimero ad aver fornito fibre tessili, naturali e poi sintetiche, per lâ&#x20AC;&#x2122;uomo. Il monomero di partenza per le sue catene, è il glucosio (C6H12O6), o piĂš precisamente il destrosio, che si lega con un atomo di ossigeno della molecola di glucosio adiacente, secondo il legame glicosidico đ?&#x203A;˝(1â&#x2020;&#x2019;4) (quindi secondo uno schema ben preciso). Il tutto avviene tramite una reazione di polimerizzazione a stadio, nella quale per ogni molecola di destrosio viene persa una molecola dâ&#x20AC;&#x2122;acqua. Alla fine, lâ&#x20AC;&#x2122;unitĂ chimica strutturale e ripetitiva della cellulosa, la cui â&#x20AC;&#x153;formula brutaâ&#x20AC;? è (C12H20O10)n , determina catene lineari, tra loro parallele, molto lunghe e piuttosto cristalline, dette fibrille. ( sâ&#x20AC;&#x2122;è qui preferito evitare di chiarire tutto quanto concerne la chimica del glucosio, omettendo le spiegazioni relative ai tipi di struttura ciclica, o alle caratteristiche dei legami formabili , od alle tipologie di polisaccaridi che possono costituirsi.. ) Rappresentazione dellâ&#x20AC;&#x2122;unitĂ ripetitiva della cellulosa
Le catene di cellulosa reali non sono mai pure al 100%, perchĂŠ spesso contengono qualche monomero derivato da altri zuccheri.. 58
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All’interno di una catena di cellulosa, ogni singolo “residuo di glucosio” monomerico, (C6H10O5)n , costituente una metà dell’unità ripetitiva, manterrebbe abbastanza liberi/reattivi i tre gruppi idrossile (o ossidrile) –OH , tali da rendere la cellulosa più idrofila/igroscopica, se non fosse che questi gruppi si legano facilmente con le altre catene di cellulosa circostanti, tramite ponti a idrogeno, consentendo, così, di tenere addirittura piuttosto unite le fibrille tra loro, a vantaggio della resistenza meccanica delle fibre di cellulosa (costituite dai numerosi fasci di fibrille). La cellulosa è insolubile in acqua e nei tradizionali solventi organici, caratteristica che rende possibile estrarla dalle materie prime vegetali, proprio perché gli altri costituenti (in particolare la lignina) possono essere invece rimossi per solvatazione e processi analoghi, separandoli quindi da essa (la cellulosa viene poi destinata ad altri vari trattamenti). La cellulosa si ricava principalmente dal cotone, che ne contiene più dell’82% (percentuale che aumenta ulteriormente se si include nel conteggio la presenza di emicellulosa e di altri polisaccaridi) e dal legno di alcuni alberi (pioppo in primis), ma da questi ultimi si ricava una cellulosa di qualità già inferiore (cellulosa estratta dal cotone e cellulosa estratta dal legno sono i due tipi di cellulosa più importanti per la produzione industriale di carta e materie plastiche). La cellulosa si ricava poi, in misura minore, anche dalla canapa, dal lino pregiato, dalla juta e da altre piante.. Le caratteristiche principalmente apprezzate nella cellulosa, o meglio nelle sue fibre, sono la flessibilità e la buonissima resistenza a trazione, mentre il suo principale problema è l’elevata infiammabilità (per quanto riguarda le materie plastiche, il tentativo di evitarla, ha condotto via via alla modifica della composizione chimica della cellulosa, mediante l’impiego di ulteriori sostanze chimiche durante i processi produttivi, e/o al ricorso di opportune aggiunte inibitrici o ritardanti la fiamma). A partire dalla cellulosa e a seconda dei trattamenti e delle reazioni che subisce, si realizzano diversi tipi di prodotti e derivati: non solo carta, ma appunto fibre tessili, delle quali il cotone è ancora la più impiegata al mondo; si produce la viscosa, la quale, in base alle tecniche di lavorazione e di formatura dà vita sia al rayon (nome commerciale), cioè una fibra tessile che fu anche la prima fibra sintetica ad essere prodotta (in principio non fu però ottenuta dalla viscosa ma dal nitrato di cellulosa, che la rendeva troppo infiammabile), sia al cellophane, che fu la prima pellicola trasparente utilizzata negli imballaggi e nella conservazione del cibo; senza dimenticare la celluloide, adoperata soprattutto in passato, il cui nome identifica una serie di materie plastiche, inizialmente a base di nitrato di cellulosa (con cui si realizzarono anche le prime pellicole cinematografiche), ma per le quali si passò poi all’acetato di cellulosa, che è meno infiammabile; e altri vari derivati cellulosici.. Negli ultimi anni, oltre agli studi volti a rendere maggiormente biodegradabili le plastiche già in commercio, è aumentato l’impegno nello sviluppo di materie plastiche ecologiche (anche con un importante contributo da parte di talenti italiani), prodotte a partire da polisaccaridi di origine vegetale (e in parte anche animale), in sostituzione delle plastiche provenienti dal petrolio. Ciò, grazie soprattutto all’impiego di microorganismi in grado di digerire/sintetizzare alcuni tipi di polisaccaridi presenti negli scarti vegetali, nelle biomasse, eccetera. Si sta pensando di tornare a sfruttare maggiormente anche l’acetato di cellulosa, che con le nuove tecnologie può risultare competitivo per la maggiore eco-sostenibilità in fase di produzione e di smaltimento. Attualmente però, è difficile poter eliminare completamente l’utilizzo dei polimeri sintetici derivanti dal petrolio, i quali sono più versatili e garantiscono prestazioni migliori. 59
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CENNI SU ALCUNI DEI PRINCIPALI MATERIALI POLIMERICI SINTETICI ATTUALMENTE DIFFUSI Polietilene (PE): è il più semplice dei polimeri sintetici,
, sfrutta infatti l'unico doppio
legame dell'Etilene, C2H4 , con cui si possono formare catene lineari omopolimeriche. Il polietilene è un polimero termoplastico che può avere densità e struttura diverse. In base alle modalità di polimerizzazione per addizione con cui viene sintetizzato, a seconda che si inizi il processo con ioni o radicali, o che si utilizzi catalizzatori o meno, eccetera, si possono infatti ottenere tipi di Polietilene amorfi a bassa densità, con catene lineari più o meno ramificate; oppure ad elevata densità e cristallinità, con catene altamente lineari e anche estremamente reticolate. Il PE è un polimero economico e molto versatile. Le sue principali proprietà sono l'ottima resistenza agli agenti chimici, la buona tenacità, l'alta resistività elettrica e l'impermeabilità. Viene così utilizzato per sacchetti di "plastica", o come guaina isolante per cavi elettrici e telefonici, si usa per realizzare tubi per il trasporto di gas naturali e acqua, per recipienti, per imballaggi/rivestimenti o contenitori per alimenti, per tappi, nei pistoni delle siringhe, come mobilia per il giardino, per giocattoli.. Polipropilene isotattico (PP): il Polipropilene è un polimero il cui monomero di base, il propilene, deriva dall'etilene in cui al posto di uno dei 4 atomi di idrogeno c'è il gruppo metilico CH3 (così come il PVC al posto di uno dei 4 H ha invece il Cl, il polistirene ha un anello di benzene, ecc., cosicché per questa loro derivazione dall'etilene vengono anche detti polimeri vinilici). L'unico PP veramente utilizzato è il polipropilene isotattico, che ha cioè i gruppi metilici tutti disposti spazialmente dalla stessa parte nelle catene polimeriche, rendendo il materiale semicristallino, dalla bassa densità, ma dall'elevato carico di rottura, ottima elasticità e resistenza all'abrasione. Inoltre il polipropilene ha una buona resistenza termica e un'ottima resistenza agli agenti chimici. Viene utilizzato per molti oggetti di uso domestico (per es. gli scolapasta), per vasi, per imballaggi, per contenitori, per i corpi delle siringhe monouso, come fibra per tappeti e moquette, per componenti di automobili, telai di sedie, tubazioni per edilizia e impiantistica, vari componenti meccanici.. Esiste anche il PP espanso (il processo di espansione è simile a quello del polistirene espanso, descritto nella prossima pagina), utilizzato in edilizia e ultimamente nel modellismo (specie per gli aeromobili) per la caratteristica di unire l'elevata elasticità alla possibilità, se immerso in acqua bollente, di ripristinare la forma originale dopo un ammaccamento da urto. Polivinilcloruro (PVC): il PVC è il polimero del cloruro di vinile, monomero che costituisce l'unica unità ripetitiva delle catene polimeriche,
. Il PVC è ottenuto per polimerizzazione per
addizione ed è un materiale amorfo termoplastico tra i più versatili e diffusi al mondo. Il PVC, quello puro, è rigido (non ha elasticità), di colore bianco e molto sensibile alla luce e al calore che lo porterebbero, dapprima all'ingiallimento, poi al degrado con rilascio di acido cloridrico (altamente pericoloso). Così, per ridurre al minimo questo problema gli si aggiungono stabilizzanti. Si utilizzano due principali tipi di PVC: il PVC rigido a cui sono stati aggiunti stabilizzanti e cariche, e quello a cui si aggiungono pure dei plasticizzanti in proporzioni anche elevate, che lo rendono 60
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flessibile e modellabile, per stampaggio a caldo, nelle forme desiderate (può addirittura essere ridotto a pellicola o a liquido con cui vengono spalmati tessuti o rivestite superfici). I vari tipi di PVC sono dielettrici (godono insomma di buone proprietà di isolamento elettrico), sono resistenti alla corrosione e “all'invecchiamento” (grazie alla mancanza di doppi legami). Per l'alto tenore di Cloro, sono inoltre ben resistenti alla fiamma e, in caso si arrivi all’accensione, la propagano molto lentamente (per avere un’idea, nei test eseguiti sui provini in PVC per pavimenti, una volta innescata, la fiamma impiega almeno due minuti per riuscire a propagarsi radialmente oltre i cinque centimetri lungo la superficie polimerica). Tuttavia, anche se il PVC non contribuisce in maniera apprezzabile allo sviluppo di un incendio, esso è appunto un combustibile, carbonizza e bruciarlo è quindi molto pericoloso: senza entrare troppo nei dettagli, si sappia infatti che, durante la combustione, il PVC rilascia facilmente acido cloridrico, ma può liberare anche cloruro di vinile monomerico (quest’ultimo più denso dell’aria e ancor più nocivo durante l’incendio), i quali tramite reazioni varie, a seconda della composizione dei fumi e più in generale dell’aria in cui si ritrovano, portano inevitabilmente alla formazione di sostanze tossiche e cancerogene, tra cui soprattutto varie diossine e la formaldeide. In base al tipo di PVC, gli utilizzi riguardano sempre più il settore edilizio, cioè grondaie e tubature, pannelli per pavimentazioni, profilati per finestre, porte, rivestimenti per mobili, eccetera, motivo per cui si è desiderato dare qualche piccola informazione sulla risposta del PVC ad un eventuale incendio (ricordando che, comunque, anche il legno è un combustibile, con fumi emessi non molto più piacevoli, e precisando che i prodotti in PVC destinati all’edilizia, così come anche un buon serramento in legno, sono progettati per non contribuire alla propagazione di un incendio, quindi sono effettivamente dannosi soltanto quando ormai il fuoco è divampato ovunque). Il PVC è usato, poi, anche come materiale per contenitori per solventi/acidi, o si usa per realizzare serbatoi, rivestimenti per autoveicoli, imballaggi, fibre tessili (ora di meno), ecc. Polistirene (PS): il polimero dello stirene è un polimero aromatico termoplastico amorfo, costituito da catene lineari ottenute tramite polimerizzazione per addizione. E' un materiale duro dal comportamento fragile, leggero, con discreta resistenza ad agenti corrosivi, ma sensibile a diversi solventi chimici ed è infiammabile. Tutto ciò lo porta ad essere utilizzato soprattutto per contenitori ed oggetti "usa e getta" (tra cui, ad esempio, i tradizionali “bicchieri di plastica” bianchi). Un impiego largamente diffuso è quello del polistirene espanso (chiamato volgarmente ed erroneamente polistirolo): si presenta in forma di schiuma bianca e leggerissima di polistirene, espanso anche fino a 30-50 volte il suo normale volume. E' utilizzato per imballaggi a scopi protettivi, spesso modellato in sferette o chips, oltre che in lastre opportunamente sagomate. Nel settore edilizio, il polistirene espanso viene anche usato come isolante termico inserito nella realizzazione di pannellature "sandwich", per l'isolamento "a cappotto", eccetera. L'espansione del polistirene si ottiene: o aggiungendogli pentano durante un procedimento con il quale il riscaldamento nella fase di formatura farà evaporare il pentano stesso, gonfiando i granuli di polistirene; oppure, con un altro tipo di processo, inserendogli del gas in pressione (di solito CO2) in fase di stampaggio, durante la quale il polistirene, pur essendo allo stato liquido, è così viscoso da poter trattenere il gas, il quale alla fine porterà al rigonfiamento della struttura del materiale. 61
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Poliacrilonitrile-butadiene-stirene (ABS): è un polimero termoplastico che nelle sue catene contiene come monomeri l'acrilonitrile, il butadiene e lo stirene, in percentuali variabili in base alle caratteristiche finali che si vogliono ottimizzare. Le proprietà principali dell'ABS sono la leggerezza, la buona rigidità (cioè scarsa deformazione elastica) e la buona resistenza agli urti, che lo portano ad essere utilizzato come materiale per componenti di carrozzerie di auto, o per parti di attrezzature sportive, o per realizzare tubi idraulici e non, mobilia, strumenti musicali (specie il flauto dolce e il clarinetto) e giocattoli, tra cui anche i famosissimi mattoncini LEGO.. Polimetilmetacrilato (PMMA): il PMMA, più noto come Plexiglas (uno dei suoi nomi commerciali), è il polimero del metacrilato di metile, un “estere” che può essere ottenuto in diversi modi (ad es. mediante una reazione tra l'acido metacrilico e il metanolo). Pur essendo costituito da esteri, il PMMA non appartiene ai poliesteri (spiegati fra due pagine). Esso si forma tramite polimerizzazione per addizione, è un polimero termoplastico amorfo, incolore, fortemente trasparente alla luce bianca (passa il 92% della luce) ed è denso circa la metà del vetro (nota: quasi tutti i polimeri termoplastici sono considerati vetri organici). In base al tipo di "mescola" è più o meno infrangibile, è duro, ma ha pure un’elevata elasticità (molto flessibile). Oltre alle ottime caratteristiche ottiche e meccaniche, è molto resistente ai reagenti chimici e alle condizioni atmosferiche (è anche insensibile all'umidità, è idrofobo). Il PMMA è principalmente utilizzato come materiale sostitutivo del vetro nei più svariati settori, dall'edilizia all'aereonautica, come vetro di sicurezza nei musei, o funge da finestre per i grandi acquari, si usa per le vasche da bagno o i piatti doccia, ma anche per lenti a contatto, o per fibre ottiche (è impiegato anche per altre proprietà ottiche/elettriche in radiologia e in microelettronica..), oppure come materiale per l'antiinfortunistica. Il PMMA esiste anche nelle soluzioni di solventi organici ed esteri acrilici, usate come vernici o come adesivi. In ortopedia, il PMMA, viene utilizzato, a partire dalle sue polveri, come "Cemento" per fissare impianti o per formare protesi. Nylon 6,6: è uno dei poliammidi alifatici più diffusi. Si ottiene principalmente per polimerizzazione a stadio, con rilascio di H2O. Il “6,6” indica che questo tipo di Nylon possiede 6 atomi di C provenienti dal monomero che conteneva il gruppo amminico e 6 dal monomero che conteneva il gruppo carbossilico, dai quali si è ottenuta l'unità ripetitiva che forma la catena polimerica, cioè . Il Nylon in generale, ma soprattutto il Nylon 6,6, è un materiale termoplastico caratterizzato da catene lineari, le quali, rendono la struttura altamente cristallina, grazie alla presenza di legami a idrogeno intercatena, con un aumento quindi del modulo elastico. Si possono formare, così, fibre rigide molto resistenti, migliorate nelle caratteristiche meccaniche, con una buona durezza e una buona resistenza all'usura.. Il nylon 6,6 trova largo impiego come fibre tessili per abbigliamento sportivo e calzature varie, per funi, per lenze da pesca, eccetera. Kevlar: il Polifenilene tereftalato, conosciuto con il nome commerciale Kevlar, è uno dei polimeri aramidici (ammidi aromatiche) termoindurenti, ottenuto per polimerizzazione a stadio con rilascio di acido cloridrico. La caratteristica più importante delle sue fibre è la resistenza a trazione, cinque 62
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volte maggiore di quella dell'acciaio. Il Kevlar oltre alle elevate caratteristiche meccaniche, ha grande resistenza al calore e alla fiamma. Viene quindi notoriamente impiegato nei materiali compositi a scopo protettivo, ad esempio nei giubbotti antiproiettile, o negli autoveicoli ed elicotteri corazzati, negli elmetti militari e non, in guanti antitaglio, è usato nel settore automobilistico per auto e moto da corsa, in particolare nei telai, nelle tubazioni flessibili dei freni a disco, come rinforzo nei pneumatici, ecc., o nei serbatoi, tubi ad alta pressione, oppure per attrezzi sportivi, come canoe e pagaie, corde per archi e balestre moderne, ma anche per cavi, funi e cinghie, è usato anche in campo medico per sostituire tendini o legamenti.. Politetrafluoroetilene (PTFE): il PTFE conosciuto anche per il nome commerciale Teflon (e per altri nomi), è un polimero sintetico termoindurente, se puro al 100%, oppure termoplastico, se modificato in fase di polimerizzazione. Il monomero del PTFE, il tetrafluoroetilene, è simile all'etilene con 4 atomi di F al posto dei 4 atomi di H, ma non è sintetizzato a partire dall'etilene, bensì da molecole contenenti fluoro. La formazione delle catene si ottiene per polimerizzazione per addizione di diverse tipologie, ma tutte in presenza di un radicale, o altro iniziatore, e di un fluido dispersore di calore (di solito acqua), perché la reazione è fortemente esotermica e superati gli 80 °C diventerebbe esplosiva. Di base, il PTFE è un polimero lineare e altamente cristallino; è chimicamente inerte (salvo in presenza di metalli alcalini fusi, di NaOH , KOH e idruri metallici ad alte temperature, di fluoro ad alta pressione e temperatura, e di alcuni composti fluorurati, quali il ClF3 e l’OF2); è inattaccabile da qualsiasi solvente organico; è completamente impermeabile all'acqua e ai grassi; presenta buone proprietà meccaniche e di scorrevolezza superficiale (è il materiale sintetico con il più basso coefficiente di attrito), è antiaderente (ancora non si conosce nessun adesivo in grado di incollarlo) e autolubrificante; ha un’ottima resistenza termica; non propaga la fiamma; e ha buone proprietà dielettriche. Le proprietà del PTFE sono davvero molto importanti anche perché si mantengono praticamente inalterate in un range di temperature che va dai - 80 °C ai 250 °C, cosicché, pur essendo uno dei polimeri più costosi, esso è utilizzato in molti settori (anche al di fuori del range di - 80 °C ÷ +250 °C), impiegandolo prevalentemente come rivestimento antiaderente e anticorrosivo e come isolante elettrico. Lo troviamo, ad esempio, nelle padelle da cucina "antiaderenti" (lo strato superficiale interno è proprio in PTFE), o come guaine per cavi elettrici, come rivestimento di componenti meccaniche in ambienti corrosivi, come aggiunta in lubrificanti per catene di trasmissione, nei motori per ridurre l'attrito cilindro-pistone, oppure nei tergicristalli dei veicoli, ma lo si usa anche per produrre tubi e componenti meccaniche di varie forme.. Si può trovare anche in campo medico dove si usa il PTFE espanso per protesi vascolari e legamenti. Per quanto riguarda la salute dell'uomo, è emerso che le sostanze prodotte per decomposizione del PTFE tramite pirolisi sono cancerogene o comunque nocive (pericoloso è soprattutto l'acido PFOA). Attualmente la pirolisi si inizia a rilevare al di sopra dei 200 °C, ma il PTFE inizia a deteriorarsi sensibilmente solo al di sopra dei 260 °C. In ambiente industriale vengono prese opportune precauzioni; per le padelle antiaderenti, invece, l'esposizione a queste sostanze da parte dell'uomo non è significativa, sia perché le padelle vengono riscaldate in fase di produzione per far volatilizzare la maggior parte del PFOA , riducendo il rischio che esso possa essere in seguito rilasciato dalle utenze, sia perché l'uso quotidiano che se ne fa in cucina opera al di sotto dei 260 °C (i normali oli da cucina fumano prima di raggiungere tale temperatura). 63
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Poliesteri: ottenuti per polimerizzazione a stadio, sono polimeri in cui l’unità ripetitiva, costituente le catene polimeriche, contiene uno o più gruppi funzionali chiamati esteri (riconoscibili per la presenza di un atomo di C che con due suoi quattro legami lega un O e con un terzo lega un secondo O). Gli esteri, per poter definire tale un “poliestere”, devono essere disposti lungo la catena idrocarburica principale, formandone, così, una connessione importante, soprattutto tra un’unità ripetitiva e quella adiacente. Fondamentalmente, gli esteri sono composti organici derivanti dagli acidi carbossilici per sostituzione del loro gruppo idrossile -OH con un gruppo -OR (con R un qualunque radicale alchilico, spesso ciclico). Gli esteri, infatti, vengono sintetizzati con processi e tecniche diverse, ma quasi sempre facendo reagire acidi carbossilici o loro derivati con alcoli/glicoli o fenoli contenenti i gruppi alchilici necessari. Esiste pure la transesterificazione, in cui è un estere a reagire con un alcol per ottenere un estere diverso. Poliesteri assai diffusi sono il PET e il PC. Polietilentereftalato (PET): è un poliestere ottenuto a partire da una polimerizzazione a stadio, direttamente tra acido tereftalico e glicole etilenico, con formazione di acqua (come prodotto di scarto); oppure tra dimetiltereftalato e glicole etilenico, con rilascio di metanolo (scarto) e formazione del monomero bis-(2-idrossietil)tereftalato, il quale polimerizzando a sua volta per polimerizzazione a stadio, forma il PET con rilascio di glicole etilenico reimmesso nel processo. Durante i vari procedimenti si possono avere problemi di assorbimento nel PET di sottoprodotti o di catalizzatori che migrano nel materiale finale, peggiorando le caratteristiche del polimero (il PET ha un alto costo di produzione, anche per la necessità di far fronte a questo inconveniente). Il PET è un materiale termoplastico principalmente amorfo o semicristallino, a seconda del tipo di procedimento e della "storia termica" con cui è stato prodotto (può insomma essere reso più cristallino). Le sue caratteristiche principali sono: la buona resistenza meccanica, termica, chimica e un’ancor più buona stabilità chimica, l'autoestinguenza alla fiamma, la rapidità di stampaggio e la possibilità di produrlo sotto forma di fibre (i primi “Pile” erano realizzati solo con fibre di PET). Il PET viene quindi adoperato per la produzione di contenitori alimentari (specie per bevande), quali bottiglie, bottigliette d'acqua e boccioni d'acqua, ma anche per tubi, come materiale isolante termoelettrico, pellicole/film da rivestimento, ecc. In passato era maggiormente usato in campo biomedico per suture, protesi vascolari, ecc., ma s’è visto che poi degradavano nel tempo. Policarbonato (PC): è un poliestere ottenuto per polimerizzazione a stadio tra acido carbonico e bisfenoli. Il PC è un polimero termoplastico amorfo, ma per alcuni scopi, viene reso altamente cristallino tramite opportuni processi di riscaldamento e/o stiramento del film ad alte temperature, sicché esistono anche tipi di PC termoindurenti reticolati e più o meno cristallini. Il PC ha una buona resistenza meccanica e termica, è resistente anche alla fiamma, gode di buone proprietà elettriche ed è trasparente alla luce (ne passa l'89% nello spettro del visibile). Ciò lo rende utilizzabile anche come sostituto del vetro (come il Plexiglas che, però, è migliore), o per la produzione di lenti, od anche per CD, DVD, Blu-Ray.. Lo si usa poi come isolante per condensatori elettrici ad alta capacità ed elevata tensione di lavoro, o per realizzare coperture di fanali, plafoniere, o per caschi di moto, per scudi antisommossa, come componente dell'involucro esterno dei cellulari e smartphone.. Inoltre per la facilità di sterilizzazione di alcuni composti a base di policarbonato, esso viene utilizzato anche in campo medico per apparecchiature per la dialisi artificiale, la cardiochirurgia, la produzione di incubatrici, biberon, dispositivi per l'aerosol.. 64
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Resine epossidiche: sono polimeri termoindurenti, ottenuti partendo dalla polimerizzazione di sostanze contenenti l'anello epossidico, , a cui vengono poi aggiunti copolimeri quali le poliammine o gli acidi bicarbossilici, che reticolano le catene polimeriche. Oltre agli indurenti, vengono spesso aggiunti diluenti per abbassare la viscosità di tali resine (che a temperatura ambiente sono allo stato vetroso). Le caratteristiche principali delle resine epossidiche sono le ottime proprietà meccaniche (possono ulteriormente essere rinforzate con fibre di vetro), la buona resistenza termica, elettrica e chimica, ma soprattutto l'ottima adesione a diversi tipi di materiali. Tutto ciò, nonostante l'alto costo, le rende importanti per applicazioni in vernici, adesivi, leganti, giunzioni metallo-metallo o metallo-materia plastica, sono usate per realizzare modelli e oggetti in forme stampate per imbutitura o per colata, per realizzare involucri, ad esempio per i trasformatori, o per rivestimenti di avvolgimenti elettrici.. Elastomeri (o gomme): sono materiali polimerici che a temperatura ambiente possono cambiare la propria forma e dimensioni, a causa di sollecitazioni esterne, con un allungamento minimo di circa due volte la lunghezza originale, che viene rapidamente riacquistata al cessare di tali sollecitazioni. Gli elastomeri hanno temperatura di transizione vetrosa inferiore alla temperatura ambiente (al scendere della temperatura una gomma si infragilisce) e sono inizialmente amorfi, costituiti da lunghe catene polimeriche, prevalentemente lineari, ben orientate longitudinalmente, che contengono legami dotati di ampia libertà di rotazione (proprietà che conferisce flessibilità alle catene). Successivamente questi elastomeri vengono reticolati artificialmente (ad es. con il processo di vulcanizzazione) divenendo termoindurenti e acquistando il grado di elasticità desiderata. Infatti, rispetto ad altri polimeri, per essi, la reticolazione, fa sì che i legami trasversali, formatisi tra le varie catene, rendano il materiale polimerico un aggroviglio di catene collegate tra loro con questo particolare risultato: se esse subiscono una sollecitazione esterna, la assecondano distendendosi e allungandosi, ma al contempo risentono pure della resistenza dei legami trasversali, i quali quindi le riportano completamente allo stato iniziale, una volta sparita la sollecitazione esterna. Anche qui, comunque, un’eccessiva reticolazione renderebbe il materiale troppo rigido. Per motivi economici e tecnologici, gli elastomeri vulcanizzati vengono spesso addizionati di cariche, di plastificanti, di antiossidanti, ecc., generando sistemi complessi, chiamati mescole. Esistono moltissimi tipi di elastomeri (e di mescole), tra i quali, non solo quelli prettamente termoindurenti: si trovano, infatti, anche elastomeri termoplastici non vulcanizzati, detti TPE, costituiti da copolimeri a blocchi di polimeri termoplastici, di cui alcuni blocchi sono a comportamento gommoso e per i quali la reticolazione (e quindi il recupero elastico) è frutto di ponti a idrogeno e di legami covalenti polari, che essendo tutti scindibili con l’aumento della temperatura, evitano così il problema dell’irreversibilità di una vulcanizzazione e consentono, quindi, la riformabilità della gomma, quasi tanto quanto per qualsiasi materiale termoplastico. Sono, insomma, un ottimo compromesso tra le caratteristiche tipiche degli elastomeri termoindurenti (spesso derivanti dalla vulcanizzazione di gomme naturali) e le proprietà dei materiali termoplastici (i TPE sono noti fin dagli anni ’50 - ’60, ora stanno tornando ad essere sviluppati sempre più, sulla scia del desiderio di una maggiore ecosostenibilità dei materiali utilizzati dall’uomo). 65
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Caucciù: In principio, il termine indicava soltanto la gomma che si poteva ottenere in natura dalla coagulazione del lattice estratto da alcuni tipi di piante. Ora, con il termine caucciù, di cui l’Isoprene C3H8 è il monomero di base, si indicano soprattutto i tipi di polimeri non reticolati, naturali o sintetici (i caucciù sintetici sono ancora oggetto di studio e poco diffusi), che costituiscono il materiale di base dal quale ottenere, attraverso la reticolazione, gli elastomeri. SBR: è una delle gomme più diffuse, ottenuta per polimerizzazione per addizione dei monomeri stirene e butadiene, di solito in rapporto di 1 a 4, ma anche di 1 a 2 (più aumenta il contenuto di stirene, più la gomma finale assume carattere termoplastico). L'SBR ha buone proprietà meccaniche, di resistenza a rottura statica e per fatica, ha buona elasticità, è resistente all'abrasione, ha buone proprietà dielettriche, mentre è sensibile al calore e ha scarsissima resistenza alla fiamma. Il livello di infiammabilità e la sensibilità ai reagenti chimici dipende dal tipo di mescole utilizzate (all'SBR si fanno quasi sempre opportune aggiunte). Con l'SBR si producono soprattutto pneumatici, tubi, guarnizioni, ammortizzatori, piste di atletica leggera.. Siliconi (o polisilossani): sono polimeri in cui l'elemento tetravalente fondamentale, al posto del carbonio, è il silicio, che si concatena in modo alterno all'ossigeno, formando catene polimeriche (..-O-Si-O-Si-O-..) in cui le restanti valenze del Si sono saturate da radicali organici, tra cui ad esempio -CH3 , -C2H5 , eccetera. La produzione dei siliconi è un processo solitamente basato sull'idrolisi di clorosilani organici (precedentemente ottenuti per reazione diretta tra silicio e cloruro di metile), da cui si ottengono silossani che polimerizzano per p. a stadio, formando le catene polisilossaniche finali. Tali polisilossani possono subire ulteriori processi, quali ad esempio la vulcanizzazione per reticolarne le catene.. A seconda della lunghezza della catena silossanica, della sua ramificazione e dei gruppi funzionali contenuti, i siliconi che si ottengono possono essere gomme, resine per vernici isolanti, resine termoindurenti, oppure siliconi liquidi, grassi e altri lubrificanti.. Tutti i tipi di siliconi sono molto spesso biocompatibili, idrorepellenti, chimicamente inerti e hanno una scarsissima tendenza all'ossidazione, non corrodono i metalli, hanno una buona resistenza elettrica e termica, e, chi più chi meno, conservano quasi inalterate le caratteristiche di flessibilità, elasticità e viscosità per un range di temperature molto ampio (da temperature di alcune decine sotto lo zero Celsius, su fino a temperature attorno ai 200 °C). I siliconi vengono impiegati come adesivi, materiali isolanti e sigillanti, come lubrificanti di motori e macchinari vari, come materiali di rifinitura, oppure come liquidi per sistemi idraulici, vengono utilizzati nei giocattoli, in campo medico per protesi, ultimamente anche in micro-chip biocompatibili e altri elementi nel campo delle nanostrutture (che sono sempre più un’interessante materia di studio).. Polidimetilsilossano (PDMS): finale,
il PDMS è uno dei più comuni siliconi, in cui l'unità ripetitiva
, contenente due gruppi Metile, forma catene lineari , dalle quali scaturisce
una struttura amorfa e trasparente, che gode di tutte le proprietà tipiche dei siliconi. Il PDMS costituisce, quindi, una buona base per gomme, stucchi, adesivi, lubrificanti e fluidi ammortizzanti, lenti e altri supporti ottici, componenti varie in sistemi legati al settore dell’elettronica, eccetera.. 66
CAPITOLO 4 - POLIMERI
UN RAPIDO ACCENNO ALLE PRINCIPALI TECNOLOGIE DI FORMATURA DEI MATERIALI POLIMERICI Stampaggio per iniezione: Il materiale polimerico, termoplastico o termoindurente allo stato fuso, viene introdotto in un apposito cilindro, dove successivamente un pistone o una vite, lo inietta a pressione elevata in uno stampo scomponibile. Dopo la solidificazione, il pezzo viene estratto dallo stampo e rifinito. Estrusione: Il materiale termoplastico (o termoindurente a consolidamento ritardato), viene introdotto fuso in un estrusore. Una vite senza fine costringe poi il materiale a fuoriuscire in modo continuo, attraverso un bocchettone che, in base alla sua sagomatura interna, dà la forma finale (di filo, foglio/film, tubo o profilato) al materiale uscente. Tale materiale a causa di un brusco raffreddamento esce già piuttosto rigido. Il bocchettone può anche terminare in uno stampo recante sulla superficie inferiore un numero molto elevato di fori di piccole dimensioni, che consente così di ottenere più filamenti, fili o fibre. Lo stampo può anche ruotare per far intrecciare tali fibre e produrre un filato. Nell'estrusione con soffiatura, il materiale introdotto nell'estrusore viene inviato in uno stampo scomponibile dove un getto d'aria in pressione costringe il materiale ad aderire alle pareti interne dello stampo, assumendone così la forma. Anche qui, dopo il raffreddamento, il pezzo viene estratto dallo stampo e rifinito. L'estrusione con soffiatura, permette di ricavare forme cave anche complesse (ad es. vari serbatoi per contenere carburante). Stampaggio per compressione: Si utilizza una pressa a due piatti, disposti verticalmente, ognuno dei quali contiene un semistampo di tipo aperto. La resina termoindurente, fluida e ben calda, viene inserita nel semistampo inferiore, dopodiché un pistone avvicina i due piatti portando alla chiusura dei semistampi, che formano il materiale per compressione. Il materiale, raffreddandosi, solidifica e indurisce, mantenendo la forma corretta. In altri macchinari, l'uso dei semistampi è sostituito da uno stampo chiuso, comprimibile, con una piccola apertura laterale, attraverso cui il materiale polimerico viene inserito da un iniettore. Questa tecnica velocizza il processo, a scapito di una minore qualità delle proprietà meccaniche del materiale polimerico finale. Calandratura: il polimero termoplastico fluido è inserito in una calandra e forzato a passare attraverso una serie di rulli cilindrici, con i quali viene schiacciato e opportunamente sagomato e decorato, a seconda dei tipi di incisioni e disegni che i rulli possono riportare sulle proprie pareti. Termoformatura: I fogli di polimero termoplastico vengono riscaldati a temperature sufficienti per renderli deformabili plasticamente, e sono poi formati su stampi, o in vuoto o in aria compressa.
