L'amorosa inchiesta 1-verde

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ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita,

Edizione verde

per rispondere agli interrogativi

N. Gazich M. Lori

appassionata che la letteratura da sempre

con la collaborazione di

L’amorosa inchiesta allude alla ricerca

F. La Porta

L’amorosa inchiesta

Novella Gazich Manuela Lori con la collaborazione di

Filippo La Porta

L’amorosa inchiesta 1

che l’umanità di ogni tempo si pone.

Novella Gazich è stata per molti anni docente di

Manuela Lori è dottoranda di ricerca in Letteratura italiana all’Università di Macerata. Consulente editoriale, è autrice di libri scolastici per la secondaria di primo e di secondo grado. È stata docente di Lettere nei licei e formatrice in ambito disciplinare ed in preparazione al nuovo esame di Stato.

Filippo La Porta è critico e saggista, scrive regolarmente su “La Repubblica”, “Il Riformista”, il periodico “Left” e collabora all’“Unità”. Insegna alla Scuola Holden e in altre scuole di scrittura. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo La nuova narrativa italiana (Bollati Boringhieri 1995), Pasolini (Il Mulino 2012), Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (Bompiani 2018), L’impossibile “cura” della vita. Cechov, Céline e Carlo Levi, medici-scrittori coscienziosi e senza illusioni (Castelvecchi 2021), Splendori e miserie dell’impegno. L’impegno civile degli scrittori, da Manzoni a Michela Murgia (Castelvecchi 2023).

LIBRO DIGITALE Versione interattiva del libro di testo con tantissime risorse e la possibilità di trasformare i testi in alta leggibilità.

Nel LIBRO DIGITALE • Contenuti digitali integrativi sono proposti numerosi testi, rubriche, contributi audio e video integrati alla scelta su carta • Videolezioni sulle biografie e sulle opere maggiori • Lezioni in Power Point • Analisi del testo interattive • Audioletture dei brani e delle sintesi • Immagini interattive • Carte dei luoghi interattive • Cronologie interattive • Mappe tematiche interattive

APP LIBRARSI Consente di accedere subito a tutti gli audio e i video del corso direttamente con smartphone o tablet. Disponibile per dispositivi iOS e Android.

EquiLibri Progetto del Gruppo Editoriale ELi per la promozione dei valori di giustizia sociale ed uguaglianza, per favorire una cultura dell’inclusione.

1 L’amorosa inchiesta Edizione verde Volume unico

Lettere nei licei. In ambito critico si è occupata in particolare di Pirandello narratore, un interesse documentato da varie pubblicazioni. Ha insegnato nella scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario presso l’Università degli Studi di Pavia. Da anni si dedica all’editoria scolastica. Ha progettato e diretto il manuale di letteratura italiana per i trienni Lo sguardo della letteratura (2016) e successivamente Il senso e la bellezza (2019).

Nel VOLUME • Struttura chiara, ordinata, non dispersiva • Profilo completo scritto con un linguaggio piacevole • Centralità dei testi il progetto attribuisce un ruolo centrale alla lettura e all’interpretazione dei testi letterari • Scrittura femminile presente in tutte le epoche • Educazione civica vengono proposte attività per la formazione del cittadino consapevole, sensibile ai grandi temi socio-politici • Orientamento, educazione alle emozioni e alle relazioni vengono proposti spunti per la didattica orientativa e per l’educazione alla gestione delle emozioni e delle relazioni • Numerose rubriche, supporti allo studio e attività per consolidare le competenze di comprensione, analisi ed interpretazione di testi • Esame di Stato sono presenti prove in preparazione alla prova scritta dell’esame di Stato

Dalle origini al Cinquecento

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida equilibri

PARITÀ DI GENERE #PROGETTOPARITÀ

Edizione verde

Volume unico

ORIENTAMENTO

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Sistema Digitale Accessibile E RD VE 12 TA I 12 IES GIN TO S0 CH RI EN PA A IN LE OUEC OS AL NQ OR D CI M 1 AL L’A

Questo volume sprovvisto del talloncino è da considerarsi CAMPIONE GRATUITO fuori campo IVA (Art. 2, c. 3, I.d, DPR 633/1972 e Art. 4, n.6, DPR 627/1978)

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PAS01212 L’AMOROSA INCHIESTA VERDE 1 DALLE ORIGINI AL CINQUECENTO

Gruppo Editoriale ELi

Il piacere di apprendere

18/12/24 15:56


L’amorosa inchiesta Edizione verde

Volume unico

Gruppo Editoriale ELi

Il piacere di apprendere

Novella Gazich Manuela Lori con la collaborazione di

Filippo La Porta

1

Dalle origini al Cinquecento

I


secondo le NUOVE Linee guida

L’insegnamento dell’Educazione civica attraverso le nuove Linee guida e la valorizzazione delle soft skills

Le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica introducono significativi cambiamenti e importanti integrazioni: i nuclei tematici attorno ai quali si articolano le competenze e gli obiettivi di apprendimento, Costituzione, Sviluppo economico e sostenibilità e Cittadinanza digitale, sono stati aggiornati e ampliati. Le Linee guida sono ispirate ai diritti, doveri e valori costituenti il patrimonio democratico della Costituzione italiana, considerata il riferimento assoluto per promuovere la crescita individuale e la partecipazione politica, economica e sociale di ciascuno, all’interno del nostro Paese e dell’Unione europea. Il Gruppo Editoriale ELi promuove nei suoi volumi, attraverso testi, attività, video, immagini, l’educazione e il rispetto dei diritti fondamentali che devono essere garantiti a ogni persona, valorizzando solidarietà, responsabilità individuale, uguaglianza, libertà, lavoro, lotta alla mafia e all’illegalità e consapevolezza dell’appartenenza a una comunità. L’attenzione alle competenze, cognitive e non cognitive (soft skills), completa l’impegno dell’Editore nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e responsabili.

equilibri #PROGETTOPARITÀ

Il nostro impegno per l’inclusione, le diversità e la parità di genere

La parità di genere è il quinto dei diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 e mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Il Gruppo Editoriale ELi in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata ha creato un programma di ricerca costante mirato all’eliminazione degli stereotipi di genere all’interno delle proprie pubblicazioni. L’obiettivo è di ispirare e ampliare gli scenari delle studentesse e degli studenti, del corpo docente e delle famiglie fornendo esempi aderenti ai valori di giustizia sociale e rispetto delle differenze, favorendo una cultura dell’inclusione. Ci impegniamo a operare per una sempre più puntuale qualificazione dei libri attraverso: CONTENUTI

attenzione ai contenuti al fine di promuovere una maggiore consapevolezza verso uno scenario più equilibrato da un punto di vista sociale e culturale;

IMMAGINI

valutazione iconografica ragionata per sensibilizzare a una cultura di parità attraverso il linguaggio visivo;

LINGUAGGIO utilizzo di un linguaggio testuale inclusivo, puntuale e idoneo a qualificare i generi oltre ogni stereotipo.

III


L’amorosa inchiesta Dentro la letteratura Il significato di un titolo Nessuno sa creare affascinanti metafore come Ludovico Ariosto. Per questa letteratura abbiamo così scelto come titolo proprio un’espressione ariostesca, densa di possibili significati metaforici: “l’amorosa inchiesta”. Nell’Orlando furioso l’”amorosa inchiesta” è la ricerca della perduta Angelica da parte del paladino Orlando, motivata dall’amore che prova per lei. Ma forse anche noi oggi (chi opera nella scuola, chi scrive libri per la scuola) abbiamo perduto qualcosa di importante e vogliamo tentare, come Orlando, di ritrovarlo: il senso della letteratura o meglio il senso della letteratura a scuola, spesso marginalizzata da una visione pragmatica della formazione scolastica, che privilegia saperi immediatamente fruibili nella vita pratica e professionale, sminuendo tutto ciò che è passato. L’ ”amorosa inchiesta” è allora per noi innanzitutto allusivo alla ricerca appassionata che la letteratura da sempre ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita, per rispondere agli interrogativi che l’umanità di ogni tempo si pone. L’ ”amorosa inchiesta” vuole riferirsi anche all’atteggiamento che vorremmo che le ragazze e i ragazzi, come moderni “cavalieri erranti”, assumessero, entrando nell’universo labirintico della grande letteratura: non la passiva assunzione di dati, ma un atteggiamento interrogativo, curioso, esigente, per scoprire, insieme ai loro insegnanti, attraverso i testi letterari, piste da percorrere in un cammino che non è solo culturale, ma può e deve essere anche esistenziale e di orientamento per elaborare un progetto di vita e sostenere le relative scelte. L’ ”amorosa inchiesta”, infine, è la prospettiva che ha ispirato la progettazione di questa opera e ne ha motivato le scelte: il tentativo, forse utopistico, di suscitare curiosità, emozioni, interesse verso un patrimonio culturale, quello della secolare storia della letteratura, che ha ancora tanto da dire, così da ridare un senso centrale nella scuola di oggi alla lettura e interpretazione dei testi letterari.

La letteratura come “atlante delle emozioni” Recentemente è emerso nella riflessione didattica un volto della letteratura a lungo misconosciuto e a cui abbiamo cercato di dare spazio: quello di strumento chiave per attivare la conoscenza di sé e per sviluppare nella classe l’ “intelligenza emotiva”, cioè la capacità di riconoscere e descrivere in modo appropriato le emozioni proprie e altrui, così da saperle poi gestire e da assumere verso gli altri un atteggiamento di empatia.

IV


Senza la competenza emotiva si è facilmente vittime delle pulsioni, mentre saper identificare la paura, l’ansia, la frustrazione porta a ottimizzare le proprie risorse interiori, porta a saper gestire le situazioni problematiche che di certo non mancano nella fase adolescenziale. Ma la letteratura cosa ha a che fare con ciò? Attraverso i testi, i personaggi dei romanzi e le biografie stesse delle autrici e degli autori, la letteratura si presenta come la più straordinaria galleria delle emozioni che esista, a cominciare da Orlando che, da ingessato eroe al servizio della “guerra santa”, in nome di un amore malato, sperimenta via via nella sua “inchiesta” la delusione, l’autoinganno, la disperazione, la rabbia incontrollata e infine la degradazione della follia. Nelle emozioni rappresentate dalla letteratura di ogni tempo la classe, attraverso processi di identificazione, può riconoscere le proprie, può vivere altre vite da un osservatorio privilegiato e protetto e acquisire così gradualmente una competenza emotiva oggi riconosciuta sempre più importante. Perché questo avvenga, occorre però favorire l’incontro tra giovani lettori e testi letterari, respingendo una visione della letteratura come immutabile museo delle cere, interrogando i testi, come abbiamo cercato di fare, anche sotto il profilo emozionale e presentando le biografie delle autrici e degli autori, grandi e meno grandi, non come freddo insieme di nozioni da imparare, ma come racconti di vite vissute, con gioie, dolori, passioni, ma anche limiti e debolezze, come è la vita per ogni essere umano.

La letteratura come lettura del mondo Accanto alla competenza emotiva, alla conoscenza di sé, non è certo meno importante la capacità che gli studenti devono acquisire di interpretare il proprio tempo, i miti e i modelli di comportamento che lo governano. Anche in questo ambito la letteratura può e deve avere un ruolo fondamentale. La letteratura vive infatti nel mondo e il mondo rappresenta attraverso i testi e la personale interpretazione, il personale sguardo, di chi scirve. Perché la letteratura possa diventare strumento chiave di interpretazione critica del presente va costantemente ricercata e proposta, come abbiamo cercato di fare, l’interazione tra tendenze letterarie e visione del mondo, modelli comportamentali, nuclei dell’immaginario presenti nelle varie epoche. Questa visione coesa del sapere oltre tutto risulta, a nostro parere, molto più motivante per gli studenti e le studentesse di oggi che non lo studio asettico di autori e correnti a se stanti.

La letteratura come educazione ai valori civili I grandi temi socio-politici, le dinamiche del potere, la disuguaglianza, i rapporti tra le generazioni, la condizione femminile, l’ambiente, il valore dell’istruzione, non sono certo estranei alla letteratura e sono ben presenti sia nelle scelte testuali, sia nelle parti esercitative di questa opera: essa non si propone di formare specialisti in campo letterario, ma cittadini e cittadine consapevoli, sensibili ai valori civili e ai diritti dell’umanità. Gli autori

V


Attraverso il libro

L’amorosa inchiesta

Struttura del testo Questa nuova storia e antologia della letteratura italiana prevede una struttura composta da Scenari socio-culturali e Capitoli. Gli Scenari analizzano l’interazione della letteratura con la cultura, con la società e con i grandi temi e sono suddivisi in quattro sezioni: 1. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2. I modelli del sapere e le tendenze filosofico-scientifiche 3. I caratteri e le forme della letteratura (nelle diverse epoche); il dibattito culturale 4. L’evoluzione della lingua La trattazione degli Scenari è anticipata da una sezione, Sguardo sulla storia, dedicata a ricostruire il contesto storico con immagini e cronologia interattiva. Gli Scenari si chiudono con un percorso intitolato Libri, lettori, lettura ed uno spazio rivolto all’Arte, presentato con schede informative di inquadramento del periodo e letture iconologiche di opere esemplari per i vari periodi cronologici. I capitoli sono dedicati a generi, autori o temi ed i materiali sono organizzati in modo da creare una forte interazione tra profilo e testi. Sono presenti sia testi (T) sia documenti (D), entrambi con numerazione progressiva indipendente. I testi sono commentati mediante l’Analisi del testo, mentre per i documenti sono messi in evidenza solo i Concetti chiave. • Nei testi o nei documenti che presentino tematiche riconducibili a temi

di EDUCAZIONE CIVICA questo aspetto è messo in evidenza. Nella parte degli esercizi relativi al brano c’è almeno un’attività finale che chiede di lavorare su quest’aspetto.

Le rubriche Il testo è corredato da numerose rubriche: • Parola chiave : definisce in sintesi le idee guida, i motivi di un’epoca, di un genere o

dell’universo tematico di un autore. • PER APPROFONDIRE : schede che consentono al docente o allo studente di

approfondire maggiormente un aspetto della trattazione, senza creare eccessive digressioni nel profilo. Gli approfondimenti sono sempre posizionati vicino alla parte del profilo da cui scaturiscono. • VERSO IL NOVECENTO : ai testi del passato si accostano testi del Novecento e oltre, scelti

per l’affinità dei temi trattati o a volte anche per contrasto, per evidenziare come certe esperienze o sensazioni ritornino nel tempo o si trasformino, assumendo nuovi significati in un’ottica di intertestualità;

VI ATTRAVERSO IL LIBRO


• EDUCAZIONE CIVICA secondo le Nuove Linee Guida / PARITÀ DI GENERE : l’attenzione a quest’aspetto

è stata tradotta in due direzioni. Tutti i testi antologizzati che presentino tematiche riconducibili ai tre nuclei: Costituzione, Sviluppo economico e Sostenibilità e Cittadinanza digitale e le relative competenze contenute nelle Nuove Linee Guida per l’insegnamento dell’educazione civica o ai Global Goals (17 obiettivi) dell’Agenda 2030, sono segnalati con evidenza. Questa indicazione è completata nella parte degli esercizi relativi al brano con almeno un’attività finale che chieda di lavorare su questi aspetti. Inoltre sono state realizzate schede di educazione civica su temi di interesse collettivo come la diversità, la parità di genere, la guerra, seguite da spunti di riflessione o attività didattiche; • LEGGERE LE EMOZIONI / EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI : questa rubrica intende stimolare nei

giovani la competenza emozionale e relazionale, in modo che la riflessione su loro stessi, sul loro vissuto personale e sulla realtà che li circonda li aiuti a crescere con maggiore consapevolezza; • Sguardo su… : è fondamentale comunicare l’idea che il sapere non sia isolato, ma

che dialoghi in continuazione anche con ambiti diversi. Nel manuale vengono dunque istituite numerose connessioni tra la letteratura e altre discipline come Storia, Filosofia, Arte, Letterature straniere, Musica, Teatro e Cinema; • Testi in dialogo : a numerosi testi vengono accostati brani di altri autori; questo

perché si ritiene che il confronto sia prezioso, per sviluppare capacità critiche e riflessive che servono per orientarsi meglio nelle scelte di vita; • INTERPRETAZIONI CRITICHE/INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO : il testo propone

numerosi passi critici legati alla trattazione o ai testi, scelti in base a una reale accessibilità di lettura e comprensione per gli studenti. I passi scelti vengono presentati sotto due forme: o un passo di un solo critico (Interpretazioni critiche) o passi di due critici messi a confronto sul medesimo tema (Interpretazioni critiche a confronto); la parte esercitativa di entrambe è stata concepita come tipologia B dell’esame di Stato, per far esercitare sull’analisi e la produzione di un testo argomentativo; • I LUOGHI DELLA CULTURA : mette in evidenza i luoghi-simbolo del periodo di

riferimento a seconda dei secoli analizzati sia attraverso la descrizione dei luoghi (monastero, castello, corte ecc.) sia attraverso le immagini.

Apparato didattico • Esercitare le competenze : i testi antologizzati sono corredati da un apparato

suddiviso in due parti: “Comprendere e analizzare” e “Interpretare”. Nel “Comprendere e analizzare” sono stati inseriti esercizi di parafrasi, sintesi, comprensione, tecnica narrativa, analisi, lessico e stile; nell’”Interpretare” esercizi di scrittura, scrittura creativa, scrittura argomentativa, esposizione orale, testi a confronto e competenza digitale. Le attività proposte sono volte al consolidamento delle competenze di lettura, di scrittura e di analisi testuale. • Verso l’esame di Stato : vengono proposte, sia in itinere sia in alcune zone di ciascun

volume, prove simili a quelle previste per la prima prova dell’esame di Stato secondo le tre tipologie A, B e C; • Zona competenze : al termine degli Scenari e di ciascun capitolo sono proposte attività

che attivano competenze trasversali, disciplinari e interdisciplinari in situazione nuove e per compiti svolti in autonomia, in forma individuale o di gruppo. ATTRAVERSO IL LIBRO VII


Nell’opera è offerta inoltre una serie di supporti allo studio per favorire un apprendimento consapevole e duraturo. • Fissare i concetti : al termine di parti significative di profilo negli Scenari e nei

capitoli di genere/tema e al termine di ciascun autore vengono proposte domande che servono allo studente per individuare i punti chiave della trattazione, per ripassare i passaggi più significativi e per esercitarsi nell’esposizione orale. • Analisi passo dopo passo : annotazioni esplicativo-critiche, a lato del testo, che ne

accompagnano la lettura e aiutano a visualizzarne i principali elementi tematicostilistici. • Collabora all’analisi : consiste in un coinvolgimento diretto del giovane lettore nel

processo interpretativo: l’analisi, che segue le tradizionali partizioni (Comprendere e analizzare e Interpretare), “dialoga” attraverso specifiche richieste con lo studente, in modo tale che lo stesso studente dia il proprio contributo attivo al lavoro sul testo. • Lessico : sono stati inseriti nel corso della trattazione dei riquadri laterali di

definizioni in cui si spiegano i concetti più complessi o si definiscono termini specialistici o disciplinari. • Sintesi : alla fine di ogni capitolo sono state poste le sintesi, anche in formato audio,

che riassumono i contenuti principali della trattazione. Esse rappresentano un utile contributo per lo studio, la memorizzazione e il ripasso. • Studiare con l’immagine : pitture, sculture, fotografie corredate di didascalie ricche

e interessanti consentono la percezione immediata, visiva, di alcuni aspetti della letteratura e del suo contesto storico: attraverso l’immagine si riflette per comprendere meglio l’autore, l’opera o il contesto storico-sociale di riferimento. • Schemi: sistematica presenza di schemi e visualizzazioni che semplificano

l’apprendimento.

La didattica orientativa La didattica orientativa è un approccio educativo e formativo che ha come finalità quella di aiutare gli studenti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie attitudini e delle proprie capacità; può essere svolta in classe grazie all’aiuto della rubrica Leggere le emozioni e a tutti i numerosi spunti, come ad esempio le attività contemplate nell’Interpretare e nella Zona Competenze, e grazie ai testi segnalati, utili per svolgere attività di orientamento. Esse risultano disseminate in tutto il manuale al fine di sviluppare competenze di auto-orientamento e supportare l’assunzione di decisioni consapevoli riguardo a sé e alle proprie scelte professionali future. Aiutare lo studente a conoscere meglio se stesso, le sue inclinazioni, le sue attitudini, i suoi interessi e le sue aspirazioni farà sì che con più facilità sia orientato a una comunicazione efficace, a realizzare relazioni rispettose, a prendere decisioni e a sviluppare pensiero critico, pensiero creativo, empatia. Ogni volta che insieme a obiettivi di natura disciplinare si perseguono anche obiettivi di tipo orientativo si può parlare di didattica orientativa.

VIII ATTRAVERSO IL LIBRO


La didattica multimediale Nelle pagine sono inserite icone che indicano la presenza e il tipo di contenuti digitali disponibili sul libro. I contenuti digitali sono fruibili sul sito www.gruppoeli.it , sull’eBook+ e con l’App librARsi.

Contenuti digitali integrativi • Testi aggiuntivi integrati alla scelta su carta • Per approfondire

• Interpretazioni critiche

• Contributi Audio e Video

• Verso il Novecento

• Verso l’esame di Stato

• Sguardo su…

• Gallery gallerie di immagini

Attivazioni operative • Videolezioni mirano al racconto della biografia degli autori maggiori, ripercorrendone in maniera dinamica i momenti salienti e a fornire un quadro esaustivo delle opere principali dei medesimi autori, attraverso una narrazione accattivante. • Lezioni in PowerPoint percorsi didattici semplici e intuitivi che coincidono con l’accesso a dei Power Point modificabili e relativi ai principali contesti culturali in cui vengono concepite le opere della nostra letteratura e anche ai loro principali autori, di cui si riassumono i tratti biografici, la produzione e le opere maggiori. • Immagini interattive • Audioletture di alcuni testi scelti • Carte dei luoghi interattive consentono una lettura interattiva e agile della biografia dei classici della nostra letteratura. In particolare, le carte geografiche permettono di percorrere diacronicamente e collocare visivamente gli autori nei luoghi che ne hanno scandito la vita, dalla formazione alla nascita delle opere di maggior rilievo, dando accesso a dei contenuti multimediali come link, immagini, audio e video. • Mappe interattive e interdisciplinari incentrate sui temi più rilevanti, individuati all’interno delle opere e dei periodi letterari di maggior spessore consentono di svolgere un percorso interattivo e un’analisi trasversale di tematiche che dal passato affiorano fino ai giorni nostri, per mezzo di collegamenti para-testuali, garantiti dalla presenza di contenuti multimediali di vario tipo. • Cronologie interattive • Analisi interattive • Classe capovolta Sistema Digitale Accessibile

Il Sistema Digitale Accessibile soddisfa pienamente le esigenze della didattica inclusiva con queste funzionalità di base:

• carattere specifico ad alta leggibilità e alto contrasto • sintesi vocale dei contenuti testuali (audiolibro) • pagine “liquide” con possibilità d’ingrandimento

IX


Indice Duecento e Trecento Scenari socio-culturali Il Medioevo

3

Sguardo sulla storia

4

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

8

1 I cardini della visione medievale

8

Medioevo. Significato di un termine Il principio gerarchico

8 9

TESTI IN DIALOGO • Pro e contro la teocrazia

Innocenzo III online D1a Il papa è il sole, l’imperatore è la luna Dante Alighieri online D1b «È giunta la spada col pasturale» Purgatorio XVI, 106-112

La visione simbolico-religiosa online D2 Il Fisiologo Ugo di San Vittore secondo le NUOVE online D3 Il mondo naturale è manifestazione della sapienza divina EDUCAZIONE CIVICA Linee guida VERSO IL NOVECENTO Bestiari novecenteschi

10

11

2 Il tempo e lo spazio

12

La concezione della storia e del tempo Una geografia favolosa cristianocentrica

12 12

online D4

Lettera del prete Gianni - Il paese delle meraviglie

L’immagine dell’universo nel Medioevo

13

3 I valori e i modelli di comportamento

13

Il modello clericale Anonimo attribuito a Tommaso da Celano online D5 Dies irae

13

PER APPROFONDIRE La fede nei miracoli e il culto delle reliquie

15

I LUOGHI DELLA CULTURA Il monastero TESTI IN DIALOGO • Due visioni opposte del corpo umano

Lotario da Segni D6a Miseria della condizione umana Carmina Burana D6b Elogio del corpo femminile Il modello cavalleresco-cortese

16 LEGGERE LE EMOZIONI

17 17 18

I LUOGHI DELLA CULTURA Il castello

19

I valori della società urbana e mercantile Raimondo Lullo online D7 Identità e doveri del cavaliere Paolo da Certaldo online D8 La morale mercantile

21

X INDICE


TESTI IN DIALOGO • Lodi (e critiche) della città

Bonvesin da la Riva L’orgoglio di un cittadino Giovanni Villani online D9b Elogio di Firenze Dante Alighieri online D9c Contro la città moderna: «Fiorenza dentro de la cerchia antica» online D9a

Paradiso XV, 97-120

Francesco Petrarca La vita cittadina non è fatta per gli spiriti eletti

online D9d

I LUOGHI DELLA CULTURA La città

23

EDUCAZIONE CIVICA secondo le NUOVE L’emarginazione dei “diversi” nel Medioevo EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

24

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

25

1 Il complesso confronto tra la cultura cristiana e la cultura pagana

25

Sant’Agostino D10 I cristiani devono appropriarsi secondo le NUOVE del sapere ingiustamente posseduto dai pagani EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

26

2 Culto della tradizione ed enciclopedismo

27

Francesco Petrarca Sull’ignoranza sua e di molti

online D11

3 Il modello dell’istruzione nel Medioevo

28

Nascita delle scuole L’università e la Scolastica

28 29

TESTI IN DIALOGO • Fede e ragione: attualità e storicità di un rapporto problematico

San Tommaso d’Aquino online D12a Le verità di fede sono necessariamente conciliabili con le verità di ragione San Bonaventura online D12b La via per giungere a Dio non passa attraverso gli strumenti razionali Giovanni Paolo II online D12c Fede e ragione I LUOGHI DELLA CULTURA L' università

30

PER APPROFONDIRE I protagonisti della vita universitaria: il magister e gli studenti

31

3 Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo

32

1 La funzione della letteratura

32

La poesia come “competenza tecnica” e la codificazione retorica della prosa

32

2 Il concetto medievale di stile

33

Brunetto Latini Cos’è la retorica Cassiodoro online D14 I tre stili Dante Alighieri online D15 Esempi di “contaminazione” degli stili online D13

Purgatorio XVII, 76-78, Paradiso XVII, 124-129

Sant’Agostino Lo stile semplice delle Sacre Scritture

online D16

INDICE XI


3 Il metodo allegorico 4 Forme e generi della letteratura nell’Alto e nel Basso Medioevo

35 37

4 L’evoluzione della lingua

39

1 Dal latino al volgare

39

D17 Primi documenti del volgare in Italia D17a L’indovinello veronese D17b Il Placito di Capua

42 42

2 Da un panorama variegato alla preminenza del toscano 3 La sorte del latino dopo l’affermazione dei volgari

43 44

LIBRI, LETTORI, LETTURA

Il libro prima dell’invenzione della stampa Come e perché si legge nel Medioevo Il pubblico

45 46 47

ARTE NEL TEMPO

Il romanico Continuità con la tradizione romana 1. La decorazione scultorea del duomo di Modena Il gotico Una nuova spazialità 2. Le storie di san Francesco 3. Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo

ONLINE

Sintesi con audiolettura Zona Competenze Per approfondire La “buona morte” nel Medioevo Lo scriptorium I maestri fondatori del sapere medievale Il vocabolario dell’università La retorica e l'arte di comunicare ieri e oggi L’apporto linguistico dei conquistatori al volgare italiano “Italia”, “italiani”: un mito linguistico-letterario Il ruolo dei tre grandi trecentisti nella storia della lingua italiana

48 48 50 50 51 52 56

Interpretazioni critiche Jacques Le Goff Il simbolismo medievale. Uno dei maggiori studiosi della cultura medievale spiega le caratteristiche del simbolismo Erich Auerbach La lezione del Vangelo e lo stile umile Gallery I bestiari medievali Simbolismo nell’architettura, scultura, pittura

1 La letteratura cortese nella Francia feudale

57

1 L’epica cristiana e le chansons de geste

58

1 Le chansons de geste

58

2 La Chanson de Roland e la mitizzazione dell’eroe cristiano

60

La vicenda e la struttura della Chanson de Roland secondo le EDUCAZIONE NUOVE T1 «Orlando è prode ed Oliviero è saggio» CIVICA Linee guida Eginardo D1 Cosa accadde veramente a Roncisvalle Bernardo di Clairvaux online T2 Il martire guerriero e l’ideologia della guerra santa

60 61

XII INDICE

66


Anonimo La presa di Saragozza e la conversione forzata degli infedeli

online T3

2 Il romanzo cortese-cavalleresco

67

1 Un nuovo genere destinato alla corte feudale

67

2 I romanzi di Chrétien de Troyes 3 I temi: avventure e amori

68 69

Chrétien de Troyes T4 Lancillotto affronta la prova del ponte della spada online T5 L’apparizione del sacro Graal Tristano Riccardiano online T6 Il fatale innamoramento di Tristano e Isotta Thomas T7 La morte di Tristano e Isotta

71

74

VERSO IL NOVECENTO La rivisitazione novecentesca della materia epico-cavalleresca John R.R. Tolkien La riproposta dell’epica medievale per una società prosaica Italo Calvino Sotto l’armatura niente

78 79

3 La lirica provenzale

81

1 Una poesia “da ascoltare”: la lirica trobadorica

81

Andrea Cappellano T8 La codificazione dell’amore cortese Guglielmo d’Aquitania T9 Con la dolce stagione rinnovata Jaufre Rudel online T10 Allor che i giorni sono lunghi in maggio

85 87 LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

2 Le trobairitz: le trovatrici occitaniche Contessa di Dia Mi appago di gioia e giovinezza Azalais de Porcairagues T12 Or siam giunti al tempo freddo

78

90

online T11

91

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

93 94

VERSO L'ESAME DI STATO

ONLINE

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Morte eroica di Orlando paladino

Per approfondire Il genere epico Il romanzo cavalleresco medievale e il “romanzesco” Un’interpretazione sociologica dell’ideologia cortese La leggenda di re Artù e la sua fortuna L’enigma della fin’amor Interpretazioni critiche Michail Bachtin Il passato assoluto come tempo dell’epica

95

Interpretazioni a confronto Eric Auerbach L’antirealismo dell’ideale cavalleresco Franco Cardini L’avventura cavalleresca come metafora di esigenze/esperienze reali Sguardo sul cinema I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone Verso il Novecento La fortuna del mito di Tristano e Isotta Echi trobadorici nella poesia novecentesca

INDICE    XIII


2 La letteratura religiosa nell'età comunale

99

1 Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 100 1 Una letteratura critica verso la Chiesa

100

online T1

Un eretico condotto al rogo risponde alla folla Contro la corruzione della Chiesa Dante Alighieri online T2a Invettiva contro l’avidità dei papi Jacopone da Todi online T2b Jacopone rinfaccia a Bonifacio VIII le sue colpe

2 Francesco d’Assisi: una figura leggendaria per la collettività cristiana

101

Il Cantico di frate Sole Francesco d'Assisi secondo le NUOVE T3 Cantico di frate Sole EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

102 103

3 Le laude e Jacopone da Todi

106

Salimbene Nascita della lauda e movimenti penitenziali Jacopone: una fede intransigente

107

online T4

PER APPROFONDIRE La ballata Jacopone da Todi online T5 Quando t’aliegre, omo d’altura T6 O iubelo del core T7 Donna de Paradiso

107 LEGGERE LE EMOZIONI

110 113

2 La produzione didattico-edificante

119

1 Le prediche, le vite dei santi, i trattati morali

119

Domenico Cavalca Un esempio eloquente dell’ottica agiografica Jacopo Passavanti T9 Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima

online T8

2 Rappresentare l’aldilà: la “letteratura dell’oltremondo”

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

120 121

Anonimo La nave di san Brandano avvista l’isola dell’Inferno Giacomino da Verona online T11 Una raffigurazione terrifica dell’inferno: un monito per i fedeli Anonimo online T12 Il viaggio ultraterreno come ponte tra cultura araba ed europea online T10

ONLINE

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

XIV INDICE

Per approfondire Immagini dell’aldilà nel mondo antico La figurazione del diavolo nella cultura medievale Percorso interdisciplinare Immagini di san Francesco tra arte, letteratura e teatro Jacopo Passavanti T9 Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima, versione in italiano La raffigurazione del mondo ultraterreno

123 124 Verso il Novecento Umberto Eco Frate Guglielmo incontra il mistico dissidente Ubertino da Casale Oltranza mistica ed espressionismo linguistico Il dramma di Maria alla croce nell’interpretazione di Dario Fo Sguardo sul cinema I volti di Francesco Cinema Dal film Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud (1986)


3 Forme del narrare nella società comunale

125

1 Raccontare il viaggio nel Medioevo

126

1 L’affermazione della prosa in volgare

126

2 L’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico 3 I racconti di viaggio

126 127

Rodolfo il Glabro La vicenda di un pellegrino a Gerusalemme

online D1

4 Marco Polo e Il Milione

129

Marco Polo Il pubblico e il metodo della narrazione T2 I favolosi unicorni di Sumatra online T3 La pericolosa setta dei fumatori di hashish

online T1

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

131

VERSO IL NOVECENTO Il Marco Polo di Calvino: dal progetto cinematografico alle Città invisibili

133

Italo Calvino Le città invisibili

133

La letteratura di viaggio oggi, fra Kerouac, Chatwin, Sepulveda, Terzani, Pessoa, Magris e Imai Messina

134

PER APPROFONDIRE

2 Narrare per il gusto di narrare: la novella

136

1 Un genere dalla vita secolare

136

2 Le prime forme di narrazione breve: gli exempla e i fabliaux

136

Jacopo Passavanti Le tentazioni di un asceta Anonimo online T5 Il fabliaux del mugnaio e dei due studenti online T4

3 Verso la definizione del genere: il Novellino

137

online T6

Raccontare per un nuovo pubblico Anonimo online T7 Pronta risposta di un frate al Vescovo Aldobrandino TESTI IN DIALOGO • Il culto della parola

Anonimo T8a Il medico di Tolosa Anonimo T8b Una “metanovella”: elogio della brevità

4 Una pietra miliare nella storia del genere “novella” 5 Dopo Boccaccio Franco Sacchetti T9 Una burla: l’orsa e le campane

140 141 142 142 143

3 Le cronache cittadine

146

1 Una storiografia militante

146

Giovanni Villani T10 Il ruolo di Brunetto Latini nella società comunale Sintesi con audiolettura Zona Competenze

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

147 149 150

INDICE XV


ONLINE

Interpretazioni critiche Franco Cardini Il significato del termine pellegrino Umberto Eco Un “inviato speciale” deluso dagli unicorni Per approfondire Il titolo Novellino “Le mille e una burla”: la Toscana e la tradizione comica, da Boccaccio... a Benigni

VERSO L'ESAME DI STATO Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Bruce Chatwin, Questo nomade nomade mondo

4 “Ragionar d’Amore”

151

1 La scuola siciliana

152

1 Il trapianto della lirica amorosa in Italia

152

Jacopo da Lentini T1 Amor è uno desio che ven da core T2 Io m’aggio posto in core a Dio servire Pier della Vigna online T3 Però ch’amore non si po’ vedere Guido delle Colonne online T4 Gioiosamente canto

156 158

PER APPROFONDIRE Il sonetto T5 Tenzone di donna (forse Nina) e un anonimo Anonimo (forse Nina Siciliana) T5a Tapina ahimè, ch’amava uno sparvero Anonimo T5b Vis’ amoros’, angelico e clero Rinaldo d’Aquino online T6 Giamäi non mi conforto PER APPROFONDIRE La canzone e la canzonetta Cielo d’Alcamo secondo le NUOVE T7 Rosa fresca aulentissima EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

160 161 161 162

163 164

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

2 I poeti siculo-toscani

168

1 La poesia nella Toscana comunale

168

Guittone d’Arezzo secondo le NUOVE Ahi lasso, or è stagion de doler tanto EDUCAZIONE CIVICA Linee guida online T9 Ora parrà s’eo saverò cantare Compiuta Donzella secondo le EDUCAZIONE NUOVE T10 A la stagion che ’l mondo foglia e fiora CIVICA Linee guida online T8

PARITÀ DI GENERE equilibri

170

#PROGETTOPARITÀ

3 Il dolce stilnovo

172

1 Che cos’è lo stilnovo

172

2 La lezione di Guido Guinizzelli e le caratteristiche del nuovo modo di poetare

173

Guido Guinizzelli T11 Al cor gentil rempaira sempre amore T12 Io voglio del ver la mia donna laudare

175 179

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Mario Marti L’immagine della donna nei poeti nuovi

XVI INDICE

181


3 «Per altezza d’ingegno»: Guido Cavalcanti

182

PER APPROFONDIRE L’averroismo Guido Cavalcanti T13 Voi che per li occhi mi passaste ’l core

183 184

LEGGERE LE EMOZIONI

PER APPROFONDIRE La malattia d’amore come topos letterario Guido Cavalcanti T14 Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira COLLABORA ALL’ANALISI T15 Perch’i’ no spero di tornar giammai online T16 Deh, spiriti miei, quando mi vedete

186 187 189

EDUCAZIONE CIVICA secondo le

NUOVE Donne sommerse: le rimatrici trecentesche EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

192

#PROGETTOPARITÀ

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

194 195

VERSO L'ESAME DI STATO

ONLINE

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Guido Cavalcanti L’anima mia vilment’è sbigotita

Audio e video Dario Fo, Mistero Buffo. Interpretazione di Cielo d’Alcamo Mappa interattiva I luoghi della poesia

196

Interpretazioni critiche Maria Corti L’iterattività come “cifra” della poesia cavalcantiana Verso il Novecento Il sonetto viaggia nel tempo… Epifanie femminili novecentesche: due esempi

5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti

197

1 Il comico

198

1 Una nebulosa che sfugge alle categorizzazioni

198

2 I temi principali del comico nel Medioevo 3 I portavoce del comico nella società medievale: goliardi e giullari

199

PER APPROFONDIRE Comico e “carnevalesco”

199 199

4 I Carmina Burana e il “mondo alla rovescia”

200

VERSO IL NOVECENTO Il pericolo del riso e Il nome della rosa Un manifesto della poesia goliardica

200

online T1

2 I poeti comico-realisti

I principali esponenti: Rustico Filippi e Cecco Angiolieri Rustico Filippi online T2 Oi dolce mio marito Aldobrandino Cecco Angiolieri T3 Tre cose solamente m’ènno in grado online T4 online T5

T6

La mia malinconia è tanta e tale Accorri accorri accorri, uom, a la strada! S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo

202 203

LEGGERE LE EMOZIONI LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

205

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

207

INDICE XVII


ONLINE

Sintesi con audiolettura 208 Zona Competenze 209 Per approfondire La "buona morte" nel Medioevo Un guazzabuglio di definizioni: poeti “comico-realisti”, “burleschi”, “giocosi”

Audio Fabrizio De Andrè, S’i’ fosse foco Sguardo sullla musica Fabrizio De Andrè, S’i’ fosse foco

6 Dante Alighieri

210

1 Ritratto d’autore

212

1 La nascita, la giovinezza, la prima formazione

212

PER APPROFONDIRE Un padre rifiutato, dei padri ideali

2 La “donna della salute” e l’esperienza stilnovista

214 215

Giovanni Boccaccio online D1 Il primo incontro tra Dante e Beatrice

3 La consolazione della filosofia. La «selva oscura» e il mistero del traviamento PER APPROFONDIRE Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta

216 216

4 La passione (e la delusione) della politica 5 Gli anni dell’esilio. La morte: Dante entra nella leggenda

217

SGUARDO SULLA STORIA La Firenze di Dante M’insegnavate come l’uom s’etterna Guido Cavalcanti online D3 Io vegno ’l giorno a te

218

218

online D2

TESTI IN DIALOGO • Il dramma dell’esilio online D4a online D4b

Tu lascerai ogne cosa diletta Legno sanza vela

2 La Vita nuova 1 La struttura, la finalità, i destinatari

220

2 La vicenda 3 Un itinerario spirituale e poetico nel nome di Beatrice 4 Le interpretazioni della Vita nuova

221

T1 T2 online T3 T4 T5 online T6 online T7

226 227

Il libro della memoria e la presentazione dell’opera Il primo saluto di Beatrice. Un sogno inquietante Il gioco degli sguardi. Schermaglie cortesi Donne ch’avete intelletto d’amore Tanto gentile e tanto onesta pare La morte di Beatrice: tra fantasia e realtà Un nuovo sogno sconfigge la tentazione della “donna gentile”

222 224

232 237

INTERPRETAZIONI CRITICHE

XVIII INDICE

Gianfranco Contini Una celebre lettura di Tanto gentile e tanto onesta pare

240

T8

242

Oltre la spera che più alta gira


3 La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo

244

1 Le Rime

244

T9 Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io online T10 Chi udisse tossir la malfatata T11 Così nel mio parlar voglio esser aspro

LEGGERE LE EMOZIONI

247

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

249

2 Un intellettuale al servizio del suo tempo: il progetto del Convivio

252

I caratteri dell’opera I contenuti Le fonti, i modelli e lo stile secondo le NUOVE CIVICA T12 L’obiettivo e i destinatari dell’opera EDUCAZIONE Linee guida

252 252 254 255

secondo le

online T13

NUOVE Perché è giusto impiegare il volgare EDUCAZIONE CIVICA Linee guida online T14 Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete online T15 Significato letterale e “sovrasensi” online T16 L’enigma della donna gentile - Filosofia

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

3 Dante teorico della lingua volgare: il De vulgari eloquentia T17 Caratteristiche del volgare illustre Lo stile tragico

259 262

online T18

4 La riflessione politica: la Monarchia T19 I due diversi fini dell’uomo e le due guide COLLABORA ALL’ANALISI

5 Epistole online T20 online T21

265 268 271

A un amico fiorentino Una introduzione “d’autore” alla lettura della Commedia

4 Il poema sacro

272

1 Le caratteristiche generali

272

2 Il viaggio ultraterreno

273

PER APPROFONDIRE La configurazione dell’aldilà dantesco Inferno Purgatorio Paradiso

274 276 277 278

3 La missione didattica e profetica di Dante 4 La Commedia come summa della cultura medievale 5 Le tecniche narrative

279

Lo statuto del narratore e l’immagine del lettore Il colloquio con gli spiriti: la costante narrativa del poema La concezione figurale Le forme della rappresentazione: realismo e simbolismo

281 282 284 286

6 Lo stile, la lingua, la metrica

288

PER APPROFONDIRE Perché si parla di Dante come “padre” della lingua italiana? Il viaggio provvidenziale di Dante vs il viaggio proibito online T22a Il prologo del poema online T22b Io non Enëa, io non Paulo sono… online T22c L’inizio del viaggio online T22d Il viaggio proibito: Ulisse “doppio” di Dante?

291

280 281

online T22

415

INDICE XIX


online T23

Una visione negativa del presente: Firenze, l’Italia, il papato

online T23a La città partita online T23b Ahi serva Italia... online T23c Fatto v’avete dio d’oro e d’argento online T24

Dante nuovo “auctor” e profeta online T24a La consacrazione della missione profetica di Dante online T24b Io fui sesto tra cotanto senno online T24c Un’immagine del lettore online T25 La visione culturale di Dante online T25a Gli spiriti magni online T25b La concezione dantesca di sapienza: pluralismo e unità online T26 Il personaggio dantesco: esemplarità e sintesi online T26a Francesca o dei pericoli dell’amor cortese online T26b L’ingiusta giustizia del suicida Pier della Vigna online T27 La dimensione figurale online T27a Il ritorno di Beatrice: dalla Vita nuova alla Commedia online 1 ... e donna mi chiamò beata e bella online 2 ... donna m’apparve, sotto verde manto online T27b Il personaggio di Catone online T28 Il pluristilismo della Commedia online T28a Il registro comico-realistico online 1 Gli adulatori online 2 L’invettiva di san Pietro online T28b Il registro tragico. Un esempio: il proemio del Paradiso Sintesi con audiolettura Zona Competenze

293 297

VERSO L'ESAME DI STATO Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

ONLINE

Dante Alighieri Vede perfettamente onne salute, Vita nuova, XXVI Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Giuliano Procacci Storia degli italiani Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo - argomentativo su tematiche di attualità Robert Davidsohn Storia di Firenze

XX INDICE

Per approfondire Sogni e visioni nella cultura medievale La questione della lingua Ricostruire il testo originale della Commedia: un problema filologico ancora aperto La Commedia nel tempo Le letture dantesche di Sermonti e Benigni, eventi di massa Le lecturae Dantis Una poesia metamorfica Pier Paolo Pasolini La Divina Mimesis Verso il Novecento Lo stilnovismo montaliano e la figura femminile dell’«angelo visitante».

Testimonianze dall’aldilà: l’Antologia di Spoon River Primo Levi Il canto di Ulisse, antidoto alla barbarie Interpretazioni critiche Mario Fubini Pensar per terzine Gallery Immagini dell’aldilà nel mondo antico Paolo e Francesca nell’interpretazione di vari artisti Sguardo sul cinema Dante e il cinema Verso l'esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivoargomentativo su tematiche di attualità "veltro", da Enciclopedia dantesca Treccani

298 299 301


7 Francesco Petrarca

302

1 Ritratto d’autore

304

1 Una vita come ricerca

304

online D1

Petrarca e la solitudine Ideale di vita online D1b La solitudine nel locus amoenus di Valchiusa online D1c La vita cittadina non è fatta per gli spiriti eletti online D1d Come leggeva Petrarca online D1a

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

2 Un nuovo modello di intellettuale e una nuova visione culturale: verso l’Umanesimo 310 La concezione filosofica e letteraria

310

PER APPROFONDIRE La crisi della Scolastica 310 T1 Petrarca e i classici 313 online T1a La lettura dei classici come occasione di meditazione online T1b I classici come interlocutori viventi 489 Due testi polemici 313 online T2 La lettura di Aristotele serve forse a renderci più colti, ma non migliori online T3 Contro la cultura enciclopedica

2 Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico

314

1 L’itinerario di Petrarca alla ricerca della propria identità di scrittore

314

2 Una multiforme produzione: il Petrarca latino

315

Opere di ispirazione storico-erudita Opere di ispirazione morale-religiosa

315 316

3 Il Secretum, il libro dei conflitti

317

T4 L’accidia, il male dell’uomo moderno T5 I due ostacoli al perfezionamento morale di Francesco T5a L’amore per Laura online T5b L’ambizione e l’eccessiva attrazione per la gloria LEGGERE LE EMOZIONI

319 322 322

4 L’epistolario: un ritratto di sé da consegnare ai posteri T6

Un itinerario simbolico: l’ascesa al monte Ventoso

324 LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

326

5 Il tentativo di un poema allegorico: i Trionfi

331

3 Il Canzoniere

332

1 L’elaborazione dell’opera, i modelli, la struttura

332

PER APPROFONDIRE Cos’è un macrotesto?

333

2 La modernità del Canzoniere: la scoperta di un io diviso 3 I temi del Canzoniere

336

Il paesaggio, riflesso dell’interiorità La memoria

336 336

PER APPROFONDIRE I volti di Laura

335

337

La fuga del tempo e la caducità delle cose umane La visione politica Il tema religioso del pentimento e gli ultimi testi del Canzoniere

338 338 339

PER APPROFONDIRE Le parole chiave del Canzoniere

339

INDICE    XXI


4 Le scelte stilistiche del Canzoniere e l’unilinguismo

340

T7 Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono T8 Il dissidio interiore T8a Era il giorno ch’al sol si scoloraro online T8b Movesi il vecchierel canuto et biancho online T9 L’ambivalenza dell’amore online T9a Benedetto sia ’l giorno, et ’l mese, et l’anno online T9b Padre del ciel, dopo i perduti giorni T10 Lo spazio dell’io online T10a Passa la nave mia colma d’oblio LEGGERE LE EMOZIONI T10b O cameretta che già fosti un porto

342 346 346

349 349

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Marco Santagata Il nuovo spazio dell’io nella poesia petrarchesca

351

T11 Il paesaggio della natura come proiezione dell’io e come confidente T11a Solo et pensoso online T11b Di pensier in pensier, di monte in monte T12 Il tema della «memoria innamorata» T12a Erano i capei d’oro a l’aura sparsi

353 353

PER APPROFONDIRE Un nome “segno”: Laura-l’aura-lauro T12b Chiare, fresche et dolci acque T13 Il tema della fuga del tempo e della caducità della vita online T13a Quanto piú m’avicino al giorno extremo T13b La vita fugge et non s’arresta una hora online T13c Vago augelletto che cantando vai

358

356 356 359 364 364

TESTI IN DIALOGO • Il sentimento del tempo: un tema transepocale Una testimonianza antica

Seneca Ogni giorno si muore

online D2

Due esempi novecenteschi

Gabriele D’Annunzio La sabbia del Tempo Eugenio Montale online D3b Quartetto T14 Il tema della morte di Laura online T14a Se lamentar augelli, o verdi fronde T14b Gli occhi di ch’io parlai sí caldamente COLLABORA ALL’ANALISI T14c Levommi il mio penser in parte ov’era T14d Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena T15 Il tema politico secondo le NUOVE T15a Italia mia, benché ’l parlar sia indarno ANALISI PASSO DOPO PASSO EDUCAZIONE CIVICA Linee guida online T15b Fiamma dal ciel su le tue treccie piova T16 Verso la chiusura del cerchio? T16a I’ vo piangendo i miei passati tempi online T16b Vergine bella online D3a

VERSO IL NOVECENTO Andrea Zanzotto Notificazione di presenza sui Colli Euganei Sintesi con audiolettura Zona Competenze

367 367 369 371 373 373 379 379 382 383 386

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Francesco Petrarca S’amor non è, che dunque è quel ch'io sento? Canzoniere, 132

XXII INDICE

388


ONLINE

Per approfondire Ma Laura è veramente esistita? I libri come amici? Una data simbolica per una svolta paradigmatica Il metodo di allestimento dell’epistolario Work in progress: la composizione del Canzoniere L’ombra di Dante, un modello “rimosso” “Italia”, “italiani”: un mito linguistico-letterario Come si legge la grafia di Petrarca Il Canzoniere nel tempo

Interpretazioni critiche Ugo Dotti Il significato della solitudine per Petrarca Vinicio Pacca «Gestire la propria immagine in prima persona»: la funzione dell’Epistolario Karlheinz Stierle Il mondo gerarchico e verticale di Dante e il mondo orizzontale e molteplice di Petrarca Marco Santagata L’errore del sonetto proemiale Verso il Novecento Due interpretazioni psicanalitiche del personaggio di Laura

8 Giovanni Boccaccio

388

1 Ritratto d’autore

390

1 Un mercante mancato

390

Giovanni Boccaccio secondo le NUOVE CIVICA Una ritrattazione del Decameron EDUCAZIONE Linee guida

online D1

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

PER APPROFONDIRE Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda

393

2 La produzione minore: all’insegna dello sperimentalismo

394

Le opere del periodo napoletano Le opere del periodo fiorentino Dopo il Decameron online T1 Un libro galeotto: l’innamoramento di Florio e Biancifiore online T2 Una confessione autobiografica: la tristezza del ritorno a Firenze online T3 Una richiesta di solidarietà femminile

395 397 399

2 Il Decameron

401

1 La composizione del Decameron. I modelli di riferimento

401

2 La struttura e la poetica

402

PER APPROFONDIRE Il manoscritto autografo del Decameron: la volontà editoriale dell’autore 402

3 La cornice, il gioco delle “voci narranti” e la dialettica delle interpretazioni 4 L’ideologia di Boccaccio: fra innovazione e tradizione 5 I temi

406

L’amore… le donne L’intelligenza: l’industria La fortuna

408 409 410

6 La fondazione del realismo: i personaggi, il modello spaziale 7 Il Decameron come laboratorio narratologico 8 Lo stile e la lingua

411

T4 Dichiarazioni di poetica T4a Il Proemio e la dedica alle donne online T4b Introduzione alla quarta giornata: la naturalità dell’istinto amoroso e l’apologo delle papere online T4c La Conclusione: l’autodifesa dall’accusa di immoralità

416 416

407 408

412 414

648

INDICE XXIII


online T4d

Una novella sull’arte di raccontare: Madonna Oretta T5 La cornice T5a Il divampare della peste in Firenze online T5b Il giardino del piacere T6 La riscrittura ironizzante e parodica dei modelli T6a La confessione di ser Ciappelletto online T6b La “miracolosa” guarigione di Martellino T6c La strana storia di Nastagio degli Onesti

420 420 424 424 436

SGUARDO SULL' ARTE La novella di Nastagio degli Onesti illustrata da Sandro Botticelli T6d La predica magistrale di frate Cipolla T7 Amore e morte secondo le PARITÀ NUOVE CIVICA DI GENERE T7a Tancredi e Ghismonda: una tragedia feudale EDUCAZIONE Linee guida equilibri

443 444 453 453

#PROGETTOPARITÀ

T7b Lisabetta da Messina: una tragedia borghese EDUCAZIONE CIVICA online T7c Simona e Pasquino: una tragedia popolana T8 Eros e comicità T8a La badessa e le brache online T8b La notte degli equivoci

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

PER APPROFONDIRE Boccaccio, la materia erotica e il “boccaccesco” T9 Mondo borghese-mercantile e mondo cavalleresco online T9a Il ritmo della fortuna/il ritmo del mare: Landolfo Rufolo T9b La formazione di un mercante: LEGGERE LE EMOZIONI Andreuccio da Perugia ANALISI PASSO DOPO PASSO

464

#PROGETTOPARITÀ

470 470 474 475 475 475

INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

Esaltazione o visione critica del mondo mercantile? Vittore Branca L’epopea dei mercanti Giorgio Padoan Una visione critica del mondo mercantile

488 488 489

T9c Come il nobile Federigo degli Alberighi divenne miglior massaio COLLABORA ALL’ANALISI 490 T10 La beffa e la dimensione comica 497 T10a Calandrino e l’elitropia 497

3 Il Decameron nel tempo

505

1 La fortuna del Decameron nella cultura europea

505

Geoffrey Chaucer D2 Il ritratto del venditore di indulgenze online D3 Il racconto delle comari di Bath SGUARDO SULLA LETTERATURA INGLESE Uno sguardo all’Europa: Chaucer e i Canterbury Tales Esempi di censura sul Decameron nell'età della Controriforma online T11a Monache, preti e monasteri online T11b La rivisitazione della conclusione SGUARDO SUL CINEMA Boccaccio e il cinema. Il Decameron di Pasolini Sintesi con audiolettura Zona Competenze

506

507

508 509 512

VERSO L'ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giovanni Boccaccio Madonna Filippa, Decameron, VI, 7 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Armando Sapori Lezioni di storia economica Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

XXIV INDICE

513 515 516


ONLINE ONLINE

Per approfondire Boccaccio bibliofilo, filologo e copista Giovanni Boccaccio Una ritrattazione del Decameron Epistola XXI a Mainardo Cavalcante La peste tra realtà e letteratura Una comunicazione paritaria: il simbolo del “cerchio” Un “disegno ascensionale” o piuttosto un mondo “orizzontale”? Il concetto di realismo Pasolini e il Decameron La “sfortuna” del Decameron: da libro censurato a libro incompreso Le tre edizioni del Decameron «rassettate» dai censori controriformistici

Interpretazioni critiche Giuseppe Petronio I confini del realismo decameroniano Luigi Surdich La novella di Federigo come documento sociologico Verso il Novecento Libri “galeotti” Sguardo sull'arte In polemica con la cultura della penitenza Verso l'esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giovanni Boccaccio Peronella (Decameron VII, 2)

9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale

517

1 Parole sulle donne/parole alle donne 1 «Tu sei la porta del demonio» Stefano di Borbone D1 Contro gli ornamenti sontuosi delle donne: un esempio misogino

2 Le prediche alle donne e la pedagogia “al femminile” TESTI IN DIALOGO • Sull’educazione delle ragazze

Umberto da Romans D2a Un modello di predica per le adolescenti Paolo da Certaldo secondo le NUOVE CIVICA D2b Come si devono educare le ragazze EDUCAZIONE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

3 La letteratura laica delle origini e le donne

2 Parole delle donne 1 Le voci delle mistiche 2 «Una donna in lotta con la sua voce»: Caterina da Siena T1 Le parole del discorso mistico femminile Angela da Foligno T1a La mia anima fu rapita in estasi Caterina da Siena T1b «Annegatevi nel sangue di Cristo»

3 La voce di Eloisa Pietro Abelardo secondo le NUOVE D3 Eloisa scrive ad Abelardo EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Sintesi con audiolettura secondo le NUOVE Zona Competenze EDUCAZIONE CIVICA Linee guida VERSO L'ESAME DI STATO

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Johan Huizinga L’autunno del Medioevo

INDICE XXV


Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali Umanesimo e Rinascimento

521

Sguardo sulla storia 522

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 526 1 Umanesimo/Rinascimento 526 2 L’Umanesimo: la centralità dell’uomo e la rivalutazione della dimensione terrena 527 Giannozzo Manetti D1 Il piacere, non il dolore, caratterizza la vita umana 530 Poggio Bracciolini online D2 Il desiderio di arricchirsi non è una colpa perché è naturale Leon Battista Alberti online D3 Lode dell’operosità

3 Il mito della rinascita. La riscoperta dei classici 532 Marsilio Ficino Una nuova età aurea Poggio Bracciolini online D5 Ho trovato Quintiliano ancor salvo e incolume online D4

PER APPROFONDIRE La nascita del collezionismo 532

4 La fondazione del metodo filologico 533 PER APPROFONDIRE Il metodo filologico e la ricostruzione dei testi originari 534

5 La concezione del tempo e dello spazio 534 Il tempo degli umanisti 534 Leon Battista Alberti LEGGERE online D6 Il valore del tempo LE EMOZIONI Lo spazio 534 Cristoforo Colombo online D7 La scoperta del nuovo mondo PER APPROFONDIRE Le città ideali 535

6 I valori e i modelli di comportamento 537 Cristoforo Landino Un incontro tra spiriti affini

online D8

7 Luoghi, centri e figure della produzione culturale 539 La corte: luogo-simbolo della cultura umanistico-rinascimentale 539 I LUOGHI DELLA CULTURA L a corte 542 Nuovi spazi per una “cultura del dialogo” 543 I LUOGHI DELLA CULTURA Il cenacolo e l’accademia 543 Gli intellettuali: nuovi ruoli, nuove identità 544 I LUOGHI DELLA CULTURA La biblioteca 544 TESTI IN DIALOGO • Il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico nel ritratto dei contemporanei: due testimonianze

Angelo Poliziano «Uomo nato a cose grandi» Niccolò Machiavelli online D9b Amava meravigliosamente qualunque era in una arte eccellente online D9a

XXVI INDICE


TESTI IN DIALOGO • Vivere a corte: tra mitizzazione e critica

Baldesar Castiglione 53 online D10a La corte felice di Urbino: un mito nostalgico

Erasmo da Rotterdam 54 online D10b La vita vuota dei cortigiani

Giorgio Vasari Leon Battista Alberti, prototipo dell’artista-intellettuale

online D11

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 547 1 Insegnare il “mestiere di uomo”: la pedagogia umanistica 547 TESTI IN DIALOGO • La pedagogia umanistica: alcune testimonianze

Pier Paolo Vergerio online D12a Centralità degli studia humanitatis

Leon Battista Alberti online D12b Anche l’esercizio fisico è importante

2 Un nuovo modello conoscitivo e un nuovo concetto di cultura 548 Leonardo Bruni Il valore educativo della discussione e del confronto

online D13

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

3 Il “ritorno a Platone” e il movimento neoplatonico fiorentino 550 L’opera di Marsilio Ficino, prototipo del “nuovo filosofo” 550 Pico della Mirandola D14 Il posto dell’uomo nell’universo 551

4 Un modo diverso di guardare alla natura 554 PER APPROFONDIRE Gli studi anatomici e la nascita della medicina moderna 555 Leonardo da Vinci D15 Le scienze che non si riferiscono all’esperienza sono vane ed erronee 555

3 Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 557 1 La letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 557

4 L’evoluzione della lingua 560 1 Dalla ripresa umanistica dell’uso del latino al trionfo del volgare 560 PER APPROFONDIRE Dante e Petrarca di fronte al rapporto latino-volgare 560

2 La “questione della lingua” nel Cinquecento 561 Le diverse posizioni sul problema della lingua 561 PER APPROFONDIRE Aldo Manuzio: un geniale umanista-editore Lorenzo Valla online D16 Il latino è la lingua della civiltà Pietro Bembo online D17 Chi scrive deve imitare i grandi modelli

562

LIBRI, LETTORI, LETTURA

La rivoluzione della stampa 565 Tommaso Garzoni online D18 La stampa produce conoscenza per tutti Dove e come leggono gli umanisti 567 INDICE    XXVII


TESTI IN DIALOGO • Leggere nell’età umanistico-rinascimentale

Niccolò Machiavelli online D19a La “doppia lettura” di Machiavelli

Guarino Veronese online D19b Leggere prendendo appunti: i suggerimenti di un grande educatore

Michel de Montaigne online D19c Montaigne e i libri ARTE NEL TEMPO

Il Quattrocento La concezione di uno spazio matematico e l’artista di corte 568 1. Trinità di Masaccio 568 2. L’artista di corte: la Pala di Brera di Piero della Francesca 569 3. L’artista di corte: la Camera Picta di Andrea Mantegna 570 Il primo Cinquecento Corpi, movimento e spazio 571 4. Il naturalismo di Leonardo 571 5. La pittura scenografica di Tiziano 572

ONLINE

Sintesi con audiolettura 573 Zona Competenze 576 Verso il Novecento Achille Campanile Un rovesciamento umoristico dell’eurocentrismo: “La scoperta dell’Europa” Per approfondire La filologia dell’opera Danzar, festeggiar, cantar e giocare… Il ruolo della festa nella società signorile

10 Classicismo e anticlassicismo

L’Accademia platonica di Careggi Le scuole umanistiche di Guarino e di Vittorino da Feltre Segrete corrispondenze: l’interesse rinascimentale per la magia Gallery Il genio multiforme di Leonardo

577

1 La visione classicistica della letteratura 578 1 I principi chiave del classicismo 578 PER APPROFONDIRE Il repertorio classicistico: alcuni esempi 578

2 Lorenzo de’ Medici 580 Lorenzo de’ Medici T1 Canzona di Bacco 581

3 Angelo Poliziano e l’ideale neoplatonico della bellezza 584 Le Stanze per la giostra 584 SGUARDO SULL'ARTE Poliziano e Botticelli: il mondo della bellezza tra poesia, filosofia e arte 586 La Fabula di Orfeo e la nascita di un teatro umanistico per la corte 587 PER APPROFONDIRE Dal mito di Orfeo alla Fabula di Poliziano 587 Angelo Poliziano T2 Il regno di Venere e dell’Amore 588 T3 I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino 592

4 Jacopo Sannazaro e il mito dell’Arcadia 594 Jacopo Sannazaro T4 L’evocazione di un mondo idillico fuori dal tempo 595 online T5 La morte dell’Arcadia: l’epilogo funereo dell’opera

XXVIII INDICE


5 La civiltà del trattato

598

Il trattato Gli Asolani e la divulgazione dell’amor platonico Pietro Bembo T6 L’amore spiritualizzato Il Cortegiano di Baldesar Castiglione: l’identikit del perfetto gentiluomo di corte

598

PER APPROFONDIRE Il libro del Cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei Giovanni Della Casa e il Galateo: la “civiltà delle buone maniere”

600 601 603 604

EDUCAZIONE CIVICA secondo le

NUOVE Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este EDUCAZIONE CIVICA Linee guida T7 Le qualità del “perfetto cortigiano” Baldesar Castiglione T7a Grazia e sprezzatura T7b Il ruolo del cortigiano T8 Suggerimenti su come comportarsi in società Giovanni Della Casa T8a Cattive maniere a tavola T8b Argomenti di conversazione. Come parlare in società

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

606 607 607 609 611 611 611

2 La produzione anticlassicista

614

1 Il classicismo: un modello dominante, ma non esclusivo

614

2 La Vita di Benvenuto Cellini

615

Benvenuto Cellini Un omicidio SGUARDO SULL'ARTE La fusione del Perseo

online T9

616

3 Un “irregolare”: Pietro Aretino

617

Pietro Aretino T10 Una spregiudicata lezione di erotismo

618

4 Un poema anticlassicistico: il Baldus di Teofilo Folengo

619

PER APPROFONDIRE Il mito del paese di Cuccagna Teofilo Folengo T11 Le Muse maccheroniche online T12 Un contadino… poco bucolico

621 622

5 Un grande modello europeo: Gargantua e Pantagruele di Rabelais

626

François Rabelais L’appello ai lettori: la difesa del riso online T14 La poetica dell’eccesso T15 L’aldilà come luogo del “rovesciamento carnevalesco”

629

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

633 634

ONLINE

online T13

Per approfondire Dal “giardino paradiso” dell’età umanisticorinascimentale al “giardino della sofferenza” di Leopardi Miguel de Cervantes Don Chisciotte e Sancio Panza in Arcadia

Interpretazioni critiche Maria Corti Il codice bucolico e l’Arcadia di Sannazaro Primo Levi Rabelais uomo delle contraddizioni Video e Audio Giacomo Battiato (Film, 1989) Una vita scellerata

INDICE XXIX


11 Il petrarchismo e la poesia femminile

635

1 La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 636 1 Il petrarchismo

636

I petrarchisti

637

2 La contestazione del modello: gli antipetrarchisti

638

T1 Il modello e la contestazione parodica Pietro Bembo T1a Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura Francesco Berni T1b Chiome d’argento fino, irte e attorte Pietro Bembo online T2 Piansi e cantai Michelangelo Buonarroti T3 Giunto è già ’l corso della vita mia online T4 O notte, o dolce tempo, benché nero Giovanni Della casa online T5 Questa vita mortal, che ’n una o ’n due

640 640 641

643

2 Le poetesse

645

PER APPROFONDIRE Cosa significava essere una “cortigiana”? Vittoria Colonna secondo le PARITÀ NUOVE T6 Qui fece il mio bel sole a noi ritorno EDUCAZIONE CIVICA DI GENERE Linee guida Gaspara Stampa T7 Voi, ch’ascoltate in queste meste rime Veronica Gambara online T8 Ombroso colle Isabella di Morra secondo le PARITÀ NUOVE T9 D’un alto monte onde si scorge il mare EDUCAZIONE CIVICA DI GENERE Linee guida

645 647

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

648

equilibri

650

#PROGETTOPARITÀ

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

651 651

VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

652

12 La novella nell’età umanistico-rinascimentale

653

1 Il Quattrocento

654

2 Il Cinquecento

656

Poggio Bracciolini online T1 Il prete che invece di paramenti portò al vescovo dei capponi Masuccio Salernitano online T2 Una novella ispirata al gusto per l’orrido

Matteo Bandello T3 Bandello e i “casi strani”: Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia e lei e sé stesso uccide

TESTI IN DIALOGO • La storia di Romeo e Giulietta

Matteo Bandello La scena del balcone in Bandello

online D1a

XXX INDICE

659


William Shakespeare online D1b La scena del balcone in Shakespeare SGUARDO SUL TEATRO E SUL CINEMA La storia di Giulietta e Romeo: dalla novella al teatro al cinema

ONLINE

Sintesi con audiolettura Zona Competenze Per approfondire Sigmund Freud Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio Verso il Novecento Dalla facezia umanistica alla barzelletta

663 664 664

Interpretazioni critiche Salvatore Battaglia L’imprevedibilità come legge del comportamento umano

13 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato

665

1 Dai cantari al poema cavalleresco

666

1 Un genere destinato al successo

666

2 I cantari

667

online T1

L’infrazione dell’aura mitica: Orlando, affamato, cerca lavoro

3 Il poema cavalleresco

668

TESTI IN DIALOGO • I proemi del Morgante e dell’Orlando innamorato

Luigi Pulci online T2a Il proemio del Morgante Matteo Maria Boiardo online T2b Il proemio dell’Orlando innamorato

4 Il Morgante di Pulci. La deformazione comica e grottesca della materia cavalleresca 669 Luigi Pulci, un “irregolare” alla corte dei Medici Il Morgante

669 669

5 L’Orlando innamorato di Boiardo e la nostalgica riproposizione del mondo cavalleresco

671

Matteo Maria Boiardo alla corte estense L’Orlando innamorato Matteo Maria Boiardo online T3 … E torna il mondo di virtù fiorito

671 672

PER APPROFONDIRE La fortuna contrastata dell’Orlando innamorato Luigi Pulci T4 Il credo blasfemo di Margutte online T5 E Runcisvalle pareva un tegame Matteo Maria Boiardo online T6 La bella Angelica propone una sfida cavalleresca ANALISI PASSO DOPO PASSO secondo le EDUCAZIONE NUOVE T7 Orlando difende i valori della cultura e dell’amore CIVICA Linee guida

675 676

680

6 L’evoluzione del tema cavalleresco nel Cinquecento. Dall’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata

684

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

685 687

INDICE XXXI


ONLINE

Per approfondire La fortuna del repertorio cavalleresco presso il pubblico popolare

Verso il Novecento Gianni Celati racconta ai lettori di oggi l’Orlando innamorato

14 Ludovico Ariosto

688

1 Ritratto d’autore

690

1 Una vita nella corte

690

2 Le opere

693

1 Lo sperimentalismo dei generi

693

2 Le Rime 3 Ariosto commediografo 4 L’epistolario

693 694 695

Ludovico Ariosto Ariosto chiede ad Alfonso d’Este di esonerarlo dall’incarico di governatore

online T1

5 Le Satire

696

PER APPROFONDIRE Gli argomenti delle Satire Ludovico Ariosto secondo le EDUCAZIONE NUOVE T2 Ariosto e la condizione cortigiana CIVICA Linee guida online T3 La rivendicazione dell’autonomia dell’intellettuale cortigiano

697 699

3 L’Orlando furioso

703

1 La genesi, le vicende editoriali, la trama

703

Il poema di una vita. Le tre edizioni La trama dell’Orlando furioso

704 705

2 Temi e motivi

707

Le donne… gli amori I cavallier… l’armi: il tema della guerra La dimensione del “meraviglioso” Luoghi-simbolo: la selva, il palazzo di Atlante, il valloncello della Luna

707 708 709 710

3 Le modalità narrative

711

L’“inchiesta” e la visione ariostesca della vita umana “Strani viaggi”: il modello spaziale del poema I personaggi e il narratore

711 713 714

4 Le scelte stilistico-linguistiche e metriche

715

XXXII INDICE

PER APPROFONDIRE Gli esordi dei canti: uno spazio commentativo per l’autore Ludovico Ariosto T4 Un poema nuovo nasce dalla tradizione cavalleresca T5 Il primo canto, compendio dell’universo poetico del Furioso

718 721

VERSO IL NOVECENTO Ariosto e Calvino: un rapporto privilegiato VERSO IL NOVECENTO Italo Calvino Il lamento di Sacripante e la rosa

735 735

715


Ludovico Ariosto Entra in scena la magia online T6a

Un anello, un mago, un cavallo alato... online T6b Un duello a colpi di magia: Bradamante sfida il mago Atlante secondo le PARITÀ NUOVE T7 Rinaldo difensore dei “diritti delle donne” EDUCAZIONE CIVICA DI GENERE Linee guida online T8 Ruggiero all’isola di Alcina online T9 Una terribile invenzione di guerra: l’archibugio T10 Il palazzo dei desideri COLLABORA ALL’ANALISI Ludovico Ariosto online T11 La preghiera di Carlo Magno e il viaggio dell’angelo Michele: la dimensione religiosa entra nel poema?