ALLA SCOPERTA DI UN SISTEMA DI FORMATURA SEMPRE PIU’ DOMESTICO E USER-FRIENDLY Per quanto riguarda i materiali polimerici e non solo, esistono particolari tecnologie di stampa, alcune delle quali furono introdotte a partire dagli anni ’80, che recentemente stanno riscuotendo un notevole successo mediatico. Ciò grazie ad un loro crescente sviluppo, specialmente a seguito della scadenza di alcuni brevetti che ha suscitato l’interesse di numerose aziende del settore, ingolosite dalle vaste potenzialità economiche e opportunità di mercato, che si intravedono all’orizzonte. Ci si sta riferendo alle Tecnologie di Stampa 3D. 67
CAPITOLO 4 - POLIMERI
In parole povere, ci sono stampanti che a differenza di quelle 2D, consentono di realizzare, abbastanza velocemente, diverse forme tridimensionali di oggetti e prodotti vari, tramite varie tecniche additive (cioè il contrario delle tecniche sottrattive di un macchinario che ricavi un prodotto asportando materiale da un “blocco” di partenza). Le tecniche principali (soprattutto in riferimento ai polimeri) sono: la FDM, la SLS, la SLA e la DLP. La FDM, acronimo di “fused deposition modelling”, permette di stampare in tre dimensioni diversi materiali polimerici, tra i quali il PC, il PET, il Nylon, ma soprattutto il PLA (cioè il polimero dell’acido lattico, è un poliestere tipicamente prodotto partendo da scarti vegetali, non citato in questo capitolo) e l’ABS. La tecnica FDM impiega un semplice sistema meccanico ed elettrico, automatizzato, che in pratica fonde un filamento polimerico termoplastico tramite una resistenza elettrica e lo fa passare attraverso l’ugello di un particolare estrusore mobile, il quale permette di depositare il polimero fuso, dall’alto e strato su strato, su un supporto orizzontale su cui realizzare l’oggetto, il cui completamento avviene man mano che ogni strato polimerico sottostante fa in tempo a solidificare. La stampante è costruita in modo tale che, durante la realizzazione del prodotto, l’estrusore si muova lungo due dei tre assi ortogonali dello spazio, cioè lungo l’altezza e lungo una delle due dimensioni orizzontali, lasciando che sia il supporto che funge da base per l’oggetto a spostarsi lungo l’altro restante asse orizzontale, ortogonale agli altri due. Tutte le operazioni di stampa avvengono grazie ad un sistema di controllo della stampante, connesso tramite porta usb con un computer, sul quale, un software di CAD ( computer-aided design) o di CAM (computer-aided manufacturing), può indicare forma e dimensioni dell’oggetto da realizzare (gli spessori minimi, che si possono attualmente stampare con la tecnologia FDM, sono di circa 100 micrometri, cioè poco più grandi della media degli spessori tipici di un capello, 70 - 80 µm). Esistono inoltre stampanti collegate ad un sistema di scansione 3D, che sfruttano appunto la scansione diretta di un oggetto reale per riprodurne la stessa forma. La natura ingegneristica delle stampanti 3D con tecnologia FDM è abbastanza semplice ed economica da aver consentito, a diversi appassionati di modellismo, di adoperare mattoncini Lego per costruire simpatiche e funzionanti versioni di tali stampanti, motivo per il quale un mio amico ha esclamato entusiasta: “E’ il nec plus ultra: Lego che stampano altri Lego!”. La SLS, che sta per “selective laser sintering”, realizza gli oggetti tridimensionali a partire invece da materiali in forma granulare o di polveri fini, che vengono disposte all’interno di una vasca, dentro la quale un piatto orizzontale mobile scende verso il basso, via via che un dispositivo ottico colpisce le polveri dall’alto e in maniera selettiva, con un laser, fondendo insieme le varie particelle. La costruzione dell’oggetto avviene per raffreddamento delle polveri fuse dal laser e strato su strato, poiché, nel frattempo che la piattaforma si è abbassata, un sistema meccanico provvede a riempire la vasca di nuove polveri, così da mantenere la superficie superiore dello strato appena solidificatosi sempre coperta dalle nuove polveri, necessarie per formare lo strato successivo dell’oggetto stesso, mentre le restanti polveri circostanti, non interessate dal processo di stampa, fungono da supporto per l’oggetto in via di sviluppo.. La tecnica SLS è più costosa del metodo FDM, ma anche più precisa (spessori minimi di circa 10 µm) e viene, così, maggiormente utilizzata per stampare sia oggetti in materiali polimerici, che metallici o ceramici. 68
CAPITOLO 4 - POLIMERI
La SLA, cioè “stereolithography apparatus” (una delle primissime tecniche di stampa 3D ad essere inventate), e la DLP, “digital light processing” (una delle tecniche più recenti, se intesa come evoluzione della SLA), impiegano la luce per solidificare alcuni particolari tipi di polimeri, che vengono inseriti allo stato liquido nella stampante: essi sono i cosiddetti “fotopolimeri”, i quali reagiscono appunto all’esposizione della radiazione luminosa, sotto forma di laser per la SLA, o tramite un sistema di luci LED e di schermi LCD per la DLP. Come fotopolimeri si usano soprattutto metacrilati, spesso con additivi coloranti e aggiunte varie, alcune delle quali necessarie per contrastare il ritiro volumetrico dei fotopolimeri durante la fase di formatura. Il supporto per la realizzazione dell’oggetto tridimensionale è una piattaforma mobile all’interno di una vasca in cui versare il fotopolimero liquido. Mentre diverse stampanti a tecnologia SLA colpiscono con la luce laser proveniente dall’alto, quasi tutte le stampanti a tecnologia DLP colpiscono con la luce LED che arriva dal basso (in questo caso piattaforma e vasca sono trasparenti), per mezzo di proiettori dotati pure di un sistema di lenti e specchi che indirizzano la luce esattamente nella sola parte del liquido polimerico destinata alla solidificazione e secondo l’intensità necessaria (alcune stampanti sono dotate anche di particolari otturatori per oscurare ancor più opportunamente la parte di liquido non destinata alla solidificazione). Per le varie stampanti con luce incidente dal basso, durante il processo di stampa, il primo strato polimerico solidificatosi aderisce superiormente alla superficie piatta di un sostegno meccanico o pistone, il quale risale facendo emergere lo strato dal liquido polimerico, ma soltanto dopo che esso abbia avuto il tempo necessario per irrigidirsi ben bene da conservare la forma e da reggere lo strato successivo sottostante. Il consolidamento di ogni strato, infatti, comincia mentre esso si trova ancora all’interno del liquido polimerico (la cui temperatura è inoltre inferiore a quella dello strato appena colpito dal fascio luminoso) e il pistone risale procedendo ad intervalli di tempo regolari, proprio per permettere all’oggetto di formarsi correttamente. Alla fine, comunque, come per tutte le tecniche di stampa 3D, la velocità con cui si produce un oggetto dipende sia da come viene costruita la stampante, sia dalla fase e composizione chimica del polimero utilizzato e, ovviamente, anche da quanto dovrà essere grande l’oggetto stesso. Nonostante la tecnologia SLA vanti una lunga esperienza nel settore delle stampanti 3D, la tecnologia DLP sembra essere più promettente, in particolare per la migliore capacità di regolazione dell’intensità luminosa e per la possibilità di formare uno strato intero alla volta, solidificando contemporaneamente tutte le sue particelle (invece le tecniche Laser, SLA, SLS, eccetera, spesso costringono a numerosi passaggi del laser per completare un singolo strato). La DLP garantisce, quindi, un prodotto tridimensionale dalle proprietà più uniformi lungo tutto il proprio volume. Inoltre, anche varie stampanti DLP stanno ormai consentendo di ottenere spessori minimi di soli circa 10 -30 micrometri (il conseguimento di spessori così piccoli, però, come per tutte le altre tecnologie di stampa, comporta un aumento dei prezzi delle stampanti stesse, mentre per spessori minimi più grandi, attorno ai 100 micrometri, i costi si stanno già riducendo). Esistono anche altre diverse tecnologie di stampa 3D, che in questo capitolo non vengono citate: alcune perché sfruttano metodi simili o derivanti dalle tecniche sopra descritte (ad esempio, esistono stampanti “polyjet”, molto somiglianti a quelle 2D, dotate di “testine inkjet”, cioè a getto d’inchiostro, in cui l’inchiostro è direttamente un fotopolimero liquido gettato sulla 69
CAPITOLO 4 - POLIMERI
piattaforma sottostante, con una sorgente ottica inclusa nelle testine per colpire istantaneamente il fotopolimero); oppure altre non vengono citate perché riguardano soprattutto la stampa 3D di materiali non polimerici (ad es. metallici, o ceramici..); o semplicemente perché risultano meno interessanti in ambito industriale per l’attuale scarsa qualità dei prodotti finali stampati (come, ad esempio, certe stampanti a testine inkjet , in cui l’inchiostro è però un legante, “sparato” su un letto di polveri di resine, metodo quindi un po’ “grezzo”, che per lo meno vanta un certo primato nella rapidità di stampaggio e qualche altra peculiarità, comunque da non sottovalutare). In ogni caso, tutti i sistemi di stampa 3D non sono ancora del tutto maturi, o semplicemente adatti, per sostituire completamente i vari metodi di formatura più tradizionali. Ad esempio, perché non tutti i tipi di polimeri sono impiegabili in queste stampanti; o perché alcuni utilizzi richiedono un’accuratezza dei dettagli e un livello di uniformità delle proprietà stesse nei materiali polimerici che le attuali stampanti 3D non sono sempre in grado di fornire (già la creazione di un oggetto per strati sovrapposti implica una discontinuità nelle caratteristiche finali del prodotto stesso); oppure perché non sono ancora progettate esattamente per la produzione in serie (soprattutto se gli oggetti da realizzare possiedono grandi dimensioni). Nel frattempo, le stampanti 3D si stanno già sfruttando, ad esempio, per la facilità con cui si realizzano modelli/prototipi vari in architettura o in ingegneria o in fisica, eccetera, partendo da un progetto in CAD/CAM; o anche perché a varie aziende consentono di realizzare in loco e abbastanza in fretta un componente, temporaneo o permanente, in sostituzione di un altro guastatosi; o perché permettono ad acquirenti di diverse tipologie di articoli in materiale plastico di ottenere, su richiesta, prodotti dalle forme estremamente personalizzabili; per non parlare degli usi che se ne possono fare nel settore dell’hobbistica e del modellismo in generale (anche se, qui, le aziende tradizionali rischiano che gli utenti domestici inizino a crearsi i modellini per conto proprio). Infine, è importante sottolineare che alcune tecnologie di stampa 3D sono già state introdotte nel settore automobilistico (inizialmente per realizzare particolari di design, poi via via anche componenti funzionali), in cui a conferma della loro versatilità, sono perfino state riprogettate per essere impiegate, non solo nei macchinari simili alle stampanti vere e proprie, ma anche nei consueti bracci meccanici/robotici.
Osservazioni sul capitolo Il capitolo è stato scritto in modo tale da chiarire soprattutto i concetti principali riguardanti i polimeri e i materiali polimerici, fornendo un insieme di spiegazioni che permettesse al lettore di saper fare almeno una distinzione di base tra varie “plastiche” esistenti al mondo.
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CAPITOLO 5 - CERAMICI
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MATERIALI CERAMICI
In prima analisi, si definiscono materiali ceramici quei materiali che hanno un comportamento fragile e che si presentano come composti inorganici non metallici, anche se costituiti dalla combinazione di elementi non metallici che metallici. I materiali ceramici sono tradizionalmente ottenuti attraverso la cottura di impasti di polveri di minerali argillosi, tramite un processo, che prende il nome di “sinterizzazione”*. Oramai, anche materiali che sono ottenuti con procedimenti o sostanze diverse, ma che possiedono caratteristiche analoghe ai “ceramici tradizionali” (incluso il comportamento fragile), fanno parte del concetto più esteso di materiali ceramici. In generale, insomma, sotto la voce ceramici, sono stati inclusi anche i vetri, i cementi, alcuni particolari composti ionici, eccetera, tuttavia resta un’abitudine comune trattare tutti questi materiali separatamente, per poter meglio evidenziare i vari aspetti che li contraddistinguono l’uno dall’altro. * La sinterizzazione è sostanzialmente un trattamento termico ad alte temperature (Tsint ≈ Tfusione), eseguito per densificare sensibilmente un impasto di polveri (o una massa piuttosto porosa), in certi casi alterando la composizione chimica delle polveri iniziali (il processo sarà poi spiegato meglio). L’aspetto principale che contraddistingue la sinterizzazione da altri tipi di trattamenti termici è che il processo con cui si giunge a dare vita al prodotto ceramico finale avviene a partire da polveri solide (insomma appunto da solido a solido e non da liquido a solido). Nel senso più ristretto del termine, i ceramici (tradizionali e non) hanno una struttura cristallina o parzialmente cristallina (con atomi connessi da legami ionici o covalenti), mentre i vetri hanno una struttura amorfa. I vetri infatti sono prodotti inorganici di fusione, consolidatisi raffreddandosi velocemente senza cristallizzare. CONCETTI E ASPETTI LEGATI SOPRATTUTTO ALLA PRODUZIONE DEI CERAMICI TRADIZIONALI Nei ceramici tradizionali, i principali componenti sono tre: un componente plastico, quale l'argilla (tra cui il caolino), che rende l’impasto facilmente lavorabile; un componente cristallino refrattario, quale la silice sotto forma di sabbia di quarzo, quasi inerte, che costituisce lo scheletro del materiale e contribuisce a donargli resistenza meccanica; ed un componente vetrificante (ad es. carbonati di calcio o feldspati), il quale cementa insieme tutti i vari ingredienti. Quanto più alta è la temperatura di cottura, tanto più elevato è il grado di vetrificazione, con conseguente riduzione della porosità. Con Argilla si identifica un insieme di sedimenti finissimi, costituiti principalmente da allumino-silicati idrati. La composizione chimica delle argille e le dimensioni piccolissime dei loro cristalli (dell’ordine dei micrometri e già tali nella struttura dei minerali argillosi, da cui in pratica esse provengono) fanno sì che le loro polveri acquisiscano elevata plasticità, quando sono impastate con acqua, e già di per sé una certa refrattarietà (vedi significato a pagina seguente), quando via via si disidratano. Le argille furono largamente impiegate fin dai primi secoli, con una conseguente grande evoluzione nelle loro tecniche di produzione e lavorazione. Una delle principali argille è il caolino, di origine sedimentaria, composto soprattutto dal minerale caolinite, cioè da un tipo di allumino-silicato idrato prodottosi tramite alterazione ed erosione del feldspato da parte dell'acqua in ambienti acidi (per acque termali o piogge acide). Il caolino puro è tenero e untuoso al tatto (insomma è “terra”), di colore bianco/grigio chiaro, tutti motivi per cui, avendo pure un basso costo grazie ai numerosi giacimenti sparsi in tutto il mondo, la polvere di caolino è adoperata per numerosi applicazioni e prodotti. 71
CAPITOLO 5 - CERAMICI
La silice (o diossido di silicio) è un composto del silicio la cui formula chimica è SiO2. In natura, essa è presente come struttura solido cristallina nel quarzo, che è il minerale del diossido di silicio per eccellenza, nei minerali tridimite e cristobalite (sono altri polimorfismi della silice), ma è molto più diffusa come costituente principale di diverse rocce sedimentarie, soprattutto sabbie (molte sabbie di deserti, di varie spiagge, ecc., pur avendo composizione variabile, sono principalmente costituite da grani piccolissimi di silice), è presente in alcune rocce laviche, insomma un po’ ovunque, dato che il silicio dopo l’ossigeno è un altro elemento abbondante nella crosta terrestre. La sabbia silicea è piuttosto dura e chimicamente inerte a temperatura ambiente. Se pura la sabbia silicea è una polvere cristallina bianca, poco solubile in acqua (alla quale conferisce una lieve acidità). Per applicazioni ad alta tecnologia, la silice viene ottenuta purissima dalla reazione in fiamma fra il tetracloruro di silicio e l'ossigeno. Feldspato è il nome di un importante gruppo di minerali che costituiscono circa il 60% della crosta terrestre. I feldspati si cristallizzano dal magma e si trovano come componente essenziale in quasi tutti i tipi di roccia. Chimicamente, i feldspati sono composti da silicio, ossigeno, alluminio, sodio, potassio, calcio e bario. Il silicio si trova al centro di tetraedri con ai vertici quattro atomi di ossigeno (tali tetraedri rappresentano in pratica la struttura di riferimento intuitiva ma non reale della silice), l'alluminio sostituisce il silicio secondo regole fisse o casuali in base al tipo di feldspato. Nella produzione di ceramici, il feldspato ha soprattutto la funzione di abbassare il punto di fusione dei vari costituenti, mentre, inoltre, penetrando nei pori del materiale ceramico, riempie le cavità e tiene unite insieme le varie particelle. Se si considerano soprattutto i ceramici prodotti per scopi strutturali, industriali, scientifici e simili, le caratteristiche principali dei materiali ceramici, pur non essendo da ognuno di essi possedute in egual misura, sono: la refrattarietà (resistono fino a temperature elevatissime, mantenendo quasi inalterate le loro varie proprietà), la bassissima conducibilità termica, le dilatazioni contenute, l’alta resistività elettrica, la buona resistenza chimica, il comportamento a frattura fragile, l’elevata durezza, l’elevato modulo elastico (scarsissima deformazione a temperatura ambiente). Inoltre per i ceramici tradizionali, il costo delle materie prime è relativamente basso. Tipici ceramici tradizionali sono: i prodotti derivati dall'argilla per impieghi strutturali, perciò i laterizi (mattoni, tegole, piastrelle..); le porcellane per realizzare vettovaglie, isolatori elettrici, ecc; vari refrattari per strutture isolanti e altre applicazioni; abrasivi per utensili; vetri e cementi tradizionali (sempre a seconda di cosa si voglia intendere con ceramici tradizionali). Grazie all'innovazione tecnologica si è potuti arrivare ad ottenere i cosiddetti ceramici avanzati o speciali, formati da composti puri o quasi (ossidi, nitruri, carburi e fluoruri) e la cui struttura è tendenzialmente o completamente cristallina (fase vetrosa assente o estremamente ridotta). Le caratteristiche soprattutto meccaniche, termiche ed elettriche sono nettamente superiori a quelle dei ceramici tradizionali. Alcuni esempi applicativi dei ceramici avanzati riguardano l’utilizzo come rivestimenti speciali per metalli; in fisica nucleare come barriere o rivestimenti protettivi contro le radiazioni nucleari; od anche come materiali per funzioni elettromagnetiche (elettroceramici, magnetoceramici, ..); si impiegano in ottica; in campo medico, specialmente in odontoiatria (per protesi dentali); eccetera. 72
CAPITOLO 5 - CERAMICI
Sequenza semplificata di un generico processo di produzione dei materiali ceramici Estrazione delle materie prime → stagionatura → preparazione delle polveri → → preparazione dell'impasto → formatura → essicamento (e post essicamento) → cottura. -
L'estrazione delle materie prime (argille) avviene in cave a cielo aperto e le materie estratte devono essere depurate da elementi estranei quali rocce e radici..
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La stagionatura dell'argilla all'aria aperta serve per favorirne la disgregazione spontanea grazie agli agenti atmosferici, in modo da facilitare la successiva preparazione delle polveri.
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Con preparazione delle polveri si intende la raffinazione e la macinazione per via chimicofisica dei materiali grezzi (argille e aggiunte eventualmente necessarie), che verranno utilizzati per realizzare l'impasto e che devono avere un certo grado di omogeneità soprattutto nelle dimensioni dei grani.
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La preparazione dell'impasto avviene con la miscelazione delle materie prime in proporzioni e modalità diverse, a seconda della granulometria dell'argilla e a seconda del tipo (e qualità) di prodotto che si vuole ottenere. Di solito, per la maggior parte dei laterizi (mattoni pieni o semipieni, blocchi forati, ..) la preparazione dell'impasto è eseguita allo stato plastico. Si usano, quindi, un certo quantitativo d’acqua e di agenti tensioattivi “bagnanti”, ma in base alle necessità si ricorre anche all'aggiunta di deflocculanti, coagulanti, leganti, plasticizzanti, lubrificanti.. Tuttavia, per la produzione di alcuni materiali ceramici, si mantiene la miscela di polveri allo stato secco e gli si aggiunge solamente piccole quantità di lubrificante o gli si aggiunge l'acqua solo al momento della fase di formatura. In ogni caso, il composto che si ottiene, da qui fino alla fase di essicamento, viene comunemente identificato con il nome di green o verde.
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La formatura, cioè la compattazione dell'impasto in uno stampo per ottenere la forma desiderata, avviene secondo vari tipi di tecniche tra cui:
la pressatura isostatica: è uno dei procedimenti più diffusi che consiste nel caricare l'impasto in un contenitore ermetico (sigillato sottovuoto) flessibile, che si trova all'interno di una camera di fluido idraulico al quale viene applicata una pressione. Tale pressione, premendo sul contenitore flessibile, compatta di conseguenza l'impasto fino a fargli assumere la forma dell'involucro stesso. Con questa tecnica si possono ottenere rapidamente un notevole quantitativo di pezzi, che hanno però un grado di uniformità e tolleranze medie.
slip casting: è il termine inglese che indica un procedimento di formatura consistente nel colare una sospensione di polveri ceramiche e acqua in uno stampo poroso (tipicamente in gesso), dove l’acqua è rimossa dalla sospensione attraverso l’azione 73
CAPITOLO 5 - CERAMICI
capillare esercitata dai pori dello stampo, mentre le particelle ceramiche vengono via via compattate sulla superficie dello stampo per formare un oggetto solido e pieno. Il green durante la successiva fase di essiccazione, subisce un piccolo ritiro che lo rende facilmente staccabile dallo stampo. Lo slip casting rappresenta un'importantissima metodologia semplice ed economica di formatura di materiali ceramici tradizionali, che viene impiegata anche per alcuni ceramici avanzati di forma complessa.
il colaggio su nastro (in inglese tape casting): è una tecnica usata per ceramici avanzati che prevede la colata di una sospensione di polveri ceramiche e aggiunte polimeriche su un nastro scorrevole, il quale, durante la successiva fase di essicamento, permette di ottenere lamine sottili arrotolabili. Tale tecnica si usa ad esempio per ceramici da impiegare come substrati per componenti elettronici.
l'estrusione: l'impasto allo stato plastico (polveri ceramiche e acqua) viene fatto passare attraverso una vite senza fine che lo convoglia in opportune sagome, quindi si esegue il taglio dei pani estrusi e si procede poi alla pressatura con il contro-stampo che comprime l'impasto fino a fargli ottenere la forma desiderata.
la pressatura a caldo: viene utilizzata per materiali ceramici avanzati onde conseguire un'alta densità e caratteristiche meccaniche migliori. Viene fatta a secco, versando le polveri ceramiche in stampi di grafite (o di altro materiale resistente alle alte temperature) e pressando a temperature anche superiori ai mille gradi.
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L’essiccamento consiste nell'eliminare la maggior parte dell’acqua contenuta nell’impasto, prima della fase di cottura. L'alta percentuale di acqua e gli elevati spessori dell'impasto fanno, di questa, una delle fasi più delicate di tutto il processo produttivo. Si possono infatti formare fratture e deformazioni a causa degli stress che si originano dal ritiro della massa e dall'evaporazione dell'acqua, problemi che si vuole appunto evitare in fase di cottura. Pertanto, il processo di essiccazione richiede un controllo attento in funzione del materiale impiegato e in funzione della qualità del prodotto finale che si vuole ottenere. Mentre un tempo l'essicamento veniva eseguito all'aria aperta e solamente nelle stagioni più calde e poco piovose, disponendo i materiali ceramici ben impilati e protetti da una tettoia per evitare soprattutto l'azione diretta di sole e pioggia, attualmente il procedimento è invece industrializzato e continuo nell'arco dell'anno. Si usano, infatti, essiccatoi a camera o a tunnel, nei quali è il materiale ceramico a muoversi lungo la galleria, dove vengono introdotti aria o gas specifici a temperatura via via più alta (anche fino attorno ai 550 °C) e sempre più secchi (insomma gli aeriformi immessi sono via via sempre più privi di umidità), con flussi in controcorrente o a ventilazione trasversale, finché il processo non è terminato.
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i processi post essicamento sono quelli a scopo funzionale e/o decorativo, che vanno applicati prima della fase di cottura (alcuni anche/o tra la prima e la seconda cottura). Sul pezzo ceramico possono essere fatti: l'ingobbio, tecnica di pittura decorativa di post essicazione, che permette successivamente di cuocere l'oggetto (una sola volta), dal momento che questi 74
CAPITOLO 5 - CERAMICI
colori particolari tollerano l'alta temperatura cui si sottopone la ceramica; oppure si possono applicare le cristalline o "vetrine" (a cui si aggiungono fondenti per abbassare il punto di fusione) che sono rivestimenti di tipo vetroso, impermeabili e lucidi, quasi sempre trasparenti, a scopo estetico, ma che contemporaneamente proteggono meglio dagli agenti atmosferici; oppure si possono applicare smalti, anch'essi di tipo vetroso, non solo trasparenti, ma anche coprenti, lucidi o satinati, che hanno lo scopo di proteggere il pezzo dall'usura, di facilitarne la pulizia, la manutenzione e di decorarlo. Se il pezzo viene smaltato e non colorato all'ingobbio, la smaltatura avviene dopo la cottura vera e propria e si utilizzano appositi smalti composti da una miscela in vari rapporti di vetro, opacizzanti, fondenti e terre. La smaltatura classica è infatti applicata all'oggetto già passato in cottura. Dopo una tale smaltatura e decorazione si procede con una seconda cottura, con lo scopo di fissare lo smalto all'oggetto. Questa cottura si attua in un forno a temperature tra gli 850 e i 970 °C, a seconda dei fondenti utilizzati nello smalto e sempre al di sotto della temperatura utilizzata per la prima cottura. La seconda cottura porterà lo smalto a vetrificare, rendendolo lucido e impermeabile. -
la cottura, densificando il materiale ceramico, serve per incrementare la resistenza meccanica del prodotto, per renderlo chimicamente stabile e il più inerte possibile, e per garantire l'aderenza dell'ingobbio, delle vetrine, ecc., eventualmente applicati in fase di post essicamento. La cottura avviene a temperature di solito comprese tra i 900 °C (rimane un'elevata porosità) e i 1400 °C (bassa porosità). Ha luogo in forni in cui si vieta il contatto diretto fuoco-ceramici: si usano forni a tiraggio orizzontale, in cui un tramezzo impedisce alla cenere e ad atre impurità di penetrare nella camera contenente i ceramici da cuocere e in cui il calore si distribuisce molto uniformemente; oppure forni a più piani, a tiraggio discendente, in cui, nel piano inferiore, fiamme e aria calda ridiscendono verso il basso, con il flusso termico che attraverso appositi condotti risale poi nei piani soprastanti (quelli via via superiori sono adibiti a cotture a più basse temperature, cioè seconda cottura e terza cottura).
BREVE APPROFONDIMENTO SULLA COTTURA/SINTERIZZAZIONE A seconda dei tipi di "ingredienti" utilizzati per il materiale ceramico, si distinguono vari meccanismi di densificazione: -
sinterizzazione viscosa o per vetrificazione: la composizione chimica del sistema e la temperatura di cottura, permettono la fusione di alcuni componenti del materiale ceramico (soprattutto della silice presente nei feldspati), i quali, passando alla fase liquida, risultano in quantità sufficiente ad espellere/eliminare la fase gassosa inizialmente presente tra le particelle. Durante il trattamento termico, si ha lo scorrimento viscoso della fase liquida attraverso i pori intergranulari (cioè tra i grani dei componenti solidi), per effetto dei fenomeni di capillarità. Poi con il successivo raffreddamento, incomincia la vetrificazione del liquido, ossia il suo trasformarsi in solido amorfo, che permette di legare meglio, tra loro, tutte le particelle non-fuse del solido ceramico. Esso quindi, grazie all'eliminazione quasi totale dei pori riempiti dalla matrice vetrosa, si densifica sempre più, incrementando la sua resistenza meccanica. 75
CAPITOLO 5 - CERAMICI
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sinterizzazione con fase liquida: la formazione della fase liquida non è in quantità tale da eliminare molto bene la porosità del materiale ceramico, per il quale la densificazione avviene soprattutto per la variazione della dimensione e della forma dei grani, che si avvicinano maggiormente tra loro, compattandosi, mentre le particelle più piccole, rese più mobili anche per l'elevata temperatura, riescono a diffondere meglio, riempiendo in parte le porosità.
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sinterizzazione allo stato solido: la cottura avviene a temperature molto elevate, ma al di sotto del punto di fusione di tutte le possibili fasi liquide del composto ceramico. Quindi la densificazione e compattazione sono rese possibili esclusivamente dalla modifica di forma e dimensione dei grani, dalla diffusione degli atomi attraverso il reticolo cristallino e attraverso la superficie o il bordo dei grani e, in certi casi, tramite la diffusione della fase gassosa residua.
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sinterizzazione reattiva: si parla di “sinterizzazione in fase reattiva" quando si assiste anche a fenomeni di variazione della composizione chimica, per interazione della fase liquida e gassosa con quella solida (tale processo interessa soprattutto lo sviluppo di ceramici avanzati). per i processi di sinterizzazione in cui si ha la formazione di fase liquida, questa viene spesso favorita dalla presenza di aggiunte che ne abbassano la temperatura di fusione. Lo svantaggio è che, a prodotto ultimato, la permanenza, non voluta, di tali additivi nelle porosità restanti tra i grani, può comportare diversi problemi. Infatti, se le temperature in fase d’esercizio, di un siffatto ceramico, sono molto alte, i residui di additivi al suo interno, possono formare una fase liquida, con annesso scorrimento viscoso, che porta all'instabilità della struttura ceramica, peggiorandone soprattutto le caratteristiche meccaniche. la sinterizzazione allo stato solido, in base ai componenti del materiale ceramico che si vuole ottenere, può essere effettuata a temperature superiori a quelle di cottura dei ceramici tradizionali, rimanendo tuttavia ben al di sotto del punto di fusione del prodotto finale, che in fase di esercizio può quindi sopportare temperature ancor più elevate.
Una volta ultimato il processo di cottura, nei forni moderni si abbassa la temperatura del pezzo ceramico spesso immettendo aria a temperatura ambiente, prestando molta attenzione affinché l'abbassamento di temperatura sia graduale, soprattutto per quei ceramici tradizionali contenenti silice libera, la quale scendendo attorno ai 575 °C subisce una diminuzione di volume, la quale, se avvenisse troppo rapidamente, potrebbe provocare fratture nel materiale stesso. Nota: a proposito di fratture, in fase di esercizio va considerata la resistenza agli shock termici, a cui un materiale ceramico può essere soggetto. Ad es., continue variazioni di temperatura indotte su un ceramico, dall’ambiente o da materiali a contatto, provocano fenomeni simili alla “rottura per fatica”. In ogni caso, quando un materiale ceramico è raffreddato/riscaldato in modo non omogeneo, lo strato più caldo ostacola la contrazione dello strato più freddo adiacente, che è così sottoposto a stress in trazione (per reazione lo strato caldo sente compressione). Data la maggiore resistenza in compressione, le eventuali fratture si verificano sulla superficie fredda (o in via di raffreddamento). 76
CAPITOLO 5 - CERAMICI
CENNI SU ALCUNI DEI PIU’ DIFFUSI MATERIALI CERAMICI TRADIZIONALI E NON Laterizio E’ il materiale ceramico tradizionale a base di argilla più diffuso e conosciuto al mondo. Sono laterizi il mattone (pieno o forato), la pignatta, la tavella, la volterrana, il coppo, la tegola, vari ornamenti architettonici, altri elementi utilizzati in edilizia, eccetera. Il laterizio è a pasta porosa. Durante la fase di cottura, la decomposizione dell'argilla in allumina, silice e acqua, porta alla ricombinazione dell’allumina e della silice in mullite, cioè 3Al2O3•2SiO2 , che contribuisce a legare meglio tra loro le particelle del composto ceramico. Più è alta la temperatura finale di cottura, meno poroso risulta il laterizio, ma per migliorarne le caratteristiche meccaniche e più in generale la qualità, occorre anche un buon controllo dei tempi di cottura e soprattutto di raffreddamento, con variazioni di temperatura che devono essere graduali. Le caratteristiche meccaniche dipendono davvero fortemente dalla bontà del processo di cottura: un laterizio ben cotto (colore rosso) gode di buona resistenza a compressione e agli agenti atmosferici, se poco cotto (colore chiaro) ha scarsa resistenza meccanica e chimica, se troppo cotto (colore scuro anche tendente al verde) ha ancora buona resistenza meccanica, ma il pezzo risulta deformato, il ché da problemi di aderenza alle malte, una volta messo in opera. Un modo approssimativo per comprendere la bontà di un materiale laterizio è di non basarsi tanto sul colore, quanto sul suo assorbimento d'acqua (meno acqua assorbe, più è buono). Si può, ad esempio, pesare il laterizio "secco", poi immergerlo in acqua per 24 ore e calcolarne infine il suo nuovo peso, facendone i dovuti confronti. L'impasto adoperato per produrre il laterizio di solito contiene carbonato di calcio, da un lato utile perché reagisce con l’argilla ecc. formando allumino-silicati di calcio basso-fondenti, dall’altro dannoso poiché in fase di cottura del laterizio, esso si decompone in anidride carbonica, contribuendo a mantenere un’alta porosità del laterizio stesso, e in ossido di calcio. Quest’ultimo, rimanendo localmente presente nel laterizio finale, può dare inizio a fratture, a causa della sua reattività (tra l’altro caratterizzata da un forte rilascio di calore) a contatto con umidità e anidride carbonica (l’ossido di calcio fa parte degli argomenti trattati nel capitolo 8 sui “leganti in edilizia”).
Porcellana La porcellana è un particolare tipo di ceramica a pasta vetrosa, che si ottiene a partire da impasti di caolino, quarzo (silice) e feldspato, mediante cottura a temperature fino ai 1300 - 1400 °C. Scoperta e perfezionata dai cinesi fin dai primi secoli, la porcellana si diffuse poi in tutto il mondo, specie con l'avvento del tè e del caffè (tazze in porcellana). Dapprima utilizzata come materiale pregiato per vettovaglie, vasi ornamentali, eccetera, ha trovato successivamente impiego in vari settori, tra cui l'edilizia e il settore sanitario. E’ adoperata ad esempio per piastrelle da muro e pavimenti, per lavabi, ma si usa anche nel campo elettrotecnico per la realizzazione di isolatori, condensatori e fusibili, grazie alle sue ottime proprietà elettriche/dielettriche. Variando anche di molto le proporzioni dei suoi componenti e variando il tipo di trattamento termico per la cottura, cambiano, infatti, parecchio le proprietà finali del prodotto, per il quale si possono così 77
CAPITOLO 5 - CERAMICI
incrementare le caratteristiche meccaniche a scapito delle proprietà elettriche o viceversa. A cottura ultimata, dopo varie reazioni chimiche e mutamenti fisici (tra cui fusione e vetrificazione dei feldspati; cambiamenti allotropici del quarzo e sua soluzione parziale negli strati vetrosi; trasformazione del caolino in mullite; eccetera), la porcellana risulta costituita da uno scheletro spugnoso, formato da quarzo e da mullite microcristallina, in cui le cavità sono pressoché completamente riempite dal vetro feldspatico, il quale conferisce alla massa una completa impermeabilità. La porosità superficiale è ulteriormente ridotta anche dall’applicazione di un rivestimento (di solito vetrina) che sigilla tutti i pori. L'intero processo di produzione e soprattutto di cottura devono essere tenuti sotto controllo, poiché un'eccessiva vetrificazione può comportare l'aumento della fragilità del prodotto, mentre una scarsa vetrificazione manterrebbe la porcellana troppo porosa, rendendone ugualmente scarsa la resistenza meccanica, ma peggiorandone anche l'impermeabilità. Inoltre, i sali minerali contenuti nell'acqua usata per l'impasto possono alterare le caratteristiche della porcellana, per cui alcuni produttori usano acque demineralizzate e producono la “porcellana purificata”, che ha caratteristiche meccaniche ed elettriche migliori di quelle della porcellana comune. Per quanto riguarda le tecniche di verniciatura delle porcellane, che tanto impreziosiscono questi ceramici, spesso non hanno il solo fine estetico, specie se sono da destinarsi al campo elettrotecnico. Alle porcellane da utilizzare per realizzare gli isolatori, ad esempio, le vetrine applicate prima della cottura servono sia a garantire l'elevata resistività elettrica superficiale, sia a conferire al pezzo un colore funzionale in fase di esercizio. In base all'utilizzo, si possono scegliere infatti isolatori di colore bianco, che si riscaldino meno per effetto dei raggi solari e quindi non risentano di shock termici, oppure sceglierli di colore marrone, soggetti a più forti sbalzi termici, ma che se bagnati da nebbia o pioggia, si asciughino più in fretta ai successivi raggi del sole (il colore marrone può inoltre rendere visibili eventuali scheggiature o depositi salini). In ogni caso, l'applicazione di vetrine ad una porcellana, svolge sempre un ruolo protettivo, rendendo il prodotto più impermeabile, più liscio e anche più facilmente lavabile, qualunque sia l'uso finale del prodotto stesso.
Allumina E’ l'ossido di alluminio (o meglio triossido di dialluminio), Al2O3, esistente in forme diverse, la cui più stabile è l'alfa-allumina, materiale durissimo e refrattario, che in natura si trova come minerale monocristallino (ad es. zaffiro e rubino) o policristallino (ad es. corindone). L'allumina pura (percentuale di Al2O3 > del 99.5 %) è una sostanza bianca cristallina, insolubile in acidi e alcali, fondente a 2040 °C. E' uno dei “materiali ceramici avanzati” più apprezzati, soprattutto per il suo mix di proprietà chimico/fisiche, tra le quali l'ottima resistenza all'usura, l’ottima resistenza elettrica (è isolante) e la buona resistenza alla corrosione in ambienti sia acidi che alcalini, ma l’allumina gode anche di un’eccellente biocompatibilità in campo medico (le protesi con matrici in allumina non rischiano il rigetto). Tuttavia, ad alte temperature presenta una resistenza meccanica modesta, con sensibilità al creep (deformazione a caldo) sopra gli 800 °C , una bassa resistenza agli shock termici e anche una notevole riduzione della resistività elettrica. L'allumina viene, quindi, impiegata soprattutto per applicazioni meccaniche a contatto con agenti chimici, ad esempio usandola come rivestimento oppure come guarnizione per limitare perdite di fluidi, oppure per 78
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realizzare utensili da taglio ad alta velocità di taglio (appunto per la sua resistenza all’usura) o da taglio ad alte temperature (per le quali gli utensili in allumina resistono alla compressione, e solo ad essa, meglio degli utensili in acciaio). Se monocristallina, l’allumina può essere utilizzata anche per realizzare involucri di lampade, per la sua notevole capacità di far passare la luce, mostrando completa trasparenza fino a temperature di 1500 °C; oppure, se policristallina, viene adoperata anche come materiale di innesto per protesi dentali (viti). L'allumina viene sfruttata anche in gradi di purezza inferiori come carica dispersa in compositi a matrice ceramica, per realizzare ulteriori tipi di materiali ceramici più resistenti, refrattari, abrasivi e quant'altro.
Mullite La mullite, che è il costituente della fase cristallina di gran parte dei prodotti ceramici ottenuti da composti argillosi, viene anche sfruttata propriamente come materiale ceramico, specie come alternativa a basso costo dell'allumina, con proprietà un po' inferiori, tranne che per la resistenza allo shock termico, leggermente superiore. La mullite ha una bassa conduttività termica, gode di ottima resistenza all'usura, di buona resistenza alla frattura e può essere utilizzata fino a temperature di circa 1200 °C. Sicché, trova applicazione come materiale per i forni di cottura, ma può essere anche estrusa per ottenere tubi, oppure pressata nella forma di componenti meccanici. SiC Il carburo di silicio (chiamato anche Carborundum) è un materiale ceramico, composto da silicio e carbonio, ottenuto artificialmente, poiché in natura è presente solo nel rarissimo minerale chiamato Moissanite. Il carburo di silicio alfa e beta sono le forme più usate di SiC. Esso si forma a temperature superiori ai 2000 °C ed ha una struttura cristallina esagonale. Le proprietà più importanti del SiC sono l'elevata durezza, l'elevata conducibilità termica, la bassa espansione termica, l'eccellente resistenza agli shock termici, l'ottima resistenza all'usura, la buona resistenza meccanica fino a temperature anche superiori ai 2000 °C e la buona conducibilità elettrica. Inoltre ha una buona resistenza alla corrosione da acidi e all'ossidazione in generale, poiché forma un rivestimento superficiale di SiO2 che lo protegge. Se puro, il carburo di silicio è incolore. Il processo di fabbricazione più semplice consiste nel produrlo combinando sabbia silicea e coke granulato in un forno elettrico con resistenza in grafite ad altissima temperatura (fino a 2500 °C). Il materiale formatosi nel forno varia in purezza, a seconda della distanza dalla resistenza in grafite. Vicino alla resistenza elettrica si trovano i cristalli più puri che sono incolore, gialli pallido o verdi. Il colore varia da blu a nero man mano che ci si allontana dalla resistenza, e questi cristalli più scuri sono meno puri. Azoto e alluminio sono le impurità o aggiunte più comuni, e influenzano in particolare la conducibilità elettrica del SiC. Gli utilizzi più diffusi del carburo di silicio, oltre a quello di gioielli sostituti del diamante, sono come materiale abrasivo, o come utensili da taglio, ma attualmente trova impiego anche nell'industria dei semiconduttori, grazie alle sue caratteristiche elettriche, che lo contraddistinguono dal silicio per le potenziali applicazioni nei dispositivi ad alta potenza, alta frequenza e alte temperature. Il limite attuale alla sua diffusione sul mercato dei semiconduttori è dato dalla qualità dei substrati che vengono lavorati per arrivare al dispositivo 79
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finale. Quelli basati sul silicio sono disponibili con diametro superiore ai 12", di elevata purezza e ottima qualità cristallografica, con densità di difetti oramai trascurabile, mentre per il SiC i diametri non superano i 4" e la densità dei difetti è ancora troppo elevata per rendere i dispositivi, con esso ricavabili, abbastanza affidabili e duraturi nel tempo. La ricerca è quindi ancora in corso, ma di notevole interesse. Elementi e supporti di SiC vengono utilizzati pure per il trattamento termico dei metalli e del vetro e per la fusione di metalli non ferrosi. Inoltre, il Carburo di Silicio è impiegato come fibra di rinforzo per materiali compositi a matrice metallica o ceramica.
Altri Carburi e Nitruri Il Carburo di Tungsteno (WC), il Carburo di Titanio (TiC) e il Nitruro di Titanio (TiN), sono materiali ceramici refrattari estremamente duri, a struttura cristallina, usati principalmente come inserti in matrici metalliche, formando i cosiddetti "metalli duri", che non sono metalli veri e propri, ma carburi (80-95%) e nitruri legati ad un metallo. Essi sono impiegati quasi esclusivamente nei materiali compositi. In particolare il carburo di tungsteno e il carburo di titanio vengono utilizzati per realizzare il corpo degli inserti, mentre il nitruro di titanio serve per il rivestimento superficiale degli stessi. Un generico “metallo duro” viene ottenuto per sinterizzazione di una miscela di polveri di carburi (di tungsteno o di titanio) e polveri tipicamente di Cobalto o di Nickel, opportunamente miscelate, sottoposte a forte compressione e portate a temperature tra i 1300÷1600 °C, con la formazione di fase liquida del Cobalto (o del Nickel) che in parte dissolve i carburi e che contribuisce a meglio legare le particelle tra loro. La fase liquida porta il composto ad una contrazione volumetrica anche del 20%, eliminando gran parte della porosità del prodotto, il quale, alla fine del raffreddamento, risulta ben solidificato, con aumentate caratteristiche di durezza e resistenza alla compressione. Come rivestimento superficiale, invece, il nitruro di titanio protegge meglio il pezzo e ne incrementa la scorrevolezza e resistenza ad abrasione. I metalli duri si usano soprattutto per lavorare acciai ad elevata velocità di taglio (forti attriti) e ad alte temperature, oppure per proteggere componenti meccanici sottoposti a usura termica, eccetera. WC, TiC e TiN sono infatti composti altamente refrattari (anche se purtroppo possiedono una bassa resistenza agli sbalzi termici) e sono dotati di un’elevata resistenza all'usura e alla compressione. In più, oltre ad essere inerti fino ad alte temperature, sono resistenti all'attacco della maggior parte degli acidi minerali e degli alcali. Per tali ragioni, ad esempio, sono impiegati perfino nel rivestimento di crogioli destinati a contenere acidi o basi molto forti. Schiume ceramiche (con un piccolo approfondimento sui metodi di produzione di una schiuma) Sono materiali ceramici cellulari la cui porosità supera come minimo il 70% del volume totale. Sono selezionati per le loro speciali proprietà funzionali, ad esempio per l'alta permeabilità, l'alta resistenza alla corrosione chimica, la stabilità alle alte temperature, l'eccellente resistenza agli shock termici, la bassa conducibilità termica e spesso anche per la bassa costante dielettrica. Sono composti da allineamenti tridimensionali di poligoni cavi, con celle orientate in maniera casuale nello spazio. In quanto schiume, hanno una bassa densità e un'elevata area superficiale. Le schiume ceramiche più comuni dal punto di vista commerciale sono costituite da allumina, mullite, 80
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carburo di silicio, o silice. A seconda della loro natura e struttura, le schiume ceramiche vengono utilizzate come membrane per filtrare metalli fusi, particelle di gas esausti (per esempio in catalizzatori di particolato Diesel); o come parti di bruciatori radiali; o in attrezzature biomediche; come accessori per forni; rinforzi per compositi a matrice metallica; in bioreattori e in altri sistemi di protezione termica. L’approccio più comune per produrre le schiume ceramiche “a celle aperte”, cioè con porosità libera, è il cosiddetto metodo di replica, che consiste nel ricoprire una schiuma polimerica (molto spesso di poliuretano), a celle aperte, con una polvere ceramica dispersa in un liquido. Questo approccio replica approssimativamente il polimero e genera una struttura distinta, in cui le cellule sono cave alla fine del processo di cottura, che avviene a temperature non superiori agli 800 °C e con il quale avviene la rimozione spontanea del polimero, che si decompone lasciando un residuo di carbonio. La velocità di cottura è relativamente bassa per poter tenere sotto controllo la formazione e liberazione di particelle di gas dal materiale ceramico: la loro fuoriuscita è infatti corresponsabile del notevole ritiro e della significante perdita di peso del materiale stesso (dal 10 al 40% del peso totale), e tutto ciò deve avvenire in modo graduale e senza danneggiamento. Al posto delle polveri ceramiche, si possono utilizzare polimeri preceramici, cioè polimeri che contengono silicio nei legami secondari, e che con la cottura si decompongono generando un residuo ceramico (ad es. SiC) attraverso l’eliminazione di molecole organiche (rompendo cioè i legami C - H e rilasciando H2, CH4 o altri composti volatili). Un vantaggio nell'utilizzare i polimeri preceramici, è la possibilità di applicare le tecnologie convenzionali di formatura plastica (estrusione, stampaggio ad iniezione), quindi generalmente con più bassi costi di processo. Un altro metodo di realizzazione, si basa invece sulla schiumizzazione diretta di un liquido in cui è dispersa una polvere ceramica. La schiumizzazione avviene cioè direttamente, per agitazione meccanica o iniezione di gas, tramite nucleazione delle bolle di gas che accrescono come celle poliedriche e che conferiscono alla struttura ceramica l'alto grado di porosità (in molti casi, è poi necessario un agente tensioattivo per stabilizzare la schiuma creata). Successivamente avviene l’indurimento della schiuma, tramite essicamento del solvente oppure a seguito dell’incorporazione di sostanze gelificanti, o tramite polimerizzazione in loco di opportuni monomeri indurenti. Una differenza dalle schiume ottenute "per replica", è che le schiume "dirette" presentano muri di cellule che possono non contenere un'apertura (o finestra cellulare), quindi apparentemente vi sarebbero maggiori problemi nel filtrare i fluidi. Tuttavia, mentre per le schiume ceramiche ottenute con metodi di replica, le interconnessioni tra cellule contengono delle cavità dovute all’esaurimento della spugna polimerica rivestita dalla miscela ceramica, per le schiume ottenute da schiumizzazione diretta, le interconnessioni sono dense e prive di cavità e ciò permette, volendo, di produrre porosità orientata lungo piani spaziali prefissati. Perciò la schiumizzazione diretta consente di creare microstrutture altamente elaborate e personalizzate ed è l'unica tecnica in grado di realizzare, su richiesta, celle chiuse. Nel complesso, il motivo per cui i filtri in schiuma ceramica sono quelli attualmente più utilizzati è che sono economici da produrre, garantiscono una maggiore versatilità grazie al facile controllo in produzione della grandezza delle porosità e permettono una filtrazione multidirezionale, risultando quindi non solo più leggeri, ma anche più efficaci dei filtri in altri materiali (perdite di carico ridotte anche del 10%). 81
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VETRI
Il vetro è un materiale solido inorganico, amorfo, ottenuto a partire da composti fusi, che subiscono il processo di vetrificazione, ossia solidificano senza cristallizzare, e ciò di solito grazie ad un rapido raffreddamento. Se fusa, la silice è uno dei pochissimi composti che vetrificano spontaneamente durante il raffreddamento, lento o veloce che sia. Non tutti i materiali possono solidificare sotto forma di vetro: ne hanno la possibilità solo quei composti, miscele e leghe che hanno una velocità di cristallizzazione molto lenta rispetto al tempo di raffreddamento (quest’ultimo, per ovvi limiti fisici, non è mai istantaneo, ma, in ogni caso, un raffreddamento troppo veloce e diretto comporterebbe problemi legati alla permanenza di tensioni locali, interne al prodotto finale). Le sostanze in grado di diventare vetri, attraverso l’essere state raffreddate e l’aver raggiunto la temperatura ambiente, sono quelle che possiedono una temperatura di transizione vetrosa Tg superiore alla temperatura ambiente. E’ inoltre necessario che possiedano temperatura di rammollimento Tr e temperatura Tg abbastanza lontane da rendere possibile dar forma alla massa di vetro fuso (attenzione che spesso quando si parla di vetro fuso lo si intende ad una temperatura sotto Tr e sopra Tg, insomma al di sotto della temperatura di fusione e quindi più correttamente esso sarebbe un liquido sottoraffreddato, con un comportamento viscoelastico che lo rende modellabile). Tempi e temperatura sono perciò essenziali sia per la trasformazione che per lavorazione del vetro, il quale, poi, a seconda dei suoi elementi costitutivi e dei trattamenti subiti, può fornire prodotti con caratteristiche molto diverse tra loro, sfruttabili per altrettante svariate applicazioni. Le principali caratteristiche riscontrabili nei vetri sono: il carattere fragile, la durezza, la parziale o completa trasparenza alla luce, la notevole resistenza alla compressione, il bassissimo coefficiente di espansione termica e la riciclabilità (per fusione e raffreddamento) un numero indefinito di volte. Riguardo alle proprietà chimiche dei vetri, essi hanno una notevolissima inerzia chimica, però sono molto sensibili agli attacchi di acidi fluoridrici e di soluzioni alcaline (basiche) molto concentrate. FABBRICAZIONE DEL VETRO (cenni) Gli "ingredienti" principali per il bagno di fusione sono tre: - un vetrificante, introdotto sotto forma di sabbia (il più comune è la silice, SiO2); - un fondente (abbassa la temperatura di fusione), sotto forma di solfato o carbonato (è tipico usare il carbonato di sodio, Na2CO3, o di potassio, K2CO3); - almeno uno stabilizzante, che conferisca al vetro insolubilità in acqua (ad es. la calce, CaO). A questi, si possono aggiungere rottami di vetro riciclato (è la materia più costosa), il quale, essendo già allo stato amorfo, si aggiunge sia per utilizzare un minor quantitativo di materie prime, sia per facilitare la fusione degli altri elementi, riducendo la temperatura e l'energia necessarie per il processo. Durante la fase di produzione del vetro, possono essere aggiunte altre sostanze, che ne modifichino la struttura (con formazione di reticolo cristallino); che ne migliorino o alterino le proprietà chimiche (ulteriori stabilizzanti, ecc.) oppure quelle ottiche (decoloranti, coloranti e opacizzanti); o che ne rafforzino quelle meccaniche (stabilizzanti meccanici e affinanti).. La fabbricazione del vetro avviene in grandi fornaci costruite con blocchi di materiale refrattario. Ne esistono di varie tipologie, alcune delle quali impiegate per la fusione della massa inziale (dai più antichi forni a crogiolo ai più moderni forni a bacino), altre destinate alla ricottura o ai vari 83
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processi di tempra (ormai si usano quasi esclusivamente forni detti a tunnel o galleria). Le fornaci vengono ulteriormente progettate/adattate diversamente l’una dall’altra anche in base al tipo di forma che dovrà assumere il vetro finale. Per non entrare troppo nei dettagli, si sappia che di solito nelle fornaci industriali moderne, la produzione del vetro avviene in maniera continua. Ampie vasche contengono la massa fusa, la quale viene mantenuta in movimento, soprattutto per uniformarne la composizione chimica e facilitarne l’espulsione delle scorie. Il calore necessario alle varie fasi della produzione è fornito quasi sempre dalla combustione di metano (o, più raramente, di altri combustibili) e dall'energia elettrica (esistono anche forni completamente elettrici), anche contando l’ausilio di scambiatori di calori. Dato che il costo finale dei prodotti in vetro è quasi tutto legato al dispendio energetico necessario al processo di vetrificazione dei materiali, l'aggiunta di rottami vetrosi e quindi il riciclaggio del vetro assumono un ruolo importante sia a livello economico, che ambientale (calano le richieste di combustibile, quindi minori emissioni nocive). La produzione di un vetro si articola in quattro fasi principali: fusione, formatura, ricottura e finitura. Per la fusione del vetro, non esiste una precisa temperatura di fusione, ma piuttosto un range di temperature, tra gli 800 e 1100 °C. La miscela iniziale viene fusa, però, portandola mediamente fino attorno ai 1400 - 1500 °C per facilitare l'eliminazione dei prodotti di scarto e ottenere una massa fusa il più possibile omogenea. Durante la fusione, si verificano infatti l'eliminazione dell'acqua presente nei componenti di partenza e la dissociazione dei carbonati e dei solfati con sviluppo di anidride carbonica o solforosa. Questi gas potrebbero causare difetti nei prodotti finali, pertanto ridiscendendo attorno ai 1200 - 1300 °C, quando la massa è ancora fusa, si effettua l'affinaggio, che consiste nell'aggiungere piccole percentuali di agenti affinanti, in grado di ridurre la solubilità dei gas nel vetro, di far aumentare il volume delle bolle e di provocarne l'espulsione dalla massa. Dopo che il vetro fuso, liberatosi dei prodotti di scarto, ha acquisito una composizione chimica omogenea, con annesse proprietà fisiche uniformi, può essere volutamente decolorato, ad es. aggiungendo composti che ossidino il ferro (l’Fe3+ colora meno dell’Fe2+), il quale anche quando non voluto è spesso presente in tracce nel vetro. Successivamente, il vetro fuso viene raffreddato gradualmente fino alla temperatura di formatura, attorno ai 1000 - 1100 °C, o comunque dentro un range in cui la sua massa sia ancora fluida, ma assuma viscosità tale da poter essere lavorata e tale da conservare senza alterazioni la forma che gli verrà da qui in poi impartita. La formatura, senza entrare nel merito, può avvenire secondo varie tecniche tra cui: la soffiatura (oltre a quella tradizionale, ormai adoperata quasi esclusivamente per vetri artistici, esistono sistemi di soffiatura automatizzata, impiegabili per diversi prodotti cavi, quali, ad esempio, i bulbi di lampadine); varie tecniche di colata; vari tipi di stampaggio (principalmente a compressione o a centrifuga, che sono di qualità nettamente superiore ai sistemi di soffiatura); tecniche di filatura per le fibre; eccetera. Una volta terminata la formatura, la massa di vetro, che nel frattempo si è raffreddata (finanche di parecchie centinaia di gradi), viene sottoposta ad una ricottura, cioè un riscaldamento del vetro fino ad una temperatura nuovamente più alta, effettuato per eliminare le tensioni che si generano durante la formatura stessa e che renderebbero difficili le operazioni di finitura, come ad esempio il taglio. In pratica, arrivati nel forno alle temperature necessarie, le quali sono prossime alla Tg , ma inferiori a quelle della tempra tradizionale (poi citata più sotto), si attende affinché il vetro raggiunga uniformemente l’equilibrio termico, dopodiché lo si raffredda lentamente scendendo di circa una cinquantina di gradi ed infine lo si porta rapidamente a temperatura ambiente. Durante la ricottura possono essere eseguiti trattamenti speciali quali la siliconatura (per sigillare o incollare parti) e la solforazione (che richiede la ricottura in un ambiente con SO2 e che si usa per migliorare l'inerzia chimica superficiale). Per quanto riguarda le successive lavorazioni e tecniche di finitura, per ultimare il prodotto di vetro, esse possono essere: di tipo meccanico, quali la pulitura, la molatura, la smerigliatura e l'intaglio; oppure di tipo 84
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chimico, quale l'opacificazione ottenuta tramite acido fluoridrico (smerigliatura chimica); oppure di tipo termico, quali la fusione locale per l'incollaggio di più parti (seguita a volte da una seconda ricottura), la tempra tradizionale, od anche la tempra chimica (o meglio detta termochimica). Il taglio o intaglio serve sia per dimensionare il vetro secondo le misure finali richieste a ciascun pezzo, sia per sagomarlo, sia per forarlo (si parla di foratura del pezzo) o decorarlo. Può avvenire tramite utensili artigianali, o con appositi macchinari (a controllo numerico tramite software specializzati), alcuni dei quali sfruttano il taglio a getto d'acqua (una miscela di acqua e opportune sabbie) che permette la realizzazione di qualsiasi forma e disegno. La molatura serve per eliminare la taglienza del vetro, lavorando soprattutto il bordo e gli spigoli con vari tipi di mole (diamantate, o con resinoidi, miscele di abrasivi e gomme, ecc.). La molatura conferisce alla lastra anche una maggiore resistenza meccanica per l'assenza di microfessure. La smerigliatura serve ad opacizzare il vetro per ridurne la trasparenza, sottoponendolo all'azione meccanica di un getto sottopressione di sabbia finissima o polvere abrasiva, ma esistono anche tipi di smerigliatura "più artigianale" fatta esponendo il vetro alla lavorazione chimica di sali corrosivi (di solito acido fluoridrico). La tempra tradizionale (o tempra termica) del vetro viene eseguita per aumentarne la resistenza meccanica e agli shock termici, mantenendone quasi completamente inalterate le altre proprietà. Viene fatta riportando il vetro poco al di sopra della temperatura di transizione vetrosa, attorno ai 600 - 700 °C (od anche sugli 800 °C per alcuni vetri), dopodiché lo si raffredda velocemente con getti d'aria. Questo processo raffredda gli strati superficiali del vetro, causandone l'indurimento, mentre gli strati interni rimangono caldi più a lungo e con tensioni rilassate (l’interno del vetro, essendo ancora sopra Tg, è un fluido viscoelastico). Quando gli strati esterni del vetro sono divenuti già rigidi, il successivo raffreddamento della parte interna del vetro produce, quindi, uno sforzo di compressione sulle sue parti più esterne, cosicché, in caso di forze di trazione agenti sul vetro stesso, esso ne risente di meno (forze di trazione meno forze di compressione) ed è quindi più resistente alla rottura. Il vetro temprato è circa sei volte più resistente del vetro non trattato e ciò anche perché i vari difetti superficiali ivi presenti vengono mantenuti "chiusi" dalle tensioni meccaniche compressive, prodotte appunto dalla tempra (utile quindi anche in caso di shock termici), mentre, purtroppo, la parte interna del vetro rimane più sensibile ai difetti, che possono dare inizio alle crepe. Questo gioco di bilanciamento delle tensioni fa poi sì che un'eventuale colpo distruttivo ad una lastra di vetro temprato, rompendo gli equilibri tra le tensioni e rilasciando così la maggiore energia elastica accumulatasi proprio con le preesistenti tensioni interne di compressione, porti alla frantumazione del vetro in molti piccoli pezzetti. Questa caratteristica rende il vetro temprato un prodotto più sicuro per persone e animali, ma al contempo ne impedisce ulteriori lavorazioni (perciò il taglio del vetro va eseguito sempre prima della tempra). La tempra chimica è invece un processo di scambio ionico che aumenta la resistenza meccanica superficiale del vetro. Essa consiste nell'immergere il vetro in un bagno di sali fusi di potassio (tipicamente nitrato di potassio) ad una temperatura di circa 380 - 450 °C, inferiore alla temperatura di transizione vetrosa del vetro da trattare o comunque al di sotto della temperatura di tempra vera e propria dello stesso. Lo ione K+ entra nel vetro, scambiandosi con lo ione Na+. Poiché lo ione del potassio è più grande dello ione del sodio, esso origina uno stress compressivo nella superficie del vetro, aumentandone la resistenza meccanica. La capacità di penetrazione e di scambio degli ioni potassio interessa solo uno strato sottile, ma per quei vetri di spessori limitati, offre risultati migliori di quelli di una tempra tradizionale. Tuttavia, la tempra chimica rende la superficie interessata più sensibile all'abrasione, perciò è utilizzata solo se si vuole incrementare la resistenza meccanica superficiale del vetro più di quanto permetta la tempra termica, oppure nei casi in cui la tempra termica risulti inapplicabile (spessori inferiori ai 2.5 mm circa o curvature molto complesse del vetro) o risulti meno efficace per il mantenimento delle proprietà ottiche del vetro (la tempra chimica viene quindi sfruttata soprattutto per le lenti degli occhiali da vista). 85
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ALCUNI PRINCIPALI TIPI DI VETRO/TECNICHE DI PRODUZIONE Vetro solubile E’ costituito da silicati di sodio o potassio (più raramente di litio), ai quali non è stata aggiunta la calce (o altri stabilizzanti) durante il processo di produzione del vetro, mantenendo quindi il prodotto finale solubile in acqua. Ha l'aspetto di un comune vetro trasparente, ma una volta sciolto in acqua forma una soluzione viscosa e fortemente alcalina, vendibile concentrata e impiegabile per numerose applicazioni: in detergenti; come adesivo o sigillante; come legante per vernici colorate; o per l'indurimento di alcuni cementi e altri materiali; per la sintesi di prodotti chimici sotto forma di gel; o come antiparassitario da spruzzare sulle piante; o pure per trattamenti delle acque (sia potabili che reflue); ecc. Il vetro solubile è infatti piuttosto ecologico (comunque, anche se per l’uomo ha una bassa tossicità, non è che sia un bene ingerirlo), ha proprietà antimicrobiotiche, ha una capacità tamponante del pH, inoltre si assorbe facilmente (in special modo nei materiali cartacei) e, disidratandosi, forma una collante forte e vetroso. Di solito, per ottenere la soluzione silicatica, destinata poi ai vari utilizzi, si scioglie il “vetro solubile” in acqua, sotto pressione e a temperatura un po’ alta (per accelerare il processo). Invece di ricavarla dal vetro solubile, un altro metodo per ottenerla è quello di produrla sciogliendo direttamente sabbia di quarzo molto pura in una soluzione di soda caustica, cioè idrossido di sodio, NaOH , o anche di potassio, KOH, in base al tipo di caratteristiche che le si vuole conferire, il tutto sotto pressione (anche qui, si alza spesso la temperatura per giungere più velocemente alla soluzione silicatica finale). Attualmente Il vetro solubile, o meglio alcuni tipi di paste termoconduttive a base di vetro solubile iniziano ad essere impiegate in sostituzione di quelle a base di silicio, per applicazioni elettroniche ad alte temperature (le paste termoconduttive sono quelle che comunemente si applicano, ad esempio, tra componenti elettronici e dissipatori di calore veri e propri, principalmente al fine di eliminare/ridurre l’aria presente tra di essi, favorendo una migliore dissipazione del calore, prodotto per effetto joule dai vari elementi elettrici). A parità di capacità adesiva, le paste di vetro solubile hanno infatti una conducibilità termica più elevata di quella delle paste a base di silicio. Vetro comune Ormai tutti i vetri hanno composizioni normate, con percentuali dei vari elementi che devono cadere all'interno di intervalli prefissati per legge. Il termine “comune” si riferisce quindi indicativamente al vetro la cui miscela iniziale è costituita da circa il 68 - 75% di diossido di silicio (cioè la silice, SiO2, già nominata varie volte), dal 10 - 16% di ossido di sodio Na2O e dal 5 - 14% di ossido di calcio CaO (che oltretutto rende il vetro un po’ più resistente), più restanti tracce di altri elementi (tra cui Al2O3). Vetri al piombo Comunemente e impropriamente chiamati cristalli, sono ottenuti aggiungendo ossidi di piombo (fino anche al 30% circa di PbO o Pb2O3), che aumentano l'indice di rifrazione con l'effetto di far apparire il vetro più brillante. Il vetro al piombo è ben lavorabile per intaglio e molatura, e viene quindi impiegato per componenti di gioielleria (famoso il marchio di produzione Swarowski) o di bigiotteria e di oggettistica per la casa; ma si impiega anche per scopi più nobili, ad esempio nel 86
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campo dell'ottica di precisione, soprattutto come vetro per lenti concave (vetro Flint). Il vetro al piombo è spesso ammesso, dalla legge, anche come materiale per utilizzo alimentare in vasellame e bicchieri, laddove il contatto con la saliva umana è ripetuto, ma di breve durata. In base agli elementi aggiunti e ai tenori in gioco, un vetro può risultare molto pesante (il vetro al piombo ne è un esempio), quindi la trasparenza di un vetro non è sinonimo di leggerezza. Vetro borosilicato (commercialmente noto come vetro pyrex) A partire dal diossido di silicio e dal triossido di boro (con percentuali tipicamente attorno all’80% di SiO2 e al 12% di B2O3 più altri elementi in percentuali minori), si ottiene un vetro robusto e molto ben lavorabile, usato soprattutto nei laboratori chimici come materiale per contenitori e provette, ma anche in campo alimentare per contenitori resistenti sia in lavastoviglie, che in microonde e in frigo (spesso anche in freezer). L'aggiunta di Boro aumenta, infatti, la resistenza termica e agli shock termici del vetro (ha un coefficiente di dilatazione termica molto basso e resiste fino a circa 300 - 400 °C), aumenta di molto la resistenza alla corrosione chimica e, inoltre, mantiene il vetro ben trasparente, consentendo, così, di utilizzarlo anche in campo ottico, ad esempio per realizzare lenti protettive di lampade alogene e led (in ottica, il vetro borosilicato è uno dei vetri Crown). Il vetro borosilicato viene, comunque, apprezzato anche nell'oggettistica da regalo. DIGRESSIONE: in ottica, un vetro Crown indica un vetro con numero di Abbe circa compreso in un intervallo tra 50 e 85, mentre il termine Flint indica un vetro con numero di Abbe inferiore a 50. Il numero di Abbe serve a classificare i vari tipi di vetri e altri materiali trasparenti in funzione della loro capacità di dispersione cromatica della luce bianca (quella cioè visibile dall'occhio umano). Meno un vetro disperde la luce bianca, più è di buona qualità, minore è il suo numero di Abbe. I vetri Crown più classici sono sodico-calcici, ma anche il vetro borosilicato è un vetro Crown, mentre i vetri Flint più comuni contengono piombo, anche se per motivi di inquinamento, nuovi vetri flint possono essere ottenuti sostituendo gli ossidi di piombo con ossidi di titanio o di zirconio senza alterare significativamente le proprietà ottiche. Vetri Flint e vetri Crown, opportunamente accoppiati, possono costituire un doppietto acromatico, che rappresenta un classico sistema per ridurre al minimo l'aberrazione cromatica, migliorando quindi la messa a fuoco di un'immagine. Vetri fotocromatici Sono vetri che, attraverso una reazione chimica reversibile, possono variare il loro coefficiente di assorbimento della luce solare, scurendosi in funzione dell'intensità della luce che li colpisce (in particolare, sono sensibili alle radiazioni ultraviolette, che sono molto energetiche). Questa proprietà si ottiene aggiungendo, durante il processo di produzione di un vetro borosilicato, dei sali di argento e di rame, tipicamente alogenuri (ad es. fluoro o cloro) di argento e nitrati di rame, i quali, mentre il vetro si raffredda, iniziano pian piano a reagire tra loro, precipitando in particelle policristalline (cristalliti). Dopo il raffreddamento dell'insieme, non è ancora avvenuta la completa precipitazione di questi cristalliti di argento e rame, e il vetro non muta colore al variare della luce, ma si rende invece necessario un riscaldamento a temperature attorno ai 600 °C, affinché la loro precipitazione e distribuzione in tutto il vetro sia completa. Si acquistano, così, le caratteristiche 87
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fotocromatiche ricercate, le quali sono fortemente legate al tempo e alla temperatura del processo di riscaldamento stesso effettuato (tempo e temperatura influiscono sulla colorazione del vetro, sulla velocità della reazione fotocromatica e sul grado di oscuramento massimo del vetro). I cristalliti non alterano quasi per niente la trasparenza del vetro alla luce bianca, poiché sono sensibili solo alle lunghezze d'onda più corte, come quelle appunto dei raggi UV. Proprio l'assorbimento dell'energia della luce solare ultravioletta da parte degli atomi di rame, è in grado di strappar loro gli elettroni più esterni. Questi elettroni, insieme ad altri eventuali elettroni liberi nel vetro, vengono catturati dagli ioni argento, che diventano neutri e tendono a riunirsi in un numero elevatissimo di particelle, formando agglomerati di dimensioni tali da assorbire, adesso, le varie lunghezze d'onda del visibile. Gli agglomerati formatisi hanno dimensioni diverse e casuali, quindi assorbono ciascuno un range diverso di lunghezze d'onda, conferendo così, al vetro, il tipico colore grigio o marrone scuro. Quando l'intensità luminosa diminuisce, il processo si inverte, gli atomi di argento ricedono gli elettroni precedentemente assorbiti e gli agglomerati si disgregano. Il fenomeno fotocromatico risente dell'energia termica e della temperatura, che influiscono pure sugli altri componenti del vetro, pertanto la reazione ha velocità maggiore in ambienti freddi, mentre può risultare addirittura difficoltosa in ambienti molto caldi (ad es. d'estate con un clima torrido). I vetri fotocromatici sono impiegati per le vetrate di edifici, per le vetrine dei negozi, per gli occhiali da sole, per lenti fotografiche, eccetera. Poiché i vetri fotocromatici sono sensibili alla temperatura dell'ambiente di utilizzo, riguardo agli occhiali da sole, iniziano ad essere sfruttate altre tecnologie, che invece del vetro richiedono materiali polimerici, oltretutto più leggeri. Digressione: Un metodo impiegato per la semplice colorazione del vetro è la colorazione ionica. Si introducono ioni in soluzione nella composizione chimica del vetro, i quali possono poi mantenere elettroni allo stato eccitato, grazie all’assorbimento di fotoni. Per certi tipi di ioni, infatti, partendo da una condizione iniziale di livelli isoenergetici, il passaggio e quindi il mantenimento di elettroni ad alcuni livelli eccitati, richiede energie abbastanza basse da poter essere fornite dall’assorbimento di alcune lunghezze d’onda. La colorazione del vetro avviene così in base a quali lunghezze d’onda vengono assorbite e quali invece no (ad es. aggiungendo Cu+ si può ottenere una colorazione verde del vetro per assorbimento del rosso e trasmissione del giallo e del blu; aggiungendo Cu2+ viene assorbito anche un po’ di giallo e si ottiene blu chiaro..). Specchio di vetro Il ruolo più importante è giocato da un opportuno foglio metallico, di solito argento, applicato sul retro del vetro e fissato tramite elettrolisi. Il film d'argento riflette circa l'80% della luce, ma la sua capacità di riflettere e rispecchiare correttamente un'immagine è dovuta al tipo di vetro su cui viene applicato, quindi alle sue qualità ottiche e alla sua superficie, che deve essere il più piana e liscia possibile. Sul lato scoperto del film d'argento viene applicato un rivestimento tipicamente in rame, che funge da protezione galvanica e dalla corrosione in generale. Specchi migliori, ma più delicati se graffiati, si ottengono fissando, invece, un film di alluminio sulla superficie anteriore del vetro, opportunamente rivestito con una verniciatura trasparente e protettiva. L'alluminio, così inserito, permette infatti di eliminare le doppie riflessioni e di riflettere fino al 90-95% della luce. Gli specchi possono avere anche superfici non planari, ma a forma di conica, ecc., se lo scopo è di 88
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favorire la messa a fuoco dell'immagine riflessa, in una determinata regione dello spazio. Esistono poi gli specchi semiriflettenti, che riflettono circa metà della luce incidente, lasciando trasparire la parte restante, e che si ottengono riducendo a poche decine di atomi lo spessore del film metallico riflettente. Si usano, ad esempio, in fisica per dividere in due un fascio luminoso, o più comunemente vengono impiegati a scopo di sorveglianza (ad es., dalla polizia per gli interrogatori) per osservare senza essere visti. Siccome la trasmissione della luce attraverso il vetro avviene in entrambe le direzioni, allora affinché nell'ambiente luminoso il vetro appaia come un normale specchio, è necessario che il lato del vetro privo di film metallico sia rivolto verso l'ambiente opposto e buio. L'uso degli specchi e il loro tipo di applicazione sono estremamente vari: per poter riflettere la propria immagine, o come oggetti decorativi, o per apparati ottici scientifici… Vetro piano Per realizzare lastre piane di vetro, si utilizzano soprattutto tre tecniche: il vetro cilindrico, il vetro colato e il vetro float. La tecnica del vetro cilindrico consiste nel soffiare il vetro fuso (già adeguatamente viscoso e formabile) all'interno di stampi metallici cilindrici, oppure, sempre tramite soffiatura, si fa roteare la massa su un supporto semicilindrico. Dalla forma cilindrica ottenuta vengono asportati gli estremi e praticato un taglio lungo una generatrice del cilindro (ad es., con una punta di diamante), dopodiché il vetro è posto in un forno, in cui, rammollendosi, viene aiutato ad aprirsi e ad essere steso per formare una lastra. Mentre questa tecnica in passato era molto diffusa per la produzione del vetro comune, ora non lo è più, poiché le superfici del prodotto finale, a meno di costose lavorazioni, risultano imperfette e poco parallele tra loro. Il vetro piano colato si ottiene, invece, partendo da un forno a bacino e colando in continua la massa fusa in appostiti stampi da cui esce poi, tramite estrusione, sotto forma di lastre piane che vengono tagliate e guidate avanti da un percorso di cilindri mobili fino ad un eventuale macchinario per la laminazione del vetro (che ne diminuisce lo spessore). Come per la tecnica del vetro cilindrico, però, si necessita di costose lavorazioni per uniformare le superfici piane (ad esempio, con la lucidatura meccanica..), perciò, riguardo ai vetri piani, anche la tecnica per colata sta perdendo importanza e viene utilizzata soltanto per vetri decorativi o per qualche caso particolare (ad es., in caso si debba incorporare una retina metallica nel vetro), mentre continua ad essere utilizzata per gli altri tipi di forme non piane del vetro. Attualmente, la tecnica del vetro float, ha soppiantato a livello industriale le altre tecniche per realizzare forme piane. Essa consiste nel versare il vetro fuso in un bacino contenente un bagno di stagno fuso, sopra il quale la massa di vetro galleggia (da cui il termine inglese float), distribuendosi fino a formare una superficie liscia e piana su entrambi i lati. Quest'operazione è effettuata in atmosfera controllata. Il bagno di stagno fuso è lungo circa una cinquantina di metri, largo 3-4 metri e spesso solo 6 -7 centimetri. La scelta dello stagno è legata al suo basso punto di fusione, alla sua densità e alla sua tensione superficiale, che permettono al vetro fuso di galleggiargli sopra. Mentre il vetro scorre lungo il bagno, esso si raffredda e solidifica, formando un nastro continuo. Si riescono a realizzare spessori che vanno da circa 0.4 mm a 25 mm. I diversi spessori si ottengono variando la velocità di estrazione del vetro dal bagno (quindi il tempo di permanenza del vetro nel bagno) e con laminazioni successive. Per rimuovere scabrosità e imperfezioni, il vetro viene lucidato "a fuoco" (metodo che, 89
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ad esempio tramite una fiamma all'ossidrogeno, consiste nel fondere la parte più superficiale del vetro), lo si passa poi alla fase di ricottura e successivamente ad un raffreddamento controllato, al termine del quale il vetro presenta due superfici perfettamente parallele. Vetro stratificato (detto anche, in modo fortemente equivoco, "laminato") Indica un generico tipo di vetro di sicurezza, a strati di vetri, alternati tipicamente con un materiale polimerico. Un classico vetro stratificato si ottiene inserendo un foglio di PVB (Polivinilbutirrale) tra due lastre di vetro, incollandolo a caldo e sotto pressione, ad esempio con l'ausilio di due rulli cilindrici, che pressano le superfici con lo scopo di eliminare l'aria presente tra i vari strati, facendoli aderire correttamente. Il processo di espulsione dell'aria si completa mantenendo l'insieme in una camera a temperatura e pressione costanti. Il risultato è una lastra trasparente con elevata resistenza alla rottura per urti e che, quando si spezza, non dà origine a spigoli vivi. Il PVB è un materiale plastico trasparente, che, quando inserito sotto forma di pellicola nei vetri di sicurezza, ha lo scopo di mantenere uniti i due strati di vetro, impendendo la propagazione di fratture fra gli stessi. Inoltre, fa sì che, in seguito ad una rottura dello strato di vetro, i frammenti rimangano incollati alla sua pellicola. Con strati di vetro di qualche millimetro, basta una pellicola polimerica di spessore inferiore al mezzo millimetro per avere già ottime proprietà di resistenza agli urti del vetro stratificato, ma anche maggiori capacità di isolamento acustico. I vetri stratificati sono utilizzati per realizzare i parabrezza e i lunotti delle auto, vetrine di negozi, vetrate di soffitti, eccetera. Il film polimerico può anche essere di policarbonato e tra lo strato di vetro e il polimero, può essere aggiunto un foglio di resina poliuretanica (termoplastica), che assorba le differenze di dilatazione termica tra i due materiali principali. E' questo, ad esempio, il caso di un tipo di vetro antiproiettile, il cui vetro esterno riceve l'impatto più forte del colpo e appiattisce il proiettile, mentre il foglio poliuretanico ne assorbe parte del calore e insieme alla pellicola di policarbonato, si deforma catturando la restante energia cinetica del proiettile, che rimane incastrato, senza fuoriuscire "dall'altro lato del vetro". In base agli scopi di utilizzo, gli strati di vetro possono essere ulteriormente rinforzati mediante la tempra, oppure possono avere anche composizioni chimiche differenti, a seconda, ad esempio, di quale sia il vetro esposto alla temperatura minore/maggiore o di quale delle due facce sia più a rischio di urti. Naturalmente più aumentano gli spessori e il numero degli strati alternati di vetro e polimero, più aumenta la resistenza dell'insieme, più aumenta l'isolamento acustico e termico, più, però, aumentano i costi e soprattutto il peso della struttura, quindi vengono fatte opportune scelte in base al grado di sicurezza richiesto, eccetera. In alcuni casi, specie in campo militare, si sta già iniziando ad utilizzare "vetri metallici" (descritti a fine capitolo), che a parità di resistenza, richiedono spessori minori e sono quindi più leggeri. Vetro isolante In gergo, è anche definito vetro camera, e, in linguaggio normativo, vetri uniti al perimetro. Il vetro isolante è una struttura vetrata utilizzata in edilizia, in particolare nei serramenti esterni (finestre e porte) e in facciate continue, principalmente per aumentare le prestazioni di isolamento termico e acustico, senza dover impedire la visuale tra i vari ambienti, o per lasciare quanto meno trasparire la luce proveniente dall'esterno. È costituito da due o più lastre di vetro 90