736

equilibri #PROGETTOPARITÀ

SGUARDO SULLA LETTERATURA E IL TEATRO L’Orlando furioso di Ronconi Ludovico Ariosto T12 Una storia di amicizia e morte sullo sfondo LEGGERE LE EMOZIONI della guerra: Cloridano e Medoro ANALISI PASSO DOPO PASSO online T13 Ricompare Angelica… ma è una nuova Angelica LEGGERE LE EMOZIONI T14 E cominciò la gran follia sì orrenda online T15 Un’avventura fuori dal mondo: Astolfo nel Paradiso Terrestre online T16 Il rovesciamento della prodezza cavalleresca nella pazzia Ludovico Ariosto T17 Il vallone lunare delle cose perdute: Astolfo recupera il senno di Orlando online T18 L’Orlando furioso giunge in porto EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

740

745

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

748 759

769

VERSO IL NOVECENTO L’Orlando furioso come fonte e modello VERSO IL NOVECENTO Italo Calvino Storia di Astolfo sulla Luna online T19 Due opposti giudizi sul confronto Orlando furioso-Gerusalemme liberata Camillo Pellegrino online T19a Il palazzo illusionistico dell’Ariosto e la “fabrica” solida del Tasso Galileo Galilei online T19b Una galleria regia… lo studietto di qualche ometto curioso Miguel de Cervantes online T20 Un’avventura “cavalleresca” di don Chisciotte Giacomo Leopardi online T21 Il poema della felice immaginazione

774 775

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

777 780

VERSO L’ESAME DI STATO

ONLINE

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Lanfranco Caretti Ariosto e Tasso Per approfondire Ariosto pensava a un “canzoniere”? Scrivere per polemizzare: la satira fra “genere” e “modo” L’enigma dei Cinque canti: un materiale rifiutato dall’autore Interpretazioni critiche Cesare Segre La ricerca di armonia nel Furioso Gallery Ferrara e gli Estensi Sguardo sulla storia Ferrara al tempo di Ariosto Sguardo sull’arte La maga Melissa secondo Dossi

781

La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano L’Orlando furioso nel tempo Sguardo sul cinema La guerra nel Cinquecento Video L’Orlando furioso di Ronconi Verso l’esame di Stato Lanfranco Caretti L’opera dell’Ariosto, in Antichi e moderni Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Giuseppe Petronio Un libro godibilissimo, in La letteratura italiana raccontata da Giuseppe Petronio

INDICE XXXIII


ONLINE

15 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie 783 1 La follia: esperienza umana e tema letterario 1 Folli e follia dal Medioevo al Rinascimento SGUARDO SULL’ARTE La nave dei folli PER APPROFONDIRE L’iconografia della follia

2 La follia come tema letterario Impazzire per amore: dal romanzo cavalleresco medievale all’Orlando Furioso Chrétien de Troyes LEGGERE T1 Il «cerimoniale della follia» LE EMOZIONI EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

3 I diversi significati della follia nella cultura umanistico-rinascimentale Il doppio sguardo di Leon Battista Alberti Leon Battista Alberti T2 La libertà del vagabondo Erasmo da Rotterdam: la follia come saggezza Erasmo da Rotterdam T3 Il rovesciamento del rapporto follia-saggezza T4 Il privilegio dei “folli del re”

VERSO IL NOVECENTO Da Erasmo a Pirandello: il folle “ragionatore”

4 La ripresa del tema della follia nell’età barocca Miguel De Cervantes T5 Il testamento di Don Chisciotte Sintesi con audiolettura Zona Competenze VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

16 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento

785

1 Le forme teatrali del Medioevo 786 1 Il teatro medievale: dai drammi liturgici alle “sacre rappresentazioni” 786 PER APPROFONDIRE Effetti speciali 787

2 Il teatro umanistico-rinascimentale 788 1 Il teatro di corte 788 2 La commedia, genere chiave della cultura rinascimentale 790 3 La produzione comica del Cinquecento 792 Bernardo Dovizi da Bibbiena Prologo a difesa della modernità

online T1

PER APPROFONDIRE “Comico del significato” e “comico del significante” 793 T2 Un esempio canonico di comicità 794 TESTI IN DIALOGO • La dimensione erotica nella commedia e la visione platonico-petrarchista dell’amore

Baldesar Castiglione L’errato giudizio dei sensi Anonimo online T3b L’incontro amoroso tra Angela e Iulio online T3a

XXXIV INDICE


798

La cortigiana di Pietro Aretino Il teatro controcorrente di Ruzante Ruzante T4 Il monologo di Ruzante e l’incontro con la moglie Gnua

798 799 802

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

808 809

ONLINE

4 La commedia anticlassicistica di Aretino e Ruzante

Per approfondire La specificità della comunicazione teatrale Tragedia e commedia nel mondo classico I luoghi del teatro La scenografia prospettica

Video e Audio Festa del Paradiso di Leonardo in Vita di Leonardo Renato Castellani (Sceneggiato Rai, 1971)

17 Niccolò Machiavelli

810

1 Ritratto d’autore

812

1 Una vita segnata dalla passione politica

812

SGUARDO SULLA STORIA La vita politica a Firenze negli anni del segretariato di Machiavelli 814

2 Le lettere di Machiavelli: l’acuto osservatore politico e l’uomo Niccolò Machiavelli Lode della varietà di comportamento (e di stile)

online T1

816

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

PER APPROFONDIRE I rapporti di un acuto osservatore politico T2 L’ozio forzato all’Albergaccio e la nascita del Principe

816 817

2 Il Principe

823

1 Un “opuscolo” destinato a rivoluzionare i parametri della politica

823

2 I fondamenti metodologici del Principe 3 I temi chiave

826 827

Etica e politica Il rapporto virtù-fortuna

827 828

4 Ottenere il consenso: strategie espositive ed espressive nel Principe

829

Niccolò Machiavelli secondo le EDUCAZIONE NUOVE T3 La Dedica e la presentazione del Principe CIVICA Linee guida T4 I diversi tipi di principati e le diverse condizioni della loro genesi T5 I principati nuovi acquistati grazie alla «virtù» e per mezzo di milizie proprie COLLABORA ALL’ANALISI T5a I principati nuovi online T5b I principati nuovi (in italiano contemporaneo) online T6 Un principe esemplare: il duca Valentino Niccolò Machiavelli secondo le PARITÀ NUOVE T7 Le qualità del principe machiavelliano EDUCAZIONE CIVICA DI GENERE Linee guida equilibri

832 834 836 836

841

#PROGETTOPARITÀ

TESTI IN DIALOGO • L’immagine del principe ideale nella trattatistica umanistica

Giovanni Pontano Immagini del principe tra Umanesimo e Controriforma Erasmo da Rotterdam online D1b Il «Principe cristiano» online D1a

INDICE XXXV


Giovanni Botero «La religione è fondamento di ogni prencipato» Niccolò Machiavelli T8 Il ribaltamento del “catalogo delle virtù”: il principe golpe e lione 844 online T9 Perché i principi d’Italia persero il regno Niccolò Machiavelli T10 Il ruolo della fortuna ANALISI PASSO DOPO PASSO 849 Niccolò Machiavelli T11 Esortazione a liberare l’Italia dai “barbari” 854 online D1c

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giulio Ferroni Contestualizzare il pensiero di Machiavelli

859

5 Come fu letto Il Principe: una pagina fondamentale nella coscienza politica europea 861

3 Machiavelli politologo, storico e letterato 864 1 I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: la lezione dell’Umanesimo 864 I temi principali 865 Niccolò Machiavelli T12 Bisogna imitare gli antichi anche in campo politico 868 online T13 Il ruolo positivo della religione a Roma. Le gravi responsabilità della Chiesa cattolica

2 Dell’arte della guerra 871 3 Machiavelli storico: le Istorie fiorentine 872 4 L’“altro” Machiavelli: il letterato e il commediografo 873 5 La Mandragola 874 Le circostanze di composizione, il prologo, l’intreccio 874 Tra tradizione e innovazione 875 La contiguità tra la Mandragola e Il Principe 876 Niccolò Machiavelli T14 Callimaco, finto medico, propone a Nicia il rimedio della mandragola 878 online T15 Un capolavoro di cinismo e abilità retorica: l’“orazion picciola” di frate Timoteo T16 La metamorfosi di madonna Lucrezia e un ambiguo “lieto fine” 882 Sintesi con audiolettura 888 Zona Competenze 891 VERSO L’ESAME DI STATO

ONLINE

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Niccolò Machiavelli «Della crudeltà e pietà» 892 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 895 Leonardo Olschki Machiavelli scienziato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 897 Giulio Ferroni Machiavelli, o dell'incertezza

XXXVI INDICE

Interpretazioni critiche Mario Martelli Lorenzo come il Valentino: la concretezza storica dell’esortazione a liberare l’Italia dai barbari Gennaro Sasso Il ritratto linguistico di Nicia Interpretazioni critiche a confronto Eugenio Garin Il principe machiavelliano come espressione estrema della cultura italiana del Rinascimento Antonio Gnoli e Gennaro Sasso “Bene” e “male” per Machiavelli Per approfondire La tradizione della trattatistica politica sul “buon governo”

La Fortuna tra letteratura e arte I politici e Machiavelli Il duca Valentino: un modello per Il Principe Sguardo sul cinema Il cinema sul Rinascimento Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo argomentativo su tematiche di attualità Educazione civica Riflessioni sulla guerra


18 Francesco Guicciardini

898

1 Ritratto d’autore 900 1 Una vita sotto il segno dell’ambizione 900 Francesco Guicciardini Amarezza per la perdita dell’onore online D2 La vita splendida di messer Francesco in Romagna online D1

2 La centralità dell’interesse politico e la visione della realtà 902

2 Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 903 1 Dagli scritti sul governo di Firenze alla Storia d’Italia

903

Le opere dedicate al governo di Firenze 903 Il distacco dall’ottica “fiorentina” e la rinuncia alla progettualità politica 903 Francesco Guicciardini online D3 Il compito dello storico e i limiti della storiografia antica

2 La Storia d’Italia

904

Francesco Guicciardini T1 Proemio 907 online T2 Il sacco di Roma

3 I Ricordi: il “libro segreto” 911 1 La coscienza della crisi e la fondazione di un nuovo genere di scrittura 911 2 Le aree tematiche dei Ricordi

912

Francesco Guicciardini T3 La critica delle regole e della fiducia nell’esemplarità della storia 916 LEGGERE LE EMOZIONI 918 T4 Il ruolo primario della fortuna nelle cose umane online T5 Meditazioni sulla natura degli uomini, sull’esistenza e sui limiti della conoscenza umana LEGGERE 920 T6 La Chiesa, il popolo, la politica LE EMOZIONI EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Francesco De Sanctis L’uomo del Guicciardini, simbolo della crisi italiana

923

Sintesi con audiolettura 926 Zona Competenze 927 VERSO L’ESAME DI STATO

ONLINE

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Francesco Guicciardini «La fede fa ostinazione» 928 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 929 Mario Fubini Introduzione a F. Guicciardini, Ricordi Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 930

Per approfondire La storiografia: da genere letterario a moderna scienza La complessa elaborazione dei Ricordi I Ricordi e le forme “brevi” della scrittura: massime e aforismi Guicciardini nel tempo

Interpretazioni critiche Matteo Palumbo La morfologia dei Ricordi

INDICE    XXXVII


Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali Manierismo e Controriforma

933

Sguardo sulla storia

934

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

936

1 L’eclissi della libertà di pensiero

936

Franco Cardini La confessione di una strega: Gostanza di Libbiano

online D1

VERSO IL NOVECENTO La chimera di Sebastiano Vassalli

937

EDUCAZIONE CIVICA secondo le

NUOVE La caccia alle streghe: una pagina oscura della storia EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

SGUARDO SUL CINEMA Streghe, inquisitori, eretici

#PROGETTOPARITÀ

2 La crisi dei valori rinascimentali Michel de Montaigne D2 L’uomo, la più miserabile delle creature

3 La concezione dello spazio geografico 4 I valori e i modelli di comportamento

938 938 939 941 942 943

Giovanni Botero Il principe assoluto deve umiliarsi davanti a Dio

online D3

5 La decadenza delle corti e la trasformazione del ruolo e dell’identità dell’intellettuale

944

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

945

1 Copernico e la teoria eliocentrica

945

PER APPROFONDIRE La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie

945

2 La pedagogia dei gesuiti

946

3 Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento

947

1 Oltre il classicismo rinascimentale: il Manierismo

947

2 Il dibattito letterario

949

I generi principali

950

4 L’evoluzione della lingua

951

TESTI IN DIALOGO • Pro e contro l’Indice dei libri proibiti

Roberto Bellarmino I libri sono più pericolosi degli eretici John Milton online D4b I libri vivono: distruggerli è come uccidere un uomo Paolo Sarpi online D4c I libri sono una difesa contro un potere tirannico online D4a

ARTE NEL TEMPO

Il manierismo e la Controriforma Dall’eccentricità al rispetto del dogma 1. Il Trasporto di Cristo di Jacopo Pontormo 2. Il Giudizio Universale di Michelangelo

XXXVIII INDICE

952 952 953


ONLINE

Sintesi con audiolettura 954 Zona Competenze 955 Per approfondire Il disorientamento conoscitivo e la perdita delle certezze Interpretazioni critiche Ezio Raimondi Per la nozione di manierismo letterario Libri, lettori, lettura Leggere durante la Controriforma: l’Indice dei libri proibiti

Educazione civica I regimi che proibiscono i libri Verso l'esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Massimo Firpo Una definizione: Riforma, Controriforma, riforma cattolica Arte nel tempo La Deposizione di Simone Peterzano

19 Torquato Tasso

956

1 Ritratto d’autore 958 2 La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo

963

1 Le Rime: verso il superamento del modello petrarchesco 963 T1 Un nuovo modello lirico 964 Torquato Tasso online T1a Tacciono i boschi e i fiumi T1b Qual rugiada o qual pianto 964 online T1c Ecco mormorar l’onde

2 Un teatro “lirico” 966 3 L’Aminta 966 I temi 968

4 Il Re Torrismondo 969 Torquato Tasso Il mondo bucolico di Aminta e l’amore per Silvia T3 «O bella età de l’oro»: il contrasto tra natura e civiltà 970

online T2

PER APPROFONDIRE Il “disagio della civiltà” da Tasso all’epoca moderna

973

3 La Gerusalemme liberata

974

1 Storia della Gerusalemme liberata

974

PER APPROFONDIRE Leggere la Liberata o la Conquistata? Un caso unico nella filologia italiana

976

2 La riflessione teorica sul poema: i Discorsi dell’arte poetica

977

Torquato Tasso La poetica di Tasso: il «maraviglioso cristiano»

online D1

3 La trama 979 4 I temi e le caratteristiche generali 981 5 Le modalità narrative 984 Il sistema dei personaggi 984 Il narratore e il punto di vista 986 INDICE    XXXIX


La simbologia spaziale I “chiaroscuri” del poema

986 987

6 Le scelte stilistiche e metriche

988

Torquato Tasso T4 Il proemio del poema online T5 Un poema d’amore o di guerra? I crociati alle porte di Gerusalemme online T6 Il concilio infernale e il piano di guerra di Satana COLLABORA ALL’ANALISI online T7 La fuga di Erminia innamorata di Tancredi

991

VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

Torquato Tasso secondo le EDUCAZIONE NUOVE T8 La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori CIVICA Linee guida T9 La storia di Clorinda online T9a Clorinda, coraggiosa donna guerriera T9b Il duello di Tancredi e Clorinda online T10 La magia demoniaca della selva incantata T11 Il giardino di Armida: traviamento e riscatto di Rinaldo

994 LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

995 1001 1001 1008

INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

Lanfranco Caretti Il “bifrontismo” di Tasso Sergio Zatti I musulmani e i valori del Rinascimento

1015 1015

4 Epistolario e Dialoghi

1017

1 L’epistolario

1017

Torquato Tasso Le persecuzioni del folletto online T13 Il perfetto cortigiano e padre di famiglia online T12

2 I Dialoghi

1017

Johann Wolfgang Goethe Tasso eroe romantico, pazzo per amore Charles Baudelaire online T15 Tasso in prigione, o l’«Anima... che il Reale soffoca fra i suoi muri» online T14

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

1019 1023

VERSO L’ESAME DI STATO

ONLINE

Tipologia A Analisi del testo e interpretazione di un testo letterario italiano Torquato Tasso Erminia sotto lo «stellato velo» della notte Per approfondire Una dissimulata letterarietà: le fonti Le fonti storiche del poema e la rielaborazione fantastica La Gerusalemme liberata nel tempo

INDICE DEI NOMI GLOSSARIO INDICE DELLE RUBRICHE

XL INDICE

1024

Sguardo sulla letteratura straniera Come Goethe scopre la propria vocazione teatrale grazie alla storia di Clorinda Echi di Tasso in John Milton Video e Audio Claudio Monteverdi Il combattimento di Tancredi e Clorinda (1624)

1026 1031 1039


Duecento e Trecento



Duecento e Trecento

Scenari socio-culturali Il Medioevo

LEZIONE IN POWERPOINT

La cultura medievale è permeata da una visione cristiana della vita di cui si fanno portavoce i chierici. Sono esponenti della Chiesa anche i docenti delle università, che trasmettono una concezione enciclopedica del sapere. Diverso è il modello cavalleresco cortese, che ruota intorno alla figura del cavaliere ed esalta la fedeltà al signore e alla fede, la cortesia e la gentilezza nobilitate dall’amore per la donna amata. La cultura cittadina valorizza invece l’intraprendenza e la spregiudicatezza. Ne sono interpreti gli intellettuali laici. Nel Basso Medioevo si compie il secolare processo linguistico che porta la lingua volgare in Italia ad affrancarsi dal latino da cui deriva. Tra i vari idiomi presenti in Italia si impone il toscano, grazie all’eccellenza artistica dei tre capolavori del Trecento: la Commedia, il Canzoniere, il Decameron. Mentre nei primi secoli del Medioevo la letteratura è subordinata all’educazione morale e religiosa dei credenti, nel Basso Medioevo essa si svincola dalle finalità didattiche e ammette scopi di puro intrattenimento. Per tutto il Medioevo (e anche oltre) il testo letterario è vincolato a precise norme retoriche ereditate dall’antichità classica. Due sono i registri stilistici principali: alto-tragico e basso-comico realistico.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 4 L’evoluzione della lingua 3

3


Duecento e Trecento Sguardo sulla storia Il Medioevo Un lunghissimo periodo storico Con il termine Medioevo si fa riferimento a un periodo storico di oltre mille anni, identificato per convenzione da due eventi simbolici: la caduta dell’Impero romano d’Occidente (476) che in qualche modo chiude l’epoca antica, e la scoperta dell’America (1492) che inaugura l’era moderna. In una più ristretta periodizzazione (di fatto più usata) il Medioevo si divide in due grandi fasi storiche: Alto Medioevo (V-X secolo) e Basso Medioevo (XI-XIV secolo). È in questo secondo periodo che nascono le letterature europee, compresa quella italiana.

La crisi dei secoli V-VIII La decadenza socio-politico-economica Il periodo compreso tra la caduta dell’Impero romano d’Occidente e l’VIII secolo vede la massima decadenza: le ripetute invasioni barbariche provocano il crollo delle istituzioni che assicuravano l’unità e garantivano la vita politico-amministrativa dell’Impero. Con l’interruzione delle vie di comunicazione gli scambi commerciali decadono rapidamente, le città si spopolano, si spegne ogni forma di vita sociale e culturale, la campagna prende il sopravvento. L’economia, esclusivamente agricola, si riduce a forme di sussistenza. Le frequenti epidemie e la dilagante povertà determinano una grave crisi demografica.

Cronologia interattiva 711

Gli Arabi conquistano la penisola iberica. 569-774

Dominio dei Longobardi in Italia.

500

600 540 ca.

San Benedetto compone la sua Regola e getta le basi del monachesimo occidentale.

4 DueCenTo e TreCenTo Scenari socio-culturali

700


Il ruolo primario della Chiesa Nel vuoto di potere e nella crisi generale, la Chiesa diventa punto di riferimento quasi esclusivo: il papato gestisce, come unico potere centrale rimasto a Roma, i rapporti con i sovrani delle popolazioni barbariche. Alle abbazie e ai monasteri, che iniziano a svilupparsi nel VI secolo, sull’esempio tracciato da san Benedetto da Norcia, ricorrono per aiuto le popolazioni indifese delle campagne; nei monasteri si conserva ciò che resta del patrimonio librario dell’antichità che i monaci copiano a mano su codici.

Dal Sacro romano Impero alla società feudale Instabilità politica e immobilismo sociale Tra l’VIII e il IX secolo il re dei Franchi Carlo Magno (742-814) crea il Sacro Romano Impero, nell’ambizione di ricostruire l’unità e la grandezza dell’Impero romano, proponendosi al contempo come difensore della cristianità. Le tre aree europee riunite (Francia, Germania, Italia) già verso la metà del IX secolo tornano però a separarsi (nel corso del tempo sarà la parte germanica a rappresentare l’Impero). Inoltre l’autorità del potere centrale dell’imperatore è contrastata dal crescente potere dei feudatari, spesso in lotta tra di loro. Ai guerrieri che lo sostenevano Carlo Magno aveva concesso dei territori (feudi) in cambio della loro fedeltà, ma nel tempo i feudatari erano diventati sempre più autonomi dall’imperatore. I feudi maggiori (ereditari dagli ultimi decenni del IX secolo) diventano sempre più simili a regni, con vere e proprie corti, soprattutto in Francia, riservandosi i feudatari il diritto di amministrare in proprio la giustizia, di riscuotere imposte, di armare un proprio esercito. La società feudale, che in alcune zone perdura ben oltre l’anno Mille, prevedeva al suo interno una struttura statica e gerarchica: i confini tra le diverse categorie sociali (aristocrazia feudale, clero e contadini) sono considerati invalicabili, in quanto la struttura sociale è ritenuta il riflesso della volontà divina.

800

Carlo Magno è incoronato imperatore del Sacro Romano Impero da papa Leone III.

800

1037

La Constitutio de feudis sancisce l’ereditarietà dei feudi minori.

1000

900

962

Ottone I dà vita al Sacro Romano Impero Germanico.

1096-1099

Prima crociata; assedio di Gerusalemme.

Sguardo sulla storia 5


Verso una nuova civiltà

Lessico inurbamento Flusso di movimento degli abitanti che si spostano dalle campagne verso le città.

Rinascita economica e trasformazioni sociali Intorno al Mille in Italia e nel resto dell’Europa si verifica un profondo cambiamento, che investe innanzitutto l’agricoltura: l’impiego di nuove tecniche produce un aumento delle terre coltivate. Dopo secoli di crisi demografica, la popolazione torna a crescere e a inurbarsi , nelle città riprendono le attività produttive, gli scambi commerciali, l’uso della moneta. Mentre il potere dell’aristocrazia feudale inizia a indebolirsi, emerge un nuovo ceto, la borghesia, legato al dinamico universo cittadino. Protagonista della rinascita economica è la figura del mercante. Dai Comuni alle Signorie In Italia il processo di trasformazione economica e sociale è particolarmente evidente nel Centro e nel Nord, dove fiorisce la civiltà comunale; nell’Italia meridionale si affermano invece forme monarchiche legate alla persistenza di strutture socio-economiche feudali. I Comuni si reggono su ordinamenti e organismi di tipo repubblicano e ricercano l’autonomia sia dal modello feudale sia, e soprattutto, dal governo imperiale, che alla fine, dopo aspre lotte, è costretto ad accettarla. Ma ben presto i Comuni, in particolare in Toscana, sono dilaniati da sanguinose lotte interne. Proprio il persistere di questi continui contrasti crea le basi per l’affermarsi nel XIV secolo delle signorie.

Impero e papato La crisi dell’Impero e la corruzione della Chiesa Il ruolo dell’Impero nel tempo si fa sempre più limitato, anche il tentativo di Arrigo VII intenzionato a restaurare l’autorità imperiale con la sua discesa in Italia non produce risultati a causa della morte dell’imperatore. Nel frattempo in Francia e in Inghilterra si affermano le grandi monarchie nazionali che entrano ben presto in conflitto fra loro.

Cronologia interattiva 1223

Onorio III approva la regola francescana.

metà XII secolo

Diffusione dei movimenti pauperistici.

1163

Fondazione dell’università di Oxford.

1100

1200 1122

Il concordato di Worms pone fine alla lotta per le investiture. 1222 1158-1183

Lotta fra Federico I il Barbarossa e i comuni italiani.

6 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali

1220

Federico II nominato imperatore.

Fondazione dell’università di Padova.


Lessico mondanizzazione Progressivo aderire della Chiesa alle logiche del potere e della ricchezza, entrando come parte attiva nelle vicende dei popoli e dei governi e condizionandone le sorti.

Ma anche l’altra grande istituzione universalistica del Medioevo, il papato, attraversa una crisi profonda. Il suo ruolo morale-religioso è compromesso agli occhi del popolo cristiano dalla mondanizzazione della Chiesa e dalla contaminazione con il potere politico, che induce la Chiesa a lottare a lungo con l’Impero per affermare la propria supremazia. Nel XIII secolo Innocenzo III e Bonifacio VIII si faranno portavoci di una vera e propria concezione teocratica: secondo tale concezione, essendo il papa il rappresentante di Dio sulla Terra, al papato spetta la preminenza politica. Alla Chiesa ufficiale si oppongono i movimenti pauperistici e varie sette ereticali, che esprimono l’esigenza di un ritorno agli ideali evangelici, esigenza manifestata anche dagli ordini mendicanti: francescani e domenicani, fondati rispettivamente da san Francesco e san Domenico, che pure rimangono dentro la Chiesa. Le crociate Tra il 1096 e il 1270 si susseguono varie crociate in Terrasanta, con cui la Chiesa, anche per accrescere il proprio prestigio, mobilita la cristianità contro i musulmani, organizzando spedizioni militari per la liberazione del Santo Sepolcro a Gerusalemme e la riconquista della penisola iberica. La crisi del Trecento All’inizio del Trecento la sede del Papato, succube degli interessi della monarchia francese, si trasferisce da Roma ad Avignone, in Provenza, dove rimarrà per quasi settant’anni (1309-1377), periodo conosciuto come “cattività avignonese”. La società è caratterizzata da una grave crisi economica. L’ascesa della borghesia mercantile è minata da fallimenti bancari e da guerre che rallentano il traffico commerciale e la produzione di merci. Carestie ed epidemie si susseguono fino alla “peste nera” (1348) che riduce quasi di un terzo la popolazione europea.

1300 Bonifacio VIII proclama il primo giubileo. 1348 1309-1377

Clemente V trasferisce la sede papale ad Avignone.

Epidemia di peste nera.

Cattività avignonese. 1310

Discesa di Arrigo VII in Italia.

1300

1400 1287

I Visconti a Milano. 1250

Muore Federico II. 1343-1345

Fallimento dei banchieri Bardi e Peruzzi.

Sguardo sulla storia  7


1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 I cardini della visione medievale Medioevo. Significato di un termine “Età intermedia, età di mezzo” Il termine Medioevo significa letteralmente “età intermedia, età di mezzo” ed è nato nell’età umanistica (XV secolo). Gli umanisti si consideravano eredi della cultura classica e della sua grandezza. Con il termine Medioevo gli umanisti intendono, con implicita valutazione limitativo-negativa, un periodo intermedio, una sorta di intervallo tra la grande età classica e la nuova età umanistica, enfatizzando la distanza rispetto al modello culturale precedente: l’età classica.

Lessico oscurantismo Si intende qui il giudizio degli illuministi sull’epoca medievale in cui non ci sarebbe stato alcun pensiero libero e autonomo rispetto all’ auctoritas, cioè gli autori classici, le Scritture, i Padri della Chiesa.

Un’età “buia”? Gli umanisti, e ancor più gli illuministi (XVIII secolo), ci hanno quindi trasmesso un’immagine del Medioevo che si è profondamente radicata nell’immaginario: un periodo “buio”, di decadenza, barbarie e violenza nei rapporti sociali, di irrazionalità, oscurantismo e regressione culturale. In realtà ciò può in parte essere vero per i primi secoli (in particolare V-VII secolo) e soltanto per la parte occidentale dell’ex Impero romano e soprattutto per l’Italia, sconvolta a più riprese dalle invasioni barbariche, iniziate già da due secoli prima della caduta dell’Impero e colpita da una gravissima crisi, economica, demografica, culturale. Ma è certo errato parlare di “secoli bui” dopo il Mille. In Francia, nei castelli dell’aristocrazia feudale, si sviluppa una civiltà raffinata; in Italia, nell’ambito della dinamica vita dei Comuni, nasce, a partire dal XIII secolo, una ricca produzione letteraria che ha il suo epicentro in Toscana. Nel XIV secolo si darà vita a tre capolavori che dominano nel canone occidentale: La Divina Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca, il Decameron di Boccaccio.

Miniatura che rappresenta i tre ordini della società medievale. Intorno al 1025 Adalberone, vescovo di Laon, in un testo che ebbe larga fortuna, ritrae la società come rigidamente divisa in tre categorie, ognuna con compiti specifici, in nessun modo intercambiabili: da sinistra a destra osserviamo un prelato (oratores), un soldato (bellatores), un contadino (laboratores) (Londra, British Library).

8 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


Il principio gerarchico L’ordine gerarchico nella società e nel cosmo Nella mentalità dell’Alto Medioevo (V-X secolo.) era radicata la convinzione che esistesse nella società una rigida gerarchia, per cui ogni uomo occupava una posizione fissa nella scala sociale. Una visione che inizialmente rifletteva la struttura feudale della società, ma che si può trovare ben oltre l’età feudale. A lungo anche solo pensare di poter cambiare la propria posizione sociale per elevarla era considerato dalla mentalità medievale quasi un peccato: si pensava infatti che l’ordine sociale fosse voluto da Dio e fosse specchio dell’ordine celeste, a sua volta strutturato, nell’immaginario medievale, in modo gerarchico. La società medievale era divisa in tre categorie, ognuna con compiti specifici: gli uomini di Chiesa (oratores), il cui compito era quello di pregare e lodare Dio; la classe guerriera (bellatores), incaricata di difendere con le armi la Chiesa e i cristiani; i lavoratori (laboratores), ovvero i contadini, a cui spettava solo il compito di lavorare.

Lessico istituzioni universalistiche Si ritiene che la Chiesa e l’Impero derivino la loro autorità da Dio e quindi siano universali, ovvero che il loro potere si estenda a tutti gli uomini.

Le due istituzioni “guida” dell’umanità: papato e Impero Emanazione diretta dell’“ordine” voluto da Dio nell’universo e nel mondo sono i due massimi poteri della società medievale: l’Impero e il papato, preposti da Dio stesso, con diversi compiti, a governare su tutta l’umanità. Proprio perché considerata di derivazione divina, la loro autorità (per lo meno sul piano teorico) è vista come indiscutibile. Ma proprio per la rilevanza del principio gerarchico, stabilire a quale delle due istituzioni spetti il primato sull’altra sarà motivo di aspre lotte. Il contrasto tra le due istituzioni universalistiche attraversa la storia medievale e si riflette anche nella letteratura: in particolare il tema riveste grande importanza nella Commedia di Dante. Il rispetto dell’autorità Nella mentalità medievale è radicata per secoli l’idea che si debba sempre rispettare l’autorità, sia in ambito politico-sociale (si deve obbedire al re, all’imperatore, al papa e alla gerarchia ecclesiastica), sia in ambito culturale e spirituale (si venera l’autorità della Bibbia, dei Padri della Chiesa, dei grandi autori dell’antichità). Il concetto di auctoritas è molto importante nel Medioevo; ciò che proveniva dalle auctoritates non poteva essere messo in discussione; non era quindi pensabile poter scoprire nuove cose in quanto la verità è data una volta per tutte e quindi immutabile.

Nuove tendenze nel Basso Medioevo Solo tra il Duecento e il Trecento, all’interno della più generale evoluzione delle strutture sociali, del costume e della mentalità Testi in dialogo che caratterizza il consolidarsi della civiltà comunale, si fa strada Pro e contro la teocrazia I due testi evidenziano due posizioni la possibilità della ribellione sociale, della discussione e della opposte sul tema del rapporto gerarchico contestazione ideologica. Inoltre nei Comuni dell’Italia centrotra il papa e l’imperatore settentrionale si creano le condizioni per una maggiore mobilità D1a Innocenzo III sociale e per l’affermazione della classe borghese: di conseguenIl papa è il sole, l’imperatore è la luna za entra definitivamente in crisi l’immagine statica dei tre ordini D1b Dante Alighieri «È giunta la spada col pasturale» feudali a cui sopra si è fatto riferimento e si fa strada una visione Purgatorio XVI, 106-112 più articolata e dinamica della società e delle categorie sociali. online

La società medievale oratores uomini di Chiesa coloro che pregano La società alto medievale era divisa in tre categorie gerarchicamente ordinate

bellatores soldati coloro che combattono laboratores contadini coloro che lavorano

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 9


La visione simbolico-religiosa La fede cristiana come “mentalità” e come parametro assoluto di giudizio e il teocentrismo Nel Medioevo la fede cristiana non è, come per noi oggi, una scelta soggettiva di vita, ma la visione dominante del mondo. Essa permea il modo di concepire la vita stessa, la storia, il mondo della natura: è insomma una “mentalità”. Si tratta di una visione chiusa ai valori culturali e religiosi degli “altri”, per nulla disposta a dialogare con chi considera “diverso”. Nel cristianesimo medievale una rigida frontiera divide i cristiani sia dai pagani sia dagli appartenenti ad altra fede, in particolare quella musulmana: i seguaci di Maometto sono infatti assimilati ai pagani, sono identificati come “infedeli” e considerati i nemici per definizione dei cristiani. Nel Medioevo domina infatti una visione della realtà secondo la quale tutto discende da Dio: la società, l’economia, il tempo. Questa visione prende il nome di teocentrismo. online

Interpretazioni critiche Jacques Le Goff, Il simbolismo medievale Uno dei maggiori studiosi della cultura medievale spiega le caratteristiche del simbolismo.

La realtà come universo di simboli Proprio per la forte influenza della fede cristiana sul pensiero medievale, la vita terrena è considerata solo un transitorio passaggio verso la vera vita, quella ultraterrena. La natura stessa è considerata non di per sé, ma in quanto specchio della grandezza e potenza di Dio; da qui l’idea che la realtà vera non sia quella che appare ed è percepita attraverso i sensi. Nella natura si nasconde un universo di simboli (simbolismo) che vanno decifrati per scoprirvi un significato religioso e cristiano: secondo la suggestiva definizione di Ugo di San Vittore (➜ D3 OL), la natura è un «libro scritto dal dito di Dio», in cui leggere la presenza divina (e sono in grado di farlo soprattutto i rappresentanti della Chiesa).

Una mentalità pre-scientifica Le pietre, le piante, gli animali non sono quindi visti e studiati secondo un’ottica naturalistica, scientifica, ma sono catalogati attraverso I bestiari una visione simbolica che ne individua presunte qualità positive o negative. Particomedievali larmente importanti nel Medioevo erano i bestiari, nei quali le qualità di animali sia reali sia leggendario-fantastici (già nella mitologia classica trovavano posto animali favolosi come l’araba fenice, le sirene o gli unicorni) venivano considerate simbolo online di vizi e virtù. Ai bestiari si ispirarono anche le arti figurative: D2 Il Fisiologo sui portali e sui capitelli delle chiese romaniche e gotiche sono Una lettura simbolica del mondo animale raffigurate figure zoomorfe, spesso fantastiche e mostruose online

Parola chiave

Gallery

simbolo/simbolismo Il termine simbolo deriva dal greco sýmbolon, che indicava un segno di riconoscimento «rappresentato dalle due metà di un oggetto diviso tra due persone» (Le Goff): nella sua prima etimologia il termine rimanda perciò a un’unità che deve ricomporsi. Nel Medioevo realtà sensibile e realtà ultraterrena appaiono così intimamente legate da rappresentare appunto quasi due facce di una stessa medaglia, o meglio: in ogni fenomeno, evento, figura della realtà umana o naturale, si rispecchia, anche se in modo enigmatico, la dimensione del soprannaturale. Attraverso molteplici segni simbolici la realtà sensibile rimanda sem-

pre a quella soprannaturale e solo dal rapporto con quest’ultima riceve il suo pieno significato, di cui il simbolo è in un certo senso il “tramite”.

Miniatura in un bestiario francese del 1450 ca. (L’Aia, Museum MeermannoWestreenianum). Nel Medioevo il pellicano era considerato simbolo di Cristo. Si riteneva infatti che questo uccello si ferisse il petto per nutrire i propri piccoli con il suo sangue. Il sacrificio del pellicano rappresenta la morte di Cristo sulla croce e quindi il suo sacrificio per la redenzione dell’umanità.

10 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


online D3 Ugo di San Vittore Il mondo naturale è manifestazione della sapienza divina

(draghi, grifoni), investite di un significato simbolico che intende trasmettere un insegnamento morale.

Il simbolismo dei numeri e dei nomi Nella visione medievale hanno significato simbolico anche i nomi e i numeri, in particolar modo il tre e il dieci. Il primo (con i suoi multipli) è il simbolo della Trinità ed è il numero perfetto per definizione; il dieci è dato dal tre moltiplicato per sé stesso più uno, allude quindi al mistero di Dio uno e trino. Nella Commedia, capolavoro dantesco e vera sintesi del sapere medievale, ricorrono costantemente entrambi i numeri: le cantiche in cui è divisa l'opera sono tre, ognuna a sua volta divisa in 33 canti, più un canto che funge da proemio. Ciascuno dei tre regni dell’aldilà è composto da dieci zone, ma più in generale la simbologia numerica ricorre in tutta l’opera. Il dieci è presente già nella Bibbia (dieci furono i Patriarchi, dieci sono i comandamenti). Quanto ai nomi, si credeva che fossero “segni” allusivi a qualità intrinseche delle cose (o delle persone): da qui la presenza ricorrente di etimologie spesso del tutto fantasiose per ricondurre a tutti i costi un nome a un preciso significato (ad es. il termine homo, “uomo”, viene ricondotto a humus, “terra”). Non a caso Dante attribuisce alla donna salvifica della Vita nuova, la sua opera giovanile, il nome di Beatrice, un nome non reale ma appunto simbolico: significa infatti “colei che rende beati”, il cui saluto produce salvezza spirituale.

online

Gallery Simbolismo nell’architettura, scultura, pittura

Simbolismo nell’arte Il simbolismo interessa anche l’arte: la struttura architettonica della chiesa corrisponde a precisi significati simbolici di carattere religioso; le figure che la ornano sono spesso personificazioni delle virtù o dei vizi e costituiscono una sorta di “libro” per educare i fedeli attraverso l’immagine.

Fissare i concetti I cardini della visione medievale

VERSO IL NOVECENTO

1. Che cosa intendono gli umanisti con il termine Medioevo? 2. Il Medioevo può essere definito un’età “buia”? 3. Quale concezione della società domina nel Medioevo? 4. In quante e quali categorie e con quali compiti era divisa la società medievale? 5. Che cosa rappresentano l’Impero ed il papato? 6. Che cosa vuol dire nel Medioevo rispettare l’auctoritas? 7. Quali sono le nuove tendenze che caratterizzano il Basso Medioevo? 8. Che cosa si intende con teocentrismo? 9. Che cosa vuol dire che la realtà è vista come un universo di simboli? 10. Qual é il significato simbolico di nomi e numeri?

Bestiari novecenteschi Alcuni autori moderni si sono espressamente richiamati alla tradizione dei “bestiari” medievali, ovviamente rivisitandola con moderna, sofisticata, consapevolezza letteraria. Pensiamo ad esempio alla “zoologia fantastica” dello scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), in cui egli riproduce, attingendo alla sua erudita memoria letteraria, lo spirito classificatorio degli antichi bestiari e ospita nel suo raffinato giardino zoologico animali inesistenti (come gli «animali degli specchi») o leggendari (come la chimera). Raramente negli scrittori moderni l’animale è una presenza amica e familiare; per lo più la sua figura si lega a un’inquietante valenza simbolica: «Spesse volte l’animale» ebbe a scrivere lo scrittore-giornalista Dino Buzzati (1906-1972) «si presta a incarnare il mistero». Da qui la presenza nei racconti di Buzzati di animali-mostro come il favoloso colombre (nel racconto omonimo Il colombre), investiti di un’arcana

significazione. In questo senso una raccolta assai suggestiva è Bestie (1917) dello scrittore toscano Federigo Tozzi (18831920): 67 brevissime prose in cui, di solito verso la fine, compare inaspettatamente un animale, nel quale Tozzi proietta, quasi simbolicamente, il suo mondo interiore angosciato e angoscioso e nel quale talvolta sembra quasi identificarsi. Anche lo sconcertante bestiario di Tommaso Landolfi (1908-1979) sembra legarsi a ossessioni inconsce (si pensi alle labrene [specie di geco] dell’omonimo racconto, agli scarafaggi del Mar delle Blatte, al gigantesco ragno con il volto umano de Il babbo di Kafka). Riferimenti bibliografici: J.L. Borges, Manuale di zoologia fantastica [1957], Einaudi, Torino 1962; D. Buzzati, Bestiario, Mondadori, Milano 1991; F. Tozzi, Bestie, Theoria, Roma-Napoli 1987; T. Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino, Adelphi, Milano 1989.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 11


2 Il tempo e lo spazio La concezione della storia e del tempo L’assenza di prospettiva storica e la visione provvidenziale Nel Medioevo, e in particolare nell’Alto Medioevo, non si fa alcuna distinzione tra passato e presente e non si ha assolutamente il senso della prospettiva storica. Nella concezione medievale il corso della storia è tutto già scritto nella mente di Dio, per cui i singoli eventi sono come tasselli collegati tra di loro attraverso un disegno provvidenziale. Esempi della concezione provvidenziale della storia si ritrovano anche nella Commedia, in particolare nel VI canto del Paradiso, in cui Dante, per bocca dell’imperatore Giustiniano, traccia una grandiosa sintesi della storia romana, concepita come progressiva realizzazione, voluta da Dio, dell’idea imperiale e preparazione alla nascita e morte di Cristo. Dal tempo della Chiesa al tempo dei mercanti Rispetto all’antichità, nell’Alto Medioevo la misurazione del tempo viene “cristianizzata”, per cui le scansioni temporali corrispondono ai momenti fondamentali della preghiera: le laudi (all’alba), i vespri (le 18), la compieta (le 21 circa). L’inizio dell’anno è fatto coincidere con la redenzione cristiana (inizialmente la Pasqua, in un secondo tempo, la Natività e in seguito il primo gennaio, la circoncisione di Gesù). Per secoli è esclusivamente la Chiesa a controllare e gestire la scansione del tempo: le ore del giorno vengono infatti indicate dal suono delle campane della chiesa. Nel corso del XIII secolo, con la ripresa della vita cittadina e dei traffici commerciali, i mercanti non vivono più nel tempo lento dell’agricoltura e della Chiesa: le molteplici attività della società urbana rendono necessaria la misurazione precisa. Già alla fine del XIII secolo appaiono così i primi orologi meccanici capaci di misurare l’ora in modo moderno, facendone la ventiquattresima parte della giornata (come oggi). Inoltre sono le torri comunali e non più le campane della chiesa a scandire la partizione del tempo, ormai un tempo “laico”, potenzialmente alternativo a quello della Chiesa.

Una geografia favolosa cristianocentrica Orizzonti simbolici Fin verso la fine dell’età medievale, cioè fino al XV secolo, le conoscenze geografiche sono scarsissime e l’immagine del mondo conosciuto è alquanto approssimativa. Le carte geografiche medievali non rappresentano realisticamente dei luoghi ma sono piuttosto delle figurazioni simbolico-religiose: ad esempio in tutte campeggia Gerusalemme, la città santa, collocata al centro del mondo esclusivamente sulla base di un passo della Bibbia in cui si dice che Dio ha posto Gerusalemme «in mezzo alle nazioni». Mappa del mondo (part.): Gerusalemme è al centro, circolare e perfetta, sec. XIII (Londra, British Library).

12 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


La visione dominante si potrebbe quindi definire cristianocentrica, perché è fondata sull’esaltazione della cristianità rispetto al resto del mondo. La geografia dell’immaginario Sulle carte medievali figurano anche luoghi del tutto immaginari, come la favolosa Isola dei beati, che sarebbe stata raggiunta dal monaco irlandese san Brandano. Ancora nel Cinquecento, quando le scoperte geografiche svelano sempre più la reale fisionomia della Terra, figura sulle carte “il paese del prete Gianni”, un personaggio leggendario che regnava su una regione favolosa, un vero e proprio paese delle meraviglie, collocato nelle lontane Indie. online Insieme all’Asia e all’Oriente le Indie sono i luoghi prediletti D4 Lettera del prete Gianni dalla geografia fantastica medievale, in cui vivono mostri e Il paese delle meraviglie creature strane.

L’immagine dell’universo nel Medioevo

Lessico Scolastica Scuola filosofica nata tra il XII e il XIII secolo; il suo massimo esponente fu Tommaso d’Aquino (1225-1274), che riprende il pensiero di Aristotele.

Il modello geocentrico Nel Medioevo (e fino al Cinquecento) la visione dell’universo era fondata sul modello aristotelico-tolemaico, frutto del pensiero del filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.), poi completato dall’astronomo Tolomeo. Secondo tale concezione (geocentrica) la Terra si trova, immobile, al centro dell’universo e attorno a essa ruotano, con movimento perfettamente circolare e uniforme, le sfere celesti e i pianeti (tra cui la Luna e il Sole). Mentre il mondo sublunare è caratterizzato dall’imperfezione e dalla corruttibilità, il mondo celeste è perfetto e incorruttibile. La Scolastica , la cultura medievale delle università (➜ PAG. 29), soprattutto attraverso il pensiero di Tommaso d’Aquino e Alberto Magno, arricchisce tale concezione, integrandola nella più generale visione religiosa del mondo: l’universo è concepito, in modo speculare all’immagine della società, come un organismo gerarchicamente ordinato dalla provvidenza, in cui il movimento delle sfere celesti è armonicamente ordinato da Dio attraverso le intelligenze angeliche che presiedono ai vari cieli. È la concezione presente anche nella Divina Commedia.

3 I valori e i modelli di comportamento online

Parola chiave Intellettuale

Il modello clericale Gli intellettuali della Chiesa Nei primi secoli del Medioevo gli intellettuali sono quasi esclusivamente uomini della Chiesa, gli unici a conoscere il latino, a lungo l’unica lingua della cultura: chierico (clericus) e intellettuale di fatto coincidono.

La svalutazione della dimensione terrena e il terrore dell’aldilà La mentalità medievale è condizionata per secoli dalla visione della Chiesa: ne deriva, soprattutto nell’Alto Medioevo, un incombere del soprannaturale che comporta la svalutazione o addirittura il disprezzo per la dimensione terrena. Nel trattato De contemptu mundi, noto anche con il titolo De miseria humanae conditionis [Il disprezzo del mondo o La miseria dell’esistenza umana], uno dei testi che ebbero maggiore fortuna nel Medioevo (ci è pervenuto in ben settecento maonline noscritti), Lotario da Segni, il futuro papa Innocenzo III (1198D5 Anonimo attribuito a Tommaso 1216), descrive l’uomo come una creatura misera e spregevole, da Celano Dies irae destinata inesorabilmente al peccato (➜ TESTI IN DIALOGO D6a ). La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 13


online

Per approfondire La “buona morte” nel Medioevo

Lessico misogino Il termine, dal greco miséo, “odiare” e guné, “donna”, indica un atteggiamento di avversione e devalorizzazione delle donne.

L’uomo medievale ha il terrore del giudizio implacabile di Dio, ben espresso nel celebre inno Dies irae: l’autore (sicuramente un chierico) rappresenta con evidenza drammatica il giorno del giudizio universale, il “giorno dell’ira”, appunto, di un Dio immaginato come terrifico giustiziere. Il filo rosso del terrore della morte e del giudizio di Dio collega nella cultura medievale documenti artistici anche molto distanti nel tempo. Predisporsi a una “buona morte” era pensiero di ogni cristiano e si temeva in particolare una morte improvvisa, che non consentisse di pentirsi dei propri peccati. La sorte dell’anima nell’aldilà poteva infatti essere terribile: le pene dell’inferno, descritte a forti tinte dai predicatori e della letteratura didattica (➜ C2, PAG. 121) erano tra le paure più radicate nell’uomo medievale. Per conquistare la salvezza nella vita eterna erano diffusi riti penitenziali collettivi, come gli estenuanti pellegrinaggi, che conducevano masse di fedeli in Terrasanta o a Santiago di Compostela, nella speranza di cancellare i propri peccati. Il disprezzo del corpo e la repressione della sessualità La civiltà greco-latina aveva valorizzato il corpo, nella scultura ne aveva rappresentato l’armoniosa bellezza e non aveva assolutamente represso, ma anzi esaltato il piacere dei sensi. Nell’Alto Medioevo invece subentra una diffusa condanna della sessualità (persino nell’ambito del matrimonio) e più in generale una svalutazione del corpo, «abominevole veste dell’anima», secondo la definizione di Gregorio Magno (ca. 540-604). Alla rigida contrapposizione fra corpo e spirito, alla sostanziale identificazione tra sessualità e lussuria (uno dei peccati capitali condannati dalla Chiesa), si collega il diffuso atteggiamento misogino (➜ C9) che impronta la cultura dei chierici: esso caratterizza in particolare l’Alto Medioevo, ma di fatto rimane a lungo radicato nella mentalità e nel costume. La vita ascetica dei santi e dei monaci: modello per il cristiano Nei secoli dell’Alto Medioevo, i modelli cui il cristiano deve ispirarsi sono soprattutto i santi e i monaci, che vivono isolati dalla società e mortificano la carne attraverso l’autoimposizione di privazioni e addirittura di vere e proprie sofferenze fisiche.

I confratelli flagellanti della Fraternita di Santa Maria della Carità di Venezia, da un graduale del 1365.

14 DueCenTo e TreCenTo Scenari socio-culturali


online

Per approfondire Lo scriptorium

Una scelta che nella società medievale non era assolutamente considerata come un comportamento eccentrico, quasi folle, ma anzi come il modo più autentico di vivere il messaggio cristiano. I monaci infatti conducono una vita isolata nei monasteri, dedicata alla preghiera, allo studio, ma anche all’attività manuale. La celebre Regola di san Benedetto, sintetizzata nella locuzione Ora et labora (“Prega e lavora”), adottata dalle comunità monastiche in Occidente, attribuiva pari importanza alla preghiera e al lavoro manuale. Ogni monaco dunque aveva specifici compiti manuali; tra questi particolarmente importante era l’attività di trascrizione dei testi, grazie alla quale poté essere conservato il patrimonio culturale dell’antichità. Con la ripresa della vita urbana gli ecclesiastici vivono in conventi situati nelle città e svolgono un importante ruolo nel predicare i valori cristiani alla comunità dei fedeli. Anche in piena età comunale, dopo il tramonto del monachesimo, questo modello ascetico di vita viene riproposto e persino accentuato dai francescani spirituali, come dimostrano, in particolare, le laudi e la vita stessa di Jacopone da Todi (➜ C2)

Parola chiave

ascetismo

PER APPROFONDIRE

Un “antimodello”: la cultura popolare, giovanile e goliardica A quest’ottica dominante si contrappone una cultura parallela, certo marginale e subalterna, ma non trascurabile, proprio perché costituisce un “antimodello” attivo, di cui tenere conto per una visione non unilaterale della cultura medievale: è la cultura giovanile, quella degli studenti universitari o quella popolare, che si esprime, come ha dimostrato Michail Bachtin, nella festa (➜ C5), trasgressione tollerata dalla Chiesa solo perché transitoria. Ribaltando la cupa visione dei chierici, la cultura dei goliardi e quella popolare celebrano il sesso, il cibo, il vino (➜ D6b ), insistono nel rappresentare gioiosamente gli aspetti materiali e fisiologici e parodizzano in modo spesso irriverente le autorità religiose e culturali.

La fede nei miracoli e il culto delle reliquie

L’ascetismo è una scelta di vita che mira a realizzare l’ascesi (dal greco áskesis, “esercizio”, “addestramento” e dal latino tardo asasis, “ascesi”) a Dio. L’asceta (chi pratica l’ascetismo) cerca di affinare le proprie qualità spirituali attraverso il distacco dal mondo e prati-

Le paure derivate dalla precarietà della vita (carestie, pestilenze, guerre) e dall’incombere costante della morte favorivano la fede nei miracoli e nella protezione dei santi, a cui l’uomo medievale è particolarmente devoto. I miracoli sono espressione dell’intervento diretto di Dio, che si serve di quegli intermediari privilegiati che sono i santi: le vite dei santi, assai popolari nel Medioevo, sono ricchissime di miracoli, la cui tipologia per lo più si ripete, come la capacità di addomesticare animali selvaggi, la cacciata dei demoni da persone ritenute possedute, ma soprattutto la guarigione delle malattie. Assai diffuso era poi il culto delle reliquie, la ricerca frenetica e l’appropriazione a fini devozionali di parti del corpo

che penitenziali come la mortificazione del corpo, la scelta di una alimentazione molto parca o spesso addirittura del digiuno. In senso lato si usa l’aggettivo ascetico come sinonimo di vita austera, fondata sulla rinuncia.

dei santi: un culto inizialmente alimentato dalla Chiesa, che si diffonde soprattutto durante le crociate in Terrasanta e che presto degenera da un lato, producendo un redditizio commercio di pseudo-reliquie, dall’altro alimentando fino a situazioni paradossali la credulità popolare. L’ingenua fede nelle reliquie viene gustosamente stigmatizzata da Boccaccio nella celeberrima novella di frate Cipolla (➜ C8 T6d ).

Riferimenti bibliografici: J. Le Goff, Il meraviglioso nell’Occidente medievale, in Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Laterza, Roma-Bari 2000; H. Fuhrmann, Guida al Medioevo, Laterza, Bari 2009.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 15


I LUOGHI DELLA CULTURA

Il monastero Il monastero è uno dei luoghi-simbolo della civiltà dell’Alto Medioevo. Soprattutto dal VI al IX secolo i monasteri conoscono una diffusione capillare ed esercitano un ruolo fondamentale nella cultura europea. La struttura-tipo del monastero Il monastero, il luogo dove i monaci risiedevano stabilmente, sorgeva per lo più in posti isolati e spesso arroccati. Il centro del monastero era il chiostro, attorno al quale si trovavano aree deputate alla vita e alla spiritualità monastica: la chiesa, la sala di riunione, il refettorio, lo scriptorium e il dormitorio. Non mancavano poi locali destinati a ospitare i pellegrini e chiunque avesse bisogno di rifugio in caso di necessità (in tempi di guerre e di carestie il monastero rappresentava un provvidenziale centro di accoglienza soprattutto per i più poveri e indifesi). I maggiori monasteri erano in realtà perfettamente autosufficienti: da qui la presenza di stalle, porcili, pollai, mulini, forni

e frantoi. C’erano inoltre officine e laboratori, dove grazie ai monaci si mantennero vive e poterono essere trasmesse le tecniche artigianali dell’antichità. Lo scriptorium Lo scriptorium poteva essere la cella stessa dove alloggiava il singolo monaco ma più comunemente era un locale abbastanza ampio dove si svolgeva il lavoro collettivo della trascrizione dei codici da parte dei monaci. Grazie a questa attività poté essere conservato il patrimonio culturale dell’antichità classica. Attraverso l’iconografia del tempo possiamo ricostruire l’attività del monaco e immaginarlo mentre scrive su un leggìo di legno inclinato. Gli “strumenti del mestiere” basilari dell’amanuense (chi trascriveva a mano i testi antichi) erano una penna d’oca, un raschietto per cancellare, inchiostri di diversi colori, un coltello per temperare.

Veduta aerea della Certosa di Pavia, fondata nel 1396. Sono ben riconoscibili le varie parti della struttura del monastero: la chiesa, il chiostro con le celle dei monaci, i locali di servizio, le stalle.

Il chiostro medievale del monastero cistercense di Heiligenkreuz, in Austria.

16 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


Testi in dialogo

Due visioni opposte del corpo umano

LEGGERE LE EMOZIONI

Lotario da Segni

D6a Miseria della condizione umana, in Mistici del Duecento e del Trecento, a cura di A. Levasti, I, 1, Rizzoli, MilanoRoma 1935

Miseria della condizione umana Uno dei testi più celebri e indicativi della cultura clericale del Medioevo è Il disprezzo del mondo di Lotario da Segni (1160-1216), divenuto papa con il nome di Innocenzo III. Il testo è permeato da una concezione cupamente pessimistica dell’uomo, considerato un essere spregevole, disgustoso, concepito nella colpa (tale è considerato il congiungimento sessuale nell’ottica più rigoristica della cultura clericale), inevitabilmente portato al peccato e destinato alla putrefazione dopo la morte. Ispira le parole di Lotario una profonda avversione, quasi un orrore, per il corpo.

Dirollo io apertamente, dichiarerollo1 io apertamente: «L’uomo è formato di polvere, di loto2, di cenere, e d’una cosa ancor più vile: di spurcissimo seme umano; è stato concetto in pizzicore di carne3, in calore di libidine, in puzzo di lussuria e in macchia di peccato, che è il peggio; nato alla fatica4, al dolore, e alla paura, e, quello che è 5 più misero, alla morte. Fa le cose prave5 colle quali offende Iddio, offende il prossimo, offende se medesimo; fa le cose brutte colle quali macchia la fama6, la persona, la conscienzia7; fa le cose vane per le quali sprezza le cose d’importanzia, disprezza le cose utili, disprezza le cose necessarie. Diventerà cibo di fuoco, che sempre arderà, e arderà che non si potrà ispegnere8; esca di vermini9, che sempre rode e mangia; 10 massa immortale di bruttura, che sempre puzza, che è brutta e spaventevole». 1 Dirollo… dichiarerollo: lo dirò... lo dichiarerò. 2 loto: fango. 3 concetto... carne: concepito negli stimoli della carne.

4 nato alla fatica: nato per soffrire. 5 prave: malvagie. 6 la fama: l’onorabilità. 7 conscienzia: coscienza.

8 Diventerà… ispegnere: Lotario allude al fuoco infernale dal quale i peccatori sono destinati a essere arsi. 9 vermini: vermi.

Carmina Burana

D6b Carmina Burana (83), a cura di P. Rossi, Bompiani, Milano 1989

Elogio del corpo femminile Con questo testo mettiamo a confronto con il precedente uno stralcio da uno dei Carmina Burana che, al contrario, esalta la bellezza del corpo femminile, la gioia di vivere, il piacere dei sensi. I Carmina Burana sono una raccolta di testi destinati a essere cantati, composti in latino tra il XII secolo e i primi trent’anni del XIII (➜ C5).