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piano unite tra di loro, al perimetro, da un telaietto distanziatore in materiale metallico profilato (alluminio o acciaio), o polimerico, e separate tra di loro da una camera d'aria o di gas nobili chimicamente inerti (argon, o kripton, o xeno, o una miscela di essi), più efficaci, ma più costosi. Il telaietto perimetrale è conformato in modo che all'interno di esso possano trovare alloggio dei sali che sono necessari per mantenere disidratata la lama d'aria (o gas) presente, evitando in questo modo la comparsa di condensa sulla superficie delle lastre di vetro rivolta verso l'intercapedine. Il tutto è sigillato tramite siliconi o colle particolari. L'argon, il kripton e lo xeno hanno lo scopo di aumentare l'isolamento termico. A parità di isolamento, in base al tipo di gas sono necessari più o meno millimetri di spessore di intercapedine (quindi più o meno gas). Ad esempio, l'impiego di kripton richiede uno spessore totale della vetrata inferiore di 6 -7 mm rispetto a quello in cui è presente il gas argon, che però costa meno (più facile da reperirsi). Esistono tuttavia limiti (fissati anche dalle norme) allo spessore massimo dell'intercapedine, al fine di evitare o ridurre al minimo l'insorgere di moti convettivi, dell'aria o dei gas isolanti ivi contenuti, poiché faciliterebbero la trasmissione del calore, peggiorando quindi l'isolamento termico. L'isolamento acustico è invece ottenuto soprattutto attraverso l'incremento dello spessore delle lastre di vetro (meglio se di spessore diversificato per evitare fenomeni di risonanza acustica). All'isolamento acustico e alla sicurezza della vetrata isolante, può contribuire anche l'impiego di fogli polimerici, come il PVB impiegato nel vetro stratificato. In ogni caso, in base agli scopi di utilizzo dell’intera vetrata, una o entrambe le lastre di vetro possono essere di tipologie diverse: insomma, il vetro isolante può contenere più lastre stratificate di sicurezza, oppure lastre trasparenti e/o coprenti, lastre riflettenti, oppure basso-emissive, eccetera. Quest'ultima tipologia, quella cioè dei vetro camera basso-emissivi, permette di ridurre ulteriormente e notevolmente le dispersioni di calore verso l'ambiente più freddo. Alla lastra di vetro più vicina all'ambiente caldo, sulla sua superficie interna a contatto con l'intercapedine isolante, è presente un rivestimento basso-emissivo di materiali appositamente studiati, in grado di riflettere, nuovamente all'interno dell'ambiente più caldo, il calore disperso per irraggiamento dai corpi caldi presenti in quello stesso ambiente. Al contempo, tale rivestimento permette al calore (e alla luce), provenienti dall'ambiente opposto, di penetrare la vetrata (ormai, in Italia, i vetro camera bassoemissivi sono d’obbligo per le case nuove). Vetro schiuma (o vetro cellulare) Si ottiene polverizzando rottami di vetro (frantumati, macerati, ecc.) e aggiungendo tipicamente polvere di carbone e solfati. Questa massa viene introdotta in appositi stampi, che vengono riempiti solo parzialmente e i quali, una volta chiusi, vengono portati ad una temperatura di sinterizzazione compresa tra i 600 e i 1000 °C, dipendente dai componenti della massa stessa e dalle loro percentuali in gioco (si può arrivare fino anche al 98% di vetro, con il restante paio di punti percentuali costituito da minerali vari..). In queste condizioni di sinterizzazione, carbone e solfati reagiscono sviluppando bolle di gas, la massa rigonfia occupando tutto lo stampo, mentre i granuli incominciano a saldarsi, inglobando le particelle di carbonio. Alla fine, dopo il rapido raffreddamento, la struttura solidificata del vetro contiene una quantità di piccoli pori non comunicanti tra loro, che, oltre ad abbassare la densità del vetro stesso, ne riducono la conduzione termica e sonora (un classico utilizzo del vetro schiuma è infatti in edilizia, dove si 91
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realizzano pannelli per l'isolamento termico e acustico, ad es., nei sottotetti). La schiumizzazione del vetro può anche essere effettuata insufflando un gas nella massa fusa in via di raffreddamento. Nel complesso, il vetro schiuma, oltre alle caratteristiche sopracitate, gode di elevata stabilità chimica, buone prestazioni meccaniche e, come tutti i vetri, rimane comunque impermeabile all'acqua, perché i pori sono appunto non comunicanti. Il vetro schiuma può essere prodotto anche sotto forma di ghiaia di vetro cellulare, estremamente porosa, quindi molto più leggera della ghiaia tradizionale: essa viene impiegata prevalentemente come materiale di riempimento per sottofondi di terreni naturali, o di giardini, o di campi sportivi, o anche per sottofondi legati alla costruzione di manti stradali, ecc. E’ infatti apprezzata sia per le maggiori proprietà isolanti rispetto alla ghiaia comune, sia, soprattutto, per la sua capacità drenante e stabilizzante (ad es., i numerosissimi pori affioranti sulla superficie esterna di ciascun pezzo di ghiaia di vetro assorbono facilmente l'acqua dal terreno circostante e gliela restituiscono quando esso torna ad essere più asciutto, contribuendo, così, a mantenere un certo equilibrio nell'umidità del terreno stesso). Vetro metallico Un campo un po’ più recente della ricerca ha portato alla creazione di strutture vetrose a partire da leghe metalliche sottoraffreddate. Il vetro metallico è cioè una lega di almeno un paio di metalli, di cui uno più comune come il ferro o il palladio (che, però, è più costoso), l'altro tipicamente un semiconduttore (Si, P, o Ge), la quale, a processo di cottura ultimato e dopo il raffreddamento, invece di cristallizzare come le normali leghe metalliche, mantiene una struttura amorfa, acquistando le caratteristiche tipiche dei vetri, compreso il carattere fragile, ma nello stesso tempo riducendo la propagazione delle fratture, tramite caratteristiche locali di plasticità tipiche dei metalli. Ne risulta un materiale innovativo, dalle molteplici applicazioni, alcune delle quali ancora da scoprire. Tuttavia, a causa della preziosità di alcuni metalli da utilizzare nelle varie leghe e a causa del tipo di macchinari e tecniche impiegate nel processo di produzione, il vetro metallico rimane ancora molto costoso e poco diffuso. Il processo di produzione dei vetri metallici implica l'utilizzo di tecniche di raffreddamento ultrarapide e l'impiego di leghe metalliche basso fondenti. In pratica la microstruttura dei vetri metallici può essere vista come una struttura molto impacchettata di sfere di dimensioni assai diverse e disposte in modo casuale, che impediscono alla massa in raffreddamento di assumere una qualche configurazione cristallina. Rispetto ai metalli puri, i vetri metallici possono risultare, così, anche più resistenti, poiché con tale struttura si riducono le dislocazioni per dimensione e mobilità. Inoltre, tali vetri sono più resistenti alla corrosione chimica, poiché nei metalli essa aggredisce più facilmente i bordi dei grani e ivi meglio si propaga, ma nei vetri metallici non esistono veri e propri bordi dei grani. Nuovi vetri metallici più duri e robusti dei vetri tradizionali e anche in grado di meglio resistere alla flessione, vengono via via scoperti (alcuni possiedono una lega anche di cinque o sei elementi metallici). Attualmente uno svantaggio applicativo dei vetri metallici riguarda il loro ridotto spessore, limitato dalla necessità, in fase di produzione, di raffreddare rapidamente i metalli liquidi per ottenere la struttura amorfa definitiva. Esistono ad es. microleghe di palladio con fosforo, silicio e germanio, che permettono spessori di solo un millimetro. Spessori che si è riusciti a portare fino a circa 6 mm, soltanto grazie all'aggiunta di argento alla lega metallica iniziale, con un aumento, però, del costo economico. 92
CAPITOLO 7 - COMPOSITI
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MATERIALI COMPOSITI
Con il termine composito, o materiale composito, si identifica un prodotto costituito da più materiali differenti (per composizione e struttura), che mantengono la propria identità senza mai dissolversi o fondersi completamente l'uno nell’altro. I vari costituenti del materiale composito, che sono scelti per le caratteristiche spesso tra loro complementari, possono essere tenuti insieme per semplice coesione/unione meccanica, quindi banalmente a contatto, separati da interfacce nette di spessore infinitesimo; oppure possono essere uniti per adesione, anche tramite l’uso di un opportuno legante. Un composito è tipicamente formato da un materiale principale, che funge da matrice, il quale racchiude all'interno uno o più materiali, chiamati rinforzi o cariche, solitamente sotto forma di fibre (o anche in forma granulare, o come barre, o sferette, tondini, ecc.), che conferiscono all'insieme determinate proprietà aggiuntive, strutturali o funzionali, non possedute dalla singola matrice. Tanti altri compositi, però, non contengono una matrice, ma sono piuttosto costituiti da un insieme di materiali simili per dimensioni e forma, intrecciati tra loro, o magliati, o uniti in altro modo, se si tratta di fibre filiformi; oppure stratificati uno sopra l'altro, pressati o laminati.., se si tratta di superfici piane o curve. I materiali compositi possono essere di natura e qualità estremamente diverse (si pensi al rudimentale mattone di fango e paglia): possono essere costituiti, ad esempio, da matrici polimeriche, o metalliche, o ceramiche, o cementizie, possono avere rinforzi di vetro, o metallici, o polimerici, eccetera. Il “cemento armato” può essere visto come un classico materiale composito, in cui al calcestruzzo che funge da matrice sono aggiunti rinforzi metallici, di solito barre o grate di acciaio, che aumentano notevolmente la resistenza a trazione, della quale difetta il calcestruzzo (resistente alla compressione). I materiali compositi sono di fatto gli unici adatti per determinate applicazioni, ma possono anche sostituire i materiali più tradizionali in quasi tutti gli utilizzi. Spesso, infatti, quando si parla di un mobile, un oggetto o strumento realizzato in un determinato tipo di materiale (ad es: il vetro stratificato), in realtà si tratta già di un composito, in cui il materiale citato è il suo costituente principale. Attualmente le motivazioni che limitano l'impiego di materiali compositi riguardano soprattutto i costi dei materiali, i costi e i tempi e le difficoltà tecnologiche di produzione (quindi pure la complessità della forma e il costo dell’assemblaggio), e, in alcuni casi, la durata minore in vita del prodotto. ALCUNI BREVI ESEMPI DI MATRICI E RINFORZI IMPIEGATI (e qualche approfondimento) Matrici plastiche rendono il materiale composito molto leggero e ben resistente meccanicamente e chimicamente, ma allo stesso tempo pressoché inutilizzabile alle alte temperature. Fibre in materiale plastico, assai largamente diffuse nell'industria tessile (e non solo), si usano specialmente per la loro combinazione di leggerezza e resistenza meccanica a trazione (si pensi al kevlar). Sono facili da intrecciare (si possono ricavare le trame più disparate) e permettono di ottenere materiali compositi di spessori piccolissimi, riducendo, così, gli ingombri in fase di utilizzo. Le fibre di vetro sono utilizzate in molti tipi di materiali compositi a matrice polimerica (soprattutto matrici in resine epossidiche), mentre di solito non si utilizzano nei compositi a matrice metallica o ceramica, sia perché per la realizzazione del composito sarebbero necessarie temperature troppo elevate, che il vetro non sopporterebbe, sia perché altri tipi di fibre, tra cui 93
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quelle in carbonio, garantirebbero prestazioni migliori. Durante la fase di formatura, quando il vetro fuso è ancora viscoso e plastico, si ottengono le fibre tramite trafilatura (passano attraverso un ugello con diametro di uscita molto piccolo) e le si allungano mediante tiratura con un tamburo di avvolgimento. Le fibre vengono poi rivestite ciascuna con un film polimerico per evitare che, durante la loro sistemazione in fasci, essendo ancora in fase di raffreddamento, esse si fondano/uniscano tra loro. Per ottenere fibre di vetro di lunghezza ridotta, si può ricorrere invece alla colata per centrifugazione tramite un macchinario con un cilindro che ruota attorno al proprio asse, dotato di appositi canali radiali lungo lo spessore della superficie laterale. Il vetro fuso viene colato all'interno del cilindro e penetra nei canali laterali per effetto della forza centrifuga apparente, quindi proiettato fuori sotto forma di filamenti. Il vetro una volta prodotto in fibre di diametri piccoli, perde gran parte del suo carattere fragile, poiché nella sua struttura diminuisce la presenza di difetti (perciò meno zone di sovratensioni meccaniche), quindi si riduce il rischio di propagazione di microfratture. Pertanto, rispetto alle altre forme tradizionali del vetro, la fibra di vetro, pur non acquistando plasticità, risulta molto più flessibile e resistente meccanicamente, in grado di assorbire più energia per unità di volume, prima di arrivare a rottura fragile. Le fibre di vetro, così come quelle plastiche, possono essere selezionate per le loro proprietà ottiche, andando a costituire le fibre ottiche, un materiale composito utilizzato nelle telecomunicazioni, o in medicina nella diagnostica, o nell'illuminotecnica e nell'oggettistica decorativa.. Si tratta di lunghi filamenti, tra cui, quelli per applicazioni di maggior precisione, sono costituiti da due strati cilindrici cavi e concentrici (un nucleo e un mantello), in vetro o polimero, in grado di riflettere e così guidare il segnale luminoso lungo tutto il canale. I due strati hanno spessori e indici di rifrazione leggermente diversi (lungo lo spessore può esistere proprio un gradiente di indice di rifrazione). Il mantello ha soprattutto la funzione di impedire alla parte di luce non riflessa dal nucleo di fuoriuscire attraverso le pareti cilindriche laterali, quindi di rifletterla ancora all'interno del nucleo, assorbendo la parte restante. I due strati sono ulteriormente rivestiti da una o più guaine protettive, di solito in materiale plastico, che, oltre ad assorbire definitivamente le "onde luminose evanescenti", servono per isolare il più possibile termicamente, chimicamente e acusticamente la fibra ottica, conferendo pure resistenza meccanica all'insieme, senza comprometterne la flessibilità necessaria in fase di esercizio. Il legno, già di per sé un composito naturale (cellulosa e lignina sono due diversi polimeri naturali), in base al tipo di alberi da cui proviene, gode di buone proprietà di isolamento termico ed elettrico e di buone proprietà meccaniche, che sono sfruttate per produrre molti materiali compositi: diversi tipi di compensato, cioè materiali compositi lastrificati, di strati di legno anche diversi, uniti per pressatura o incollaggio (ad esempio, con colla fenolica); oppure pannelli in fibra di legno, detti pannelli di truciolato, ossia le fibre di legno sono ottenute da segatura o trucioli di legno di varie dimensioni, che vengono impastati con opportuni leganti, poi pressati e infine impiallacciati (cioè rivestiti con un foglio sottile di legno pregiato trattato o con un foglio polimerico); oppure mattoni di fibre di legno e cemento; ecc. In particolare, anche il sughero, leggero, dalle buone proprietà di isolamento termoacustico e di impermeabilità all'acqua (rallenta perfino la diffusione dei gas attraverso esso), può essere utilizzato in vari materiali compositi: ad esempio, in forma granulare, come carica da miscelare in un impasto di calcestruzzo per la coibentazione di pareti o pavimenti di edifici, in vece dei più costosi pannelli realizzati completamente in sughero. 94
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Le matrici ceramiche si usano per ottenere compositi altamente refrattari, che siano resistenti a temperature più alte di quelle sopportate dai materiali in matrice polimerica o metallica, e al tempo stesso siano più tenaci dei materiali ceramici tradizionali. Il principale problema relativo all'impiego di matrici ceramiche, deriva dalla necessità di inserire le cariche tenacizzanti durante il processo di sinterizzazione: durante la cottura, le cariche sono infatti un ostacolo fisico al naturale processo di densificazione dell’impasto ceramico, in più vanno evitate reazioni chimiche indesiderate tra le cariche e la matrice. In generale, i composti sfruttati come cariche in matrici ceramiche, sono gli stessi che allo stato puro permettono di realizzare i ceramici avanzati, ad es. l'allumina, il SiC, ... Possono essere usati anche rinforzi metallici, presenti come particelle disperse nel ceramico, o come fibre lunghe, laddove la duttilità e il basso coefficiente di snervamento del metallo, contribuiscano sensibilmente ad assorbire l'energia scaturita da una cricca, convertendola in lavoro di deformazione plastica: la cricca scarica quasi tutta la sua energia nel rinforzo metallico, invece di intaccare maggiormente o solamente la matrice ceramica. Utilizzare cariche metalliche può però risultare poco efficace, a causa della parziale fusione dei metalli durante la sinterizzazione del composto ceramico (si rischia soprattutto instabilità meccanica nel prodotto finale, perdendo il vantaggio di aver inserito i rinforzi metallici). Le tecniche per controllare il processo di produzione del composito ceramico, affinché l'interfaccia matrice-carica metallica non risulti troppo debole/fragile, sono molto complesse e costose. Si preferisce allora utilizzare i metalli sotto forma di speciali leganti per i ceramici, piuttosto che come fibre lunghe o come cariche disperse in particelle. Un composto neo-ceramico apprezzato anche come carica tenacizzante nei materiali compositi ceramici, è la zirconia o biossido di Zirconio (ZrO2), sostanza polimorfa per la quale è interessante non tanto il passaggio dalla struttura cubica, stabile sopra temperature elevatissime, alla tetragonale, quanto piuttosto il passaggio dalla struttura tetragonale a quella monoclina che è stabile al di sotto dei circa 1170 °C: questo passaggio avviene infatti con un’espansione del volume di circa il 3-4%, che può essere sfruttato sia per i materiali in lega di sola zirconia e ossidi di ittrio (o di magnesio; o di cerio se il prodotto finale ha scopi biomedici), sia per i materiali compositi in cui la zirconia funge appunto da carica tenacizzante. In breve, tramite specifiche aggiunte di ossidi e opportuni trattamenti termici, si può arrivare ad ottenere diversi cristalli di zirconia, che a temperatura ambiente permangono a struttura tetragonale (favorita da tensioni di compressione interne nel materiale), la quale però è solo parzialmente stabile, quindi, in determinate circostanze, questi cristalli tetragonali possono ancora convertirsi nella più stabile struttura monoclina. All’interno di un materiale composito ceramico, una carica di zirconia, che presenta vari cristalli tetragonali, funziona così: quando una cricca si propaga, sfiorando la carica di zirconia, ne allenta le costrizioni permettendo alle sue particelle di passare alla più naturale struttura monoclina, con conseguente espansione volumetrica. Aumentando di volume, le particelle di zirconia comprimono le superfici di propagazione della cricca, rallentandola, finanche a fermarla. E' questo fenomeno che migliora la tenacità del materiale, soprattutto nella fase iniziale in cui la cricca si sta allargando, poiché, dallo stato precedente di quiete, molte particelle di Zirconia vengono improvvisamente e velocemente coinvolte. Le particelle di zirconia, una volta espanse, possono anche fungere da ostacolo a eventuali nuove cricche, anche se, d'altro canto, sono in parte divenute esse stesse nuove sedi di tensioni locali, quindi di discontinuità/difetti nella struttura del composito ceramico. 95
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Un interessante esempio d’uso, in campo medico, della zirconia all’interno dei materiali compositi riguarda il suo impiego in compositi ceramici in matrice di allumina e cariche di zirconia adoperati in ortopedia, in particolare per protesi d'anca. Infatti, laddove nelle articolazioni il contatto zirconia-zirconia è risultato clinicamente fallimentare, l'aver inserito l'ossido di zirconio come carica tenacizzante nella matrice di allumina, ha permesso di aumentarne la resistenza meccanica, mantenendo l'insieme altamente biocompatibile e adatto all'utilizzo appunto nelle protesi. Fibre di carbonio: Tra le fibre più diffuse per materiali compositi vi sono quelle di carbonio, che è uno degli elementi più importanti al mondo, presente in natura in due forme allotropiche, grafite e diamante, tuttora oggetto di continui studi per ottenere sempre più nuovi materiali. Lo sviluppo dei materiali compositi si deve proprio allo studio delle fibre di carbonio (e alle fibre di vetro), studio finanziato inizialmente per scopi militari, ma che successivamente ha permesso la diffusione di tali fibre anche in ambito civile. La loro alta resistenza meccanica e alla deformazione elastica, combinate con il basso peso specifico del carbonio, le rendono infatti un punto di riferimento per le applicazioni su grossi volumi in velivoli aerospaziali o per imbarcazioni, per telai e altre componenti automobilistiche. Sono inoltre presenti come rinforzo principale di attrezzi sportivi, o come armature pregiate nei calcestruzzi armati, sono presenti in tante strumentazioni ingegneristiche, .. Le fibre di carbonio sono sottili filamenti composti di carbonio elementare, con configurazione del reticolo cristallino semplice o complessa a seconda delle tecniche di produzione impiegate, le quali si sono basate sullo studio della struttura di tipo grafitica del carbonio. La grafite, infatti, ha cella elementare di tipo esagonale piana, che rende il materiale fortemente anisotropo, con buonissima resistenza a trazione lungo i piani cristallini, ma notoriamente fragile/lavorabile in direzione ortogonale ad essi: i piani cristallini adiacenti sono legati tra loro dalle più deboli forze di Van Der Waals, quindi i piani sono staccabili mediante l'applicazione di piccoli sforzi di taglio. Così, a differenza della struttura del diamante, a cella elementare tetraedrica spaziale, quella della grafite si presta meglio ad essere modificata, permettendo al carbonio di assumere altre forme. In base alla configurazione del reticolo, tali fibre possiedono, quindi, proprietà molto variabili: ad esempio, se confrontate con un acciaio medio, possono avere modulo elastico ad esso paragonabile, oppure maggiore di tre volte; possono avere una resistenza a trazione di circa il triplo di quella dell'acciaio, oppure maggiore di circa dieci volte.. Le fibre di carbonio sono prodotte per modificazione di fibre organiche, in pratica polimeri sintetici, oppure sono ottenute a partire da residui della distillazione del petrolio o del catrame. Pertanto, si usa parlare di fibre di carbonio Pan-based, se il precursore è un polimero plastico, o pitch-based, se le fibre derivano dalla pece. Quasi tutte le fibre di carbonio commerciali sono prodotte convertendo un precursore di carbonio in forma fibrosa. Successivamente la fibra del precursore viene reticolata per renderla infondibile (modificando i legami tra il carbonio e gli altri elementi, permettendo così agli atomi di carbonio di catene diverse di legarsi tra loro, ecc.), infine, il precursore reticolato viene riscaldato a temperature elevate (fino anche a 3000 °C) in atmosfera inerte, per eliminare tutti gli elementi non carboniosi. Due dei precursori più utilizzati, come base di partenza per le fibre di carbonio, sono il poliacrilonitrile (PAN), polimero sintetico dell'acrilonitrile, ormai poco utilizzato direttamente, e il Rayon, nome commerciale di un altro polimero sintetico (già citato a proposito della cellulosa, nel capitolo sui polimeri). Entrambi 96
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contengono infatti un'alta percentuale di atomi di carbonio e possiedono le caratteristiche termochimiche necessarie ad affrontare i processi di trasformazione (ad esempio, i loro atomi di carbonio presentano legami facilmente scindibili). Le proprietà finali delle fibre di carbonio sono determinate dal tipo di precursore scelto, dalle condizioni e tecniche eseguite per convertirlo in forma di fibre, dalle temperature utilizzate e dalla forza di trazione esercitata sulle fibre stesse (trazione non necessaria per le pitch-based) durante le varie fasi del processo di reticolazione e di eliminazione degli elementi non carboniosi, e dall'attento controllo del grado e della qualità di reticolazione della struttura cristallina. Dalla produzione di fibre di carbonio pan-based, si può arrivare ad ottenere fibre di diametri piccoli fino a circa 7 micrometri. La struttura cristallina reticolata tende ad essere simile a quella del suo precursore plastico, quindi non risulta perfettamente regolare, con strati ondulati e anche parzialmente avvolti tra loro, specie internamente alla fibra e meno in prossimità della sua superficie esterna. Tutto ciò è maggiormente evidente lungo una sezione ortogonale all'asse della fibra e di conseguenza il modulo elastico non risulta del tutto uniforme lungo tale direzione. In base alla bontà del processo di produzione, in direzione assiale le irregolarità sono invece assai ridotte e l'orientamento degli strati di carbonio tende proprio ad essere parallelo all'asse stesso della fibra, a vantaggio della resistenza a trazione, però alcuni disallineamenti permangono, così, quando la fibra viene sottoposta ad una trazione in direzione assiale, gli strati meno allineati e più ondulati della struttura, che dapprima rispondono distendendosi, sono poi comunque la causa stessa di rottura della fibra (sulla sezione della fibra la trazione non è più uniforme e lungo le varie irregolarità si formano sforzi di taglio dannosi..). Al contrario, se la fibra è soggetta a compressione, tali ondulazioni e avvolgimenti, sono motivo di una migliore resistenza (rispetto ad una fibra priva delle suddette ondulazioni). La disposizione degli strati del reticolo all'interno di una fibra, in particolare la loro configurazione trasversale, influisce non solo sulla resistenza meccanica, ma anche su altre proprietà, tra cui la conduttività termica, quella elettrica e in parte anche quella acustica. Si possono ottenere più comunemente sezioni trasversali a strati casuali, o radiali, ma, soprattutto per le fibre picth-based, anche sezioni a strati concentrici o a strati di direzioni pressoché parallele, .. Quindi, così come pure per le fibre di altri tipi di materiale, una sezione con strati concentrici conduce meglio il calore rispetto a una sezione a strati radiali o disposti in modo casuale, mentre una sezione trasversale a strati radiali o paralleli conduce meglio la corrente elettrica, più di quanto non faccia una sezione trasversale a strati concentrici, ecc. Recentemente, grazie ai finanziamenti europei per la ricerca scientifica, si sta portando avanti lo sviluppo del Grafene, nome dato ad una forma/struttura del carbonio, che lo rende un materiale altamente innovativo e potenzialmente rivoluzionario: è trasparente, leggerissimo ma resistente, impermeabile ai fluidi tradizionali (liquidi e gassosi), capace di condurre energia (calore, elettricità..) e con cui si possono ideare materiali compositi avanzati, ad elevate prestazioni. Il grafene, conosciuto già a partire dagli anni '60, è stato isolato per la prima volta nel 2004 da due fisici, che lo hanno anche utilizzato per realizzare un transistor (hanno ricevuto il premio Nobel nel 2010). In pratica si tratta di un materiale costituito da un singolo foglio di grafite, cioè un unico strato planare a celle esagonali ultrasottile (ha lo spessore di un atomo di carbonio), ottenuto per esfoliazione della grafite stessa (essa, appunto, è proprio composta di questi numerosissimi fogli legati e attorcigliati/avvolti tra loro). Le proprietà del grafene risiedono nella perfetta distribuzione 97
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degli atomi di carbonio nel piano, i quali sono tenuti insieme tra loro da legami molto forti, in grado di conferire al grafene una durezza (resistenza alla penetrazione, abrasione..) confrontabile con quella del diamante. Al tempo stesso, tali legami permettono una grandissima flessibilità del foglio, compreso un suo stiramento fino a circa il 20% della dimensione originale, lungo una delle direzioni del piano stesso. Inoltre, mentre tre dei quattro elettroni di valenza di ogni atomo di carbonio, presente nel piano, formano i legami con i tre atomi di carbonio adiacenti, il quarto elettrone è in grado di muoversi liberamente in tutto il grafene. Perciò il grafene può condurre l'elettricità in modo eccezionale (gli elettroni scorrono sul piano quasi come se viaggiassero nel vuoto), tanto che molte delle sue potenziali applicazioni riguardano l’elettronica ad alta frequenza, la costruzione di touch-screen (trasmette circa il 98% della luce incidente), di celle solari, di sensori flessibili, e tanto altro. Inoltre il monostrato di carbonio del grafene può fungere da base a vari tipi di fullereni (altre forme allotropiche del carbonio), alcuni dei quali chimicamente stabili: può essere avvolto su se stesso fino a formare un cilindro (nanotubi), oppure essere ripiegato a formare una sfera, eccetera. Dal grafene, infatti, asportando uno o più atomi di carbonio, si possono ottenere celle pentagonali (od anche ottagonali), che fanno perdere al foglio la natura planare, permettendo di creare nuove forme. Basta già, ad esempio, che il foglio contenga una sola cella pentagonale, che esso "cade" disponendosi a cono, in cui il pentagono ne costituisce la punta. Al grafene si possono anche sostituire atomi di carbonio con altri elementi, dando vita a ulteriori tipi di sostanze con varie proprietà.. Finora, per ricavare il foglio di grafene, il metodo più semplice di esfoliazione della grafite è di tipo meccanico, mediante l'ausilio di un adesivo, sul quale si fa aderire sottili strati di grafite. Si ripiega poi l'adesivo su se stesso, facendo aderire la faccia di grafite lasciata scoperta e si riapre l'adesivo, cercando così di suddividere la grafite in strati sempre più sottili, arrivando ad ottenere l'adesione di fogli dello spessore di un atomo. L'impronta di grafene, così rimasta sull'adesivo e individuata tramite strumenti di microscopia ottica, viene poi traferita su una superficie isolante (ad esempio, su un substrato di ossido di silicio). Esistono alcuni altri metodi di esfoliazione, ad esempio per via chimica a partire da ossidi di grafene, ma attualmente l'esfoliazione meccanica è il procedimento tra essi più semplice e meno dispendioso (quello per via chimica produce anche scarti tossici). Tuttavia tale metodo non è applicabile su scala industriale, sia per i costi assoluti elevati, sia per le dimensioni microscopiche, in partenza, dei fogli che si riescono ad ottenere. Si teme che dovranno passare anni prima che si possa realmente utilizzare il grafene su larga scala e a costi contenuti. Il problema principale è proprio riuscire ad ottenere, in modo economicamente competitivo, fogli di dimensioni superficiali adeguate alle possibili applicazioni del grafene (immaginate le felici implicazioni, una volta che si sarà in grado di realizzare, più facilmente di adesso, anche il grafene a doppio strato). Nel frattempo, le potenzialità del grafene, che risulta essere il primo vero e proprio materiale bidimensionale esistente al mondo, vengono valutate attraverso simulazioni al computer: ad esempio, si è capito come poche percentuali in massa di rinforzi di grafene in una matrice polimerica, possano aumentare notevolmente la tenacità del materiale composito così ottenuto (più del 50%); o come tramite fogli di grafene, opportunamente forati, si possano realizzare filtri per la desalinizzazione dell'acqua, con metodi molto più economici di quelli ad osmosi inversa, le cui membrane, necessariamente ben più spesse, richiedono pressioni molto elevate (con una membrana di grafene, dai fori di dimensioni personalizzate, basterebbero pressioni minori); ecc. . 98
CAPITOLO 8 - LEGANTI
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LEGANTI (tra cui i cementi) IN EDILIZIA
Il termine “legante” è spesso e un po' impropriamente utilizzato come sinonimo di adesivo o collante, per indicare genericamente varie sostanze chimiche, che servono a far aderire/incollare reciprocamente materiali anche tra loro differenti e che vengono applicate quasi esclusivamente alla fine del processo di produzione dei materiali stessi. Invece, nel settore delle costruzioni edilizie, con legante si identifica principalmente un materiale che, impastato con acqua e miscelato con sostanze/aggregati tendenzialmente inerti (soprattutto sabbie e/o pietrisco), plasticizza, per poi indurire progressivamente nel tempo fino a raggiungere un'elevata resistenza meccanica (esistono materiali, ad esempio il bitume, che possono indurire anche se non vengono miscelati con acqua). Il legante viene quindi utilizzato a scopo prevalentemente strutturale per legare/cementare insieme diversi materiali (ad es. laterizi, o pietre e altre rocce, o metalli..) formando un blocco unico. I leganti si dividono in due categorie: leganti aerei e leganti idraulici. I leganti aerei induriscono soltanto in ambiente aeriforme, mentre i leganti idraulici induriscono anche in acqua. Comunque, una volta induriti, anche i leganti aerei sono abbastanza resistenti a contatto con l'acqua. Sono leganti aerei ad esempio la calce (detta anche calce viva o calce aerea) e il gesso, mentre la calce idraulica (da non confondere con la calce idrata o spenta) e il cemento sono leganti idraulici. Una volta che il legante è stato opportunamente miscelato con l'acqua e gli altri componenti, nel processo di irrigidimento del conglomerato o agglomerato (usandolo come suo sinonimo), così ottenuto, si possono distinguere due fasi: la presa e l'indurimento. La presa è la fase in cui la sospensione fluida si trasforma in una massa via via più rigida, in grado di trattenere la forma iniziale conferitale. Tale fase ha una durata che va da pochi minuti (presa rapida) alle decine di ore/giorni (presa lenta). L'indurimento è la successiva fase di miglioramento progressivo e indefinito nel tempo delle proprietà meccaniche della massa stessa. Alla fine il materiale acquisterà un'ottima resistenza a compressione, meno buona invece a trazione e a flessione. Nota: In lingua inglese si usa parlare di "initial setting time", riferendosi più precisamente al periodo di tempo dopo il quale un agglomerato inizia a far presa (istante in cui inizia ad essere difficoltosa ogni altra azione sull'agglomerato) e di "final setting time", periodo di tempo oltre il quale si può considerare terminata la presa e quindi iniziato l'indurimento. Infatti, ciò che interessa veramente, dal punto di vista applicativo, è che un agglomerato: 1) permetta facilmente la posa e la lavorabilità (quindi, per la scelta dei suoi componenti e delle loro percentuali si calcola adeguatamente dopo quanto tempo esso debba iniziare a “far presa”); 2) indurisca abbastanza velocemente, lasciando però prima il tempo necessario per ultimare tutte le lavorazioni (quindi si deve poter valutare anche un'opportuna durata della presa, oltre la quale, final setting time, inizia l’indurimento e non è più possibile compiere ulteriori azioni meccaniche senza rovinare l'agglomerato stesso). In edilizia, si usa distinguere gli agglomerati da costruzione in malte e calcestruzzi. Entrambi i composti sono ottenuti miscelando leganti, acqua e aggregati, ma vengono chiamati malte se la dimensione massima delle particelle dei vari aggregati non supera i 5 mm circa, calcestruzzi se le particelle hanno pure dimensioni più grandi. Nelle malte si impiegano quindi sabbie varie e polveri fine, mentre nei calcestruzzi sono presenti anche aggregati grossi (ad esempio, pietrisco). 99
CAPITOLO 8 - LEGANTI
Calce La calce, CaO, è il legante aereo di partenza necessario per ottenere quasi tutti i tipi di conglomerati finali. Viene prodotto per decomposizione del carbonato di calcio, CaCO3 , presente in gran quantità nelle rocce calcaree, che vengono frantumate e inserite dall'alto in un forno a tino a funzionamento continuo, con temperature attorno ai 900 °C. Con la cottura, si ha la cosiddetta calcinazione delle rocce, cioè il carbonato di calcio si decompone in anidride carbonica e calce, la quale assume un aspetto biancastro. La calce viene poi stoccata (immagazzinata), così com'è o ridotta in polvere, sigillandola in appositi contenitori ermetici, per conservarla inalterata, poiché essa reagisce spontaneamente con l'anidride carbonica ed è fortemente igroscopica (la calce assorbe facilmente l'acqua, ma soprattutto reagisce con essa). Quando arriva il momento di utilizzare la calce come legante, essa viene fatta reagire con acqua, producendo idrossido di calcio, Ca(OH)2 , detto anche calce spenta o calce idrata. Lo spegnimento della calce (la cui bontà e velocità del procedimento, oltre che dal quantitativo d'acqua, dipendono dalla temperatura di cottura subita dalla roccia calcarea e dal grado di finezza e qualità della calce ottenuta), avviene con notevole rilascio di calore (si vedono fuoriuscire un misto di fumi bianchi e vapore acqueo poiché parte dell'acqua evapora ancor prima di poter reagire con la calce). La reazione la si fa sempre avvenire con un eccesso d'acqua, sia per evitare che la calce spenta reagisca subito con l'anidride carbonica presente nell'atmosfera, sia perché la massa ottenuta risulti più pastosa e plastica. Tale pasta viene chiamata grassello di calce. Per valutarne approssimativamente la qualità, si definisce una resa di grassello, pari al rapporto tra il volume del grassello e la massa della calce viva inizialmente utilizzata. Per misurare il volume del grassello, si aspetta che esso abbia assorbito tutta l'acqua che può e che, successivamente asciugandosi, inizi a ritirarsi appena di volume, mostrando le prime fessurazioni e crepe sulla sua superficie esterna. Calci grasse hanno una resa di grassello superiore a 2.5 m3/t, calci magre hanno una resa di grassello inferiore a 2.5 m3/t e superiore a 1.5 m3/t. Quindi le calci grasse hanno un contenuto d'acqua maggiore di quelle magre. Le calci grasse sono migliori, più pastose, più aderenti e untuose al tatto. Invece, se le calci sono troppo magre, risulta difficoltoso il successivo miscelamento con aggregati e quindi si otterranno conglomerati poco adatti a cementare. La presenza non voluta di ossidi, in particolare di magnesio, riduce il volume iniziale del grassello, poiché l'ossido di magnesio fa assorbire acqua molto lentamente e rigonfia poco in seguito all'idratazione (quindi rende più magra la calce).