[…] 2 Non mi lamento di averla a lungo corteggiata: ne sono ben ricompensato e godo dei dolci premi che mi offre. Quando Flora mi saluta con i suoi occhi loquaci, provo una gioia che quasi non riesco a contenere, e sono felice di avere speso per lei tanta fatica. Rit.: Quale dolcezza, quale gioia e felicità provo nelle ore che passo con la mia Flora! 3 La sorte non mi è contraria: quando giochiamo nel segreto della camera, Venere mi sorride e mi protegge. Flora si scalda nuda nel letto, la sua pelle delicata è bianca come il latte e risplende il suo petto da fanciulla, sul quale si solleva il suo piccolo seno. Rit.: Quale dolcezza, quale gioia e felicità provo nelle ore che passo con la mia Flora! 4 Mi sembra di essere più che uomo e gioisco come fossi innalzato fra gli dèi, quando la mia mano tocca beata il suo morbido seno e scende poi leggera ad accarezzarle il grembo. Rit.: Quale dolcezza, quale gioia e felicità provo nelle ore che passo con la mia Flora! La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 17


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nel testo D6a quali sentimenti secondo te vuole suscitare l’autore? Per quali ragioni? ANALISI 2. Sottolinea nei due testi le espressioni che con maggior forza ribadiscono rispettivamente un’idea negativa e positiva della natura umana.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 3. Metti a confronto la rappresentazione del corpo che emerge dai due testi. 4. In questi due testi si confrontano due posizioni diverse rispetto al corpo: il disprezzo nel primo, l’esaltazione nell’altro. Rifletti sul rapporto che tu hai con il tuo corpo: ti accetti per come sei? Vorresti cambiare qualcosa? Lo consideri un impedimento o una forza per il raggiungimento dei tuoi obiettivi?

Il modello cavalleresco-cortese I primi intellettuali laici Nel Basso Medioevo (in particolare dal 1230 alla metà del Trecento) emergono progressivamente figure di intellettuali laici che non appartengono alla Chiesa (è questo il primo significato del termine “laico”, che nel tempo si è arricchito di varie connotazioni ideologiche). I primi scrittori laici sono i poeti (trovatori) delle corti feudali del sud della Francia (➜ C1). Essi operano nella corte, nell’ambiente raffinato dei castelli. Un secolo dopo, in Italia, sono laici e non più chierici i poeti della cosiddetta “scuola siciliana”, una raffinata esperienza poetica nata alla corte dell’imperatore Federico II a opera di dignitari di corte, notai, giuristi collaboratori del sovrano (➜ C4). Un modello dalla fortuna secolare Anche la classe feudale dei cavalieri elabora una propria concezione del mondo e propri modelli di comportamento, che in parte rimangono autonomi, in parte si sovrappongono a quelli della cultura clericale, in parte coesistono con essi. Modelli che non solo influenzarono profondamente la società e la cultura medievale, ma arrivarono a estendere l’influenza ben oltre tale età, almeno fino al Rinascimento. Le virtù basilari del cavaliere Essendo legato all’esercizio delle armi, tale modello inizialmente prevede soprattutto l’esaltazione della forza fisica e del coraggio, qualità assolutamente necessarie a chi deve combattere. Al contempo, riflettendo i rapporti feudali, il modello cavalleresco implica l’esaltazione della lealtà e il culto dell’onore. Al di là di ogni trasformazione storico-politico-sociale, questi valori rimarranno comunque una costante del comportamento cavalleresco.

Miniatura francese che raffigura episodi del ciclo arturiano, 1275-1300.

Il cavaliere cristiano Tra il X e l’XI secolo, la Chiesa cerca di contrastare la violenza dei cavalieri dirottandola verso nobili obiettivi (come quello di aiutare i più deboli), ma soprattutto impegnandoli a difendere la causa della fede cristiana contro gli infedeli: una trasformazione, questa, strettamente collegata alla controffensiva cristiana nei confronti dell’islam. Il prototipo del cavaliere al servizio della fede cristiana è Roland (Orlando), protagonista della Chanson de Roland (➜ C1).

18 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


I LUOGHI DELLA CULTURA

Il castello L’epicentro del feudo Il castello, epicentro del feudo, è lo spazio sociale e culturale che caratterizza in particolare i secoli IX-XII. È la dimora, situata nelle campagne, di un grande feudatario e della sua corte, nella quale vive un’aristocrazia di cavalieri che ricava dalla proprietà terriera i mezzi economici per potersi dedicare esclusivamente all’attività militare. I castelli sono sempre circondati da mura con alte torri, dalla cui sommità può essere costantemente controllato a vista il territorio circostante. Le corti feudali di Francia A partire dall’XI secolo, i centri più importanti per la produzione letteraria sono le corti feudali di Francia: in esse i singoli feudatari gareggiano non più soltanto nell’esercizio della forza fisica e delle armi, ma anche nelle scelte di una vita elegante e raffinata. La superiorità di un signore e della sua corte si manifesta visibilmente nei sontuosi arredi del castello, nella magnificenza con cui sono organizzate le feste e i tornei cavallereschi.

Il centro della vita del castello è il grande salone con le pareti coperte da arazzi preziosi, dove hanno luogo innanzitutto i banchetti, ma dove si tengono anche le performances di giocolieri e giullari e vengono recitate composizioni letterarie di vario genere: dalle poesie amorose dei trovatori, accompagnate dalla musica, ai romanzi cavallereschi, letti di fronte al pubblico ristretto della corte. Le donne: una presenza fondamentale nel castello Nel castello è preminente il ruolo della donna: spesso dotate di buona cultura, le dame sono il vero centro della vita della corte, dato che le spedizioni militari tenevano assai spesso il signore lontano dal castello. Nelle corti feudali di Francia è proprio la forte presenza femminile che stimola e ispira una produzione lirica e narrativa incentrata sul tema dell’amore cortese. In parte diverso da quello qui tratteggiato sarà il modello della corte signorile che si sviluppa in Italia già ai primi del Trecento, poiché nasce all’interno della società urbana e come evoluzione delle strutture comunali.

Il castello medievale di Beymec a Beynac-et-Cazenac nel dipartimento francese della Dordogna.

Il mese di settembre miniato nel codice Les très riches heures du duc de Berry, 1410 (Chantilly, Museé Condé): sullo sfondo, il castello di Saumur, uno dei castelli della Loira.

Il castello- fortezza di Corcessorne, nel sud della Francia Il castello-fortezza di Carcassonne, nel sud della Francia.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 19


Il cavaliere cortese e i valori della liberalità e della cortesia Con la diffusione nei castelli feudali di modi di vita più lussuosi e raffinati, si verifica un’ulteriore trasformazione dei modelli di comportamento collegati alla figura del cavaliere: all’immagine del cavaliere perfetto si associa il possesso della “gentilezza”, della “cortesia ” , un insieme di valori grazie ai quali il cavaliere testimonia la sua superiorità rispetto agli altri esseri umani. Anche la “liberalità” si associa al modello comportamentale del cavaliere: un ideale che spinge a donare generosamente a chi ha bisogno ma che comporta anche la tendenza allo sperpero, alla dissipazione. La “villania” Alla “cortesia” si contrappone la “villanìa”, che denota la bassezza morale, la grettezza, ma anche la rozzezza. È significativo che le qualità negative per eccellenza prendano nome dal villano, cioè il contadino: nella società medievale rimane costante nei secoli il disprezzo per la categoria sociale dei contadini, che alimenta una specifica tipologia testuale, la “satira del villano”, nella quale vengono crudelmente ridicolizzate la povertà e l’ignoranza dei contadini. Il mito dell’amore cortese: una visione opposta alla visione clericale Fondamentale componente del modello cortese-cavalleresco è inoltre l’esaltazione dell’amore. Mentre la cultura clericale è fondata sul disprezzo del corpo, sulla misoginia, sull’ossessione del peccato, l’ideale cortese fa dell’amore addirittura il centro dell’esistenza e la sintesi di un processo di affinamento, di elevazione. Si tratta di una concezione del tutto nuova, che alimenta una ricca produzione letteraria, romanzesca e lirica (➜ C3 e C4). La donna di cui si celebra la bellezza e la perfezione è decisamente agli antipodi dall’essere disgustoso e abominevole esecrato nei testi della cultura clericale: essa è sentita come superiore, distante, irraggiungibile, a lei si deve la stessa assoluta dedizione (il “servizio d’amore”) che, nei rapporti feudali, lega il vassallo al suo signore. Spesso i cavalieri gareggiano per conquistare i favori della dama in quelle battaglie simulate che erano i tornei, che si diffondono nel XII secolo e ai quali si associa nell’immaginario la figura del cavaliere (➜ D7 OL).

Parola chiave

I luoghi della cultura medievale

monastero

Alto Medioevo

•  centro di spiritualità e di accoglienza •  sede di attività agricole, artigianali, culturali (scriptorium)

castello

secoli IX-XII

•  dimora dell’aristocrazia terriera •  attività militari e aggregazione sociale •  motore economico-agricolo

cortesia Tra il XII e il XIII secolo in Francia viene elaborato l’ideale della “cortesia” che influenza la poesia trobadorica e il romanzo cavalleresco: un insieme di valori etico-intellettuali e di modelli di comportamento ispirati alla raffinatezza, alla gentilezza dei costumi, alla liberalità e al culto idealizzante della donna. L'amor cortese in una miniatura dal Codice Manesse, 1305-1315 ca. (Heidelberg, Biblioteca dell'Università).

20 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


I valori della società urbana e mercantile Gli intellettuali nella società comunale Nella vivace realtà dei Comuni italiani gli intellettuali provengono non più soltanto dalla Chiesa, ma anche dalla nobiltà, e soprattutto dal mondo delle professioni: sono giudici, notai, maestri di retorica, impegnati nella vita politica, come Brunetto Latini, il “maestro” di Dante. Non mancano i mercanti, come Giovanni Villani (1280-1348), autore di una cronaca (Nuova cronica) di Firenze, che ne testimonia lo straordinario sviluppo e anche la complessa dinamica della lotta tra le fazioni. Verso la condizione cortigiana Verso la fine del Trecento il modello politico comunale entra in crisi e iniziano ad affermarsi le signorie. Anche la fisionomia dell’intellettuale, di conseguenza, tende a trasformarsi: in varie zone d’Italia comincia a delinearsi quella figura di intellettuale “cortigiano” che dominerà per quasi tutta l’età moderna e di cui è un primo esempio Petrarca. Un intellettuale che, vivendo alle dipendenze di un signore, può dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria, che tende a diventare così una vera e propria professione. L’emergere della figura del mercante Gli schemi mentali e i modi di comportamento si modificano, come è logico pensare, in rapporto all’affermarsi della società urbana. Si tratta di un’evoluzione lenta, i cui risultati saranno evidenti in ambito letterario solo verso la metà del XIV secolo, quando Giovanni Boccaccio scrive il Decameron, che rispecchia i modelli culturali ed etici di una società in transizione. Nel Basso Medioevo la figura sociale emergente è quella del mercante: il XIII e XIV secolo vedono un forte incremento dell’attività commerciale e soprattutto nell’Italia settentrionale e nei Comuni della Toscana, i più grandi mercanti arrivano a detenere il potere politico, gareggiando con le antiche famiglie nobiliari in uno stile di vita sfarzoso. online D7 Raimondo Lullo Identità e doveri del cavaliere

online D8 Paolo da Certaldo La morale mercantile

Nella miniatura medievale sono raffigurati mercanti che effettuano una transazione, dal Libro del regime dei principi di Gilles de Rome, 1247-1316 (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 21


online

Una mentalità alternativa ai valori della cultura sia clericale sia aristocratica La mentalità, i valori, i modelli di comportamento della borghesia mercantile si contrappongono sia alla rigida visione clericale sia a quella aristocraticocavalleresca. La visione della Chiesa tende infatti a svalutare l’intraprendenza, a condannare il progresso economico e a D9a Bonvesin de la Riva L’orgoglio di un cittadino giudicare come peccato ogni attività che produca guadagno. D9b Giovanni Villani L’etica cavalleresca, dal canto suo, considera un segno distintiElogio di Firenze vo della nobiltà spendere oltre misura un patrimonio ereditato D9c Dante Alighieri dagli avi. L’etica del mercante è fondata invece proprio sulla Contro la città moderna: «Fiorenza dentro de la cerchia antica» saggia amministrazione dei capitali e sul loro incremento: è un’“etica dell’accumulazione”, che esalta chi con le sue sole D9d Francesco Petrarca La vita cittadina non è fatta forze sa costruirsi e mantenere un patrimonio. per gli spiriti eletti Documento significativo dell’etica mercantile è il libro di consigli composto a metà del Trecento dal mercante Paolo da Certaldo. Testi in dialogo Lodi (e critiche) della città Il percorso presenta testi che esaltano la città (in particolare Milano e Firenze) e testi che invece condannano lo sviluppo della civiltà urbana.

Il fascino degli ideali cortesi D’altra parte la classe mercantile è affascinata dagli ideali cavallereschi e aspira anch’essa a nobilitarsi: i valori della “cortesia” e della “gentilezza” vengono così assimilati anche dal mondo borghese-mercantile.

Modelli e valori sociali modello clericale

•c ondanna la ricerca di guadagno • svaluta l’intraprendenza

modello cortesecavalleresco

• è prodigo nello spendere • ha fra i suoi valori “gentilezza” e “cortesia”

modello urbanomercantile

• amministra con oculatezza e ha spirito di intraprendenza • subisce il fascino degli ideali cavallereschi

Fissare i concetti Tempo, spazio, valori e modelli di comportamento 1. Qual è la concezione medievale della storia, del tempo e dello spazio? 2. Come cambia la misurazione del tempo a partire dal XIII secolo? 3. Quale immagine dell’universo ha il Medioevo? 4. Come cambia il ruolo dell’intellettuale dall’Alto al Basso Medioevo? 5. Come vengono visti la dimensione terrena e il corpo nel periodo medievale? 6. Che cos’è lo scriptorium? 7. Da che cosa è caratterizzato il modello cavalleresco-cortese? 8. Quale visione dell’amore caratterizza il modello cortese-cavalleresco? 9. Quale mentalità appartiene al mercante?

22 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


I LUOGHI DELLA CULTURA

La città La città, luogo dell’apertura e degli scambi Dopo il Mille la città torna ad essere centro della vita sociale, economica e culturale. Questo processo non comporta automaticamente la scomparsa del mondo del monastero e della civiltà feudale; per lo più intorno alla città continuano a esistere un paesaggio e un mondo ancora feudali, con castelli e monasteri. La città si differenzia dal castello e dal monastero, nei quali domina un unico modello culturale “forte”, perché è una realtà dinamica e tendenzialmente aperta. Grazie ai traffici mercantili, è presente nella città la dimensione dello scambio culturale, il confronto con altre mentalità, costumi, conoscenze. Il cuore della città comunale è la piazza, su cui si affacciano gli edifici in cui si gestisce la politica e dove si svolge il mercato, simbolo della vita aperta della città; vi si contrattano e scambiano merci ogni giorno, vi si svolgono periodicamente fiere, a cui partecipano mercanti di altre città; dal mercato si diramano le vie con le botteghe artigiane.

Uno scenario multiforme e vivace, ritratto realisticamente in una celebre novella di Boccaccio, che ha per protagonista il giovane mercante di cavalli Andreuccio (➜ C8 T9b ). Ritratti della città medievale Della variegata realtà economica e sociale della città in Italia ci forniscono un ritratto eloquente, frutto di un’ottica elogiativa, Bonvesin de la Riva, milanese (1240-1315 ca.), che tesse le lodi di Milano, e Giovanni Villani, fiorentino (1280-1348), che esalta lo sviluppo di Firenze in ogni campo. Al contrario Dante Alighieri in più passi della Commedia si mostra polemico verso la società fiorentina (e non solo fiorentina) del suo tempo ed evoca nostalgicamente l’immagine della Firenze dei tempi passati, in cui la brama della ricchezza non aveva ancora offuscato i valori morali e religiosi. Al tramonto del Medioevo Francesco Petrarca, intellettuale ormai itinerante, rifiuta la materialistica e frenetica vita della città.

Veduta della cittadina di San Gimignano, in Toscana.

Miniatura dal Chevalier errant di Thomas III de Saluces, 1400-1415, che raffigura un mercato all’interno delle mura cittadine (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 23


EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

L’emarginazione dei “diversi” nel Medioevo Una società che emargina i “diversi” La società medievale ha paura di chi avverte come “diverso”, ed è quindi una società che per sua natura favorisce massicciamente la tendenza all’emarginazione di ampi strati di popolazione, anche perché domina a lungo un sistema ideologico che non ammette sfumature e ha timore di ogni possibile contaminazione, anche e forse in primo luogo di quella ideologica. La diffidenza verso gli stranieri e i vagabondi Sono esclusi quindi da questa società tendenzialmente chiusa gli stranieri, poiché il Medioevo considera un potenziale pericolo tutto ciò che viene da “fuori”. Verso gli stranieri c’è la stessa diffidenza che esiste verso gli istrioni e i giullari, assimilati di fatto molto spesso ai vagabondi: l’ideologia medievale diffida infatti di chi non ha una dimora fissa e non appartiene stabilmente a un gruppo, a una comunità che lo identifichi e lo protegga. La persecuzione degli ebrei Più propriamente emarginati sono gli ebrei. Dopo la diaspora seguita alla distruzione romana del tempio di Gerusalemme (70 d.C.), comunità ebraiche erano presenti in varie zone dell’Europa e anche in Egitto. Nelle regioni cristiane, già verso il III secolo d.C., essi sono accusati di deicidio, dell’uccisione di Cristo e guardati con crescente diffidenza se non aperta ostilità. Per lo più gli ebrei sono mercanti, artigiani e commerciano in stoffe pregiate, spezie, pietre preziose e, non di rado, poiché accumulano notevoli ricchezze con la loro attività, prestano denaro a interesse, suscitando così inevitabilmente l’invidia di una società in cui regna la povertà e la riprovazione morale di una cultura, quella clericale, che guarda negativamente al profitto. La persecuzione cristiana vera e propria degli ebrei comincia al tempo delle crociate (tra la fine dell’XI e la metà del XIII secolo). È un’età caratterizzata dalla chiusura ideologica verso le fedi degli altri ed è anche un’età in cui la frequenza delle guerre, delle pestilenze, di ricorrenti carestie ha bisogno di capri espiatori: si fa strada così nell’immaginario popolare l’immagine dell’ebreo come avido, astuto, maligno, e inizia quasi ovunque una persecuzione sistematica che spingerà gli ebrei a continue migrazioni o a conversioni forzate al cristianesimo. Nel 1215 gli ebrei vengono obbligati da una precisa disposizione

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

papale a portare un segno distintivo che li renda immediatamente identificabili: ad esempio un pezzo di stoffa colorata cucita sull’abito (un obbligo che ricorda anche troppo la stella gialla imposta molti secoli dopo dai nazisti). L’emarginazione dei malati e dei lebbrosi La società medievale emargina anche i folli, i malati poveri e soprattutto i deformi, gli storpi, i lebbrosi: nella malattia vede infatti un indicatore sicuro, un marchio a tutti visibile del peccato. Verso i lebbrosi (la lebbra è una terribile malattia deformante che si diffonde tra il XII e il XIII secolo) la società cristiana medievale, come osserva Le Goff, ha un atteggiamento ambiguo: da un lato li emargina e li allontana, confinandoli nei lebbrosari, mondi chiusi da cui essi possono uscire solo annunciando la propria indesiderata presenza con il suono di una campanella. Ma al tempo stesso i lebbrosari non distano molto dalla città, affinché chi lo desidera possa esercitare nei loro confronti la carità. Non di rado lebbrosi ed ebrei sono accomunati da uno stesso tragico destino: durante le carestie e le pestilenze assumono il ruolo di capri espiatori. Sono allora processati sommariamente e giustiziati. La scelta “scandalosa” di Francesco di Assisi In una società che costituzionalmente emarginava le categorie più deboli com’era quella medievale, era inevitabile che un comportamento come quello di Francesco di Assisi suscitasse sconcerto e addirittura scandalo: alter Christus, “nuovo Cristo”, egli usava accompagnarsi proprio con i poveri, i vagabondi, i malati e si autodefiniva provocatoriamente “giullare di Dio”, nella volontà di contrapporsi ai parametri di giudizio diffusi nella società del suo tempo.

Rogo di lebbrosi, miniatura del Maestro di Virgilio in Chroniques de France ou de Saint-Denis, 1380 ca. (Londra, British Library).

COMPRENSIONE 1. In che senso la società medievale è una società che emargina chi è diverso? 2. Quali categorie di persone vengono emarginate? ANALISI 3. Spiega la seguente affermazione: «Verso gli stranieri c’è la stessa diffidenza che esiste verso gli istrioni e i giullari». LESSICO 4. Cerca sul vocabolario la definizione e l’origine della parola “straniero”.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

SCRITTURA 5. Confronta in un testo di massimo 50 righe l’atteggiamento della società medievale nei confronti del diverso con la società attuale in cui vivi. Ti sembra che sia venuta meno la diffidenza verso lo straniero? Ritieni di vivere in una società inclusiva? DISCUSSIONE IN CLASSE 6. Dopo aver redatto il confronto discuti in classe del tema proposto con il docente e con i compagni, confrontandovi sui diversi punti di vista emersi.

24 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


2

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche confronto tra la cultura cristiana 1 Ile lacomplesso cultura pagana Dal rifiuto all’accettazione problematica Agli albori della civiltà medievale la cultura cristiana si trovò a confrontarsi con l’eredità della cultura pagana e il rapporto che ne derivò fu inizialmente difficile. I primi intellettuali cristiani, noti come “apologisti” per la loro appassionata difesa della nuova fede (apologia significa appunto “esaltazione, difesa” di qualcosa o qualcuno), rifiutano del tutto la cultura classica e la civiltà di Roma proprio perché pagane. In seguito, i padri della Chiesa (cioè Agostino, Girolamo, Ambrogio) assumono un atteggiamento più disponibile, ma anche inevitabilmente conflittuale: da un lato infatti essi erano consapevoli del grande valore del patrimonio culturale ereditato dalla civiltà antica; d’altra parte gli autori antichi erano pagani e in quanto tali avrebbero dovuto essere rifiutati.

Lessico concezione provvidenzialistica È una concezione secondo la quale Dio provvede a intervenire direttamente nelle vicende umane e nella storia.

La posizione di Agostino Agostino (354-430), grande filosofo (Confessioni, opera autobiografica di riflessioni sulla propria interiorità, sul tempo e la memoria) e teologo (De civitate Dei, sulla concezione cristiana e provvidenzialistica della storia) riconosce la radicale diversità della cultura pagana rispetto a quella cristiana, ma considera utile e doveroso appropriarsi di alcuni valori e del sapere retorico ereditato dai grandi autori della cultura pagana, purché vengano riportati attraverso la lettura allegorica al loro vero significato, che è sempre comunque conforme alle verità cristiane, anche se i pagani non ne erano consapevoli (➜ D10 ). La cultura pagana inglobata nell’universo etico-culturale cristiano Il Medioevo seguirà proprio la strada indicata da Agostino, integrando nella cultura e nella visione cristiano-medievale i testi dell’antichità, sganciati però dal loro contesto originario. Al testo antico viene spesso sovrapposta l’interpretazione allegorico-cristiana: la lettera del testo viene considerata quasi come una veste che nasconde verità e valori che vanno portati alla luce attraverso una lettura di secondo grado, più profonda – la lettura allegorica appunto – che attribuisce al testo ciò che è considerato il suo vero significato, che è morale-religioso. Inoltre si verifica la tendenza a estrapolare dai testi antichi singole citazioni, passi scelti, che vengono poi liberamente assemblati e utilizzati dagli scrittori cristiani prescindendo del tutto dal contesto originario. Procedimenti che verranno aspramente criticati dagli umanisti, ma che il Medioevo considerava del tutto legittimi.

Platone, Seneca e Aristotele in una miniatura di inizio XIV secolo tratta da Scritti Devozionali e Filosofici, 1325-1335 (Londra, British Library).

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 25


Sant’Agostino

I cristiani devono appropriarsi del sapere ingiustamente posseduto dai pagani

D10 De doctrina christiana, trad. di M.T. Beonio Brocchieri Fumagalli, in Le enciclopedie dell’occidente medievale, a cura di M.L. Picascia, Zanichelli, Bologna 1980

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

In questo passo sant’Agostino si contrappone ad altri pensatori del primo cristianesimo che respingevano la cultura pagana, sostenendo la necessità per i cristiani di appropriarsi del sapere dei pagani, come se ne fossero i legittimi proprietari.

Non solo non dobbiamo temere1 ciò che hanno detto i filosofi antichi, soprattutto i platonici, quando i loro detti2 sono veri e congeniali alla nostra fede ma dobbiamo rivendicarli3 da loro come da ingiusti possessori. Gli Egizi non solo avevano idoli4 che il popolo di Israele detestava ma anche molte cose preziose, d’oro e d’argento, 5 e stoffe di pregio5 che Israele fuggendo dall’Egitto rivendicò a sé per un uso migliore e ciò fece non per autorità propria ma su comando di Dio6, poiché gli stessi egiziani erano inconsapevoli e non usavano bene ciò che avevano. Così se è vero che le dottrine dei pagani contengono elementi falsi e superstiziosi o inutili che ciascuno di noi, secondo le parole del Cristo, uscendo dalla società pagana, deve odiare ed 10 evitare, è anche vero che le discipline liberali7 sono adattabili all’uso della verità8 e esistono, sempre fra i pagani, utilissimi precetti morali e persino riferimenti al culto di un unico Dio. Non dimentichiamo le vesti e gli abiti preziosi che raffigurano le istituzioni umane congeniali e buone per la società degli uomini9, delle quali non possiamo fare a meno in questa vita, e che è lecito dunque ricevere e mantenere 15 purché le si converta a un uso cristiano.

1

temere: come contrario alla fede cristiana. 2 i loro detti: le loro parole. 3 rivendicarli: nel linguaggio del diritto, significa pretendere la restituzione di un possesso illegalmente detenuto da altri. 4 idoli: statue di dei pagani. 5 ma anche... stoffe di pregio: attraverso l’allegoria, sant’Agostino sottolinea il valore prezioso della cultura antica, invitando i cristiani a non respingerla, ma a raccoglierne l’eredità.

6 che Israele... su comando di Dio: nella Bibbia si racconta che quando gli Ebrei lasciarono la schiavitù d’Egitto «gli Israeliti eseguirono l’ordine di Mosè e si fecero dare dagli Egiziani oggetti d’argento e d’oro e vesti» (Esodo 12, 35). 7 discipline liberali: studi degni di un uomo libero, in questo caso, la letteratura e la filosofia. 8 sono adattabili all’uso della verità: Agostino intende dire che i testi classici devono essere decontestualizzati e riletti

alla luce della verità cristiana; l’affermazione è importantissima, perché suggerisce l’idea di una lettura allegorica, prima riservata soltanto alla Bibbia, anche per i testi classici. 9 Non dimentichiamo... uomini: sempre attraverso l’allegoria (le vesti e gli abiti preziosi), Agostino sottolinea come l’eredità degli antichi sia fondamentale anche nel campo del diritto e delle istituzioni politiche.

Concetti chiave La lettura allegorica dei chierici

Con le affermazioni contenute in questo testo, Agostino intende dire che i testi classici pagani devono essere decontestualizzati e rivisti secondo la verità cristiana. La tesi è anche più estrema e consiste nel ritenere che il senso più vero di quanto è proposto dai classici sia già connotato dalle verità cristiane, cosa di cui i pagani sono inconsapevoli, e che i cristiani possono ritenersi per questo già “proprietari” legittimi di questi scritti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi in un breve paragrafo (max 4 righe) la tesi dello scritto di Agostino. COMPRENSIONE 2. Indica quali elementi della cultura pagana, secondo Agostino, sono ancora validi per i cristiani. 3. Con quale esempio di origine biblica Agostino sostiene la propria tesi?

26 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


ANALISI 4. Che cosa vuol dire l’espressione «Purché le si converta a un uso cristiano»?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

ESPOSIZIONE ORALE 5. Rifletti su quanto sostenuto da sant’Agostino nei confronti della cultura pagana, così diversa da quella cristiana. Secondo te è giusto approcciarsi allo studio di una cultura diversa dalla nostra cercando di interpretarla con le categorie a noi contemporanee o avevano ragione gli umanisti a criticare questo metodo e a spingere allo studio di un periodo storico/letterario senza l’assimilazione proposta da sant’Agostino? Prepara un intervento di 5 minuti per spiegare le tue ragioni e condividere le tue riflessioni.

2 Culto della tradizione ed enciclopedismo Auctoritas/auctores: un’ottica tradizionalista, contraria al progresso intellettuale Nell’ottica medievale anche in ambito culturale, come in quello sociale, domina un rigido ossequio alle gerarchie e alle autorità, a cominciare naturalmente dalla venerazione dovuta al libro per eccellenza, cioè la Bibbia. Il Medioevo eredita dalla civiltà latina il concetto e il termine auctoritas (da cui “autorità”) e vi associa quello di auctores, che designa innanzitutto i padri della Chiesa che hanno interpretato, appunto, “autorevolmente”, le Sacre Scritture. Il Medioevo inserisce presto tra gli autori anche le figure della cultura antica considerate più importanti in ambito poetico-retorico e filosofico-morale: Orazio, Ovidio, Lucano, Cicerone e Seneca. Il “mito” di Virgilio e l’interpretazione allegorica dei testi virgiliani Tra gli autori più venerati dell’antichità spicca il poeta latino Virgilio, maestro indiscusso non solo di stile ma anche di sapienza. Già nel V secolo d.C. comincia a diffondersi un’interpretazione allegorica di alcuni suoi testi: grazie a tale interpretazione (che ne forza di fatto il reale significato sovrapponendovi la visione cristiana), i testi di Virgilio sono integrati nella cultura cristiana, divenendo fonti di insegnamenti morali e religiosi. In particolare l’Eneide è interpretata come allegoria della vita umana e la IV ecloga, in cui Virgilio profetizzava la nascita di un misterioso fanciullo che avrebbe riportato sulla Terra la felice condizione dell’età dell’oro, una nuova età di pace e di giustizia, è letta nel Medioevo come profezia della nascita di Cristo. Non stupisce allora che nel viaggio della Commedia Dante scelga come guida proprio l’antico poeta latino a cui, con commosse parole, attribuisce il ruolo di suo “maestro” e “autore”, appunto nell’accezione sopra indicata del termine.

Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, il filosofo Aristotele, affresco nella sala a lui dedicata, fine XIII - inizio XIV sec. (Asciano, Siena, Palazzo Corboli).

Aristotele, «maestro di color che sanno» In campo filosofico per secoli l’autorità per eccellenza, il filosofo per definizione, sarà Aristotele, il «maestro di color che sanno» nella celebre definizione dantesca (If IV), riscoperto grazie alla mediazione della cultura araba ed entrato nella circolazione culturale nel XII-XIII secolo, quando le sue opere vengono tradotte in latino e possono quindi essere conosciute anche da quegli intellettuali (ed erano la maggior parte nel Medioevo) che ignoravano la lingua greca. Il commento alle opere di Aristotele è al centro dell’insegnamento universitario. Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 27


La visione enciclopedica del sapere Un altro aspetto importante della cultura medievale è l’enciclopedismo, cioè la predilezione per una conoscenza onnicomI maestri prensiva del reale. L’intellettuale deve possedere tutto lo scibile umano, non può fondatori del sapere medievale approfondire solo un campo d’indagine. Il sapere inoltre si configura non come ricerca ma come conservazione di testi tramandati, come accumulo di nozioni più che selezione critica di esse: da qui la secolare fortuna delle summae, monumentali manuali in cui l’uomo colto medievale poteva ritrovare tutto lo scibile, diviso per grandi categorie. La Divina Commedia stessa non è solo un’opera di altissimo online valore letterario, ma costituisce anche una grandiosa sintesi D11 Francesco Petrarca di tutto il sapere del tempo (letterario, filosofico-teologico, Sull’ignoranza sua e di molti scientifico-astronomico). online

Per approfondire

I cardini della visione medievale

La concezione del mondo e della cultura nel Medioevo

TEOCENTRISMO

concezione secondo la quale tutto deriva da Dio e a Dio si riconduce

ALLEGORISMO

lettura allegorica dei testi antichi: i concetti sono rappresentati attraverso oggetti, animali o persone dotati di un significato più ampio

ENCICLOPEDISMO

l’uomo colto non è specializzato in un solo campo, ma deve possedere tutto il sapere

SIMBOLISMO

la realtà viene interpretata in modo simbolico: ogni aspetto del mondo rimanda a un significato nascosto

si traduce in

3 Il modello dell’istruzione nel Medioevo Nascita delle scuole Lo studio delle arti liberali: Trivio e Quadrivio Le prime scuole sorgono nei monasteri e sono rivolte alla formazione dei monaci. Successivamente nascono scuole cittadine laiche, in funzione dei bisogni formativi della civiltà dei Comuni. Dopo l’istruzione di base, che consisteva nell’imparare a leggere e a scrivere, la scuola medievale prevedeva lo studio delle arti liberali, che costituiva un apprendimento di livello medio, considerato propedeutico ai gradi più alti del sapere. Il termine liberale (che significa letteralmente “degno di un uomo libero”, non obbligato al lavoro) rimanda a un’idea aristocratica del sapere, ereditata dal mondo classico, concepito come un complesso di discipline privo di finalità pratiche e del tutto separato dal mondo del lavoro e dall’impiego della manualità. Le arti liberali erano articolate nel Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e nel Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). All’interno delle arti liberali il posto principale fu a lungo occupato dalla grammatica, che di fatto consisteva nello studio della lingua latina: il latino era appreso sempre attraverso i testi dei medesimi autori (i padri della Chiesa e inoltre Seneca, Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio) che in un certo modo costituivano per il Medioevo quello che oggi chiameremmo

28 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


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Parola chiave Canone

“canone” . La lingua impiegata per l’insegnamento non è quella usata comunemente, cioè il volgare, ma il latino; i fondamenti dell’istruzione sono soprattutto precetti morali, i metodi aridamente nozionistici e mnemonici. Ne derivava un sapere astratto e lontano dalla dinamica e multiforme realtà della vita cittadina. “Scuola del fare” contro “scuola dell’ascoltare”: la formazione dei mercanti Il divario tra i bisogni reali e l’astrattezza del sapere scolastico spiega perché i ceti mercantili, dopo qualche anno di istruzione scolastica, preferissero per i loro figli l’apprendimento pratico nelle botteghe degli artigiani e nei fondachi, dove i giovani destinati all’attività artigianale o mercantile imparavano direttamente sul campo, attraverso un lungo apprendistato, i segreti del mestiere.

Le arti liberali

Trivio

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Per approfondire Il vocabolario dell’università

•  grammatica •  retorica •  dialettica

Quadrivio

•  aritmetica •  geometria •  musica •  astronomia

L’università e la Scolastica Tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo in Europa si diffondono le università (l’università più antica è quella di Bologna che risale al 1088) come centri istituzionali di gestione e trasmissione della cultura. La tipologia, i metodi e i contenuti del sapere trasmessi per circa tre secoli dalle università vengono globalmente denominati con il termine di “Scolastica”, anche se poi successivamente il termine passerà a indicare il nuovo pensiero filosofico-teologico che si impone nel XIII secolo, basato sulla filosofia di Aristotele, la cui influenza finisce per estendersi a tutti i campi del sapere, soprattutto dopo la conciliazione tra pensiero aristotelico e dottrina cristiana, operata dal domenicano Tommaso d'Aquino (1224-1274).

Un sapere “chiuso” fondato sull’autorità del testo e del magister Il sapere trasmesso dalle università rimane comunque un sapere “chiuso”, ancora fondato sul principio di autorità di cui si è parlato: è infatti il corpo dei doonline Testi in dialogo centi universitari che decide in modo programmatico gli auctoFede e ragione: attualità e storicità res che devono essere letti e commentati dai magistri (i docenti di un rapporto problematico universitari) e che si arroga il diritto di proibire ufficialmente di Tommaso d’Aquino fonda il suo pensiero sulla filosofia di Aristotele, leggere alcuni testi. adattandola cristianamente; incontra Fulcro dell’insegnamento universitario, condotto in un latino però l’opposizione di Bonaventura da Bagnoregio, il quale sostiene che la fede specialistico, è la lectio, cioè la lettura e il commento di un testo non ha nulla a che vedere con la ragione. autorevole, condotti dal magister. La cultura universitaria non San Tommaso rappresenta la tendenza razionalistica del pensiero medievale, prevede dibattito, è sempre elargita dall’alto dal magister, interSan Bonaventura rappresenta invece prete ufficiale della verità, agli studenti. l’altra tendenza, definita mistica. L’apporto della cultura araba In seguito all’espansione degli D12a San Tommaso d’Aquino Le verità di fede sono necessariamente Arabi in Europa, la loro cultura si diffonde in particolare in conciliabili con le verità di ragione Spagna e in Sicilia, svolgendo un ruolo culturale importantisD12b San Bonaventura simo, soprattutto in ambito filosofico-scientifico. L’islam viene La via per giungere a Dio non passa attraverso gli strumenti razionali fortemente attaccato in campo religioso dall’Occidente medieD12c Giovanni Paolo II vale, che vede nei musulmani i nemici per eccellenza della fede Fede e ragione cristiana, ma la contrapposizione a livello ideologico-religioso Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 29


non impedisce all’Occidente cristiano l’assimilazione di elementi rilevanti sul piano culturale. L’islam raccolse l’eredità del sapere filosofico-scientifico greco. Vennero tradotte in arabo e commentate le opere di Aristotele, ma anche i testi di medicina di Ippocrate, di matematica di Euclide e di astronomia di Tolomeo.

Città e università Università

secoli XIII-XIV

secoli XII-XIII

•  centro della vita sociale, economica e culturale •  realtà aperta e dinamica e luogo di scambi

•  centro di gestione e trasmissione della cultura •  il sapere trasmesso è fondato sul principio di autorità

I LUOGHI DELLA CULTURA

Città

L’università Il termine “università” In origine il termine “università” indica semplicemente l’insieme, la totalità (è questo il significato del termine latino universitas) dei docenti e degli studenti di una stessa città; in un secondo tempo identifica una vera e propria organizzazione corporativa stabile, integrata nel tessuto sociale della città che la ospita, ma al tempo stesso autonoma e indipendente da ogni forma di potere locale. Tra le prime prestigiose università si possono ricordare quella di Parigi (per la teologia), quella di Bologna (per il diritto), quella di Salerno (per la medicina) e inoltre quelle di Oxford, Tolosa e Coimbra.

L’organizzazione degli studi universitari Ogni università era organizzata in facoltà a seconda dell’indirizzo di studi: Parigi, ad esempio, aveva quattro facoltà di cui tre superiori (diritto canonico, medicina e teologia: quest’ultima durava circa quindici anni e richiedeva come età minima per la laurea i trentacinque anni) e una inferiore (la facoltà di arti liberali, a cui accedevano gli studenti più giovani, che aveva valore propedeutico agli studi superiori e quindi di carattere non specialistico). Il corso di studi prevedeva come oggi lezioni, esami, fino al conseguimento del titolo di studio finale, che consentiva ai neolaureati di insegnare ovunque. Le più importanti università del Medioevo in Europa con la data di fondazione.

30 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali


PER APPROFONDIRE

I protagonisti della vita universitaria: il magister e gli studenti Il maestro universitario, un intellettuale itinerante e internazionale Con il termine maestro (dal lat. magister) noi oggi intendiamo esclusivamente il maestro elementare, oppure usiamo il termine nell’accezione di “figura autorevole”, che si è distinta in modo particolare nel proprio campo. Nel Medioevo il termine designa invece il docente universitario (assai spesso un chierico), una figura che emerge sulla scena della società medievale solo a partire dal XII secolo. I maestri allora si spostavano da un’università a un’altra, potendo contare sulla omogeneità del sapere allora trasmesso e sull’unità linguistica dell’intero mondo universitario: le lezioni si svolgevano infatti unicamente in latino. Gli studenti universitari Le maggiori università, come Parigi o Bologna, arrivavano ad accogliere parecchie migliaia di studenti. Gli studenti medievali, provenienti da varie zone dell’Europa, si spostavano di sede in sede alla ricerca di

docenti qualificati: da qui anche la denominazione di clerici vagantes (“chierici vaganti”) e usavano come lingua comune il latino. Molti (ma non tutti) erano chierici, appunto, e la loro estrazione sociale era per lo più agiata. Gli studenti costituivano un gruppo sociale per certi aspetti privilegiato: ad esempio, non erano soggetti alle leggi vigenti nella città e godevano di esenzioni fiscali. Per la città che li ospitava rappresentavano indubbiamente una fonte di guadagno (spendevano notevoli somme per nutrirsi, per i libri, il vestiario, i divertimenti), ma la loro presenza comportava anche non pochi oneri per l’amministrazione cittadina, che doveva creare strutture adeguate per rispondere alle loro richieste. Uno dei problemi più gravi era quello degli alloggi (come del resto anche oggi): talvolta gli studenti si sistemavano in camere private, più spesso vivevano in gruppo, così da dividere le spese, in case d’affitto.

Studiare con l’immagine SCRITTURA Dopo aver osservato attentamente la miniatura trecentesca di Lorenzo di Volterra che rappresenta una lectio universitaria, rintraccia nell’immagine gli elementi che hai studiato in relazione alla tipologia e al metodo dell’insegnamento universitario.

Un momento di vita universitaria: nello studium bolognese l’erudito Enrico di Alemagna tiene la lectio dall’alta cattedra. Miniatura di Lorenzo di Volterra, tratta da Etica nicomachea di Aristotele, edizione del XIV secolo.

Fissare i concetti Modelli del sapere e tendenze filosofico–scientifiche 1. Come si rapportano gli intellettuali cristiani con la cultura pagana? Qual è in merito la posizione di Agostino? 2. Che cosa si intende con auctoritas e auctores? 3. Che cos’è l’enciclopedismo? 4. Come si configura il sapere in ambito medievale? 5. Che cosa vuol dire l’espressione “arti liberali”? Come erano articolate? 6. Che cosa vuol dire il termine "università"? 7. Come è organizzato il sapere universitario?

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 31


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Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 1 La funzione della letteratura La visione moralistico-pedagogica dell’arte nell’Alto Medioevo Nell’Alto Medioevo la cultura è gestita unicamente dai chierici e perciò l’espressione artistica deve presentare contenuti utili all’educazione morale e religiosa del cristiano. Si tratta di una visione ancora centrale nel capolavoro assoluto della letteratura medievale: la Commedia di Dante.

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Parola chiave arte

Verso l’affermazione di nuove funzioni della letteratura Nel corso del Basso Medioevo però gli intellettuali non sono più soltanto chierici: la visione del mondo diventa più sfaccettata rispetto al rigorismo etico dei primi secoli. All’arte e alla letteratura non vengono più attribuiti soltanto scopi educativi: ricompare allora il tema dell’amore, emarginato dalla cultura dei chierici, che diventa centrale nella poesia provenzale e, nel corso del Duecento, anche in Italia nella poesia stilnovistica. Si affermano inoltre generi letterari nuovi, come la novella, il cui successo testimonia l’emergere di un’idea di letteratura concepita come intrattenimento piacevole del lettore. Una funzione a cui Boccaccio, con il suo Decameron (metà del Trecento), conferirà altissimo valore letterario.

La poesia come “competenza tecnica” e la codificazione retorica della prosa La poesia è “arte” La poesia è concepita dal Medioevo non come creazione spontanea, ma come utilizzazione consapevole delle tecniche retoriche elaborate dalla cultura classica e poi trasmesse a quella cristiano-medievale.

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Parola chiave poetica

I manuali di retorica Proprio in rapporto all’idea di poesia come tecnica, tra il XII e il XIII secolo si intensifica la riflessione teorica sulle modalità di far poesia e si diffondono veri e propri manuali di poetica . La prosa Anche per quanto riguarda la prosa, nella cultura medievale era inconcepibile che si potesse scrivere prescindendo dai modelli della tradizione e senza utilizzare adeguatamente regole e convenzioni della retorica. Per comporre testi in prosa gli scrittori attingevano alle artes dictandi (dal latino dictare, che significa “comporre, redigere un testo”), compendi di norme derivate dalla retorica classica, inizialmente in latino e relative solo a testi in latino. A partire dal XIII secolo le artes dictandi vengono stese in volgare e fanno riferimento anche a testi in volgare. Se persino i letterati ricorrevano alle artes dictandi, tanto più vi attingevano i funzionari delle corti e dei Comuni: la vivace attività politica e amministrativa dei Comuni richiedeva infatti persone capaci di parlare in modo persuasivo ed elegante e in grado di stendere documenti e lettere che dovevano rappresentare ufficialmente il Comune.

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Il ruolo di Brunetto Latini A Firenze svolge un ruolo assai importante nel diffondere le competenze retoriche Brunetto Latini, che Dante ricorda con riconoscente affetto come suo maestro nel XV canto dell’Inferno. Brunetto Latini (post 12201294), notaio di professione, partecipa attivamente alla vita politica del Comune; esiliato per motivi politici, vive in Francia per alcuni anni. Nel periodo dell’esilio scrive in francese un’opera enciclopedica, il Trésor, poi rielaborata e riscritta in versi italiani col titolo di Tesoretto. Ispira la composizione di questa opera una volontà didattico-divulgativa del sapere, finalizzato alla buona gestione della cosa pubblica. Alla divulgazione del sapere retorico sono rivolti il trattato Rettorica e la traduzione in volgare di varie opere retoriche di Cicerone.

2 Il concetto medievale di stile Il principio della congruenza tra stile e materia e i tre stili Il Medioevo eredita dall’antichità classica (Cicerone, Orazio) un principio fondamentale: il registro stilistico e di conseguenza le scelte linguistiche dovevano essere rigorosamente adattate alla materia trattata, cioè ai temi, alla tipologia dei personaggi e all’ambientazione scelti dallo scrittore. Il Medioevo deriva dal mondo classico anche l’idea che tre erano gli stili fondamentali: alto (denominato anche tragico o grave), medio e basso (denominato anche umile o comico). Di fatto però lungo tutto il corso del Medioevo vige soprattutto la contrapposizione tra i due stili estremi. Una visione gerarchica degli argomenti e del modo di esprimerli La distinzione rigorosa degli stili presuppone una gerarchia tra gli argomenti stessi che rispecchia la visione della realtà e la concezione culturale proprie del Medioevo: nell’ottica del tempo, tutto ciò che riguarda la realtà quotidiana e le classi sociali più basse ha una dignità inferiore rispetto a quanto coinvolge la sfera intellettuale o riguarda le classi sociali elevate; dunque anche lo stile deve rispettare questa più generale gerarchia socio-culturale.

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Parola chiave stile

Gli scrittori sperimentano diversi stili È importante precisare che la scelta dell’uno o dell’altro stile non implica di per sé una presa di posizione ideologica da parte dell’autore. L’adozione dello stile “comico”, ad esempio, non significa affatto che l’autore aderisca al mondo popolare e ai suoi valori, ma indica l’intenzione consapevole di sperimentare un “codice” letterario, magari per competere polemicamente con il codice alto (è il caso ad esempio di Cecco Angiolieri ➜ C5). Inoltre alcuni scrittori, pur dedicandosi in prevalenza allo stile alto e tragico, sperimentano saltuariamente anche lo stile basso, comico (Guinizzelli, Cavalcanti). Lo stesso Dante compone una serie di sonetti in stile comico rivolti all’amico Forese Donati (➜ C6).

online D13 Brunetto Latini Cos’è la retorica D14 Cassiodoro I tre stili

Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 3 33


Lessico pluristilismo e plurilinguismo Il pluristilismo e il plurilinguismo si definiscono rispettivamente come l’uso di diversi registri stilistici e linguisticoespressivi all’interno di un unico testo.

La contaminazione degli stili nella Commedia Nella Commedia Dante attua una contaminazione dei tre stili. Già le tre cantiche implicano di per sé differenti scelte di fondo: l’Inferno è prevalentemente “comico”; il Paradiso, per l’altezza della materia trattata è prevalentemente “tragico”. Ma anche all’interno di una stessa cantica Dante adotta di fatto il pluristilismo e plurilinguismo , così che non mancano parti in stile tragico nell’Inferno, come non mancano al contrario nel Paradiso vistosi abbassamenti comico-realistici (➜ D15 OL). Le verità cristiane e lo stile “umile” Nel corso dell’Alto Medioevo, il principio tradizionale della congruenza tra stile e materia viene sistematicamente violato dagli scrittori cristiani nell’ambito della produzione di carattere religioso. I primi scrittori cristiani si trovarono nella pressante necessità di far comprendere a tutti il messaggio religioso anche nelle sue più complesse implicazioni teologiche, che avrebbero di per sé richiesto, secondo le norme retoriche della tradizione classica, uno stile elevato. Sant’Agostino, uno dei maestri della cultura cristiano-medievale, ebbe significativamente a dichiarare: «È meglio che ci rimproverino i grammatici piuttosto che la gente non ci comprenda» (De doctrina christiana, XV, 10). Gli scrittori cristiani scelsero dunque di infrangere il principio della congruenza tra materia e stile e adottarono in ogni caso lo stile “basso”: una scelta densa di significato perché metteva in pratica nelle scelte comunicative i principi di uguaglianza predicati dal Vangelo (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE, La lezione del Vangelo e lo stile umile OL). Una tendenza, questa, che continua anche nel Basso Medioevo, nell’ambito delle letterature volgari: allo stile alto e raffinato della lirica (dai provenzali agli stilnovisti) si contrappone infatti la limpida semplicità del Cantico di frate Sole o, ancor più, lo stile volutamente basso e addirittura plebeo, di straordinaria forza espressiva, utilizzato da Jacopone da Todi per la sua appassionata testimonianza di fede (➜ C2).

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D15 Dante Alighieri Esempi di “contaminazione” degli stili Purgatorio, XVII, 76-78 e Paradiso, XVII, 124-129

D16 Sant’Agostino Lo stile semplice delle Sacre Scritture

Interpretazioni critiche Erich Auerbach La lezione del Vangelo e lo stile umile

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Per approfondire La retorica e l’arte di comunicare ieri e oggi

Allegoria della retorica, da un codice francese, sec. XII. Essa è rappresentata di proporzioni gigantesche, con una grossa spada in una mano e con una tavoletta nell’altra mano.

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3 Il metodo allegorico L’interpretazione allegorica: dalle Sacre Scritture ai testi letterari pagani Fin dai primi tempi della civiltà cristiana ci si era resi conto che il linguaggio e le immagini usati nella Bibbia avevano carattere allegorico: non andavano cioè presi alla lettera (il termine allegoría viene dal greco, da állon “altro” + agoréuo “parlo, dico”, letteralmente “dire altro”, “parlare d’altro”), ma dovevano essere decifrati, per comprenderne il reale significato, attraverso una particolare esegesi, ovvero un’interpretazione del testo. Il metodo di lettura allegorico delle Sacre Scritture fu presto esteso e venne impiegato per leggere in una prospettiva morale e religiosa le parole dei poeti antichi. In questo modo i testi della cultura pagana, reinterpretati in chiave cristiana, poterono essere immessi nel patrimonio culturale medievale (➜ PAG. 25).

Parola chiave

non è L’allegorismo: un’ottica centrale nella cultura medievale L’allegoria però solo un metodo per interpretare i testi antichi, ma riguarda anche la composizione di testi nuovi: si tratta di un metodo così praticato all’epoca che l’allegorismo si può considerare una delle componenti fondamentali della cultura medievale. L’allegoria costituiva l’applicazione, nell’ambito artistico-letterario, di una più generale visione del mondo di tipo simbolico, per cui tutto ciò che esiste in natura, nel mondo sensibile, reca i “segni” del divino e rimanda alla realtà soprannaturale (➜ PAG. 10).

allegoria Interpretazione allegorica e dimensione simbolica convivono nel Medioevo, pertanto distinguere tra simbolismo e allegoria non è sempre facile. Mentre la lettura simbolica è una più generale visione del mondo, l’allegoria (dal greco állon “altro” + agoréuo “parlo, dico”, letteralmente “dire altro”) appartiene all’ambito delle figure retoriche. Il significato di una allegoria non coincide con quello letterale e richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo. Di conseguenza chi legge dovrà scoprire nel testo tale significato. Proprio in quanto procedimento razionale l’allegoria spesso non riguarda una sola immagine, ma può articolarsi in un’intera sequenza (come l’incontro di Dante pellegrino con le tre fiere all’inizio del viaggio ultraterreno) o addirittura in un’intera narrazione: il viaggio di Dante nella Commedia è appunto allegoria dell’itinerario dell’anima dalla perdizione alla salvezza.

1

2

1 Ritrae una figura femminile dalla cui bocca esce un serpente, simbolo di malignità, che le si ritorce contro colpendola agli occhi.

2 Nella mano stringe un sacchetto,

simbolo di avarizia. Le fiamme che la avvolgono simboleggiano sia l’inferno (cui gli invidiosi sono destinati) sia il bruciante desiderio delle cose altrui.

Giotto, L’Allegoria dell’invidia, 1306 ca. (Padova, Cappella degli Scrovegni).

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Il simbolismo e l’allegoria Nel Medioevo la dimensione simbolica coesiste con la scrittura e l’interpretazione allegorica e non sempre è facile distinguere simbolismo e allegoria. La principale differenza tra simbolo e allegoria è che, mentre la lettura simbolica (per lo meno nel Medioevo) è parte di una più generale visione del mondo, l’allegoria è sempre frutto di un procedimento intenzionale e razionale, che comporta la volontà in chi scrive di alludere a una verità (morale e religiosa nel caso del Medioevo) diversa dal semplice piano letterale. I quattro sensi delle scritture Fin dall’Alto Medioevo si diffonde l’abitudine di rintracciare quattro livelli di senso nelle scritture, sia letterarie sia appartenenti al mondo cristiano. Come afferma Dante nell’opera intitolata Convivio, ogni testo si può interpretare secondo quattro livelli o sensi di lettura:

I sensi delle scritture Livello letterale

riguarda il significato immediatamente comprensibile: letterale, appunto.

Livello allegorico

riguarda il senso nascosto dietro quello letterale, ma a cui il letterale rimanda.

Livello morale

dai fatti narrati si intende ricavare un modello di comportamento.

Livello anagogico

i significati del testo fanno riferimento alle verità divine.

L’interpretazione figurale: un particolare tipo di lettura allegorica Una particolare interpretazione allegorica è quella che viene chiamata figurale, che ha anch’essa il suo primo campo di applicazione nell’interpretazione delle Sacre Scritture. Secondo tale lettura, le profezie (nel senso etimologico greco del termine, che significa “annunciare in anticipo, parlare prima”) del Vecchio Testamento sono realizzate dal Nuovo Testamento, che porta a compimento ciò che è prefigurato nel Vecchio Testamento. In altre parole Cristo “adempie” ciò che eventi e personaggi biblici, come Mosè o Isacco, avevano prefigurato. Guidando Israele fuori dall’Egitto verso la Terra Promessa e liberandolo dalla schiavitù, Mosè prefigura Cristo che libera l’umanità dal peccato. Allo stesso modo Isacco, promesso in sacrificio da Abramo, prefigura il sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità. Nella visione cristiano-medievale la storia dell’umanità è guidata in ogni sua manifestazione dal progetto di Dio e, proprio per questo, eventi anche lontanissimi tra di loro sono collegati da un disegno provvidenziale che l’uomo può solo tentare di spiegare. «Allegoria dei teologi»/«allegoria dei poeti» Nell’allegoria figurale (definita da Dante «allegoria dei teologi») i due termini cui si fa riferimento sono entrambi già di per sé veri, anche se gli eventi narrati sono comunque portatori di un superiore significato. Solo le Sacre Scritture, dunque, sono completamente vere. Al contrario, in quella che Dante definisce «allegoria dei poeti» il senso letterale è fittizio, una veste esteriore che rimanda di necessità al significato allegorico, il quale costituisce l’unico piano di verità.

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4 Forme e generi della letteratura nell’Alto e nel Basso Medioevo La produzione didattico-edificante Nell’Alto Medioevo i testi, opera di figure della Chiesa, sono permeati dalla dimensione religiosa e si propongono un fine di educazione morale più che intenti letterari. In alcune tipologie testuali, anche appartenenti al Basso Medioevo, questi due aspetti sono preminenti. • L’agiografia ovvero il racconto delle vite dei santi: narrazioni biografiche molto

conosciute anche a livello popolare attraverso le prediche, in cui domina il clima leggendario. • L’exemplum: un racconto di vicende esemplari da cui ricavare insegnamenti morali. I predicatori attingevano a questi esempi durante le prediche per renderle più efficaci. • Le “visioni” dell’aldilà: illustravano con vivaci particolari la terribile realtà dell’inferno che attende i peccatori e le delizie del paradiso con lo scopo di indurre i credenti a una vita virtuosa. Nel genere del viaggio oltremondano si iscrive anche la Commedia di Dante. • I bestiari e i lapidari: trattati illustrati in cui si attribuivano significati simbolici e morali agli animali, a volte del tutto fantastici e alle pietre. Queste opere sono espressione di una visione simbolica del mondo e della natura. • I trattati enciclopedici: testi filosofici e teologici in latino, destinati ai dotti. Sono spesso strutturati nella forma delle summae, grandiose sintesi enciclopediche del sapere. L’esempio più importante è la Summa Theologiae del filosofo Tommaso d’Aquino. I generi della cultura cortese In Francia e Provenza, nell’ambito di una società di tipo feudale, fiorisce la cultura cortese, i cui ideali e temi sono trasmessi alle letterature europee (compresa quella italiana) attraverso tre forme letterarie. • L’epica delle chansons de geste: poemi in lingua d’oïl, che trasfigurano epica-

mente le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini. La più celebre è la Chanson de Roland (sec. XII), incentrata sulla figura del paladino Orlando e sulla sua morte eroica per difendere la cristianità.

I sette peccati capitali in una miniatura del 1380 ca. tratta da un manoscritto del Roman de la Rose (Londra, British Library). Da sinistra: Superbia, Accidia, Lussuria, Invidia, Avarizia, Ira, Gola.

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• Il romanzo cortese-cavalleresco: in lingua d’oïl, ha come soggetto principale

la formazione dei cavalieri della corte bretone del leggendario re Artù attraverso l’avventura e l’esperienza nobilitante dell’amore (seconda metà del secolo XII). • La poesia provenzale: in lingua d’oc, getta le basi di una raffinata tradizione lirica. Centro tematico è l’amore cortese verso una donna irraggiungibile, a cui il poeta (il trovatore, autore anche delle musiche che accompagnavano i testi) rivolge una sorta di omaggio feudale (secoli XII-XIII). La letteratura religiosa Nel XIII secolo emerge in Italia, in particolar modo nella zona umbra, una letteratura che ha al centro il tema religioso. È in questo ambito che nascono: • le laude testi religiosi cantati dai fedeli durante le processioni, sono legate alla devozione popolare e allo sviluppo delle confraternite religiose, in particolare in Umbria; • il Cantico di frate Sole (Cantico delle creature) di san Francesco (1181-1226) un testo in volgare umbro concepito come una lode a Dio per tutto ciò che ha creato; • le laude di Jacopone da Todi. Il suo testo più celebre è la lauda “drammatica” Donna de Paradiso. La prosa in volgare La prosa in volgare nasce e si sviluppa dopo la poesia in volgare. Una vera produzione in prosa nasce soltanto nella seconda metà del Duecento. Le prime opere in prosa volgare sono di tre tipi: • le narrazioni storiche che raccontano le vicende politiche dei Comuni; i principali autori sono Dino Compagni e Giovanni Villani; • i libri di viaggio scritti dai mercanti che tracciano nuove rotte per i commerci ed esplorano terre lontane. Ha rilievo un celebre libro, Il Milione di Marco Polo, un mercante veneziano, che racconta il viaggio compiuto verso l’Estremo Oriente. Il suo interesse è offrire informazioni di carattere cultural-antropologico; • le novelle collegate alla vivace realtà dei Comuni italiani, al diffondersi di una visione laica della vita e di un’idea della letteratura svincolata da funzioni educative e indirizzata invece al divertimento; si tratta di un genere narrativo che avrà larga fortuna tra Duecento e Cinquecento. Raffigurazione dell’arte della Grammatica, donna che insegna a leggere a un giovane scolaro. Particolare da un affresco di Gentile da Fabriano, 1411-1412 (Foligno, Palazzo Trinci).

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Primo esempio è la raccolta nota come Novellino. Giovanni Boccaccio con l’autorevolezza del suo Decameron, una raccolta di 100 novelle organizzata in 10 giornate, conferisce al genere novellistico grande valore artistico e una precisa identità, che rimarrà stabile per lungo tempo. La lirica in Italia I modi e i temi della poesia provenzale si diffondono in Europa e anche in Italia: è in particolare in Sicilia che si afferma l’eredità della poesia trobadorica. Da qui il testimone poetico passa alla Toscana dove, fra Due e Trecento, si hanno gli esiti più alti della lirica in volgare italiano. La scuola siciliana L’eredità della lirica provenzale è raccolta in Italia dalla cosiddetta scuola siciliana (prima metà del sec. XIII) sviluppatasi alla corte di Federico II a opera di funzionari della corte, che idealizzano ancor più la figura femminile e danno spazio all’indagine sulla natura dell’amore. I poeti siculo-toscani Riprendono il tema dell’amore affiancandolo a temi morali e politici ispirati alla realtà dei Comuni toscani, come nella poesia di Guittone d’Arezzo, intellettuale politicamente impegnato nella sua città. Lo stilnovo Capostipite del gruppo di poeti toscani denominato “stilnovo” (Guido Cavalcanti, Dante, Cino da Pistoia) è il bolognese Guido Guinizzelli. Con lo stilnovo (ultimi due decenni del Duecento) la lirica italiana raggiunge un alto livello di perfezione formale. Tema esclusivo è l’amore, considerato dai più strumento di elevazione morale che può essere provato solo da chi è dotato di vera nobiltà d’animo. Il vertice di questa esperienza è rappresentato dalla produzione lirica di Dante, parzialmente raccolta nella giovanile operetta Vita nuova. Il Canzoniere di Francesco Petrarca Il capolavoro della lirica medievale e uno dei testi chiave nel canone dei classici italiani è il Canzoniere di Francesco Petrarca. La poesia comico-realista La poesia comico-realista si contrappone all’esperienza raffinata e stilisticamente alta della linea siciliano-stilnovista richiamandosi ai modi della poesia goliardica. Alla visione sublimante dell’amore e alle astrazioni intellettualistiche della lirica stilnovista alcuni poeti dell’area toscana (il più noto è Cecco Angiolieri) oppongono temi e modi poetici che si richiamano alla quotidianità e materialità e utilizzano un linguaggio espressivo, ricco di termini dialettali.

Fissare i concetti Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 1. Quale funzione ha la letteratura nell’Alto Medioevo? Come cambia la sua funzione nel Basso Medioevo? 2. Come è concepita la poesia nel Medioevo? E la prosa? 3. Quanti sono e quali sono gli stili? 4. Perché sin dall’antichità si sviluppa una distinzione tra livelli stilistici? 5. Per quali motivi il cristianesimo sovverte l’idea di gerarchia stilistica? 6. Che cos’è il metodo di lettura allegorico? 7. Qual è la differenza tra simbolo e allegoria? 8. Che cosa si intende con interpretazione figurale? 9. Quali sono le tre forme letterarie della cultura cortese? 10. Quali sono i generi trattati nella prosa in volgare del Duecento?

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4 L’evoluzione della lingua 1 Dal latino al volgare Una trasformazione lunga e complessa I primi testi letterari in volgare (cioè non in latino) si collocano nella prima metà del XIII secolo: in questo periodo vengono prodotti il Cantico di frate Sole di san Francesco d’Assisi, scritto nel 1224 circa, e soprattutto la poesia amorosa che fiorisce alla corte di Federico II entro il 1250. Questi testi sono l’esito finale di un lungo e complesso processo di trasformazione che dura per tutto l’Alto Medioevo e in cui si verifica la graduale emancipazione del volgare italiano dalla matrice latina: innanzitutto come lingua parlata, successivamente come lingua scritta d’uso pratico e infine come lingua letteraria. Oltre ai vari idiomi presenti nella penisola italiana, questo processo riguarda anche le altre lingue neolatine, cioè le lingue derivate dal latino, la lingua di Roma che si era imposta in tutta l’Italia e nel resto dell’Impero. Dall’unità linguistica alla differenziazione dei volgari Finché la struttura dell’Impero romano rimase salda e si mantenne l’unità politica, le sue diverse province, collegate dagli scambi commerciali e da un capillare apparato burocratico, comunicavano grazie al latino scritto (che rimase abbastanza stabile nel tempo) e, nella comunicazione quotidiana, attraverso il latino parlato: la base latina comune ai vari idiomi era infatti abbastanza riconoscibile, nonostante le differenze locali, così da consentire la comunicazione in quasi tutto il territorio. A partire però dal III secolo d.C., in seguito alla grave crisi politica ed economica che investe l’Impero romano, la forza accentratrice di Roma imperiale comincia a venir meno e gli elementi linguistici locali (a livello fonetico, morfosintattico e lessicale) finiscono per prevalere sul comune ceppo latino. L’ondata delle invasioni barbariche del V secolo dà il colpo di grazia all’unità linguistica: la vita culturale nelle città si spegne e si fanno sempre più rare le occasioni di usare la lingua scritta.

Le lingue neolatine Lingue neolatine tutte le lingue che derivano dal latino e in qualche modo lo rinnovano (da qui il prefisso neo-)

• italiano • francese • provenzale • castigliano (spagnolo) • catalano

• rumeno • sardo • ladino • portoghese • dalmatico (ora estinto)

Lingue romanze sinonimo di lingue “neolatine”

l’aggettivo romanze fa riferimento alla Romània, l’area geografica dell’Impero romano in cui si usava la lingua di Roma e in cui si verifica il passaggio dal latino alle lingue da esso derivate.

Lingue volgari o volgari altro sinonimo di lingue neolatine

si parla di lingue volgari o di volgari quando emergono lingue romanze in cui è evidente la loro derivazione dal latino volgare (sermo vulgaris), quello cioè parlato dal popolo (vulgus).

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I vari volgari si differenziano quindi sempre più non solo dal latino scritto ma anche tra di loro e assumono quelle specifiche caratteristiche che rendono l’italiano una lingua diversa, ad esempio, dal francese, pur essendo entrambe lingue derivate dal medesimo idioma. online

Per approfondire L’apporto linguistico dei conquistatori al volgare italiano

Le prime testimonianze del volgare scritto in Italia In Italia il riconoscimento dell’autosufficienza del volgare rispetto al latino si verifica molto più tardi rispetto agli altri paesi della Romània. Queste testimonianze in particolare lo documentano. • L’indovinello veronese. Il celebre indovinello (➜ D17a ) rappresenta la più antica testimonianza scritta in volgare in Italia: è databile tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, e da qui deriva la sua importanza storica. Fu scoperto in un codice della Biblioteca Capitolare di Verona contenente testi liturgici. Inserito a margine di una pagina del codice, il testo consiste in un indovinello riguardante l’attività dell’amanuense. È opera sicuramente di un autore colto, probabilmente un copista che si è divertito a rappresentare la sua stessa attività sotto forma, appunto, di un indovinello basato sull’analogia tra il lavoro dell’amanuense e quello dell’aratore. • Il Placito di Capua (960 ca.). L’uso scritto del volgare è testimoniato anche nell’ambito giuridico-notarile: è il caso del Placito di Capua (➜ D17b ), un documento giuridico successivo di circa un cinquantennio rispetto all’indovinello veronese e che fa riferimento a una causa relativa alla contestazione del possesso di una proprietà terriera. Il documento è in latino, ma include la citazione delle parole di un testimone che si esprime in volgare. È significativo che il giudice abbia ritenuto legittimo e importante inserire in un documento legale una testimonianza diretta in lingua volgare, riconoscendone implicitamente l’autonomia rispetto al latino. • L’iscrizione di San Clemente. Un altro testo interessante riguarda un’iscrizione presente nella basilica di San Clemente a Roma databile intorno alla fine dell’XI secolo. È bilingue, parte in volgare e parte in latino, e visualizza un episodio della vita del santo: immagini e parole infatti si trovano affiancate come avviene nei moderni fumetti. Un pagano, Sisinnio, convinto che Clemente gli abbia fatto un grave affronto, ordina ai suoi servi di condurlo al martirio. Ma il santo (le cui parole sono nell’iscrizione in latino) compie un miracolo: anziché lui, i servi trasportano una colonna di marmo. Ciò scatena la colorita protesta di Sisinnio, espressa in volgare popolare: «Fili de le pute, traite» (“Figli di puttana, tirate”). Nel passaggio dal latino al volgare italiano si verificano trasformazioni a diversi livelli Il passaggio dal latino al volgare italiano comporta molte trasformazioni, sul piano morfosintattico e lessicale. Nel lessico, proprio per l’influenza del parlato, prevale una maggiore concretezza, irrompono numerosi neologismi e molti termini subiscono un mutamento di significato, anche in rapporto all’influenza della predicazione cristiana, e assumono una specifica valenza morale. Può servire d’esempio il cambiamento di significato che si verifica dal latino fides (“fedeltà alla parola data”) al volgare fede (credenza in Dio).

Affresco con iscrizioni della fine dell’XI secolo nella basilica sotterranea di San Clemente a Roma.

L’evoluzione della lingua 4 41


Primi documenti del volgare in Italia D17a L’indovinello veronese D17

S. Gensini, Elementi di storia linguistica italiana, Minerva Italica, Bergamo 1983

Il celebre indovinello (risale probabilmente alla fine dell’VIII secolo o all’inizio del IX) è un testo che contamina latino e volgare.

Se pareba boves, alba pratalia araba, (et) albo versorio teneba; (et) negro semen seminaba.

Spingeva avanti i buoi (le dita dello scrivano) arava bianchi prati (i fogli di pergamena) teneva un bianco aratro (una penna d’oca) seminava un nero seme (l’inchiostro).

ratias tibi agimus omnipotens G sempiterne Deus.

Ti rendiamo grazie, o Dio onnipotente ed eterno.

Concetti chiave Tra latino e volgare

Il breve testo rappresenta l’atto della scrittura e gli elementi materiali che consentono di realizzarla: i fogli di pergamena, la penna d’oca, l’inchiostro. Sotto il profilo linguistico si può notare la presenza di termini latini (i sostantivi boves, semen, l’aggettivo neutro plurale alba) accanto a forme che testimoniano la trasformazione in atto verso i volgari: in particolare si nota la caduta della desinenza -t nei verbi all’imperfetto (pareba, araba, teneba, seminaba; ma d’altra parte si mantiene la -b- dell’imperfetto latino, non ancora passata alla -v- dell’imperfetto volgare), la trasformazione da nigrum a negro, forma intermedia tra il latino e l’attuale nero, con caduta della desinenza del caso accusativo e passaggio vocalico da -i- a -e-. Un volgarismo lessicale è il termine femminile pratalia “campo, prato” al posto del latino agrum “campo”, da ager (Prataglia – o Praglia e forme analoghe – sono toponimi ancora esistenti). Rimane in latino e non fa del resto parte dell’indovinello la formula di ringraziamento a Dio che chiude il breve testo.

D17b S. Gensini, Elementi di storia linguistica italiana, Minerva Italica, Bergamo 1983

Il Placito di Capua Il termine medievale placito deriva dal latino e significa “sentenza”. Il testo che segue fa parte di un antichissimo testo giuridico, il Placito di Capua, che risale al 960.

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.

So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trenta anni li ha avuti in possesso il monastero di san Benedetto.

Concetti chiave Un uso pratico del volgare

Questo testo in volgare è parte integrante di un documento in latino e ha uno scopo pratico di natura giuridica. Colui che parla si esprime nella propria lingua e il notaio decide di riportarne la testimonianza nella lingua originale. L’occasione della sentenza è una controversia che oppone un certo Rodelgrimo di Aquino e l’abate del monastero benedettino di Montecassino a proposito di terreni, che Rodelgrimo sostiene di aver ereditato. L’abate del monastero produce però tre testimoni a suo favore. Il giudice emette la sentenza, includendo nel testo latino una formula in volgare pronunciata ad alta voce da tutti e tre i testimoni. Nel testo resta qualche latinismo come il genitivo latino Sancti Benedicti e la costruzione con pars (“parte”).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è la finalità dell’autore dell’indovinello? LESSICO 2. Dal punto di vista linguistico che cosa risulta evidente nell’indovinello? 3. Quali differenze nell’analisi della lingua utilizzata si possono rilevare tra l’indovinello e il Placito?

Interpretare

SCRITTURA 4. Spiega perché in un atto giuridico (che è un documento redatto esclusivamente in latino), compaia una testimonianza in volgare (max 5 righe).

2 Da un panorama variegato alla preminenza del toscano Un universo linguistico sfaccettato Nel corso del XII secolo in varie zone d’Italia comincia a diffondersi l’uso del volgare scritto, innanzitutto in ambito notarile; occorrerà però molto tempo perché il volgare sia usato come lingua letteraria (prima metà del sec. XIII). Anche allora però non si può parlare veramente di “volgare italiano”: la frammentazione politica della penisola non consente infatti in Italia l’esistenza di un unico volgare, ma una pluralità di volgari. All’inizio del Trecento Dante identifica nella penisola la presenza di ben quattordici varietà linguistiche. online

Per approfondire “Italia”, “italiani”: un mito linguisticoletterario

online

Per approfondire Il ruolo dei tre grandi trecentisti nella storia della lingua italiana

Pagina tratta da una Bibbia dei poveri tedesca, seconda metà del sec. XV. Il testo è scritto in modo alterno sia in latino sia in tedesco.

L’affermazione del toscano e la marginalizzazione culturale degli altri idiomi in Italia Una lingua unitaria nascerà in Italia non come lingua della comunicazione ma soltanto nell’ambito letterario: questa lingua coinciderà di fatto con il toscano, specie dell’area fiorentina, che si afferma sugli altri volgari grazie al prestigio di tre grandissimi autori del Trecento: Dante, Petrarca e Boccaccio, che scrivono appunto in toscano. La supremazia del toscano fu favorita anche dalla centralità della Toscana nel territorio italiano e soprattutto dal primato economico di Firenze sugli altri Comuni italiani. Le conseguenze dell’egemonia del toscano come lingua letteraria e più in generale come lingua scritta comportò conseguenze storiche molto rilevanti: innanzitutto si verificò una frattura tra lingua parlata nelle varie zone d’Italia e lingua scritta, ma anche la separazione tra una produzione culturale egemone e le multiformi culture regionali, di fatto condannate a una sostanziale subalternità. Nel corso del tempo esse si faranno portavoce di aree tematiche e di registri espressivi ignorati dalla letteratura ufficiale. La superiorità del toscano letterario verrà sancita ufficialmente nel 1525 dalle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo: è solo da questa data che si può in un certo senso parlare di “italiano”, ma bisogna sempre ricordare che l’“italiano” è nato dalla letteratura, dal mondo degli intellettuali, non dalla viva realtà di una nazione. L’evoluzione della lingua 4 43


3 La sorte del latino dopo l’affermazione dei volgari La lingua della Chiesa, del diritto, della politica e dell’università Mentre i volgari romanzi si affermano lentamente anche come lingue scritte, il latino continua la sua vita secolare. Il latino è innanzitutto la lingua della Chiesa; del resto, fino all’affermarsi della società comunale – cioè fino alla fine del Duecento – coloro che usano la lingua scritta, gli intellettuali, sono esclusivamente chierici, cioè ecclesiastici. Ma anche ben oltre questi limiti cronologici la lingua del diritto, dell’alta politica, della diplomazia ma soprattutto della cultura universitaria resta il latino. Il latino rimane inoltre per secoli la lingua ufficiale della scienza e della filosofia: scrivono in latino ancora nel Cinquecento l’astronomo Copernico, nel Seicento il filosofo Spinoza, nel Settecento Leibniz e Kant. La scelta del latino corrisponde a una visione elitaria della cultura È evidente che a questa scelta linguistica corrisponde una visione elitaria della cultura, che intende mantenere scienza e filosofia confinate nell’ambito ristretto dei dotti, degli addetti ai lavori. A questa tendenza si oppongono coloro che lottano, al contrario, per divulgare il sapere: innanzitutto Dante che decide di scrivere in volgare il suo Convivio (➜ C6, PAG. 252). Significative poi sono le scelte di filosofi-scienziati fra Cinque e Seicento come Bruno, Campanella e soprattutto Galileo che, contro la tradizione filosofico-scientifica, userà il volgare per le sue opere di maggiore importanza (Il Saggiatore e Il Dialogo sui due massimi sistemi). Lessico encicliche Le encicliche sono lettere, indirizzate dal papa a tutti i vescovi o a una parte di essi, che riguardano argomenti dottrinali oppure teologici, sociali, economici o filosofici.

La Chiesa tutela per secoli l’uso del latino A tutelare l’uso del latino nel tempo è però soprattutto la Chiesa (e ancora oggi le encicliche sono in latino). L’autorità ecclesiastica contrasta per secoli l’inserimento del volgare nella liturgia, concedendone l’utilizzo gradualmente solo alle prediche e ai testi religiosi divulgativi. Nel Cinquecento la Chiesa di Roma si opporrà (ma senza successo) all’uso dei volgari nel rito, rivendicato da Lutero e dai riformatori. La svolta del concilio Vaticano II Il cambiamento arriverà soltanto secoli dopo: nel 1963, sotto la spinta innovativa del concilio Vaticano II, si comincerà ad ammettere cautamente l’uso delle lingue nazionali. Una volta avviato, il processo risulterà inarrestabile e nel giro di pochi anni nella liturgia il latino lascerà il posto alle lingue nazionali.

Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. In quale periodo si collocano i primi testi letterari in volgare? 2. Quali sono le lingue neolatine? 3. Come avviene la trasformazione linguistica dal latino alle lingue volgari? 4. Quando si ha la consapevolezza che il volgare è diverso dal latino? 5. Quali sono le prime testimonianze del volgare scritto in Italia? 6. Quali sono le differenze linguistiche tra l’indovinello veronese ed il Placito di Capua? 7. Quale tipo di lingua nasce in Italia? 8. Qual è la sorte del latino dopo l’affermazione dei volgari?

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Nel Medioevo i libri sono manoscritti Per tutto il Medioevo i libri sono dei manoscritti, sono cioè stesi a mano da singoli copisti detti amanuensi. I primi libri a stampa compariranno solo nel XV secolo. Nell’Alto Medioevo i pochi libri sono prodotti negli scriptoria dei monasteri e i copisti sono esclusivamente monaci. Essi trascrivono i testi sacri, ma anche i testi dell’antichità classica sopravvissuti alla dispersione e distruzione del patrimonio librario dell’Impero romano e li conservano poi nelle biblioteche dei monasteri. Come erano fatti i codici più antichi I libri manoscritti (definiti codici per distinguerli dal libro a rotolo, in uso nell’antichità) erano costituiti da fogli ripiegati e riuniti in fascicoli, poi cuciti e rilegati. Nell’Alto Medioevo come materiale scrittorio si usava esclusivamente la pergamena e il libro era massiccio, alto oltre 35-40 cm: è il cosiddetto libro da banco che, data la sua mole, doveva essere appoggiato per poter essere letto. È la situazione di lettura evocata da Dante in un passo del Paradiso (Pd X,22: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco»): un libro autorevole (come appunto la Commedia) non poteva essere che di grande mole e così fu per lungo tempo. Il testo era steso in “scrittura continua” (ovvero senza la separazione tra le parole) ed era disposto su due colonne, con il commento a lato in caratteri più piccoli e impreziosito da iniziali molto elaborate e da miniature , che ne accentuano il prestigio. La trasformazione della produzione di libri nella società urbana Verso il XII secolo lo sviluppo delle scuole cittadine e soprattutto delle università richiede sempre più manoscritti, per esigenze di studio e insegnamento.

Lessico miniature

Libri, lettori, lettura

Il libro prima dell’invenzione della stampa

Inizialmente il termine indicava l’illustrazione posta a decoro della lettera iniziale di un manoscritto, normalmente di colore rosso (minium è il minerale da cui si ricava il colore rosso). Successivamente, indica ogni pittura messa a ornamento di un libro antico.

Un monaco amanuense scrive su un rotolo. Davanti a lui, sull’armadietto, gli strumenti del copista.

Tommaso da Modena, Ciclo dei domenicani illustri, affresco, 1352: un cardinale appartenente all’ordine dei domenicani studia e scrive con ausilio di occhiali (Treviso, Convento di san Nicolò).

Libri, lettori, lettura 4 45


Libri, lettori, lettur

Libri, lettori, lettura

Come e perché si legge nel Medioevo Leggere per meditare Nell’Alto Medioevo leggere non è certo una pratica comune: a leggere (e a scrivere) sono quasi esclusivamente i monaci nel chiuso delle loro celle, oppure nei refettori, nelle scuole, in chiesa. La stragrande maggioranza della popolazione è infatti analfabeta. Nelle occasioni della vita comunitaria si leggeva ad alta voce, mentre nella solitudine delle celle i monaci usano una lettura appena mormorata a voce bassa, compiuta con ritmo lento, così da favorire la memorizzazione del testo. Nel monastero si legge per avvicinarsi a Dio, per salvarsi l’anima: il testo va lentamente meditato e possibilmente imparato a memoria, perché possa diventare un patrimonio spirituale duraturo. Leggere per sapere Tra l’XI e il XIV secolo con lo sviluppo delle scuole cittadine e delle università si affermano funzioni diverse del libro e della lettura: si legge non più per raggiungere la saggezza ma per conquistare il sapere; la dimensione spirituale passa in secondo piano rispetto all’utilità dello studio. Da qui la necessità di una lettura rapida e selettiva, opposta alla lettura lenta e regolare propria del metodo monastico. Per rendere il testo più facilmente leggibile vengono introdotte varie innovazioni nelle tecniche di scrittura e composizione del testo (la divisione delle parole, la segnalazione dei paragrafi). Ma qualcuno legge anche “per diletto” Un modello di lettura sicuramente diverso per finalità, modi e luoghi è quello cortese, proprio delle aristocrazie europee istruite. Fino a tutto il XIV secolo i nobili francesi leggevano raramente da soli, ma preferivano ascoltare chi leggeva e recitava per loro: testi di devozione, ma per lo più chansons de geste, poesie di trovatori, romanzi (➜ C1). A partire dal XIV secolo tra i nobili si diffuse però la pratica della lettura silenziosa individuale e il genere prediletto, espressamente nato per la lettura individuale, è il romanzo.

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Le fasi di lavorazione di una pergamena In questa sequenza di quattro capolettera miniati di un codice medievale sono rappresentate le fasi di lavorazione di una pergamena. 1. il monaco compra la pergamena dal produttore

2. traccia le righe per la scrittura

3. taglia le pagine

4. inizia la sua opera di copista e miniatore


Il pubblico L’Alto Medioevo: un mondo di analfabeti Durante l’Alto Medioevo non si può ancora parlare di pubblico: pochissime persone in Occidente sapevano leggere e scrivere, gli stessi signori feudali e persino i re erano analfabeti e avevano perciò appositamente al loro servizio chi redigeva (in genere chierici) i documenti scritti. L’analfabetismo era talmente diffuso che anche il messaggio cristiano era trasmesso dai chierici essenzialmente in forma orale. Il pubblico raffinato (e femminile) della letteratura cortese-cavalleresca È nelle corti feudali di Francia che si può iniziare a parlare di pubblico, nel senso di destinatari a cui gli autori deliberatamente si rivolgono. In questo caso si tratta del pubblico raffinato della corte: il signore, le dame e i cavalieri, che condividono con gli autori della lirica e della narrativa cortese un modello culturale e valoriale incentrato sull’ideale della cortesia. All’interno del pubblico cortese hanno un posto rilevante le donne, così rilevante che la civiltà cortese medievale si distingue da ogni altra «soprattutto per il suo carattere spiccatamente femminile» (Hauser). Il pubblico stratificato del Comune In Italia è nell’età comunale, e specialmente nel corso del XIII secolo, che si forma un pubblico in grado di leggere e apprezzare testi letterari; si tratta di un pubblico stratificato, che ha differenti esigenze e competenze di lettura: giudici, notai, medici sono in grado di leggere opere sia in volgare sia in latino, mentre i mercanti leggono esclusivamente opere in volgare (soprattutto novelle, romanzi, ma anche vite dei santi). Un pubblico emergente è quello delle donne: non è certo un caso che Boccaccio dedichi il suo Decameron proprio a loro. Il popolo e i contadini: “spettatori-ascoltatori” Per il popolo l’unica possibilità di accedere ai testi letterari e ai temi culturali è l’immagine (potente strumento, nel Medioevo, di acculturazione delle masse) o la forma orale: oltre ad ascoltare i sermoni dei predicatori (➜ C2), il popolo segue con passione le performances dei giullari (dal lat. ioculares o ioculatores, “buffoni”). I giullari erano “professionisti del divertimento” che vagavano di borgo in borgo guadagnandosi da vivere attraverso spettacoli allestiti dovunque si potesse radunare della gente: per lo più nelle piazze o lungo le strade dei pellegrinaggi. Assai importante era il loro ruolo come mediatori dei temi della cultura alta per un pubblico popolare: dalle vite dei santi alle affascinanti avventure dei paladini di Carlo Magno.

Pagina di un codice manoscritto dell’Inferno di Dante con glosse ovvero annotazioni esplicative o commenti apposti nel margine del manoscritto, metà sec. XIV.

Francesco Petrarca nel suo studio, affresco attribuito ad Altichiero, 1368 ca. (Padova, Sala dei Giganti, Palazzo Liviano). Petrarca ha tra le mani un libro che appoggia su un piano inclinato. A fianco si trova un leggìo a ruota, che diventerà comune negli studioli degli umanisti, su cui si possono trovare molti volumi di piccolo e medio formato.

Libri, lettori, lettura 4 47


Arte nel tempo

Il romanico Continuità con la tradizione romana

L’architettura e l’arte figurativa che caratterizzano l’Italia dopo l’anno 1000 sono testimonianza della rinascita economica e dell’espansione delle città. Le caratteristiche strutturali degli edifici e i canoni delle rappresentazioni cambiano rispetto ai secoli dell’Alto Medioevo: le architetture diventano più complesse e la figurazione recupera il realismo e il fine narrativo che aveva nel mondo antico. Nell’Ottocento si inizia a usare il termine romanico per identificare questo periodo, sottolineandone la continuità con la tradizione romana. Importanti esempi di questo nuovo modo di costruire sono le basiliche cristiane edificate all’interno delle cinta murarie delle città e le rappresentazioni (bassorilievi, affreschi, mosaici) che decorano l’interno e l’esterno di questi luoghi di culto. Si avviano colossali cantieri urbani in cui lavorano diverse maestranze (lavoratori della pietra e del legno, costruttori...) coordinate da un magister (una sorta di architetto). La costruzione di questi grandiosi edifici era un processo di lavoro collettivo e coinvolgeva tutta la cittadinanza. Queste chiese non erano solo il centro della religiosità, ma anche luoghi importanti per la vita civile. La loro struttura era caratterizzata dall’impiego dell’arco a tutto sesto di derivazione romana e della volta a crociera, da imponenti masse murarie e dall’equilibrio razionale delle strutture. Pittura e scultura erano impiegate come decorazioni dell’architettura, materialmente e concettualmente legate ad essa.

La 1 La decorazione scultorea del duomo di Modena La cattedrale di San Geminiano di Modena, consacrata nel 1099, è un esempio compiuto di stile romanico. Di questo importante cantiere, durato per oltre un secolo, conosciamo il nome del magister, Lanfranco, e ciò testimonia che si cominciasse a considerare il progettista degno di memoria. Sulla facciata della cattedrale (sopra i due portali laterali e nello spazio tra questi e quello centrale) sono inserite quattro lastre istoriate a bassorilievo (1099-1106) che raccontano le storie della Genesi dalla creazione di Adamo 1 al diluvio universale 4 , realizzate da Wiligelmo, il cui nome è inciso nell’epigrafe commemorativa collocata in facciata.

1

4 2

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Nella seconda lastra 2 Wiligelmo rappresenta la cacciata dal paradiso di Adamo ed Eva e la loro condanna al lavoro. Gli episodi seguono un senso orizzontale da sinistra a destra. I personaggi si muovono in uno spazio scandito da una serie di colonnine e arcatelle a tutto sesto, delimitato dal piano orizzontale sul quale sono poste le figure, messe leggermente di profilo. Il piano di appoggio e la coerenza dei gesti aumentano l’effetto di realismo: nella prima scena a , Eva e Adamo, con una mano al volto e l’altra a coprire le parti intime, sono rivolti verso Dio, la cui natura divina è indicata dalla presenza dell’aureola; nella seconda b l’arcangelo, reso riconoscibile dalle ali e dalla spada, è alle spalle di Adamo ed Eva mentre accennano un passo (stanno camminando mentre vengono cacciati) e hanno il volto significativamente rivolto

verso il basso; nell’ultimo episodio c li vediamo uno di fronte all’altra, vestiti, mentre zappano la terra: a dividerli una pianta, simmetricamente posta al centro, frutto della loro fatica. Il lavoro a cui l’uomo e la donna sono condannati è quello agricolo, così familiare all’uomo medievale. La rappresentazione di profilo, oltre a non rispettare la frontalità tipica dei canoni bizantini, permette di creare interazione tra i personaggi. L’appoggio saldo dei piedi conferisce peso alle figure. La chiarezza dei gesti e l’essenzialità degli elementi scelti per la rappresentazione donano concretezza alle scene, trasformandole in un vero e proprio racconto per immagini. La facciata dell’edificio di culto è il confine tra lo spazio umano della città e quello divino della cattedrale, ed è su questa soglia che le parole bibliche diventano corpi, movimenti, emozioni ed azioni.

2 a

b

c

5

Il duomo di Modena presenta un altro importante ciclo scultoreo: otto bassorilievi, chiamati metope che rappresentano figure fantastiche e mostruose tra le quali ci sono gli Antipodi 5 , luogo che nell’immaginario antico e medievale era popolato da esseri mostruosi e si trovava ai confini della Terra. Le metope di Modena sono una delle massime espressioni della sopravvivenza del fantastico nella figurazione medievale e la collocazione alle estremità esterne della cattedrale richiamerebbe la posizione degli antipodi nelle mappe medievali, trasformando il duomo di Modena in una mappa mundi di pietra.

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Arte nel tempo

Il gotico

Una nuova spazialità

Con il termine gotico si nomina lo stile architettonico che nasce in Francia alla fine del XII secolo e si afferma in Europa lungo il Duecento e il Trecento. Vissuti fra XIII e XIV secolo e dunque contemporanei di Dante, Petrarca e Boccaccio, gli artisti Nicola e Giovanni Pisano, Cimabue, Giotto, Lorenzetti furono i grandi narratori visivi che trasformarono il linguaggio dell’arte figurativa italiana. Il lavoro di recupero della lingua e della letteratura latina classica operato da Petrarca può essere considerato in parallelo alla ripresa dei canoni scultorei grecoromani nella statuaria dei Pisano, con i quali assistiamo al progressivo ritorno della scultura “a tutto tondo”, cioè autonoma dalla struttura architettonica. Per quanto riguarda l’architettura religiosa, il gotico europeo si distingue per le forme slanciate delle cattedrali, sostenute da archi a sesto acuto e da longilinei ma solidi pilastri a fascio che permettono di costruire strutture in cui le mura non sono portanti: questo offre la possibilità di aprire grandi finestre caratterizzate da vetrate colorate che raccontano le storie sacre, materializzando la presenza di Dio attraverso i raggi di luce che le attraversano. La basilica di San Francesco ad Assisi è un esempio di come in Italia la tradizione costruttiva del Duecento, pur subendo l’influenza del gotico europeo, resta fortemente legata alle strutture basse e piene del romanico italico. La facciata a capanna è divisa in fasce orizzontali come nel gotico francese e vede la presenza di un rosone e del portale a doppio fornice. Nella navata centrale della basilica superiore Giotto dal 1292 dipinge le Storie di san Francesco, un ciclo di affreschi che racconta per episodi la vita del santo. Nella Rinuncia agli averi è raccontato il momento in cui san Francesco sceglie la povertà della vita religiosa e viene ripudiato dal padre.

La 2 Le storie di san Francesco

Per rappresentare visivamente il conflitto tra san Francesco e il padre, sottolineando l’inconciliabilità delle rispettive concezioni della vita, Giotto compone la scena dividendola verticalmente in due parti che si oppongono.

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A sinistra il padre è in piedi davanti a un gruppo di borghesi cittadini, a destra Francesco è coperto solo da un tessuto tenuto dal vescovo, seguito da una coppia di religiosi. La scena giottesca è un racconto visivo costruito attraverso azioni che parlano, inserita nello spazio concreto dell’architettura. I gesti creano delle corrispondenze che rafforzano il significato morale: la mano del padre verso il basso si contrappone al gesto di preghiera di Francesco rivolto verso l’alto direttamente indirizzato alla mano di Dio che appare concretamente nel cielo. I volti dei personaggi sono differenziati nei lineamenti e guardano in diverse direzioni, come a imitare la naturale varietà delle forme del reale. La resa anatomica del torace di san Francesco e le pieghe dei panneggi, sotto i quali sono percepibili i corpi, mostrano la conoscenza delle proporzioni e del chiaroscuro, tecnica che crea il senso di profondità attraverso l’accostamento di luci e ombre. A fare da sfondo ai due gruppi di

personaggi si stagliano due architetture utili a rendere visivamente l’ambiente urbano in cui si svolge la scena (secondo le fonti, Piazza del Vescovado ad Assisi). Le architetture sono rese attraverso l’uso di una prospettiva che, pur non essendo regolata da leggi matematiche come quella del primo Quattrocento, riesce a rendere la profondità dello spazio in cui i corpi dei personaggi stanno. È una spazialità concreta, caratterizzata da un cielo blu e non da uno sfondo oro come era uso nei Crocifissi, nelle Maestà e nei polittici ancorati alla tradizione bizantina. Il cielo di Giotto non è più un piano astratto di luce divina ma un cielo visto dal punto di vista dell’uomo. I protagonisti delle sue rappresentazioni non sono più presenze frontali, ieratiche e distanti ma esseri umani che agiscono come protagonisti della storia, rappresentati in spazi sempre più realistici (fai il confronto con la tavola San Francesco e storie della sua vita di Bonaventura Berlinghieri, del 1235 ➜ C2, PAG. 101).

La 3 Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo

La città, che nella pittura di Giotto è spesso contesto dell’azione, è uno dei soggetti del ciclo di affreschi Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo realizzato da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339. In questo ciclo l’allegoria del Bene comune è accostata a un complesso ambiente urbano, si sviluppa in senso orizzontale, creando diversi piani di profondità attraverso l’impiego di una prospettiva in cui si ravvisa la lezione di Giotto. Questa imponente rappresentazione di significato laico e civile mostra non solo l’importanza della vita

urbana nella società del Trecento, ma anche il suo essere luogo in cui prendono forma nuove abitudini e valori, dove si strutturano diversi ruoli sociali e funzioni. L’affresco lega in un rapporto di causa-conseguenza lo stato di benessere di una città, e quindi dei suoi cittadini, al modo in cui essa è governata: la bellezza e la solidità dei palazzi sono rese vive dai cittadini che quei palazzi abitano in armonia e ricchezza. Il vivere civile trova in questa rappresentazione urbana una testimonianza della ricerca di razionalità, concretezza e verosimiglianza.

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Duecento e Trecento Scenari socio-culturali

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

Significato del termine Medioevo Il termine Medioevo è nato nell’età umanistica e indica il periodo intermedio tra l’età classica e l’età moderna. Gli umanisti ci hanno trasmesso l’immagine di un periodo “buio”: in realtà è un errore parlare del Medioevo in questi termini. In questo periodo si è sviluppata anche una civiltà raffinata e nasce una ricchissima produzione letteraria: nel XIV secolo prendono forma i capolavori di Dante, Petrarca e Boccaccio che sono l’apice del canone letterario occidentale.

Il principio gerarchico Nel Medioevo vige l’idea che ci sia nella società una rigida gerarchia, per cui enti o categorie di persone sono distinti secondo un ordine di importanza, a lungo considerato immutabile: è un principio che permea sia l’immagine della società sia la visione dell’universo, concepito come un organismo ordinato da Dio attraverso le intelligenze angeliche, ma configura anche l’idea stessa della cultura e i modelli di comportamento che hanno nel concetto di auctoritas il principale punto di riferimento ordinatore. Il principio gerarchico è alla base anche del conflitto tra le due massime autorità medievali, il papato e l’Impero: entrambe volute da Dio, secondo la concezione del tempo, rivendicano ognuna la propria superiorità sull’altra. La visione simbolico-religiosa Ispirata ai valori del cristianesimo, la visione simbolicoreligiosa domina la mentalità medievale: essa non rimane limitata alla sfera del comportamento individuale, ma condiziona la visione della storia e persino l’immagine dello spazio. Il Medioevo non ha l’idea della prospettiva storica, della distinzione tra presente e passato, perché il tempo si iscrive nell’eterno, la storia è fatta non dall’uomo ma da Dio, che in essa realizza un disegno provvidenziale. L’interpretazione simbolica è strettamente connessa alla visione religiosa della vita, che permea il modo di vedere la natura, la storia, di interpretare gli eventi individuali e collettivi. La realtà vera non è quella che appare: nella natura stessa si cela un universo di simboli che rimandano sempre al trascendente. Persino i gesti (e soprattutto quelli della liturgia cristiana), i nomi, i numeri, i colori hanno significati simbolici. Il modello clericale Di una concezione rigorosamente religiosa e addirittura ascetica della vita si fa portatrice la cultura dei chierici, che orienta i modelli di comportamento soprattutto (ma non solo) nell’Alto Medioevo. Attraverso le prediche ai fedeli e generi popolari come le vite dei santi e la letteratura del viaggio nell’aldilà, i chierici impongono una visione cupa della vita umana, incline al peccato e passibile della punizione di Dio, immaginato e rappresentato soprattutto come giudice implacabile. La paura delle pene infernali induce alla mortificazione del corpo e dei piaceri terreni i credenti, che cercano di conquistare la salvezza dell’anima attraverso dure pratiche penitenziali, estenuanti pellegrinaggi ai luoghi consacrati e ai sepolcri dei santi, modelli di riferimento, insieme ai monaci, nella cultura clericale. All’esaltazione della vita ascetica e alla condanna di tutto ciò che è corporeo, l’irriverente letteratura goliardica, nata negli ambienti universitari, contrappone la gioia di vivere, il piacere del cibo e del sesso.

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Il modello cavalleresco-cortese Ben diverso è il modello umano e di comportamento cortese-cavalleresco, che viene elaborato nell’universo del castello feudale e che avrà enorme influenza ben oltre l’epoca e il contesto in cui nasce. La figura del cavaliere, il guerriero a cavallo, è soggetta dalla prima età feudale in poi a notevoli trasformazioni, che ne arricchiscono via via l’immagine: inizialmente prevalgono nel suo profilo qualità guerresche; verso l’XI secolo queste qualità sono subordinate alla difesa della fede: il cavaliere, come Roland della omonima chanson, diventa il paladino della cristianità nella lotta contro gli infedeli. Successivamente, nell’ambiente raffinato delle corti feudali di Francia, il cavaliere si ingentilisce e la sua figura diventa portatrice di nuovi valori: la liberalità, la gentilezza, la cortesia. Qualità esaltate soprattutto dal “servizio” nei confronti della donna, verso cui il cavaliere mostra assoluta dedizione, come il vassallo verso il suo signore. I valori della società urbana e mercantile Tra il XIII e il XIV secolo, nella civiltà urbana, nell’ambiente aperto e dinamico della città, si affermano modelli di comportamento e valori potenzialmente alternativi sia a quelli clericali sia a quelli cavallereschi. L’incremento degli scambi commerciali, soprattutto nei Comuni dell’Italia centro-settentrionale, l’emergere nella società della figura del mercante valorizzano l’intraprendenza, la spregiudicatezza, l’abilità nel cogliere l’occasione per sviluppare i propri interessi.

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

Il sapere medievale si struttura in continuità con il sapere antico Nei primi secoli del Medioevo, i monaci salvano quanto rimaneva di quel prezioso patrimonio, ricopiando i testi antichi su codici manoscritti e conservandoli nelle biblioteche dei monasteri. Quindi il sapere appartenente alla civiltà pagana viene inglobato in quella cristianomedievale attraverso un’opera di selezione di ciò che appare importante e utile (soprattutto nozioni filosofiche e retoriche), di sintesi, ma anche di reinterpretazione dei testi pagani alla luce delle verità cristiane. L’allegoria Fondamentale in quest’ultima operazione è l’applicazione della lettura allegorica dei testi: è proprio la lettura allegorica di alcune opere di Virgilio che ne fa una delle “autorità” del Medioevo. Il Medioevo applica anche al campo conoscitivo e letterario il principio gerarchico: esso induce ad appoggiarsi sempre a fonti autorevoli come la Bibbia, ma anche poeti e filosofi antichi a cui è riconosciuta particolare autorevolezza e che sono dunque auctores: da Virgilio a Orazio a Cicerone e, in ambito filosofico, Aristotele. La visione enciclopedica del sapere Il sapere è immaginato dal Medioevo come accumulo di nozioni di campi disparati, che vengono condensati in monumentali opere enciclopediche. Sapiente è chi conosce tutto lo scibile e non solo una parte di esso (ne è esempio Dante stesso nella Commedia, vera sintesi dell’intero sapere medievale). Una visione enciclopedica che Petrarca, nel tardo Trecento, già contesta in nome di un sapere selettivo, di tipo morale, più utile all’uomo perché lo aiuta a diventare migliore. L’università e la Scolastica Depositarie della visione ufficiale del sapere saranno per circa tre secoli le università, che iniziano a svilupparsi tra XII e XIII secolo. Il sapere della Scolastica (il termine definisce metodi e contenuti del sapere universitario) è fondato sul principio di autorità: autorità indiscussa (e indiscutibile) dei testi da studiare, autorità del maestro universitario che legge e commenta il testo (la lectio),

Sintesi

Duecento e Trecento 53


autorità di Aristotele, il “filosofo” per antonomasia, il cui pensiero influenza per secoli tutti i campi dello scibile, dalla medicina all’astronomia, dalla filosofia alla stessa teologia. Propedeutico ai gradi più alti del sapere è lo studio delle arti liberali, ereditato dalla scuola dell’età classica, così come la partizione in Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e Quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia).

3 Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo

La funzione della letteratura Nell’Alto Medioevo la produzione letteraria è finalizzata all’educazione morale del cristiano. A una prospettiva morale e religiosa sono ricondotti anche i testi pagani, grazie alla lettura allegorica. Ma nel Basso Medioevo, poiché gli intellettuali non sono più solo chierici, la letteratura e l’arte si aprono a fini diversi, di piacevole intrattenimento, che vengono veicolati da nuovi generi letterari: ciò assumerà il massimo valore letterario con il Decameron di Giovanni Boccaccio. Gli stili Nel Medioevo la poesia non è mai concepita come produzione spontanea e personale: non può prescindere dalla competenza tecnica né dal possesso delle norme retoriche ereditate dalla cultura classica. Questo vale anche per la prosa, su cui esercitano grande influenza le artes dictandi, trattati di retorica che fissavano regole molto precise sul modo di scrivere. Il principio della congruenza Nello stile da usare il Medioevo accoglie un principio basilare ereditato dal sapere retorico antico: la coerenza tra stile e materia e la conseguente codificazione di tre stili: rigidamente contrapposti sono in particolare lo stile “alto” (o tragico) e il “basso” (o comico). Nella Commedia – così denominata in rapporto alla teoria degli stili – Dante utilizza tutti gli stili e li contamina fra loro a fini di espressività. Violazione del principio da parte degli scrittori cristiani Nel corso dell’Alto Medioevo il principio della congruenza è sistematicamente violato dagli scrittori cristiani nella loro produzione di testi a carattere religioso. Al fine di far comprendere a tutti il messaggio cristiano, tali scrittori lo veicolano con lo stile “basso”: questa scelta, già teorizzata da sant’Agostino, è evidente negli scritti di Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi. Allegoria e simbolismo Espressione della più generale visione simbolica propria del Medioevo, per cui tutto ciò che esiste in natura reca i “segni” del divino e rimanda alla realtà soprannaturale, il metodo di lettura allegorico si applica innanzitutto alle Sacre Scritture: il linguaggio e le immagini bibliche non vanno presi alla lettera ma sono da decifrare per comprenderne il reale significato, attraverso una particolare esegesi, ovvero un’interpretazione del testo. Lo stesso metodo viene presto esteso e impiegato per leggere – in una prospettiva morale e religiosa – anche le parole dei poeti antichi che in tal modo vengono integrati nel patrimonio della cultura medievale. Fin dall’Alto Medioevo si diffonde l’abitudine di rintracciare quattro livelli di senso nelle scritture, sia letterarie sia appartenenti al mondo cristiano. Ogni testo si può interpretare quindi secondo questi quattro livelli, o sensi, di lettura: livello letterale, allegorico, morale, anagogico. L’interpretazione figurale Una particolare interpretazione allegorica è l’interpretazione figurale. Secondo tale lettura, le profezie del Vecchio Testamento trovano piena realizzazione nel Nuovo Testamento. Eventi della storia anche lontanissimi tra di loro sono collegati da un disegno provvidenziale (per cui alcuni eventi non sono da comprendere solamente in sé stessi ma anche come figure, prefigurazioni, di altri che ne costituiscono il compimento) che l’uomo può solo tentare di spiegare.

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4 L’evoluzione della lingua

Dal latino alla nascita delle lingue volgari La disgregazione politica ed economica dell’Impero romano determina anche la crisi del latino come lingua unitaria: da una parte si usa meno la lingua scritta (che rimane il latino), dall’altro gli idiomi parlati (i volgari) nelle varie zone dell’Impero vedono prevalere le componenti linguistiche locali sulla componente latina. Due documenti del IX secolo (Il concilio di Tours e Il giuramento di Strasburgo) testimoniano l’esistenza di lingue nuove, dette “neolatine”, autonome dal latino. In Italia la presenza del volgare è documentata dall’indovinello veronese (fine dell’VIII secolo), da un testo legale (il Placito di Capua, 960 ca.) e dall’iscrizione di San Clemente a Roma (fine dell’XI secolo). La preminenza del toscano Nel Trecento, in Italia, tre capolavori – la Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca e il Decameron di Boccaccio – affermano la dignità letteraria della lingua volgare e in particolare del toscano: questo sarà destinato ad affermarsi su tutti gli altri dialetti come lingua letteraria comune degli scrittori e, più in generale, come lingua scritta in un paese come l’Italia in cui, permarrà per secoli una situazione di estrema frammentazione linguistica. Come già Dante intuisce nel De vulgari eloquentia, una lingua unitaria potrà nascere solo come lingua letteraria, comune agli scrittori, ma non agli abitanti, con le conseguenze che ciò inevitabilmente comporta e ha effettivamente comportato. Il latino dopo il volgare Il latino rimane la lingua della Chiesa, del diritto, dell’alta politica, della diplomazia, della scienza e della filosofia. Questa scelta, è evidente, corrisponde a una visione elitaria della cultura, che intende confinare il sapere nell’ambito delle persone di cultura.

Libri, lettori, lettura Lo sviluppo delle università ha risvolti importantissimi nella promozione del libro manoscritto. La necessità di avere molti testi a disposizione degli studenti incrementa la produzione libraria: agli scriptoria dei monasteri si affiancano gli scriptoria cittadini per poter far fronte ai nuovi bisogni e si usa la carta al posto della pergamena perché meno costosa e di più facile lavorazione. Alla lettura dei monaci, finalizzata all’edificazione spirituale, oltre alla lettura per piacere, si sostituisce la lettura a fini di studio, spesso effettuata nelle biblioteche dei conventi cittadini, aperte al pubblico degli studiosi. Per agevolare questa lettura si attuano trasformazioni delle tecniche di scrittura (come la separazione tra le parole e i segni di paragrafo) e della disposizione del testo nella pagina. Nell’Alto Medioevo non si può parlare di pubblico, perché era molto diffuso l’analfabetismo. Solo nelle corti feudali di Francia si può parlare di pubblico: un pubblico raffinato di corte, composto anche da donne. Nel XIII secolo si forma in Italia un pubblico (giudici, notai, medici) in grado di leggere e apprezzare i testi letterari. Il popolo accede alla cultura attraverso le immagini o la trasmissione orale dei giullari.

Sintesi

Duecento e Trecento 55


Zona Competenze Sintesi

1. Attraverso un disegno o uno schema grafico, sintetizza la concezione gerarchica della società propria dell’età medievale. Puoi utilizzare questi documenti integrativi.

«E dimostrava questo [si parla di Gerardo, vescovo di Cambrai, vissuto nel sec. XI]: che dall’origine stessa era stata imposta all’umanità una divisione in tre: uomini che devono volgersi alla preghiera; uomini che devono piegarsi al lavoro dei campi; infine, uomini che devono dedicarsi alla guerra. Non solo: dimostrava poi con molta chiarezza che ogni categoria ha il preciso dovere di fornire sostegno alle altre due» (da Monumenta Germaniae Historica, vol. IX, trad. it. di M.L. Picascia, Hannover 1846).

«La casa di Dio, che si crede una, è dunque divisa in tre: gli uni pregano, gli altri combattono, gli altri infine lavorano. Queste tre parti coesistono e non sopportano di essere disgiunte; i servizi resi dall’una sono la condizione delle opere delle altre due; e ciascuna a sua volta s’incarica di soccorrere l’insieme. Perciò questo legame triplice è nondimeno uno; così la legge ha potuto trionfare, e il mondo godere della pace» (Adalberone di Laon [vescovo, vissuto tra il X e l’XI secolo], Carmen ad Rodbertum regem, in G. Duby, L’anno Mille, Einaudi, Torino 1976).

Scrittura creativa

2. Immagina e scrivi una discussione tra un chierico, un cavaliere e un mercante, in cui ciascuno difenda il suo sistema di valori e contesti quelli degli altri.

Lavoro di gruppo

3. La classe si divida in piccoli gruppi di lavoro, ognuno dei quali prenda in esame uno degli aspetti della mentalità e dei modelli di comportamento propri dei secoli in esame, sulla base del profilo, dei testi letti e di eventuali contributi e approfondimenti reperiti su libri e in rete. • Il principio gerarchico • I valori della società urbana e mercantile • La visione simbolico-religiosa •  Il confronto tra cultura cristiana • La concezione del tempo e della storia e cultura pagana • Il modello clericale •  La concezione del sapere • Il modello cavalleresco-cortese (fra tradizione ed enciclopedismo) Ogni gruppo di lavoro sceglierà il modo più efficace per illustrare agli altri gli aspetti salienti della tematica analizzata, utilizzando: a. un ipertesto (Word/Power Point/html) da presentare con l’ausilio della LIM b. una relazione scritta a più mani che sintetizzi i risultati del lavoro di gruppo c. una scaletta per una conferenza

Discussione orale

4. Scegliete una o più tematiche di studio presenti nell’attività 3. Avviate una discussione in classe sugli elementi più caratterizzanti e/o su aspetti divergenti rispetto alla realtà contemporanea e stendete una dettagliata scaletta degli interventi che includa anche l’elenco dei documenti utilizzati (testi antologizzati, immagini, siti web ecc.).

Scrittura

5. In un breve testo espositivo-argomentativo distingui simbolo e allegoria; poi spiega come fu impiegata soprattutto l’allegoria nella cultura medievale.

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Duecento e trecento CAPITOLO

1 La letteratura cortese nella Francia feudale

Le prime testimonianze di un uso letterario delle lingue romanze si ritrovano nel Nord della Francia, dove si sviluppano l’epica delle chansons de geste (fine dell’XI secolo) e il romanzo cavalleresco (XI-XIII secolo), entrambi in lingua d’oïl, l’antico francese. Nella zona della Provenza si afferma la lirica trobadorica in lingua d’oc, la lingua usata nella Francia meridionale. In questi generi, in vario modo, viene idealizzata la figura del cavaliere e sono celebrati gli ideali cortesi. Nelle chansons, e in particolare nella celebre Chanson de Roland, il cavaliere è il prode guerriero che difende la cristianità contro gli infedeli; nei romanzi è modello di virtù e coraggio, pronto ad affrontare mille avventure e pericoli per il proprio perfezionamento e per amore. Infine, nella lirica provenzale, l’ideale cortese-cavalleresco si lega strettamente alla devozione verso una figura femminile inaccessibile.

cristiana 1 L’epica e le chansons de geste romanzo 2 Ilcortese-cavalleresco lirica 3 Laprovenzale 57


1

L’epica cristiana e le chansons de geste La narrativa epico-cavalleresca in Francia Tra l’XI e il XIII secolo in Francia si sviluppano tre generi che eserciteranno grande influenza in particolare sulla letteratura italiana: l’epica delle chansons de geste e il romanzo cortese-cavalleresco entrambi in lingua d’oïl (il volgare usato nella Francia settentrionale) e la lirica provenzale in lingua d’oc (il volgare usato nella Francia meridionale). Mentre le chansons de geste sono incentrate sui temi dell’eroismo, della guerra e della fede, il romanzo cortese-cavalleresco introduce nelle letterature in volgare il tema dell’amore associato a quello dell’avventura cavalleresca.

La nascita della letteratura in Francia Dopo l’anno 1000 in Europa dalle lingue romanze o neolatine

nascono

le letterature romanze (la letteratura italiana è una di queste)

le chansons de geste

tra le prime a svilupparsi c’è la letteratura francese con tre generi diversi

il romanzo cortesecavalleresco

la lirica provenzale

1 Le chansons de geste Le chansons de geste, le “canzoni di gesta” (dal latino res gestae, “imprese compiute”), sono poemi epici organizzati in “cicli”, scritti in lingua d’oïl. Sono composti di lasse (strofe con un numero variabile di versi) assonanzate (cioè in versi caratterizzati dall’assonanza finale). Il verso utilizzato è il decasillabo (più o meno equivalente all’endecasillabo italiano). Le chansons de geste si ispirano a fatti realmente accaduti, trasfigurati in forma epica e celebrano le imprese delle grandi famiglie della nobiltà feudale.

Un episodio della Chanson de Roland in un rilievo del XII secolo (Angoulême, Cattedrale di Saint Pierre).

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Una produzione colta legata alla trasmissione orale Si ritiene oggi che le chansons siano opera di singoli autori, sicuramente colti, e che vennero poi diffuse oralmente per opera dei giullari in ambiti sociali diversi, sia aristocratici sia popolari, ad esempio lungo le vie dei pellegrinaggi, nelle piazze e nei mercati. A una destinazione orale allude il termine stesso chanson (da cui il nostro canzone), che indica una composizione recitata e accompagnata dalla musica. Inoltre in queste composizioni le ripetute allocuzioni al pubblico («udite!»), oltre che la ripetizione di versi similari, fanno pensare a espedienti con cui si cercava di stimolare l’attenzione di un pubblico di ascoltatori più che di lettori. La datazione Secondo gli studiosi le chansons vennero composte relativamente tardi (secoli. XI-XII), in rapporto alla diffusione dello “spirito di crociata”; infatti in esse sono esaltati non solo l’eroismo individuale, ma soprattutto il suo impiego a difesa della cristianità in lotta contro gli “infedeli” (tali al tempo erano considerati gli arabi e più in generale i musulmani), un tema particolarmente sentito proprio ai tempi delle crociate. Il ciclo più celebre, che ebbe larga risonanza anche fuori di Francia, è il cosiddetto “ciclo carolingio”, dedicato alle imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i saraceni e inaugurato dalla Chanson de Roland (1080 circa), la più antica e famosa delle chansons de geste a noi pervenute.

I generi letterari dell’età cortese LE CHANSONS DE GESTE GENERE

poemi epici

LUOGO

Nord della Francia

TEMPO

XI secolo

LINGUA

d’oïl (antico francese diffuso nel Nord della Francia)

STILE

ripetitivo: concetti, frasi che ritornano a breve distanza

CONTENUTO

imprese di Carlo Magno, re dei Franchi e dei suoi cavalieri

DIFFUSIONE

orale per mezzo dei giullari

OPERE/AUTORI

la più nota è la Chanson de Roland

TEMI

guerra, fedeltà verso il re, fede in Dio

per aiutare il giullare che ripeteva a memoria per imprimere il messaggio nella mente degli ascoltatori

L’epica cristiana e le chansons de geste 1 59


2 La Chanson de Roland e la mitizzazione dell’eroe cristiano La Chanson de Roland (➜ T1 ) è un lungo poema di quattromila versi circa, il cui autore è rimasto anonimo. Nel manoscritto più antico che ci ha trasmesso il testo, quello di Oxford, compare il nome di Turoldo, ma non è possibile stabilire se tale nome corrisponda all’autore o al copista che stese il manoscritto. Il poema fa riferimento a un fatto storico realmente accaduto: la spedizione di Carlo Magno, re dei Franchi, in Spagna contro alcuni prìncipi musulmani, in particolare lo sterminio della retroguardia dell’esercito franco compiuto sui Pirenei, a Roncisvalle (778) da predoni baschi. Tra i morti, secondo un’autorevole fonte del tempo, vi fu anche il nobile paladino Orlando (Roland, in francese). La datazione Non esistono elementi per datare con sicurezza la composizione della Chanson de Roland, ma si pensa sia stata scritta verso il 1080, circa tre secoli dopo gli avvenimenti narrati, che l’autore avrebbe epicamente trasfigurato in nome degli ideali della “guerra santa” propri del suo tempo (la prima crociata in Terrasanta si svolge proprio nel 1097-1099). I valori e i modelli di comportamento presenti nel poema non appartengono infatti all’epoca in cui si svolgono gli eventi narrati (VIII secolo), ma sono evidente espressione della società feudale (il termine stesso vassallage, che allude al rapporto di vassallaggio, ricorre più volte). online

Per approfondire Il genere epico

online

Interpretazioni critiche Michail Bachtin, Il passato assoluto come tempo dell’epica

La trasfigurazione mitica L’autore della Chanson sottopone un episodio secondario della guerra (➜ D1 ) a un processo di mitizzazione che lo trasforma in una battaglia epica. La celebrazione che ispira la Chanson induce l’autore a non attribuire la strage di Roncisvalle, come realmente accadde, ai predoni baschi (che erano cristiani), ma alle forze saracene: degli infedeli viene enfatizzata la schiacciante superiorità numerica, contro la quale nulla può l’eroica resistenza dei guerrieri franchi, capitanati dal paladino Orlando. Carlo Magno diventa il “campione” di tutta la cristianità in lotta contro gli infedeli e a sua volta Orlando, caduto da eroe per difendere il suo re, la sua patria, ma anche la fede cristiana, assume tratti leggendari che nel tempo faranno di lui il prototipo dell’eroe-martire.

La vicenda e la struttura della Chanson de Roland La Chanson de Roland si articola intorno a tre episodi fondamentali: a. il tradimento di Gano; b. la morte di Orlando; c. la vendetta di Carlo Magno. Il fulcro narrativo è contenuto nella parte centrale del testo. a. L’antefatto. Nella prima parte si racconta che Carlo Magno, da sette anni in Spagna, dove combatte contro i Saraceni, pone l’assedio alla città di Saragozza di cui è re Marsilio. Questi propone ai cristiani di trattare la pace. Dovendo il re franco scegliere gli ambasciatori da inviare al re saraceno, Orlando propone il suo patrigno, Gano di Maganza. Gano pensa però, data la pericolosità della missione, che Orlando voglia sbarazzarsi di lui e medita la vendetta e il tradimento (diventerà nel tempo il prototipo della figura del traditore). Giunto da Marsilio, si allea con lui e insieme progettano un inganno ai danni dei Franchi: Marsilio finge di sottomettersi a Carlo, promettendo di convertirsi al cristianesimo se il sovrano franco lascerà la Spagna. Accettato il patto, l’imperatore organizza il ritorno del suo esercito in Francia e affida a Orlando, su suggerimento di Gano, il comando della retroguardia. b. Il fulcro narrativo: la morte di Orlando. Nella sezione centrale della Chanson domina la rappresentazione della battaglia di Roncisvalle: qui l’esercito saraceno

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attacca a tradimento le truppe della retroguardia capitanata da Orlando. Orlando combatte con eroismo, nonostante sappia che l’esercito franco è destinato alla sconfitta per la sproporzione schiacciante delle forze in campo. Orlando potrebbe, suonando il suo corno, chiamare in soccorso Carlo, come lo supplica di fare l’amico Oliviero, ma il rispetto del codice cavalleresco gli impedisce di chiedere aiuto anche a costo di sacrificare la sua stessa vita e quella dei suoi soldati. Solo alla fine, ormai vicino alla morte, si decide a richiamare Carlo, suonando l’olifante. c. La vendetta di Carlo Magno. Nell’ultima parte della Chanson viene narrato il precipitoso ritorno di Carlo a Roncisvalle e la sua vittoria sulle forze saracene. Il traditore Gano viene giustiziato in modo atroce.

T1 La canzone di Rolando, a cura di M. Bensi, Rizzoli, Milano 1985

«Orlando è prode ed Oliviero è saggio»

EDUCAZIONE CIVICA

Chanson de Roland, lasse LXXX-LXXXVIII

nucleo Costituzione competenza 2

L’esercito dei “pagani”, mosso da Saragozza per attaccare a sorpresa la retroguardia dei Franchi capitanata da Orlando, appare improvvisamente alla vista di costui e del suo compagno Oliviero. I pagani sono in condizione di schiacciante superiorità numerica e quindi il destino dell’esercito cristiano è segnato in partenza, a meno che Orlando non chiami in soccorso, suonando il suo corno, l’imperatore Carlo Magno, come Oliviero gli suggerisce. Ma il senso feudale dell’onore impedisce a Orlando di farlo, nonostante le insistenti esortazioni del compagno.

LXXX Monta Oliviero or sopra un alto poggio: a destra guarda, dov’è una valle erbosa, vede la gente pagana che s’accosta. 1020 Al suo compagno Orlando egli si volge: «Vien dalla Spagna un così gran fragore: quanti elmi e usberghi1 luccicanti si scorgono! Sui nostri Franchi verranno con furore. Gano doveva saperlo, il traditore, 1025 che fece il nostro nome all’imperatore2». «Taci, Oliviero» Orlando gli risponde; «è mio padrigno: non farne più parola.» LXXXI È sopra un poggio Oliviero montato: bene di qui scopre il regno di Spagna, 1030 e dei pagani le schiere sterminate. Splendono gli elmi d’oro e di gemme ornati; e scudi e spiedi3 e usberghi ricamati; e i gonfaloni attaccati alle lance. Ma le colonne non potrebbe contare: 1035 ce ne son tante che il numero non sa; dentro se stesso ne resta assai turbato. Com’egli può, cala dal poggio al basso, vien dai Francesi ed ogni cosa narra.

1 2

usberghi: corazze. Gano... all’imperatore: Gano di Maganza, patrigno di Orlando, qui nominato con l’epiteto che farà di lui “il traditore” per antonomasia, aveva convinto l’imperatore Carlo Magno a designare Orlando a capo della retroguardia. Si era accordato con il re Marsilio, tradendo la sua patria e consentendo ai saraceni l’attacco a sorpresa che sterminerà la retroguardia franca. 3 spiedi: un’arma costituita da un ferro lungo e acuminato.

L’epica cristiana e le chansons de geste 1 61


LXXXII Disse Oliviero: «I pagani ho veduti: 1040 nessuno in terra ne vide mai di più. Ne abbiam davanti centomila con scudi, elmi allacciati e bianchi usberghi chiusi, lance diritte, lucenti spiedi bruni. Battaglia avrete, quale mai non ci fu. 1045 Da Dio, signori, vi venga ogni virtù! Restate in campo, perché non siam battuti!» Dicono i Franchi: «Maledetto chi fugge! Anche a morire, non mancherà nessuno». LXXXIII Disse Oliviero: «I pagani han gran forza, 1050 e i nostri Franchi mi pare che sian pochi! Compagno Orlando, suonate il vostro corno. Carlo l’udrà: coi suoi farà ritorno». Risponde Orlando: «Sarebbe agir da folle! Nella mia Francia io perderei il mio nome. 1055 Di Durendala4 or darò grandi colpi: l’arrosserò fino nell’elsa d’oro. Son giunti ai valichi con lor danno i felloni5: giuro che tutti sono dannati a morte». LXXXIV «Compagno Orlando, l’olifante6 suonate: 1060 Carlo l’udrà, farà i Franchi tornare: coi suoi baroni il re ci aiuterà». Risponde Orlando: «Al Signore non piaccia che i miei parenti sian per me biasimati, e disonore ne abbia la dolce Francia! 1065 Prima gran colpi darò con Durendala, la buona spada che tengo cinta al fianco: tutto vedrete il brando insanguinato. Si son con danno qui i pagani adunati: giuro che a morte son tutti destinati».

Cavallieri ritratti nel Libro dei tornei e delle parate, 1560 ca. (New York, Metropolitan Museum).

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4 Durendala: è il nome della spada donata a Orlando da Carlo Magno. 5 felloni: traditori. 6 l’olifante: è il nome del corno da caccia (ricavato da una zanna di elefante) del paladino Orlando.


LXXXV «Compagno Orlando, suonate l’olifante. Carlo l’udrà, che sta passando i valichi. Io ve lo giuro che torneranno i Franchi». «A Dio non piaccia» così risponde Orlando «che mai si dica che per un uom mortale, 1075 per un pagano, il corno abbia suonato! I miei parenti mai non ne avranno biasimo. Quando nel mezzo sarò della battaglia, ben più di mille volte trarrò la spada: rosso di sangue ne vedrete l’acciaio. 1080 Son prodi i Franchi, e colpiran da bravi: quelli di Spagna non avran chi li salvi». 1070

LXXXVI Disse Oliviero: «Non ci può esser biasimo. Io li ho veduti i pagani di Spagna: ne son coperte le valli e le montagne, 1085 gli scabri picchi e tutte le campagne. Grandi gli eserciti sono qui dei pagani, e noi ben piccola compagnia vi teniamo». Risponde Orlando: «E cresce la mia brama. Non piaccia a Dio, ai suoi angeli, ai santi, 1090 che per me perda il suo valor la Francia! Meglio morire che restar nell’infamia! Se Carlo ci ama, è perché ben colpiamo». LXXXVII Orlando è prode ed Oliviero è saggio. Hanno bravura meravigliosa entrambi. 1095 Poiché a cavallo si trovano ed in armi, anche a morire7, non schiveran battaglia. Son prodi i conti, le parole son alte8. Ora i pagani con gran furor cavalcano. Disse Oliviero: «Orlando, un po’ guardate! 1100 Son qui vicini, e troppo lungi è Carlo! Voi l’olifante non voleste suonare: se il re qui fosse, noi non avremmo danno. Guardate a monte verso i valichi d’Aspra9: vedete come triste è la retroguardia! 1105 Chi questa fa, non ne farà più un’altra». Risponde Orlando: «Non dite enormità! Sia maledetto il cuore che s’abbatte! Al nostro posto noi rimarremo in campo: da noi verranno i colpi e il battagliare!»

7 anche a morire: anche a costo di morire. 8 alte: nobili. 9 i valichi d’Aspra: un passaggio attraverso i Pirenei.

L’epica cristiana e le chansons de geste 1 63


LXXXVIII Vedendo Orlando che vi sarà battaglia, si fa più fiero che leone o leopardo. Grida ai Francesi ed Oliviero chiama: «Signor compagno, amico, non parlare! L’imperatore, che ci affidò i suoi Franchi, 1115 qui ventimila ne ha radunati tali che a suo vedere nessuno vi è codardo. Or per il proprio signore grandi mali giusto è soffrire, e gran freddo e gran caldo: e deve perdersi anche sangue, anche carne. 1120 Tu con la lancia colpisci, io con la spada, con Durendala, che mi donò il sovrano! Se muoio, certo potrà dir chi l’avrà ch’essa fu in mano a un nobile vassallo». 1110

Analisi del testo Orlando e il codice cavalleresco La scena che abbiamo presentato, tra le più note e celebrate del poema, chiama in gioco la diversa identità cavalleresca dei due amici fraterni Orlando e Oliviero. La saggezza di Oliviero non è complementare bensì decisamente contrapposta alla prodezza di Orlando, che si assume la piena responsabilità di una scelta (cioè non chiamare in aiuto Carlo Magno con il suo corno) che condanna a morte certa i suoi uomini. Secondo parametri di giudizio normali, il comportamento di Orlando è espressione di un orgoglio smisurato o addirittura di una forma di follia, ma acquista un significato diverso all’interno del “codice cavalleresco”: Orlando esprime infatti in questo modo assoluta fedeltà alla propria missione, consacrata dall’investitura cavalleresca. È Orlando stesso a rovesciare la valutazione comune, quando definisce “pazzia” la possibilità di suonare il corno e richiamare Carlo Magno (lassa LXXXIII).

La vocazione al martirio In realtà il comportamento di Orlando è soprattutto espressione di una vocazione alla morte eroica, già scritta per lui nel disegno di Dio. In questa prospettiva egli assume i tratti di una sorta di santo laico e la sua morte in battaglia costituisce una fine esemplare, come quelle appunto dei santi e dei martiri cristiani, narrate con fini edificanti dai testi agiografici, molto diffusi nella letteratura religiosa medievale.

Il tema della guerra Oltre al confronto tra Orlando e Oliviero, nei versi compare anche il tema della guerra che contrappone l’esercito dei franchi alle armate saracene del re Marsilio. Nella Chanson la guerra è presentata secondo un punto di vista totalmente interno alla cultura cristiana ed è quindi sentita come necessaria e “santa” perché diretta contro gli infedeli, indentificati con assoluta sicurezza nella causa sbagliata ed empia. La Chanson de Roland è una delle prime testimonianze letterarie, se non la prima, del contrasto tra cristiani e musulmani: è significativo che in essa i guerrieri musulmani siano definiti “pagani”, il che implica il pregiudiziale disconoscimento dei contenuti religiosi dell’islam. La guerra è presentata nel passo proposto come “spettacolo” grandioso e suggestivo attraverso il punto di vista di Oliviero, che dall’alto vede avanzare le schiere dei nemici: armi sfavillanti, insegne decorate splendidamente, cimieri variopinti e adorni. La prevalenza di aspetti coloristici e di elementi ornamentali nella descrizione dell’esercito nemico ha a che fare con la destinazione orale del poema: recitato nelle fiere, durante i pellegrinaggi, esso doveva avvincere un pubblico multiforme, ma prevalentemente popolare, e colpirne la fantasia, l’immaginazione.