Malta di calce (aerea) Per ottenere la malta di calce si miscelano volumi di grassello di calce e volumi di sabbia (ad es. calcarea o silicea), più eventuali additivi, in proporzioni tali da rendere l'impasto ben lavorabile, omogeneo e facilmente spalmabile, ma nello stesso tempo in grado di rendere meccanicamente resistente la malta, una volta asciutta. Di solito per 1 volume di grassello si usano 2 - 3 volumi di sabbia, la quale deve avere granuli resistenti, non friabili, di granulometria diversificata (sempre però sotto i 5 mm circa), affinché, una volta miscelata a formare la malta, i grani di dimensione più piccola si dispongano nei vuoti lasciati da quelli più grossi, riducendo così la porosità finale della malta stessa. Si suole pure distinguere approssimativamente le malte (anche quelle idrauliche) in grasse e magre, in base al rapporto in massa tra il legante di partenza e gli aggregati aggiunti. 100
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Malte grasse hanno un rapporto calce/sabbia di circa uno 1:2, mentre malte magre hanno un rapporto di circa 1:3. Quindi, le malte contengono sempre una quantità maggiore di aggregati che di legante, ma le malte grasse hanno più legante di quelle magre. Non si deve inoltre confondere il significato di calci magre/grasse con quello di malte magre/grasse, poiché si possono avere ad esempio malte grasse confezionate con calce magra, e viceversa (cioè, nel primo caso, malte con più calce, la quale però contiene poca acqua, oppure viceversa, malte con meno calce, ma che contiene più acqua). Nonostante le varie definizioni, uno dei metodi più tradizionali usati in edilizia, per la dosatura dei componenti di una malta, resta la misura del loro volume, non necessariamente espresso in un'unità di misura oggettiva (ad esempio, si sente dire "un secchio di grassello e due di sabbia"). Un altro metodo più corretto e usato soprattutto per la preparazione del grassello di calce, prima che della malta stessa, è quello di misurare l'acqua in litri e di dosare il legante in chilogrammi per metri cubi di sabbia che si vorrà successivamente aggiungere. La presa della malta incomincia con l'evaporazione dell'acqua dall'impasto, mentre, grazie alla presenza di CO2 in atmosfera, l'indurimento avviene per carbonatazione della calce idrata, ossia la sua conversione in carbonato di calcio (CaCO3), cha salda tra loro i vari costituenti della malta. Infatti, l'anidride carbonica è solubile in acqua e si dissocia formando l'acido carbonico H2CO3 , il quale di per sé è poco stabile e in presenza dell'idrossido di calcio (fortemente basico) reagisce a formare il carbonato di calcio, che è un sale molto meno solubile e che cristallizza più facilmente. La formula chimica che riassume il processo di carbonatazione è: Ca(OH)2 + H2O + CO2 Ca(OH)2 + H2CO3 Ca2+ + 2OH- + 2H+ + CO32- CaCO3 + 2H2O (analoga ma meno utile/efficace nel processo di indurimento è la reazione di carbonatazione delle impurità di ossido di magnesio, presenti nella calce iniziale). Naturalmente la carbonatazione degli strati superficiali avviene più rapidamente, procedendo poi verso l'interno, ma sempre più lentamente. Infatti il velo di carbonato di calcio, che si forma attorno alle particelle di calce idrata, in parte le scherma e in parte fa diminuire la porosità della malta, quindi ostacola il progredire della carbonatazione. E siccome con l'avanzamento del processo, la malta perde diverse molecole d'acqua corresponsabili della carbonatazione stessa (le perde inoltre più per evaporazione, che per assorbimento da parte di materiali più secchi a contatto con essa), resta così spiegato perché all'interno di vecchie murature sia possibile riscontrare ancora oggi la presenza di idrossido di calcio non carbonatato. Per accelerare il fenomeno della presa, si può aumentare il tenore di anidride carbonica nell'ambiente, mentre affinché la carbonatazione possa continuare ad avvenire più in profondità nella malta, è necessario che l'impasto conservi un certo grado di umidità, quindi i materiali destinati ad essere legati dalla malta (ad es. i mattoni) vengono bagnati prima di essere messi in opera, in modo che essi non sottraggano acqua all'impasto. Le malte di calce (e sabbia) servono prevalentemente per formare piani di posa fra i vari elementi costruttivi, collegandoli fra loro saldamente, oppure per realizzare intonaci (che sono uno strato di rivestimento protettivo ed estetico, spesso al massimo pochissimi millimetri, su cui si possono anche applicare varie pitture). Ad ogni modo, le malte di calce aerea presentano caratteristiche meccaniche piuttosto inferiori alle malte idrauliche. 101
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Gesso Il tipo di gesso naturale impiegato per produrre il legante omonimo è il solfato di calcio biidrato, CaSO4•2H2O, che è un minerale abbastanza leggero e molto tenero (di bassa durezza). Dopo la macinazione e la raccolta in silos, viene chiamato gesso crudo per distinguerlo dal tipo di gesso ottenuto post cottura. Infatti il gesso viene cotto in diverse tipologie di forni e con diversi valori di temperatura dando vita a diverse forme di gesso cotto, aventi molecole parzialmente oppure completamente disidratate (quindi dai forni, oltre ad eventuali gas e scorie che fuoriescono in caso d’uso di combustibile, fuoriesce sempre vapore acqueo). Per cottura in un range di temperature attorno ai 128 °C, si ottiene esclusivamente solfato di calcio semiidrato (ha perso una molecola e mezzo di acqua), il quale è catalogato in due gradi di perfezione e accrescimento dei cristalli (alfa, a presa rapida, e beta, a presa lenta), mentre attorno ai 163 °C e oltre, si ottengono vari tipi di solfato di calcio anidro (CaSO4), completamente disidratate, di cui le anidriti ottenute al di sopra dei 500 - 600 °C sono totalmente insolubili e tendenzialmente inerti (tali anidriti insolubili iniziano a formarsi già attorno ai 250 °C), quindi non fanno presa, a meno dell’uso di opportuni catalizzatori e additivi. (Attorno ai 1000 °C il gesso inizia anche a dissociarsi parzialmente in ossido di calcio, e, a temperature ancora più alte, fonde e poi si dissocia completamente). Gli unici tipi di gesso cotto, che si utilizzano a livello industriale come leganti (con velocità di presa anche molto diversa da gesso a gesso), sono quindi soprattutto i solfati di calcio semiidrati (o emiidrati) e in parte le anidriti solubili (che sono meno reattive). I semiidrati e le anidriti solubili sono le uniche forme di gesso cotto che, in presenza di acqua, sono capaci di reidratarsi, combinandosi quindi a riformare il solfato di calcio biidrato (o semplicemente detto gesso biidrato), molecolarmente identico al gesso naturale precedente alla cottura. La presa si ottiene grazie alla maggiore solubilità in acqua del gesso cotto (anidriti insolubili escluse) rispetto al gesso biidrato. Infatti, una volta che i semiidrati o le anidriti solubili sono mischiati in acqua, essi tendono a disciogliersi nell'acqua stessa, formando una soluzione in cui più facilmente riacquistano molecole d'acqua, ricostituendo il gesso biidrato, che cristallizza in masse aghiformi, rapidamente indurenti. Mentre parte del gesso cotto continua a disciogliersi nell'acqua, la parte già disciolta si reidrata, quindi diminuiscono le molecole d'acqua e al tempo stesso aumentano quelle di gesso biidrato, la soluzione inizia a sovrassaturare e alla fine l'intero impasto risulta costituito da solfato di calcio biidrato. La quantità d’acqua necessaria per trasformare tutto il semiidrato in biidrato si aggira sul 25% in massa della polvere di gesso cotto, ma tale quantità d'acqua viene notevolmente aumentata per avere una presa più lenta ed un impasto più lavorabile. A seconda che i gessi siano macinati grossi o fini, si può adoperare percentuali d'acqua che vanno dal 65% al 75% in massa, fino anche all'80 ÷ 85%, ma non oltre, poiché un impasto troppo fluido darebbe vita ad un gesso troppo poroso, igroscopico e meno meccanicamente resistente. Al gesso impastato con eccesso d'acqua, per qualsiasi scopo venga adoperato, durante la fase di indurimento se ne lascia esposta una superficie per permettere all'acqua rimasta di evaporare (stagionatura del gesso), o comunque gli si permette di asciugare in qualche altro modo. Inoltre, siccome anche il gesso biidrato, può dissociarsi in presenza di acqua, il conglomerato che ne deriva viene poco utilizzato su facciate direttamente esposte in fase di esercizio, poiché tenderebbe ad assorbire umidità, rigonfiandosi o ripiegandosi localmente, peggiorando sia in resistenza meccanica che in eleganza estetica. Tuttavia 102
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malte di gesso direttamente esposte all'aria, possono essere scelte laddove lo scambio di particelle d'acqua tra ambiente e gesso, permetta di mantenere un certo grado di umidità nell'ambiente stesso: quando l'aria è più umida il gesso assorbe acqua, formando soluzioni superficiali sul suo strato esposto, mentre quando l'aria è più secca, il gesso rilascia le particelle d'acqua secondo i soliti fenomeni di evaporazione superficiale dell'acqua, legati alla tensione di vapore, alla temperatura dell'ambiente, eccetera, (si dice perciò che il gesso è un materiale che "respira"). La presa e l'indurimento avvengono sempre con un leggero aumento di volume del gesso, che può quindi assumere facilmente forme anche complesse, poiché aderisce e riempie bene le pareti dello stampo in cui viene inserito (calchi in gesso si usano pure in odontoiatria). In edilizia, il gesso è adoperato soprattutto come intercapedine del materiale composito noto con il nome di cartongesso: si spalma la miscela di gesso, acqua e additivi vari (ad es. per aumentare l'isolamento termo-acustico o il controllo dell'umidità) sulla lastra inferiore di cartoncino, che scorre su un nastro trasportatore, poi sopra vi si applica la seconda lastra di cartoncino, formando il sandwich "carta-gesso-carta", che prosegue il percorso, viene tagliato/lavorato, finendo in un essiccatoio dove avvengono i trattamenti finali. Il cartongesso si utilizza soprattutto per il suo basso costo, la facilità e la velocità con cui può essere lavorato, installato e rimosso, e perché gode comunque di buona resistenza meccanica (si usa anche per pareti divisorie), ha discrete proprietà di isolamento termico e le sue caratteristiche possono essere migliorate/personalizzate in fase di produzione del composito. Gli svantaggi sono prevalentemente di natura meccanica, poiché il cartongesso non si presta a ricevere chiodi, viti ecc., ed è sensibile alle ammaccature. Ormai, si preferisce utilizzare esclusivamente malte di calce, le quali danno prestazioni e vantaggi maggiori sia in fase di produzione degli agglomerati, sia in fase di esercizio, ma tuttavia il gesso può essere aggiunto nel grassello di calce in rapporti di circa 1:3 finanche a 1:2 con la calce, ottenendo una malta "bastarda" da intonaco dalle prestazioni migliori, poiché il gesso contribuisce ad accelerare la presa dell'impasto, ad asciugarlo prima (quindi si velocizza anche l'indurimento), e ad aumentarne la resistenza meccanica finale. Paste a base di gesso come legante vengono comunque scelte anche per formare direttamente blocchi e altri elementi per tramezze e pavimenti, oppure vengono usate per stucchi, o in medicina e in vari altri campi per realizzare calchi e stampi (in ortopedia, per le fasciature rigide, si immergono le garze in un impasto a base di gesso finissimo e additivi che regolano la velocità di presa e la resistenza finale..), in arte anche per la modellistica..
Calce idraulica La calce idraulica è un legante idraulico che contiene una certa quantità di calce spenta, più percentuali di silicati, alluminati e alluminoferriti di calcio, i quali conferiscono all'insieme le proprietà di cementante idraulico: mantengono uniti i vari costituenti del legante e, a contatto con l'acqua, si ricombinano in idrati vari (tra cui silicati di calcio idrati e alluminati di calcio idrati), i quali, cristallizzando, indurendo ed essendo stati formati catturando molecole d'acqua, impediscono alla pasta di sfaldarsi, anche qualora essa stesse facendo presa mentre è completamente immersa in acqua. Con l'idratazione dei silicati, oltre alla formazione di silicati di calcio idrati, viene rilasciato idrossido di calcio, che, insieme a quello già presente inizialmente 103
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nella calce idraulica, può carbonatare (purché vi sia anidride carbonica nell'ambiente) . Come materiale di partenza per ottenere il legante idraulico, si utilizzano rocce calcaree in cui, a differenza delle rocce scelte per le calci aeree, siano presenti rilevanti quantità argillose (da poco più del 5% fino anche a circa il 22% in massa). Le tipologie di fornaci utilizzate sono analoghe a quelle adoperate per produrre la calce aerea. La principale differenza sta nell'innalzamento della temperatura di cottura fino attorno ai 1000 - 1100 °C, creando una situazione in cui parte dell'ossido di calcio, decompostosi dal carbonato di calcio (attorno ai 900 °C), si lega con i prodotti della decomposizione dell'argilla, formando i vari composti responsabili delle proprietà idrauliche del legante finale. La calce risultante è costituita da calce viva, più la frazione "idraulica" formata prevalentemente da alluminato monocalcico, CaO•Al2O3 , e da silicato bicalcico, 2CaO•SiO2 , e da altri composti in percentuali minori, più la parte restante di composti che non hanno subito reazioni o che, a causa della temperatura di cottura, sono diventati inerti (possono eventualmente fungere da futuri aggregati, oppure essere rimossi per setacciatura, ecc.). Tra questi ultimi c'è lo stesso ossido di calcio, poiché, essendo stata fatta una cottura a temperature più alte di quelle per la tradizionale calcinazione, parte di esso sinterizza (a causa di temperature localmente ancora più alte), o comunque si densifica, divenendo meno poroso e meno igroscopico, abbastanza da risultare difficilmente reattivo alla successiva fase di spegnimento in acqua (la quale oltretutto penetra più faticosamente). Per capire all'incirca la bontà del materiale crudo di partenza e di conseguenza la qualità della calce da esso ottenibile, si può ricorrere all'indice o grado di idraulicità delle rocce (non solo di quelle calcaree) e delle loro polveri, eccetera, indice che è valido anche per i cementi:
Esso tiene conto anche delle eventuali impurità presenti nell'argilla (soprattutto ossidi di ferro) e di quelle dovute a ossidi presenti nel calcare (quali l'ossido di magnesio). Indici di idraulicità tra 0.10 e 0.50 definiscono approssimativamente il range in cui si considera calci idrauliche le calci ottenibili, le quali hanno durata della presa in acqua che varia da circa 30 giorni per gli indici bassi ai 4 giorni circa per gli indici alti. Le calci aeree hanno invece indice di idraulicità inferiore a 0.10, mentre si iniziano a considerare cementi normali quelle calci idrauliche con indice superiore a 0.50, per poi arrivare fino ai cementi a presa rapida che hanno indice circa pari a 0.95 ÷ 1.20. Esistono, ovviamente, classificazioni specifiche e più importanti introdotte dalle norme internazionali (ad esempio, dalle norme UNI EN), che tengono conto sia dei componenti dei leganti, sia di tutta una serie di parametri calcolati su provini, eccetera (anche e specialmente per i cementi). Dopo la cottura, lo spegnimento della calce viva, contenuta nella miscela, richiede tempi maggiori di quelli necessari per le calci aeree, soprattutto perché l'acqua da utilizzare per lo spegnimento deve essere somministrata in modo da evitare il più possibile di idratare i silicati, gli alluminati, eccetera, anch'essi presenti (la loro idratazione servirà solo in fase di utilizzo della successiva malta o calcestruzzo). E’ consuetudine, pertanto, disporre la miscela su un nastro trasportatore, in modo che essa si distenda a formare uno strato di spessore ridotto, poi la si innaffia, spruzzando acqua in quantità sufficiente solo a garantire la più completa conversione possibile dell'ossido di calcio in idrossido di calcio. Si cerca anche di conservare e di sfruttare il calore prodotto dallo spegnimento, perché contribuisca alla fase di essicazione della massa, la 104
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quale necessita di una lunga stagionatura in ambiente controllato. Poi, quando il legante è completamente asciutto, esso viene macinato in attesa di essere impiegato per preparare la malta o il calcestruzzo idraulici. Calci idrauliche si possono ottenere anche in altri modi, ad esempio dalla cottura delle marne (rocce che rispetto a quelle calcaree hanno un contenuto circa pari di carbonati e di argilla); oppure dal miscelamento artificiale di polveri di calcare e di argilla (e successiva cottura, ecc.), che però risulta un'opzione meno economicamente vantaggiosa; oppure dal miscelamento omogeneo di calce idrata e pozzolana, od anche di calce idrata e loppa basica granulata. La pozzolana (che deve il nome a Pozzuoli, NA) è un materiale di origine piroclastica, di granulometria variabile, dalla sabbia a dimensioni più fini, conosciuto, insieme al cocciopesto, fin dall'epoca dei romani per la sue proprietà idrauliche in presenza di calce. Ha una composizione chimico-fisica diversa da luogo a luogo, perché dovuta anche alla presenza, al suo interno, di pomici e altre scorie vulcaniche: è quindi costituita per il 60% ÷ 90% da silice, allumina e loro composti, il resto soprattutto da altri ossidi (specialmente di ferro). La pozzolana ha un carattere fortemente acido, in acqua da sola non indurisce, mentre se è presente anche idrossido di calcio (basico), reagisce con esso formando silicati di calcio idrati e alluminati di calcio idrati (gli stessi presenti nella calce idraulica vera e propria e nei cementi). Questa capacità della pozzolana di conferire alla calce idrata le proprietà di legante idraulico, si riscontra anche in altre sostanze naturali e in derivati o sottoprodotti industriali, i quali vengono quindi definiti materiali a comportamento o attività pozzolanica. Il cocciopesto è un materiale derivato dalla macinazione fina di laterizi (tegole e mattoni), che si può considerare come una pozzolana artificiale, dalle proprietà idrauliche simili (sempre se mischiato con calce spenta), ma inferiori, quindi è utilizzato prevalentemente insieme alla pozzolana stessa. Il cocciopesto è comunque apprezzato sia per questioni economiche ed etico-ambientali (viene prodotto riciclando laterizi altrimenti da smaltire), sia per il suo utilizzo nel restauro del patrimonio edilizio storico (soprattutto romano). La loppa è invece un sottoprodotto del processo di produzione della ghisa in altoforno, dalla composizione chimica molto variabile (dipende ad es. dai fondenti utilizzati per ottenere la ghisa): contiene alte percentuali di silice e di ossidi di calcio, più altre inferiori di allumina e ossidi di magnesio, il resto è fatto di altri ossidi di metalli e in parte di zolfo. Se prevalgono le percentuali di ossidi di calcio e altri composti basici, rispetto alla silice, allora la loppa risultante ha carattere basico. Quest’ultima, per essere sfruttata come legante, all'uscita dall'alto forno, quando è ancora liquida, viene raffreddata bruscamente, acquistando struttura vetrosa (per la silice amorfa), con granuli porosi che vengono in seguito macinati finemente per essere miscelati con calce idrata o con alcuni tipi di cementi. A differenza della pozzolana, la loppa basica, se mescolata con acqua, riesce ad indurire anche in assenza di idrossido di calcio, ma molto lentamente, quindi difficilmente viene utilizzata da sola, mentre in combinazione con la calce idrata contribuisce a migliorare la resistenza meccanica finale della massa indurentesi. Gli svantaggi, usando la loppa, possono riguardare i tempi più lunghi di presa e indurimento, e il fatto che la massa indurita, in fase di esercizio e in particolari condizioni di dilavamento della stessa (soprattutto per l'azione erosiva dell'acqua di mare), possa cedere ioni metallici all'ambiente (rischio di inquinamento). In un certo senso, pozzolana e cocciopesto, oppure la loppa basica, o altre sostanze simili, possono essere considerate come delle sabbie speciali, da utilizzare insieme o al posto delle sabbie inerti, formando malte idrauliche migliori (quantomeno rispetto alle malte aeree). 105
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Cemento Il cemento è il legante idraulico per eccellenza, la cui costituzione di base è simile a quella della calce idraulica, tanto che i due a prima vista si distinguono a fatica. Le principali differenze stanno nella temperatura di cottura dei materiali di partenza, più alta per il cemento (in certi casi fino ai 1600 °C circa), e nella quantità di argilla in essi contenuta (per il cemento si arriva fino anche al 40% in massa sul totale). I primi tipi di cemento furono inventati e brevettati a partire da fine 1700 inizio 1800, arrivando poi a realizzare l’innovativo cemento Portland (1824), successivamente e costantemente studiato e sviluppato, dal quale sono nate miscele di cemento portland e altri leganti/costituenti, che hanno permesso di ottenere prestazioni ulteriormente elevate. Il cemento Portland viene prodotto a partire da miscele di calcare e di argilla accuratamente dosate, mescolate, essiccate e macinate prima della cottura, la quale avviene attorno ai 1450 °C, caricando la miscela dall'alto in forni verticali, oppure in forni obliqui rotativi, tecnologicamente migliori perché consentono di omogeneizzare la composizione del prodotto in fase di cottura. Il materiale che fuoriesce dal forno viene denominato Clinker. Come per la calce idraulica, i componenti principalmente presenti nei materiali crudi di base (calcare e argilla prima della cottura) sono il carbonato di calcio CaCO3 , la silice SiO2 , l’allumina Al2O3 , l'ossido ferrico Fe2O3 e l'ossido di magnesio MgO. Tuttavia la cottura a temperature più alte, rispetto a quelle utilizzate per ottenere la calce idraulica, favorisce la produzione di ulteriori tipi di silicati e alluminati, migliori soprattutto perché si formano legando a se più molecole di ossido di calcio libero (decompostosi dal carbonato di calcio), permettendone, così, la quasi totale scomparsa dal prodotto finale. Infatti, durante il processo di cottura, la formazione di ferro-alluminato tetracalcico, 4CaO•Al2O3•Fe2O3 , una volta raggiunti i 1450 °C circa, porta la massa a subire una parziale fusione, che è essenziale per una più completa trasformazione delle materie prime nei vari silicati e alluminati finali. Dalla cottura si forma un clinker costituito per circa il 75 ÷ 80% in massa da silicato bicalcico, 2CaO•SiO2 , e soprattutto da silicato tricalcico, 3CaO•SiO2 , ai quali si deve il buon comportamento meccanico delle malte e dei calcestruzzi; mentre per il restante 20 ÷ 25% circa è costituito da alluminato tricalcico, 3CaO•Al2O3 , e dal ferro-alluminato tetracalcico (già sopra citato), più eventuali tracce di calce libera, ossidi di magnesio e impurità (i quali per legge devono essere presenti in percentuali ridotte). Il clinker incandescente, fuoriuscente dal forno, viene sottoposto ad un brusco raffreddamento, necessario sia per facilitarne il trasporto e lo stoccaggio, sia per conferirgli un’adeguata struttura mineralogica e appropriate dimensioni dei cristalli. Una volta raffreddato, il clinker assume un aspetto roccioso, con grani tondeggianti di varie dimensioni, da meno di un centimetro ad un massimo di un paio di centimetri circa, ed in base alla composizione può avere colore chiaro grigio-verde o scuro grigio-nero. Dopo un'opportuna stagionatura, viene macinato finemente per ottenere appunto il cemento Portland. La polvere così ottenuta viene immagazzinata in grandi silos, in cui le varie partite del prodotto sono più volte mescolate, per ottenere una qualità di cemento il più costante e omogenea possibile. Poiché nel cemento Portland la calce viva e altri ossidi liberi sono assenti o presenti soltanto in percentuali minime, la presa e l'indurimento delle malte e dei calcestruzzi ottenibili sono dovute prevalentemente alle varie reazioni di idratazione degli alluminati, degli alluminoferriti e dei silicati (i quali, comunque, liberano idrossido di calcio, carbonatabile). Tali reazioni avvengono contemporaneamente, ma a 106
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velocità differenti: responsabili della presa sono i vari alluminati e alluminoferriti, di cui l'alluminato tricalcico è quello che causa la presa più rapida (in modo eccessivo), mentre l'idratazione dei silicati, ben più lenta, causa l'indurimento. Per evitare la presa troppo rapida, che impedirebbe l'utilizzo degli agglomerati, al clinker stoccato nei silos vengono aggiunte percentuali di gesso (sotto forma di biidrati o di semiidrati o di anidriti solubili) e il tutto viene miscelato ed omogeneizzato (si ha così il cemento Portland vero e proprio). Pertanto la funzione del gesso è quella di far avvenire la presa, della malta o del calcestruzzo di cemento, in tempi idonei a consentirne la miscelazione degli ingredienti, il trasporto e il successivo utilizzo. Infatti, il gesso, in presenza dell'acqua d'impasto, rallenta la presa reagendo con l'alluminato tricalcico e formando trisolfo-alluminato di calcio idrato (un sale chiamato Ettringite), il quale poi a sua volta si ricombina con parte dell'alluminato in eccesso, producendo monosolfo-alluminato di calcio idrato. La normale e più veloce reazione di idratazione degli alluminati, che avverrebbe in assenza di gesso, procede ugualmente, ma viene rallentata sia perché diminuiscono le molecole di alluminati direttamente coinvolte, sia perché le nuove sostanze prodottesi fungono da ostacolo fisico, rendendo difficoltosa la reazione stessa. Anche tra gesso e ferroalluminato tetracalcico avvengono reazioni analoghe e, insieme alle altre reazioni, comportano, per l'agglomerato, un aumento iniziale di volume, che però non provoca danni, dovendo l'impasto essere ancora messo in opera (quindi può ancora essere lavorato/modellato, compattato e poi lasciato ad indurire).
Miscele di cementi e/o variazioni dei materiali costituenti Appartengono alla categoria dei cementi anche altri tipi di leganti idraulici (tra cui il cemento alluminoso), ma il cemento Portland rimane quello in assoluto più diffuso. Inoltre, anche se il Portland è già un legante idraulico dalle prestazioni migliori di quelle della calce idraulica (i suoi agglomerati hanno presa e indurimento più veloci e sono più resistenti), tuttavia accoppiandolo con la pozzolana e/o con altro materiale a comportamento pozzolanico e/o con la loppa basica, se ne migliorano le caratteristiche meccaniche. Infatti, poiché dall'idratazione del cemento si libera l'idrossido di calcio, esso può essere a sua volta sfruttato dalla pozzolana (e simili) formando ulteriormente silicati e alluminati di calcio idrati, che contribuiscono alla presa e indurimento, dell'agglomerato, meglio di quanto farebbe altrimenti la sola calce idrata libera. Il cemento può essere anche prodotto direttamente dalla cottura di rocce marnose, si parla quindi di cementi naturali, oppure prima della cottura si possono sostituire percentuali di argilla con altri materiali ricchi in silice, allumina e ossidi di ferro. Questi ultimi metodi offrono prodotti cementizi di qualità inferiore, a causa delle proporzioni in massa non ottimali dei vari costituenti di partenza, ma possono risultare più economici per la più facile reperibilità dei materiali di base, o perché questi sono ottenuti dal riciclo di scarti industriali o di prodotti di demolizione, eccetera. Per quanto riguarda il rallentamento, eventualmente necessario, della presa di un conglomerato di cemento portland (o d’altro tipo), esso può avvenire sostituendo parte del cemento con una pari parte di calce idraulica (i suoi costituenti idratano più lentamente), realizzando così una malta bastarda (o anche un calcestruzzo bastardo).
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Malte/calcestruzzi idraulici, utilizzi e problematiche associate Il legante idraulico (calce idraulica o cemento), macinato in grani o polveri fini, viene miscelato con acqua e aggregati nelle apposite betoniere, direttamente in cantiere nel luogo di utilizzo, oppure ivi trasportato tramite vari tipi di camion-betoniera (qui la betoniera, mediante la rotazione, serve a mantenere omogeneo l'agglomerato anche durante il trasporto). Nel caso in cui il conglomerato venga impiegato per opere immerse in acqua, i vari silicati, alluminati, ecc., di calcio, presenti nell'impasto, sono gli unici responsabili dell'indurimento. Infatti, essendo assai ridotta la presenza di anidride carbonica in acqua, viene meno la carbonatazione dell'idrossido di calcio. Anche quando adoperati in ambiente aeriforme, malte e calcestruzzi idraulici sfruttano maggiormente l'indurimento da parte dei loro costituenti idratabili, che non la carbonatazione dell'idrossido di calcio, la quale avviene solamente nello strato superficiale, più o meno profondo, lasciando l'interno dell'agglomerato ancora composto di calce spenta. Anzi, se la carbonatazione arriva in profondità, essa comporta un eccessivo abbassamento del pH del materiale stesso (diventa più acido per diminuzione dell'idrossido di calcio in favore del carbonato di calcio). Ciò, nei calcestruzzi armati, unito al fatto che la reazione di carbonatazione produce anche molecole d'acqua, porta ad un aumento del rischio di corrosione delle barre di ferro o acciaio, eventualmente a contatto con l'umidità formatasi, con peggioramento della resistenza meccanica dell'intera struttura (si possono formare vari fenomeni di corrosione sui rinforzi metallici e non solo, con anche distacco di parti di calcestruzzo fino al totale cedimento strutturale). Con l'acqua piovana a contatto con malte e calcestruzzi (vale soprattutto se fatti di leganti aerei), l'anidride carbonica può anche più facilmente convertire parte del carbonato di calcio, appena prodotto dalla carbonatazione, in bicarbonato di calcio, che è ancor più solubile e quindi tutto ciò può portare l'agglomerato a sgretolarsi localmente. Le piogge, inoltre, per il continuo effetto di “bagnato-asciutto” sulle superficie esposte del materiale, ne possono aumentare lo stress a fatica, facilitandone ulteriormente il distacco di pezzi. Più in generale, le acque dilavanti (anche con il moto ondoso o con le correnti d'acqua che investono i conglomerati sommersi) possono favorire il passaggio in soluzione delle molecole di idrossido di calcio (specie quelle liberate dall'idratazione dei leganti idraulici), creando vuoti/microporosità nel materiale, con peggioramento della resistenza meccanica. Durante la fase di esercizio, altre cause di impoverimento delle caratteristiche meccaniche sia di malte che di calcestruzzi (anche a base di leganti aerei), sono il gelo invernale e il disgelo primaverile dell'umidità, presente sotto forma di piccolissime goccioline d'acqua disperse nei pori dell'agglomerato, goccioline che possono subire variazioni di volume, tali da crepare il materiale stesso (congelando possono aumentare il proprio volume fino anche di circa il 9%). Pertanto, per quegli agglomerati destinati in fase di esercizio ad essere maggiormente soggetti a cicli di gelo/disgelo, possono essere aggiunte e disperse minutissime bolle d'aria, mediante additivi aereanti tensioattivi, in grado di ridurre perfino la tensione superficiale tra le bolle d'aria e le gocce d'acqua, quest’ultime delle quali, trovando a disposizione maggiori spazi "vuoti" in cui espandersi, evitano di spingere direttamente sulla struttura solida dei conglomerati stessi. Tali additivi aereanti vengono quasi esclusivamente aggiunti ai conglomerati di cemento, perché a quelli costituiti da altri leganti si rischierebbe troppo di comprometterne le proprietà meccaniche. L'aumentata porosità, infatti, riduce il carico a cui il conglomerato può essere sottoposto, perciò si 108
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fa in modo che le percentuali d'aria, in volume, presente nei "calcestruzzi aereati", non superino il 6% circa (un calcestruzzo comune ha una percentuale d'aria inferiore al 4% circa). Diversi fenomeni di corrosione sono poi legati alla natura dell'acqua presente nell'ambiente in cui può essere immerso o venire a contatto un agglomerato prettamente idraulico, soprattutto nella prima fase del suo indurimento, ma anche a distanza di anni: è dannosa la presenza di alcali in acqua, oppure di cloruri, o peggio ancora sono le acque solfatiche perché possono reagire con i vari silicati e alluminati idrati della pasta già indurita, formando gesso e/o ettringite, con un aumento di volume qui dagli effetti proprio distruttivi. I conglomerati di leganti aerei e idraulici hanno un basso coefficiente di dilatazione termica (variabile poi in base alla composizione chimica, alla quantità e tipologia di aggregati inerti, alla quantità d'acqua dell'impasto..), ciononostante le brusche variazioni di temperatura causano stress nei conglomerati, soprattutto per le strutture in calcestruzzo di rilevanti spessori, poiché la superficie esterna si dilata e si contrae più velocemente della parte in profondità, perciò si possono originare crepe, fessurazioni varie e distacchi superficiali di materiale. In caso di incendio, i vantaggi dell'avere una struttura di calcestruzzo, anziché d’acciaio o legno, risiedono nel basso coefficiente di dilatazione termica dell'agglomerato e nel fatto che esso non brucia e non emette fumi nocivi. Tuttavia la prolungata esposizione al fuoco, con conseguente aumento progressivo della temperatura, porta dapprima all'evaporazione dell'acqua libera nei pori del materiale e poi pian piano alla decomposizione dei vari composti della massa cementizia (o di calce idraulica), che nel frattempo si fessura. In particolare, quando si giunge alla disidratazione degli idrati ivi presenti, succede che fisicamente la pasta cementizia si ritira, mentre invece gli aggregati inerti tendono ad espandersi, sicché tali fenomeni opposti scatenano maggiori tensioni interne, favorendo anche distacchi tra gli aggregati e la pasta di cemento. Complessivamente, aumenta l'instabilità meccanica, e, complice anche la maggiore porosità sviluppatasi nell'agglomerato, si abbassa notevolmente il valore del carico sopportabile dalla struttura, che può arrivare al cedimento parziale o totale. Insomma, molti fenomeni nocivi per malte e calcestruzzi, possono risultare abbastanza aggressivi (soprattutto localmente) e i metodi per contrastarli non sono completamente efficaci, alcuni si basano sull'aggiunta di additivi, altri sulla riduzione della quantità d'acqua di impasto per produrre i vari agglomerati, ma sono tutte soluzioni che tendono a peggiorare le tensioni massime sopportate dalle strutture finali in fase di esercizio. Vero è però, che opere antiche realizzate con leganti idraulici, sono resistite per molti secoli fino ai giorni nostri (si pensi alla cupola del Pantheon), quindi, con le dovute competenze (e la necessaria onestà), la costruzione di strutture che sfruttano i moderni leganti è una delle arti più consolidate e affidabili al mondo. Per quanto riguarda gli utilizzi, le malte idrauliche svolgono la stessa funzione delle malte aeree, con la grossa differenza che possono far presa anche in acqua e sono qualitativamente migliori e più resistenti. Vengono quindi impiegate maggiormente per realizzare piani di posa tra elementi da costruzione; oppure per la copertura di tubature, fungendo allo stesso tempo da letto di posa specialmente in sottofondi destinati a pavimentazione o in sottofondi di solai; oppure per realizzare intonaci; per richiudere fessure e/o reincollare parti di materiale precedentemente staccatesi; eccetera. Il compito di una malta non è solo quello di legare tra loro vari materiali, ma anche di distribuirne il carico. Se si pensa, ad esempio, ad una muratura verticale, la malta fa sì che ogni parte soprastante possa meglio appoggiare sull'intera sezione orizzontale della parte sottostante, compensando le varie 109
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irregolarità di posa e di forma dei mattoni o pietre utilizzate per costruire la parete. La boiacca di cemento (o anche di calce idraulica) è un composto a base di legante e inerti fini, più aggiunte, impastato con molta acqua in rapporti tali da rendere la successiva malta quasi fluida, abbastanza da poter essere spalmata o iniettata (il tutto è miscelato lentamente per impedire la formazione di grumi). La boiacca viene adoperata come materiale da riempimento (per otturare fessure non volute tra gli elementi di una muratura, o per colmare i solchi tra lastre di roccia di pavimentazioni stradali, ad esempio, di stile romano, o per consolidare pareti rocciose di gallerie naturali in cui sono presenti fenditure pericolose, ..), oppure può essere spalmata sui muri scoperti, preparandoli così per il fissaggio di intonaci o altri rivestimenti, oppure può essere cosparsa sulle armature metalliche dei calcestruzzi, fungendo da rivestimento anticorrosivo (in questo caso la boiacca contiene opportuni antiossidanti e altri inibitori di corrosione), eccetera. I calcestruzzi vengono impiegati soprattutto per realizzare lo scheletro portante di tantissimi edifici e altre strutture, e per tale motivo vengono quasi sempre armati di rinforzi metallici. Quantomeno, i calcestruzzi costituiscono le fondamenta e le colonne portanti, ben "piantate" in profondità nel terreno, sia della stragrande maggioranza degli edifici moderni, sia dei tralicci per le linee elettriche, sia dei vari ponti, eccetera. Altro loro utilizzo riguarda la pavimentazione stradale pubblica o privata, ma li si usa anche per la copertura in cemento di cortili esterni o per la realizzazione di semplici piazzali: soprattutto i privati apprezzano il calcestruzzo di cemento per la sua posa, che risulta molto veloce rispetto ad altre tipologie di pavimentazioni, e per la sua scarsa necessità di manutenzione negli anni (o decenni). Malte e calcestruzzi, soprattutto di cemento, possono essere anche direttamente utilizzati per realizzare mattoni, tegole, blocchi forati e altro, impiegati essi stessi come elementi da costruzione, scelti per la loro ottima resistenza a compressione, per il loro minore impatto ambientale e per la possibilità di realizzare facilmente blocchi di grandi dimensioni, che ne velocizzano la messa in opera (grandi blocchi in laterizio possono risultare troppo fragili). Attualmente, ad esempio, per i tetti vengono quasi esclusivamente adoperate tegole in cemento (anche in tinta "mattone" grazie all'aggiunta di ossidi coloranti), perché il ciclo di produzione (estrazione delle materie prime, produzione delle tegole, stoccaggio e distribuzione) è caratterizzato da un consumo energetico pari a circa un terzo del consumo necessario per produrre tegole in laterizio, con anche riduzione delle emissioni nell'ambiente sia di CO2 che di polveri sottili PM10 (circa la metà per entrambe). Inoltre, rispetto al laterizio, le tegole in cemento necessitano più raramente di riparazioni/sostituzioni (insomma, pur possedendo mediamente la stessa durabilità in anni di esercizio, sono qualitativamente migliori). Esiste poi anche il cemento cellulare o schiumato, il cui sistema di celle ad elevata porosità si ottiene in vari modi: si procede per via chimica, mediante un agente schiumogeno (tipicamente polveri di alluminio metallico), inserito come ingrediente dell'impasto e che in presenza dell'acqua di impasto reagisce con le altre sostanze della pasta cementizia, producendo bolle di gas (prevalentemente di idrogeno); oppure per via fisica, quando la pasta è allo stato plastico, ma ancora molto fluida, mediante inserimento di una schiuma preformata e di aria compressa immessa dall'esterno, sfruttando miscelatori e appositi macchinari direttamente in cantiere (questo metodo è qualitativamente inferiore e usato per opere sottoposte a bassi carichi statici). Il cemento cellulare viene utilizzato come materiale da riempimento, o come sottofondo leggero e termoacusticamente isolante (ad es. per i solai), o anche per realizzare pannelli isolanti.. Viene anche sempre più spesso adoperato direttamente 110
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sotto forma di tavelle, blocchi e altri elementi prefabbricati, in particolare per costruire tramezze, ma perfino interi edifici. Infatti, ove consentito dalle norme di legge (ad esempio, se non sono necessari determinati criteri antisismici, tra cui l'imposizione di un certo rilevante peso dei tetti, soffitti, ecc., o se non viene espressamente indicato di scegliere certi tipi di calcestruzzi..), vi è chi sfrutta le murature in cemento cellulare per tutta una serie di benefici: esse, ad esempio, sono già ben termoacusticamente isolanti, quindi non richiedono ulteriori rivestimenti "a cappotto" o altri sistemi di coibentazione; i loro mattoni sono più leggeri, quindi la posa è meno faticosa e sulle fondamenta grava un peso minore. Inoltre il cemento cellulare è facilmente lavorabile, quindi favorisce la sagomatura e la messa in opera di elementi anche complessi. In particolare, la facilità di taglio e perforazione agevola indirettamente anche tanti altri lavori di cantiere, come la realizzazione di canali per l'inserimento dell'impianto elettrico, delle tubature idrauliche, eccetera. Potenziali svantaggi riguardano invece la necessità, ad esempio, di scegliere speciali malte per fissare i vari elementi costruttivi di cemento cellulare, al fine di contrastare meglio la sua tendenza ad espandersi/ritirarsi maggiormente con il variare di temperatura e umidità (variazioni di volume che altrimenti provocherebbero microfessurazioni). Inoltre bisogna proteggere adeguatamente la pareti esterne o qualsiasi elemento esposto all'umidità esterna, con intonaci impermeabili, a causa della forte igroscopicità del cemento cellulare (negli ambienti interni tale caratteristica permette invece di evitare la formazione di condensa sulle pareti e di regolare il livello di umidità). Malte e calcestruzzi idraulici possono infine servire anche per rivestire, in modo veloce e più o meno efficace, sostanze inquinanti e/o radioattive, isolandole e/o schermandone le onde radioattive emesse (in caso di necessità di un rapido intervento, possono anche essere gettate direttamente colate di cemento sul prodotto nocivo/radioattivo).