64 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale


La tecnica narrativa e lo stile Come sempre nella Chanson de Roland, la narrazione si articola in una serie di quadri a loro modo autonomi, corrispondenti alla misura di una lassa. Ogni lassa però per lo più riprende qualche elemento (tematico o espressivo) della precedente, aggiungendovi variazioni minime, così da tenere fissa l’attenzione di un pubblico in ascolto. Allo stesso obiettivo è finalizzata la struttura delle frasi, semplice, quasi elementare (spesso il concetto si esaurisce nella misura di un verso) e l’uso dominante della paratassi. Le tecniche narrative e le scelte espressive presenti nella Chanson sono soprattutto riconducibili alla semplificazione idealizzante propria del discorso epico: l’enunciazione di verità indiscutibili non richiede infatti la presenza di nessi subordinanti complessi. Come ha osservato il critico tedesco Erich Auerbach, manca totalmente nella Chanson una dimensione problematica: la complessità del reale è ridotta a pochi, forti valori (la fede in Dio, la devozione alla patria, l’onore) e a un giudizio valutativo fortemente marcato, che distingue senza esitazioni e senza sfumature il positivo dal negativo, la causa giusta da quella Rolando suona l’olifante a Roncisvalle, miniatura da un sbagliata. manoscritto della Chanson de Roland del XIII secolo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in circa 120 parole il contenuto del dialogo che si svolge tra Oliviero e Rolando nelle diverse lasse. COMPRENSIONE 2. Perché secondo Orlando suonare il corno significherebbe «agir da folle» (v. 1053)? 3. Che cosa contrappone Orlando e Oliviero? LESSICO 4. Analizza il brano dal punto di vista lessicale e indica i termini che appartengono al campo semantico della fedeltà. Quale rapporto lega il fedele Orlando all’imperatore? STILE 5. Individua nel testo gli aspetti formali che rimandano alla destinazione orale del poema. 6. Quale effetto produce l’uso insistito del tempo presente?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2

ESPOSIZIONE ORALE 7. Nell’antichità classica l’eroe era in primo luogo un guerriero coraggioso che combatteva per la gloria; anche nel Medioevo l’eroe cavalleresco partecipa alla guerra e disprezza la propria vita pur di meritare la gloria con gesti eccezionali. Nel tempo questo modello è cambiato, l’eroe guerriero classico sembra scomparso dall’immaginario collettivo; ciò però non significa che non sia possibile ancora oggi identificare alcune forme di eroismo. Se non viene celebrato l’individuo straordinario per valore militare, si può riconoscere la qualità di eroe a chi manifesta il proprio valore in un altro modo: molto spesso l’eroe oggi è un uomo comune che lotta quotidianamente per difendere i valori della vita, della dignità, della solidarietà umana. Secondo te esistono ancora gli eroi oggi? A tuo parere può ancora essere usata questa parola nella società attuale? Chi secondo te meriterebbe un appellativo del genere? Chi è un eroe per te? Prova a esporre le tue riflessioni in tre minuti.

L’epica cristiana e le chansons de geste 1 65


SCRITTURA 8. Rintraccia nel testo (LXXX-LXXXII) le descrizioni dell’esercito dei Saraceni: quale effetto producono le scelte lessicali e stilistiche? Secondo quali modalità è presentata la guerra tra Franchi e Saraceni? Argomenta la tua risposta. TESTI A CONFRONTO 9. Confronta il passo di Eginardo (tratto dalla Vita Karoli Magni), che presenta la realtà storica della battaglia di Roncisvalle, con i versi proposti dalla Chanson (➜ T1 ). Soffermati in particolare su: – l’identità del nemico dei Franchi; – le caratteristiche dell’esercito nemico; – le modalità dello scontro; – il ruolo dei personaggi. Illustra quindi come l’episodio storico viene mitizzato nel poema e con quali finalità.

Mentre si conducevano guerre assidue e quasi continue contro i Sassoni, Carlo, distribuiti convenienti presìdi nelle regioni di confine, assalì la Spagna con tutte le forze di cui poteva disporre. Valicati i Pirenei, ricevette la resa di tutte le città e di tutti i castelli che raggiunse e ricondusse in patria l’esercito sano e salvo, a parte il fatto che, proprio sul passaggio dei Pirenei, sulla via del ritorno, dovette fare esperienza della perfidia basca. Poiché l’esercito, a causa della strettezza delle gole, procedeva in lunga fila, i Baschi tesero un’imboscata – la regione vi si prestava perfettamente per la grande abbondanza di selve – e, piombando giù dall’alto, cacciarono verso il fondo della vallata l’ultima parte delle salmerie1 e i soldati della retroguardia, che coprivano la marcia del grosso. Poi, impegnato con questi il combattimento, li uccisero tutti fino all’ultimo uomo e, dopo aver saccheggiato le salmerie, protetti dalla notte sopraggiungente, si dispersero velocemente in ogni direzione. I Baschi furono favoriti in questa impresa dalla leggerezza del loro armamento e dalla configurazione del terreno, mentre la pesantezza delle armi e la posizione sfavorevole determinarono l’inferiorità dei Franchi. Nel combattimento caddero, insieme con moltissimi altri, il siniscalco2 Eggiardo, il conte palatino3 Anselmo e Rolando, governatore della marca4 di Bretagna. La sconfitta non poté essere vendicata subito, perché i nemici, compiuta l’azione, si dispersero in modo tale che non si riusciva a sapere dove mai li si dovesse cercare. 1 salmerie: armi, munizioni, viveri. 2 siniscalco: alto grado militare e amministrativo dell’età carolingia.

3 il conte palatino: il conte del “sacro” palazzo imperiale, massima carica giudiziaria al tempo dei franchi.

4 marca: termine geopolitico di età carolingia che designa una regione di confine.

A. Giardina e B. Gregori, Scenari di storia antica e medievale, Laterza, Roma-Bari 2000

online

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T2 Bernardo di Clairvaux

T3 Anonimo La presa di Saragozza e la conversione forzata degli infedeli Chanson de Roland, lasse CCLXIII-CCLXV

Il martire guerriero e l’ideologia della guerra santa Lode della nuova milizia

66 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale


2

Il romanzo cortese-cavalleresco 1 Un nuovo genere destinato alla corte feudale

Lessico cavalieri erranti Figure tipiche della letteratura cavalleresca medievale, erano cavalieri che girovagavano in cerca di ingaggi e avventure presso nobili e signori per dimostrare il loro valore.

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Per approfondire Il romanzo cavalleresco medievale e il “romanzesco”

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Per approfondire Un’interpretazione sociologica dell’ideologia cortese

Un genere nato per la lettura In lingua d’oïl sono composti anche i romanzi cavallereschi, incentrati su amori e avventure di cavalieri erranti , una delle più significative testimonianze della letteratura medievale. I romanzi cavallereschi inizialmente erano in versi, successivamente vengono stesi in prosa, avvicinandosi così all’idea che abbiamo oggi di “romanzo” come affascinante narrazione in prosa: nel Medioevo invece, per lungo tempo, il termine roman (“romanzo”) aveva significato semplicemente componimento in lingua “romanza”, cioè neolatina. I romanzi cavallereschi sono opera di autori colti, che vivono e operano nelle corti feudali del Nord della Francia. Sono concepiti per intrattenere un pubblico raffinato di dame e cavalieri, del quale rispecchiano i valori e di cui ritraggono le abitudini e le occasioni della vita comunitaria, come il banchetto, la festa, il torneo. Mentre le chansons de geste sono destinate a una trasmissione orale, queste opere sono invece composte per la lettura, sia quella collettiva (pur sempre però all’interno dell’ambiente ristretto della corte) sia, più propriamente, quella individuale e silenziosa, magari nelle stanze private di qualche dama del castello. L’ideale cortese: un’immagine idealizzata del cavaliere e della figura femminile Attraverso i romanzi cavallereschi (e anche grazie alla lirica trobadorica) la cultura francese elabora un prestigioso modello culturale, quello “cortese”, sul quale si formerà l’“educazione sentimentale” delle classi colte in Europa e che rimarrà dominante per secoli anche in contesti del tutto diversi da quello delle corti feudali dove nacque (➜ SCENARI, PAG. 18). In origine l’ideale cortese è strettamente legato al mondo della cavalleria feudale ed è incentrato da una parte sull’esaltazione del coraggio, della lealtà, della liberalità (generosità nel dare) e dall’altra su un omaggio galante verso la donna, che riproduce sostanzialmente la dinamica dei rapporti di vassallaggio interni alla corte feudale. La “materia antica” Alcuni romanzi cavallereschi rielaborano temi e personaggi della storia e della letteratura antiche (la cosiddetta “materia antica” o “classica”), trasformandoli sulla base delle attese dei lettori e adattandoli alla mentalità e al gusto medievale per il “meraviglioso”: ne sono esempi il Romanzo di Troia, il Romanzo di Enea e il Romanzo di Tebe (composti tra il 1155 e il 1165).

Un cavaliere giura fedeltà alla donna amata, miniatura dal Codice Manesse (Heidelberg, Biblioteca universitaria).

Il romanzo cortese-cavalleresco 2 67


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Per approfondire La leggenda di re Artù e la sua fortuna

La “materia di Bretagna” I romanzi cavallereschi più noti attingono però non all’antichità classica ma alla cosiddetta “materia bretone” o “arturiana”. La fonte principale a cui fanno riferimento le varie narrazioni è La storia dei re di Britannia [Historia regum Britanniae] di Goffredo di Monmouth (tradotta in francese nel 1155): essa narra in modo romanzesco le imprese del leggendario re Artù e dei cavalieri della Tavola rotonda, cavalieri erranti in cerca di onore, gloria, avventure, tra i quali spiccano personaggi famosi come Lancillotto e Perceval. Sempre di origine bretone, ma non legata alla corte di re Artù, è la leggenda di un altro famosissimo cavaliere, Tristano.

2 I romanzi di Chrétien de Troyes Il più importante interprete della materia bretone Chrétien de Troyes, attivo tra il 1160 e il 1190, è considerato il più grande scrittore medievale prima di Dante. Originario della Champagne, probabilmente un chierico, svolse la maggior parte della sua attività alla corte di Maria di Champagne. Non si sa quale ruolo vi ricoprisse. Di lui ci sono rimasti cinque romanzi cavallereschi in versi, incentrati sulla “materia bretone”: nell’ordine, Erec et Enide (Erec e Enide), Cligès, Lancelot ou Le chevalier à la charrette (Lancillotto o Il cavaliere della carretta), incompiuto e completato da altri, Yvain ou Le chevalier au lion (Ivano o Il cavaliere del leone), Perceval ou Le conte du Graal (Perceval o Il racconto del Graal), rimasto incompiuto per la morte dell’autore e continuato da altri (➜ T5 OL). Il codice cortese dell’amore Largo spazio ha nei romanzi di Chrétien il tema amoroso, indagato con grande finezza psicologica e con una visione sfaccettata e problematica: l’amore è comunque sempre concepito, secondo il codice “cortese”, come dedizione assoluta, “servizio”, anche se si tratta dell’amore coniugale (Erec e Enide, Cligès). Il romanzo che più di tutti traduce gli imperativi dell’amore cortese riguarda però un amore adultero, quello di Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di re Artù, che induce l’eroe a rinunciare per lei persino al suo onore di cavaliere. La scena del bacio tra Ginevra e Lancillotto ispirerà a Dante il celebre episodio di Paolo e Francesca nel quinto canto dell’Inferno. L’opera forse più nota di Chrétien, Perceval, non è incentrata sul tema amoroso ma su un cammino di iniziazione e perfezionamento morale-religioso, in cui ha un ruolo rivelatore la misteriosa immagine del Graal. La trama Nel romanzo il giovane Perceval viene allevato nella foresta dalla madre, che intende così impedire che possa morire in battaglia come il padre e i fratelli. Ma Perceval, affascinato dall’incontro con alcuni cavalieri, decide di abbandonare la madre (che morirà di dolore) per recarsi alla corte di re Artù e diventare cavaliere. Nella sua educazione cavalleresca conosce l’amore e sperimenta l’arte delle armi, ma gli manca ancora l’iniziazione alla fede. In un punto chiave del romanzo Perceval, dopo varie avventure e peregrinazioni, giunge al castello del re Pescatore, che lo ospita. Nella sala del castello assiste a una sorta di misteriosa processione, in cui compare una preziosa coppa, il Graal, il cui significato non gli viene svelato. La sua apparizione comunque ha un ruolo centrale nella vicenda e allude al processo di perfezionamento di Perceval, all’assunzione, che egli dovrà compiere, di una elevata coscienza morale per riscattare i suoi errori.

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3 I temi: avventure e amori L’avventura del cavaliere cortese: un cammino di formazione Anche nei romanzi cavallereschi si ritrovano i valori che caratterizzano l’epica carolingia (l’esaltazione del valore e della lealtà), ma qui non sono finalizzati a un ideale collettivo, bensì sono espressione dello spirito d’avventura del singolo cavaliere, della sua volontà di mettersi alla prova per conquistare un’ideale perfezione. Per comprendere il senso dell’avventura cavalleresca è significativa questa definizione che di sé e della sua “ricerca” dà il cavaliere Calogrenant a un contadino nell’Ivano di Chrétien de Troyes: «Io sono, lo vedi, un cavaliere che cerca ciò che non può trovare: molto ho cercato e nulla trovo». «E che vorresti trovare?» «Avventura, per esercitare la mia prodezza e il mio ardimento». L’“avventura” dei romanzi cavallereschi ha quindi ben poco a che vedere con l’accezione moderna del termine (presente già nell’Orlando furioso), cioè l’irrompere casuale dell’imprevisto e dell’eccezionale nella vita dei personaggi. Per i personaggi dei romanzi cavallereschi l’avventura è invece la “norma” della loro esistenza, l’elemento fondante la loro stessa natura di cavalieri cortesi. Fondamentale ingrediente dei romanzi cavallereschi è il tema della quête, della “ricerca”: è infatti per cercare qualcuno o qualcosa che l’eroe affronta l’avventura, varcando la frontiera dell’ignoto e avventurandosi persino entro i confini della “terra proibita” (come il reame di Gorre nel Lancelot di Chrétien). Come accade nelle fiabe, nel suo peregrinare l’eroe attraversa luoghi-emblema – la selva labirintica, il castello, la fonte magica e altri ancora – e affronta ostacoli e prove “iniziatiche” che prevedono spesso l’incontro con esseri mostruosi o magici; i luoghi e gli spazi sono irreali e fiabeschi e la stessa dimensione temporale è indeterminata. La centralità del tema amoroso A differenza dell’epica carolingia, nei romanzi cavallereschi è centrale l’esperienza d’amore che rimanda, come nella lirica trobadorica, al modello dell’“amore cortese”, vero e proprio codice di comportamento di una società elitaria e raffinata: l’amore (per lo più extraconiugale) è concepito come attrazione fisica e al tempo stesso sentimento profondo, dedizione assoluta all’amata, che stimola nel cavaliere un processo di ingentilimento e perfezionamento interiore (➜ C4). Celebri sono gli amori “extraconiugali” (sul cui significato si veda De amore di Andrea Cappellano, (➜ T8 ) di Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di Artù, e soprattutto di Tristano per Isotta, moglie di re Marco. Le tecniche narrative La struttura narrativa del romanzo cortese è tendenzialmente “aperta”: le avventure si moltiplicano, creando per germinazione nuove narrazioni e storie parallele, che potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Viene comunque sempre sottolineata la continuità tra le vicende, la loro concatenazione in una “serie” dominata dal principio della causalità, a differenza del discorso epico, in cui la vicenda si dispiega in quadri in un certo senso autonomi tra di loro e caso mai collegati da ripetizioni e parallelismi. Inoltre nei romanzi cortesi l’intreccio tende a organizzarsi attorno a un protagonista, della cui storia focalizza i momenti salienti, le tappe di una progressiva formazione.

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La leggenda di Tristano e Isotta e il tema della passione fatale La vicenda dell’amore di Tristano e Isotta è ispirata a leggende celtiche. Della leggenda circolarono diverse versioni, alcune delle quali ci sono pervenute frammentarie: le due più importanti, in versi, sono il Tristan di Béroul e il Tristan di Thomas, e altre sono andate perdute (come quella di Chrétien de Troyes). L’enorme successo che la storia di Tristano ebbe nel Medioevo è legato a un’anonima versione in prosa, compilata intorno al 1230 e tradotta in molte lingue europee. La fortuna della leggenda in Italia è testimoniata in particolare dal Tristano Riccardiano, sostanzialmente una traduzione della prima parte del Roman de Tristan e dalla Tavola rotonda, che attinge episodi da Thomas. Una ricostruzione della complessa vicenda Dopo mirabili prodezze l’orfano Tristano, nipote del re di Cornovaglia Marco, ha conquistato Isotta, la bionda principessa irlandese, perché lo zio possa sposarla. Sulla nave che li riconduce in Cornovaglia i due giovani bevono per errore il filtro che avrebbe dovuto legare re Marco e Isotta di un amore profondo. Ormai Tristano e Isotta si ameranno. Re Marco sposa Isotta, ma un giorno, nonostante le precauzioni dei due amanti, li sorprende e li condanna. Tristano e Isotta riescono però a fuggire e a rifugiarsi nella foresta di Morrois. Qui vengono scoperti dal re che, commosso dal loro casto atteggiamento (riposano fianco a fianco ma separati dalla spada di Tristano) lascia la propria spada e l’anello di nozze e se ne va senza svegliarli. Colpiti da tanta clemenza i due giovani decidono di separarsi: Isotta ritorna a corte e Tristano si esilia in Armorica, dove sposa Isotta dalle bianche mani. Non dimentica tuttavia la regina e, travestito

I generi letterari dell’età cortese IL ROMANZO CORTESE-CAVALLERESCO

GENERE

romanzo cavalleresco in versi o in prosa

LUOGO

Nord della Francia

TEMPO

XII secolo

LINGUA

d’oïl

STILE

raffinato

CONTENUTO DIFFUSIONE OPERE/AUTORI TEMI

• “materia classica”

• “materia di Bretagna”

destinato a essere letto Lancillotto e Perceval di Chrétien de Troyes lealtà verso il signore, coraggio, generosità e amor cortese

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online

Verso il Novecento La fortuna del mito di Tristano e Isotta

da lebbroso, da mendicante, da pazzo, torna ogni tanto in Cornovaglia per brevi incontri con l’amata. Nel corso di un combattimento Tristano è ferito a morte. Solo la regina Isotta potrebbe guarirlo. Il messaggero che la va a cercare concorda con Tristano un segnale: se Isotta avrà accettato di venire, la nave, al ritorno, isserà la vela bianca; isserà la vela nera se Isotta avrà rifiutato. Ma Isotta arriva troppo tardi. Tristano è morto, ingannato dalla moglie che gli ha annunciato che la vela era nera. La bionda regina muore di dolore sul corpo dell’amato. La tragica vicenda di Tristano e Isotta ha esercitato una grande suggestione nella letteratura occidentale. Il mito della passione fatale e l’associazione Amore-Morte affascinerà particolarmente la cultura romantica. Il personaggio di Tristano figura già nella Commedia: nel canto di Paolo e Francesca (If V) Dante inserisce i due amanti adulteri in un gruppo di spiriti in cui l’esperienza d’amore si è coniugata con la morte. Tra di essi spiccano celebri personaggi della letteratura, da quella classica (la Didone virgiliana) a quella romanza (Tristano appunto).

Fissare i concetti L’epica cristiana, le chansons de geste e il romanzo cortese–cavalleresco 1. Quali sono le caratteristiche tematiche e formali delle chansons de geste? 2. Di che cosa tratta la Chanson de Roland? 3. Che cosa significa in origine la parola “romanzo”? 4. Che cosa si intende per “materia bretone”? 5. A quale pubblico si rivolgono i romanzi cavallereschi? E quale tipologia di lettore richiedono? 6. Quale ruolo e quali caratteri assume l’avventura nei romanzi cavallereschi?

Chrétien de Troyes

T4

Lancillotto affronta la prova del ponte della spada Lancillotto o Il Cavaliere della Carretta

A. Roncaglia, Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, Nuova Accademia, Milano 1961

Del Lancelot, che Chrétien lasciò incompiuto (fu terminato da altri), è nota la storia dell’amore adultero del cavaliere Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di re Artù, ricordato anche da Dante in un celebre passo dell’Inferno. Nel romanzo in realtà il tema centrale è quello della quête (o queste), ovvero della ricerca di Ginevra, rapita dal malvagio Meleagant, che porta Lancillotto ad affrontare nella terra proibita, il reame di Gorre, la prova del “ponte della spada”.

In capo al ponte ch’è perigliosissimo, sono smontati1 dai loro cavalli, e vedono giù l’acqua minacciosa, rapinosa e crosciante, oscura e gonfia, 5 orrida e spaventevole così come se fosse il fiume del demonio2, 1

sono smontati: Lancillotto e altri due cavalieri.

e tanto piena d’insidie e profonda che non v’è in tutto il mondo creatura, se vi cadesse, non fosse spacciata 10 non altrimenti che nel salso mare. Ed il ponte ch’è posto a traversarla era da tutti gli altri sì diverso

2 il fiume del demonio: il fiume turbinoso è paragonato alle acque dell’Acheronte, il fiume infernale.

Il romanzo cortese-cavalleresco 2 71


che mai non fu, né mai sarà altrettale3. Giammai non fu, chi me ne chiede il vero, 15 ponte sì periglioso, o passerella: d’una spada forbita e rilucente fatto era il ponte sopra l’acqua gelida; ma forte e resistente era la spada e aveva la lunghezza di due lance. 20 A ciascuno dei capi stava un ceppo nel quale conficcata era la spada. Non tema alcuno che mai vi precipiti perché l’acciaio si spezzi o si pieghi, giacché era tanta la sua robustezza 25 che poteva gran pesi sopportare. Ma questo ancora molto disconforta entrambi i cavalieri che là stavano insieme al terzo: che loro pareva che due leoni, ovvero due leopardi, 30 in capo al ponte, sopra l’altra sponda, fossero incatenati ad un pilastro. [I due cavalieri rivolgono a Lancillotto un discorso ispirato a prudenza, con il quale tentano di dissuaderlo dall’impresa di attraversare il ponte.] «Signori, molte grazie, che per me tanto vi preoccupate: ciò nasce in voi da sincera amicizia. 35 Sono ben certo che per nessun modo vorreste la mia perdita. Ma io tal fede e tal fiducia ho in Dio ch’egli mi scamperà d’ogni periglio. Questo ponte non temo né quest’acqua 40 più ch’io non tema questa terra solida; anzi voglio tentare l’avventura d’attraversarlo e di venirne a capo. Preferisco morire che ritrarmene4». Essi non sanno più che cosa dirgli, 45 ma l’uno e l’altro di pietà sospira e piange assai.

3 altrettale: uguale. 4 anzi... ritrarmene: viene qui esplicitamente enunciata l’etica del cavaliere, lo sprezzo del pericolo e l’indomito spirito d’avventura che lo spinge a cimentarsi con le prove più difficili.

A traversare l’acque vorticose quegli come sa meglio s’apparecchia, e fa cosa stranissima e mirabile: 50 i suoi piedi disarma e le sue mani. Non sarà certo sano e senza piaga, quando sarà arrivato all’altra sponda; ma sulla spada avrà potuto reggersi, che ancor più d’una falce era tagliente, 55 a piedi scalzi e con le mani ignude, ché non aveva conservato al piede scarpa né calza né benda alle dita. Non si turbava punto egli del fatto di doversi piagare mani e piedi; 60 ma preferiva coprirsi di piaghe piuttosto che cadere giù dal ponte nell’acqua, che non gli darebbe scampo. Con grande pena, come gli riuscì, traversa il ponte, e con molta destrezza. 65 Mani e ginocchi e piedi si ferisce, ma lo conforta e gli dà vigorìa amore che lo guida e lo conduce, sì ch’ogni cosa a soffrire gli è dolce5. Con le mani, coi piedi e coi ginocchi, 70 tanto fa che raggiunge l’altra sponda. Si risovviene allora e si ricorda dei due leoni che gli era sembrato vedere quando stava dall’altra parte, e si guarda d’attorno, 75 e non vede nemmeno una lucertola, nulla insomma che possa fargli male6. Porta allora la mano innanzi al viso ed osserva il suo anello ed ha la prova, non trovando nessuno dei leoni 80 che già gli era sembrato di vedere, ch’era stato ingannato da incantesimo, ché là non c’era creatura viva. Quei ch’erano rimasti all’altra riva nel veder come è riuscito a passare 85 fanno tal gioia com’era ben giusto7.

5

amore... dolce: è appunto l’amore per la regina Ginevra, che rende dolce persino la sofferenza. 6 Si risovviene... male: come nelle fiabe, il pericolo dei due animali svanisce di fronte al risoluto coraggio dell’eroe.

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7

fanno... ben giusto: si rallegrano come era giusto che fosse.


Analisi del testo L’avventura come strumento di affermazione delle virtù cavalleresche Nei romanzi cortesi l’avventura non è un elemento narrativo introdotto per avvincere i lettori, ma è una dimensione costitutiva dello stesso ideale cortese. Le virtù cortesi che contraddistinguono il cavaliere non sono infatti qualità innate, ma vengono affermate proprio per mezzo delle prove in cui il cavaliere esercita ed affina la sua volontà, il suo coraggio. Già nelle narrazioni antiche esistevano descrizioni di situazioni pericolose, di forze magiche che minacciavano l’uomo, e non mancavano eroi capaci di sfidare il pericolo e vincere su avversari temibili grazie alla loro forza o alla loro astuzia: ma certo è un fatto nuovo, come ha sottolineato Auerbach, che la perfezione del cavaliere si affermi proprio per mezzo dell’avventura. Da qui la presenza ricorrente degli incontri rischiosi che mettono alla prova il cavaliere.

Il carattere iniziatico della prova L’episodio riprodotto è fondato su ingredienti tradizionali della materia epica: il ponte da attraversare custodito da una creatura mostruosa e temibile costituisce una situazione topica, ma qui viene particolarmente enfatizzato il carattere iniziatico della prova, in cui si dimostra il valore e il coraggio dell’eroe. La descrizione dell’acqua e del ponte è realizzata con parole che alludono al freddo, alla profondità e al pericolo.

Rolando e Lancillotto L’ostinazione di Lancillotto nel voler attraversare il ponte nonostante i pericoli, non ascoltando i suoi compagni, ricorda la “follia” di Orlando a Roncisvalle, quando incurante del pericolo decide di non chiamare in aiuto Carlo Magno. Rolando non vuole assolutamente rinunciare a svolgere il proprio compito di cavaliere fedele; Lancillotto è spinto dall’amore per la propria dama tanto da non sentire dolore quando approda dall’altra parte del ponte ferito.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che modo Lancillotto risponde ai suoi compagni che cercano di dissuaderlo dall’impresa? 2. Quale immagine spaventa di più i compagni di Lancillotto? TECNICA NARRATIVA 3. Suddividi il testo in sequenze, dai a esse un titolo e sintetizzane il contenuto. ANALISI 4. Quale funzione ha l’anello? Ti sembra che Lancillotto abbia fatto affidamento sul suo aiuto? LESSICO 5. Con quali aggettivi è definita l’acqua? Quale effetto vuole procurare il narratore con l’uso di questi aggettivi?

Interpretare

SCRITTURA 6. Quali sono le qualità del perfetto cavaliere cortese attribuite a Lancillotto e che puoi ricavare dal testo? Ci sono differenze tra i cavalieri delle chansons de geste e quelli del romanzo cortese-cavalleresco?

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T5 Chrétien de Troyes

Interpretazioni critiche a confronto

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L’apparizione del sacro Graal Perceval

T6 Tristano Riccardiano

Il fatale innamoramento di Tristano e Isotta

E. Auerbach L’antirealismo dell’ideale cavalleresco F. Cardini L’avventura cavalleresca come metafora di esigenze/esperienze reali

Sguardo sul cinema I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone

Lancillotto che attraversa il “ponte della spada”, miniatura da un manoscritto per Jacques d’Armagnac, duca di Nemours. Laboratorio di Evrard d’Espinques, 1475 ca. (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

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Thomas

T7

La morte di Tristano e Isotta Tristan

La poesia dell’età cortese, a cura di A. Roncaglia, Sansoni-Accademia, Milano 1961

Della tragica fine dei due celebri amanti esistono diverse versioni: proponiamo quella di Thomas, poeta anglo-normanno, autore del Tristan (1170 circa), un poema di cui ci è pervenuta solo una parte limitata.

La vela bianca hanno issato. E a gran forza veleggiano, finché Caerdino avvista la Bretagna. Allora son gioiosi, allegri e lieti, 5 e issano la vela bene in alto che da lungi si possa riconoscere quale essa sia, la bianca o la nera: da lontano vuol mostrarne il colore perché s’era all’ultimo giorno 10 che Tristano aveva fissato come termine quando partirono dal paese. Mentre essi navigano felicemente, si leva la bonaccia e cade il vento sì che non possono più veleggiare. 15 Il mare è tranquillissimo e liscio: la nave non va né in qua né in là, se non quanto l’onda la sposta, né hanno scialuppa. Ora è grande l’angoscia. 20 Dinanzi a loro, vicina vedono la terra e non hanno vento con cui possano raggiungerla. Su e giù vanno dondolando, ora indietro e poi avanti. Non possono proseguire il loro cammino, 25 Vengono a trovarsi in grandissimo impaccio. Isotta n’è molto addolorata: vede la terra che ha tanto desiderata e non vi può approdare; per poco non muore dal desiderio. 30 Terra desiderano sulla nave, ma il vento spira troppo lene1. Spesso Isotta si chiama sventurata. La nave desiderano sulla riva: ancora non l’avevano avvistata.

1

lene: lieve, leggero.

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Tristano n’è dolente e infelice, sovente si lagna, sovente sospira per Isotta che tanto desidera, piange dagli occhi e si tormenta, per poco non muore dal desiderio. 40 In quell’angoscia, in quel cruccio, viene dinanzi a lui sua moglie Isotta2. Intesa al3 grande inganno che ha meditato, gli dice: «Amico, arriva Caerdino. Ho visto in mare la sua nave, 45 a fatica l’ho veduta navigare, tuttavia l’ho veduta sì che per sua l’ho riconosciuta. Dio conceda che porti tal novella4 di cui nel cuore abbiate conforto!». 50 All’annuncio Tristano ha un soprassalto, dice a Isotta: «Cara amica, siete sicura che è proprio la sua nave? Or ditemi: quale è la vela?». Così dice Isotta: «Sono sicura; 55 sappiate che la vela è tutta nera: l’hanno issata e levata su in alto, perché manca loro il vento». Allora Tristano ha sì gran dolore, che più grande non ebbe mai né avrà, 60 e si volta verso la parete, e dice: «Dio salvi Isotta e me! Poiché a me non volete venire, per vostro amore debbo morire. Io non posso più durare la vita5, 65 per voi muoio, Isotta, cara amica. Non avete pietà del mio languire, ma della mia morte avrete dolore. Questo m’è, amica, gran conforto, Che avrete pietà della mia morte». 70 «Amica Isotta!» tre volte ha esclamato, alla quarta rende lo spirito6. Allora piangono per la casa i cavalieri, i compagni. Il clamore è alto, il pianto grande. 75 Accorrono cavalieri e serventi e lo traggon fuori dal suo letto [...] 35

2 sua moglie Isotta: Isotta “dalle bianche mani” era la sposa di Tristano.

3 Intesa al: decisa a portare avanti il. 4 novella: notizia.

5

durare la vita: continuare a vivere (senza di lei). 6 rende lo spirito: muore.

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[Nel frattempo il vento si leva e la nave approda. Isotta la Bionda sente suonare le campane, un vecchio le annuncia la morte del prode Tristano. Annientata dalla tragica notizia, Isotta corre ad abbracciare l’amato.] Isotta corre là dove scorge la salma, si volge verso oriente, Prega piamente per lui: «Amico Tristano, dal momento che morto vi vedo, è ben ragione ch’io non debba più vivere! Siete morto per il mio amore, 115 E io muoio, amico, di tenerezza, Poiché a tempo non potei giungere voi e il vostro male a guarire. Amico, amico, per la vostra morte non avrò mai di nulla conforto, 120 gioia, letizia, né piacere alcuno. Quel maltempo7 sia maledetto, che tanto mi fece, amico, in mare tardare, sì ch’io non potei giungere. Se io fossi a tempo arrivata, 125 la vita v’avrei ridata, e dolcemente parlato con voi dell’amore ch’è stato tra noi; rimpianta avrei la nostra sorte, la nostra gioia, il nostro piacere, 130 e la pena e il gran dolore ch’è stato nel nostro amore, tutto ciò avrei ricordato e baciato v’avrei e abbracciato. Ma se io non v’ho potuto guarire, 135 che insieme dunque possiamo morire! Dal momento che non potei giungere in tempo e non seppi quel ch’era accaduto, e son giunta alla vostra morte, dello stesso filtro avrò conforto8. 140 Per me avete perduto la vita, ed io farò come verace amica: per voi del pari voglio morire». Lo abbraccia e s’abbandona distesa, gli bacia la bocca ed il viso 145 e strettamente a sé lo stringe, corpo a corpo, bocca a bocca, s’abbandona, 110

7

Quel maltempo: allude all’assenza di vento (bonaccia) che ha rallentato la nave.

8 dello stesso filtro avrò conforto: Isotta allude al filtro che li ha fatti innamorare (➜ T6 OL ) ora però diventato strumento di morte.

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il suo spirito allora rende, e muore così al suo fianco Per il dolore del suo amico. 150 Tristano è morto per il suo desiderio, Isotta perché in tempo non poté giungere; Tristano è morto per suo amore e la bella Isotta di tenerezza.

Analisi del testo La morte dei due amanti Tristano, ferito a morte da un’arma avvelenata, attende Isotta, che sola potrebbe guarirlo perché esperta di erbe capaci di guarire. Il fedele Caerdino, che è stato inviato da Tristano a prendere Isotta nel suo paese lontano, ha convenuto con Tristano di innalzare la vela bianca come segno che Isotta è stata ritrovata e sta giungendo con la nave. Quando la nave è ormai prossima all’approdo, il vento cade e il corso della nave è inevitabilmente rallentato. Si crea così un’atmosfera di angosciosa attesa sia sulla nave sia a terra, dove Tristano attende spasmodicamente l’arrivo di Isotta. Finalmente la nave è in vista, ma Isotta dalle bianche mani, la moglie di Tristano, ingannando lo sposo per gelosia, gli annuncia che la nave issa una vela nera. A questa notizia, disperando ormai di rivedere l’amata Isotta, Tristano si abbandona volutamente alla morte. Giunta troppo tardi, anche Isotta muore di dolore, unita a Tristano in un supremo abbraccio d’amore.

Il mito letterario dell’amore infelice In un suo celebre saggio (L’amore e l’Occidente, 1939) Denis de Rougemont (1906-1985) sviluppa una personale interpretazione del mito di Tristano e Isotta e sottolinea il ruolo fondamentale (secondo lui essenzialmente negativo) da esso esercitato nella letteratura occidentale. Capostipite di tutta la letteratura d’amore dell’Occidente, il romanzo di Tristano e Isotta è uno dei principali responsabili della costruzione dell’«amore su base negativa», dove ciò che conta (ciò che “fa amore”) è la tensione, l’ostacolo e l’irraggiungibilità, l’“assenza” della creatura amata. È una forma d’amore per certi aspetti patologica, commista di sofferenza e votata oscuramente alla morte. Scrive De Rougemont a proposito dell’amore di Tristano e Isotta: «Ciò che essi [Tristano e Isotta] amano è l’amore, è il fatto stesso d’amare. Ed agiscono come se avessero capito che tutto ciò che s’oppone all’amore lo garantisce e lo consacra nel loro cuore, per esaltarlo all’infinito nell’istante dell’abbattimento dell’ostacolo, che è la morte. Tristano ama di sentirsi amato, ben più che non ami Isotta la bionda. E Isotta non fa nulla per trattenere Tristano presso di sé: le basta un sogno appassionato. Hanno bisogno l’uno dell’altro per bruciare, ma non dell’altro come realtà; e non della presenza dell’altro, ma piuttosto della sua assenza!

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Dividi il brano in sequenze, indica un titolo appropriato e sintetizza il contenuto di ciascuna sequenza. COMPRENSIONE 2. Qual è il ruolo della moglie di Tristano nella tragica vicenda narrata? ANALISI 3. La morte dei due amanti è preceduta da due monologhi (due dialoghi con l’amata/amato), più breve quello di Tristano, più lungo quello di Isotta. Analizzali evidenziando come in entrambi i casi l’amore, proprio perché irrealizzabile, si associ alla morte, rappresentata come scelta obbligata.

Interpretare

SCRITTURA 4. Immagina di essere stato testimone della morte dei due innamorati e scrivi un breve testo narrativo (max 20 righe) che fornisca una cronaca dell’episodio.

Il romanzo cortese-cavalleresco 2 77


VERSO IL NOVECENTO

La rivisitazione novecentesca della materia epico-cavalleresca

John R.R. Tolkien La riproposta dell’epica medievale per una società prosaica J.R.R. Tolkien, Il Signore degli anelli, trad. di V. Alliata di Villafranca, Rusconi, Milano 1977, cit. da P. Zanotti, Il modo romanzesco, Laterza, Roma-Bari 1998

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Nel suo best seller Il Signore degli anelli (1954-55), John R.R. Tolkien (1892-1973), un professore di Oxford studioso di fiabe e racconti mitologici, ha tentato di far rivivere il fascino delle storie medievali. Sulla scia del successo del suo libro è nato il genere fantasy, in cui si muovono esseri umani e non umani, in mondi paralleli di dimensioni meravigliose, s’incontrano oggetti magici e i personaggi seguono percorsi che li portano, attraverso avventure e prove, a una personale maturazione, proprio come gli eroi del romanzo medievale. Tolkien era un appassionato cultore della mitologia celtica e uno studioso delle lingue e letterature medievali anglosassoni. Il suo obiettivo, scrivendo Il Signore degli anelli, era quello di riportare in vita per sé e per i suoi amici una narrativa epico-fantastica come quella appunto medievale, un genere ormai scomparso. Come egli stesso ebbe a dire, cercava di «modernizzare i miti e renderli credibili», di proporre un’epica moderna in una società prosaica che aveva ormai smarrito il contatto con la dimensione epico-fantastica. Come i romances medievali, anche Il Signore degli anelli è un’opera complessa: in essa s’intrecciano motivi fiabeschi con trame di poemi cavallereschi, rivivono ambienti magici e personaggi mitologico-fantastici (hobbit, elfi, stregoni, nani, draghi ecc.) e ricorre il tipico motivo della quête (in due diverse versioni, quella di Frodo e quella di Aragorn). I vari episodi ruotano attorno all’eterno tema della lotta tra bene e male all’interno di un sistema di valori prettamente cavalleresco-religiosi. Tolkien non si limita a proporre la dimensione epico-cavalleresca a livello tematico, ma tenta anche di ricreare il fascino di una lingua “epica”, che egli costruisce attraverso le sue conoscenze filologiche di gran parte delle lingue romanze. Ecco un brevissimo esempio del “clima” epico-fantastico presente nel romanzo.

Su tutte le colline circostanti infuriavano gli eserciti di Mordor. I Capitani dell’Ovest venivano sommersi da flutti sempre più impetuosi. Il sole ardeva rosso, e sotto le ali dei Nazgûl le ombre della morte si proiettavano nere sulla terra. Aragorn si ergeva accanto al suo vessillo, silenzioso e severo, come perduto nel ricordo di cose remote o distanti; ma i suoi occhi brillavano come stelle che sfavillano con maggiore intensità a mano a mano che la notte s’infittisce. In cima al colle era Gandalf, bianco e freddo e nessun’ombra cadeva su di lui. L’assalto di Mordor irruppe come un’immensa ondata sulle colline assediate, e le voci ruggivano come una marea che sale fra boati e fragore. Come se ai suoi occhi fosse improvvisamente apparsa una visione, Gandalf trasalì: si voltò a guardare verso nord, dove i cieli erano limpidi e pallidi. Poi alzò le mani e gridò con voce possente che sovrastava ogni altro rumore: Arrivano le Aquile! Il successo de Il Signore degli anelli fu incredibile, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, quando il libro fu pubblicato negli Stati Uniti in edizione economica. Lo stesso Tolkien non riusciva a capacitarsi di come un’operazione nata quasi per sfida in un gruppo ristretto di amici avesse potuto suscitare tanto interesse. Di certo disapprovava le colorazioni politiche che gli venivano attribuite: da un lato la sua opera fu considerata un’operazione regressiva, di stampo reazionario, dall’altro divenne una lettura di culto per gli studenti che protestavano contro la società del benessere e per gli hippies che cercavano modi di vita alternativi. Essi videro in Tolkien una sorta di profeta e nel popolo degli hobbit la testimonianza di una scelta di vita arcaica, semplice e vicina alla natura.

78 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale


Italo Calvino Sotto l’armatura niente I. Calvino, Il cavaliere inesistente, Mondadori, Milano 2011

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Sicuramente ispirata a un’ottica diversa o addirittura di segno opposto è la rivisitazione dell’epica cavalleresca compiuta da Calvino nel romanzo Il cavaliere inesistente (1959), che appartiene – insieme a Il visconte dimezzato (1952) e a Il barone rampante (1957) – alla trilogia I nostri antenati: non c’è in Calvino alcuna fiducia nella possibilità di riproporre valori e tematiche epiche, ma il codice cavalleresco è usato con consapevole distanza ironica. Quelle che seguono sono le pagine iniziali del primo capitolo del romanzo di Calvino. L’autore immagina che Carlo Magno al solito passi in rassegna i paladini che guidano le sue armate e lo servono fedelmente da anni. Tutto si ripete secondo uno stanco rituale, ma l’ultimo cavaliere della fila non risponde al solito cliché: dentro l’armatura di Agilulfo, il “cavaliere inesistente”, non c’è nessuno. È evidente la prospettiva ironica del testo.

Finalmente ecco, lo scorsero che avanzava laggiù in fondo, Carlomagno, su un cavallo che pareva più grande del naturale, con la barba sul petto, le mani sul pomo della sella. Regna e guerreggia, guerreggia e regna, dài e dài, pareva un po’ invecchiato, dall’ultima volta che l’avevano visto quei guerrieri. 5 Fermava il cavallo a ogni ufficiale e si voltava a guardarlo dal su in giù. – E chi siete voi, paladino di Francia? – Salomon di Bretagna, sire! – rispondeva quello a tutta voce, alzando la celata e scoprendo il viso accalorato; e aggiungeva qualche notizia pratica, come sarebbe: – Cinquemila cavalieri, tremilacinquecento fanti, milleottocento i servizi, cinque anni 10 di campagna. – Sotto coi brètoni, paladino! – diceva Carlo, e toc-toc, toc-toc, se ne arrivava a un altro capo di squadrone. – Ecchisietevòi, paladino di Francia? – riattaccava. – Ulivieri di Vienna, sire! – scandivano le labbra appena la griglia dell’elmo s’era 15 sollevata. E lì: – Tremila cavalieri scelti, settemila la truppa, venti macchine da assedio. Vincitore del pagano Fierabraccia, per grazia di Dio e gloria di Carlo re dei Franchi! – Ben fatto, bravo il viennese, – diceva Carlomagno, e agli ufficiali del seguito: – Magrolini quei cavalli, aumentategli la biada. – E andava avanti: – Ecchisietevòi, 20 paladino di Francia? – ripeteva, sempre con la stessa cadenza: «Tàtta-tatatài-tàtatàta-tatàta...» – Bernardo di Montpellier, sire! Vincitore di Brunamonte e Galiferno. – Bella città Montpellier! Città delle belle donne! – e al seguito: – Vedi se lo passiamo di grado – . Tutte cose che dette dal re fanno piacere, ma erano sempre le 25 stesse battute, da tanti anni. – Ecchisietevòi, con quello stemma che conosco? – Conosceva tutti dall’arma1 che portavano sullo scudo, senza bisogno che dicessero niente, ma così era l’usanza che fossero loro a palesare il nome e il viso. Forse perché altrimenti qualcuno, avendo di meglio da fare che prender parte alla rivista, avrebbe potuto mandar lì la sua 30 armatura con un altro dentro. – Alardo di Dordona, del duca Amone... – In gamba Alardo, cosa dice il papà, – e così via. «Tàtta-tatatài-tàta-tàta-tatàta...» arma: insegna. – Gualfré di Mongioja! Cavalieri ottomila tranne i morti!

Il romanzo cortese-cavalleresco 2 79


VERSO IL NOVECENTO

Ondeggiavano i cimieri. – Uggeri Danese! Namo di Baviera! Palmerino d’lnghilterra! 35 Veniva sera. I visi, di tra la ventaglia e la bavaglia2, non si distinguevano neanche più tanto bene. Ogni parola, ogni gesto era prevedibile ormai, e così tutto in quella guerra durata da tanti anni, ogni scontro, ogni duello, condotto sempre secondo quelle regole, cosicché si sapeva già oggi per domani chi avrebbe vinto, chi perso, chi sarebbe stato eroe, chi vigliacco, a chi toccava di restare sbudellato e chi se la 40 sarebbe cavata con un disarcionamento e una culata in terra. Sulle corazze, la sera al lume delle torce i fabbri martellavano sempre le stesse ammaccature. – E voi? – Il re era giunto di fronte a un cavaliere dall’armatura tutta bianca; solo una righina nera correva torno torno ai bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto, sormontata sull’elmo da un pennac45 chio di chissà che razza orientale di gallo, cangiante d’ogni colore dell’iride. Sullo scudo c’era disegnato uno stemma tra due lembi d’un ampio manto drappeggiato, e dentro lo stemma s’aprivano altri due lembi di manto con in mezzo uno stemma più piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato3 più piccolo ancora. Con disegno sempre più sottile era raffigurato un seguito di manti che si schiudevano 50 uno dentro l’altro, e in mezzo ci doveva essere chissà che cosa, ma non si riusciva a scorgere, tanto il disegno diventava minuto. – E voi lì, messo su così in pulito... – disse Carlomagno che, più la guerra durava, meno rispetto della pulizia nei paladini gli capitava di vedere. – Io sono, – la voce giungeva metallica da dentro l’elmo chiuso, come fosse non 55 una gola ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare, e con un lieve rimbombo d’eco, – Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez! – Aaah... – fece Carlomagno e dal labbro di sotto, sporto avanti, gli uscì anche un piccolo strombettio, come a dire: «Dovessi ricordarmi il nome di tutti, starei fre60 sco!» Ma subito aggrottò le ciglia. – E perché non alzate la celata e non mostrate il vostro viso? Il cavaliere non fece nessun gesto; la sua destra inguantata d’una ferrea e ben con2 la ventaglia e nessa manopola si serrò più forte all’arcione, mentre l’altro braccio, che reggeva lo la bavaglia: sono scudo, parve scosso come da un brivido. due parti dell’elmo: la prima, che era 65 – Dico a voi, ehi, paladino! – insisté Carlomagno. – Com’è che non mostrate la mobile, proteggeva faccia al vostro re? il viso, la seconda è la parte inferioLa voce uscì netta dal barbazzale4. – Perché io non esisto, sire. re che copriva la – O questa poi! – esclamò l’imperatore. – Adesso ci abbiamo in forza anche un bocca, con fessure e piccoli fori per cavaliere che non esiste! Fate un po’ vedere. consentire al cavaliere di respirare. 70 Agilulfo parve ancora esitare un momento, poi con mano ferma ma lenta sollevò 3 ammantato: la celata. L’elmo era vuoto. Nell’armatura bianca dall’iridescente cimiero non c’era fornito di manto. Il dentro nessuno. manto era attributo araldico di duchi e – Mah, mah! Quante se ne vedono! – fece Carlomagno. – E com’è che fate a prestar principi. servizio, se non ci siete? 4 barbazzale: p a r t e i n f e r i o r e 75 – Con la forza di volontà, – disse Agilulfo, – e la fede nella nostra santa causa! dell’elmo a visiera – E già, e già, ben detto, è così che si fa il proprio dovere. Be’, per essere uno che mobile (a protezione di mento e collo). non esiste, siete in gamba! 5 il serrafila: l’ulAgilulfo era il serrafila5. L’imperatore ormai aveva passato la rivista a tutti; voltò il timo dei paladini passati in rassegna. cavallo e s’allontanò verso le tende reali.

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La lirica provenzale 1 Una poesia “da ascoltare”: la lirica trobadorica

Lessico trovatori Il termine indica il poeta della poesia provenzale e deriva da trobar.

Lessico canto gregoriano È il canto liturgico della Chiesa cattolica latina, cantato da un coro o da un cantore senza accompagnamento musicale. Il nome deriva da Gregorio, papa dal 590 al 604 che raccolse in volume i canti liturgici.

Una poesia “d’autore” Tra la fine dell’XI secolo e la metà del XIII, nella zona meridionale della Francia denominata Occitania (dalla lingua d’oc lì utilizzata) si sviluppa la lirica trobadorica (dal provenzale trobar “trovare, inventare”, con allusione all’attività poetica del “comporre versi”) a opera dei trovatori . È significativo che i trovatori firmino per la prima volta le loro composizioni (ce ne sono pervenute ben 2542, con i nomi di circa 450 poeti) e si presentino talvolta al pubblico nel congedo delle canzoni, interrompendo quindi l’anonimato caratteristico dei primi secoli del Medioevo. Non è un caso che ci siano pervenute numerose biografie di trovatori (vidas), redatte nel XIII secolo, che accompagnano i testi insieme alle razos, note esplicative sulle occasioni che hanno originato i componimenti. Alcuni trovatori – come Guglielmo d’Aquitania, conte di Poitiers (1071-1126), Jaufré Rudel, principe di Blaye presso Bordeaux o Bertran de Born – appartenevano a famiglie di alta nobiltà; altri provenivano dalle più diverse estrazioni sociali, anche umili (come Marcabru e Bernart de Ventadorn) ed erano al servizio delle corti feudali, dove intrattenevano un pubblico di dame, cavalieri, nobili, ecclesiastici. Guglielmo d’Aquitania è il più antico dei trovatori provenzali. Potente feudatario, partecipò a due crociate (in Terrasanta e in Spagna). Presso i contemporanei aveva fama di uomo dissoluto, amante dei piaceri (per comportamenti illeciti fu anche scomunicato); anche la vida che ci è pervenuta conferma questo dato biografico. Ha lasciato 11 composizioni. Del trovatore Jaufre Rudel ben poco sappiamo (morì forse in Terrasanta durante la seconda crociata, 1147-1148). Ci sono pervenute di lui solo sei liriche, in cui domina il tema dell’“amore di lontano”. Forse proprio la ricorrenza di questo tema nella sua poesia ha ispirato la sua vida che favoleggia di un amore lontano che il poeta avrebbe realmente vissuto. Una poesia musicata e cantata La poesia trobadorica era scritta, musicata e recitata, con l’accompagnamento di uno strumento a corde, dai trovatori stessi (simili in questo ai moderni cantautori). Le composizioni scritte e musicate dai trovatori erano anche affidate ai giullari per l’esecuzione. Ci sono pervenute le notazioni musicali di 260 poesie soltanto: su questa base ristretta di testimonianze è impossibile ricostruire un modello musicale comune. Gli studiosi concordano però nel ritenere che la tecnica musicale dei trovatori fosse raffinata e complessa e che si distaccasse comunque dalla tradizione del canto gregoriano proprio della cultura della Chiesa. Un passatempo raffinato per pochi eletti La poesia provenzale inaugura una produzione letteraria svincolata da una visione pedagogico-morale della letteratura, in competizione con i temi e i valori della cultura clericale: quella trobadorica è infatti una poesia per la maggior parte amorosa e concepita come raffinato passatempo all’interno della vita di corte. La lirica provenzale 3 81


All’interno della lirica trobadorica sono presenti due diverse tendenze di stile: il trobar clus cioè “il cantar chiuso, difficile”, volutamente oscuro, caratterizzato da un’insistita presenza di figure retoriche e da un lessico raro e prezioso, come nell’opera di Arnaut Daniel, ricordato da Dante per la sua eccellenza di poeta (Pg XXVI); e il trobar leu (“il cantar dolce, piano”), una poesia più leggera e comprensibile, il cui esponente principale è Bernart de Ventadorn. Il mito dell’amore cortese: un tema chiave della cultura occidentale Anche se nella lirica trobadorica non manca la componente satirico-politica, come nei cosiddetti sirventesi, il tema centrale è l’amore, che per la prima volta viene rappresentato come un’esperienza fondamentale della vita umana. La visione dell’amore prospettata dalla poesia provenzale (in lingua d’oc la fin’amor) è totalmente nuova: l’amore è concepito come passione struggente, non priva di tratti sensuali, il poeta prova un desiderio frustrato per la donna posta su un piedestallo irraggiungibile e adorata da chi affina il proprio animo pur nella sofferenza e nella rinuncia (o forse proprio grazie a esse).

online

Per approfondire L’enigma della fin’amor

Amore cortese e modello feudale di comportamento L’identità della donna cantata dai trovatori è spesso nascosta da uno pseudonimo, il senhal (“segno” in provenzale), poiché si tratta di un amore che deve essere tenuto segreto per evitare la maldicenza e la calunnia degli invidiosi e perché la donna spesso è già sposata. Il “servizio d’amore” che lega l’innamorato alla donna, la fedeltà assoluta a lei ricorda da vicino il rapporto feudale di vassallaggio, che richiedeva al vassallo la fedeltà e l’omaggio devoto al signore: non a caso la donna è chiamata midons, “mio signore”. Nei testi trobadorici del resto vi sono così tanti parallelismi con i rituali feudali e così tanti termini giuridici di ascendenza feudale che si è arrivati a definire l’intera lirica trobadorica come una “metafora feudale” (Mancini), come se la devozione verso la donna, esaltata dai trovatori, fosse la trasposizione simbolica della sottomissione del cavaliere feudale al suo signore. L’enigma della fin’amor Nonostante i molteplici studi critici che si sono succeduti nel tempo, la fin’amor rimane un enigma. Il fatto che l’amore cortese sia un amore adultero, anche se destinato a non realizzarsi, potrebbe spiegarsi con la realtà sociale delle corti feudali, in cui i giovani cavalieri contemplavano le grandi dame o la moglie addirittura del loro signore, ma di certo non potevano pensare di conquistarle veramente. Ma sono diverse le ipotesi in campo. Il trattato sull’amore di Andrea Cappellano L’amore cortese ha il suo teorico in Andrea Cappellano, un misterioso personaggio che visse forse alla corte di Maria di

Caratteristiche dell’amor cortese L’amor cortese

concepito come passione struggente

caratterizzato da: • lode della donna amata • segretezza del nome della donna indicata con uno pseudonimo (senhal), perché il più delle volte già sposata • sottomissione del poeta-amante, che promette assoluta fedeltà alla donna • insoddisfazione da parte del poeta per non essere ricambiato dalla donna • consapevolezza del poeta della funzione nobilitante dell’amore indirizzato a una donna posta su un piedistallo irraggiungibile

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Champagne, autore del De amore, un trattato in latino che ebbe enorme diffusione e che offre una minuziosa casistica dei riti e delle regole della fin’amor (➜ T8 ). Il trattato, diviso in tre libri e scritto alla fine del XII secolo, svolse un ruolo fondamentale nella codificazione dell’amore cortese. L’autore si propone, attraverso una minuziosa casistica, di illustrare la natura dell’amore e di fissare le regole di comportamento da seguire in campo amoroso secondo una concezione dell’amore essenzialmente laica e svincolata dai principi religiosi. L’uso del latino e la struttura didattica del testo, che ricalca i trattati filosofici, conferisce autorevolezza a un tema, quello dell’amore, che poteva porsi in conflitto con la cultura e l’ottica della Chiesa. In alcune pagine fondamentali vengono gettate le basi teoriche dell’amore cortese, celebrato nel romanzo cavalleresco e nella lirica trobadorica: una passione esclusiva, che nasce in individui nobili di spirito, che affina l’animo e che, per sua natura, non può sorgere all’interno del legame matrimoniale. La poesia come tecnica e come insieme di convenzioni Quella trobadorica è in ogni caso una poesia caratterizzata da un alto grado di elaborazione tecnicoformale: i trovatori non concepivano assolutamente la poesia come spontanea espressione di sentimenti personali, né avevano come obiettivo l’originalità: nella poesia trobadorica circolano quindi motivi ricorrenti e situazioni convenzionali che danno vita a veri e propri sottogeneri, come le aubes (composizioni in cui due amanti si lamentano di doversi separare all’alba), le nuegs (composizioni in cui si elencano situazioni spiacevoli), i plazers (composizioni in cui si elencano situazioni piacevoli).

Incontro d’amore, miniatura francese, inizio sec. XV (Londra, British Library).

L’influenza della poesia trobadorica L’influenza della concezione cortese dell’amore sulla letteratura occidentale sarà grandissima: attraverso gli stilnovisti e soprattutto Petrarca, giungerà fino al Romanticismo, a Goethe, a Novalis; ma la sua suggestione si espanderà ancora in pieno Novecento. Oltre al tema dell’amore cortese, i trovatori trasmettono alla poesia occidentale una tecnica della versificazione fondata sulla misura sillabica, sulla successione organizzata degli accenti e sul raggruppamento dei versi in strofe caratterizzate dalla presenza della rima. La forma metrica principale inventata dai trovatori è la canzone (canso in provenzale, con allusione allo stretto legame fra testo e musica), un genere metrico che avrà una fortuna secolare (➜ PER APPROFONDIRE, La canzone e la canzonetta, C4, PAG. 163). La fine della cultura provenzale e la diaspora dei trovatori La civiltà provenzale conosce una fine traumatica in seguito alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), una delle più cruente della storia della cristianità. La crociata fu indetta da papa Innocenzo III per colpire l’eresia catara, che aveva uno dei suoi centri più importanti nella città di Albi, ma che era estesa in tutta la Linguadoca. Lo sterminio di migliaia di persone determinò la fine della civiltà occitanica e il rapido tramonto della stessa lingua d’oc. Queste drammatiche circostanze storiche disperdono i trovatori, che cercano rifugio e protezione in Spagna, in Germania, dove si creò il movimento poetico dei Minnesanger (da Minne “amore” e Sang “canto”) e anche in Italia. La lirica provenzale 3 83


I generi letterari dell’età cortese LA LIRICA PROVENZALE GENERE

lirica con accompagnamento musicale

LUOGO

Sud della Francia

TEMPO

XII secolo

LINGUA

d’oc (provenzale diffuso nella Francia meridionale)

STILE

CONTENUTO

DIFFUSIONE

OPERE/AUTORI

• trobar clus “cantare diffcile”

• trobar leu “cantare dolce”

• lode della donna

• servizio d’amore

orale da parte dei giullari

• Guglielmo d’Aquitania

TEMI

• Jaufre Rudel

amore cortese

Prima rappresentazione conosciuta del cuore stilizzato come simbolo d’amore, miniatura, 1338-1344 (Londra, British Museum).

84 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale


Andrea Cappellano

T8

La codificazione dell’amore cortese De amore

Andrea Cappellano, De amore, trad. di J. Insana, SE, Milano 1996

Il De amore è un trattato in latino della fine del XII secolo, che ebbe vastissima circolazione anche in Italia e che svolse un ruolo fondamentale nell’elaborazione dell’ideale cortese dell’amore. Proponiamo alcuni passi dal trattato che trovano precisi riscontri nella letteratura franco-provenzale (e in seguito anche nella lirica italiana), a testimonianza della sua influenza sul codice amoroso medievale.

Quale effetto produce l’amore Questo è l’effetto d’amore: poiché il vero amante non può peccare di avidità1, l’amore dà bellezza2 all’uomo incolto e rozzo, dà nobiltà anche ai più umili, rende umili3 anche i superbi, e l’innamorato generalmente è molto compiacente con tutti. 5 Che cosa meravigliosa è l’amore che fa splendere l’uomo di tante virtù e gli insegna ad avere tanti buoni costumi! C’è nell’amore un altro merito, degno di lunga lode: l’amore rende l’amante quasi casto perché chi è illuminato dal raggio di un solo amore, difficilmente pensa di fare l’amore con un’altra anche se bella. Finché pensa esclusivamente al suo amore, 10 orrida e brutta gli appare alla mente qualsiasi altra donna. L’amore non è compatibile con il matrimonio Perciò, avendo attentamente considerato l’affermazione di ciascuno di voi due e ricercato la verità, voglio subito in questo modo comporre la contesa4: con certezza dico che amore non può affermare il suo potere tra due coniugi, perché gli amanti 15 si scambiano gratis5 ogni piacere senza nessun tipo di costrizione, mentre i coniugi sono per legge tenuti a obbedire l’uno alla volontà dell’altro senza potersi rifiutare. E come può accrescersi l’onore della coppia se fanno l’amore come gli amanti, dal momento che non cresce la gentilezza né della moglie né del marito6 e non hanno niente di più di quanto per diritto avevano prima? E dico questo anche per un’altra 20 ragione, perché il precetto d’amore insegna che neppure la moglie del re può meritare la corona d’amore se non è legata alla cavalleria d’amore7 fuori del vincolo matrimoniale, mentre un’altra regola d’amore insegna che nessuno dei due può essere ferito da amore. Giustamente dunque amore non può accampare diritti tra coniugi. Ma un’altra ragione ancora contrasta l’amore tra coniugi, perché non può 25 esserci tra loro vera gelosia senza la quale non c’è vero amore, secondo la regola d’amore che dice: Chi non è geloso non può amare8.

1

il vero... di avidità: il vero amante non è mai avaro, ma diviene generoso e disinteressato. 2 bellezza: dote che è fatta di eleganza, gusto e raffinatezza. 3 umili: miti, cortesi. 4 comporre la contesa: decidere la questione. Chi parla è qui, in una lettera, Maria di Champagne, una delle quattro nobildonne a cui si rivolge nel trattato Gualtiero, un maestro d’amore dietro cui

si cela l’autore. La contesa è una questione relativa all’amore che era stata posta alla contessa. 5 gratis: disinteressatamente e liberamente. 6 non cresce... marito: per meritare l’amata e ottenerne l’amore, l’amante deve sempre migliorare; ma nel matrimonio l’amore è un dovere, perciò nei coniugi non si innesca alcun processo di perfezionamento.

7 se non è... d’amore: la donna, oltre al marito, deve avere un cavaliere innamorato che la serve e la onora; tra gli esempi più famosi nella tradizione cortese si possono citare Lancillotto, amante di Ginevra, moglie di re Artù, e Tristano, amante di Isotta, moglie di re Marco. 8 Chi ... amare: la gelosia è legata all’incertezza se l’amore sia ricambiato; perciò non dovrebbe esistere tra coniugi.

La lirica provenzale 3 85


È necessario tenere segreto l’amore Poiché dunque ho trattato sufficientemente della conquista di amore, giustamente 30 ora devo considerare e aggiungere in che modo si deve conservare l’amore conquistato. Chi desidera tenere vivo a lungo il proprio amore, deve soprattutto fare in modo che l’amore non sia svelato a nessuno oltre i propri confini e resti nascosto a tutti9. Quando l’amore arriva a conoscenza di tutti, subito perde il naturale incentivo e viene a mancare. 35 [...] Ognuno deve lodare poco l’amante tra la gente e non gli conviene parlare di lei troppo a lungo o riparlare, e raramente deve frequentare la sua contrada; anzi, se vede la sua amante in compagnia di altre persone, non deve fare nessun cenno col corpo e deve considerarla come un’estranea, affinché nessuno trami contro il suo 40 amore e trovi il pretesto per parlarne male, perché gli amanti non devono scambiarsi cenni se non sono sicuri d’essere al sicuro da ogni inganno. [...] 9 deve... a tutti: poiché l’amore cortese è adultero, essendo fuori dal matrimonio,

non è bene sia rivelato, perché susciterebbe critiche e pettegolezzi; perciò i poeti

usavano chiamare le donne amate con un senhal, cioè con un nome fittizio.

Analisi del testo Gli effetti dell’amore Il primo passo è incentrato sulle trasformazioni positive che l’amore, inteso come amore cortese, attiva in chi lo prova, modificandone in modo sensibile i comportamenti. Il riferimento agli “effetti d’amore” diventerà un vero e proprio topos, in particolare nella lirica stilnovistica, da Guinizzelli a Cavalcanti, allo stesso Dante della Vita nuova, dimostrando così la forte influenza esercitata dal trattato di Cappellano sulla nascente lirica italiana.

Amore e matrimonio Il secondo passo è dedicato a illustrare, attraverso una serrata argomentazione, l’incompatibilità tra amore cortese e legame matrimoniale. Tra chi è vincolato dal patto matrimoniale non può esistere vera passione: essa per sua natura sfugge infatti a ogni obbligo, è inappagata e implica inevitabilmente la gelosia verso chi si ama. La teorizzazione del carattere extramatrimoniale del vero amore costituiva una vera e propria sfida ai valori della cultura clericale.

Celare l’amore Il terzo testo teorizza la necessità della segretezza per gli amanti: una volta svelato ad altri l’amore perde la propria eccezionalità ed espone inoltre gli innamorati alla maldicenza altrui. Anche questo precetto diventa in ambito letterario motivo ricorrente: la necessità di “ben celare” l’amore induce il poeta provenzale a usare uno pseudonimo (senhal) per alludere alla donna amata.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto di ciascun paragrafo. COMPRENSIONE 2. Spiega perché, secondo Andrea Cappellano, il vero amore è incompatibile con il matrimonio.