Il cemento alluminoso (accenno) Il cemento alluminoso, si ottiene per cottura attorno ai 1500 - 1600 °C di rocce calcaree e di bauxite (roccia sedimentaria che contiene soprattutto ossidi idrati di alluminio e idrossidi di ferro), ricavandone un prodotto finale ricco in alluminati e alluminoferriti di calcio, più povero invece di silicati. Malte e calcestruzzi di cemento alluminoso, dopo la presa, sono caratterizzati da un rapido indurimento, resistono maggiormente alle acque dilavanti e agli attacchi di acque solfatiche (l'agglomerato finale ha un pH sostanzialmente neutro), godono inizialmente di una notevole resistenza meccanica, ma hanno durabilità inferiore a quella di malte e calcestruzzi di cemento Portland. Inoltre, durante la fase di idratazione, rilasciano un'elevatissima quantità di calore, che impone l'utilizzo del cemento alluminoso solamente per determinati scopi: viene quindi adoperato come legante idraulico di malte o calcestruzzi destinati per lavori temporanei o urgenti di riparazione/rinforzo, in cui si necessita della sua alta resistenza meccanica; oppure per costruzioni a contatto con acque fortemente aggressive; oppure per messe in opera in ambienti a temperature sottozero (fino a circa -10 °C) in cui il calore sprigionato dalle reazioni di idratazione impedisce all'acqua d'impasto di congelare; eccetera. In ambienti caldi o troppo asciutti, sempre a causa del calore di idratazione, è necessario impastare il cemento alluminoso con molta più acqua (i cementi alluminosi sono sempre più fluidi dei cementi comuni) e, durante la messa in opera dei calcestruzzi, si deve bagnare maggiormente le superfici di contenimento del getto, annaffiando 111
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continuamente quest'ultimo, durante la presa. In molti paesi la legge vieta l'utilizzo del cemento alluminoso in calcestruzzi armati, per tutta una serie di motivi tra cui la presa e indurimento troppo rapidi, il rilascio eccessivo di calore in fase di idratazione, ecc., tutte condizioni che porterebbero a disomogeneità nel prodotto finale, con anche formazione di sacche d'aria sulle superficie metalliche delle armature, le quali perderebbero aderenza con l'agglomerato e subirebbero una maggiore corrosione, provocando l'instabilità dell'intera struttura. Miscele di cemento alluminoso e portland, o aggiunte di calce, ecc., sono fortemente sconsigliate perché i vari composti hanno composizioni chimiche e velocità di presa troppo diverse tra loro, con conseguenze che peggiorano le caratteristiche meccaniche finali (sono già dannose anche piccole inclusioni dovute ad attrezzi non lavati e precedentemente usati per altri cementi). Insomma, il cemento alluminoso è soggetto a molte restrizioni riguardanti i suoi tipi di impiego, tuttavia ha la sua importanza. Inoltre, attualmente si è notato che l'aggiunta di ossidi di manganese in fase di produzione consente di abbassare la temperatura di cottura del cemento alluminoso, con un buon risparmio energetico ed economico e anche con un miglioramento delle sue proprietà finali.
Approfondimenti sul Calcestruzzo Nell'impasto di un calcestruzzo moderno si cerca di attuare la massima continuità granulometrica degli aggregati, per favorire il massimo inserimento dei granuli fini della sabbia nei vuoti interstiziali dei granuli intermedi del ghiaietto, e dei granuli di quest'ultimo negli interstizi dei granuli più grossi della ghiaia. Ciò permette di ridurre il volume dei vuoti tra i vari granuli e di conseguenza la quantità di pasta cementizia necessaria per realizzare il conglomerato, il quale risulta inoltre più compatto, stabile e meccanicamente resistente, e con un basso ritiro igrometrico se viene esposto ad ambienti asciutti durante l'indurimento (che, si ricordi, necessita dell'acqua per le varie reazioni di idratazione). Un modo per dosare i componenti del calcestruzzo è di usare i chilogrammi per il cemento, i litri per l'acqua e i metri cubi per gli aggregati: ad esempio, un metro cubo di calcestruzzo può essere preparato miscelando circa 300 kg di cemento Portland, 120 litri d'acqua e 1,2 m3 di aggregati (tra sabbia, ghiaietto e ghiaia, tutti ulteriormente misurati separatamente tra loro, o divisi in sabbia e aggregati grossi) al lordo dei vuoti lasciati nel contenitore che funge da misuratore (bisogna cioè nel complesso tenere conto della contrazione volumetrica finale del calcestruzzo indurito, dovuta al "ritiro dell'acqua", alla compattazione dell'agglomerato e al fatto che i vuoti vengono sostanzialmente colmati dagli aggregati stessi). Quando, al fine di realizzare fondamenta, colonne portanti, scheletri, ecc., di vari tipi di costruzioni edili, ci si avvale di rinforzi metallici immersi nel calcestruzzo, quello che comunemente ed impropriamente viene chiamato "cemento armato", confondendo il legante idraulico con il suo agglomerato, è invece calcestruzzo armato, considerato un materiale composito a matrice ceramica (i cementi, anche se la definizione non è molto apprezzata, sono considerati materiali ceramici). L'armatura permette al calcestruzzo di acquisire maggiore resistenza a trazione e in parte a flessione, e potendo disporre il rinforzo orientandolo secondo qualsiasi direzione, permette anche di conferire all'insieme una migliore resistenza a sforzi di taglio. Lo svantaggio sta nel fatto che l'armatura metallica, a causa dell'umidità e della composizione chimica del calcestruzzo, e delle condizioni ambientali in fase di esercizio, è sottoposta ad un processo di 112
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corrosione, che con adeguate misure preventive può essere solo rallentato, ma non impedito, influenzando, quindi, la durabilità delle moderne strutture in calcestruzzo armato. I rinforzi metallici più utilizzati nel calcestruzzo sono quelli in acciaio, poiché molti tipi di acciaio possono essere facilmente prodotti con un coefficiente di dilatazione termica circa pari a quello del calcestruzzo, riducendo così notevolmente il rischio di un loro distacco dall'agglomerato, che li ingloba. I rinforzi di acciaio vengono comunemente prodotti in barre molto lunghe a sezione circolare e spesso sagomate (anche per legge) fino ad avere una superficie rugosa, con in rilievo caratteristiche nervature per garantire ulteriore aderenza al calcestruzzo (tali barre vengono chiamate tondini zigrinati). I tondini vengono disposti longitudinalmente, paralleli all'asse dell'elemento di calcestruzzo nel quale sono immersi, così, grazie all'aderenza tra matrice e rinforzo, è possibile trasferire maggiormente il carico di trazione dal calcestruzzo alle barre, mentre il calcestruzzo continua a sopportare maggiormente il carico da compressione. Le barre longitudinali sono tenute insieme anche da barre più corte trasversali, dette staffe, formanti una sorta di gabbia, che ha inoltre lo scopo di sopportare gli sforzi da taglio e di ridurre il rischio di collasso delle barre longitudinali, in caso quest'ultime siano sottoposte a forti carichi compressivi (infatti, la compressione reale non è mai completamente una sollecitazione assiale con asse coincidente con quello baricentrico della barra, quindi causa sempre dei momenti flettenti sulla barra stessa). Esistono poi rinforzi metallici che possiedono altre forme, tra cui quelli a griglia, costituiti da staffe saldate tra loro; o le forcelle; ecc.; tutti con scopi ben precisi per conferire all'intera struttura resistenza e stabilità adeguate, necessarie anche per la posa dell'armatura stessa, che deve essere mantenuta ferma in posizione, poiché essa viene eseguita prima della colata di calcestruzzo, che la va poi a ricoprire. Per la messa in opera del calcestruzzo, si usano apposite casseformi rimovibili, entro cui colarlo, con superfici che possono essere lisce, rugose o anche sagomate in base all'effetto visivo che si vuol ottenere qualora le opere in calcestruzzo siano facciavista. Per costruzioni particolari, restauro di edifici storici, ecc., combinando tecnologie moderne e antiche, si possono invece "tirare su" pareti parallele di mattoni pieni, o di pietre ecc, legati tra loro dalla malta, che fungono da paramenti permanenti nella cui intercapedine viene poi colato il calcestruzzo. Il trasferimento del calcestruzzo all'interno delle casseformi (o di altri tipi paramenti, ecc.) viene identificato con il termine getto. Il getto va eseguito evitando di far cadere il calcestruzzo da altezze eccessive, soprattutto per ridurre la precipitazione degli aggregati grossi verso il fondo, e deve avvenire abbastanza lentamente da impedire il più possibile la formazione di bolle o sacche d'aria all'interno dell'agglomerato. Bisogna cioè cercare di mantenere la struttura del calcestruzzo il più omogenea e stabile possibile, con gli aggregati distribuiti uniformemente. A tal fine, per la realizzazione in calcestruzzo di elementi molto alti, il getto viene eseguito a più strati, interrompendolo cioè quando il calcestruzzo versato ha raggiunto circa una cinquantina di centimetri (dieci più, dieci meno) di altezza, procedendo quindi ad una sua compattazione, necessaria a ridurre la presenza d'aria al suo interno e a fagli riempire meglio le pareti delle casseformi. L'operazione di compattazione viene anche detta costipazione e, in base alla situazione, può essere eseguita internamente al calcestruzzo, immergendo elementi vibranti di particolari macchinari che agitano meccanicamente l'agglomerato, facilitandone la fuoriuscita dell'aria, oppure esternamente, facendo vibrare le pareti delle casseformi che trasferiscono il movimento al calcestruzzo stesso. Il primo metodo è quello più diffuso in cantiere e il più versatile. 113
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Per tipologie di posa del calcestruzzo diverse e/o per spessori poco elevati, vengono adoperati macchinari vibranti a funzionamento superficiale, che servono anche a livellare le superfici stesse del calcestruzzo, asportandone la quantità in eccesso. Le strutture realizzate in calcestruzzo dovrebbero essere blocchi monolitici omogenei, cioè privi di discontinuità (ad eccezione dei giunti strutturali appositamente progettati), ma non essendo possibile ciò, dopo il primo strato di calcestruzzo, la ripresa del getto viene eseguita scegliendo tra due tipi di metodi: o il getto fresco su fresco, o su calcestruzzo indurito. Il getto fresco su fresco si esegue quando si può ancora far vibrare alcuni centimetri non induriti, dello strato di calcestruzzo precedente, amalgamandolo con parte di quello successivamente gettato sopra, rendendo quindi più graduale il passaggio da uno strato all'altro. Il getto su calcestruzzo indurito, avviene quando lo strato precedente risulta appunto già indurito: la superficie di ripresa viene predisposta in modo che sia scabra, non omogenea, quindi più aderente, anche asportando meccanicamente parte dello strato stesso, poi si applica una malta a ritiro compensato e infine si procede con il nuovo getto. La malta a ritiro compensato è una particolare malta idraulica, in cui l'aggiunta di agenti espansivi (ad es. ossidi di calcio), le permettono di reagire con l'acqua d'impasto, aumentando di volume e compensando (in eccesso, in toto, o in parte) il ritiro igrometrico della malta stessa, durante l'idratazione degli altri suoi costituenti. Per le riprese di getto su calcestruzzi induriti, vengono usate malte di cemento a ritiro compensato, la cui espansione sia tale da contrastare anche le tensioni causate dal ritiro igrometrico dello strato di calcestruzzo nuovo, subito poi colato, il quale, in assenza della malta, ritirandosi, causerebbe crepe e fessure tra esso e la superficie di contatto dello strato adiacente già induritosi, con conseguenti effetti negativi sulla resistenza meccanica della struttura finale.
Lo Slump Test o prova di abbassamento al cono Questo test viene eseguito, mediante il cono di Abrams, per misurare la consistenza di una pasta cementizia fresca (viene usato in particolare per le miscele di calcestruzzo), riuscendo così a valutare, in modo semplice e pratico, la bontà e l'omogeneità dell'impasto stesso e soprattutto la sua lavorabilità. La consistenza della pasta cementizia, quindi la sua minore o maggiore fluidità, influisce infatti direttamente sulla facilità di getto o di posa della stessa, ma anche sulla maggiore o minore velocità della presa, durante la messa in opera. La consistenza, così come altri parametri, viene quindi presa seriamente in considerazione dai costruttori ed è anche regolata da norme nazionali e internazionali, al fine di selezionare il calcestruzzo più adatto ad ogni tipologia di costruzione/opera in cemento, in quanto a lavorabilità, eccetera. Il test può essere eseguito su provini in laboratorio, ma anche direttamente in cantiere. La parte fondamentale dell'apparato di misurazione è costituita da un tronco di cono cavo, che consente l'ingresso della pasta di cemento o di un calcestruzzo con inerti non troppo grandi, dall'alto, permettendone poi l'uscita dal fondo, il quale durante il test viene appoggiato su una superficie orizzontale, liscia e umida. Altezza e diametro delle basi del cono sono normate: pur variando a seconda degli standard scelti da certe nazioni, le dimensioni risultano essere sempre sulla decina di centimetri per la base minore (sommità del cono), sulla trentina di centimetri per l'altezza e sulla ventina di centimetri per la base maggiore (fondo del cono). Il cono è realizzato con la superficie laterale interna perfettamente liscia, in metallo, tipicamente in acciaio zincato o inossidabile, o comunque in 114
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materiale non aggredibile chimicamente dalla pasta di cemento. Sulla superficie laterale esterna sono applicati due manici per favorire il sollevamento del cono, una volta che è terminato il procedimento per riempirlo con la pasta di cemento. Il calcolo della consistenza del calcestruzzo si effettua con un’asta graduata, misurando di quanto l'impasto si abbassi per effetto del suo stesso peso, se lasciato libero di deformarsi dopo aver sollevato il cono che lo sosteneva. La procedura per il test viene eseguita rigorosamente, almeno secondo le norme, versando nel cono, dall'alto e a tre strati, il calcestruzzo e costipando ogni strato con una bacchetta-pestello, anch'essa normata, pestando un numero definito di volte e secondo precisi movimenti. Dell'ultimo strato si lima inoltre la sua superficie superiore, rendendola piatta, anche asportando i rimasugli di calcestruzzo in eccesso, dopodiché si rimuove il cono sollevandolo verticalmente, evitando movimenti di taglio e di torsione, che possano alterare la naturale deformazione dell'impasto. La differenza tra l'altezza nominale dell'impasto, prima della rimozione del cono, e la sua altezza una volta abbassatosi, permette di attribuire una classe di consistenza al calcestruzzo in esame (il test consente di associarlo a una tra cinque diverse classi di consistenza, che vanno dalla "umida" alla "superfluida", in ordine di lavorabilità crescente). Per prodotti troppo consistenti, oppure troppo fluidi (quindi non rientranti in queste cinque classi di consistenza), che comporterebbero abbassamenti impercettibili o eccessivi, il cono di Abrams non è lo strumento più adatto alla misurazione della loro consistenza, ecc., allora si ricorre chiaramente ad altre tipologie di test. L'unico abbassamento considerato corretto, nello slump test, è quello che provoca una deformazione uniforme dell'impasto, rispetto alla forma iniziale di cono, altrimenti, eventuali sgretolamenti, distacchi o deformazioni "strane", quali l'adagiarsi su un lato o il collassare della pasta distendendosi completamente sulla superficie, eccetera, sono da imputarsi alla cattiva qualità/miscelazione dell'impasto. Tuttavia, nei casi dubbi, prima di scartare la tipologia di impasto scelto, si procede ad un'ulteriore prova (ovviamente non si riutilizza lo stesso campione, ma se ne prende uno nuovo), per accertarsi della mancanza di risultati falsati da manovre errate, avvenute durante il versamento e la costipazione della pasta cementizia nel cono, o da una scorretta rimozione del cono stesso. L'intero processo (tra versamento, costipazione e misurazione) deve avvenire in circa un paio di minuti e mezzo (soprattutto affinché i risultati siano attendibili e in accordo con i valori storici di riferimento). In sede di progetto, per la realizzazione di un buon calcestruzzo (dato che esso viene spesso realizzato secondo la consistenza richiesta dalle norme), lo slump test si esegue su dei provini, per valutare e regolare le dosi dei vari costituenti. Inoltre, nel caso si debba scegliere quali additivi aggiungere al calcestruzzo, a parità di scopo, avendo essi delle composizioni chimico-fisiche differenti, lo slump test permette di verificare se essi provochino effetti uguali/simili sulla consistenza dell’impasto, oppure no: basta infatti aggiungere tali additivi rispettivamente in provini diversi, mantenendo stesso rapporto acqua/legante e stesso rapporto legante/aggregati, e avviare la prova di abbassamento al cono. A proposito della dosatura degli ingredienti dell'impasto, utilizzare, per assurdo, il test del cono di Abrams solo come verifica della sua correttezza, a posteriori, dopo cioè aver già miscelato le quantità necessarie alla messa in opera di gran parte del materiale, sarebbe controproducente, poiché, in caso di esiti negativi del test, variare successivamente la composizione del calcestruzzo (ad es. aggiungendo volumi d'acqua), modificherebbe anche tutti i valori di resistenza meccanica, ecc., preventivamente calcolati (molte variazioni in itinere sono anche vietate dalla legge). 115
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Denominazione sintetica adottata nella chimica del cemento Per semplificare la scrittura, quando si descrivono i cementi e quindi le varie reazioni, formule chimiche, ecc., spesso si usa una notazione sintetica che identifica i vari composti con una lettera alfabetica o simbolo specifici: per la calce (ossido di calcio ), CaO, si usa la lettera C ; per la silice (diossido di silicio), SiO2 , si usa S; per l'allumina, Al2O3 , la A ; per l'ossido ferrico Fe2O3 la F; per l'acqua, H2O, si usa H ; per l'anidride carbonica, volendo distinguerla dalla calce, si usa ̅ o ̂ ; per l'anidride solforica una ̅ (o simili); eccetera. Ad esempio, così facendo, l'idrossido di calcio può essere identificato con la notazione CH , il silicato bicalcico con C2 S , l'alluminato monocalcico con CA , oppure un generico silicato di calcio idrato con C S H , un generico alluminato di calcio idrato con C A H , e così via, rendendo la scrittura più veloce e la lettura più fluida e scorrevole.
Leganti bituminosi (accenno) Non tutti gli agglomerati impiegati sono a base di cementi o calci idrauliche, o a base di calce viva o gessi. Uno degli agglomerati più utilizzati per la pavimentazione stradale, sfrutta infatti un altro tipo di legante: il bitume. Bitume è il nome che viene dato ad una miscela di idrocarburi, derivati dall'evaporazione naturale del petrolio presente nel sottosuolo, bitume naturale, o ad una miscela di idrocarburi ottenuti principalmente come residuati della distillazione del petrolio greggio, bitume artificiale. Il bitume si presenta come una sostanza semisolida di colore bruno nerastro, viscosa, dalle caratteristiche termoplastiche, costituita da un insieme variegato e complesso di composti organici ad alto peso molecolare, con carbonio all'80 ÷ 88% in massa sul totale, idrogeno attorno al 10%, poi zolfo, ossigeno, azoto, più tracce di metalli e altre impurità. Studiando il bitume attraverso procedimenti chimici, che lo suddividono in frazioni dalla composizione più omogenea e meno complessa (senza però riuscire a separarlo completamente nelle sue diverse singole specie chimiche), esso risulta essere più precisamente costituito da una miscela di asfalteni e di malteni. Gli asfalteni sono i composti del bitume con il più alto peso molecolare e a temperatura ambiente sono solidi, dall'aspetto granulare, mentre i malteni sono costituiti a loro volta da un miscuglio di oli aromatici, oli saturi e di resine, le quali ne sono la frazione più viscosa, dalle notevoli proprietà adesive e sono le responsabili della dispersione delle strutture macromolecolari asfalteniche in tutto il bitume. Nel sottosuolo esistono giacimenti di bitume naturale, mischiato negli strati del terreno, o presente in sacche e cavità spesso affioranti in superficie, a formare pozze o laghi di bitume; ma lo si ritrova anche come componente impregnante di rocce sedimentarie, quali calcari porosi o arenarie. Tali rocce, quando sono impregnate di bitume, vengono chiamate asfalti o meglio asfalti naturali, per distinguerle dal significato di asfalto inteso come miscela di bitume e sabbie fini. Il bitume rammollisce con il calore, diventando più liquido e acquistando proprietà leganti, è impermeabile all'acqua, isolante e abbastanza resistente agli agenti atmosferici. Nel linguaggio comune si suole chiamare il manto stradale, "asfalto", ma nel linguaggio corretto, il materiale utilizzato viene chiamato conglomerato bituminoso. Un conglomerato bituminoso è comunemente composto di bitume e aggregati inerti tra cui non solo sabbie fini, ma anche ghiaia e altri riempitivi (tra cui, volendo, anche aggregati 116
CAPITOLO 8 - LEGANTI
derivati da scarti industriali, o addirittura appositamente prodotti per determinati scopi, ..). Per le pavimentazioni stradali, gli aggregati grossi vengono aggiunti in grani a spigoli vivi, così una volta compattati, consentono una migliore aderenza delle ruote dei veicoli sulla superficie stradale, riducendo il rischio di scivolamento/slittamento delle stesse. La costruzione di una strada è un'arte complessa, migliorata nei millenni e attualmente comprende tutta una serie di operazioni, che portano ad una pavimentazione costituita da molti strati diversi per materiali e trattamenti. Senza entrare nel dettaglio, una tipica asfaltatura di nuove strade può essere così riassunta: realizzazione di un sottofondo mediante spianamento, livellamento e compattazione; produzione di strati di fondo con impasti misti di cemento; rivestimento protettivo con uno strato di sabbia al quale viene applicata un'emulsione di bitume (acqua e bitume); rimozione della sabbia non trattenuta dall'emulsione; versamento e stesura della massa bollente e semifluida di un conglomerato bituminoso sulla zona da ricoprire; livellamento e compattamento mediante un rullo compressore.
Accenno ad un confronto tra il conglomerato bituminoso e il conglomerato in calcestruzzo per la realizzazione di strade In Europa, sono stati fatti studi di rilevanza economica e ambientale, su quale tipo di pavimentazione stradale sia migliore, specialmente per la realizzazione di autostrade. E' emerso che, sotto diversi aspetti, pavimentazioni stradali in calcestruzzo ad armatura continua risultano essere migliori di quelle in conglomerato bituminoso. Infatti i costi di investimento iniziale per le autostrade in calcestruzzo sono sì maggiori fino anche ad un terzo in più rispetto a quelli necessari per opere in conglomerato bituminoso, ma i costi di manutenzione sono nettamente inferiori, grazie anche alla durabilità maggiore del calcestruzzo, e consentono quindi un ritorno economico tra i 7 e i 14 anni. Citando poi altri aspetti analizzati per il confronto, il manto stradale bituminoso risente maggiormente delle temperature dell'ambiente e, se alte, i fumi rilasciati dal bitume sono più nocivi. Il calcestruzzo, invece, ne risente di meno ed è meno dannoso per la salute. Inoltre esso conferisce un colore più chiaro al manto stradale, che è quindi più visibile durante la notte. Ciò aumenta il confort dei guidatori e riduce il rischio di incidenti (per contro, in caso di climi rigidi invernali, il colore più chiaro renderebbe meno distinguibile la presenza di patine di ghiaccio, ma vero è che se venisse fatto un uso corretto del sale, per prevenire la formazione del ghiaccio, si eviterebbe a priori il problema).
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CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
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MATERIALI ELETTRICI E MAGNETICI
CONDUTTORI ELETTRICI Si cercherà di spiegare nella maniera più seria, ma generale e intuitiva possibile, come si arriva alla conducibilità elettrica nei materiali, come i campi elettrici non influiscano sul valore della velocità complessiva dei portatori di carica, bensì sul numero di portatori di carica (quindi sull’intensità della corrente elettrica), e infine si descriverà in modo semplice la resistività elettrica dei materiali. Si consideri un campo elettrico E nel vuoto, prodotto da uno ione positivo di carica elettrica in modulo e = 1,602 10-19C (come quella di un elettrone). Allora l'energia potenziale di un elettrone, distante x ●
dallo ione, è U(x) = -e2/(4π∙ε0∙x) in J (Joule) con ε0 permittività del vuoto (anche detta costante dielettrica del vuoto) circa uguale a 8.854∙10-12 F/m . Notare che, in un punto distante x dallo ione, il valore dell'energia totale dell'elettrone, data dalla sua energia potenziale più quella cinetica, non potrà mai essere inferiore a quello dell'energia potenziale stessa dell'elettrone (che è negativa) in quel punto, essendo l'energia cinetica sempre positiva (oppure nulla). Se si valuta un modello semplificato per la struttura cristallina di un metallo puro, è possibile immaginare un reticolo tridimensionale di atomi disposti ai vertici di figure solide regolari. Si supponga ora che ogni atomo renda disponibile un elettrone per la conduzione elettrica e che questi non si rendano conto della reciproca esistenza, ma risentano solo della presenza degli atomi stessi, visti da ciascun elettrone come un insieme di ioni positivi, regolarmente spaziati. Allora, all'interno del materiale metallico, un elettrone, in un determinato punto, avrà energia potenziale che dipenderà dalla presenza di tutti gli ioni positivi attorno ad esso, e all'avvicinarsi ad uno ione risentirà maggiormente della sua influenza e meno della presenza di uno ione più lontano. Inoltre l’elettrone non avrà mai energia potenziale nulla, bensì sempre negativa, poiché esso non disterà mai abbastanza lontano, da tutti gli ioni circostanti, da non esserne influenzato. Se si immagina che il percorso di un elettrone avvenga lungo una linea di atomi equispaziati del reticolo cristallino, l'andamento dell'energia potenziale sarà quindi simile a quello iperbolico in presenza di un singolo ione positivo (si riosservi la formula U(x) sopra descritta), con valore minimo in modulo (dell'energia potenziale) che è presente quando l'elettrone si trova a metà strada tra due atomi, e valore tendente idealmente ad infinito quando l'elettrone "passa su un atomo”. Se invece si considera un percorso di un elettrone lungo la linea di mezzeria tra due file parallele di atomi equispaziati del reticolo, l'energia potenziale avrà andamento periodico con fluttuazioni di valore, da punto a punto, molto piccole: l'energia potenziale avrà valore minimo in modulo quando l'elettrone si trova equidistante dai quattro atomi più vicini (cioè dai due atomi di una fila e dai due dell'altra fila) e valore massimo in modulo quando l'elettrone si trova esattamente a "metà strada" tra due atomi, uno di una fila e uno dell'altra, quindi, comunque, ancora piuttosto lontano da essi. Complessivamente queste fluttuazioni si possono ritenere trascurabili, pertanto si può assumere che un elettrone libero di muoversi attraverso il reticolo, sia immerso in un campo equipotenziale. Si può così ritenere presente solo una sorta di barriera energetica superficiale costituita dall'energia potenziale, che gli elettroni liberi devono vincere per poter fuoriuscire dal conduttore, devono cioè possedere energia cinetica maggiore di un certo valore. Esiste la funzione di probabilità di Fermi-Dirac, che può essere sfruttata per arrivare a rappresentare graficamente 119
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
la probabilità che ha un elettrone di occupare uno stato caratterizzato da un certo valore di energia, al variare del parametro temperatura (in Kelvin). l livello di Fermi Wf è il valore dello stato energetico che ha il 100% di probabilità di essere occupato da un elettrone alla temperatura di zero assoluto e che è anche il più alto che un elettrone possa occupare alla temperatura di zero assoluto, oltre al quale è cioè impossibile che un elettrone sia in grado di arrivare (non può possedere energia maggiore). All'aumentare della temperatura, aumenta però la probabilità di trovare elettroni in grado di occupare livelli di energia superiori al livello di Fermi. Per temperature sufficientemente alte, si può pensare anche di arrivare a far uscire qualche elettrone dal metallo. Si definisce allora il Lavoro di estrazione, Ww, come la differenza tra l'energia di barriera (quella potenziale che deve vincere l'elettrone per uscire) e il livello di Fermi. Si può vedere il lavoro di estrazione come il minimo valore di energia da fornire ad un elettrone, che già possieda energia pari al livello di Fermi, per poter uscire dal metallo (spesso si calcola anche il potenziale di estrazione, espresso in Volt, Vw = Ww/e e si calcola il lavoro di estrazione con unità di misura espressa in Elettronvolt eV invece che in Joule). E’ bene precisare che, a differenza che per un atomo isolato, nei materiali gli elettroni di valenza (cioè quelli degli orbitali più esterni degli atomi e responsabili dei vari legami chimici..), risentendo della vicinanza reciproca, tendono a costituire una banda di valenza, ossia si dispongono su più livelli energetici secondo il principio di esclusione di Pauli. Stessa cosa accade quando alcuni di questi elettroni ricevono energia sufficiente per uscire dalla banda di valenza, raggiungendo la cosiddetta banda di conduzione: cioè si dispongono su più livelli energetici secondo il principio di esclusione di Pauli, costituendo appunto una banda, detta di conduzione perché i suoi elettroni, non più legati ad ogni singolo atomo, sono liberi di muoversi in tutto il materiale. Ogni materiale ha un proprio lavoro di estrazione, quindi, per quei materiali con lavoro di estrazione più bassi, è più facile che fuoriescano elettroni entrando nella banda di conduzione e, all'aumentare della temperatura del materiale, saranno necessarie energie inferiori. Il gap energetico tra il livello energetico più basso della banda di conduzione e il livello energetico più alto della banda di valenza di un materiale, viene chiamato Energia di Attivazione. Nei materiali conduttori il più alto livello energetico della banda di valenza è superiore al livello di Fermi, quindi, alla temperatura di zero assoluto, la banda di valenza risulta non-satura ed è riempibile, man mano che la temperatura aumenta, con elettroni che poi possono pure arrivare ad accedere alla banda di conduzione poiché l’Energia di Attivazione richiesta è molto bassa (spesso per i metalli, le bande di valenza e di conduzione sono addirittura parzialmente sovrapposte). Nei materiali isolanti invece, il più alto livello energetico della banda di valenza è inferiore al livello di Fermi, quindi la banda risulta satura già alla temperatura di zero assoluto e l’energia di attivazione richiesta per portare gli elettroni da così bassi livelli energetici fino alla banda di conduzione è troppo alta anche a temperature via via crescenti (il gap energetico è almeno 2÷2,1 eV , ma spesso le due bande sono ben più distanti tra loro). Nei materiali semiconduttori la banda di valenza è sì satura e l’energia di attivazione è relativamente alta, ma è molto meno grande che per i materiali isolanti (comunque sotto i 2 eV), il ché impedisce di solito la conduzione a temperatura ambiente, ma la rende possibile man mano che la temperatura aumenta. Or dunque, all'interno di un conduttore metallico, gli elettroni occupanti la banda di conduzione e divenuti liberi di muoversi attraverso il reticolo cristallino, possono essere considerati come le particelle di un “gas elettronico”, nel quale, per effetto dell'agitazione termica, si muovono in direzioni casuali con una 120
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
velocità di agitazione termica , Vt , fornita dall'equazione m∙Vt 2 = (k∙T) dove m sta per massa dell’elettrone, T per temperatura assoluta e k per costante di Boltzmann. Il moto di questi elettroni è disordinato, quindi la corrente elettrica associata a questo moto è mediamente nulla. Se però viene applicato un campo elettrico E al materiale metallico, tutti gli elettroni risentono di una forza di modulo F = e∙E, di verso opposto a quello del campo. Ogni elettrone libero acquista una velocità con direzione pari a quella del campo (e verso opposto), detta velocità di deriva, Vd , la quale si somma vettorialmente alla velocità di agitazione termica. E’ possibile descrivere un'equazione differenziale per il moto dell'elettrone, ponendo m∙dVd /dt = e∙E - m∙Vd/τ con τ intervallo di tempo tra due urti consecutivi fra l'elettrone e gli ioni positivi del reticolo (poiché ad ogni urto l’elettrone riparte con velocità quasi nulla, tale intervallo permette il calcolo di un valore medio di Vd). -m∙Vd / τ è come una forza viscosa che si oppone alla forza prodotta dal campo elettrico e che in condizioni di regime, quando la velocità di deriva risulta essere costante, la eguaglia. A regime, dVd /dt = 0, allora da 0 = e∙E - m∙Vd/τ si trova Vd = e∙E∙ τ/m . Prendendo in esame una sezione ΔS del metallo, ortogonale alla direzione del campo elettrico E, ed essendo n la densità di elettroni liberi, allora il numero di elettroni che l'attraversa è dN = n∙(Vd∙dt)∙ ΔS dove non si è tenuto conto della velocità di agitazione termica degli elettroni perché mediamente nulla (l'agitazione termica origina infatti un moto casuale, così si pone che per alcuni elettroni che attraversano la sezione in un verso, ce ne siano altrettanti che l'attraversano nel senso opposto). La carica associata a dN elettroni è quindi dQ = e∙dN = e∙n∙Vd∙dt∙ΔS , da cui la corrente elettrica risulta ΔI = dQ/dt = e∙n∙Vd∙ΔS , mentre la densità di corrente è J = ΔI/ΔS = e∙n∙Vd = e∙n∙(e∙E∙τ/m) = n∙e2∙E∙τ/m . Infine, la conducibilità elettrica, da J = γ ∙E , risulta pertanto γ = J/E = n∙e2∙τ/m. Se ora si definisce il cammino libero medio di un elettrone libero, tra due urti consecutivi, come λ = v∙τ con v pari al modulo della risultante dalla somma vettoriale delle componenti velocità di deriva Vd e velocità di agitazione termica Vt , allora si può sostituire τ e riscrivere la conducibilità elettrica come γ = n∙e2∙λ/(v∙m). La Legge di Ohm stabilisce che in un mezzo lineare la conducibilità elettrica non dipende dal campo E applicato. Inoltre, è lecito supporre che il cammino libero medio λ sia indipendente dal campo elettrico, essendo legato piuttosto alla regolarità del reticolo cristallino del metallo. Quindi, a prescindere dal valore di E, essendo indipendenti da esso sia la conducibilità elettrica γ, sia la densità di elettroni liberi n , sia la carica dell'elettrone e , sia il cammino libero medio di un elettrone libero λ , ed anche la massa dell'elettrone m , da γ = n∙e2∙λ/(v∙m) consegue che anche il valore della velocità v risulta indipendente dal valore di E. Nei metalli, considerando un campo elettrico di 1 Volt/metro (che è piuttosto elevato per dei conduttori), risulta che il valore della velocità di agitazione termica degli elettroni liberi, a temperatura ambiente, è all’incirca 10 ÷ 100 milioni di volte superiore al valore della loro velocità di deriva. Ciò conferma che effettivamente la velocità risultante ha valore in modulo indipendente dal campo elettrico. Notare che ciò non significa che gli elettroni non abbiano una direzione preferenziale in presenza di un campo elettrico, ma soltanto che la loro velocità complessiva ha valore che non dipende da quello del campo. Insomma, gli elettroni subendo l'agitazione termica hanno ciascuno un moto caotico e diverso, che però tende alla direzione opposta al campo elettrico per effetto della velocità di deriva, di cui tutti risentono. Nel frattempo gli elettroni "urtano" contro gli atomi del reticolo cristallino numerosissime volte nel tempo, e ad ogni urto cedono all’atomo l’energia cinetica 121
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
acquistata e ripartono con velocità quasi nulla e così via. Per quanto riguarda il reciproco della conducibilità elettrica, cioè la resistività elettrica ρ, ebbene per un materiale conduttore reale, al di là del suo tipo di atomi, del numero di elettroni liberi, eccetera, essa è influenzata principalmente da due fattori: esiste una sorta di resistività residua, indipendente dalla temperatura, che è legata alla struttura del reticolo cristallino ed è sensibile alle sue imperfezioni e alla presenza di impurezze, ed esiste una componente della resistività legata alle vibrazioni del reticolo e dipendente dalla temperatura. Questa seconda componente della resistività aumenta di valore all'aumentare della temperatura, poiché la temperatura aumenta le vibrazioni del reticolo cristallino, aumenta l'agitazione termica degli elettroni e aumenta la frequenza degli urti tra essi e gli atomi del reticolo stesso. Per intervalli di temperatura dell'ordine del centinaio di gradi, la resistività di un materiale conduttore si può ritenere variante linearmente al variare della temperatura, purché non si sia prossimi alla temperatura dello zero assoluto, dove la resistività si avvicina al valore della sua componente residua. La resistività di un materiale, ad una certa temperatura θ, viene quindi espressa nella classica formula ρθ = ρ0∙(1 + α∙Δθ) con ρ0 resistività alla temperatura di riferimento θ0 (spesso è la temperatura a 20 °C), Δθ differenza tra le due temperature (cioè θ-θ0) e α coefficiente di temperatura (in Kelvin-1). Per i metalli, si può prendere come riferimento un coefficiente di temperatura α di circa 0.004, badando bene però che ogni metallo ha un suo proprio valore di resistività alla temperatura di riferimento ed ha anche un suo proprio coefficiente di temperatura α, il quale, tra l’altro, pur sembrando avere un valore molto basso, già con una differenza di circa 50 °C, può causare variazioni di resistività del 20%. I materiali metallici destinati a fungere da conduttori elettrici, vengono spesso prodotti in gradi di purezza il più elevati possibili (in alcuni casi i metalli sono puri finanche al 99.99 %). Una volta che la resistività elettrica viene calcolata e associata ad un determinato materiale "puro", quindi messa in memoria nei database, viene anche utilizzata come criterio di verifica del grado di purezza di un prodotto realizzato dello stesso tipo di materiale. Resistività di alcuni materiali metallici a 20 °C, espressa in Ω*m (valori indicativi) -
rame
0.017
∙10 6
alluminio
0.028
∙10-6
aldrey
0.033
∙10-6
argento
0.016
∙10-6
oro
0.024
∙10-6
tungsteno
0.055
∙10-6
zinco
0.060
∙10-6
ferro
0.10
∙10-6
stagno
0.12
∙10-6
piombo
0.22
∙10 6
(lega di alluminio con percentuali di Mg,Si,Fe)
}
rame, alluminio e aldrey sono anche le più utilizzate per corde e cavi elettrici
-
122
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
Resistività elettrica dell'acqua: dipende dalla quantità di ioni disciolti in essa, quindi dalla possibilità di contenere un certo quantitativo di cariche elettriche in grado di muoversi liberamente, o meno, al suo interno. L'acqua distillata non è un buon conduttore elettrico, ha infatti una resistività elettrica a 20 °C di circa 2∙105 Ω∙m, per poi diminuire man mano che la concentrazione di sali e vari ioni disciolti in essa aumenta. Più che la resistività dell'acqua, si usa misurarne la sua conducibilità elettrica in Siemens su metro, S/m, (o in μS/m, in μS/cm, ..), che varia fortemente da acque dolci ad acque marine e i cui valori limiti (specie per le acque potabili) sono fissati da norme e leggi. Superconduttività (cenni): Molti materiali conduttori, quando li si porta al di sotto di una certa temperatura critica, prossima allo zero assoluto, ottengono caratteristiche di superconduttori, per i quali la resistività cala bruscamente, tendendo allo zero. La temperatura critica si aggira attorno ai 4.1 K, al di sotto della quale molti metalli comuni (ad es. alluminio, stagno, piombo, zinco) diventano superconduttori con resistività anche dell'ordine di 10-25 Ω∙m . Rame, argento e oro, che a temperatura ambiente sono ottimi conduttori, non sono però superconduttori. Ovviamente, una delle caratteristiche più interessanti di un materiale superconduttore, è che, una volta stabilita una corrente elettrica in un circuito superconduttivo, essa rimane immutata per moltissimo tempo anche in assenza di una tensione, proprio perché la resistività del materiale tende a zero. Lo studio dei materiali superconduttori è molto importante, quindi, per le possibili applicazioni nell'ambito della trasmissione di energia elettrica, ma anche per la produzione di accumulatori di energia, ecc. .