Interpretare

SCRITTURA 3. La concezione cortese dell’amore ha lasciato qualche traccia ancor oggi, per esempio nell’espressione “fare la corte”. Quali abitudini, gesti, o espressioni riflettono tuttora, a tuo parere, un legame con il modello di comportamento cortese?

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Guglielmo d’Aquitania

T9 La poesia dell’antica Provenza, a cura di G.E. Sansone, Guanda, Parma 1984

Con la dolce stagione rinnovata La lirica che proponiamo è la più celebre delle composizioni dell’autore ed è considerata una sorta di manifesto della fin’amor e dei caratteri della lirica occitanica.

Con la dolce stagione rinnovata1 i boschi rinverdiscono e gli uccelli nella sua lingua ognuno va cantando con l’armonia del canto novello2: 5 è giusto allor che ognuno si procuri quello di cui ha brama più grande. Dal luogo in cui è tutto il mio piacere missiva o messaggero non mi viene, sicché non dorme né ride il mio cuore3, 10 e io non oso spingermi più avanti, finché non sappia che la conclusione sarà ben quale vado domandando4. Si porta il nostro amore alla maniera in cui si porta il ramo di biancospino5, 15 che avvinto all’albero tutta la notte tremando resta nella pioggia e al gelo fino al domani quando il sol s’effonde sul ramoscello tra il verde fogliame. Io mi ricordo ancora d’un mattino, quando mettemmo fine al nostro scontro e lei mi dette un dono così grande: l’amore pieno insieme con l’anello6. Iddio mi lasci vivere tanto ch’abbia le mani sotto il suo mantello7! 25 Non mi curo d’estranea diceria 20

La metrica Il testo originale in lingua d’oc è composto di cinque coblas, stanze di versi ottonari con schema AABCBC 1 Con la dolce... rinnovata: allusione alla stagione primaverile. 2 novello: primaverile. 3 Dal luogo... il mio cuore: il poeta si riferisce per estensione alla donna (il mio piacere), dalla quale non gli arriva alcun messaggio (né una lettera né un messaggero), cosicché non riesce ad aver pace

né gioia (lett. “il mio cuore non dorme né ride”). 4 quale vado domandando: quella che desidero (cioè che la donna ricambi l’amore). 5 si porta... il ramo di biancospino: il nostro amore si comporta come il ramo (è simile al ramo) del biancospino. La fragilità, l’ansia connessa a un rapporto amoroso non sicuro giustifica il delicato e suggestivo paragone naturale di questa terza stanza.

6 insieme con l’anello: la cessione dell’anello è un gesto connesso al rituale feudale. 7 ch’abbia... mantello: anche questa immagine, senza che si possa escludere un velato richiamo erotico, si spiega innanzitutto attraverso il rimando al cerimoniale simbolico dell’investitura: il signore copriva con il suo mantello il vassallo a simboleggiare la protezione a lui accordata.

La lirica provenzale 3 87


che mi separi dal mio Buon Vicino8. Che cosa accade nel parlare so bene che si sparge da breve maldicenza9: che altri dell’amor menino vanto10, 30 ne abbiamo noi la stoffa col coltello11.

8 Non mi curo... Buon Vicino: non bado alle insinuazioni degli altri (estranea diceria) che mi allontanano dal mio Buon Vicino (in conformità con le regole del “ben celare”, il poeta allude alla donna amata attraverso un senhal, cioè uno pseudonimo volutamente criptico). 9 si sparge... maldicenza: deriva da una

(in sé) insignificante (breve) maldicenza. 10 che altri... vanto: altri si vantino (menino vanto) dell’amore (che provano). 11 ne abbiamo... la stoffa col coltello: l’enigmatica espressione «la stoffa col coltello» potrebbe indicare il possesso completo di qualcosa, oppure ciò che serve (in questo caso, in rapporto all’amore,

di cui i maldicenti si limitano a chiacchierare). Altre traduzioni interpretano il termine provenzale pessa con “pezzo di pane” o “pezzo di terra” pensando a un riferimento ancora una volta feudale. Il significato sostanziale però non cambia (“godiamo di un amore pienamente realizzato”).

Analisi del testo Il topos dell’esordio La lirica si apre con un’immagine naturale: il poeta guarda il rifiorire della natura in primavera e vi associa il rifiorire del suo animo grazie all’amore, la naturale attrazione per ciò che il cuore brama. Questo tipo di incipit, di inizio, è così ricorrente nella poesia occitanica da costituire un topos, cioè un’immagine convenzionale. In un’altra composizione di Guglielmo d’Aquitania si trova ad esempio questa apertura: «Poiché vediamo di nuovo fiorire / prati e rinvenire giardini / illimpidirsi fiumi e sorgenti / aure e venti / ben deve ciascuno gioire della gioia / di cui è gioioso». Il paesaggio evocato corrisponde all’immagine classica del locus amoenus, cioè un paesaggio bello e sereno, che a seconda dei casi può essere posto in un rapporto di somiglianza o di contrasto con lo stato d’animo del poeta.

La struttura e i temi La canzone è divisa in cinque stanze. Prima stanza: è evocata la stagione della primavera, il risveglio della natura come tempo favorevole all’amore. Seconda e terza stanza: l’attenzione si sposta sulla condizione interiore del poeta che manifesta il suo turbamento per il silenzio, l’“assenza” della donna amata ed esprime una condizione psicologica caratterizzata dall’incertezza e dal dubbio, anche se non si esclude la possibilità di una svolta positiva, come dimostra il suggestivo paragone con il ramo del biancospino: tremante in una gelida notte di pioggia, poi è rinvigorito dalla luce e dal calore del sole mattutino. Quarta stanza: è incentrata sul ricordo di un momento felice, in cui la donna aveva stretto un patto con il cavaliere, donandogli come pegno il suo anello: un momento che egli spera possa nuovamente ripetersi. Quinta stanza: è costruita su una rigida, aristocratica distinzione tra il poeta e la donna, da un lato, e le volgari maldicenze che vorrebbero allontanarlo da lei, dall’altro.

Le metafore feudali Nella canzone compaiono diverse immagini ed espressioni metaforiche, riconducibili al mondo feudale. L’amore è assimilato a un rapporto feudale: il poeta si rivolge alla donna come un vassallo al signore, e ha nei suoi confronti un atteggiamento di sottomissione e di timore, al punto che non osa prendere l’iniziativa (v. 10). Feudale è anche il riferimento all’anello (v. 22) che effettivamente il signore donava al vassallo nel corso della cerimonia di investitura. E anche l’immagine delle mani sotto il mantello dell’amata (v. 24), in cui non manca un’allusione erotica, rimanda ancora ai rituali feudali: all’atto dell’investitura il signore copriva con il lembo del suo mantello, in segno di protezione, il vassallo inginocchiato a mani giunte.

88 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale


L’uso dello pseudonimo I trovatori spesso nascondono il nome della donna amata sotto uno pseudonimo (in questo caso «Buon Vicino», v. 26). L’amore cortese deve essere celato, tenuto nascosto da chi potrebbe nuocere ai due amanti e rovinarne la reputazione con la maldicenza. Bisogna ricordare che il tema della segretezza, del celar, del “ben celare”, teorizzato anche nel trattato di Andrea Cappellano, non è solo un motivo letterario, ma è anche suggerito da un obbligo di riservatezza: la donna è una dama di alto rango, spesso la sposa del signore del castello.

Bernger von Horeim, copia della miniatura 178r del Codice Manesse, sec. XIV (Heidelberg, Biblioteca dell’Università).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della lirica in un breve testo (max 20 righe). ANALISI 2. Nel testo è presente un senhal: dopo averlo rintracciato, contestualizzane l’impiego in rapporto al contesto. LESSICO 3. Analizza il lessico e rintraccia nel testo i termini che appartengono al campo semantico del “servizio d’amore” (inteso come vassallaggio). Rifletti poi sui risultati della ricerca e scrivi una breve trattazione (max 10 righe). STILE 4. Quale figura retorica è presente ai vv. 13-18? Spiegala con parole tue.

Interpretare

SCRITTURA 5. La donna evocata nella lirica appare come una figura rarefatta, non delineata, distante. Pensi che questa rappresentazione sia casuale oppure possa essere ricondotta alla concezione cortese propria della poesia trobadorica? (max 20 righe). TESTI A CONFRONTO 6. Sulla base dell’analisi svolta, delle tue conoscenze e dei documenti iconografici che ti forniamo, sviluppa il tema del rapporto tra l’amante e la donna, espresso attraverso la metafora medievale del vassallaggio inteso come “servizio d’amore” (max 20 righe).

online T10 Jaufre Rudel

Allor che i giorni sono lunghi in maggio

online

Verso il Novecento Echi trobadorici nella poesia novecentesca

La lirica provenzale 3 89


2 Le trobairitz: le trovatrici occitaniche La lirica delle donne Il corpus dei poemi provenzali scritti da donne si attesta intorno a poco più di venti testi tra canzoni e testi dialogici – anche se sul numero vi è ancora incertezza – e copre un arco di più di un secolo. Tutti i critici sono d’accordo sul fatto che le trovatrici hanno cantato sentimenti veri, i loro testi ci mettono di fronte a una “poesia vissuta”, non si può non ammirare la semplicità e la naturalezza dei loro versi. Il tratto più importante è sicuramente la sensualità e l’abbandono al desiderio, ovvero la autenticità emotiva di una donna che dà candidamente voce ai propri desideri (Dronke). Oltre questi elementi c’è un altro filo rosso che caratterizza queste produzioni poetiche: l’inversione dei ruoli che fa di una donna adorata, oggetto dell’amore di un uomo, una adoratrice perché soggetto del canto d’amore. Preso atto di questi elementi, essi non possono però condurci a pensare al corpus delle trovatrici come a un insieme omogeneo; il nostro compito è quello di ricostruire un territorio complesso solo in apparenza uniforme. L’amore L’amore di cui le trovatrici cantano non è un astratto principio ideale, non è un’entità personificata, ma un valore relazionale che vincola due individui, è sempre l’amore di qualcuno per qualcun altro. Le storie d’amore che percorrono i loro testi sono storie interrotte per allontanamento o tradimento. L’uomo, dotato di tutte le virtù sociali, risulta manchevole dal punto di vista amoroso, mentre la donna possiede sia le virtù cortesi sia la capacità di amare. Aspetti metrici e formali Nelle loro liriche le trovatrici utilizzano il trobar léu, scrivono testi la cui comprensione è abbastanza immediata, con un linguaggio semplice, privo di artifici retorici. Le poetesse I testi più interessanti appaiono quelli della Contessa di Dia, di Azalais de Porcairagues e di Castelloza. La poetessa Azalais de Porcairagues è la più antica fra le poetesse di Provenza attiva sul finire del XII secolo. Nella sua breve biografia (Vida) si dice che proveniva dal territorio di Montpellier, era donna raffinata e colta e che sapeva comporre canzoni. Si può supporre che fosse di nobile famiglia, ma oltre non è possibile andare. Azalais fu attiva nel periodo classico, in cui la lirica trobadorica arriva al culmine della sua popolarità e diffusione. Di lei ci è stato tramandato un unico testo di 52 versi Ar em al freg temps vengut (Or siamo giunti al tempo freddo).

online T11 Contessa di Dia Mi appago di gioia e giovinezza

Fissare i concetti La lirica provenzale 1. 2. 3. 4. 5.

Perché la lirica provenzale può essere definita una poesia “d’autore”? Qual è il tema principale della lirica provenzale e quali caratteristiche presenta? In che senso la lirica provenzale ha influenzato la produzione poetica successiva? Quando e come terminò la lirica provenzale? Quali caratteristiche presenta l’amore cantato dalle trobairitz?

90 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale


Azalais de Porcairagues

T12 La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei Trovatori. Volume primo, a cura di Giuseppe E. Sansone, Guanda, Milano 1984.

Or siam giunti al tempo freddo La canzone è stata scritta nel 1171, eccezione fatta per la sesta strofa composta dopo il 1173 ovvero dopo la morte di Raimbaut d’Aurenga, nobile trovatore cui è diretto il componimento.

Or siamo giunti al tempo freddo, alla neve, al fango, al gelo, e stanno muti gli uccellini, ché uno non si volge al canto; 5 sulle siepi sono secchi i rami, ché foglia o fiore non vi spunta e non gorgheggia l’usignolo, che là nel maggio mi risveglia. Ho sì tanto il cuore deluso da restare estranea a tutti e ben so che l’uomo ha perduto di più di quello che guadagna. Se il vero dicendo mi sbaglio, il timore mi venne da Orange, 15 per cui sorpresa ne rimango e lo svago smarrisco in parte. 10

Dà la donna male l’amore se alterca con chi è potente, con più nobile di valvassore, 20 ché è da folle agire così1. Si dice perciò nel Velay che con ricchezza amor non va2 e la donna che n’è attirata io considero disonorata. Ho amico di merito grande che predomina sopra chiunque e non m’è di cuore mendace, perché mi dà il proprio amore. Che gli do l’amor mio sostengo, 30 e che Dio porti mal sorte a chi dice ch’io non lo faccio, per cui mi tengo bene a salvo3. 25

Bell’amico, con il mio piacere son con voi in pegno per sempre 35 col mio aspetto bello e cortese, sol che onta non mi chiediate. Alla prova presto verremo, ché mi darò alla vostra mercé: voi m’avete fede giurato 40 di non richiedermi peccato.

La metrica Sei coblas doblas di otto versi ciascuna e una strofetta conclusiva di quattro versi

1 ché è da folle agire così: è il senso del testo originale e s’il o fai, il folleia, letteralmente “se ella lo fa, ella folleggia”. 2 Si dice… non va: il fatto che l’amore non si coniughi con la ricchezza è un concetto ricorrente nei trovatori. 3 a chi dice… salvo: la poetessa si ritiene immune dalle maldicenze di chi sostiene che non ama il suo uomo.

La lirica provenzale 3 91


Bellosguardo affido a Dio e così la città d’Orange, il castello e la Glorietta, il signore di Provenza 45 e chi là vuole il mio bene, l’arco dove sono le gesta4. Persi chi ha la vita mia e ne sarò smarrita per sempre. Giullare dal lieto cuore, 50 il mio canto con la chiusa portate a lei, verso Narbona, che guidan gioia e gioventù5.

4 l’arco dove sono le gesta: da identificare con l’arco romano di Orange, che presenta bassorilievi con imprese belliche. 5 Giullare… gioventù: nel congedo (tornada) la poetessa si riferisce a una dama di Narbona, identificata con Ermengarda, viscontessa di Narbona.

Analisi del testo L’esordio Solitamente le poetesse nei loro testi non utilizzano la tecnica dell’esordio, ma entrano senza mediazioni nel vivo della poesia. L’unica eccezione è Azalais che inizia descrivendo la stagione invernale, tecnica molto cara al trovatore Raimbaut d’Aurenga con cui la poetessa ha intrattenuto una relazione poetica. La poesia infatti inizia con la descrizione dell’inverno: neve, fango e gelo, rami secchi, il silenzio degli uccelli, nessuna foglia, nessun fiore, premonizione di una situazione sentimentale dolorosa e sofferente.

La terza strofa Nella terza strofa la poetessa esprime il suo parere in merito a una questione molto importante nel mondo cortese del XII secolo ovvero se sia meglio per una donna innamorarsi di un uomo ricco e potente o di un uomo pregevole. Azalais non ha dubbi: l’amore non si sposa con la ricchezza e la donna che ne è attirata viene vista dalla poetessa come disonorata (envilanida).

La prova amorosa Nella quinta strofa la poetessa probabilmente allude alla prova amorosa (assai) ovvero giacere nudi insieme all’amato senza consumare l’unione; consisterebbe nella prova che le dame richiederebbero agli amanti per saggiare l’amore del loro amico, saggiarne l’autenticità, capire quindi il livello di cortesia da loro raggiunto. La poetessa chiede dunque al suo amante di non superare un limite oltre il quale commetterebbe un errore (faillida).

La sesta strofa Secondo lo studioso finlandese Aimo Sakari questa strofa non era presente nella versione primitiva della trovatrice, ma è stata aggiunta in seguito alla morte di Raimbaut d’Aurenga (10 maggio 1173). I luoghi citati sono il castello di Belesgar vicino a dove visse e morì Raimbaut; Glorietta è l’antico palazzo dei principi d’Orange. I rapporti tra i due poeti sono certi anche per le analogie tra questo testo e il componimento Non chant per auzel ni per flor di Raimbaut sia dal punto di vista metrico sia per l’incipit in cui il poeta descrive una natura invernale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della quarta e della quinta strofa. ANALISI 2. In che modo viene descritto l’inverno dalla poetessa nella prima strofa? LESSICO 3. Analizza il lessico presente nella strofetta conclusiva. A quale campo semantico rimanda?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 4. Nella terza strofa si afferma che l’amore non si coniuga con la ricchezza e si considera come folle la donna che fa convivere amore e ricchezza. Il messaggio che la poetessa vuole inviare è che non bisogna scegliere i propri amanti in base a ricchezza e potere. Tu che cosa pensi in merito? La società di oggi è caratterizzata dallo stesso pensiero espresso nel testo?

92 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale


Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale

Sintesi con audiolettura

1 L’epica cristiana e le chansons de geste

La narrativa epico-cavalleresca in Francia, specchio della società In seguito alla disgregazione dell’Impero carolingio, a partire dal IX secolo si afferma il sistema feudale. È appunto nelle corti feudali, a cominciare dalla Francia, che si sviluppa la letteratura cortese nelle due lingue romanze d’oc (la lirica trobadorica) e d’oïl (l’epica cristiana e il romanzo cortese-cavalleresco).

Le chansons de geste Intorno alla figura del cavaliere in Francia si sviluppa dapprima l’epica cristiana delle chansons de geste, destinate a essere recitate dai giullari. Composte tra l’XI e il XII secolo, le chansons sono poemi epici che celebrano le imprese di nobili famiglie e dei re di Francia: il ciclo più celebre è quello carolingio, incentrato sulle imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini. La più famosa chanson è la Chanson de Roland, un poema di 4000 versi che trasfigura in forma epica un episodio particolare: lo sterminio della retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, avvenuto nel 778 a Roncisvalle a opera di predoni baschi. Lo spirito di crociata, l’ideologia della “guerra santa”, inducono l’autore a trasformare la battaglia in uno scontro epico di “civiltà”. Nella lotta tra forze della cristianità e “infedeli” (i saraceni) emerge il paladino Orlando, che muore eroicamente, diventando il prototipo del cavaliere cristiano che sacrifica la vita per difendere insieme la sua nazione e la fede.

2 Il romanzo cortese-cavalleresco

I romanzi cavallereschi e l’amore cortese In lingua d’oïl sono composti anche i romanzi cavallereschi, concepiti per essere letti negli ambienti raffinati delle corti feudali. I romanzi più noti, appartenenti alla cosiddetta materia bretone, sono ispirati alla leggendaria figura di re Artù e alle avventure dei cavalieri della Tavola rotonda. Il più importante autore di romanzi arturiani è Chrétien de Troyes (Erec et Enide, Lancelot, Ivano, Cligés, Perceval). I romanzi cavallereschi sono incentrati sulla esaltazione delle virtù cortesi del cavaliere (coraggio, lealtà, magnanimità). Sono virtù che il cavaliere conquista in un processo di perfezionamento attraverso l’avventura, la “ricerca” (quête), in un cammino costellato di prove e difficoltà, all’interno di scenari come foreste e castelli, in cui spesso intervengono elementi magici e fantastici. Fondamentale, oltre a quello dell’avventura, e spesso intrecciato a esso, è il tema dell’amore cortese (la fin’amor): è un amore concepito come strumento di perfezionamento, dedizione assoluta, indipendente e anzi alternativo all’unione coniugale. Celeberrimi gli amori di Lancillotto e Ginevra e di Tristano e Isotta.

3 La lirica provenzale

La poesia trobadorica Tra il XII e l’inizio del XIII secolo, nel Sud della Francia, si sviluppa la prima forma della lirica romanza: la lirica occitanica (dalla lingua d’oc in cui si espresse) o trobadorica. Autori e spesso esecutori dei testi, che erano musicati e cantati (il termine

Sintesi

Duecento e Trecento 93


canzone allude appunto al canto), sono i trovatori, poeti di estrazione sociale diversa, che con le loro composizioni comunque si rivolgono al pubblico colto e raffinato delle corti feudali. Dalle composizioni trobadoriche traspare l’ottica feudale, in particolare il rapporto di vassallaggio: tema principale di esse (anche se non mancano composizioni sulla guerra o a soggetto politico-morale) è infatti l’amore cortese, in cui l’innamorato si pone in una condizione di “servizio” nei confronti della donna, che è sempre vista come superiore, oggetto di venerazione e di desiderio inappagato. L’esperienza trobadorica si esaurisce bruscamente all’inizio del XIII secolo in seguito a un grave evento: la crociata contro l’eresia catara promossa dalla Chiesa investe le corti feudali di Provenza e determina la diaspora dei trovatori.

Zona Competenze Esposizione orale

1 Prepara la scaletta di un intervento orale di circa 5 minuti sul confronto tra le chansons de geste e i romanzi cavallereschi.

Scrittura creativa

2. Scrivi il dialogo immaginario fra un paladino di Carlo Magno e un cavaliere di re Artù, in cui ciascuno dei due interlocutori sostiene la superiorità dei propri valori e codici di comportamento.

Discussione in classe

3. La concezione cortese dell’amore ha lasciato qualche traccia ancor oggi, per esempio, nell’espressione “fare la corte”. Quali abitudini, gesti, termini di oggi secondo te riflettono un legame con il modello di comportamento cortese? Dopo aver risposto, confrontati in classe con il docente e con i compagni.

Jean Froissart, La battaglia di Crecy, da Chronicles, cap. CXXIX, sec. XV (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Morte eroica di Orlando paladino Chanson de Roland CLXX-CLXXV Chanson de Roland, in A. Roncaglia, Poesia dell’età cortese, SansoniAccademia, MilanoFirenze 1961

Nella Chanson de Roland la morte di Orlando non è solo la conclusione della vicenda terrena del paladino, ma il momento fondamentale della sua esistenza, quello su cui si costruisce la sua leggenda, grazie al quale Orlando diventa un mito letterario: l’eroe trova nella morte la rivelazione del suo destino immortale, diventa eterno; è grazie alla morte eroica e santa, in cui si ricapitolano fedeltà feudale al suo signore, devozione alla “dolce Francia” e fede cristiana che Orlando sarà ricordato e cantato presso i posteri.

CLXX Sente Rolando che la vista ha perduto. 40 Si leva in piedi; quanto più può si sforza. In viso ha perduto il colore. Davanti a lui c’è una pietra bruna: dieci colpi v’assesta con dolore e furore. Stride l’acciaio; non si spezza né s’intacca1. 45 «Ah!» disse il conte, «Santa Maria, aiuto! Oh, Durindarda, sì buona e sì in mal punto2! Ora ch’io perdo la vita, di voi più non posso aver cura. Tante battaglie con voi ho vinto in campo, e tante vaste terre sottomesse, 50 cui Carlo regge, che la barba ha canuta3! Non v’ottenga uomo che innanzi ad altro fugga! Un valoroso, invero, v’ha lungo tempo tenuta; Mai vi sarà l’eguale in Francia, la terra benedetta». CLXXI Rolando percosse sulla roccia di sardagna4: 55 stride l’acciaio, non si spezza né s’intacca. Quand’egli vide che non può spezzarla, con se medesimo comincia a piangerla: «Oh, Durindarda, come sei chiara e tersa! Sì riluci e fiammeggi contro al sole! 60 Carlo si stava nelle valli di Moriana quando Dio dal cielo gli comandò per mezzo del suo angelo che ti desse a un conte capitano.

1

dieci colpi... s’intacca: Orlando tenta di spezzare la sua spada per impedire che dopo la sua morte cada in mano ai nemici. 2 Oh, Durindarda... in mal punto: Orlando si rivolge alla sua

spada, simbolo della sua dignità di cavaliere, che si trova ora in estremo pericolo («in mal punto»). 3 che la barba ha canuta: la ricorrenza di epiteti (in un altro caso si dice «che la barba ha fiorita») è

caratteristica dello stile formulare (costituito da ripetizioni, patronimici, topoi), che contribuisce a dare solennità al narrare epico. 4 sardagna: pietra dura di colore rossiccio.

La lirica provenzale 3 95


Allora me la cinse il nobile re, il grande. Io con essa gli conquistai e Angiò e Bretagna, 65 e con essa gli conquistai e Poitou e il Maine; io con essa gli conquistai la franca Normandia, e con essa gli conquistai Provenza ed Aquitania, e Lombardia e tutta quanta Romagna; io con essa gli conquistai Baviera e tutta Fiandra, 70 e Bulgaria, e tutta quanta Puglia; Costantinopoli, di cui ebbe l’omaggio, e in Sassonia fa ciò che vuole; io con essa gli conquistai e Scozia e Irlanda e Inghilterra, ch’egli teneva come dominio privato5; 75 e con essa ho conquistato paesi e terre tante, cui6 Carlo regge, che ha la barba bianca. Per questa spada ho dolore e tristezza. Piuttosto voglio morire, che tra i pagani essa rimanga. Dio padre, non lasciare che Francia ne abbia scorno7!». CLXXII 80 Rolando percosse su una roccia grigia, più ne dispicca ch’io non vi so dire8; la spada stride, non si rompe né si spezza: verso il cielo su è rimbalzata. Quando vede il conte che non riuscirà a spezzarla, 85 molto dolcemente la pianse con se medesimo: «Oh, Durindarda, come sei bella e santa! Nell’aureo pomo assai v’hanno reliquie9: un dente di San Pietro e del sangue di San Basilio, e dei capelli di monsignor San Dionigi, 90 un lembo v’ha della veste di Santa Maria: non è giusto che pagani t’abbiano in balìa: da cristiani dovete essere servita. Non vi possegga uomo che commetta codardia! Vastissime terre con voi ho conquistato, 95 cui Carlo regge, che la barba ha fiorita: l’imperatore n’è grande e potente».

5 io con essa... privato: le conquiste elencate da Orlando hanno tratti iperbolici e favolosi: riguardano infatti anche terre che non appartenevano all’impero carolingio. 6 cui: che.

7

non lasciare... scorno: non permettere che la Francia sia umiliata. 8 più ne dispicca... dire: spezza la roccia più di quanto io possa raccontare.

96 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale

9 Nell’aureo... reliquie: l’enumerazione delle preziose reliquie contenute nel pomo della spada di Orlando la rendono un oggetto sacro, che sarebbe sacrilegio profanare.


CLXXIII Sente Rolando che la morte lo sopraffà, giù dalla testa sul cuore gli discende. Sotto un pino è andato di corsa, 100 sull’erba verde là s’è disteso prono, sotto di sé mette la sua spada e l’olifante10, girò la testa verso la gente pagana: per ciò l’ha fatto, perché egli vuole in verità che Carlo dica e tutta la sua gente, 105 il nobile conte, ch’egli morì vincitore11. Ripete il mea culpa spesso e sovente, per i suoi peccati a Dio offrì il guanto12. CLXXIV Sente Rolando che la sua vita è alla fine. Volto alla Spagna, sta su un’erta cima. 110 Con l’una mano il suo petto ha battuto: «Dio, mea culpa, dinanzi alla tua potenza, dei miei peccati, dei grandi e dei piccoli, che ho commesso dall’ora in cui nacqui, fino a questo giorno, che qui son colto!». 115 Il guanto destro ha teso verso Dio. Angeli del cielo là discendono a lui. CLXXV Il conte Rolando giaceva sotto un pino, verso la Spagna ha rivolto il viso. Di molte cose il sovvenire13 l’assale, 120 di tante terre, quante il valoroso conquistò, della dolce Francia, degli uomini di sua schiatta14, di Carlomagno, il suo signore, che lo allevò; non può tenersi che non15 ne pianga e sospiri. Ma se medesimo non volle dimenticare: 125 ripete il mea culpa, prega da Dio misericordia: «Verace Padre, che mai non mentisti, san Lazzaro da morte risuscitasti e Daniele dai leoni scampasti, scampa l’anima mia da ogni periglio

10 l’olifante: il corno. 11 morì vincitore: ovvero in terra nemica e con il volto rivolto al nemico. 12 per i suoi peccati… il guanto:

l’offerta del guanto appartiene al codice simbolico feudale; il gesto di Orlando indica il riconoscimento del potere divino e la completa sottomissione; così ai vv. 115 e 131.

13 il sovvenire: il ricordo. 14 schiatta: stirpe. 15 non può tenersi che non: non può trattenersi da.

La lirica provenzale 3 97


per i peccati che in vita mia commisi!». Il guanto destro a Dio per essi offrì: san Gabriele di sua mano l’ha preso. Sopra il braccio ha reclinato il capo: giunte le mani è arrivato alla fine. 135 Dio gl’inviò il suo angelo cherubino e san Michele del Mare del Periglio16; insieme ad essi san Gabriele vi scese: l’anima del conte portano in Paradiso. 130

16 san Michele… Periglio: l’arcangelo guerriero, protettore dei combattenti per la fede, qui è

Comprensione e analisi

nominato soccorritore dei naviganti a rischio di naufragi.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte alle domande proposte. 1. Suddividi l’episodio in sequenze e fai la sintesi di ciascuna sequenza. 2. La Chanson de Roland, in particolare nell’episodio della morte di Orlando, è il primo testo che celebra le gesta del paladino e fa di lui un archetipo dell’eroe epico, un mito umano dell’immaginario occidentale: quali elementi ne caratterizzano la figura? Individuali nel testo. 3. Quale significato riveste il dialogo struggente e commosso di Orlando in punto di morte con la propria spada? Quali esperienze e valori Orlando associa alla propria spada? 4. L’epica carolingia è un’epica connotata da valori cristiani oltre che guerreschi. Individua i punti del testo che riguardano la sfera religiosa. 5. La struttura sintattica predilige la paratassi o l’ipotassi? Quali effetti comporta la scelta dell’autore in rapporto alla trasmissione orale che era tipica delle chansons de geste?

Interpretazione

Quale interpretazione della guerra emerge dall’analisi di questo testo?

98 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortese nella Francia feudale


Duecento e trecento CAPITOLO

2 La letteratura religiosa nell'età comunale

Nel Medioevo le prime testimonianze letterarie sono spesso concepite per promuovere nei cristiani atteggiamenti di vita virtuosi, come ad esempio il racconto delle vite esemplari dei santi o la narrazione dei viaggi ultraterreni, volti a rivelare a fini d’insegnamento morale il destino che attende le anime nell’aldilà. Nella letteratura propriamente religiosa si iscrive uno dei testi più celebri dell’intera letteratura italiana: il Cantico di frate Sole, in cui Francesco d’Assisi rivolge al creato un poetico inno d’amore, ispirato a una visione mistica. La fondazione dell’ordine francescano da parte di Francesco si colloca nell’area del dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa, che aveva smarrito gli ideali evangelici. Un dissenso che si acuisce con la figura di Jacopone da Todi, autore di laude ispirate a una visione intransigente della fede.

dissenso nei confronti 1 Ildella mondanizzazione della chiesa

produzione 2 Ladidattico-edificante 99


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Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 Una letteratura critica verso la Chiesa

Nel XIII secolo emerge in Italia, in particolare nella zona umbra, una produzione letteraria che ha al centro il tema religioso. Molto spesso gli autori si fanno portavoce di una posizione di dissenso nei confronti dell’istituzione ecclesiastica, accusata Sono gli ordini di essersi allontanata dagli ideali della povertà evangelica. Ideali che intendono religiosi sorti all’interno della riproporre i vari movimenti pauperistici (dal lat. pauper, “povero”), che polemizzano Chiesa tra il XII contro una Chiesa sempre più compromessa con il potere. e il XIII secolo, la cui regola È in questo ambito che nasce il movimento francescano fondato da Francesco imponeva un voto di povertà sia d’Assisi (1188-1226). A differenza però dei patarini o dei valdesi, condannati dalla individuale sia Chiesa come eretici, il movimento francescano viene riconosciuto ufficialmente dal collettivo. I frati si sostenevano papa, come anche l’altro ordine mendicante dei domenicani fondato da Domenico con le elemosine di Guzmán (1170-1221). La polemica contro la corruzione della Chiesa si accentua e il lavoro. dopo la morte di san Francesco: lo stesso Jacopone da Todi (1236-1306 ca.), non esita ad attaccare duramente il pontefice stesso (➜ T2b OL). Vicino alle posizioni del dissenso è anche Dante Alighieri, che in moltissimi passi della Commedia introduonline ce aspre critiche contro le colpe della Chiesa di Roma (➜ T2a OL). T1 Un eretico condotto al rogo Alcune frange del movimento francescano (come i seguaci risponde alla folla Il supplizio di fra Michele minorita di fra’ Dolcino e i “fraticelli”) sono condannate come eretiche, ma ogni forma di religiosità estremistica viene comunque online perseguitata dalla Chiesa, come accade persino a un famoso Contro la corruzione della Chiesa teologo dissidente, il francescano Ubertino da Casale, autore T2a Dante Alighieri Invettiva contro l’avidità dei papi del trattato mistico Arbor vitae crucifixae Jesu (L’albero della Inferno XIX, 100-117 vita crocifissa di Gesù). Ispirandosi alla visione profetica di T2b Jacopone da Todi Gioacchino da Fiore (1130-1202), egli suddivide la storia della Jacopone rinfaccia a Bonifacio VIII le sue colpe Chiesa in vari stadi. Nell’ultimo, considerato imminente, la O papa Bonifazio, vv. 1-54 spiritualità evangelica sarebbe stata riportata nel mondo. Lessico ordini mendicanti

Movimenti ereticali e pauperistici movimenti ereticali Il dissenso verso la Chiesa

• opposizione alla secolarizzazione della vita ecclesiastica • devianza teologica

Parola chiave

movimenti pauperistici

• recupero della povertà evangelica • critica alla mondanità

misticismo e ascetismo Il misticismo è una componente fondamentale della religiosità e della cultura medievale che si contrappone al filone razionalistico del pensiero filosofico-teologico: il maggior rappresentante del misticismo in ambito filosofico è il francescano Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274). Per il mistico la verità, che coincide con la conquista di Dio, si può

raggiungere non con gli strumenti della ragione, ma solo attraverso uno slancio dell’anima. L’adesione al misticismo si lega alla valorizzazione dell’ideale ascetico. L’ascetismo è una scelta di vita che mira a realizzare l’ascesa a Dio attraverso il distacco dal mondo e pratiche come la mortificazione del corpo o il digiuno.

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d’Assisi: 2 Francesco una figura leggendaria per la collettività cristiana online

Verso il novecento umberto eco Frate Guglielmo incontra il mistico dissidente Ubertino da Casale

Una vita speciale All’inizio del XIII secolo, in un momento storico in cui la Chiesa di Roma con Innocenzo III affermava il principio della teocrazia (cioè del potere politico esercitato da un’autorità religiosa) e combatteva il dissenso e le eresie, Francesco d’Assisi (1181-1226) impone con forza il valore della pace, gli ideali evangelici della povertà, della solidarietà con gli umili e i sofferenti. Lo fa in modo provocatorio, con lo “scandalo” della sua vita, che diventa leggenda subito dopo la sua morte, anche per il processo di canonizzazione insolitamente rapido (1228), che lo rese santo a soli due anni dalla morte. La figura di Francesco continua, dopo secoli, ad affascinare, a costituire un modello, non solo per i credenti, e a essere fonte di ispirazione. La giovinezza e la “scoperta” del messaggio evangelico Figlio del mercante Pietro Bernardone, Francesco nasce ad Assisi nel 1181. Dopo una giovinezza trascorsa nella vita mondana, il suo orizzonte esistenziale cambia improvvisamente. Secondo quanto scrive nel Testamento, dettato in latino poco prima della morte (1226), l’esperienza determinante nell’orientare la sua vita verso l’ascesi fu la frequentazione dei lebbrosi: l’improvviso contatto con un mondo di estrema sofferenza ed emarginazione lo portò a interrogarsi sui valori fondamentali della vita.

Bonaventura Berlinghieri, San Francesco e le storie della sua vita, 1235 (Pescia, Chiesa di San Francesco).

Il “gran rifiuto” e i primi discepoli Destinato, nelle intenzioni della sua famiglia, a diventare un rappresentante della ricca borghesia di Assisi, educato dalla madre nella cultura cavalleresco-cortese, Francesco abbandona la vita mondana per seguire l’insegnamento di Cristo, rinunciando pubblicamente ai beni della famiglia e alla propria identità sociale attraverso il gesto simbolico e clamoroso della spogliazione degli abiti che indossava. Presto vengono a lui numerosi discepoli, attratti dal suo messaggio d’amore (nel Testamento Francesco li chiama semplicemente frati, cioè fratelli, a lui accomunati dalla scelta radicale della povertà). La crescita del movimento francescano Nel 1210 il gruppo dei seguaci di Francesco si reca a Roma dal papa e ottiene una prima, non formalizzata, approvazione: da quel momento è sancito il principio dell’obbedienza del movimento francescano al papa e alle gerarchie ecclesiastiche, ribadito anche nel Testamento. L’adesione al movimento denominato dei “frati minori” cresce e coinvolge progressivamente anche gli intellettuali della Chiesa che presto ne prendono le redini. Mentre Francesco intende continuare a seguire il modello di Cristo e chiede ai suoi frati di fare lo stesso, i frati “letterati” puntano a normalizzare l’ordine e in qualche modo “intellettualizzarlo”. Da qui probabilmente la decisione di Francesco di lasciare il governo dell’ordine a frate Elia (1220) e di ritirarsi per riflettere, dopo il fallimento della missione in Terra Santa per convertire il Sultano (1219). La definizione ufficiale della Regola francescana Mentre i contrasti esplodono, Francesco contribuisce ugualmente nel 1223 alla definizione della Regola dell’ordine francescano, frutto di una mediazione “diplomatica” tra lo stesso Francesco, la nuova dirigenza dell’ordine e il papato (nella persona di papa Onorio III che la approvò con un documento ufficiale). Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 101


Il Testamento di Francesco Nel 1226, anno della morte, Francesco detta il Testamento, che esprime le sue ultime volontà. Definito da lui stesso come «ricordo, ammonizione, esortazione», il Testamento contiene una sintesi della vita e delle scelte fondamentali di Francesco e l’indicazione per i futuri francescani dei valori che caratterizzano l’ordine: la scelta della povertà secondo la lezione del Vangelo ma anche l’obbedienza alla Chiesa. Un’eredità difficile: spirituali e conventuali Scomparsa la figura carismatica di Francesco, ben presto l’ordine francescano sarà dilaniato dal contrasto tra spirituali e conventuali. I primi volevano mantenersi fedeli al messaggio espresso da Francesco nel suo Testamento (soprattutto alla scelta della povertà assoluta), i conventuali davano invece un’interpretazione meno rigoristica del francescanesimo ed erano pienamente integrati nella vita cittadina, vivendo nei conventi, con gli inevitabili compromessi che ne derivavano. L’ascesa al pontificato di un eremita, Pietro da Morrone, papa Celestino V, nel 1294 suscitò negli spirituali la speranza che la loro linea potesse prevalere. La sua rinuncia aprì invece la strada al pontificato di Bonifacio VIII che si mostrò subito avverso agli spirituali, emarginandoli e addirittura perseguitandoli.

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Percorso interdisciplinare Immagini di san Francesco tra arte, letteratura e teatro

Il Francesco dei Fioretti Alla mitizzazione di Francesco contribuirono in modo rilevante anche i Fioretti, un’antologia di aneddoti della vita del santo, popolarissima fino all’Ottocento. I Fioretti constano di 53 capitoli (fioretti come “antologia”, in quanto sono serie di aneddoti ed episodi) che un ignoto toscano ricavò, negli ultimi decenni del Trecento, traducendoli in volgare, dagli Actus beati Francisci et sociorum eius (Opere del beato Francesco e dei suoi compagni), composti probabilmente tra il 1327 e il 1340. Del santo di Assisi i Fioretti mettono in rilievo soprattutto la semplicità, il candore ingenuo che si esprime in particolar modo nell’umile rapporto con tutte le creature, secondo il modello altissimo del Cantico.

Il Cantico di frate Sole Il testo poetico che inaugura la letteratura italiana Il Cantico di frate Sole (➜ T3 ), considerato per consolidata tradizione critica il testo che inaugura la letteratura italiana, è una preghiera in forma di lode a Dio, destinata al canto dei confratelli (la musica che doveva accompagnarlo però non ci è pervenuta). Fu composto probabilmente a San Damiano (presso Assisi) tra la fine del 1224 e l’inizio del 1225. Mentre gli altri testi di Francesco sono in latino, il Cantico è scritto in volgare umbro, impreziosito da molteplici latinismi che indicano la volontà dell’autore di elevare letterariamente il linguaggio.

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Sguardo sul cinema I volti di Francesco

Il Cantico come testimonianza di misticismo Alla base della visione religiosa espressa nel Cantico sta la filosofia stessa del misticismo, «la persuasione […] di poter attingere l’essere divino attraverso il creato, non per via speculativa, ma per procedimento contemplativo» (Giovanni Pozzi). Una testimonianza, quella del Cantico, tanto più significativa in quanto viene scritto in un momento particolarmente doloroso della vita di Francesco: ormai quasi cieco, gravemente sofferente nel corpo e nello spirito, preoccupato per la crisi che serpeggiava nell’ordine da lui fondato, Francesco rivolge nonostante tutto questa lode gioiosa a Dio e a tutte le sue creature. In essa si manifesta la netta distanza di Francesco sia dalle forme più cupe dell’ascetismo medievale – basta confrontare il Cantico con le laude di Jacopone (➜ T5 OL e T7 ) – sia dalle correnti ereticali che, come i càtari, consideravano la vita terrena una maledizione e la bellezza del mondo una trappola capace di allettare gli spiriti deboli per indurli a peccare.

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Francesco d’Assisi

T3 G. Contini, Poeti del Duecento, 2 voll., Ricciardi, MilanoNapoli 1960

AUDIOLETTURA

EDUCAZIONE CIVICA

Cantico di frate Sole Il Cantico di frate Sole (designato anche come Laudes creaturarum o Cantico delle creature) fu composto negli ultimi anni della vita di san Francesco, probabilmente tra il 1224 e il 1225. Si tratta di uno dei primi testi (forse il primo) della letteratura italiana.

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6

Altissimu, onnipotente, bon Signore1, tue so’2 le laude, la gloria e l’honore et onne3 benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfano4, et nullu homo ène dignu te mentovare5.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte6 le tue creature, spetialmente messor lo frate sole7, lo qual’ è iorno, et allumini noi per lui8. Et ellu è bellu e radiante9 cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione10. 5

Laudato si’, mi’ Signore, per11 sora12 luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite13 et pretiose et belle. 10

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno14 et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento. 15

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,

la quale è multo utile et humile15 et pretiosa et casta16. Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini17 la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso18 et forte.

La metrica: Versi di disuguale lunghezza, vicini alle sequenze liturgiche dei salmi, legati a due, tre, cinque, da assonanze e a volte rime irregolari. La scansione strofica è sottolineata dalla ripetizione della formula della lode 1 Altissimu… Signore: la -u finale è tipica del dialetto umbro; bon corrisponde all’aggettivo latino bonus “eccellente, fonte del bene”, ha un valore più intenso rispetto al corrispettivo italiano. 2 tue so’: sono tue, a te appartengono. 3 onne: ogni; la forma, come molte altre del Cantico, è vicina al latino (omnis). 4 se konfano: si addicono. 5 et nullu... mentovare: e nessun uomo è degno di nominarti. Si ricorda qui il secondo precetto del Decalogo («Non pronuncerai invano il nome del Signore,

tuo Dio»). Il verso associa latinismi (Nullu homo, dignu), forme proprie del dialetto umbro (ène) e francesismi (mentovare). 6 cum tucte: così come tutte (o insieme a tutte). 7 messor lo frate sole: messor (forma umbra per messer) ha il valore del lat. dominus “signore”. L’appellativo sottolinea che il sole, “il fratello sole”, che illumina il mondo, è più di ogni altro elemento della natura immagine della grandezza di Dio. 8 è iorno... per lui: (il sole) è la luce diurna e tu (il Signore) ci illumini per mezzo suo (per lui). 9 radiante: raggiante, splendente. 10 de te... significatione: il sole è simbolo di Dio, come ricorderà Dante nel Convivio (III, XII, 7), affermando che «Nullo sensibile [Nulla che sia percepibile coi

sensi] in tutto il mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che’l sole». 11 per: di questo e dei successivi per è di­scussa l’interpretazione. Tradizionalmente si propende per un valore causale, ma altri suggeriscono un valore medialestrumentale (= mediante, per mezzo di) o d’agente (= da parte di). 12 sora: sorella. 13 l’ài formate clarite: le hai create luminose, chiare, risplendenti. 14 nubilo et sereno: le nuvole e il sereno. 15 utile et humile: l’assonanza sottolinea il legame tra i due aggettivi, apparentemente in contrasto, e ne evidenzia la valenza etica. 16 casta: pura. 17 ennallumini: illumini. 18 robustoso: il suffisso in -oso rende espressivamente la forza del fuoco.

Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 103


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Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,

la quale ne sustenta et governa19, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione20.

Beati quelli ke ’l sosterrano in pace21, ka da te, Altissimo, sirano incoronati22. 25

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale23, da la quale nullu homo vivente pò skappare24: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;

beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda25 no ’l farrà male26. 30

Laudate27 e benedicete mi’ Signore et rengratiate e serviateli28 cum grande humilitate.

19 sustenta et governa: mantiene e alimenta. 20 sostengo... tribulatione: sopportano malattia e sofferenza. 21 Beati... in pace: beati quelli che sosterranno ciò (’l = lo) con fede, umiltà e rassegnazione. 22 ka… incoronati: poiché (ka è un elemento linguistico del dialetto umbro) riceveranno la ricompensa della beatitudine del Paradiso. San Francesco assume le Beatitudini evangeliche come modello per questa sequenza del testo, riferita al

premio ultraterreno per gli uomini giusti e benevoli; la ripresa è sottolineata dal ricalco della struttura sintattica del passo evangelico («Beati quelli che… perché...» cfr. Matteo 5, 3-12). 23 sora... corporale: anche la morte del corpo è stata creata dalla volontà di Dio e perciò è nostra sorella. 24 skappare: scampare, sfuggire. 25 la morte secunda: è la dannazione, la morte dell’anima.

26 no ’l farrà male: a loro non farà male, non li colpirà; forma dialettale, con consonante doppia. 27 Laudate: mentre in tutta la parte precedente del testo il destinatario è il Signore, a cui è rivolta la lode, nella conclusione il santo si rivolge, con la seconda persona plurale, a un destinatario indeterminato, da identificare forse con la comunità dei fedeli. 28 serviateli: servitelo (congiuntivo esortativo; il verbo è costruito alla latina: -li vale gli, “a lui”).

Analisi del testo Il Cantico: un testo stratificato o unitario?

Secondo un’interpretazione già diffusa nel Medioevo, il testo sarebbe stato scritto da san Francesco in momenti successivi. L’ipotesi di una scrittura in diverse fasi è stata probabilmente originata dall’apparente contrasto tra la serenità dei primi versi e l’intonazione più cupa degli ultimi: i versetti sul perdono (vv. 23-24) sarebbero stati aggiunti in seguito a una controversia avvenuta tra il vescovo e il podestà d’Assisi, riconciliati per merito di san Francesco, mentre quelli finali sulla morte risalirebbero a un altro momento successivo, quello in cui al santo fu annunciata come prossima la fine. Questa ipotesi non è in genere più accolta dagli studiosi, che tendono oggi a riconoscere nel Cantico un’unitaria ispirazione religiosa, fondata sulla piena accettazione della volontà di Dio, non solo quando si manifesta nella bellezza del creato, ma anche quando impone le prove della sofferenza, della malattia e della morte. Contribuisce in modo rilevante a unificare il componimento il tema della lode, che si dispiega secondo un ordine preciso, discendendo dalla contemplazione del cielo alla terra e ai diversi elementi della natura, e quindi all’uomo. Dell’uomo è sottolineata la particolare condizione determinata dal libero arbitrio, con la possibilità di commettere il peccato e perciò di incorrere nella condanna alla dannazione eterna («la morte secunda», n. 31), oppure di meritare la beatitudine del Paradiso («ka da te, Altissimo, sirano incoronati», v. 26).

104 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale


Costituisce un ulteriore indizio dell’unità del testo anche la sua precisa struttura circolare: il tema dell’umiltà apre e chiude il Cantico, sviluppandosi inizialmente come riferimento al comandamento biblico («nullu homo ène dignu te mentovare», v. 4) e, nella conclusione, come invito a servire il Signore «cum grande humilitate».

Un altro problema interpretativo: il significato della preposizione per La lingua arcaica del Cantico, che testimonia la fase di passaggio tra il latino e il volgare, pone alcuni problemi di ordine grammaticale, che hanno un rilievo anche per l’interpretazione contenutistica e teologica del testo. Il problema più discusso è quello relativo al significato da attribuire alla preposizione per. In alcuni casi il significato è indubbio: per esempio, nel v. 7 è evidente il valore strumentale della preposizione, secondo l’uso latino, con il significato di “per mezzo di”. In altri passi, invece, il testo, apparentemente semplice e chiaro, può in realtà ammettere differenti interpretazioni. Al v. 10, quando si dice che il Signore deve essere lodato «per sora luna e le stelle» si può intendere il per in diversi modi; ciò vale anche per i casi analoghi nei versi seguenti. Tra le molteplici interpretazioni proposte dagli studiosi e tutte sostenute da valide motivazioni, si possono ricordare le seguenti: alla preposizione per può essere attribuito un valore causale (Dio è lodato perché ha creato la luna e le stelle, ossia a causa dei suoi doni e benefici), oppure un valore mediale-strumentale (l’uomo loda Dio tramite le lodi alle sue creature, che portano il riflesso della sua sapienza e bontà). La questione riveste un particolare interesse perché una diversa interpretazione letterale del testo si riflette in una visione teologica che assume connotazioni differenti.

La docta simplicitas di san Francesco

San Francesco riceve le stimmate ed è circondato dalle sue amate “creature”, miniatura, sec. XIII.

Il testo, rivolto a tutta la comunità dei fedeli, è solo apparentemente semplice e “ingenuo”. Vi si riconoscono infatti molti richiami alle Scritture e ai salmi in lode di Dio (soprattutto il Salmo 148) e al passo evangelico delle Beatitudini (Matteo 5, 1-12). Il Cantico è ispirato inoltre a una precisa concezione mistica, la “teologia della lode”: l’uomo percepisce nel creato l’essere divino e partecipa alla gloria di Dio attraverso la lode, espressa sia in modo diretto sia indirettamente attraverso le qualità di bellezza e utilità attribuite alle cose. L’operare di Dio, tuttavia, è sempre messo in primo piano: è Dio che forma le stelle, illumina per mezzo del sole, sostiene le sue creature attraverso le variazioni del tempo atmosferico, rischiara l’oscurità della notte attraverso il fuoco. La cultura teologica che ispira il Cantico si evidenzia anche nella rappresentazione dell’ordine del creato: la contemplazione muove dal mondo celeste, specchio del divino, e in particolare dal sole, immagine di Dio; segue quindi il mondo sublunare con gli elementi descritti dalla filosofia naturale, aria, acqua, fuoco, terra; si giunge infine all’umanità tormentata dal peccato e sofferente, invitata dal santo ad affidarsi umilmente a Dio, lodandolo e ringraziandolo. Il carattere al contempo semplice e dotto del testo è sottolineato anche dal linguaggio, che, su una base costituita dal volgare umbro, si innalza grazie a numerosi termini mutuati dal latino (direttamente o con lievi modificazioni fonetiche). Anche le consuetudini grafiche risentono del modello latino (ad esempio la h iniziale di honore e di humile).

Un rapporto armonico con la natura Francesco non accoglie l’antitesi tra materia e spirito e tra mondo terreno e ultraterreno, che induce al disprezzo del mondo e che è presente in altri autori medievali, ma sottolinea la positività di tutta la realtà creata. Secondo alcuni studiosi sarebbe evidente, a questo proposito, l’intenzione, da parte di Francesco, di contrapporsi all’eresia dei càtari, che considerava il mondo come fonte di peccato e corruzione e imponeva di purificarsi dal contatto con le cose materiali. D’altra parte, quella di Francesco non è l’orgogliosa concezione, che sarà propria del Rinascimento, dell’uomo come signore e dominatore della natura, ma un messaggio di umiltà e di rispetto, che può risultare ancor oggi molto attuale: come ha affermato padre Ernesto Balducci (1922-1992), esponente di spicco del cattolicesimo ecumenista e pacifista, la «povertà di Francesco era anche una forma d’amore per le generazioni future».

Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 105


Esercitare le competenze comprendere e analizzare

coMPrenSIone 1. Qual è il tema principale nel testo? tecnIcA nArrAtIVA 2. Suddividi in sequenze il testo. AnALISI 3. Secondo il critico Leo Spitzer, il Cantico evidenzierebbe l’importanza dell’uomo nella visione religiosa francescana: esso è al centro del creato, e ogni creatura nominata è vista in sé (caratteristiche proprie) e in rapporto all’uomo (per l’utilità e il significato che hanno per lui). Alla luce di questa interpretazione, completa la tabella (l’esercizio è avviato). creature

in sé

in rapporto all’uomo

luna e stelle

clarite et belle

pretiose

sole

bellu radiante cum grande splendore

allumini noi per lui de te… porta significatione

acqua aere fuoco LeSSIco 4. La cura formale del Cantico ne attesta il valore letterario. Il testo tende a un volgare illustre, testimoniato anche dalla massiccia presenza del modello latino, che lascia tracce anche nella grafia, nel lessico e nella sintassi. Con l’aiuto delle note rintraccia i latinismi presenti e inseriscili in una tabella simile a questa (l’esercizio è avviato). modello latino

versi

esempi

forma corrente

grafia

v. 2

honore

onore

lessico sintassi

Interpretare

ScrItturA 5. Il Cantico di frate Sole può essere considerato un testo “colto” o “popolare”? Argomenta la tua opinione in 10-15 righe.

EDUCAZIONE CIVICA

6. Nel Cantico san Francesco loda ogni elemento della natura per bellezza e per utilità all’uomo: il sole, la luna, le stelle, il vento,l’acqua, il fuoco, la terra, dandone una rappresentazione positiva. Ti sembra che l’uomo in generale ma anche le politiche governative dei vari Paesi al mondo mostrino rispetto verso la natura? Ti sembra che il benessere della nostra Terra sia posto in primo piano? Noti già degli squilibri ambientali?

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5, 6

3 Le laude e Jacopone da todi Una testimonianza di religiosità collettiva Nel corso del Duecento la profonda esigenza di un rinnovamento religioso si manifesta anche nella formazione spontanea di gruppi che mobilitano grandi masse di fedeli e che sono accomunati da una devozione quasi fanatica. Si tratta di gruppi del tutto autonomi dalla Chiesa (e da essa mal tollerati perché poco controllabili). In questo ambito, soprattutto nell’Italia centrale, e in particolare nell’area umbra, si sviluppa la lauda religiosa (dal lat. laus, laudis “lode”) che inizialmente non doveva essere diversa dai salmi di lode recitati nella prima funzione religiosa giornaliera (abbastanza vicino a questa prima forma di lauda arcaica è il Cantico di frate Sole, il cui titolo in latino è appunto Laudes creaturarum).

106 Duecento e trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale


Verso il 1260 la lauda adottò stabilmente lo schema metrico della ballata, un metro usato per la poesia laica. La ripresa-ritornello, tipica delle ballate, nelle laude era affidata al canto corale dei fedeli che accompagnava la voce solista nelle litanie della tradizione liturgica. online La lauda religiosa, spesso incentrata sul tema della Passione di Cristo, seguiva le processioni dei fedeli nelle città e nelle T4 Salimbene Nascita della lauda e movimenti penitenziali campagne ed era accompagnata dalla musica, dal canto e Cronica spesso da rituali penitenziali come la flagellazione con sferze. Il testo da solo (ce ne sono pervenuti molti, raggruppati in circa 200 laudari) non rende quindi l’idea di queste che potremmo definire “sceneggiature collettive della fede” e che dovevano esercitare una fortissima suggestione sulle masse. Qualche analogia, a livello spettacolare, si può forse ritrovare nelle processioni che in varie località dell’Italia del Sud ancora mettono in scena la Passione nel periodo pasquale. Si deve forse a Jacopone da Todi l’invenzione della lauda drammatica, con personaggi che interpretano diverse parti, una forma embrionale di rappresentazione teatrale; di certo la sua Donna de Paradiso ne è l’esempio più noto e antico (➜ T7 ).

Jacopone: una fede intransigente Di Jacopone da Todi (Jacopo de Benedetti), il maggiore scrittore religioso medievale dopo Dante, sono incerte le date stesse di nascita e morte (1236?-1306?). Le notizie tramandate sulla sua vita sono quasi certamente leggendarie, soprattutto per quanto riguarda l’improvvisa conversione, dopo anni di vita agiata e gaudente (di ricca e nobile famiglia, esercitava la professione di notaio), a una dura penitenza in seguito alla morte improvvisa della giovane moglie. Divenuto frate francescano, Jacopone aderisce alla corrente rigoristica degli spirituali.

Lessico potere temporale e potere spirituale

PER APPROFONDIRE

Riferito al potere del pontefice della Chiesa cattolica, si intende per “temporale” il governo politico degli uomini, distinto dal potere “spirituale” che si riferisce all’attività di cura delle anime dei credenti.

La polemica nei confronti della mondanizzazione della Chiesa La sua fede intransigente lo porta naturalmente alla polemica verso una Chiesa ormai mondanizzata e più attenta al potere che alla spiritualità; aderisce così al gruppo variegato degli oppositori di papa Bonifacio VIII (➜ T2b OL), a cui si associò la potente famiglia romana dei Colonna che osteggiava la politica temporalistica del pontefice. La durissima repressione della rivolta antipapale comportò per Jacopone la scomunica e una lunga prigionia. Liberato nel 1303 dal nuovo papa Benedetto XI, trascorse gli ultimi anni della vita in un convento presso Todi. Le laude incentrate sulla polemica etico-politica e il richiamo ai valori ascetici Le laude jacoponiche (circa 90 testi) non sono pensate per un uso devozionale collettivo e riguardano diverse tematiche. Nella prima parte del laudario emergono la polemica etico-politica nei confronti del papato (➜ T2a OL) e del clero,

La ballata Questa forma di componimento poetico, presente già nella tradizione provenzale, deve il nome al fatto che era destinata a essere cantata e ballata. Proprio per questo è caratterizzata (e ciò è l’unico elemento costante in un genere poetico che ammette numerose varietà) da un numero variabile di stanze e da un ritornello di introduzione, detto ripresa, cantato all’inizio del componimento e alla fine di ogni stanza; è tradizione che almeno l’ultimo verso di ciascuna di

queste rimi con l’ultimo verso della ripresa, ma frequentemente la seconda parte di ogni stanza riprende lo schema dell’intera parte introduttiva. In Italia compare verso la metà del XIII secolo come forma metrica popolare, legata in particolare alle laude religiose, cantate e recitate dagli adepti delle diverse confraternite. Con gli stilnovisti entra anche nel repertorio della lirica d’arte: scrisse ballate soprattutto Cavalcanti.

Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 107


e l’esaltazione della vita ascetica, secondo un’ottica religiosa radicale che estremizza le posizioni già rigoristiche degli spirituali. Jacopone condivide gli obiettivi polemici dell’ascetismo medievale: la vuota arroganza della cultura universitaria che fornisce un falso sapere e il vano attaccamento ai beni terreni e alle ambizioni. L’originalità di Jacopone sta nell’accanimento quasi ossessivo e nell’impietoso sarcasmo con cui rappresenta l’infinita miseria dell’uomo, a cui ricorda la sua mortalità: in Quando t’aliegre, omo d’altura (➜ T5 OL) non può non sgomentare l’insistita descrizione, affidata a particolari macabri e ripugnanti, di ciò che ci attende dopo il trapasso. Un sarcasmo che Jacopone non risparmia neppure a sé stesso, dimostrando una volontà autodegradante e autolesiva (ad es. nella lauda O segnor per cortesia invoca per sé ogni tipo di ripugnante malattia, arrivando a immaginarsi «sterco di lupo» dopo la sua morte). La violenza polemica e il pessimismo delle laude ascetiche di Jacopone si spiegano in una società che cominciava a valorizzare gli aspetti piacevoli della vita e si mostrava sempre meno disponibile ad accogliere un messaggio incentrato sul rigorismo morale e sul rifiuto dei beni terreni. Si moltiplicavano di conseguenza, in ambienti che oggi diremmo di un cristianesimo integralista, gli sforzi per richiamare gli uomini a severi princìpi di vita attraverso il riferimento ossessivo al memento mori (“ricordati che devi morire”), che trova particolare forza rappresentativa nei cicli pittorici incentrati sul “Trionfo della morte”, assai diffusi nel tardo Medioevo. online

Verso il Novecento Oltranza mistica ed espressionismo linguistico

Le laude mistiche Alla volontà accusatoria e polemica della maggior parte del laudario, si contrappone il gruppo di laude – concentrate soprattutto nella seconda parte del laudario – che esprimono poeticamente il contatto mistico con il divino; si tratta di testi più propriamente iscrivibili nel genere lirico perché privi, almeno tendenzialmente, di componenti didascalico-narrative. In queste laude l’estasi mistica è cantata come una sorta di “naufragio”, un’abdicazione totale della razionalità di fronte al contatto violento, annichilente, con il divino (➜ T6 ). L’esito espressivo che ne consegue è una sorta di antilingua che si traduce nel grido, nel balbettìo disarticolato («la lengua barbaglia» dice Jacopone), ed è un tratto comune ad altri mistici (e mistiche) [➜ C9 OL]. Uno stile espressionistico Se il linguaggio delle laude propriamente mistiche è caratterizzato dalla tensione lirica, la disposizione ascetico-polemica, predominante nel laudario, porta Jacopone alla scelta di un registro espressivo per il quale si è spesso parlato di espressionismo come per altri mistici moderni come Clemente Rebora (1885-1957) e padre David Maria Turoldo (1916-1992). In essi, come già in Jacopone, la fede è vissuta in modo forte, polemico verso un mondo sordo ai valori. Da qui la scelta di una lingua che “rovesci” la comunicazione banale. Jacopone ricorre in modo intensivo agli artifici retorici (come le martellanti anafore, le allitterazioni), utilizza una struttura sintattica disarmonica e franta, con prevalente paratassi e frequentissime interrogazioni, apostrofi che mimano l’oralità e la gestualità. Il plurilinguismo di Jacopone Sotto il profilo lessicale, la lingua di Jacopone è composita: ha come base il dialetto umbro popolare (scelto per contrapporsi alla lingua dei filosofi) con espressioni corpose e popolari, ma contaminato, con effetti stridenti, con forme linguistiche alte, desunte dal linguaggio della lirica amorosa (provenzalismi), del diritto e della Chiesa.

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La lauda “drammatica” e Donna de Paradiso Il testo forse più celebre di Jacopone è Donna de Paradiso, una lauda “drammatica”, cioè articolata in forma teatrale. Durante l’Alto Medioevo gli spettacoli teatrali erano completamente scomparsi, sia per la distruzione fisica dei luoghi in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali sia per la decadenza della vita cittadina. Agli inizi del X secolo inizia a svilupparsi una forma embrionale di teatro a soggetto religioso, in latino, che ha la funzione di supportare la liturgia della messa (sono i cosiddetti “drammi liturgici”) e che viene rappresentato nella chiesa stessa. Successivamente, il teatro, pur riguardando sempre contenuti religiosi, si riversa nelle piazze antistanti la chiesa. I testi iniziano a essere in volgare e sono prodotti e gestiti dalle confraternite laiche di fedeli, che ricercavano una religiosità più autentica e partecipata. Il contesto da cui nasce la lauda drammatica è quello delle laude di cui si è parlato e il testo di Jacopone ne è forse il primo esempio, probabilmente destinato alla recitazione di una confraternita.

La religiosità di Francesco d’Assisi a confronto con la fede intransigente di Jacopone da Todi Francesco d’Assisi

Jacopone da Todi

ha una visione in cui domina la gioia

ha una visione cupa della vita, dominata dal senso della morte

celebra la bellezza del Creato: il Cantico

esalta la vita ascetica e il misticismo: le Laude

usa il volgare umbro illustre

usa un audace plurilinguismo

online

Parola chiave

T5 Jacopone da Todi Quando t’aliegre, omo d’altura vv. 1-46; 79-82

espressionismo Il concetto e il termine di “espressionismo” appartengono al Novecento e designano una delle più importanti avanguardie storiche. Nato in Germania originariamente nell’ambito pittorico, interessò poi la letteratura, il teatro, la musica e il cinema. I caratteri propri dell’espressionismo furono il sovvertimento di ogni regola da parte dell’artista, la volontà di esprimere intense emozioni, la critica radicale di un mondo in disfacimento. Per quanto riguarda la letteratura italiana, in un suo celebre saggio Gianfranco Contini ha individuato una “linea espressionistica” che si sviluppa nel

corso del tempo, a partire proprio dal Medioevo, e che accomuna autori di per sé diversi, da Jacopone ai novecenteschi Pirandello, Gadda, Fenoglio (e altri ancora). Quando parla di “espressionismo” per questi scrittori, Contini fa riferimento in particolare alle scelte stilisticolinguistiche degli autori citati (e di altri), che comportano il sovvertimento dei modi consueti della rappresentazione e la violazione delle tradizionali norme linguistiche, la tendenza a esasperare, a forzare la lingua. La polemica linguistica si associa in genere, negli autori definibili in senso lato come “espressionistici”, con un

atteggiamento ideologico critico verso la società. Non è casuale che una linea espressionistica unisca anche autori che hanno dato voce in tempi diversi alla tematica religiosa, come Jacopone, Rebora, Testori, padre Turoldo: per tutti questi scrittori si tratta infatti di una fede vissuta in modo impegnato e polemico, come un’apertura all’assoluto contro i limiti di un mondo comunemente acquietato nella sua mancanza di senso. Testo di riferimento: G. Contini, Espressionismo letterario, in Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1988.

Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 109


Jacopone da Todi

T6 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

O iubelo del core In questa celebre lauda Jacopone evoca l’emozione travolgente del contatto mistico con Dio e ne descrive gli effetti: il cuore ennamorato di chi è preso dall’amore divino prorompe in manifestazioni caratterizzate dalla “dismisura” e dall’eccesso, estranee alla normale condotta soggetta al controllo razionale; agli occhi della gente il mistico può apparire perciò come un folle, suscitando lo scherno e la derisione di chi non ha mai provato tale intensa esperienza.

O iubelo del core, che fai cantar d’amore1!

AUDIOLETTURA

Quanno iubel se scalda, sì fa l’omo cantare2, 5 e la lengua barbaglia3, non sa que se parlare4: dentro non pò celare, tant’è granne ’l dolzore5.

10

Quanno iubel è acceso, sì fa l’omo clamare; lo cor d’amor è appreso, che nol pò comportare: stridenno el fa gridare, e non virgogna allore6.

Quanno iubelo ha preso lo core ennamorato, la gente l’ha ’n deriso7, pensanno el suo parlato8, parlanno esmesurato 20 de che sente calore9. 15

La metrica Lauda in forma di ballata di versi settenari, con ripresa (o ritornello) xx e schema strofico ababbx, perciò con ripresa della rima del ritornello alla fine di ciascuna strofa, secondo uno schema tipico della ballata jacoponica. In alcuni casi la rima è sostituita da una semplice assonanza: vv. 3 e 5; vv. 21-23. È presente (vv. 15 e 17) la rima siciliana preso/ deriso 1

O iubelo… amore: il ritornello, in cui compare la parola chiave iubelo, evidenzia il tema del testo, la gioia immensa dell’amore mistico, non commisurabile a nessuna esperienza umana. Nel linguaggio biblico e ascetico giubilo (latino jubilum, “grido di gioia, di esultanza”) indica un sentimento di gioia così vivo e profondo che traspare dai gesti, dallo sguardo, dal tono della voce.

2 Quanno… cantare: quando il giubilo diviene più intenso e più caldo (si scalda) fa cantare chi lo prova. Al crescere della pienezza dell’amore divino non basta più la parola: solo il canto può esprimere l’intensità della lode. Quanno è forma del dialetto umbro in cui il suono nd si assimila in nn, come nei successivi granne (= grande), stridenno (= stridendo), pensanno (= pensando), e simili. L’anafora (Quanno iubel[o]) collega le prime tre strofe e sottolinea la parola chiave iubelo, con un effetto di progressiva intensificazione. 3 la lengua barbaglia: la lingua balbetta. Il vocabolo onomatopeico barbaglia riproduce fonicamente l’inceppamento della lingua e l’impossibilità di una comunicazione con gli altri uomini. Tale difficoltà è sottolineata dal fatto che barbaglia non è

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in rima con scalda, ma solo in assonanza. 4 que se parlare: quel che si dica (oppure “che cosa dire”). 5 dentro… dolzore: la dolcezza che si prova è così intensa che non può rimanere celata e nascosta nell’interiorità. 6 Quanno... allore: quando il giubilo si accende fa gridare (clamare); il cuore è infiammato (appreso) dall’amore, tanto da non poterlo sopportare in silenzio; tale amore fa gridare chi lo prova, in modo violento e dissonante (stridenno, lett. stridendo) e in quel momento non se ne vergogna. 7 la gente l’ha ’n deriso: la gente lo deride (deriso = derisione). 8 parlato: modo di parlare. 9 parlanno… calore: poiché parla smisuratamente dell’ardore che sente.


O iubel, dolce gaudio ched entri ne la mente10, lo cor deventa savio celar suo convenente: 25 non pò esser soffrente che non faccia clamore11. Chi non à costumanza12 te reputa ’mpazzito, vedenno esvalïanza13 30 com’om ch’è desvanito;14 dentr’ha lo cor ferito, non se sente da fore15. 10 O iubel…mente: O gioia, dolce piacere, che sei nella mente. 11 lo cor... clamore: il cuore sarebbe saggio nel nascondere (celar) il proprio stato (suo convenente): (ma) non può fare a meno (non pò esser soffrente) di gridare. All’atteggiamento razionale (che implicherebbe il celare la propria condizione) si contrappone l’impeto incontenibile dell’amore mistico. È omessa la congiunzione avversativa che contrappone i due atteggiamenti, secondo una

sintassi ellittica propria di Jacopone. 12 costumanza: pratica, esperienza. L’ultima strofa è l’unica che non presenta, in apertura, la parola chiave iubelo. Tale differenza sottolinea il carattere riassuntivo e gnomico della strofa, slegata dalla progressione di quelle precedenti. 13 esvalïanza: stranezza, comportamento fuor di norma. 14 desvanito: vaneggiante. I termini esvalïanza e desvanito, legati dall’allitterazione, sottolineano l’atteggiamento ap-

parentemente delirante di chi è preso dal gaudio mistico. 15 non se sente da fore: da fuori non si può percepire quello che il mistico vive dentro il suo cuore. I termini dentr’ e fore, che aprono e chiudono i due versi finali, mettono in rilievo il contrasto fra la dimensione esteriore e quella più profonda e interiore, propria della comunione mistica con Dio. Nuovamente è sottolineato un motivo fondamentale nel testo.

Analisi del testo L’annullamento del mondo esterno e l’etica della “dismisura” L’amore mistico di cui parla Jacopone è rappresentato come un completo distacco dalla dimensione umana e terrena, fino all’annullamento della realtà esterna. Chi prova l’ardore mistico è afferrato da una sorta di rapimento e di estasi. In tale stato non solo il mondo esterno è totalmente indifferente, ma si crea una netta frattura con esso: le manifestazioni di gioia eccessive (esmesurate), che si traducono nel canto, nel grido, sono del tutto incomprensibili se valutate con il metro della logica comune. Jacopone rovescia i normali parametri valutativi del comportamento umano: all’etica della “misura” propria dell’ideale cortese nel Medioevo, Jacopone contrappone l’esmesuranza, propria di chi ha afferrato il messaggio cristiano in tutta la sua sconvolgente e rivoluzionaria portata.

Il linguaggio dell’amore mistico In questo testo, uno dei più intensi e significativi della poesia religiosa medievale, Jacopone sperimenta in modo ardito il linguaggio dell’amore mistico. Per rappresentare il sentimento che lo invade Jacopone attinge in parte alla poesia cortese e alla lirica amorosa italiana: ne sono spia presenze lessicali come dolzore, ma anche immagini come quella del fuoco ardente d’amore che consuma, o della ferita aperta nel cuore dell’innamorato. Mentre però l’amore cortese e profano si iscrive in precise norme e convenzioni, l’unica “norma” a cui risponde l’amore di Dio provato da Jacopone (e da altri mistici) è quella della follia, del deragliamento e dell’eccesso, come evidenziano, nel testo jacoponico, parole chiave come ’mpazzito, esvalïanza, desvanito. Prettamente jacoponica è l’iterazione di costrutti e termini e di anafore (a cominciare dalla ricorrenza in tutte le strofe, tranne l’ultima, del termine chiave iubelo), finalizzate in altri casi a enfatizzare quanto a Jacopone sta a cuore trasmettere al lettore. A questa esigenza comunicativa (e in altri casi didattica) si contrappone qui il tema dell’ineffabilità: l’esperienza mistica di fatto non può essere trasmessa, è inevitabilmente vissuta nella solitudine del proprio io e la parola comune non può in alcun modo descriverla perché essa trascende i limiti dell’umano: la sostituiscono un disarticolato balbettare (la lengua barbaglia) o addirittura il grido.

Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 111


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è il tema principale di questa lauda? ANALISI 2. Quali aspetti riconducono il testo all’esperienza mistica? Si tratta di un’esperienza che può essere condivisa con gli altri? Perché? 3. Quali reazioni e comportamenti induce l’esperienza mistica nell’io lirico? Come vengono giudicati dagli altri tali comportamenti? LESSICO 4. Analizza il lessico e individua i termini che appartengono al campo semantico del dire e del tacere e inseriscili in uno schema simile a questo. campo semantico del dire

campo semantico del tacere

5. Individua nel testo termini che alludono all’assenza di controllo, all’eccesso e alla vera e propria follia. STILE 6. Individua le ripetizioni di termini chiave e le anafore.

Interpretare

SCRITTURA 7. In che cosa consiste il tema dell’ineffabilità che è al centro della lauda? Spiegalo in un breve testo. TESTI A CONFRONTO 8. Confronta situazione e temi della lauda di Jacopone con la lode di ringraziamento e il messaggio profondo evocati da Francesco nel Cantico. Evidenzia analogie e differenze fra i due testi.

Flagellanti o Fratelli della croce nella città belga di Tournai in una miniatura trecentesca.

112 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale


Jacopone da Todi

T7 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

Donna de Paradiso Il testo è generalmente considerato il primo esempio di lauda drammatica; la sua struttura induce infatti a pensare che fosse destinato alla recitazione (forse da parte di una confraternita): la drammatica vicenda della Passione di Cristo è presentata attraverso le voci di diversi personaggi che dialogano tra loro. Il primo è un nunzio, che alcuni identificano con san Giovanni, che descrive alla Madonna i vari momenti della Passione; si alternano quindi la voce tenera, dolente e accorata della Madonna, i toni crudeli e violenti della folla che chiede la crocifissione, e infine le parole di Gesù stesso che si rivolge alla madre e a san Giovanni.

[Nunzio] «Donna de Paradiso1, lo tuo figliolo è preso2, Iesù Cristo beato. Accurre, donna, e vide che la gente l’allide3: credo che lo s’occide4, tanto l’ho5 flagellato».

5

[Maria] 10

«Com’essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?6»

[Nunzio] «Madonna, ell’ è traduto7: Iuda8 sì l’ha venduto; trenta denar n’ha avuto, 15 fatto n’ha gran mercato9». [Maria]

20

[Nunzio] «Soccurre, donna, adiuta13, ca ’l tuo figlio se sputa14 e la gente lo muta15 hòlo16 dato a Pilato».

La metrica Ballata di settenari, di cui alcuni irregolari ed eccedenti la misura. Lo schema delle rime nelle strofe è aaax, quello della ripresa mmx

1 2 3

«Soccurri, Maddalena! Ionta m’è adosso piena10: Cristo figlio se mena11, com’ è annunzïato12».

de Paradiso: celeste. è preso: è stato catturato. Accurre... allide: accorri, donna e vedi (accurre e vide sono imperativi) che la gente lo percuote (l’allide). 4 lo s’occide: lo uccidano. 5 l’ho: lo hanno. 6 «Com’essere... pigliato?»: come potrebbe (porria) essere (come è possibile)

che lo abbiano catturato (om l’avesse pigliato; om ha valore impersonale, come on francese), dato che non commise colpa (follia), Cristo, la mia speranza (spene, latinismo da spes). 7 è traduto: è stato tradito. 8 Iuda: Giuda. 9 fatto... mercato: l’ha venduto a vilissimo prezzo. È detto in modo antifrastico e ironico. 10 Ionta... piena: mi è venuto addosso un dolore improvviso e irreparabile (come la piena di un fiume). 11 se mena: viene portato via (con valo-

re passivo, come i seguenti se sputa e se prende). 12 com’ è annunzïato: come è stato profetizzato. 13 adiuta: aiuta(lo). 14 ca ‘l tuo figlio se sputa: perché viene coperto di sputi. 15 lo muta: seguendo il racconto dei Vangeli, si può interpretare sia come “lo trasferisce” (dal sinedrio al tribunale di Pilato), sia “lo cambia di abito”, perché, come è narrato nel Vangelo secondo Matteo (27, 28) «spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto». 16 hòlo: lo hanno.

Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 113


[Maria]

«O Pilato, non fare el figlio mio tormentare, ch’io te pozzo mustrare17 como a torto è accusato».

[Folla]

«Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, secondo nostra lege contradice al senato18».

25

30

[Maria]

35

[Folla]

40 [Maria]

«Prego che me ’ntennate19, nel mio dolor pensate20: forsa mo vo mutate de che avete pensato21». «Traàm for22 li ladruni, che sian suoi compagnuni23: de spine se coroni, ché rege s’è chiamato!» «O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! figlio, chi dà consiglio24 al cor mio angustïato?

Figlio occhi iocundi25, 45 figlio, co’26 non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ si’ lattato27?» [Nunzio] «Madonna, ecco la croce, che la gente l’aduce28, 50 ove la vera luce dèi essere levato29». «O croce30, e che farai? El figlio mio torrai31? Como tu ponirai32 55 chi non ha en sé peccato?» [Maria]

17 ch’io… mustrare: perché io ti posso dimostrare. 18 Crucifige... al senato: dal Vangelo secondo Giovanni (19, 7-12) è tratto il riferimento alla legge («Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio») e all’Impero romano («Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare»). L’inserimento dell’espressione in latino Crucifige, ripresa alla lettera dai Vangeli, sottolinea efficacemente la distanza culturale e spirituale, rispetto alla figura di Cristo, del popolo degli ebrei, allora soggetto all’Impero romano, ed evidenzia l’orizzonte storico in cui esso si situa, che è ancora

quello antico della legge, ebraica (come legge divina) e romana (come legge del senato). 19 me ’ntennate: comprendiate quello che provo. 20 nel... pensate: pensate al mio dolore. 21 forsa mo... pensato: forse (latino forsan) allora (mo è voce centro-meridionale) voi mutereste la vostra precedente opinione. 22 Traàm for: tiriamo fuori (dal carcere). 23 compagnuni: compagni. Nel termine si avverte una sfumatura spregiativa. 24 dà consiglio: consolerà. 25 occhi iocundi: dai begli occhi (apposizione al posto di un complemento di qualità).

114 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale

26 co’: come. 27 al petto o’ si’ lattato: petto, in funzione metonimica per indicare la madre, sottolinea il legame viscerale fra la madre e suo figlio. 28 l’aduce: la porta. 29 ove... levato: dove Cristo, vera luce, deve essere sollevato, posto. 30 O croce: la Madonna si rivolge alla croce con un’apostrofe, quasi personificandola, come se fosse un personaggio da aggiungere a quelli che agiscono nel dramma. 31 torrai: riceverai. 32 ponirai: accuserai.


[Nunzio] «Soccurri33, piena de doglia34, ca’l tuo figlio se spoglia35: la gente par che voglia che sia martirizzato!» 60

[Maria]

«Se i tollete el vestire36, lassatelme vedere, como el crudel ferire tutto l’ha ensanguenato!»

[Nunzio] «Donna, la man li è presa37, 65 ennella croce è stesa38; con un bollon l’ho fesa tanto lo ci ho ficcato39. L’altra mano se prende, ennella croce se stende e lo dolor s’accende, ch’è più moltiplicato.

70

Donna, li pè se prenno e chiavellanse al lenno: onne iontur’ aprenno, tutto l’ho sdenodato40».

75

[Maria]

«E io comenzo el corrotto41: figlio, lo mio deporto42, figlio, chi me t’ha morto43, figlio mio dilicato? Meglio averiano fatto che ’l cor m’avesser tratto, che ne la croce è tratto stace descilïato44!»

[Cristo]

«Mamma, ove si’ venuta? Mortal me dài feruta, ca ’l tuo planger me stuta45, che ’l veio sì afferrato46».

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85

33 Soccurri: soccorrilo. 34 doglia: dolore. 35 ca’… spoglia: perché stanno spogliando tuo figlio. 36 Se i … vestire: se gli togliete gli indumenti. 37 la man…presa: gli si prende la mano. 38 ennella…è stesa: e la si stende sulla croce. 39 con un bollon... ficcato: con un chiodo l’hanno trapassata (fesa), tanto

(profondamente) ce lo hanno conficcato. 40 li pé... sdenodato: si prendono i piedi e si inchiodano al legno; aprendo ogni giuntura l’hanno tutto slogato. 41 io... corrotto: io comincio il lamento funebre. 42 deporto: gioia. Il termine è proprio della tradizione cortese. 43 chi me t’ha morto: chi ti ha ucciso. Ma si noti la connotazione affettiva struggente del me (a me, mi).

44 Meglio... stace descilïato: avrebbero fatto meglio a strapparmi il cuore, che è trascinato sulla croce e ci sta straziato (stace descilïato). 45 Mortal… me stuta: mi dai una ferita mortale perché il tuo pianto mi spegne (stuta dal latino tutare “smorzar”, detto della cenere sul fuoco). 46 che ’l veio... afferrato: perché lo vedo così angoscioso.

Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 115


[Maria]

«Figlio, che m’aio anvito47, figlio, pate e marito48! Figlio, chi t’ha ferito? Figlio, chi t’ha spogliato?»

[Cristo]

«Mamma49, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve ei mei50 compagni, ch’al mondo aio acquistato51».

[Maria]

«Figlio, questo non dire: voglio teco morire; non me voglio partire fin che mo m’esce ’l fiato52.

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[Cristo] 105

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[Maria]

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C’una aiam sepoltura53, figlio de mamma scura54: trovarse en afrantura mate e figlio affocato55!» «Mamma col core afflitto, entro le man te metto de Ioanne, mio eletto56: sia tuo figlio appellato57. Ioanni, èsto58 mia mate: tollela en caritate59, aggine pïetate, ca’l cor sì ha furato60». «Figlio, l’alma t’è ’scita61, figlio de la smarrita, figlio de la sparita62, figlio attossecato63! Figlio bianco e vermiglio64, figlio senza simiglio65, figlio, a chi m’apiglio66? Figlio, pur m’hai lassato!

47 che... anvito: ne ho ben motivo. 48 figlio, pate e marito: l’espressione richiama la dottrina teologica trinitaria. Gesù è figlio, ma anche padre (pate), perché Dio, e marito, perché Spirito Santo, per virtù di cui Maria concepì il proprio figlio. Allo stesso modo Dante definirà Maria «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» (Pd XXXIII 1). 49 Mamma: il termine usato da Gesù è proprio del registro familiare e colloquiale. Il fatto che sia posto in bocca a Gesù sottolinea il registro “umile” scelto dall’autore. 50 ei mei: i miei.

51 ch’al mondo... acquistato: che ho acquistato per il mondo (per la salvezza del mondo). 52 fin che...’l fiato: finché avrò fiato, finché vivrò. 53 C’una... sepoltura: che possiamo avere (forma desiderativa) una sola sepoltura. 54 scura: infelice. 55 trovarse... affocato: trovarsi madre e figlio soffocato in una stessa sofferenza angosciosa (afrantura). 56 eletto: prediletto. I vv. 104-109 della lauda riecheggiano ancora il Vangelo secondo Giovanni (19, 26-27): «Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla

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madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”». 57 appellato: chiamato. 58 èsto: ecco (forma dialettale umbra). 59 tollela en caritate: ricevila con amore. 60 ca’ l… furato: perché ha il cuore forato, trafitto. 61 t’è ’scita: ti è uscita (dal corpo). 62 sparita: distrutta, ridotta a niente. 63 attossecato: avvelenato. 64 bianco e vermiglio: bianco e rosso, candido e rubicondo (espressione del Cantico dei Cantici). 65 senza simiglio: senza somiglianza, senza pari. 66 apiglio: stringo, appoggio.


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67 volto iocondo: dal volto lieto. 68 hatte: ti ha. 69 ora sento... profitizzato: Maria si riferisce a una profezia di Simeone, riportata

Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo67, figlio, per che t’ha ’l mondo, figlio, così sprezzato? Figlio dolze e placente, figlio de la dolente, figlio, hatte68 la gente malamente trattato! Ioanni, figlio novello, mort’è lo tuo fratello: ora sento ’l coltello che fo profitizzato69. Che moga70 figlio e mate d’una morte afferrate: trovarse abraccecate71 mate e figlio impiccato72».

nel Vangelo secondo Luca (2, 34-35), che le aveva preannunciato: «a te una spada trafiggerà l’anima». 70 moga: muoiano.

71 abraccecate: abbracciati (tratto umbro). 72 impiccato: appeso alla croce.

Analisi del testo La figura di Maria e l’“umanizzazione” del racconto evangelico della Passione Nel racconto dei Vangeli, durante la Passione, Maria non ha un ruolo centrale, anche se Giovanni ricorda che la madre stava presso la croce di Gesù. È nei Vangeli apocrifi che la Madonna comincia ad assumere un ruolo più rilevante anche negli ultimi momenti della vita di Cristo. Nel testo di Jacopone non soltanto Maria assume una parte molto più estesa e attiva che nei Vangeli, ma tutto il dramma è narrato secondo la sua prospettiva: è a lei, infatti, che si rivolge il nunzio all’inizio della narrazione, ed è a lei che sono descritti gli avvenimenti della Passione di Cristo. Nella lauda drammatica di Jacopone Maria è rappresentata non come la madre del figlio di Dio ma come una madre straziata dal martirio del figlio.

Il livello linguistico Il processo di umanizzazione e di “abbassamento” del racconto evangelico si riflette nel linguaggio della lauda, in cui, accanto a latinismi (ad esempio: allide, vide, torrai), si inseriscono termini propri di un registro “umile” e popolare (Ionta m’è adosso piena, mo, èsto, ensanguenato, lagni, furato). Anche il termine mamma (ma è presente anche il latineggiante mate, v. 103 e v. 108) posto in bocca a Gesù appartiene al registro “basso”. L’accorato lamento della Madonna ricorda inoltre i pianti funebri rituali, diffusi nella cultura popolare: l’iterazione esasperata di figlio, con la lunga anafora che percorre i vv. 112-126 – ulteriormente messa in rilievo dalle rime dei vv. 116-118 (vermiglio, simiglio, apiglio) – sottolinea il legame tutto umano e terreno tra il figlio e la madre e ne imprime il compianto nella memoria del lettore.

Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 117


La teatralità di Donna de Paradiso Il testo di Jacopone può essere considerato, pur in forma ancora embrionale, il primo dei molti drammi che anche in seguito saranno dedicati alla Passione, in quanto presenta già vari elementi teatrali: nella lauda dialogano infatti diversi personaggi, mentre altri non parlano, ma sono citati come se fossero presenti sulla scena (Maddalena, Pilato, san Giovanni). Altri elementi che determinano l’effetto teatrale della lauda sono da una parte il contrasto fra i personaggi (in particolare la ferocia della folla contrapposta alla tenera dolcezza di Maria) e dall’altra parte la tensione drammatica assunta dalla vicenda, che viene rappresentata nel suo svolgersi, come se essa potesse ancora essere impedita per le preghiere e le suppliche di Maria. A potenziare l’effetto drammatico, si alternano inoltre nella lauda tempi molto rapidi e concitati e tempi rallentati, come quelli in cui è descritto quasi “al rallentatore” tutto il dolore di Cristo nella crocifissione (vv. 68-71: «L’altra mano se prende, / ennella croce se stende / e lo dolor s’accende, / ch’è più moltiplicato»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza i contenuti della lauda in non meno di 10 righe. COMPRENSIONE 2. Qual è la tematica principale di questa lauda? ANALISI 3. In quali punti del testo è enunciata la posizione del popolo? Riassumi l’intervento del popolo. 4. Indica, motivando la tua scelta, i passi in cui è più evidente l’aspetto umano messo in luce da Jacopone nell’interpretazione della vicenda evangelica. LESSICO 5. Quale significato ha la ripetizione, quasi ossessiva, della parola figlio da parte di Maria?

Interpretare

SCRITTURA 6. Attraverso le voci che intervengono nel testo è “sceneggiata” la Passione di Cristo: ricostruiscine le fasi e stendi un copione della lauda, indicando: le sequenze fondamentali della lauda, le voci narranti, le scene, i dialoghi. COMPETENZA DIGITALE 7. Svolgi una ricerca anche in internet sul motivo della “madre addolorata”. Dopo esserti documentato, proponi esempi, anche attuali, di rappresentazione in altre forme d’arte (cinema, pittura, musica ecc.).

online

Verso il Novecento Il dramma di Maria alla croce nell’interpretazione di Dario Fo

L’interpretazione del videoartista statunitense Bill Viola (1951-2024), in Emergence, 2002 (Los Angeles, Paul Getty Museum).

118 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale


2

La produzione didattico-edificante 1 Le prediche, le vite dei santi, i trattati morali La predica: una forma particolare di comunicazione Nel XIII secolo la Chiesa aveva compreso l’importanza strategica della predicazione, soprattutto per le masse popolari, sempre più attratte dal dissenso religioso. Le prediche ai fedeli, raccolte da alcuni ascoltatori, ci sono in parte pervenute e testimoniano lo sforzo di divulgare a un pubblico eterogeneo, per larga parte analfabeta, i contenuti della fede cristiana (non è un caso che, in quello stesso periodo, si iniziasse a predicare in lingua volgare e non più in latino). Per realizzare questo scopo persuasivo i predicatori ricorrevano a vari espedienti: innanzitutto l’inserimento nelle omelie di brevi racconti a carattere “esemplare” (➜ C3, PAG. 136) di forte impatto sugli ascoltatori; poi l’utilizzazione di soluzioni “teatrali” per catturare l’attenzione: in alcuni casi l’enfatizzazione della gestualità accomunava le prediche addirittura alle performances dei giullari.

Storie incredibili per gente comune: le vite dei santi Una tipologia di testi assai diffusa nel Medioevo, che esercitava un ruolo didattico affine alla predicazione, era la letteratura agiografica (dal greco hághios “santo” e grapho “scrivo”), cioè i racconti delle vite dei santi, proposte come modello di perfetta vita cristiana che i fedeli devono e possono imitare. Un esempio illuminante in questo senso è un testo che appartiene alla raccolta agiografica Vite dei santi Padri del predicatore domenicano Domenico Cavalca (1270-1340), tratta da una raccolta in latino. L’autore si rivolge a online un pubblico di illetterati e divulga il sapere teologico attraverso T8 Domenico Cavalca Un esempio eloquente dell’ottica agiografica efficaci “esempi” inseriti in un clima fiabesco e meraviglioso e Vita di Sant’Elpidio ricorrendo a un toscano semplice ed efficace. I trattati di morale Il termine, spesso usato nel Medioevo per i trattati che si proponevano l’educazione morale e religiosa dei fedeli, era specchio (in latino medievale speculum): questa espressione metaforica suggeriva al lettore la possibilità di vedere, riflesso nel libro, come in uno specchio, il modello morale da imitare per vivere una vita secondo i valori cristiani. La “pedagogia del terrore” e Lo specchio di vera penitenza di Passavanti Uno dei più noti trattati di morale fu Lo specchio di vera penitenza del domenicano Jacopo Passavanti (1302-1357), raccolta dei suoi sermoni, resi più efficaci dalle narrazioni di molti esempi per l’edificazione dei fedeli. L’opera fu scritta nel momento storico in cui la terribile pestilenza del 1348 aveva posto i fedeli di fronte a quotidiani spettacoli di morte e il monito severo dei predicatori poteva perciò trovare più largo seguito: la peste veniva da essi interpretata come castigo di Dio per la corruzione dell’umanità. Interprete delle tendenze più tipiche della cultura ascetico-penitenziale del tardo Medioevo, Passavanti rivela una visione totalmente pessimista della natura umana. La produzione didattico-edificante 2 119


Jacopo Passavanti

T9

Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Lo specchio di vera penitenza J. Passavanti, Lo specchio di vera penitenza, Società Tipografica de’ Classici Italiani, Milano 1808

online

Per approfondire Versione in italiano

In questa narrazione, che si iscrive nel genere “esemplare”, una tipologia testuale assai diffusa nella cultura clericale e finalizzata all’edificazione morale dei lettori, il predicatore Jacopo Passavanti utilizza lo strumento del terrore per convincere chi legge della necessità di pentirsi prima che, come in questo caso, sia troppo tardi. Il tema della “contesa tra angeli e demoni” per il possesso dell’anima di chi sta per morire è diffusissimo non solo nella letteratura ma anche nella pittura medievale. Dante stesso nella Commedia (Pg. V, 85-129) costruirà un celebre episodio su questo topos. Al testo originale segue la versione in italiano corrente.

Or te ne guarda: credimi, che chi non fa quando puote, quando vorrà, non potrà; o meriterà di mai non volere quello che sia di sua salute. Leggesi (e ’l venerabile dottore Beda1 lo scrive) ch’e’ fu uno cavaliere in Inghilterra, prode dell’arme, ma de’ costumi vizioso, il quale, gravemente infermato, fu 5 visitato dal Re, ch’era un santo uomo; e indotto, che dovesse acconciarsi dell’anima confessandosi come buono Cristiano, rispose, e disse: Che non era bisogno, e che non volea mostrare d’avere paura, né esser tenuto codardo o vile. Crescendo la infermità, e ’l Re un’altra volta venne a lui; e confortandolo, e come avea fatto in prima, inducendolo a penitenzia, e a confessare i suoi peccati, rispose: Tardi è 10 oggimai, messer lo Re; perocch’io sono già giudicato e condennato, che male a mio uopo non vi credetti l’altro giorno, quando mi visitaste, e consigliastemi della mia salute, che, misero a me! ancora era tempo di trovare misericordia. Ora, che mai non foss’io nato! m’è tolta ogni speranza; che poco dinanzi, che voi entraste a me, vennono due bellissimi giovani, e puosonsi l’uno da capo del letto, e l’altro da piè, e 15 dissono: Costui dee tosto morire, veggiamo se noi abbiamo veruna ragione in lui. E l’uno si trasse di seno uno picciolo libro, scritto di lettere d’oro, dove, avvegnaché in prima non sapessi leggere, lessi certi piccioli beni, e pochi, ch’io avea fatti nella mia giovinezza, innanzichè mortalmente peccassi: nè non me ne ricordava. E avendone grande letizia, sopravvennoro due grandissimi, nerissimi e crudelissimi Demonj, e 20 puosono davanti a’ miei occhi un grande libro aperto, ove erano scritti tutti i miei peccati, e tutt’i mali, ch’io avea mai fatti, e dissono a quelli due giovani, che erano gli Angeli di Dio: Che fate voi qui? conciossiacosachè in costui nulla ragione abbiate, e ’l vostro libro, già è molti anni, non sia valuto neente. E sguardando l’uno l’altro, gli Angeli dissono: E’ dicono vero. E così partendosi, mi lasciaro nelle mani de’ De25 monj: i quali con due coltella taglienti mi segano, l’uno dal capo, e l’altro da’ piedi. Ecco quelli da capo mi taglia ora gli occhi, e già ho perduto il vedere; e l’altro ha già segato insino al cuore, e non posso più vivere. E dicendo queste parole si morì.

1 ’l venerabile dottore Beda: Beda il Venerabile, monaco anglosassone, santo (ca. 672-735), autore di una Storia ecclesiastica del popolo inglese; ebbe grande influenza sulla cultura della Scolastica.

120 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale


Analisi del testo Un racconto terrifico Il racconto (scritto per essere inserito come exemplum in una predica ecclesiastica) è breve e apparentemente molto semplice, ma molto significativo e rivelatore della cultura dell’epoca. Di questo genere di narrazioni era alimentato il ricchissimo immaginario medievale, dominato dal senso del divino e privo di una netta distinzione fra il visibile e l’invisibile. Appariva allora radicata la credenza che forze soprannaturali (angeli e demoni) vigilassero costantemente su ogni uomo. Il racconto trapassa perciò con estrema naturalezza e senza soluzione di continuità dal piano visibile a quello invisibile, passando dal racconto realistico dell’incontro tra il cavaliere superbo e il re saggio che tenta di indurlo al pentimento, alla visione del peccatore, che, ormai prossimo alla morte, ha un anticipo del giudizio divino e dei tormenti infernali. In questa seconda parte del racconto, non solo gli elementi soprannaturali non appaiono sfumati né evanescenti, ma anzi sembrano stagliarsi con contorni più netti e colori più vividi di quelli del mondo visibile. Nell’intento di indurre i fedeli al pentimento, il predicatore sa evocare nella fantasia degli ascoltatori immagini di grande impatto visivo, adatte a tenerne sospesa l’attenzione e a impressionarli vivamente fino alla terribile scena finale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in max 15 righe. ANALISI 2. Completa una tabella indicando gli elementi di contrasto tra angeli e demoni, analizzandone l’aspetto, l’atteggiamento, i discorsi, le azioni.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 3. Pur nella sua semplicità, il racconto traccia un compiuto ritratto morale del peccatore. Indica gli elementi che concorrono a delinearlo. 4. Il predicatore Jacopo Passavanti utilizza lo strumento del terrore del giudizio di Dio per convincere chi legge della necessità di pentirsi prima che, come in questo caso, sia troppo tardi. Il tema della paura è presente in vari testi del Medioevo, ma in particolare nelle rappresentazioni terrifiche del trionfo della morte e dell’aldilà. Quali sono le paure che caratterizzano il Medioevo? Di che cosa, invece, si ha paura oggi e tu di che cosa hai paura?

2 Rappresentare l’aldilà: la “letteratura dell’oltremondo” Un genere di grande fortuna Uno dei generi più interessanti della letteratura religiosa medievale è la cosiddetta “letteratura dell’oltremondo”, incentrata sulle rappresentazioni dell’aldilà, che si diffonde tra il XII e il XIII secolo: ne è esempio la stessa Commedia. Il poema dantesco si distacca però nettamente dalle testimonianze coeve per l’eccezionale altezza poetica. Questo filone letterario si propone di suscitare nei fedeli l’orrore verso una vita peccaminosa e spingere a scelte di vita giuste e morali, mostrando con evidenza realistica le orribili pene dell’inferno e le delizie riservate ai giusti nel paradiso.

online T10 Anonimo La nave di san Brandano avvista l’isola dell’Inferno Navigazione di san Brandano

Lo schema narrativo del viaggio Nella letteratura medievale il contatto di un vivente con l’oltretomba può avvenire attraverso una “visione” o un vero e proprio “viaggio”, inscritto entro riferimenti spazio-temporali che scandiscono le tappe di un itinerario: è il caso della Commedia, in particolare nelle prime due cantiche. Uno dei testi che ebbero maggiore diffusione in tutta Europa è la Navigazione di san Brandano, un testo anonimo redatto in latino nell’ambiente monastico irlandese non oltre il X secolo (➜ T10 OL). Nel tardo Medioevo il testo latino fu volgarizzato in vari dialetti, tra cui il veneto e il toscano. Il testo prende spunto dalla figura La produzione didattico-edificante 2 121


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Per approfondire Immagini dell’aldilà nel mondo antico

di un monaco irlandese realmente vissuto (sec. VI) che fondò numerosi conventi e viaggiò per l’opera di evangelizzazione. Nella Navigazione di san Brandano i viaggi del monaco-santo vengono trasfigurati e inscritti in un orizzonte fantastico: il viaggio del santo con pochi compagni lo conduce oltre i confini del mondo abitato, dove troverà le più incredibili meraviglie prima di giungere al paradiso terrestre, nei pressi del quale incontra l’inferno.

I poemetti didattici di Giacomino da Verona e Bonvesin de la Riva Le più significative opere didattiche sull’aldilà nella cultura medievale (a parte ovviamente La figurazione la Commedia) sono i poemetti di Bonvesin de la Riva (il Libro delle tre scritture: De del diavolo nella cultura medievale scriptura nigra, De scriptura rubra, De scriptura aurea), e soprattutto di Giacomino da Verona, frate francescano: il De Babilonia civitate infernali (Babilonia città inferonline T11 Giacomino nale) e il De Jerusalem celesti (La Gerusalemme celeste). Composti tra la fine del da Verona Duecento e l’inizio del Trecento, i due poemetti di Giacomino raffigurano l’aldilà Una raffigurazione in modo ingenuo e pittoresco, utilizzando un volgare dell’area veneta volutamente terrifica dell’inferno: “basso”, adatto a raffigurare in modo iperespressivo un mondo ultraterreno che un monito per i deve colpire l’immaginazione più che lo spirito e l’intelletto del lettore (➜ T11 OL). fedeli online

Per approfondire

Babilonia, città infernale

online T12 Il viaggio ultraterreno come ponte tra cultura araba ed europea Libro della Scala

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Per approfondire La raffigurazione del mondo ultraterreno

I precedenti musulmani Il tema del viaggio nell’aldilà non riguarda solo la cultura cristiana, ma è presente anche in quella musulmana, nel Libro della Scala (➜ T12 OL). Il testo originale (del sec. VIII) in lingua araba è andato perduto, ma alla metà del XIII secolo, presso la corte di Alfonso di Spagna, se ne fecero tre traduzioni (spagnolo, francese, latino), che hanno permesso di conoscere questo importante documento della spiritualità islamica. Il titolo allude alla lunga scala che conduce dalla terra al cielo e attraverso la quale il profeta Maometto, guidato dall’angelo Gabriele, può intraprendere un viaggio nell’aldilà, nell’inferno e nel paradiso. Il Libro della Scala ha suscitato l’interesse degli studiosi per le analogie di temi e immagini ripresi nella Commedia dantesca. Viaggiare nell’aldilà Il topos letterario del viaggio nell’aldilà ha degli illustri precedenti nelle opere di Omero e di Virgilio, a cui gli scrittori medievali guardavano come modelli letterari. Numerose furono nella cultura medievale le descrizioni dei viaggi nell’oltretomba, anche se poche raggiunsero risultati letterari apprezzabili e nessuna si avvicinò alla grandiosa visione dantesca.

I testi didattico-edificanti Scopo dei testi edificanti

insegnare ai fedeli il giusto comportamento mediante

• vite dei santi • racconti ricchi di miracoli e fatti straordinari

• viaggi nell’aldilà • rappresentazioni di inferno e paradiso

Fissare i concetti La letteratura religiosa nell’età comunale 1. Che cosa si intende con mondanizzazione della Chiesa? 2. Che cosa accade all’interno dell’ordine francescano dopo la morte di Francesco? 3. In che senso il Cantico di frate Sole può essere considerato una testimonianza di misticismo? 4. Quali tematiche sono presenti nelle laude di Jacopone? 5. Quali sono le caratteristiche dello stile utilizzato da Jacopone nelle laude? 6. Da quali generi è caratterizzata la produzione didattico-edificante?

122 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale


Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell’età comunale

Sintesi con audiolettura

1 Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa

Una letteratura critica verso la Chiesa La predominanza nel Medioevo di una concezione del mondo ispirata ai valori cristiani è diretta conseguenza del ruolo centrale esercitato per secoli dalla Chiesa nella società e nella cultura. Ma già a cavallo dei secoli XI e XII sorgono nella cristianità (italiana, in particolare) movimenti spontanei (detti pauperistici) che cercano di riproporre i valori evangelici e l’ideale della povertà, a fronte di un potere ecclesiastico verticistico e gerarchico ritenuto sempre più lontano da tali ideali originari. Il potere ecclesiastico reagisce contro ogni forma di dissenso alla parola ufficiale: promuove sanguinose crociate contro i movimenti ereticali veri e propri (in particolare verso quello dei càtari) e guarda con sospetto, spesso accomunandoli agli eretici, anche persone e gruppi che promuovono semplicemente un ritorno alla purezza del Vangelo. In questo contesto nasce il movimento francescano che scaturisce dalla vicenda di Francesco d’Assisi e che riesce a essere ufficialmente riconosciuto e approvato dalla Chiesa come ordine mendicante (insieme ai domenicani, fondati da Domenico di Guzmán). Dopo la morte di Francesco il dissenso non si placa e viene veicolato anche da una produzione letteraria che nel XIII secolo ha esponenti rilevanti in Jacopone da Todi e nello stesso Dante Alighieri. Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi Figure di spicco dell’area del dissenso e al contempo principali rappresentanti della poesia religiosa medievale sono Francesco d’Assisi (1181-1226) e, in seguito, Jacopone da Todi (1236?-1306?). Mentre Francesco rimane però fino alla morte rispettoso dell’autorità del papa, che approva ufficialmente nel 1223 l’ordine mendicante francescano da lui fondato, Jacopone, strenuo oppositore del papa Bonifacio VIII, subisce la scomunica e il carcere. In entrambi si manifesta una visione mistica del rapporto con Dio, che si contrappone nettamente al filone razionalistico del pensiero medievale (rappresentato soprattutto da san Tommaso d’Aquino) e che trova in Bonaventura da Bagnoregio, francescano e biografo ufficiale di Francesco, il maggiore rappresentante a livello filosofico. Alla ricerca razionale il misticismo contrappone, come strumento per raggiungere Dio, la fede e una scelta di vita ascetica. Una scelta già testimoniata pienamente dalla vita controcorrente e dalla predicazione di Francesco, figura presto leggendaria per la comunità cristiana. Francesco è autore del celeberrimo Cantico di frate Sole, considerato il testo che inaugura la letteratura italiana: una preghiera in volgare umbro illustre che celebra la bellezza del creato e l’unità mistica di tutte le creature in Dio. Alla letizia di Francesco si contrappone la cupa visione presente nelle laude di Jacopone, rappresentante della corrente francescana degli spirituali, che interpreta in modo rigoristico il messaggio di Francesco. Nelle sue laude esalta in modo ossessivo la vita ascetica, che contrappone all’attrazione per i beni mondani e alla cultura delle università. Un altro filone delle sue laude celebra l’estasi mistica e l’amore esaltante per Dio. Tipica di Jacopone è la scelta di uno stile espressionistico che ricorre spesso a un ardito plurilinguismo. Sintesi Duecento e Trecento

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2 La produzione didattico-edificante

Generi letterari per la conversione del peccatore Nella letteratura medievale alcuni generi sono espressamente concepiti per la diffusione efficace del messaggio cristiano e l’edificazione dei fedeli: ricordiamo le Vite dei santi, narrazioni scritte costellate di miracoli, visioni, episodi palesemente inverosimili, ma a cui nel Medioevo si prestava fede assoluta; a esse i predicatori attingevano ampiamente inserendo nelle loro omelie esempi (exempla) utili al convincimento morale dei fedeli. Altrettanto importanti sono gli specula, cioè i trattati per l’educazione morale dei fedeli, tra cui emerge lo Specchio della vera penitenza di Jacopo Passavanti, improntato a una “pedagogia del terrore” per cui il fedele è messo di fronte alle tremende ed eterne conseguenze dello stato di peccato.

La rappresentazione dell’aldilà Nel Medioevo hanno grande fortuna testi incentrati sui viaggi nell’aldilà già presenti nelle letterature classiche (Odissea, Eneide). Il resoconto di questi viaggi e le raffigurazioni “realistiche” dell’aldilà hanno una precisa finalità didattica: indurre il lettore a un comportamento morale, raffigurando le delizie del paradiso e le orribili pene che lo attendono nell’inferno. È il caso dei poemetti, stesi nella seconda metà del XIII secolo, di Bonvesin de la Riva (Libro delle tre scritture) e di Giacomino da Verona (De Babilonia civitate infernali e De Jerusalem celesti). Anche la Commedia di Dante si iscrive in questa tipologia, ma con risultati artistici del tutto incomparabili.

Zona Competenze Scrittura

1. Il misticismo è una caratteristica comune a tutta la religiosità medievale che però si esprime e si manifesta in forme e atteggiamenti diversi. Dopo aver fatto le opportune ricerche scrivi una relazione di massimo 30 righe.

Competenze digitali

2. Dopo aver letto l’approfondimento OL Immagini dell’aldilà nel mondo antico scrivi un resoconto sulle visioni dell’oltremondo a partire dall’Odissea e sul significato che esse assumono in rapporto al variare del contesto culturale e sociale. Realizza poi il tuo lavoro sotto forma di presentazione multimediale, corredata da immagini e didascalie.

Sandro Botticelli, La voragine infernale, disegno per la Divina Commedia, punta d’argento su pergamena, 1445-1510 (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana).

124 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale


Duecento e trecento CAPITOLO

3 Forme del narrare nella società comunale

Nel corso del Duecento, in relazione al nascere di una nuova realtà comunale, si assiste all’affermazione della prosa in volgare e all’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico. Tre sono i generi in cui si manifesta questo piacere di narrare: la letteratura di viaggio, la novella e le cronache cittadine. Nel primo spicca Il Milione, il celebre libro di Marco Polo; nel genere della novella emergerà in particolar modo il Decameron di Giovanni Boccaccio e nelle cronache i cittadini ritroveranno il ritratto delle città comunali.

il viaggio 1 raccontare nel Medioevo per il gusto 2 narrare di narrare: la novella cronache 3 Lecittadine 125


1

Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 L’affermazione della prosa in volgare

L’accoglienza del pellegrino, che impugna il bordone, part. della vetrata del rosone, 1250 ca., (Friburgo, Cattedrale di Nostra Signora).

I volgarizzamenti Nel corso del Duecento, in rapporto alle esigenze della vivace realtà comunale, conosce un forte incremento l’uso della prosa in volgare (o meglio nei vari volgari): molti testi sono in realtà traduzioni, adattamenti e riscritture di opere soprattutto latine, ma anche francesi. Per questa ricca produzione si parla di volgarizzamenti per precisare che non si tratta, appunto, di opere originali, anche se svolsero un ruolo indubbiamente importante nella formazione culturale dei ceti dirigenti nei Comuni italiani. Si tratta di opere di diverso argomento e tipologia testuale, come ad esempio i trattati di retorica: il fiorentino Brunetto Latini, uno dei più importanti intellettuali del tempo, traduce nella sua Rettorica il De inventione di Cicerone (oltre a varie orazioni del grande scrittore latino). L’affermazione del ceto borghese-mercantile e le esigenze di un pubblico inserito nelle multiformi attività dei Comuni alimenta però anche una produzione in prosa originale, finalizzata soprattutto alla divulgazione secondo l’ottica enciclopedica propria del tempo, come la Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo, o alla trasmissione di norme di comportamento morale secondo un’ottica laica, come il Libro de’ Vizi e delle Virtudi di Bono Giamboni.

2 L’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico I tre generi della narrazione Più significative e interessanti per noi oggi sono le forme della prosa originate dal gusto del narrare, che incontra particolarmente il favore del nuovo pubblico cittadino. Tre sono principalmente i generi in cui si manifesta il gusto del narrare, con diverse modalità e funzioni: la letteratura di viaggio, la novella e le cronache cittadine. Nel primo filone spicca un libro celebre, già al tempo un vero bestseller, Il Milione del mercante veneziano Marco Polo. Nel genere della novella, particolarmente gradito ai lettori appartenenti al mondo mercantile, si iscriverà uno dei capolavori assoluti della letteratura italiana, il Decameron di Giovanni Boccaccio, che è appunto una raccolta di cento novelle. Nelle cronache cittadine infine i lettori del tempo potevano ritrovare il ritratto della società comunale, con particolare riferimento alle grandi passioni politiche che ne caratterizzarono la vita.

126 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale


3 I racconti di viaggio Un mondo in cammino Nel Medioevo l’esperienza del viaggiare era tutt’altro che rara (basti pensare ai clerici vagantes ➜ SCENARI, PAG. 31), nonostante le grandi difficoltà che comportava: si viaggiava in tempi lunghi, su strade dissestate, usando carretti e muli e non pochi erano i pericoli e le incognite, anche per la scarsità di conoscenze geografiche. Ancora più rischiosi, anche se più rapidi, erano i viaggi per mare, a causa delle tempeste e dei continui attacchi dei pirati (come dimostra la celebre novella di Landolfo Rufolo nel Decameron di Boccaccio ➜ C8 T9a OL). Pellegrini e missionari Ma chi viaggiava? Innanzitutto i pellegrini. Fin dai primi secoli del Medioevo iniziano i pellegrinaggi verso le mete religiose più importanti della cristianità, concepiti dalla religiosità medievale come occasioni penitenziali e devozionali, veri e propri itinerari salvifici. Col tempo, emersero fra tutte tre mete di pellegrinaggio: Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela. Roma è il centro della cristianità, sede del martirio di Pietro e Paolo; Gerusalemme, la terra dove visse e morì Cristo, nei testi sacri è anche simbolo del paradiso (la Gerusalemme celeste); Compostela, secondo una pia tradizione, accoglie il corpo di san Giacomo. Uno degli itinerari più frequentati dalla massa di pellegrini è la via Francigena che dalla Francia, dalle regioni del bacino renano e dalle isole britanniche portava a Roma attraversando buona parte dell’Italia settentrionale e centrale. I due oggetti che accompagnavano il pellegrino (e che ne permettevano l’immediato riconoscimento) erano la bisaccia (una piccola borsa di pelle sempre aperta, con allusione ai princìpi di carità e povertà) e il bordone (un alto bastone dalla punta metallica che simboleggiava la difesa dal male e dalle tentazioni del viaggio). Dalla metà del XIII secolo iniziano anche i viaggi di alcune figure della Chiesa, in particolare appartenenti all’ordine francescano, verso l’Estremo Oriente, con l’obiettivo, già proprio di Francesco d’Assisi, di convertire al cristianesimo i popoli di quelle terre. I missionari lasciarono ampia testimonianza dei loro viaggi in relazioni dettagliate riguardanti anche le abitudini e le credenze dei popoli che avevano incontrato. I mercanti, viaggiatori per eccellenza Ma sono soprattutto i mercanti a viaggiare: il loro errare in aree geografiche lontane e spesso ignote è motivato da un interesse prevalentemente economico ed è espressione dell’intraprendenza propria del ceto borghese nella civiltà urbana del Basso Medioevo. Oltre a mete quali l’Europa settentrionale intorno al mar Baltico, le isole dell’Atlantico e l’Africa settentrionale, sicuramente la zona più attraente per i mercanti, anche per i rilevanti interessi economici coinvolti, è costituita dall’Estremo Oriente, soprattutto verso la metà del Duecento, quando vi si costituì il grande impero mongolo, che non si mostrava del tutto chiuso all’incontro con il mondo occidentale. Numerosi mercanti, come il veneziano Marco Polo, si avviarono verso quelle terre circondate da un’atmosfera di mistero, nelle quali si favoleggiava di immense ricchezze di personaggi spesso immaginari, come il prete Gianni (➜ SCENARI, D4 OL). Pellegrini in viaggio, miniatura, sec. XII.

Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 127


Le relazioni di viaggio dei mercanti I mercanti erano consapevoli dell’utilità di divulgare la conoscenza di nuovi orizzonti geografici, nuovi costumi, lingue, religioni e nuove concezioni del mondo: da qui la preoccupazione di lasciare memoria scritta dei viaggi compiuti. È giunta fino a noi una grande quantità di documenti, di varia natura: dai portolani, guide per individuare porti, approdi, punti favorevoli delle coste, ai cataloghi di luoghi importanti per lo scambio commerciale, ai tariffari con indicazioni di costi e pratiche di mercatura, agli zibaldoni, diari di bordo utilizzati abitualmente dai membri delle corporazioni mercantili per le loro annotazioni di viaggio.

Viaggiatori nel Medioevo CHI VIAGGIA E PERCHÉ

Pellegrini

per penitenza o devozione verso Roma, Gerusalemme o Santiago de Compostela

Studenti

per seguire le lezioni di docenti famosi

Mercanti

per espandere i propri commerci

Pellegrini diretti a Roma in un altorilievo del 1180 ca. (Fidenza, Cattedrale di San Donnino).

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D1 Rodolfo il Glabro La vicenda di un pellegrino a Gerusalemme Cronache dell’anno mille

Franco Cardini Il significato del termine pellegrino

Interpretazioni critiche

128 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale


4 Marco Polo e Il Milione

Lessico bestseller Il termine è moderno e indica un’opera, spesso un libro, ma non esclusivamente, che ha una vendita e dunque una diffusione particolarmente ampia.

La vita avventurosa di Marco Polo, emblema del viaggiatore Il veneziano Marco Polo (1254-1324), figlio e nipote di mercanti viaggiatori, accompagnò il padre Niccolò e lo zio Matteo nel loro secondo viaggio verso l’Estremo Oriente, rimanendovi per ben venticinque anni. Dopo un avventuroso viaggio attraverso l’Armenia, l’altipiano dell’Iran, il deserto del Gobi, i Polo giunsero a Cumbao (oggi Pechino), ben accolti alla corte di Qubilai (o Kublai), Gran Khan di tutti i Tartari. Il giovane Marco si guadagnò la stima del Gran Khan, che gli assegnò importanti incarichi politici e diplomatici (a ciò non fu estraneo il fatto che i tre veneziani conoscessero discretamente le lingue tartara, cinese e persiana). In qualità di governatore, Marco poté visitare la Cina meridionale, la Cocincina e forse l’India inferiore. Il ritorno in patria nel 1295 segnò un cambiamento radicale nella sua vita: preso prigioniero dai genovesi durante un conflitto tra le due repubbliche di Venezia e Genova, trascorse quattro anni in carcere prima di essere liberato e tornare alla mercatura, in forma però, pare, sedentaria. Nella sua prigionia il mercante si trovò ad avere come compagno di cella Rustichello da Pisa, autore in particolare del Meliadus, poema cavalleresco di un’ormai trita materia arturiana, non privo all’epoca di una certa fama. A Rustichello Marco Polo dettò le memorie dei suoi straordinari viaggi: ne nacque Il Milione, un vero e proprio bestseller . Il Milione: un doppio narratore Il Milione nasce così dalla felice cooperazione di due attitudini diverse: il racconto orale di Marco, basato essenzialmente sulla memoria, e la scrittura di Rustichello, che dovette fissare e dar veste letteraria a quei ricordi, divenendone corresponsabile. Tuttavia quest’ultimo definisce con chiarezza la propria posizione di narratore di “secondo livello”, poiché parla di Marco Polo in terza persona, raccontandone la figura, la biografia e le avventure senza mai uscire dall’ombra di un puro servizio di “trascrittore” delle sue memorie. La struttura e i contenuti Il libro si compone di due parti di diversa estensione. Nella prima, assai breve, definita dall’autore prologue (prologo), si narra in maniera concisa il succedersi delle vicende vere e proprie dei Polo, dal primo viaggio di Niccolò e Matteo al secondo, cui partecipò anche Marco, fino al loro rientro a Venezia dopo un soggiorno di diciassette anni in Cina. La seconda, considerata dall’autore stesso il libro vero e proprio, è un “trattato” etno-geografico composto sul modello delle sezioni tematicamente analoghe delle “pratiche della mercatura”. Seguendo l’itinerario compiuto da Marco, la trattazione è organizzata per località: di ogni zona viene descritto con abbondanza di particolari il paesaggio, il clima, la vegetazione, la fauna, i minerali, senza escludere le strutture architettoniche delle varie città.

Struttura narrativa de Il Milione Rustichello scrive narratore di 1° grado ciò che Marco ha visto e udito narratore di 2° grado da testimoni degni di fede narratore di 3° grado

Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 129


Delle diverse popolazioni incontrate personalmente o di cui ha avuto informazioni Marco Polo illustra le abitudini di vita, le attività economiche e commerciali, la moneta impiegata. Non mancano narrazioni mitologiche, aneddoti di tradizioni locali e simili. L’intento e la prospettiva della narrazione La narrazione de Il Milione è dominata da un intento eminentemente informativo e formativo (non a caso l’autore utilizza spesso la funzione conativa del linguaggio: “sappiate che”, e forme simili). L’interesse di Marco Polo nel comunicare la sua straordinaria esperienza non è però meramente commerciale e utilitaristico (offrire ai mercanti informazioni utili a sviluppare commerci futuri), ma essenzialmente cultural-antropologico. Lo testimonia il fatto che le informazioni relative a merci, prezzi, prodotti e materie prime sono sporadiche e la loro presenza nel testo è decisamente meno significativa delle osservazioni dedicate alla natura, agli animali e soprattutto agli aspetti antropologici (usi, costumi, leggende, credenze religiose diverse), che Marco Polo osserva con animo curioso e disponibile nei confronti dell’“altro”. Anche se talvolta Marco Polo indulge ancora a credenze medievali, che accettano l’esistenza del mostruoso e del fantastico, comincia a emergere ne Il Milione un’ottica critica e razionale, rivolta al nuovo, tipica della società mercantile.

Marco Polo salpa da Venezia in una miniatura dell’inizio del XV secolo (Oxford, Bodleian Library).

Il titolo, la lingua e la trasmissione del testo L’opera diventò presto famosa col titolo di Il Milione, derivato presumibilmente dal soprannome che i Polo avevano ereditato da un loro antenato, Emilio o Emilione. Il titolo originale è ignoto; nel manoscritto più accreditato che ci ha trasmesso il testo compare il titolo Divisament du monde (“Descrizione del mondo”), che potrebbe essere quello del libro (o comunque vicino a esso) perché ne rispecchia la natura di trattato geografico-etnografico. Il Milione fu scritto in lingua d’oïl, la prestigiosa lingua romanza di cui si serviva abitualmente Rustichello; il manoscritto originale andò però perduto, mentre restano i volgarizzamenti, il più antico dei quali risale a prima del 1309. Il gran numero di volgarizzamenti, soprattutto in toscano, testimonia l’immediata e vasta fortuna dell’opera, che andava incontro alle attese e al gusto di un pubblico borghese e urbano, a vario titolo coinvolto nel mondo della mercatura.

Il Milione Racconto orale di Marco Polo

scritto in lingua d’oïl da Rustichello da Pisa

online T1 Marco Polo

II pubblico e il metodo della narrazione Il Milione, Prologo

130 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale

prima parte: resoconto di viaggio

seconda parte: trattato etno-geografico


Marco Polo

T2

I favolosi unicorni di Sumatra Il Milione, 147

M. Polo, Il Milione, a cura di R. M. Ruggieri, Olschki, Firenze 1986

Il passo costituisce un esempio delle descrizioni de Il Milione: condotte con ordine, concise e ricche di dati derivanti dall’osservazione diretta.

Quando l’uomo si parte dell’isola di Petam [...]trova l’isola di Iava la minore1: ma ella non è sì piccola ch’ella non giri duemilia miglia. E di questa isola vi conterò tutto il vero. Sappiate che in su questa isola hae otto re coronati, e sono tutti idoli, e ciascuno di questi reami ha lingua per sé. Qui ha grande ab2 3 5 bondanza di tesoro e di tutte care ispezierie. Or vi conterò la maniera di tutti questi reami, di ciascuno per sé. E dirovvi una cosa che parrà maraviglia ad ogni uomo: che questa isola è tanto verso mezzodì4, che la tramontana5 non si vede né poco né assai. Or torneremo alla maniera degli uomeni, e dirovvi de’ reame di Ferbet. Sappiate, 10 perché i mercatanti saracini usano in questo reame con lor navi6, e’ hanno convertita questa gente alla legge di Malcometto; e questi sono soli quelli della città. Quegli delle montagne sono come bestie, ch’egli mangiano carne d’uomo e d’ogni altra bestia e buona e rea7. Egli adorano molte cose8, ché la prima cosa ch’egliono veggiono la mattina sì la adorano. 15 Ora v’ho contato di Ferbet: ora vi conterò de’ reame di Basma. Lo reame di Basma, ch’è all’uscita di Ferbet è reame per sé, e loro linguaggio propio; e non hanno niuna legge se no come bestie. Egliono si richiamano per lo Gran Cane9, ma no gli fanno niuno trebuto, perché sono sìe alla lunga che la gente del Gran 20 Cane non vi potrebbe andare10; ma alcuna volta lo presentono11 d’alcuna cara cosa. Egli hanno leonfanti12 assai salvatichi, e unicorni che non sono guari minori che leonfanti13. E sono di pelo di bufali, e piedi come leonfanti. Nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso: e dicovi che non fanno male co quel corno, ma co la lingua, ché l’hanno ispinosa tutta quanta di spine molte grandi. 25 Lo capo hanno come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso la terra; ed istà molto volentieri tra li buoi14: ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere alla pulcella15, ma è il contradio16. Egli hanno iscimmie assai e di diverse fatte; egli hanno falconi neri buoni da uccellare. [...] 30 Or lasciamo questo reame, ché non ci ha altro da ricordare; e dirovvi dell’altro c’ha nome Samarca.

1

Iava la minore: Sumatra, chiamata dagli Arabi “piccola Iava” o “Iava la minore”. 2 abbondanza di tesoro: le risorse del sottosuolo. 3 la maniera: le caratteristiche. 4 mezzodì: a sud. 5 la tramontana: è la stella polare che indica il Nord. Marco Polo vuole dire che Sumatra per la sua posizione non può mai vedere la stella polare.

6 usano… navi: frequentano questo reame con le loro navi. 7 rea: cattiva. 8 Egli adorano molte cose: sono politeisti. 9 si richiamano… Gran Cane: si dichiarano sudditi del Gran Khan. Il titolo significa “gran signore” e identifica per antonomasia Qubilai, signore dei Mongoli dal 1260 al 1294.

10 perché… non vi potrebbe andare: sono così distanti che gli emissari del Gran Khan non vi potrebbero andare. 11 presentono: gli fanno dono. 12 leonfanti: elefanti. 13 non sono… leonfanti: non sono per nulla più piccoli degli elefanti. 14 tra li buoi: con i buoi. 15 alla pulcella: dalla fanciulla. 16 contradio: contrario.

Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 131


Analisi del testo Uno sguardo da “testimone oculare” Il passo dedicato all’isola di Sumatra è esemplare per cogliere in tutta la sua portata il mutamento di prospettiva culturale rappresentato dall’esperienza di Marco Polo. Prima di tutto, il viaggiatore veneziano sa che cosa osservare: il suo sguardo, per nulla condizionato dal simbolismo medievale, è quello di un mercante, e insieme di un antropologo e di un naturalista. Nuovo e moderno è poi l’atteggiamento razionale e critico, da “testimone oculare”, con cui Marco Polo confronta la propria “enciclopedia mentale” con i dati offerti dalla realtà. Oltre ai luoghi, agli aspetti politici, economici e alle abitudini di vita degli abitanti, Polo si sofferma, come in questo passo, sulla descrizione degli elementi naturali, dei minerali, delle piante e degli animali. L’osservazione di questi ultimi, per un uomo medievale che si è formato sui bestiari e sulle fantasiose enciclopedie del tempo, riserva alcune sorprese. Un caso esemplare è quello degli unicorni: colpisce qui l’atteggiamento razionale e critico con cui Marco Polo mette a confronto i dati osservati con la tradizione medievale, di cui mostra gli errori e le ingenuità.

Il caso esemplare dell’unicorno Bestiari ed enciclopedie medievali concordavano nella rappresentazione di un animale di pura fantasia: bianco, aggraziato e simile a un capretto, con un corno solo, che si lasciava amabilmente catturare da una fanciulla vergine. A Sumatra Marco Polo credette di avere finalmente avvistato il favoloso e rarissimo animale, che nessuno aveva ancora mai visto, ma che delusione! Era una bestia laida e sgraziata, con un corno, ma con il pelo tutto nero e sporco (si trattava infatti di un rinoceronte). Tra le righe, il viaggiatore veneziano suggerisce di non avvicinare nessuna vergine a quel bestione grosso e feroce: «non è vero, come si dice in Occidente, che si lasci catturare da una fanciulla vergine, ma è il contrario». Marco Polo descrive dunque la realtà attraverso la sua cultura (nella quale esistevano gli unicorni), ma anche pronto a smentire ciò che non regge alla prova dei fatti. Tale atteggiamento mentale lo porta a sfatare diverse leggende medievali (ad esempio, in un altro passo osserva che la salamandra non vive nel fuoco come raccontavano i bestiari). Di contro, in Oriente, terra leggendaria di mostri e di prodigi, il suo occhio vigile di mercante sa scorgere cose di cui non si sospettava neppure l’esistenza, come il carbon fossile e il petrolio, che l’Occidente imparerà a conoscere e sfruttare soltanto secoli dopo.

Lo stile L’apertura mentale del viaggiatore e mercante veneziano si riflette anche nello stile comunicativo dialogico: si rivolge continuamente al lettore per rassicurarlo che non racconterà nulla di inventato, ma soltanto cose vere, seppure talvolta apparentemente inverosimili («vi conterò tutto ’l vero», «diròvi una cosa che parrà meraviglia a ogn’uomo», «non è, come si dice di qua»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il testo (non più di 10 righe), privilegiando la descrizione oggettiva del racconto di Marco Polo. ANALISI 2. Spiega quale atteggiamento assume l’autore nei confronti dei dati osservati. Motiva la tua risposta facendo riferimento al testo (max 10 righe). LESSICO 3. Rintraccia nel testo le espressioni che indicano l’apertura mentale del viaggiatore e mercante veneziano.