MATERIALI SEMICONDUTTORI Se si pensa ai diodi allo stato solido, oppure ai transistor di ultima generazione, o alle ben più famose celle fotovoltaiche e ai LED, ci si rende conto di quanto oggigiorno i semiconduttori siano materiali fondamentali per la tecnologia. Le materie prime per realizzarli stanno diventando, però, sempre più costose, specialmente perché i giacimenti di minerali, da cui principalmente si ricavano gli elementi utili alla semiconduzione, sono concentrati in territori in mano a poche grandi Nazioni, quindi in futuro potrebbe esserci un problema di reperibilità di tali elementi. I semiconduttori si dividono in semiconduttori intrinseci, la cui conduzione è sempre legata all’attivazione di coppie elettrone-lacuna, ed estrinseci, che in fase di esercizio possono sfruttare il moto dei soli elettroni di conduzione oppure delle sole lacune (a breve saranno chiariti i concetti). Tra i semiconduttori intrinseci, sono importanti soprattutto: - il Silicio Si (energia di attivazione di circa 1.1 eV), - il Germanio Ge (energia di attivazione di 0,66 eV), facenti entrambi parte del gruppo IVA (tetravalente) della tavola periodica, - alcuni composti costituiti da un elemento del III gruppo (trivalente) più un elemento del V gruppo (pentavalente), come l’Arseniuro di Gallio GaAs (che sta alla base dei LED), - alcuni composti costituiti da elementi del II gruppo (bivalente) ed elementi del VI gruppo (esavalente), come il Solfuro di Zinco ZnS, tutti composti, cioè, che si comportano come se fossero costituiti da un solo elemento mediamente tetravalente. 123
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
Per descrivere meglio il comportamento dei semiconduttori si partirà dai semiconduttori intrinseci in Silicio. Il Silicio è un elemento tetravalente dotato di una struttura simile a quella del diamante. Ogni atomo di Si forma 4 legami covalenti con altri 4 atomi di Si attorno ad esso, sicché, quando un elettrone di valenza riceve energia sufficiente a spezzare un legame Si-Si (si ricordi che il legame è costituito da 2 elettroni) arrivando ad entrare nella banda di conduzione, al suo posto si forma una cosiddetta Lacuna (od Hole in inglese). All’applicazione di un campo elettrico, succede quindi che oltre al moto degli elettroni della banda di conduzione, si verifica anche il moto di un numero di elettroni della banda di valenza pari a quello delle lacune presenti nel materiale, ossia in definitiva pari al numero degli elettroni presenti nella banda di conduzione. Supponiamo, infatti, per semplicità, che sia arrivato in banda di conduzione un solo elettrone e- e che quindi sia presente una sola lacuna. L’elettrone di valenza più vicino alla lacuna, si sente attratto da essa e spezza il proprio legame nel tentativo di eliminare la lacuna ad esso adiacente, andando a coprirla al fine di ricostituire un legame completo, ma così facendo tale elettrone forma una nuova lacuna proprio là da dove era partito, cosicché un altro elettrone di valenza spezza il proprio legame e va a ricoprire la nuova lacuna, e così via. Il moto di questi elettroni di valenza e il moto degli elettroni di conduzione sono due moti indipendenti e dalle caratteristiche diverse. Il moto degli elettroni di valenza è infatti più difficoltoso e complesso rispetto al moto degli elettroni di conduzione, sia perché si è ancora all’interno della banda di valenza (si risente maggiormente della presenza degli atomi..), sia perché spezzare legami richiede comunque energia. Inoltre la modalità con cui si stacca un elettrone piuttosto che un altro, parimenti vicino alla stessa lacuna, è casuale. Tuttavia, il campo elettrico fa tendere anche il moto degli elettroni di valenza alla sua stessa direzione, perciò, insieme al moto degli elettroni di conduzione, il moto degli elettroni di valenza, anche se più complicato, contribuisce comunque alla conduzione. E’ abitudine, per la simmetria del fenomeno, al posto del moto degli elettroni di valenza, considerare il moto delle lacune (che è però un moto virtuale). Infatti per ogni elettrone di valenza che si sposta coprendo una lacuna, è come se si fosse spostata la lacuna stessa, giungendo nella precedente posizione dell’elettrone. In definitiva, il moto delle lacune ha stessa direzione del moto degli elettroni di conduzione, ma verso opposto. I semiconduttori estrinseci, sono materiali costituiti da elementi o composti appartenenti ai semiconduttori intrinseci, ai quali vengono però aggiunti di proposito degli elementi trivalenti (semiconduttori estrinseci di tipo P) oppure degli elementi pentavalenti (semiconduttori di tipo N), motivo per il quale vengono chiamati semiconduttori drogati (in inglese Doped Semiconductors). Il funzionamento di un semiconduttore drogato di tipo N è il seguente. Si immagini di drogare il silicio con alcune percentuali in massa di Fosforo P, i cui atomi sostituiscono quindi nel reticolo alcuni atomi di silicio. Ogni atomo di fosforo si trova legato ad altri 4 atomi di silicio attorno ad esso, ma in tal modo lascia libero da legami il proprio quinto elettrone di valenza, il quale si trova ad un livello energetico maggiore rispetto a quello degli elettroni del silicio (in inglese viene detto Donor Level). Tutto è come se il semiconduttore avesse a disposizione degli elettroni extra, i quali hanno bisogno di un’energia di attivazione minore per entrare nella banda di conduzione (il gap energetico tra banda di conduzione e livello del donatore è minore dell’energia di attivazione di un semiconduttore in silicio puro). Quindi, in caso di applicazione di un campo elettrico, la conduzione dei semiconduttori estrinseci può avvenire già a temperature più basse che per i semiconduttori intrinseci. Inoltre, ogni volta che il quinto elettrone di un atomo di fosforo se ne va in banda di 124
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conduzione, l’atomo di fosforo si ionizza positivamente, ma non si forma nessuna lacuna (non è stato spezzato nessun legame all’interno del reticolo, non se ne è andato via nessun elettrone di valenza del silicio), pertanto la conduzione avviene per opera dei soli elettroni di conduzione. Il funzionamento di un semiconduttore drogato di tipo P è invece il seguente. Si immagini di drogare il silicio con alcune percentuali in massa di alluminio, i cui atomi sostituiscono così nel reticolo alcuni atomi di silicio. Ogni atomo di alluminio, avendo a disposizione soltanto 3 elettroni di valenza, si trova legato soltanto a 3 dei 4 atomi di silicio attorno ad esso, lasciando in tal modo un vuoto tra esso e il quarto atomo di silicio. Un elettrone della banda di valenza del silicio, si ritrova più facilmente a spezzare il proprio legame per andare ad occupare il vuoto lasciato nel reticolo dall’alluminio, piuttosto che per entrare in banda di conduzione, poiché tale vuoto si trova ad un livello energetico accettore (in inglese Acceptor Level) che è di poco superiore al più alto livello energetico della banda di valenza del silicio. Tutto accade come se il semiconduttore, avesse a disposizione delle lacune che possono essere messe in mobilità e condurre elettricità in caso venga applicato un campo elettrico. Infatti, per ogni elettrone di silicio che entra nel livello accettore per riempire un vuoto lasciato dagli atomi di alluminio, si forma una lacuna all’interno della banda di valenza del silicio (si ricordi che comunque il moto delle lacune è un moto virtuale, quindi sono gli elettroni di valenza a muoversi realmente). Lo scopo principale dei semiconduttori estrinseci è proprio quello di permettere la conduzione già a temperature più basse che per i semiconduttori intrinseci. Quando la temperatura aumenta, aumentano il numero di portatori di carica termicamente attivati, cioè gli elettroni di conduzione degli elementi N-dopanti (o N-droganti come si preferisce) per i semiconduttori N-drogati, e le lacune (o meglio gli elettroni di valenza) per i semiconduttori P-drogati. Ciò fino ad un range di temperature, detto zona di esaurimento, nel quale tutti gli elettroni di conduzione degli elementi N-droganti a disposizione o tutti i vuoti degli elementi P-droganti a disposizione sono stati mobilitati, e per il quale i semiconduttori estrinseci possono quindi funzionare a conduzione costante. Oltre tale range di temperature, iniziano ad attivarsi in modo normale gli altri elettroni della banda di valenza, entrando in banda di conduzione e quindi si ritorna al comportamento tipico dei semiconduttori intrinseci. Quindi la semiconduzione estrinseca è efficace solo fino a certe temperature, dopodiché se ne perdono i vantaggi. Produrre materiali semiconduttori, in particolare semiconduttori drogati, richiede molta attenzione, poiché eventuali impurezze ne possono alterare facilmente la conducibilità. Inoltre, bisogna tener conto che la solubilità degli elementi droganti, all’interno dei materiali, ha dei limiti, oltre i quali gli atomi in eccesso, dell’elemento drogante, non vanno a sostituire gli atomi dell’elemento semiconduttore principale nella struttura, bensì finiscono per depositarsi negli interstizi del reticolo, il ché può provocare inevitabilmente delle distorsioni del reticolo stesso (le dislocazioni sono un altro problema per la conduzione). GIUNZIONE DI MATERIALI SEMICONDUTTORI ESTRINSECI La caratteristica che rende davvero utili i materiali semiconduttori drogati è la possibilità di realizzare dispositivi dotati di conducibilità selettiva. Ad esempio, si immagini di realizzare una barra semiconduttrice composta di due parti, di cui una fatta con un semiconduttore N-drogato e 125
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
l’altra con un semiconduttore P-drogato. Si immagini ora che i due estremi di tale barra (l’estremo N-drogato e l’estremo P-drogato) siano collegati ad un generatore di tensione (il circuito elettrico è chiuso). In base a qual è il verso della tensione (differenza di potenziale) imposta ai due estremi della barra, si possono realizzare diverse situazioni: Diodo raddrizzatore Nel caso in cui il verso positivo della tensione coincida con l’estremo P della barra (e il verso negativo con l’estremo N), allora, per convenzione, circola una corrente elettrica nel circuito con verso positivo quando dal generatore entra nell’estremo P della barra, il ché significa che i portatori di carica elettrica negativa circolano in senso contrario, muovendo dal generatore verso l’estremo N della barra. Tutto ciò porta gli elettroni di conduzione del semiconduttore N-drogato a muovere dall’estremo N della barra verso il centro della barra stessa, mentre allo stesso modo, le lacune del semiconduttore P-drogato muovono dall’estremo P della barra verso il centro. In questo modo la zona intermedia di giunzione tra le due parti semiconduttrici viene detta Zona di Ricombinazione, poiché lacune ed e- tendono ivi a ricombinarsi. Il moto delle lacune equivale però al moto reale degli e- di valenza in senso contrario (cioè stessa direzione degli e- di conduzione), quindi nel complesso si ha un moto di elettroni dal semiconduttore N al semiconduttore P, cioè nell’effettivo verso di percorrenza degli elettroni lungo il circuito elettrico. Si ha così una buona conduzione elettrica. Qualora, invece, il verso della tensione imposta dall’esterno coincida con l’estremo N della barra, si ha allora che gli elettroni di conduzione muovono dal centro della barra verso l’estremo N della barra, ivi tendendo ad addensarsi, mentre le lacune muovono dal centro della barra verso l’estremo P, ivi tendendo ad addensarsi. In tal modo, la barra diventa un generatore di tensione con polo positivo all’estremo P e polo negativo all’estremo N, dunque si oppone al generatore di tensione esterno, riducendo così il passaggio di corrente elettrica. La parte centrale della barra (sede della giunzione dei due semiconduttori P ed N) viene pertanto chiamata Zona Isolante, poiché tutto accade quasi come se il circuito fosse aperto (o comunque dotato di una resistenza elevatissima in luogo della giunzione P-N). Il motivo fisico che ostacola la conduzione è che gli elettroni circolanti nel circuito elettrico, quando arrivano all’estremo P della barra, improvvisamente si trovano davanti molte lacune e tendono così a riempirle. Si abbassa quindi il numero di elettroni che riescono a passare oltre, di conseguenza la conducibilità è molto bassa (potrebbe sì essere aumentata fino a valori alti, fenomeno di polarizzazione inversa, ma soltanto in presenza di una tensione del generatore esterno di valore assai elevato da vincere la tensione indotta nella barra che tende appunto a opporvisi). Il diodo raddrizzatore, che fondamentalmente altro non è che una giunzione P-N di semiconduttori estrinseci, funziona quindi come un dispositivo che fa passare molta corrente elettrica soltanto quando la tensione esterna, imposta al diodo, ha verso concorde col lato del semiconduttore P-Drogato. La corrente circolante nel circuito viene chiamata corrente di Diodo, ID (senza entrare nel dettaglio, essa è legata alla tensione imposta dal generatore tramite la funzione
con
corrente di
saturazione inversa, e carica dell’elettrone, V tensione imposta ai capi del diodo, k costante di Boltzmann e T temperatura in Kelvin). Il diodo raddrizzatore, può essere utilizzato come sensore elettrico, oppure per trasmettere/far passare soltanto alcuni segnali elettrici, eccetera.. . 126
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
Cella fotovoltaica Fondamentalmente, anche una cella fotovoltaica è costituita da una giunzione P-N di due semiconduttori estrinseci collegati ad un generatore di tensione esterno con polo positivo concorde al semiconduttore P-drogato, ma, in questo caso, la superficie del semiconduttore di tipo N-drogato è realizzata con una forma tale da poter assorbire al meglio la radiazione solare. Vale ancora quanto spiegato per il diodo raddrizzatore, con l’aggiunta che, se i fotoni della radiazione solare hanno abbastanza energia, allora, entrando nel semiconduttore di tipo N, possono far passare alcuni elettroni di valenza in banda di conduzione, formando così coppie elettrone-lacuna, di cui gli e- tenderanno ad uscire dal semiconduttore N-drogato per muovere verso il circuito, mentre le lacune tenderanno a muovere verso il semiconduttore P-drogato, incontrando gli e- provenienti dal circuito elettrico, il tutto quindi in un tentativo di annullare la corrente di diodo, opponendogli una corrente, detta Corrente di Cella Solare, Isc . Se la radiazione solare è abbastanza intensa da vincere addirittura la corrente di Diodo, la cella Fotovoltaica può diventare quindi un generatore di potenza elettrica, con valore di corrente pari alla differenza tra la corrente di cella solare e la corrente di diodo. Una singola cella fotovoltaica reale è in grado di produrre una potenza elettrica di circa soltanto 1,5 W, erogando una corrente di 3 A ad una tensione però di soli 0,5 V. Insomma una sola cella non è adatta per grandi necessità/richieste di potenza e quindi si realizzano moduli fotovoltaici contenenti numerose celle fotovoltaiche connesse in serie e in parallelo tra loro per poter aumentare la tensione e per poter erogare potenze maggiori (più moduli fotovoltaici, possono poi essere a loro volta connessi in serie/parallelo per ampliare ulteriormente la potenza elettrica generata). LED Si è spiegato che un diodo raddrizzatore fa circolare molta corrente elettrica solo quando è collegato ad un generatore di tensione che ha verso positivo coincidente con l’estremo P del diodo stesso. Nella Zona di Ricombinazione del giunto P-N, quando avviene l’incontro tra un elettrone di conduzione e una lacuna, la ricombinazione tra i due fa ritornare tale elettrone ad un livello energetico inferiore (l’elettrone rientra in banda di valenza), il ché comporta un rilascio di energia, legata alla differenza di energia tra la banda di conduzione e la banda di valenza, sotto forma di fotoni. I LED (acronimo che sta per Light Emitting Diode) sono particolari diodi che sfruttano la ricombinazione elettroni di conduzione-lacune per emettere fotoni nello spettro del visibile, grazie all’applicazione di strati di sostanze in grado di assorbire l’energia rilasciata nella fascia degli ultravioletti e di riemetterla appunto nel visibile. Esistono infatti materiali “luminescenti”, i quali, una volta che possiedono elettroni in livelli eccitati, emettono luce quando tali elettroni ritornano a livelli “rilassati” (cioè livelli ad energia inferiore). Nei LED, tali materiali luminescenti assorbono quindi l’energia ultravioletta emessa dai fotoni, prodotti nella Zona di Ricombinazione, per poi riemettere energia luminosa. Le varie colorazioni dei Led, possono inoltre essere ottenute anche grazie all’opportuna scelta di quali sostanze luminescenti adoperare: ad esempio, un LED a luce più “bianca” può essere ottenuto dalla combinazione di un LED che emette luce nel blu con un fosforo che assorbe una parte di questa luce blu per emetterla nel giallo.
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CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
Nota: anche nelle celle fotovoltaiche esistono strati luminescenti, che convertono gli U.V. in componenti energetiche a lunghezze d’onda più alte. In questo modo permettono, nello strato semiconduttore di tipo N, un assorbimento di energia ad una frequenza più adatta per l’effettiva formazione di coppie elettrone-lacuna (che si formano più facilmente in caso ricevano energia nello spettro del visibile, più che nell’U.V.). Digressione sui materiali luminescenti: si parla di fluorescenza quando la riemissione avviene entro i 10 ms dall’eccitazione/assorbimento di energia; di fosforescenza se l’emissione avviene in tempi più lunghi. Vengono chiamati “fosfori” le sostanze in grado di assorbire energia elettromagnetica o cinetica, decelerando gli elettroni su di essi impattanti, per poi riemetterla nel visibile.
MATERIALI DIELETTRICI memorandum: il valore del campo elettrico nel vuoto, prodotto da una carica elettrica q , in un punto distante x dalla carica, è E = q/(4π∙ε0∙x2) , in N/C (newton su coulomb) o più spesso espresso in V/m (volt su metro). Un materiale dielettrico è un materiale che si oppone all'applicazione di un campo elettrico esterno, producendo un campo elettrico interno, tramite fenomeni di polarizzazione elettrica. Essi avvengono nel tentativo di annullare la differenza di energia potenziale, causata dal campo elettrico esterno, rispetto alla situazione precedente di quiete. Nel materiale dielettrico tali fenomeni di polarizzazione prevalgono rispetto a quelli di conduzione elettrica, per la quale l'intensità del campo elettrico esterno non fornisce sufficiente energia (l'energia richiesta per liberare gli elettroni è troppo alta). Quindi, un dielettrico può anche essere un buonissimo o un ottimo isolante elettrico, mentre un materiale isolante non è necessariamente un materiale dielettrico: un materiale isolante può infatti idealmente non essere suscettibile di polarizzazione, risultando ugualmente elettricamente isolante semplicemente perché l'energia di attivazione richiesta per estrarre cariche elettriche, atte a condurre l'elettricità, è troppo alta. Nel dielettrico (gassoso, liquido o solido), la polarizzazione complessiva ̅ può essere pensata come la risultante di tutti i momenti di dipolo elettrici elementari, rapportati al volume del dielettrico stesso, che già sono presenti in maniera disordinata o che alla comparsa di un campo elettrico si possono formare in vari modi. Si ha, cioè, ̅ = ∑ ̅ / V. Per definizione si considera il dipolo elettrico come costituito da due cariche uguali e contrarie, separate da una distanza fissa, da cui il momento di dipolo elettrico elementare ha formula ̅ = q∙̅ con q carica elettrica del dipolo e ̅ vettore che esprime la distanza tra i baricentri dei due poli, con verso che va dal polo negativo al polo positivo. Dato che il momento di dipolo elementare è espresso in C∙m, il vettore polarizzazione ̅ ha quindi le caratteristiche di una densità di carica superficiale, in C/m2 (infatti, raramente, ma assai più correttamente, lo si sente chiamare vettore densità di polarizzazione). A livello macroscopico, la polarizzazione si formula, così, partendo dal vettore spostamento elettrico ̅ (C/m2), riscrivendolo come: ̅ = ε∙̅ = ε0∙εr∙̅ = ε0∙̅ + ̅ . Si ha cioè ̅ = ε0∙(εr - 1)∙̅ = ε0∙χ∙̅ con χ = εr - 1 detta suscettività dielettrica, che ha valore maggiore o uguale a zero (zero per il vuoto). Si ricorda che ε 128
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è detta permittività assoluta del mezzo (o costante dielettrica assoluta del mezzo), mentre εr è detta permittività relativa del mezzo (o costante dielettrica relativa del mezzo), maggiore o uguale a uno, la quale è il fattore di cui il campo elettrico si riduce quando non è più immerso nel vuoto, ma in un mezzo materiale. Notare come il vettore polarizzazione sia proporzionale ed equiverso al vettore campo elettrico esterno applicato, ma poiché i campi elettrici hanno verso che va dal polo elettrico positivo al polo negativo, mentre le polarizzazioni elettriche hanno verso che va dal polo negativo al polo positivo, il campo elettrico prodotto dalla polarizzazione ha verso opposto al campo esterno. Tutti i materiali risentono della presenza di campi elettrici esterni, ma solo nei materiali dielettrici i fenomeni di polarizzazione sono tali da modificare sensibilmente il valore del campo elettrico nel materiale, dato dalla differenza tra il campo elettrico esterno e quello prodotto appunto dagli effetti della polarizzazione. Si distinguono vari meccanismi di polarizzazione elettrica: - polarizzazione elettronica: ogni singolo atomo subisce uno spostamento delle cariche elettriche al suo interno, quindi una deformazione delle orbite elettroniche, con la formazione di un dipolo elettrico. I nuclei vengono cioè sollecitati da forze dirette nel verso del campo elettrico esterno (ad esempio, se il campo esterno ha polo positivo a sinistra e negativo a destra, quindi verso rivolto a destra, i nuclei si spostano verso destra), gli elettroni vengono sollecitati da forze dirette nel verso opposto, originando quindi complessivamente un campo elettrico opposto a quello esterno. A tali forze si oppongono quelle attrattive tra nuclei ed elettroni, quindi il campo elettrico esterno non può mai essere eguagliato in modulo. La polarizzazione elettronica è presente in tutti i materiali, ma è maggiormente rilevabile nei gas non polari. Inoltre, essa si verifica in tempi minori rispetto agli altri tipi di polarizzazione, i quali però, se presenti nei dielettrici, hanno un effetto dominante; - polarizzazione ionica: si manifesta all'interno di materiali solidi, in cui le molecole sono caratterizzate da legami ionici e hanno struttura simmetrica (quindi sono non polari). A riposo il campo elettrico interno è nullo, ma l'applicazione di un campo elettrico esterno provoca uno spostamento degli atomi delle singole molecole, i cui ioni positivi si spostano lungo la direzione del campo esterno e nello stesso verso, mentre quelli negativi in verso opposto, originando quindi dei dipoli elettrici (le molecole sono deformate e non più a struttura simmetrica). In questo caso, non è possibile eguagliare in modulo il campo elettrico esterno anche a causa delle forze di legame ionico tra i vari atomi. - polarizzazione dipolare (o per orientamento dipolare): all'interno di una sostanza polare, i suoi vari dipoli elettrici naturali (molecole a struttura non simmetrica, quindi intrinsecamente polari), in assenza di un campo elettrico esterno, sono casualmente orientati, con campo elettrico interno complessivamente nullo. Invece, in presenza di un campo esterno, tali dipoli tendono a ruotare, orientandosi e allineandosi in modo da produrre un campo elettrico interno, antagonista a quello esterno. Tale fenomeno viene detto polarizzazione dipolare. Un orientamento totale dei dipoli è irraggiungibile, poiché il piccolo campo elettrico prodotto da ognuno frena l'orientamento dei dipoli vicini, quindi sarebbe necessario un campo elettrico esterno di intensità tendente all'infinito, ma prima ancora di raggiungere tale valore, si avrebbe il superamento della rigidità dielettrica del materiale, che darebbe vita ad una scarica elettrica (distruttiva nei solidi). Quindi, ovviamente, si ha anche che l’orientamento dei dipoli elettrici non sarà mai in grado di annullare completamente un campo elettrico esterno. (Precisazione: per rigidità dielettrica si intende appunto il massimo campo elettrico che è applicabile ad un materiale, ad esempio tramite una differenza di potenziale su due facce opposte, prima di arrivare ad una scarica elettrica). 129
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
Nei dielettrici solidi i vari fenomeni di polarizzazione, possono anche originare una distribuzione delle cariche elettriche sulle superfici dei singoli grani/cristalli, che diventano essi stessi delle specie di coppie polari più grandi (in inglese si parla di grain coupling). Esistono poi materiali solidi, per i quali non si può applicare fedelmente la trattazione precedentemente utilizzata per descrivere la polarizzazione a livello macroscopico: la dipendenza della polarizzazione dal campo elettrico non risulta più lineare, essendo εr dipendente sia dalla "storia" passata di questi materiali, sia dal tipo di trattamenti da essi subiti. Tali materiali sono i Ferroelettrici, che all'applicazione di un campo elettrico esterno, polarizzano fino alla saturazione e una volta spento questo campo, conservano una polarizzazione residua, anche detta polarizzazione spontanea. Essi presentano quindi un ciclo di isteresi, nel diagramma Polarizzazione-Campo elettrico, simile a quello dei materiali ferromagnetici, motivo per cui vengono chiamati appunto ferroelettrici. I ferroelettrici mantengono questa loro peculiarità, fin tanto che sono al di sotto della temperatura di Curie, sotto la quale hanno una struttura cristallina asimmetrica, che permette loro di conservare una natura dipolare, mentre al di sopra di tale temperatura la struttura diventa centro-simmetrica e si perde la polarizzazione residua. La temperatura di Curie varia da materiale a materiale, in base alla composizione chimico-fisica, e quindi, realizzando soluzioni solide di ferroelettrici più altri elementi/composti, è possibile ampliare il range di temperatura al quale un materiale conserva buone proprietà ferroelettriche. Alcuni tipi di materiale dielettrico a struttura cristallina, se sollecitati meccanicamente in maniera uniforme, ad esempio mettendo in trazione o in compressione due facce opposte del dielettrico, subiscono uno spostamento meccanico degli ioni positivi e negativi, che origina una polarizzazione del materiale stesso, quindi un campo elettrico. Questa proprietà viene detta piezoelettricità (elettricità da pressione). Viceversa, l'applicazione di un campo elettrico esterno provoca la deformazione meccanica del materiale dielettrico (effetto piezoelettrico inverso). Per i materiali piezoelettrici (come il quarzo), la deformazione è reversibile, mentre per altri materiali comunque simili ad essi, a seguito della pressione esercitata, l'eventuale applicazione di un campo elettrico inverso non riesce a riportare completamente alle dimensioni originali il materiale utilizzato (nemmeno aumentando l'intensità del campo). Altri materiali ancora vengono detti piroelettrici, per la proprietà di subire una polarizzazione in conseguenza di una variazione di temperatura. Mentre tutti i ferroelettrici presentano anche comportamenti piezoelettrici e piroelettrici, solo alcuni materiali piezoelettrici e alcuni piroelettrici sono anche ferroelettrici. L'importanza dei materiali piezoelettrici, piroelettrici e più in generale dei ferroelettrici, sta nella possibilità di produrre vari tipi di sensori, trasduttori e anche memorie (queste ultime sfruttano la capacità dei ferroelettrici di conservare una polarizzazione residua). UTILIZZO DEI DIELETTRCI COME MATERIALI ISOLANTI (con un accenno alla riduzione della polarizzabilità e alle dissipazioni di energia per i dielettrici in generale)
Diversi tipi di materiali dielettrici sono impiegati per realizzare i condensatori elettrici: in presenza di un campo elettrico esterno variabile e periodico, molti dielettrici hanno infatti una polarizzazione che assume bene lo stesso tipo di andamento del campo esterno, caratteristica che sta appunto alla base del funzionamento dei condensatori nei circuiti a corrente alternata. Altri dielettrici, come sopra accennato, si usano invece per realizzare vari tipi di sensori, ecc.. Ovviamente, però, il principale 130
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
utilizzo dei dielettrici consiste nell’impiegarli come materiali isolanti: essi avvolgono i cavi elettrici; costituiscono gli involucri/telai di oggetti, strumenti o componenti in cui circola corrente elettrica o che sono semplicemente in tensione; fungono da isolatori che sostengono le corde elettriche aeree .. Le proprietà isolanti dei materiali dielettrici non sono però ideali, poiché avvengono dissipazioni di energia che rendono la polarizzazione non ideale, o esistono anche vari fenomeni di ionizzazione e quindi anche di conduzione (specie superficiale), .. Infatti, in un materiale dielettrico generico, all'applicazione di un campo elettrico esterno, ogni dipolo elementare risente del campo elettrico presente nei dipoli adiacenti, disturbandosi a vicenda. Inoltre, sono presenti forze tra nuclei-elettroni, forze di legame tra atomi, di legame tra molecole; in più è pure presente la stessa agitazione termica, che rende la polarizzazione sensibile alla temperatura del materiale; ecc. . Quindi, tutto ciò, oltre a limitare la polarizzabilità del materiale, ne condiziona la velocità: la polarizzazione non è cioè idealmente istantanea, esiste una specie di inerzia nel rispondere al campo elettrico. Se è presente un campo esterno variabile e periodico, anche la sua frequenza influisce sulla polarizzabilità del dielettrico, il quale, se la frequenza è troppo elevata, può addirittura non riuscire a polarizzarsi (non fa in tempo a seguire la variazione del campo elettrico). Un campo periodico fa inoltre sì che ad ogni periodo il dielettrico, nel continuo tentativo “di correggere” la sua polarizzazione, dissipi (sotto forma di calore) parte dell'energia ricevuta. I vari fenomeni di ionizzazione, non tutti legati all'applicazione di un campo esterno (si pensi infatti alla fotoionizzazione, cioè l'eccitazione/ionizzazione causata da fotoni), portano alla liberazione di cariche elettriche nel materiale, che possono condurre elettricità, riducendo le proprietà isolanti del dielettrico. Riguardo strettamente alla conduzione elettrica superficiale, essa è maggiormente probabile se la superficie del dielettrico è a contatto con molecole d'acqua, ancor più se è proprio presente un velo acquoso, dovuto, ad esempio, alla condensazione dell'umidità dell'ambiente, o alla pioggia per esposizione del dielettrico "all'aria aperta". Se la superficie esterna del dielettrico risulta porosa, può anche più facilmente assorbire acqua e sostanze chimiche, così la corrosione stessa e altri fenomeni chimici, possono intaccare il dielettrico e favorire la conduzione elettrica. Insomma, un dielettrico isolante reale non è isolante in modo perfetto e, in base alle condizioni di esercizio, vanno scelte le opportune tipologie di dielettrici. Gli isolanti gassosi (aria, azoto, esafluoruro di zolfo, ecc.) si sfruttano soprattutto per isolare parti in tensione, come le linee elettriche scoperte (non solo corde aeree), interruttori, eccetera. Gli isolanti liquidi (prevalentemente oli minerali e i più costosi oli sintetici) vengono utilizzati come materiale riempitivo di isolanti solidi, o per raffreddare parti elettriche (ad es. nei trasformatori), o per assorbire eventuali scariche elettriche di interruttori e altro (specie in caso di guasti elettrici), .. Gli isolanti solidi sono i più adoperati in tutti i settori: miche e simili (la mica è un minerale filosilicato dall'elevata rigidità elettrica, ottima stabilità chimica e resistenza alla fiamma) si impiegano per realizzare condensatori o isolanti di parti elettriche ad alta tensione o in ambienti a rischio di incendio; con vetri e materiali ceramici si realizzano soprattutto isolatori, e vari ceramici si usano anche per applicazioni piezoelettriche (già il quarzo è il piezoelettrico più diffuso), nonché per condensatori; esistono vari isolanti in materiale composito (tra i quali può essere considerata un composito pure la carta impregnata d’olio); materiali polimerici termoplastici o termoindurenti per realizzare guaine protettive, rivestimenti, supporti meccanici, guarnizioni o vernici isolanti; .. 131
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
Elenco di alcuni tipi di isolanti Ricordando che costante dielettrica relativa (εr) e rigidità elettrica sono influenzate dalla temperatura, da difetti e impurezze nel materiale, dal suo grado di usura, dalla frequenza del campo elettrico e dal tempo di esposizione a tale campo, eccetera (che ne condizionano anche la durabilità), eccone, a titolo d’esempio, alcuni valori indicativi tipici di vari materiali e sostanze:
εr
rigidità dielettrica in kV/mm (a parità di materiale, per i range di valori sottostanti, i valori minori di essa si hanno per valori di εr maggiori)
aria secca (no umidità)
1.0006
3
oli minerali e oli sintetici
2 ÷ 3.7
7.5 ÷ 17
carte speciali
1.6 ÷ 4
6 ÷ 30
mica
6÷8
40 ÷ 118
diamante
5÷6
2000
vetro
4 ÷ 10
25 ÷ 120
quarzo
3.75
25 ÷ 40
porcellana
4÷7
10 ÷ 38
carburo di silicio (SiC)
6.5 ÷ 10
300
diossido di Titanio (TiO2)
90 ÷ 170
5 ÷ 10
titanati di bario e di stronzio
103 ÷ 104
5÷8
(BaTiO3 e BaSrTiO3 per ferroelettrici )
Inoltre, si evidenziano i seguenti per il loro diffuso impiego nell'isolamento di cavi elettrici:
εr
rigidità dielettrica in kV/mm (a parità di materiale, per i range di valori sottostanti, i valori minori di essa si hanno per valori di εr maggiori)
PVC
3.5 ÷ 7
16 ÷ 20
EPR (ethylene-propylene rubber)
2.2 ÷ 3
15 ÷ 27
Polietilene reticolato XLPE
2.3 ÷ 2.8
20 ÷ 24
(cross-linked polyethylene)
Nota: Poiché temperature e frequenze diverse possono dare risultati estremamente variabili, i cataloghi con le caratteristiche tecniche dei materiali offrono valori precisi di costante dielettrica relativa e rigidità dielettrica, che sono accompagnati dalla temperatura massima di esercizio e dalla frequenza di esercizio, alle quali si riferiscono. Inoltre, valori alti di rigidità dielettrica possono calare già dopo brevi durate del tempo di esposizione del materiale ad un campo elettrico (ad es. per i cavi elettrici isolati in XLPE vengono spesso riportati in tabella valori di 35-40 kV/mm che in realtà scendono già sui trenta dopo poche ore/giorni di esercizio). Ovviamente a parità di qualche proprietà elettrica, sulla scelta del materiale elettricamente più adatto alle proprie esigenze, influiscono anche le varie caratteristiche meccaniche, termiche, chimiche, nonché economiche.. 132
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
MATERIALI MAGNETICI Giusto per ricordarsi: Con ̅ si indica l'induzione magnetica, espressa in T (Tesla) o in Wb/m2 (Weber su metro quadro), che rappresenta la densità di flusso magnetico presente in una determinata zona. Ad es: data una corrente ideale filiforme rettilinea I , prodotta nel vuoto dal moto rettilineo uniforme di cariche elettriche, il valore dell'induzione magnetica, in un punto distante x dal filo, è dato da B = μ0∙I/(2π∙x) dove μ0 è la permeabilità magnetica del vuoto pari a 4∙π∙10-7 H/m (Henry su metro). Con ̅ si indica invece il campo magnetico, in A/m (Ampere su metro). B e H sono legati secondo la relazione ̅ = μ∙ ̅ , dove μ = μ 0∙μ r è la permeabilità magnetica assoluta del mezzo, mentre μ r è detta permeabilità magnetica relativa del mezzo (μ r = 1 per il vuoto), la quale è il fattore di cui la densità di flusso magnetico B aumenta (o diminuisce) quando non si è più nel vuoto, ma in un mezzo materiale. Tutto ciò che concerne lo studio dei campi magnetici, la loro natura, gli effetti sui materiali e le proprietà dei materiali stessi in presenza di tali campi, è ed è stata una questione molto complessa, perché di fatto il campo magnetico risulta essere prodotto dal moto di cariche elettriche e non da particelle in quiete (inoltre interazioni elettriche e interazioni magnetiche sono più in generale due espressioni diverse di un'unica interazione elettromagnetica). Tra l'altro, anche se vi sono alcune teorie a riguardo, non è ancora stata dimostrata sperimentalmente l'eventuale esistenza di un "monopolo magnetico", cioè l'esistenza di una particella elementare con carica magnetica netta (nella realtà quotidiana si ha in pratica a che fare con dipoli magnetici, che se divisi in due originano due dipoli più piccoli ecc., per cui le linee di forza di un campo magnetico isolato si chiudono sempre su se stesse, a differenza del campo elettrico che può essere originato anche da un monopolo elettrico con linee di campo aperte). A livello microscopico, i fenomeni magnetici sono legati a caratteristiche atomiche che richiederebbero nozioni di meccanica quantistica. Per semplificare, si immagini che un elettrone, di carica e, ruoti con velocità costante v attorno al nucleo atomico, su un orbita circolare di raggio r, producendo un momento magnetico orbitale in direzione ortogonale alla superficie S coperta dall'orbita, di modulo m = I∙S (A∙m2), in cui I è la corrente associata al moto dell'elettrone. Il periodo di rivoluzione dell'elettrone attorno al nucleo è T = 2πr/v, da cui I = e/ T = e∙v/2πr, mentre S = πr2. Quindi, il modulo del momento magnetico orbitale risulta m = e∙v∙r , il quale può essere visto come m = ( e/me)∙L , essendo L il modulo del momento angolare dell'elettrone che ruota attorno al nucleo (L = me∙v∙r) ed me la massa dell'elettrone. Vettorialmente il momento angolare di rivoluzione dell'elettrone attorno al nucleo ha verso pari a quello della sua velocità angolare, mentre il momento magnetico orbitale ha verso opposto perché l'elettrone ha carica elettrica negativa ( ̅ = - |e|∙ ̅ /me ). Ricondurre il momento magnetico orbitale al momento angolare serve qui a ricordare che negli atomi il momento angolare degli elettroni può assumere solo alcuni determinati valori "a salti" (L = √
∙
con h costante di Planck ed l = 0,1,2..). Di conseguenza anche il momento
magnetico orbitale assume determinati valori e, in generale, per gli atomi (e per le molecole) tali valori si compensano vettorialmente a vicenda, con elettroni che circolano in direzioni e versi opposti lungo le varie orbite. Esiste inoltre un momento angolare intrinseco dell'elettrone che 133
CAPITOLO 9 - ELETTRICI E MAGNETICI
"ruota su se stesso" (in un verso o in quello opposto), detto Spin (S = h/4π), il quale origina un momento magnetico di spin, che può assumere soltanto due valori. (In realtà anche protoni e neutroni possiedono uno spin, ma il loro contributo magnetico risulta trascurabile per alcuni ordini di grandezza). I momenti magnetici di spin si compensano perché gli elettroni tendono ad essere accoppiati nelle stesse orbite con spin opposti. Per tanto, il momento di dipolo magnetico elementare di un atomo si può considerare come il contributo totale e poco rilevante dei vari momenti magnetici orbitali e di spin. Tuttavia, esso ha un valore non più trascurabile, quando l'atomo presenta un numero di elettroni dispari, e/o sono presenti elettroni accoppiati con spin concordi (capita se tale accoppiamento è favorito energicamente): si dice allora che l'atomo ha un momento di dipolo magnetico elementare permanente. Si consideri ora un tronco di materiale cilindrico, costituito da soli dipoli magnetici elementari permanenti m, allineati ed equiversi. Li si Immagini per semplicità tutti uguali e ognuno prodotto da un unico elettrone, che circola attorno al nucleo su un orbita ortogonale all'asse del cilindro. Le correnti elementari associate sono tutte uguali e hanno stesso senso di percorrenza nelle rispettive orbite elettroniche. Di conseguenza, su una sezione del cilindro, ortogonale all'asse, dipoli adiacenti hanno correnti elettriche elementari che paiono elidersi a vicenda, mentre i dipoli esterni contribuiscono a dare, come risultante, una corrente che sembra circolare solamente sul bordo di tale sezione. Il tronco cilindrico costituito dall’insieme di queste numerose sezioni, può essere allora visto come percorso superficialmente da una corrente magnetizzante ortogonale all’asse del cilindro, che rende il cilindro stesso sede di un campo magnetico. Siccome, in assenza di un campo magnetico esterno, per un generico materiale non tutti i suoi atomi/molecole costituiscono in realtà dei dipoli magnetici elementari permanenti, o questi, se presenti, tendono ad essere orientati in modo casuale nello spazio, quanto sopra esposto permette di intuire meglio come: per un materiale soggetto all'applicazione di un campo magnetico esterno (ad esempio, avvolgendo il materiale stesso con un solenoide percorso da corrente), esiste un'intensità di magnetizzazione, anche detta polarizzazione magnetica, ̅ , considerabile come la risultante dei contributi dei vari dipoli magnetici elementari, rapportati al volume del materiale stesso, che si formano o si orientano in risposta all'applicazione di un tale campo magnetico esterno. Si ha cioè ̅ = ∑ ̅ / V (che è espressa in A/m). Per evidenziare il legame diretto tra l'intensità di questa polarizzazione magnetica e lo stesso campo magnetico ̅ (in A/m), si riscrive la formula che lega l'induzione magnetica ̅ e il campo magnetico, come ̅ = μ∙ ̅ = μ 0∙μ r∙ ̅ = μ 0∙ ̅ + μ 0∙ ̅ , da cui la polarizzazione magnetica risulta essere ̅ = (μ r - 1)∙ ̅ = χm∙ ̅ , con χm = μ r - 1 detta suscettività magnetica, uguale a zero per il vuoto. Si distinguono, quindi, i materiali in: - diamagnetici
che hanno μ r < 1
( χm negativa e solitamente dell'ordine di 10- 5);
- paramagnetici
che hanno μ r > 1
( χm positiva e circa dell'ordine di 10- 5 ÷ 10- 3);
- ferromagnetici con μ r >> 1 ( χm positiva e dell'ordine di 103 ÷ 105) per i quali la trattazione appena fatta a livello macroscopico sulla polarizzazione magnetica, non può essere propriamente applicata, essendo per essi non lineare la relazione tra induzione magnetica e campo magnetico (presentano isteresi magnetica, ecc..). _
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I materiali diamagnetici sono quei materiali che in seguito all'applicazione di un campo magnetico esterno H , presentano il fenomeno del diamagnetismo, cercano cioè di ridurre il campo esterno, attraverso la creazione di un momento magnetico di direzione pari a quella del campo esterno, ma di verso opposto. Il diamagnetismo è in realtà un fenomeno presente in tutti i materiali, ma è evidente solo nei materiali diamagnetici, perché in essi non sono presenti dipoli magnetici elementari permanenti. Nei diamagnetici, i dipoli si formano infatti solo in presenza di un campo magnetico esterno e si annullano quando questo viene rimosso. La formazione di tali dipoli viene spiegata con il fatto che, in risposta al campo magnetico esterno, gli elettroni di ciascun atomo, soprattutto quelli le cui velocità angolari hanno asse ortogonale alla direzione del campo, non seguono più correttamente la loro precedente traiettoria attorno al nucleo, ma ognuno di essi crea un moto di precessione, più o meno ampio, della propria velocità angolare, con asse di precessione inclinato il più possibile nella direzione del campo magnetico esterno, ma in modo che il senso di percorrenza della corrente associabile a tale moto, produca una componente magnetica di verso opposto a quello del campo esterno. Nei materiali in cui sono invece presenti dipoli magnetici elementari permanenti, il diamagnetismo, seppure presente, non risulta evidente poiché inferiore, per intensità, rispetto ad altri tipi di fenomeni magnetici, che tendono a formare un campo magnetico interno parallelo ed equiverso a quello esterno. Sono prettamente diamagnetiche molte sostanze tra cui il rame, lo zinco, l'argento, l'oro, il mercurio, il piombo, il bismuto, la grafite e il diamante, ecc. I materiali superconduttori, raffreddati al di sotto della loro temperatura critica, in presenza di un campo magnetico esterno (se di intensità inferiore ad un certo valore), diventano "diamagnetici perfetti" , perché sede di correnti superficiali che riescono a produrre un campo magnetico interno opposto ed equivalente a quello esterno (effetto Meissner, che sta alla base della lievitazione diamagnetica dei superconduttori). I materiali paramagnetici sono materiali in cui sono presenti dipoli magnetici permanenti, deboli, non interagenti tra di loro e casualmente orientati, che però in presenza di un campo magnetico esterno tendono ad allinearsi concordemente al verso del campo stesso, polarizzando leggermente il materiale. La magnetizzazione del materiale è debole anche a causa dell'agitazione termica che mantiene un certo disordine nell'orientazione dei dipoli, tanto che, allo spegnimento del campo magnetico esterno, la polarizzazione stessa svanisce. L'influenza della temperatura sulla magnetizzazione di un materiale paramagnetico è evidenziata nella Legge di Curie per calcolare la suscettività magnetica: χm = C/ T con C coefficiente di proporzionalità, proprio del materiale, chiamato costante di Curie e T temperatura del materiale in Kelvin. L'aumento di temperatura riduce quindi la polarizzabilità del materiale. Tipici paramagnetici sono il litio, il sodio, l'alluminio, il titanio, il molibdeno, il cesio, il tungsteno e vari altri materiali al di sopra di una propria temperatura critica, la quale fa a loro perdere le proprietà magnetiche più marcate (del paramagnetismo). Esistono poi materiali ferromagnetici e materiali antiferromagnetici, le cui proprietà dipendono anche dall'interazione tra dipoli magnetici all'interno del materiale stesso, di cui la Legge di Curie non tiene conto e a causa della quale è necessaria una formula più generale, detta Legge di Weiss-Curie: χm = C/(T-θ) con θ costante di Weiss, che per i ferromagnetici coincide con la 135
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temperatura ferromagnetica di Curie, Tc , sopra la quale tali materiali perdono le proprietà ferromagnetiche e diventano paramagnetici, mentre per gli antiferromagnetici coincide con la temperatura antiferromagnetica di Neel, Tn, sopra la quale anch'essi diventano paramagnetici. La formula si deve al fatto che Weiss ipotizzò, per i materiali ferromagnetici, la presenza di dipoli molecolari, interagenti tra loro, che originassero localmente e spontaneamente dei domini magnetici all'interno del materiale, magneticamente saturi, e che, all'accensione di un campo magnetico esterno, contribuissero alla polarizzazione del materiale stesso, sia estendendo la magnetizzazione ai domini magnetici vicini, sia orientandosi a seguire la direzione del campo esterno. Tale meccanismo venne poi spiegato da Heisenberg soprattutto con la presenza di dipoli molecolari in cui gli spin degli elettroni di una molecola interagiscono con gli spin degli elettroni di una molecola adiacente, influenzandosi a vicenda e allineandosi. I ferromagnetici sono materiali per i quali la permeabilità magnetica relativa dipende fortemente dalla "storia magnetica" pregressa del materiale, sono fortemente polarizzabili e con diagramma induzione magnetica - campo magnetico che presenta la famosa curva di isteresi magnetica, la quale mostra anche come allo spegnimento del campo magnetico esterno, rimanga un'induzione residua nel materiale (quindi una magnetizzazione residua, che viene sfruttata anche per la realizzazione di magneti permanenti). I ferromagnetici sono costituiti da dipoli magnetici permanenti, raggruppati in domini in cui sono magneticamente equiorientati. Tali domini sono però molto piccoli e tra loro casualmente orientati all'interno del materiale, in tutte e tre le dimensioni dello spazio, con un passaggio graduale da un'orientazione all'altra (queste zone di transizione sono dette pareti di dominio). La polarizzazione totale è mediamente nulla. Quando, però, viene applicato un campo magnetico esterno, tali domini estendono la loro magnetizzazione a zone vicine e iniziano anche ad allinearsi secondo la direzione del campo esterno, magnetizzando concordemente tutto il materiale. Una volta cessato il campo esterno, conservano a lungo la magnetizzazione, prima di tornare pian piano a smagnetizzarsi, tramite una naturale suddivisione in domini magnetici sempre più piccoli e casualmente orientati. La smagnetizzazione naturale è dovuta sia all'agitazione termica, sia ad una questione energetica: il materiale tende possibilmente ad assumere configurazioni con energia magnetostatica minima. La smagnetizzazione completa, può avvenire anche in maniera forzata, invertendo il campo magnetico esterno e portandolo fino ad un valore chiamato campo coercitivo, oppure può avvenire aumentando la temperatura del materiale, portandolo sopra la propria temperatura di Curie e oltre, così il ferromagnetico diventa paramagnetico, fino a perdere poi completamente la magnetizzazione residua. Ovviamente il ferro è un ferromagnetico puro (al di sotto della sua temperatura di Curie di circa 770 °C), così come lo sono il nichel, il cobalto e alcune loro leghe (ognuna al di sotto delle rispettive temperature di curie). Altri materiali vengono invece più propriamente detti ferrimagnetici, perché all'interno della struttura cristallina, presentano come due "sottoreticoli" di domini magnetici tra loro alternati, i cui momenti magnetici sono disposti antiparallelamente (cioè con verso discorde), ma hanno intensità diversa, quindi complessivamente, in presenza di un campo magnetico esterno, 136
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assumono caratteristiche simili a quelle dei materiali ferromagnetici (con tanto di magnetizzazione residua, eccetera). Sono ferrimagnetici la magnetite sotto la Tc di circa 580 °C (la magnetite è un minerale costituito da Fe3O4 o meglio Fe(II) Fe(III)2O4); la maghemite (minerale di ferro-gamma combinato con Fe2O3 , con Tc che varia dai 590 ai 675 °C ); e altri minerali/ossidi (esistono materiali ceramici magnetici). Gli antiferromagnetici sono un particolare caso di materiali ferrimagnetici in cui i sottoreticoli presentano sì un alternanza antiparallela di domini magnetici, ma di pari intensità, quindi, se non è presente un campo magnetico esterno, essi danno polarizzazione nulla e se viene invece applicato, tali domini tendono comunque a rimanere inalterati. Infatti, la polarizzazione dipende molto: dall'angolo di incidenza del campo applicato rispetto al momento magnetico dei domini stessi (c'entra lo spin degli elettroni e si parla più propriamente di antiferromagnetismo inclinato); dalla presenza di impurità, difetti o dislocazioni che impediscono un perfetto antiferromagnetismo del materiale; e anche dal diamagnetismo (all'attivarsi del campo esterno) che contribuisce a diversificare l'intensità dei momenti di dipolo tra loro alternati, favorendo l'azione degli altri fenomeni magnetici. Sono pochi i materiali antiferromagnetici ad essere tali a temperatura ambiente. Tra questi c’è l'ematite (minerale a base di ferro-alpha combinato con Fe2O3 ), che è l'antiferromagnetico per eccellenza (al di sotto della temperatura di Neel di circa 675 °C), la goethite (a base di ferro-alpha combinato con FeOOH , sotto i 120 °C); e pochi altri. Mentre a temperature di Neel molto basse (anche di poche decine di Kelvin) è più facile trovare materiali antiferromagnetici, tra cui vari ossidi non necessariamente a base di ferro (come l'ossido di manganese e l'ossido di cobalto..). Nota: le proprietà magnetiche, in particolare quelle ferro/ferri-magnetiche non sono possedute solo esclusivamente da alcuni materiali metallici, ma sono proprie anche di alcuni materiali ceramici, o meglio di alcuni tipi di ossidi/spinelli e sempre più nuovi materiali compositi vengono opportunamente studiati e realizzati per scopi legati appunto ai fenomeni magnetici. Cenno sui materiali magnetoreologici tutte le proprietà magnetiche analizzate, sono attribuite a materiali allo stato solido, tuttavia sta avendo successo lo studio (partito negli anni '40) dei fluidi magnetoreologici, ossia fluidi che, sottoposti ad un campo magnetico esterno, cambino velocemente e reversibilmente la propria viscosità, in base all'intensità del campo magnetico applicato. Essi vengono anche chiamati ferrofluidi. Sono più propriamente delle sospensioni di materiale ferromagnetico finemente polverizzato (anche dell'ordine dei nanometri) e miscelato con un liquido tensioattivo, tipicamente oli minerali o sintetici (ma anche acqua, ..), che previene l'agglomerazione delle particelle di polvere ferromagnetica stessa. Questi fluidi, hanno un'elevata suscettività magnetica, ma presentano caratteristiche paramagnetiche, cioè in assenza di un campo magnetico esterno non presentano magnetizzazione e si comportano come un normale fluido newtoniano (per capire un po’ il concetto, la resistenza allo scorrimento tra due lamine di questi fluidi è ancora direttamente proporzionale al valore dello sforzo di taglio applicato..), mentre, all'applicazione del campo, essi 137
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magnetizzano, acquisendo maggiore densità e assumendo il comportamento tipico di un fluido non-newtoniano (per i magnetoreologici, la viscosità è ora notevolmente aumentata e soprattutto non vi è più linearità tra resistenza allo scorrimento fra due lamine di fluido e sforzo di taglio applicato..). I fluidi magnetoreologici trovano sempre più applicazione in sistemi ammortizzanti (che vanno da ammortizzatori automobilistici, a dispositivi antisismici, a protesi bioniche per articolazioni..) in relazione alla possibilità di modificare il loro stato fisico e quindi alla capacità di variare la loro risposta meccanica in base alle necessità; e in relazione alla capacità di assorbire/dissipare energia; eccetera. Sul mercato mondiale sono però gli elettroreologici che hanno trovato largo impiego per primi. Essi sono simili ai magnetoreologici, con la differenza che mutano la loro viscosità all'attivarsi di un campo elettrico. Il monopolio degli elettroreologici sussisteva poiché i primi magnetoreologici, pur avendo ad esempio caratteristiche meccaniche migliori, richiedevano elevati campi magnetici. Adesso, invece, con l'innovazione tecnologica, i magnetoreologici sono ugualmente competitivi e la scelta, tra gli uni e gli altri, comincia ad essere solo di natura contestuale (in base al tipo di applicazione specifica, al costo, alla reperibilità dei materiali a livello locale, ..). Riduzione della polarizzabilità e dissipazioni di energia Le principali cause che ostacolano o rallentano la magnetizzazione di un materiale, finora citate, sono state l'agitazione termica, la presenza di difetti nella struttura (impediscono anche il corretto movimento delle pareti di dominio, quindi la loro orientazione) e le impurità nel reticolo cristallino (tra cui vi sono anche quelle di elementi o composti diamagnetici, che interferiscono localmente con la polarizzazione del materiale). L'agitazione termica dipende dalla temperatura del materiale, i difetti della struttura e le impurità sono legati invece alle materie prime e ai trattamenti subiti per produrre il materiale stesso, ma altri problemi di riduzione dell'intensità di polarizzazione e di dissipazione di energia sono legati piuttosto alla natura del campo magnetico esterno, a cui il materiale viene sottoposto. Ad esempio, per i materiali ferromagnetici, la presenza di un ciclo di isteresi magnetica legata al variare di un campo magnetico esterno, evidenzia come la conseguente variazione dell'induzione magnetica nel materiale avvenga con dissipazione di energia (sotto forma di calore). Tali perdite di energia, dette perdite per isteresi, in presenza di un campo magnetico variabile periodico, aumentano linearmente con l'aumentare della sua frequenza. Essendo, inoltre, i materiali ferromagnetici (e tutti i materiali magnetici in generale) dotati anche di una certa conducibilità elettrica, la variazione stessa del campo origina al loro interno delle correnti elettriche parassite, che cercano di opporsi a tale variazione producendo un campo magnetico opposto a quello esterno (quindi con intensità crescente al decrescere del campo esterno e viceversa). Le correnti parassite (che, in presenza di un tale campo magnetico esterno, variano con il quadrato della sua frequenza) disturbano quindi i vari fenomeni magnetici, ma causano al tempo stesso perdite per effetto joule, dannose sia nei materiali preposti per applicazioni magnetiche (ad esempio nei nuclei ferromagnetici di trasformatori elettrici), sia ovviamente in quei conduttori elettrici che trasmettono l'energia elettrica in corrente alternata (quindi con campo magnetico "sinusoidale"). 138
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Cenno sui materiali ferromagnetici dolci e duri: I ferromagnetici, in base alla larghezza e all'ampiezza delle curve che descrivono i cicli di isteresi magnetica, rappresentate nel diagramma B-H (con induzione magnetica in ordinata e campo magnetico in ascisse), si suddividono in ferromagnetici dolci e ferromagnetici duri. A seconda delle caratteristiche del materiale ferromagnetico scelto (composizione chimica, difetti strutturali, impurità, ecc.), la saturazione magnetica può essere raggiunta fornendo campi magnetici bassi e ottenendo valori di induzione magnetica elevati o viceversa, così come il valore del campo coercitivo, necessario ad annullare il valore dell'induzione magnetica del materiale, può essere di modulo piuttosto basso o viceversa, quindi l'area racchiusa all'interno di un ciclo di isteresi, può risultare maggiore o minore da materiale a materiale. I ferromagnetici che racchiudono aree piccole (cicli "stretti"), sono detti dolci, mentre quelli che racchiudono aree grandi (cicli "larghi") vengono detti duri. I materiali ferromagnetici dolci sono i più diffusi, perché seguono più velocemente l'andamento del campo magnetico esterno, consentono grandi magnetizzazioni, sopportano elevate frequenze, eccetera, tutte proprietà che li rendono adatti ad essere impiegati per elettromagneti, nuclei magnetici vari (ad esempio per trasformatori e motori in corrente alternata); o come componenti complesse di ingegneria elettronica (possono anche essere ridotti in polvere e utilizzati in materiali compositi a matrice polimerica, dispersi o compattati a formare dei film superficiali, ..); eccetera. I materiali ferromagnetici duri sono invece usati soprattutto per produrre i cosiddetti magneti permanenti, poiché, riferendoci al secondo quadrante del diagramma B-H, la zona di lavoro compresa tra induzione magnetica residua Br e campo magnetico coercitivo -Hc (vettorialmente i due hanno verso opposto), risulta molto estesa e quindi adatta per far operare tali materiali anche in presenza di campi magnetici elevati e sotto azioni smagnetizzanti, senza temere eccessive variazioni o peggio l'annullamento dell'induzione magnetica del materiale, induzione che può, ad esempio, essere sfruttata per garantire una forza magnetomotrice abbastanza stabile, adoperabile per circuiti magnetici (più precisamente, nelle normali condizioni di lavoro, si cerca di operare nel tratto di curva più rettilineo, del secondo quadrante del diagramma B-H, compreso tra Br e il "gomito" della curva, poiché in tale tratto a pendenza ridotta la diminuzione dell'induzione magnetica e quindi il peggioramento delle caratteristiche magnetiche del materiale risultano ancora reversibili).
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dispense del corso di Scienze e tecnologie alimentari del Prof. Luciano Piergiovanni; dispense del corso di Materiali ceramici del Prof. Marco Boniardi; dispense del corso di Tecnologie di chimica applicata del Prof. Giuseppe Siracusa; dispense sulle Schiume ceramiche applicate alla filtrazione del Prof. Jean-Marc Tulliani; dispense sul Le fibre di carbonio nei materiali ad altissime prestazioni dell’Ing. Roberto Troli; dispense sulle Caratteristiche del calcestruzzo e dell’acciaio del Prof. Vincenzo Dipaola; dispense su I costituenti del cemento portland del Prof. Luigi Coppola; dispense del corso di Tecnologia dei materiali e chimica applicata della Prof.ssa Alessandra Bianco; dispense su I leganti aerei e idraulici del Prof. Giuseppe Siracusa e degli Ingg. S. Russo ed R. Milazzo; dispense su Il calcestruzzo del Prof. Luca Venturi; dispense su Dal calcestruzzo antico a quello moderno del Prof. Mario Collepardi; dispense di Costruzioni elettromeccaniche del Prof. Gianfranco Degli Espositi; dispense sui Materiali conduttori e sui Materiali magnetici degli Ingg. Emanuele Fornasiero e Massimo Barcaro; dispense sulla Caratterizzazione metrologica di materiali per sensori dell’Ing. Pietro Giannone; dispense sul Magnetismo del Prof. Marco Panareo; appunti del corso di Elettrotecnica del Prof. Paolo Bettini; appunti del corso di Impianti elettrici del Prof. Roberto Benato; appunti del corso di Costrtuzioni meccaniche del Prof. Maurizio Ricotta; appunti di Ottica del corso di Esperimentazioni di Fisica IV del Prof. Denis Bastieri; http://www.treccani.it/ http://www.sapere.it/ https://www.chimica-online.it/ https://en.wikipedia.org/ e https://it.wikipedia.org/ http://aulascienze.scuola.zanichelli.it/ https://www.chimicamo.org/ https://www.stampa3d-forum.it/ https://3dprintingindustry.com/ http://3dprintingfromscratch.com/common/types-of-3d-printers-or-3d-printing-technologies-overview/
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INDICE ANALITICO A ABS Vedi poliacrilonitrile-butadiene-stirene acciaio al cromo-molibdeno .......................... 27 al nichel-cromomolibdeno ......... 27 definizione ............. 16 inossidabile ............ 49 inox austenitico ..... 50 inox duplex ............ 50 inox ferritico .......... 50 inox martensitico ... 50 legato (definizione) 20 acque di mare..................... 7 piovane .................... 7 sotterranee .............. 7 superficiali ............... 7 addolcimento acque ... 10 alligazione ................... 16 allumina ...................... 78 alluminato monocalcico ......... 104 tricalcico .............. 106 alluminatura ............... 48 alluminio ..................... 28 anidrite .......... Vedi gesso antiferromagnetismo 137 argilla .......................... 71 asfaltatura ................ 117 asfalti naturali ........... 116 austenite ..................... 19
B bainite......................... 19 banda di conduzione ...... 120 di valenza ............. 120 bicarbonato di calcio .... 8 bitume ...................... 116 blistering ..................... 46 boiacca di cemento... 110 bonifica (acciai) ........... 23
C calandratura (formatura polimeri) .................. 67
calce aerea .................... 100 grassa ................... 100 idraulica ............... 103 magra ................... 100 spegnimento ........ 100 spenta .................. 100 calce-soda (trattamento acque) ...................... 10 calcestruzzo aereato................. 108 armato ................. 112 calcinazione .............. 100 campo magnetico coercitivo ............... 136 caolino ........................ 71 carbocementazione (acciai) ..................... 24 carbonatazione ......... 101 carbonato di calcio........ 8 carbonitrurazione (acciai) ................................. 25 carburo di silicio .......... 79 cartongesso .............. 103 caucciù ........................ 66 cella fotovoltaica....... 127 cellulosa ...................... 58 cementite.................... 19 cemento alluminoso ........... 111 cellulare ............... 110 naturale................ 107 Portland ............... 106 chiariflocculazione ........ 9 clinker ....................... 106 cloro, chimica del ........ 39 cobalto ........................ 30 cobalto negli acciai legati ................................. 25 cocciopesto ............... 105 colabilità (metallurgia) 14 colaggio su nastro (formatura ceramici) 74 colloidi .......................... 9 colorazione ionica del vetro ........................ 88 coltre bianca ............... 24 composti intermetallici 14 cono di Abrams ......... 114 corrente di Cella Solare ...... 127 di Diodo ................ 126
corrosione a umido .................. 31 galvanica ................ 37 generalizzata .......... 37 interstiziale ............. 38 localizzata ............... 37 per aerazione differenziale ...... 38 per erosione ........... 40 per sfregamento..... 40 per vaiolatura ......Vedi pitting sotto sforzo ............ 40 velocità ................... 36 costante dielettrica ..Vedi permittività costipazione (calcestruzzi) .......... 113 cottura dei ceramici .... 75 cricche intercristalline o intergranulari .... 37 transcristalline o transgranulari .... 37 cromo negli acciai legati .... 26 precipitazione carburi di cromo ............ 50 rivestimenti in cromo .......................... 52 Curie legge di ................. 135 curva di isteresi magnetica .............. 136
D decapaggio .................. 45 degassaggio (dell'acqua) ................................. 11 desalinizzazione (di acque salmastre) ...... 11 diamagnetismo . 134; 135 dielettrico .................. 128 diodo raddrizzatore... 126 dipolo elettrico ................ 128 magnetico permanente ..... 136 molecolare (magnetico) ..... 136 distensione (acciai) ..... 23 durezza (acque)
permanente ..............8 temporanea ..............8 totale ........................8 durezza (metallurgia) ..14 duttilità (metallurgia) ..14
E elasticità (metallurgia) 14 elastomero ..................65 elettroreologico ........138 energia di attivazione definizione ............120 per gli isolanti .......120 per i conduttori ....120 per i semiconduttori .........................120 epossidica, resina ........65 essiccamento materiali ceramici ....................74 estrusione (formatura ceramici) ...........................74 (formatura polimeri) ...........................67 ettringite ...................107 eutectic point ..............18 eutectoid point............18
F feldspato .....................72 Fermi, livello di ..........120 ferrimagnetismo........136 ferrite α .......................18 ferrite δ .......................19 ferro-alluminato tetracalcico.............106 ferroelettrico .............130 ferrofluido ............... Vedi magnetoreologico ferromagnetico dolce .....................139 duro ......................139 ferromagnetismo .... 134; ...............................135 fibra di carbonio .............96 di vetro ...................93 ottica ......................94 plastica ...................93 filtro a sabbia ..............10 fluorescenza ..............128
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formabilità (metallurgia) ................................. 14 formatura del vetro .... 84 fosfatazione ................ 49 fosfato (trattamento acque) ...................... 10 fosforescenza............ 128 fusione del vetro ......... 84
G gesso ......................... 102 getto (calcestruzzi) definizione ........... 113 fresco su fresco .... 114 su calcestruzzo indurito ........... 114 ghisa ........................... 16 gomma.. Vedi elastomero gradi francesi ................ 8 grafene ....................... 97 grassello di calce ....... 100
I idraulicità, indice di .. 104 idrossido di calcio .... Vedi calce spenta incrudimento .............. 16 indurimento ................ 99 infragilimento da idrogeno .................. 45 inibitori di corrosione . 43 intaglio del vetro ..... Vedi taglio del vetro invecchiamento (metallurgia) ............ 23 isolante elenco tipi ............ 132 gassoso/liquido/solido ........................ 131 isotropia (metallurgia) 14
K kevlar ....................... Vedi polifenilenetereftalato
L lacuna (semiconduttori) ............................... 124 Langelier, indice di ... Vedi saturazione laterizio ....................... 77
lavorabilità (metallurgia) ................................. 14 lavorazioni a caldo .................... 16 a freddo ................. 16 lavoro di estrazione .. 120 LED ............................ 127 legante bituminoso ........... 116 definizione ............. 99 leghe metalliche ......... 13 legno ........................... 94 loppa ......................... 105 luminescenza .... 127; 128
M magnesio, leghe di ...... 29 magnete permanente139 magnetoreologico ..... 137 malleabilità (metallurgia) ................................. 14 malta a ritiro compensato ........................ 114 bastarda ....... 103; 107 di calce aerea ....... 100 grassa ................... 101 magra ................... 101 manganese negli acciai legati ........................ 26 marna (calci idrauliche) ............................... 105 martensite .................. 19 matrice ceramica................. 95 plastica ................... 93 molatura del vetro ...... 85 molibdeno negli acciai legati ........................ 27 momento angolare dell'elettrone... 133 di dipolo elettrico elementare ...... 128 di dipolo magnetico elementare permanente .... 134 magnetico di spin . 134 magnetico orbitale ........................ 133 monomero .................. 55 mullite ................... 77; 79
N nichel........................... 29 nichel negli acciai legati ................................. 25 nitrurazione (acciai) .... 24 normalizzazione (acciai) ................................. 21 nylon ........................... 62
O osmosi inversa .........Vedi desalinizzazione ossidazione ................. 31
P paramagnetismo ...... 134; 135 passivazione ................ 41 PDMS .......................Vedi polidimetilsilossano perlite.......................... 19 permeabilità magnetica assoluta del mezzo ........................ 133 del vuoto .............. 133 relativa del mezzo 133 permittività assoluta del mezzo ........................ 129 del vuoto .............. 119 relativa del mezzo 129 PET ...........................Vedi polietilentereftalato piezoelettricità .......... 130 piroelettricità ............ 130 pitting descrizione ............. 37 indici di resistenza al pitting ................ 52 plexiglas ...................Vedi polimetilmetacrilato polarizzazione ........... 128 elettronica ............ 129 ionica .................... 129 magnetica............. 134 per orientamento dipolare ........... 129 poliacrilonitrilebutadiene-stirene .... 62 poliaddizione ............Vedi polimerizzazione per addizione policarbonato .............. 64
policondensazione .. Vedi polimerizzazione a stadio polidimetilsilossano.....66 poliestere ....................64 polietilene ...................60 polietilentereftalato ....64 polifenilene tereftalato .................................62 polimerizzazione a stadio ...................57 per addizione ..........56 per condensazione .......... Vedi a stadio polimero lineare/ramificato/ /reticolato ..........55 termoindurente ......56 termoplastico .........56 polimetilmetacrilato ....62 polipropilene isotattico .................................60 polisilossano ................66 polistirene ...................61 politetrafluoroetilene ..63 polivinilcloruro ............60 ponte salino.................32 porcellana ...................77 potenziali elettrochimici di Nernst .................32 in riferimento all'acqua.............34 potenziali standard di riduzione di alcuni metalli ......................35 potere incrostante (acqua) .......................8 pozzolana ..................105 presa ...........................99 pressatura (formatura ceramici) a caldo ....................74 isostatica ................73 processo metallurgico (schema)...................15 protezione anodica .....42 protezione catodica con anodo sacrificale ...........................43 per corrente impressa ...........................44 PTFE......................... Vedi politetrafluoroetilene
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R rame ........................... 28 reazione anodica ..... Vedi ossidazione reazione catodica .... Vedi riduzione refrattarietà (materiali ceramici) .................. 72 resilienza (metallurgia) 14 resine scambiatrici di ioni (trattamento acque) 10 resistenza (metallurgia) a fatica ................... 14 meccanica .............. 14 resistività elettrica dell'acqua............. 123 di alcuni materiali metallici .......... 122 di un conduttore reale ........................ 122 ricottura degli acciai ............. 21 del vetro ................ 84 riduzione ..................... 31 rigidità dielettrica ..... 129 rinvenimento (acciai) .. 22 rivestimenti anticorrosivi ................................. 44
S saldabilità (metallurgia) ................................. 14 saturazione, indice di .... 8 SBR.............................. 66 schiuma ceramica ................ 80 di cemento ........... 110 di vetro .................. 91
semiconduttore drogato di tipo N . 124 drogato di tipo P .. 125 estrinseco ..... 123; 124 intrinseco ..... 123; 124 SiC Vedi carburo di silicio silicato bicalcico ....... 104; 106 tricalcico ............... 106 silice ............................ 72 silicio (semiconduttori) ............................... 124 silicone Vedi polisilossano sinterizzazione allo stato solido ...... 76 con fase liquida ...... 76 definizione ............. 71 in fase reattiva ....... 76 viscosa o per vetrificazione ..... 75 slip casting (formatura ceramici) .................. 73 slump test ................. 114 smerigliatura del vetro 85 solfato di calcioVedi gesso solfato-riduttori, batteri 9 solidi sospesi ................. 9 soluzione solida (metallurgia) ............ 14 sostanza ossidante ... Vedi riduzione sostanza riducente ... Vedi ossidazione specchio ......... Vedi vetro specchio spin ........................... 134 stampa 3D dei polimeri DLP technology ...... 69 FDM technology ..... 68 SLA technology ....... 69 SLS technology ....... 68
stampaggio polimeri per compressione... 67 per iniezione........... 67 sterilizzazione acque ... 11 sughero ....................... 94 superconduttore ....... 123 suscettività magnetica ............................... 134
T taglio del vetro ............ 85 temperatura antiferromagnetica di Neel ................. 136 di Curie ................. 130 di rammollimento (polimeri) ........... 56 di transizione vetrosa (polimeri) ........... 56 ferromagnetica di Curie ................ 136 tempra del vetro ................. 85 dell’acciaio ............. 22 tempra chimica del vetro .................. 85 temprabilità (metallurgia) ............ 14 tenacità (metallurgia).. 14 tensocorrosione .......Vedi corrosione sotto sforzo termoformatura dei polimeri .................... 67 titanio, leghe di ........... 28
V
di agitazione termica .........................121 di deriva................121 vetrificazione ...............83 vetro al piombo ...............86 borosilicato .............87 cellulare ..................91 comune ..................86 fotocromatico.........87 isolante ...................90 metallico .................92 solubile ...................86 specchio .................88 stratificato ..............90 vetro piano vetro cilindrico .......89 vetro float...............89 vetro piano colato ..89 vettore densità di polarizzazione ...... Vedi polarizzazione vulcanizzazione ...........57
W Weiss-Curie legge di .................135
Z zincatura......................46 a caldo ....................46 a freddo ..................47 a spruzzo ................47 elettrolitica .............47 zinco ............................29 zirconia ........................95
vaiolatura ..... Vedi pitting velocità critica di tempra ..... 20
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