Interpretare

SCRITTURA 4. Nel Medioevo il viaggiatore non conosceva i limiti del suo viaggiare, poteva soltanto immaginarli; il viaggio, qualsiasi viaggio, era pervaso da un’aura di avventura e di magia che spesso prevaleva sullo stesso intento del viaggio. Descrivi come tali aspetti si riflettano nei testi antologizzati.

online T3 Marco Polo

La pericolosa setta dei fumatori di hashish Il Milione, 35

132 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale

online

Interpretazioni critiche Umberto Eco

Un “inviato speciale” deluso dagli unicorni


VERSO IL NOVECENTO

Il Marco Polo di Calvino: dal progetto cinematografico alle Città invisibili Nel 1960, appena conclusa la Trilogia degli antenati (Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato), Italo Calvino (1923-1985) scrive un testo su Marco Polo come base per un film. Il film non fu mai realizzato e lo scritto di Calvino rimase allora inedito, ed è ora pubblicato in un volume dei Meridiani Mondadori dedicato alle opere dello scrittore. Calvino dedica particolare attenzione alla costruzione del personaggio di Marco Polo: lo presenta come un giovane curioso, a volte ancora ingenuo, ma accorto e desideroso di sapere cosa c’è dietro alle cose, e lo immagina mentre osserva l’Oriente «a occhi sgranati», col naso all’insù, pronto a immergersi nella realtà con tutti i sensi («Nei banchi delle spezie, ci ficca il naso dentro»; a Baghdad lo prende il desiderio di «toccar tutto, assaggiare tutto»). All’imperatore Kublai Khan il Marco Polo immaginato da Calvino per il film si sarebbe presentato così: «Sono figlio di mercanti, nipote di mercanti; la mia vocazione quale volete che sia? Mercante anch’io. O meglio, cercatore: quello che mi piacerebbe di più è andare per i paesi, le terre sconosciute, e vedere tutte le qualità di cose che ci sono, bestie, pietre, merci, e rendermi conto di come sono fatte». Dieci anni dopo, nel 1970, Calvino inizia a elaborare il progetto delle Città invisibili: all’interno di una cornice, costituita dal dialogo, denso di riflessioni antropologiche e filosofiche tra Marco Polo e Kublai Khan, sono descritte 55 città che Marco ha visitato, come ambasciatore e consigliere del potente signore. Lo stesso Calvino per la sua opera parla espressamente di un “rifacimento” de Il Milione, di cui è evidente la suggestione; ma le città descritte dall’autore moderno sono immaginarie, proiezioni di temi conoscitivi e filosofici cari all’autore.

Italo Calvino Le città invisibili Rispetto al progetto cinematografico di dieci anni prima, nelle Città invisibili il personaggio di Marco Polo rivela un fondo di malinconia e di nostalgia: il suo pensiero torna continuamente a Venezia e, in uno dei dialoghi della cornice, Marco spiega che in fondo lui parla sempre di Venezia, perché quando descrive ogni città la confronta con quella che per lui è la città, Venezia, il luogo dove è nato. Ciò significa che ogni viaggio, attraverso il confronto con un mondo altro, è alla fine una messa a fuoco della propria identità.

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VI. Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D’abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d’accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell’Augusto Sonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. – Dimmi ancora un’altra città, – insisteva. – [...] Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... – riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. Era l’alba quando disse: – Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. – Ne resta una di cui non parli mai. Marco Polo chinò il capo. – Venezia, – disse il Kan. Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi? L’imperatore non batté ciglio. – Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome. E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. – Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia.

Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 133


VERSO IL NOVECENTO

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– Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. – Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei. L’acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell’antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano. – Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, – disse Polo. – Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta a poco a poco.

PER APPROFONDIRE

Testo di riferimento: B. Falcetto, Le cose e le ombre. “Marco Polo”: Calvino scrittore per il cinema, in La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su Le città invisibili di Italo Calvino, a cura di M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto, Mondadori, Milano 2002. La citazione è da I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.

La letteratura di viaggio oggi, fra Kerouac, Chatwin, Sepúlveda, Terzani, Magris, Pessoa e Imai Messina Il tema del viaggio è così connaturato all’esistenza umana che, in fondo, ogni libro parla di viaggi, effettivi o metaforici, mentali o reali. Come osserva Bruce Chatwin in Le vie dei canti «Ci sono critici francesi pronti ad acclamare in Proust, l’eremita della stanza foderata di sughero, il più grande viaggiatore della letteratura». Molti libri, tuttavia, sono rivolti in modo più specifico a comunicare esperienze ed emozioni di viaggi compiuti realmente. Un genere novecentesco di letteratura di viaggio è quello della narrazione (e del film) on the road, inaugurato dal famoso romanzo di Jack Kerouac Sulla strada (1957), in cui del viaggio interessa soprattutto la dimensione trasgressiva, il rifiuto di integrarsi in alienanti meccanismi sociali alla ricerca di una forse impossibile libertà. Ma vi è anche una letteratura di viaggio in cui, come ne Il Milione, l’attenzione è posta soprattutto su mondi diversi e lontani, e su ciò che di essi il viaggiatore ha visto, udito, compreso. In questo genere di letteratura l’autore, attraverso le proprie emozioni e riflessioni, apre lo sguardo del lettore su un “mondo altro”, rendendolo partecipe delle proprie esperienze. Così, analogamente a quanto Marco Polo sottolinea nel prologo a Il Milione, chi non ha potuto scoprire le straordinarie cose che ci sono sulla Terra, può almeno apprezzarle per mezzo del racconto di altri viaggiatori. Il più famoso autore di tale genere di libri di viaggi è oggi probabilmente Bruce Chatwin (1940-1989), divenuto un vero e proprio mito e quasi il simbolo stesso del viaggiatore per la sua vita breve e irrequieta, i suoi molteplici interessi (esperto d’arte e di architettura, archeologo, giornalista, viaggiatore, scrittore), il suo modo di viaggiare (con zaino in spalla, penna e piccoli taccuini neri, antesignani dei notissimi Moleskine per annotare impressioni di viaggio, riflessioni, citazioni di libri, aneddoti), il rifiuto di ogni sistemazione stabile, l’irrequietezza. «Perché divento irrequieto

dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?», scrive, ed è famoso il racconto di quando, vista una carta della Patagonia disegnata da un’anziana architetto, le confessa il suo desiderio di andarci. La vecchia signora lo incoraggia a realizzare il suo desiderio e Chatwin parte immediatamente, senza neppure il tempo di dare le dimissioni al giornale per cui lavorava, che avverte con un telegramma: «Sono andato in Patagonia». Ne nascerà uno dei suoi libri più famosi, In Patagonia (1982). Tra i libri di viaggio più significativi scritti da Chatwin sono Le vie dei canti (1988), sulla misteriosa cultura degli aborigeni australiani e la loro idea del sacro, e Anatomia dell’irrequietezza (1996, postumo), in cui l’autore inglese espone le sue idee sul nomadismo, spiegando perché secondo lui gli uomini sono fatti per viaggiare. Come Il Milione è stato l’archetipo della letteratura di viaggio e ha insegnato un nuovo modo di guardare il mondo, così, sulle orme di Chatwin, molti hanno esplorato i luoghi da lui amati, alla periferia della civiltà: in tal senso si può citare come esempio Patagonia Express (1999) dello scrittore cileno Luis Sepúlveda. Un altro genere di letteratura di viaggio che ha grande sviluppo nel Novecento, ma il cui archetipo si può ancora una volta ricondurre a Marco Polo, è il reportage giornalistico: anche Marco Polo era stato incaricato da Kublai Khan di raccontare ciò che aveva visto negli sterminati territori dell’impero. Oggi, purtroppo, la letteratura di questo genere è per lo più letteratura di guerra; tra i libri italiani più interessanti del genere reportage sono quelli di Tiziano Terzani (1938-2004), giornalista che nella sua carriera ha sempre cercato di trovarsi nei “luoghi caldi” del pianeta, e che, con il suo stile chiaro e incisivo, ha testimoniato la guerra del Vietnam, i genocidi in Cambogia, il crollo del regime sovietico, la drammatica realtà dell’Afghanistan.

134 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale


Tra i suoi libri, In Asia (1998) ripercorre le vicende della storia asiatica e analizza le molteplici realtà di quel continente, dall’India al Giappone, alla Cina, al Vietnam, unendo il reportage all’autobiografia; per le realtà descritte è interessante anche Lettere contro la guerra (2002), che mostra l’evoluzione di Terzani, nell’ultimo periodo della sua vita, da giornalista di guerra a giornalista contro la guerra, e presenta un’interessante testimonianza sulla realtà afghana e, più in generale, sul mondo dopo l’11 settembre. Un genere di letteratura di viaggio originale è rappresentato dai libri di Claudio Magris (nato nel 1939), dedicati in particolare alla Mitteleuropa, in cui al racconto di viaggio e alle descrizioni dei luoghi, dei popoli e delle persone, si intrecciano riflessioni sulla letteratura, la cultura, gli eventi, i personaggi che in quei luoghi hanno vissuto, alla ricerca delle più profonde radici storiche e culturali di ciò che si è visto durante il viaggio: ne è un esempio Danubio (1990), in cui il corso del fiume, dalle sorgenti al Mar Nero, simboleggia il cammino della storia e della cultura mitteleuropea. Dello stesso Claudio Magris è il libro L’infinito viaggiare (2006), in cui alle riflessioni sul viaggio si accompagnano brevi rac-

conti sui tanti incontri dell’autore con libri, luoghi e persone. Grazie alla casa editrice Einaudi, nel 2016 viene pubblicato un testo, una piccola guida, Lisbona Quello che il turista deve vedere, scritta da Fernando Pessoa in inglese nel 1925, molto utile ancora oggi e arricchita da un’appendice Lisbona oggi, con suggerimenti utili anche al visitatore degli anni Duemila. All’interno del testo il lettore può percorrere con Pessoa le vie di Lisbona dal Bairro Alto all’Alfama, dal castello de Sâo Jorge al monastero dos Jerónimos, scoprendo le bellezze della città. Un grande scrittore portoghese guida quindi il lettore alla scoperta di una straordinaria capitale europea, dando modo di vedere monumenti, palazzi, piazze con gli occhi di chi è nato in quella città. Nel 2020 per Einaudi esce Tokyo tutto l’anno della scrittrice Laura Imai Messina. In questo libro l’autrice definisce Tokyo, una città «in uno stato di infanzia perenne», una delle grandi metropoli globali, ricchissima di storie, tradizioni e segni, una città dove usanze secolari convivono con gli appassionati di manga e videogame. Tokyo viene descritta come una città in cui i ritmi frenetici della vita odierna si alternano con quelli ritmati delle festività. Si tratta di un viaggio sentimentale all’interno di una grande metropoli.

online

Verso l'esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Marco Polo con elefanti e cammelli arriva a Hormuz, nel golfo Persico, proveniente dall'India, illustrazione miniata dal Livres des Merveilles du monde, 1410-1412 (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 135


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Narrare per il gusto di narrare: la novella 1 Un genere dalla vita secolare Un nuovo genere La novella è una narrazione in prosa, in genere breve, di contenuto vario, che si afferma in Italia tra la fine del Duecento e il Trecento, in rapporto con la dinamica vita dei Comuni e le esigenze di un pubblico nuovo, interessato alla lettura di opere letterarie finalizzate non tanto all’edificazione morale-religiosa ma piuttosto all’evasione e al divertimento. Si tratta di un pubblico che cerca un testo facilmente fruibile, in cui rispecchiarsi. Il centro di produzione elettivo è la Toscana, dove verso la metà del Trecento sarà composto il capolavoro del genere e una delle opere più importanti della letteratura italiana, il Decameron di Giovanni Boccaccio. Il termine La parola novella ha un primo significato di “novità”: allude a una storia che vale la pena di raccontare perché insolita, capace di rivelare aspetti nuovi della realtà e dell’esperienza umana. Il testo narrativo breve è definito “novella” fino al Settecento, quando diventa prevalente la denominazione “racconto”. È però interessante ricordare che alcuni autori otto-novecenteschi come Verga, D’Annunzio, Pirandello preferirono ancora servirsi del termine tradizionale continuando a chiamare “novelle” i loro racconti. Un genere polimorfico e metamorfico La novella è il genere più mobile e polimorfico della letteratura. Sotto la denominazione di novella sono infatti comprese forme narrative molto varie, sia riguardo ai contenuti e ai temi, sia riguardo alle scelte del registro stilistico (comico, tragico, patetico), sia riguardo al fine: non si può certo dire, ad esempio, che le novelle di Verga o di Pirandello mantengano il fine di “piacevole intrattenimento” che caratterizza per lo più il genere narrativo breve nei primi secoli della sua lunga storia.

2 Le prime forme di narrazione breve: gli exempla e i fabliaux La narrazione “esemplare” Le prime forme di narrazione breve che si incontrano nella cultura medievale, e che hanno influenzato la novella, subordinano in genere il racconto a un fine morale ed educativo, conferendogli carattere esemplare: negli exempla (“esempi”, in latino), spesso usati dai predicatori per convincere i fedeli, le vicende non sono realistiche, ma sono spesso inverosimili e si iscrivono in una dimensione spazio-temporale indeterminata; particolarmente importante diventa la conclusione in cui viene spiegato il valore emblematico del racconto, lo stile è semplice e facilmente comprensibile da tutti. Spunti didattici esistevano già nella novellistica indiana e orientale, che aveva elaborato un materiale narrativo molto ricco, poi trasmesso attraverso la mediazione araba anzitutto in Spagna e di qui in tutta Europa, grazie agli scambi tra le popolazioni di Oriente e Occidente, alle crociate e ai pellegrinaggi religiosi.

136 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale


Col tempo tali spunti vennero cristianizzati e, fondendosi con materiali narrativi di altra provenienza (leggende classiche, imprese cavalleresche del ciclo bretone ecc.), contribuirono a formare un vastissimo repertorio tematico che poi confluirà anche nella novella. Nel XIII secolo progressivamente il racconto va liberandosi della prevalente finalità moralistica: l’emergere della novella andrà di pari passo con la graduale affermaonline zione della componente del “piacere” del narrare e con la T4 Jacopo Passavanti consapevolezza che ci siano aspetti della realtà “nuovi”, che Le tentazioni di un asceta non possono essere inquadrati e spiegati ricorrendo ad astratti Specchio della vera penitenza, XVI schemi morali. I fabliaux e la tradizione del comico Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo nella Francia settentrionale si sviluppa un genere narrativo contrapposto agli exempla e che a sua volta ha inciso sulla storia del genere novellistico: alludiamo ai fabliaux, racconti in versi, in genere anonimi, piuttosto brevi e caratterizzati da un tono crudamente realistico, spesso apertamente osceno. Vi circolano motivi appartenenti al folklore, legati alla tradizione orale; e del resto, prima di venire scritti i fabliaux erano recitati nelle piazze dai giullari. Mentre gli exempla propongono insegnamenti morali-religiosi, i fabliaux valorizzano al contrario la fisicità, la sensualità; abbondano in questi testi i riferimenti al corporeo, alla sessualità: l’umanità rappresentata, deformata e soggetta al procedimento della parodia e del rovesciamento, risponde al modello carnevalesco del “mondo alla rovescia” (➜ C5). online Da questo repertorio la novella (anche quella di Boccaccio) T5 Anonimo attingerà a piene mani temi, personaggi e situazioni legati alla Il fabliau del mugnaio e dei due studenti componente licenziosa e comica.

3 Verso la definizione del genere: il Novellino online

Per approfondire Il titolo Novellino

La prima raccolta organica di racconti non solo italiana ma di tutta l’area romanza è nota con il titolo di Novellino ed è stata allestita a Firenze probabilmente nell’ultimo ventennio del XIII secolo da un autore rimasto sconosciuto.

L’exemplum e la novella exemplum

novella

messaggio morale – religioso

piacevole intrattenimento

personaggi emblemi di vizi e di virtù

personaggi caratterizzati

eventi non verosimili

contenuti verosimili anche se immaginari

Narrare per il gusto di narrare: la novella 2 137


Il prologo: l’emergere dell’“autore” e di un nuovo pubblico Tutti i commentatori attribuiscono grande importanza al prologo del Novellino (➜ T6 OL), perché segnala per la prima volta, nonostante l’opera sia anonima, la fisionomia di un autore, con una sua identità e sue proprie scelte (distinto dal semplice raccoglitore di testi); e al tempo stesso identifica un nuovo pubblico e, seppur ancora embrionalmente, una nuova forma di narrazione: la novella, appunto, tendenzialmente autonoma rispetto al fine esemplare-morale. Nel prologo l’autore si propone di fare «memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli danari e di belli amori». L’insistenza sul termine “bello” riveste particolare importanza: sembra infatti valorizzare la godibilità dei racconti, a prescindere dalla loro utilità didattico-morale. L’autore della raccolta assume inoltre espressamente un ruolo di mediatore tra i “nobili e gentili” del passato e un nuovo pubblico («chi avrà cuore nobile e intelligenza sottile»). L’espressione citata identifica sul piano sociologico i ceti borghesimercantili, emergenti nella dinamica società comunale, che erano interessati, più che alle verità immutabili e trascendenti proposte dagli exempla, a quelle “novità” che appunto la novella desiderava narrare, e al contempo ambivano a far propri i raffinati modelli di comportamento e i valori della tramontante civiltà feudale. Il prologo del Novellino sembra perciò evocare come pubblico ideale proprio quell’“aristocrazia dell’intelligenza” a cui si indirizzava nel medesimo periodo anche la lirica stilnovista. Il culto della parola Nel Novellino acquista un ruolo primario l’uso intelligente e divertente della parola (➜ T8a e T8b ). È significativo che la maggior parte dei racconti riguardi proprio motti, risposte argute e battute pronte, in accordo con l’importanza che andava assumendo nella società comunale l’“arte del dire”. La capacità di fare discorsi in pubblico, di stendere lettere diplomatiche, insomma, di saper parlare e scrivere con proprietà ed efficacia in rapporto a precisi fini e situazioni stava diventando una competenza sempre più necessaria alle classi dirigenti cittadine. Proprio in quegli stessi anni si collocava infatti il magistero di Brunetto Latini, il “maestro” di Dante in ambito retorico.

Scena di gioco fra giovani in un affresco, metà del XIII secolo ca. (Bolzano, Castel Roncolo, Stanza del torneo).

138 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale


Una tecnica narrativa minimalista Il Novellino incarna a livello estremo la brevità connaturale al genere novellistico: la raccolta infatti è per lo più costituita da raccontini molto stringati, fondati su intrecci assai semplici, quasi dei canovacci e spesso su una chiusa lapidaria. Lo stile, conciso, addirittura laconico, fa uso prevalentemente della paratassi e ricorre sovente all’asindeto. Una narrazione minimalista dunque, che rimanda indirettamente a situazioni comunicative legate all’oralità, quando gli spontanei commenti e gli interventi di chi ascoltava i racconti concorrevano a integrare liberamente i testi narrati. Il Novellino predilige la narrazione “breve” e valorizza in particolare la battuta pronta, icastica, pungente, che dimostra prontezza di spirito e intelligenza, preparando la strada al Decameron, che dedicherà un’intera giornata, la VI, proprio ai motti arguti.

Il Novellino AUTORE

anonimo

EPOCA

fine Duecento

AREA

fiorentina

FONTI

classiche: exempla, fabliaux, romanzi cortesi

FINE

diletto

Affresco (part.) attribuito a un pittore noto come Maestro del Castello della Manta, sec. XV (Saluzzo, Castello della Manta, sala baronale).

online T6 Raccontare per un nuovo pubblico

Novellino, Prologo

online T7 Anonimo Pronta risposta di un frate al Vescovo Aldobrandino Novellino, XXXIX

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Testi in dialogo

T8a

ll culto della parola Il medico di Tolosa Novellino, XLIX

Prosa del Duecento, a cura di C. Segre e M. Marti, Ricciardi, Milano-Napoli 1959

È considerata una delle novelle più indicative dello spirito del Novellino. Il protagonista è un medico “nobile” e “gentile”. Oltraggiato dal comportamento della giovane moglie, nipote dell’arcivescovo, e minacciato arrogantemente da questi, contrappone alla prepotenza del potente ecclesiastico la finezza della parola meditata e ironica.

XLIX QUI CONTA D’UNO MEDICO DI TOLOSA, COME TOLSE PER MOGLIE UNA NEPOTE DE L’ARCIVESCOVO DI TOLOSA. Uno medico di Tolosa tolse per moglie una gentile donna di Tolosa, nepote de l’arcivescovo. Menolla1. In due mesi fece una fanciulla2. Il medico non ne mostrò nullo cruccio3, anzi consolava la donna, e mostravale ragioni secondo fisica che ben poteva essere sua di ragione4. E con quelle parole e con belli sembianti5 fece sì 5 che la donna no la poté traviare6. Molto onoroe7 la donna nel parto. Dopo il parto sì le disse: – Madonna, io v’ho onorata quant’i’ ho potuto. Priegovi, per amore di me, che voi ritorniate omai a casa di vostro padre. E la vostra figliuola io terrò a grande onore. Tanto andaro le cose innanzi, che l’arcivescovo sentì che ’l medico avea dato 10 commiato a la nepote. Mandò per lui8. E acciò ch’era grande uomo, parlò sopra a lui molto grandi parole, mischiate con superbia e con minacce9. Quand’ebbe assai parlato, el medico rispuose e disse così: – Messere, io tolsi vostra nepote per moglie, credendomi della mia ricchezza potere fornire e pascere la mia famiglia10. E fu mia intenzione d’avere uno figliuolo l’anno, e non più. Onde11 la donna ha 15 cominciato a fare figliuoli in due mesi; per la qual cosa io non sono sì agiato, se ’l fatto dee così andare, ch’io li potesse notricare12, e voi, non sarebbe onore che vostro lignaggio andasse a povertade13. Perch’io vi chieggio mercede14 che voi la diate a un più ricco omo ch’io non sono [che possa notricare li suoi figlioli], sì che a voi non sia disinore.

1

Menolla: la condusse sposa (in casa sua). 2 In due mesi... fanciulla: dopo due mesi generò una bambina (che non poteva evidentemente essere frutto del matrimonio con il medico). 3 non ne mostrò nullo cruccio: non mostrò affatto di esserne turbato. 4 mostravale... di ragione: le

mostrava i princìpi scientifici che consentivano che fosse sua figlia. 5 belli sembianti: modi gentili. 6 traviare: abortire. 7 onoroe: onorò. 8 Mandò per lui: lo mandò a chiamare. 9 E acciò... minacce: e dato che era un uomo potente, gli si rivolse con parole arroganti e minacciose.

140 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale

10 credendomi... la mia famiglia: credendo di poter mantenere con i miei beni la mia famiglia. 11 Onde: invece. 12 notricare: nutrire. 13 e voi... povertade: quanto a voi, non sarebbe onorevole che la vostra stirpe (la nipote e i figli nati da lei) si riducessero in povertà. 14 Perch’io... mercede: perciò vi chiedo il favore.


T8b

Una “metanovella”: elogio della brevità Novellino, LXXXIX

Prosa del Duecento, a cura di C. Segre e M. Marti, Ricciardi, Milano-Napoli 1959

La maggior parte delle novelle del Novellino sono brevi ed evidentemente questa prerogativa è considerata un pregio da chi ha allestito la raccolta. Lo dimostra anche questa novelletta, fondata, come molto spesso si verifica nell’opera, su una battuta pronta e icastica. Il racconto si può considerare una dichiarazione di poetica.

LXXXIX QUI CONTA D’UN UOMO DI CORTE CHE COMINCIÒ UNA NOVELLA CHE NON VENIA MENO Brigata1 di cavalieri cenavano una sera in una gran casa2 fiorentina, e aveavi3 uno uomo di corte, il quale era grandissimo favellatore4. Quando ebbero cenato, cominciò una novella che non venìa meno5. Uno donzello6 della casa che servia, e forse non era troppo satollo7, lo chiamò per nome, e disse: – Quelli che t’insegnò cotesta 5 novella, non la t’insegnò tutta. – Ed elli rispuose: – Perché no? – Ed elli rispuose: – Perché non t’insegnò la restata8. – Onde quelli si vergognò, e ristette9. 1 2

Brigata: un gruppo. gran casa: casa di persone ragguardevoli. 3 aveavi: vi si trovava. 4 favellatore: narratore di storie.

5

non venìa meno: non finiva mai. 6 donzello: garzone, servitore. 7 non era troppo satollo: aveva fame.

8 la restata: il modo di terminarla.

9 ristette: si fermò.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza la vicenda narrata in ➜ T8a in 10 righe. ANALISI 2. La vicenda narrata in ➜ T8a ha evidentemente un antefatto che mette in moto la storia. Quale? 3. Pur nella brevità della novella, la personalità del medico è ben delineata: tratteggiane un ritratto utilizzando tutte le possibili informazioni che ritrovi nel testo e individua l’atteggiamento dell’autore nei confronti del personaggio. LESSICO 4. Le nozze fra il medico e la ragazza sono rese sinteticamente dall’espressione Menolla (“la menò”). Fai una ricerca lessicale (su un vocabolario meglio se storico o in rete) e poi trascrivi le tue annotazioni sul verbo menare e sulle sue accezioni dal tempo del Novellino a oggi.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Quali caratteristiche del genere novellistico ritrovi in ➜ T8a (rileggi l’introduzione)? Quali tratti tipici del Novellino? SCRITTURA 6. La novelletta➜ T8b può avere un carattere metaletterario, quasi fosse un suggerimento su come si devono comporre delle novelle. Per quale ragione? Argomenta in un breve testo di 15 righe.

Franceschino Zavattari (e aiuti), Banchetto delle nozze di Teodolinda, dal ciclo Storie di Teodolinda, affresco, 1444 (Monza, Duomo, Cappella di Teodolinda).

Narrare per il gusto di narrare: la novella 2 141


4 Una pietra miliare nella storia del genere “novella” Il modello perfetto di Boccaccio Quando pensiamo alla novella come a un genere con caratteristiche proprie che lo rendono riconoscibile, è obbligatorio fare riferimento al modello consacrato da Boccaccio nel suo Decameron, una raccolta di cento novelle composta probabilmente tra il 1349 e il 1351: il capolavoro di Boccaccio occupa infatti una posizione di primo piano nella definizione del genere novellistico. Attingendo alla tradizione narrativa precedente e rielaborandola attraverso una raffinata coscienza letteraria e una profonda conoscenza del mondo, Boccaccio riuscì a creare un modello perfetto, a cui per secoli chi intendesse scrivere novelle non poté non riferirsi. Con il Decameron di Boccaccio (➜ C8, PAG. 401) la novella raggiunge il più alto grado di elaborazione letteraria.

5 Dopo Boccaccio Trecentonovelle di Franco Sacchetti Nel corso del Trecento la novella consolida ulteriormente il suo successo, già avviato dalla grande fortuna del Decameron presso i ceti mercantili; successo che, pur con alterne vicende, legate al variare delle coordinate culturali e letterarie, durerà fino alla fine del Cinquecento. Dopo il Decameron, la novellistica tende in genere alla dipendenza anche a livello tematico dal modello illustre di Boccaccio, ma la visione del mondo risulta ben lontana dalla ricchezza culturale e ideologica del Decameron e testimonia piuttosto una dimensione angusta e municipale. Lo scrittore di novelle più significativo, capace di un vivace realismo rappresentativo, è il fiorentino Franco Sacchetti (1330 circa-1400) mercante-scrittore e uomo politico, autore del Trecentonovelle, una raccolta novellistica composta verso la fine del Trecento. La raccolta, che ci è giunta incompleta, non evidenzia un disegno unitario a cui i testi siano subordinati; questi ultimi infatti non sono inseriti in una cornice. I contenuti si fondano su temi legati alla vita dei Comuni toscani, con il gusto, proprio di quella regione, per gli scherzi, le battute di spirito e le beffe. La rappresentazione di Sacchetti predilige un’umanità comune (borghesi, paesani, popolani), protagonista di eventi di piccolo conto, riprodotti con vivace realismo. Lo stile è volto a rendere per lo più l’immediatezza del parlato. Geoffrey Chaucer Il più importante autore di novelle dopo Boccaccio è Geoffrey Chaucer (1343-1400) che scrive The Canterbury Tales (“Racconti di Canterbury”), una raccolta incompiuta di racconti in versi che presenta analogie con il Decameron (➜ C8 D2 , D3 OL). In queste novelle Chaucer fornisce uno spaccato molto realistico della società inglese del tempo. L’effetto di realismo è ottenuto sia attraverso le situazioni (raccontate utilizzando generi diversi) e i temi coinvolti, sia mediante i profili dei narratori-pellegrini, estremamente precisi sul piano psico-sociologico. Si tratta della prima grande opera della letteratura britannica.

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Franco Sacchetti

T9

Una burla: l’orsa e le campane Trecentonovelle

F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di V. Marucci, Salerno, Roma 1996

Questa novella è incentrata su una beffa che dei buontemponi organizzano ai danni di un prete, del suo sacrestano e di tutta la comunità del quartiere. Ambientata a Firenze, la beffa si comprende se ci si immedesima nel microcosmo della vita del quartiere, che ha al suo centro la chiesa parrocchiale.

[...] Certi Fiorentini erano a cena in una casa di Firenze, la quale era non molto a lungi dal palagio del Podestà; ed essendo tra loro in quel luogo entrata una orsa, la quale era del Podestà ed era molto domestica, andando questa piú volte sotto la mensa a loro, disse uno di loro: 5 – Vogliàn noi fare un bel fatto? Quando noi abbiamo cenato, conduciamo quest’orsa a Santa Maria in Campo1, dove il vescovo di Fiesole tien ragione2 (ché sapete che non vi s’incatenaccia mai la porta3) e leghiànli le zampe dinanzi l’una a una campana e l’altra a un’altra, e poi ce ne vegniamo4; e vedrete barili andare5 –. Dicono gli altri: 10 – Deh, facciànlo –. Era del mese di novembre, che si cena di notte6; essendo in concordia, danno di mano a l’orsa7 e per forza la conducono nel detto luogo; ed entrati nella chiesa si aviano verso le funi delle campane, e preso l’uno di loro l’una zampa e l’altro l’altra, le legorono alle dette campane e subito danno volta, andandosene ratti quanto 15 poterono8. L’orsa sentendosi cosí legata, tirando e tempestando9 per sciogliersi, le campane cominciano a sonare sanza niuna misura. Il prete e ’l cherico si destano; cominciano a smemorare10: – Che vuol dir questo? Chi suona quelle campane? – Di fuori si comincia a gridare: 20 – Al fuoco, al fuoco –. La Badía11 comincia a sonare, perché l’Arte della lana12 è presso a quel luogo. I lanaiuoli e ogni altra gente si levano e cominciano a trarre13: – Dov’è, dov’è? – In questo il prete ha mandato il cherico con una candela benedetta accesa, per 25 paura che non fosse la mala cosa, a sapere chi suona14. Il cherico ne va là con un passo inanzi e due a drieto e co’ capelli tutti arricciati per la paura; e accostandosi al fatto, si fa il segno della santa croce; e credendo che sia il demonio, il volgersi e ’l fuggire e ’l gridare: – In manus tuas, Domine15 –, è tutt’uno. Giugnendo con questo romore al prete, che non sapea dove si fosse, dice:

1

Santa Maria in Campo: antica chiesa di Firenze amministrata dal vescovo di Fiesole. 2 tien ragione: amministra la giustizia. 3 non... la porta: la porta non è mai chiusa con il catenaccio. 4 ce ne vegniamo: ci allontaniamo. 5 vedrete barili andare: vedrete cose assurde (“come se i barili camminassero”). Espressione idiomatica. 6 di notte: quando è già buio.

7 in concordia… a l’orsa: di comune accordo, catturano l’orsa. 8 le legorono… poterono: le (le zampe) legarono alle suddette campane e all’istante se ne vanno via il più velocemente possibile. 9 tempestando: infuriandosi. 10 smemorare: allarmarsi. 11 La Badía: chiesa vicina a Santa Maria in Campo.

12 l’Arte della lana: una delle corporazioni che aveva il deposito delle merci in quella zona. 13 trarre: accorrere. 14 per paura che… suona: temendo che fosse il diavolo (la mala cosa), per appurare chi suonasse. 15 In manus tuas, Domine: nelle tue mani, Signore (latino). Sono le parole di Cristo poco prima di morire.

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30 – Oimé, padre mio, che ’l diavolo è nella chiesa e suona quelle campane –.

Dice il prete: – Come, il diavolo? Truova de l’acqua benedetta –. Truova e ritruova, non ebbe ardire d’entrare nella chiesa, ma d’un buon galoppo per la porta del chiostro se n’uscí fuori, e ’l cherico drietogli16. E giugnendo, molta 35 gente trovò che cominciava a chiamare il prete, dicendo: – Dov’è il fuoco17? – E giugnendo fuori, essendo domandato18: – Dov’è questo fuoco, prete? –, appena potea rispondere, perché avea il battito della morte19. Pur con una boce affinita e affiocata20, dice: 40 – Io non so di fuoco alcuna cosa, né chi suona queste campane; costui v’è ito21 – e dice del cherico – a sapere chi le suona; par che dica che gli pare la mala cosa. – Come la mala cosa? – rispondono molti. – Reca qua i lumi; abbiàn noi paura di mali visi? Chi ha paura si fugga –. E aviandosi in là cosí al barlume e veggendo la bestia, non scorgendo bene quello 45 che si fosse, la maggior parte si tornano in drieto, gridando: – Alle guagnele22, che dice il vero! – Altri piú sicuri s’accostano e, veggendo quello ch’è, gridano: – Venite qua, brigata, ch’ell’è un’orsa –. Corrono là molti, e ’l prete e ’l cherico ancora; e veggendo questa orsa cosí legata 50 e tirare e inabissarsi con la boce23, ciascuno comincia a ridere: – Che vuol dir questo? E non era però niuno che ardisse di scioglierla, e tuttavia le campane sonavono, e tutto il mondo era tratto24. In fine certi che conosceano l’orsa del Podestà essere mansueta s’accostorono a lei 55 e sciolsonla25; avisandosi i piú che qualche nuovi pesci26 avessono fatto questo per far trarre tutti e’ Fiorentini. E tornatisi a casa, piú dí ragionorono di questo caso e ciascuno dicea chi serebbe stato. I piú rispondeano: – Dillo a me e io il dirò a te –. Alcuni diceano: 60 – Chiunque fu, fece molto bene; ché sempre sta quella porta aperta, che non ispenderebbe né ’l vescovo né il prete un picciolo27 per mettervi uno chiavistello –. E cosí terminò questa novella; e quelli che l’aveano fatto28, erano in un letto e scoppiavono delle risa, essendosi fatti piú volte alle finestre con gridare con le piú alte voci che aveano: 65 – Al fuoco, al fuoco! – E quanta piú gente traea29 piú ne godevano; domandando piú che gli altri in quelli dí che volle dir quello, per avere diletto di chi rispondea loro30. [...]. 16 drietogli: dietro a lui. 17 Dov’è il fuoco?: la domanda è motivata

21 ito: andato. 22 Alle guagnele: per i Vangeli, specie

dal fatto che ogni pericolo per la comunità (ad esempio, un incendio) era segnalato dal suono a distesa delle campane. 18 essendo domandato: essendogli chiesto. 19 avea il battito della morte: il cuore gli batteva da morire. 20 con una boce… affiocata: con un filo di voce, con voce flebile, fioca.

di giuramento popolare assai diffuso al tempo. 23 inabissarsi con la boce: urlare disperata. 24 tuttavia... era tratto: le campane continuavano a suonare e tutta la contrada era attirata là. 25 sciolsonla: la liberarono. 26 avisandosi... nuovi pesci: accorgendosi i più che qualche burlone avesse or-

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ganizzato lo scherzo per far accorrere tutti i fiorentini. 27 picciolo: soldino (il quarto di un quattrino). 28 quelli che l’aveano fatto: i responsabili della burla. 29 traea: accorreva. 30 domandando... loro: facendo domande più degli altri in quei giorni che cosa fosse successo per burlarsi di chi rispondeva loro.


Analisi del testo La particolare vena narrativa di Sacchetti La rappresentazione di Sacchetti predilige un’umanità anonima, socialmente insignificante e affida la narrazione al racconto di eventi di poca importanza. L’umanità e la vita che egli vede non hanno nulla di eccezionale. Gli ambienti e i personaggi sono comuni. Il suo è il mondo della piccola gente. Le reazioni nascono da fatti minuti e questa burla ne è un esempio: dei giovani fiorentini, di notte, legano le zampe di un’orsa alla fune delle campane della chiesa, così le campane suonano a distesa e la gente accorre, credendo che sia scoppiato un incendio. La critica ha notato nel Trecentonovelle di Sacchetti la particolare abilità nel rendere scene di confusione, di movimento concitato, come appunto in questa novella, dove l’obiettivo del narratore focalizza efficacemente, producendo quasi una scena teatrale, lo scompiglio creato nel quartiere dal suono inconsulto delle campane. La narrazione è caratterizzata, come in altri testi di Sacchetti, da un vivace ritmo narrativo.

Uno stile “immediato” A questa vena narrativa corrisponde l’immediatezza dello stile, che riproduce con vivace realismo i tratti del parlato. In proposito Cesare Segre ha osservato: «La sintassi partecipa anch’essa della felicità dell’invenzione: non tenta di ordinare intellettualmente la situazione, ma si lascia trarre nel vortice delle mosse e delle azioni. È una sintassi smaterializzata, giocosa come un gioco di bimbi, una sintassi che non si pone al di là dei fatti, descrivendoli, ma nasce insieme con essi, col loro tono e misura».

L’orso addomesticato da Saint Amand, miniatura francese, XI sec. (Valenciennes, Bibliothèque municipale).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare Interpretare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto della novella in un testo di 10 righe. SCRITTURA 2. Ti sarai reso conto che il contenuto è ben poca cosa (e forse la beffa stessa ad alcuni non è sembrata nemmeno troppo divertente) e che, in realtà, il pregio della novella è proprio nel ritmo indiavolato impresso dall’autore all’azione narrativa. Cerca di individuare nel testo i passaggi in cui il ritmo è molto sostenuto e utilizzando questi esempi scrivi un testo argomentativo di 20 righe, in cui avvalori la tesi che il pregio della novella è proprio la modalità del racconto.

online

Per approfondire “Le mille e una burla”: la Toscana e la tradizione comica, da Boccaccio... a Benigni

Narrare per il gusto di narrare: la novella 2 145


3

Le cronache cittadine 1 Una storiografia militante Nel secondo Duecento, all’interno della prosa volgare si affermano, in particolare nei Comuni della Toscana, le cronache cittadine. L’interesse di autori e pubblico per questo genere si spiega nel contesto della civiltà comunale, in cui i Comuni cercano di affermare la propria specifica identità. Precedentemente non mancavano cronache di eventi locali, ma erano opera di monaci o comunque chierici ed erano commissionate dalle curie vescovili per fini documentari. La prospettiva di queste cronache, redatte in latino, in cui i singoli eventi erano narrati secondo un criterio annalistico, era sostanzialmente religiosa: negli eventi, seppur minuziosamente elencati, il cronista medievale cercava comunque di individuare e proporre un piano provvidenziale, un disegno divino. Le cronache in volgare sono invece opera di autori inseriti a vario titolo nella vita attiva del comune, di cui riflettono le passioni politiche e gli schieramenti ideologici. L’impostazione data alla lettura dei fatti è in genere laica; si presta attenzione, almeno in alcuni casi, agli aspetti economici e sociali e ci si focalizza soprattutto su vicende politiche di cui gli autori sono stati testimoni diretti. La modalità della narrazione è molto lontana dal distacco critico-razionale e dalla ricerca dell’imparzialità dei giudizi che oggi consideriamo necessari quando si affronta un discorso storico: anzi, si lascia spazio a prese di posizione “di parte”. Insomma, si tratta di una storiografia militante. Facciamo qui riferimento in particolare a due cronisti fiorentini: Dino Compagni e Giovanni Villani, ma altrove (➜ SCENARI, PAG. 22) abbiamo nominato anche la cronaca in latino di Bonvesin da la Riva (Le meraviglie di Milano). La Cronica di Dino Compagni Fiorentino, guelfo di parte bianca come Dante, Dino Compagni (metà del XIII secolo-1324) rivestì varie cariche politiche: in particolare quella di priore. In questo ruolo, promosse l’iniziativa di bandire i capi delle due fazioni, i Bianchi e i Neri (Guido Cavalcanti fu tra quelli colpiti dal provvedimento). La Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, composta tra il 1310 e il 1312, riguarda gli eventi avvenuti in Firenze e in Toscana negli anni tra il 1280 e il 1312, dei quali Compagni fu non solo testimone ma anche a volte protagonista. La passione politica, lo sdegno per la decadenza della sua città, il coinvolgimento anche emotivo, rende incisiva e vibrante la sua testimonianza, ma ne limita al contempo la credibilità storica. Del resto a Compagni interessa illuminare quelli che furono gli avvenimenti cruciali della sua città e della sua stessa vita e non tanto offrire un quadro esauriente dei fatti storici. La Nuova Cronica di Giovanni Villani Giovanni Villani (1280-1348), fiorentino, guelfo di parte nera, appartiene a una generazione successiva a quella di Compagni. Visse cinque anni nelle Fiandre, come socio della compagnia dei Peruzzi. Tornato a Firenze, rivestì importanti cariche politiche, tra cui quella di priore e ambasciatore del Comune. Lavorò alla sua Cronica dal 1308 alla morte, che ne interruppe la stesura al XII libro. L’impostazione della sua opera, che segue un criterio rigorosamente

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annalistico, è più arcaica della Cronica di Compagni, risale alle origini mitiche di Firenze e manifesta la persistenza di una visione religiosa nel valutare gli eventi storici, ma al contempo riflette anche l’interesse del mercante, quale lui stesso era, per le dinamiche economiche e la soddisfazione per la prosperità del comune di Firenze. Agli eventi più recenti del Comune fiorentino sono dedicati gli ultimi sei libri, che presentano l’ascesa economica della città con abbondanza di dati statistici. Lo stile dell’opera non indulge mai all’enfasi, ma è sempre referenziale e chiaro (si può leggere l’Elogio di Firenze di Villani in ➜ SCENARI, D9b OL).

Le cronache cittadine Le cronache nuova concezione della storia non più provvidenzialistica ma laica

attenzione agli aspetti economici e sociali

storiografia militante

autori: Dino Compagni e Giovanni Villani

Giovanni Villani

T10

Il ruolo di Brunetto Latini nella società comunale Nuova Cronica, IX, x Nel sommario di eventi relativi all’anno 1294 Giovanni Villani registra la morte di Brunetto Latini, figura di spicco a Firenze. Può essere interessante confrontare questo profilo con le informazioni che ci dà Dante nel celebre canto XV dell’Inferno, (➜ C6 D2 OL).

Nel detto anno MCCLXXXXIIII1 morì in Firenze uno valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosafo2, e fue3 sommo maestro in rettorica, tanto in bene sapere dire come in bene dittare4. E fu quegli che spuose la Rettorica di Tulio5, e fece il buono e utile libro detto Tesoro, e il Tesoretto6, e la Chiave del Tesoro, e più altri libri in filosofia, e de’ vizi e di virtù, e fu dittatore del nostro Comune. Fu mondano7 uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch’egli8 fue cominciatore e maestro in digrossare9 i Fiorentini, e farli scorti10 in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica. 1 MCCLXXXXIIII: è il 1294 in numeri romani. 2 filosafo: filosofo. 3 fue: “fu” con epitesi (aggiunta finale) della -e; è un tratto dell’italiano antico. 4 dittare: scrivere lettere e documenti, secondo le arti della retorica; più sotto,

dittatore vale “scrittore di trattati di retorica”, o anche “notaio”. 5 quegli... Tulio: colui che nella Rettorica commentò il De inventione di Cicerone. 6 Tesoro... Tesoretto: Li livres dou Trésor è un’opera enciclopedica scientifica, filosofica e politica, composta da Brunetto Latini in Francia, dove si trovava

in esilio. Tornato a Firenze, Brunetto rielaborò l’opera e la riscrisse in versi italiani, intitolandola Tesoretto. 7 mondano: brillante e conosciuto. 8 però ch’egli: per il fatto che egli. 9 cominciatore... digrossare: iniziatore e maestro nel rendere più colti e raffinati. 10 scorti: abili.

Le cronache cittadine

3 147


Analisi del testo Il profilo dell’intellettuale comunale Il ritratto che Villani elabora di Brunetto Latini è assai emblematico, soprattutto se messo in relazione al celebre profilo che ne fa Dante nel canto XV dell’Inferno; questo perché esso mette in evidenza il ruolo e quindi i meriti civili e politici del filosofo nella società comunale nuova che si sta disegnando a cavallo fra XIII e XIV secolo in Italia. In particolare Villani, con uno stile preciso ed essenziale, sottolinea il valore di Brunetto Latini come «sommo maestro in rettorica» e l’utilità dei suoi libri. Villani, allo stesso modo di Dante e altri pensatori del tempo, riserva alla filosofia un valore decisivo per la costruzione della personalità dell’uomo e per il governo dello Stato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza la situazione descritta nel testo in due righe. ANALISI 2. Villani riesce a mettere in evidenza il rapporto tra Brunetto Latini, tipico intellettuale comunale, e i suoi concittadini. Che cosa insegna Brunetto ai fiorentini? 3. In che senso l’operato di Brunetto Latini fa progredire sul piano culturale e politico i fiorentini? LESSICO 4. Sottolinea le espressioni che delineano il ritratto di Brunetto e indica il registro stilistico utilizzato.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Confronta il passo di Villani con il XV canto dell’Inferno dantesco (vv. 79-87; ➜ C6 D2 OL), indicando le coincidenze tra i due testi nel delineare il ritratto di Brunetto Latini e il suo ruolo nella città di Firenze. SCRITTURA 6. Il testo si può intendere anche come un suggerimento che Villani fornisce su come si dovrebbe comportare un retto e saggio filosofo. Per quale ragione? Argomenta in un breve testo di 5 righe.

Fissare i concetti Forme del narrare nella società comunale 1. Che cosa sono i volgarizzamenti? 2. Di che cosa parla Il Milione di Marco Polo? Qual è la sua struttura? 3. Perché Il Milione ha un doppio narratore? 4. Qual è lo scopo della narrazione di Marco Polo? 5. Quali sono le caratteristiche della novella? 6. Che cos’è l’exemplum? 7. Che cosa sono i fabliaux? 8. Quali caratteristiche presenta il Novellino? 9. Quali sono le differenze tra il Trecentonovelle di Sacchetti e il Decameron? 10. Quali caratteristiche presentano le cronache cittadine rispetto alle cronache ecclesiastiche?

Scena popolare al mercato di frutta e verdura in un affresco del XV secolo (Valle d'Aosta, Castello di Issogne).

148 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale


Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale

Sintesi con audiolettura

1 Raccontare il viaggio nel Medioevo

L’affermazione della prosa in volgare Nel XIII secolo conoscono grande successo i volgarizzamenti, rimaneggiamenti in volgare di opere latine o francesi oppure l’elaborazione di originali di diverso argomento e tipologia; tutto ciò in rapporto allo sviluppo della civiltà comunale e alla necessità di acculturamento dei ceti emergenti e delle sue classi dirigenti. L’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico Il favore del nuovo pubblico cittadino si indirizza verso tre generi letterari: la letteratura di viaggio, la novella e le cronache cittadine. I racconti di viaggio Nel Medioevo il viaggio è un’esperienza lunga e difficile a causa dei numerosi pericoli e della scarsità di conoscenze geografiche. La affrontano soprattutto i pellegrini, che si spostano per motivi devozionali e penitenziali e i missionari, che partono per l’Estremo Oriente a convertirne le popolazioni. Dal XII secolo, con la nascita delle prime università, anche intellettuali e studenti si spostano per l’Europa; dal XIV secolo le personalità più note e capaci sono chiamate nelle corti signorili e a svolgere missioni diplomatiche. Ma a viaggiare sono soprattutto i mercanti, spinti dall’interesse economico, i quali si spingono verso ogni possibile meta per diffondere utilitaristicamente la conoscenza di lingue, ambienti e tradizioni, lasciano memorie scritte delle proprie multiformi esperienze. Marco Polo e Il Milione Emblema del mercante è il veneziano Marco Polo (1254-1324) che attraversa l’Asia e rimane per molti anni in Cina. Le sue memorie, inizialmente stese in lingua d’oïl da Rustichello da Pisa, vengono ben presto volgarizzate e Il Milione diventa un grande successo. La prima parte dell’opera è un resoconto sintetico dei viaggi in Oriente; la seconda un vero e proprio trattato su usi, abitudini, flora e fauna di ciascun luogo visitato. L’obiettivo è quello di fornire dati utili ai mercanti, ma si ritrova anche un genuino interesse etno-antropologico per mondi così diversi dall’Occidente. Nel modo di raccontare le sue esperienze di viaggiatore Marco Polo affianca alle credenze medievali una nuova mentalità razionale che lo induce a una valutazione critica di ciò che vede.

2 Narrare per il gusto di narrare: la novella

Un genere dalla vita secolare La novella è una narrazione in prosa, facilmente fruibile, che fiorisce nella realtà comunale ed è caratterizzata da ampia varietà nei temi, nei contenuti, nello stile e nei fini. Essa rappresenta un genere di grande fortuna nella letteratura italiana, anche grazie all’eccellenza artistica del Decameron, una raccolta di cento novelle composta verso la metà del XIV secolo. Le prime forme di narrazione breve: gli exempla e i fabliaux Nella sua varietà, la novella si differenzia dagli exempla, brevi narrazioni di remota origine orientale, mediata dall’influsso arabo e poi cristianizzata; schematiche e indeterminate sotto il profilo spazio-temporale sono finalizzate alla trasmissione di un messaggio educativo di tipo morale-religioso. La loro fortuna inizia lentamente a declinare dal XII-XIII secolo con lo sviluppo, in Francia, dei fabliaux, racconti in versi di origine giullaresca, realistici e spesso osceni, senza fini didascalici ma, al contrario, comico-parodistici. Duecento e Trecento 149


Verso la definizione del genere: il Novellino La prima importante raccolta di novelle in area romanza è il Novellino, allestita in ambiente fiorentino probabilmente negli ultimi due decenni del Duecento da un autore sconosciuto. Nell’opera confluisce una ricca e multiforme tradizione narrativa: fonti classiche, romanzi cortesi, fabliaux ed exempla rivisitati. Obiettivo dell’opera, come dichiarato nel Prologo, è il diletto che deriva al lettore dalla bellezza delle storie raccontate, dall’arguzia e dall’intelligenza della parola, dal motto. Una pietra miliare nella storia del genere “novella” Tra il 1349 e il 1351 Boccaccio scrive uno dei capolavori della letteratura italiana: il Decameron, che occupa un posto centrale nella storia del genere novellistico. Boccaccio consacra il ruolo della novella come strumento realistico di lettura del mondo e della società contemporanea, e al contempo come genere di piacevole intrattenimento per un pubblico nuovo. Dopo Boccaccio Un significativo scrittore di novelle è Franco Sacchetti, autore di una raccolta, il Trecentonovelle, sul finire del XIV secolo. L’opera ci è giunta incompleta. I personaggi appartengono a un mondo umile e lo stile è volto a ritrarre l’immediatezza del parlato. Dopo Boccaccio, la raccolta novellistica più interessante viene dall’Inghilterra: si tratta di The Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, scritti verso la fine del Trecento, che offrono un ritratto realistico della società inglese del tempo non solo attraverso i testi narrati, ma anche attraverso i profili dei narratori di secondo livello.

3 Le cronache cittadine

Una storiografia militante Dalla seconda metà del Duecento si affermano, in particolare in ambito toscano, le cronache cittadine. Esse hanno precedenti negli annali locali. Le nuove cronache, laiche e redatte in volgare, sono opera di autori inseriti nella vita comunale e quindi testimonianze partigiane e militanti; vi si presta attenzione non solo agli avvenimenti politici, ma anche all’illustrazione di aspetti economici e sociali. I due cronisti più importanti sono i fiorentini Dino Compagni (metà del XIII secolo-1324) e Giovanni Villani (1280-1348). Il primo, guelfo bianco ed ex Priore, è autore della Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, che narra gli avvenimenti toscani tra il 1280 e il 1312 in modo assai emotivo, a scapito della credibilità storica. Il secondo, guelfo di parte nera, anch’egli Priore, è autore della Nuova cronica e racconta Firenze dalle sue origini mitiche con impostazione annalistica e visione ancora religiosa, ma con stile piano e chiaro e con un particolare focus sugli aspetti economici della vita comunale.

Zona Competenze Riflessione critica

1. La percezione dell’Oriente e della Cina in Occidente è oggi profondamente mutata ma, nonostante il tempo passato dal resoconto di Marco Polo, non mancano i pregiudizi. Quali sono secondo te quelli più ricorrenti e radicati? Prova a confrontarti con i tuoi compagni in classe.

Esposizione orale

2. Ne Il Milione il viaggio e il soggiorno nei Paesi lontani sono un’occasione per aprirsi al nuovo e per sfatare false credenze e pregiudizi. In un intervento orale di 5 minuti esprimi la tua opinione LEGGERE EDUCAZIONE LE EMOZIONI ALLE RELAZIONI sull’attualità di questo modo di intendere il viaggio.

150 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale


Duecento e trecento CAPITOLO

4 “Ragionar d’Amore”

La lirica trobadorica influenza in Italia la scuola siciliana, nata alla corte di Federico II. È una poesia concepita come raffinato passatempo a opera dei funzionari della corte, in cui tema esclusivo è l’amore, cantato in un siciliano letterario, lontano dalla lingua parlata. È la Toscana la sede delle successive esperienze liriche duecentesche: prima con un gruppo di poeti, tra cui spicca Guittone d’Arezzo, che associano al tema amoroso i temi civili e politici; poi con lo Stilnovo. Precursore e maestro degli stilnovisti è il bolognese Guido Guinizzelli; i rappresentanti più importanti sono Guido Cavalcanti e Dante Alighieri. Con lo stilnovo la letteratura italiana crea un modello di raffinata poesia, che in uno stile piano e musicale celebra il mito di un amore “totalizzante”, in cui la donna, evanescente apparizione, è davvero capace di cambiare la vita, ora come tramite verso il divino (in Guinizzelli e Dante), ora come potenza distruttiva (in Cavalcanti).

1 La scuola siciliana 2 I poeti siculo-toscani 3 Il dolce stilnovo 151


1 La scuola siciliana 1 Il trapianto della lirica amorosa in Italia

Federico II in trono attorniato dalla corte, miniatura da un Exultet del XIII secolo, (Salerno, Biblioteca Capitolare).

Lirica siciliana e politica culturale di Federico II I modi e i temi della lirica provenzale si diffondono in varie zone dell’Europa e anche in Italia. Oltre ad alcune regioni del Nord Italia, dove sono attivi poeti che utilizzano la lingua provenzale, l’eredità della poesia trobadorica si radica in particolare in Sicilia. L’isola era entrata a far parte del dominio degli Svevi verso la fine del XII secolo e costituiva, insieme all’Italia meridionale, il Regno di Sicilia. Divenuto imperatore, Federico II vi si stabilisce. All’interno della sua corte (la Magna Curia), per circa vent’anni, dal 1230 al 1250 circa, si afferma una raffinata esperienza poetica che inaugura in Italia un’alta tradizione lirica in volgare. La lirica siciliana va vista come un importante tassello di una più generale politica culturale: poeta egli stesso, come i figli Manfredi ed Enzo, Federico II cerca di mettere in atto una serie di misure volte a fondare una cultura laica di alto livello, in contrapposizione all’egemonia della Chiesa. Egli incentiva la formazione di intellettuali laici attraverso la scuola di retorica di Capua, la scuola di medicina di Salerno, l’università di Napoli e la promozione dello studio del diritto romano, finalizzata a legittimare la supremazia imperiale sul papato. I molteplici interessi culturali di Federico II – figura carismatica, poeta, conoscitore di molte lingue, appassionato di cultura filosofica, scientifica e astrologica, autore di un trattato di falconeria intitolato De arte venandi cum avibus (“L’arte di cacciare con i falconi”) – fanno della Magna Curia un ambiente di grande fervore intellettuale, aperto anche agli influssi della cultura araba. I funzionari di corte provengono da luoghi molto diversi tra loro, e questo aspetto rende la Magna Curia un ambiente multiculturale. In tale prospettiva di grande respiro culturale si inserisce anche l’impulso dato dal sovrano alla produzione lirica. Una stagione, tuttavia, di breve durata: lo stretto rapporto esistente fra la figura di Federico II e la lirica siciliana è evidenziato dal fatto che con la morte del monarca (1250) l’esperienza va esaurendosi. Modalità di produzione-ricezione diverse rispetto alla lirica trobadorica La lirica siciliana deriva temi e modi dalla poesia trobadorica ma, rispetto a essa, presenta anche delle diversità. Innanzitutto la prima è destinata alla lettura e non all’ascolto: di conseguenza mancano il canto e la musica; inoltre, non è opera di professionisti del poetare, come i trovatori, ma di funzionari della corte di Federico, che nella vita quotidiana ricoprono ruoli sociali specifici: Jacopo da Lentini è notaio, Pier della Vigna (ricordato in un celebre canto dell’Inferno dantesco) è cancelliere, Guido delle Colonne giudice e così via. Per essi la poesia è uno svago raffinato, a cui dedicarsi nel tempo libero dagli impegni. I siciliani, proprio per la loro condizione di poeti-cortigiani, non danno alcuno spazio al genere politico-satirico del sirventese, ma si concentrano esclusivamente sul tema dell’amore cortese, rendendolo ancora più astratto attraverso l’eliminazione di ogni riferimento contingente

152 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


o autobiografico e idealizzando ancor più la figura femminile, che rappresentano in modo volutamente antirealistico e stereotipato: la donna «c’ha blonda testa e claro viso» di cui si parla in un sonetto di Jacopo da Lentini (➜ T2 ) corrisponde evidentemente a un modello di bellezza fissato dalla lirica trobadorica. Cambiando il contesto, vengono meno anche i riferimenti più specifici al codice feudale e al galateo cortese. Da parte loro i siciliani si mostrano soprattutto interessati a esplorare la fenomenologia dell’amore. La loro poesia evidenzia un accentuato intellettualismo, nello sforzo di chiarire l’essenza e le dinamiche psicologiche dell’esperienza amorosa; tendenza che sarà ripresa e ulteriormente accentuata dai poeti stilnovisti, soprattutto da Cavalcanti.

Lessico tenzone Discussione su un determinato tema che si svolgeva attraverso lo scambio di testi fra vari poeti.

Lessico contrasto Il contrasto è un genere letterario del XIII secolo che si esprime in forma di testo recitato o di canzone. Viene composto e rappresentato nella forma di un dialogo velocissimo e incalzante tra due personaggi, con un linguaggio sciolto, popolare e ricco di battute e trovate brillanti.

I poeti Come già detto, i poeti della scuola siciliana sono funzionari della corte di Federico, che nella vita quotidiana ricoprono ruoli sociali specifici. La figura più rilevante è sicuramente quella di Jacopo (o Giacomo) da Lentini (1210 ca.-1260), ricordato da Dante come «’l Notaro» (Pg XXIV, 56) e considerato l’“inventore” del sonetto. Ha lasciato una quarantina di componimenti, tra cui sedici tra canzoni e canzonette e ventiquattro sonetti, dei quali tre in tenzone . È identificato come il caposcuola perché di lui ci rimane il corpus di testi più cospicuo tra quelli dei rimatori siciliani e per il fatto che le sue poesie sono sempre in apertura nei manoscritti che contengono la produzione poetica della scuola siciliana. Oltre a lui vanno annoverati, tra i poeti della scuola, lo stesso Federico II, suo figlio Enzo, Pier della Vigna, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Stefano Protonotaro, Iacopo Mostacci, Giacomino Pugliese. Guido delle Colonne, giudice messinese, di cui ci restano solo cinque canzoni, è considerato una delle figure di spicco della scuola siciliana. Dante cita in modo lusinghiero due sue canzoni nel De vulgari eloquentia. Rinaldo d’Aquino ci ha lasciato una dozzina di componimenti ascrivibili al movimento poetico della Magna Curia. Del personaggio non si hanno notizie certe: per alcuni ascrivibile alla nobile famiglia degli Aquino (e fratello di san Tommaso), per altri era un Rinaldo, falconiere alla corte di Federico II. All’interno di questa esperienza poetica si fa rientrare anche Cielo d’Alcamo, forse un giullare isolano di cui sappiamo pochissimo. A lui è attribuita una celebre composizione poetica, in forma di contrasto . Il manoscritto che conserva il contrasto, Rosa fresca aulentissima, lo tramanda anonimo; poi un erudito del Cinquecento, Angelo Colocci, copiando il testo aggiunge il nome ricavandolo da una fonte a noi sconosciuta. “Cielo” è la forma toscanizzata del siciliano “Celi” (Michele) ed il cognome risulta attestato a Palermo nel Duecento. Rosa fresca aulentissima mette in scena un dialogo tra il poeta e una donna del popolo, inizialmente infastidita dal corteggiamento del poeta, ma poi disposta a concedersi. Da alcuni studiosi il testo è stato interpretato come una parodia dell’amore cantato dai poeti conterranei. Non conosciamo con precisione la data di composizione del testo, ma alcuni riferimenti storici presenti nel contrasto ci portano a pensare che sia stato composto dopo il 1231 e comunque prima della morte di Federico II. Nina Siciliana Va ricordata inoltre Nina Siciliana, la cui figura è avvolta nel mistero come anche la sua appartenenza alla scuola siciliana. Poetessa della fine del XIII secolo, di lei non conosciamo con certezza né il nome completo né il luogo di nascita. A collocarla in Sicilia non è che una supposizione basata sulla distribuzione del nome Nina nel XIII secolo. La sua importanza consisterebbe nel fatto che è stata la prima donna di cui si abbia notizia, a poetare in volgare. Su di lei continuano ad alternarsi i giudizi degli studiosi sulla sua effettiva storicità. Di lei abbiamo un sonetto, concepito come risposta La scuola siciliana 1 153


al sonetto del poeta toscano Dante da Maiano, contenuto nella raccolta Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani edita da Filippo di Giunta nel 1527 a Firenze e detta anche “Giuntina di rime antiche” e le si attribuisce (Trucchi) anche un sonetto Tapina me presente nel codice Vaticano 3793 in forma anonima. L’ascrizione ottocentesca alla mitica Nina Siciliana è in particolare del critico De Sanctis, che ne elogia il volgare raffinatissimo. Un siciliano “illustre” La lingua usata è il volgare siciliano, ben lontano però da quello parlato: si tratta infatti di una lingua selezionata e aulica, con tratti latineggianti e qualche influsso del provenzale, una lingua che non a caso Dante propone come modello di volgare “illustre” nel De vulgari eloquentia. Occorre però precisare che i testi, tranne pochissime eccezioni, non ci sono pervenuti nell’idioma originale, bensì nelle trascrizioni effettuate dai copisti toscani, che sovrapposero all’originaria fisionomia linguistica una forte patina regionale. Possediamo una sola lirica completa in volgare siciliano: la canzone Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, di cui riproduciamo qui la prima stanza, per dare almeno un’idea della lingua poetica siciliana in cui le liriche erano state composte e, di conseguenza, la distanza tra la veste originaria e la veste linguistica toscana in cui i testi ci sono stati trasmessi. Pir meu cori1 alligrari, chi multu longiamenti senza alligranza e joi d’amuri2 è statu, mi ritornu3 in cantari, 5 sca forsi levimenti da dimuranza turniria in usatu di lu truppu taciri; e quandu l’omu ha rasuni di diri, ben di’cantari e mustrari allegranza, 10 ca senza dimustranza joi siria sempri di pocu valuri: dunca ben di’ cantar onni amaduri. 1 meu cori: possessivo senza articolo per influenza del provenzale.

Per rallegrare il mio cuore, che molto a lungo è stato senza allegria e gioia d’amore, riprendo a poetare, perché forse facilmente muterei in abitudine la tendenza a indugiare troppo a lungo nel silenzio; e quando si ha ragione di poetare, si deve davvero cantare e mostrare allegria, perché senza una manifestazione esteriore la gioia sarebbe sempre poco valorizzata: dunque ogni persona che ama deve scrivere canzoni.

2 joi d’amuri: termine tecnico del linguaggio cortese.

3

mi ritornu: costrutto provenzale.

Nella canzone sono presenti francesismi, provenzalismi e latinismi ed è grazie a questi elementi che il volgare siciliano acquista dignità letteraria. Alla base della canzone tuttavia troviamo voci della lingua siciliana, caratterizzata dalla presenza di molte parole che terminano in -u e -i (meu, cori), dal ricorso al condizionale in -ia (turniria) e dal “ca” causale. La rima siciliana Si è già ricordato che le liriche dei poeti della corte federiciana ci sono pervenute, per la quasi totalità, attraverso l’opera di copisti toscani, che toscanizzarono i testi, privandoli così dell’originale veste linguistica siciliana. La toscanizzazione consistette essenzialmente in un adattamento a livello fonetico. Le variazioni fonetiche, e in particolare quelle dei gruppi vocalici (specie la e e la o toniche, che rimano rispettivamente con la i e la u toniche), influirono sulle parolerima, dando luogo a imperfezioni metriche, a rime “imperfette”, che però nell’originale evidentemente non esistevano. Ad esempio (citiamo da Ancor che l’aigua

154 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


di Guido delle Colonne, vv. 3-5) natura è posto in rima con dimora: nell’originale natura rimava con il siciliano dimura, che poi è stato toscanizzato in dimora. I poeti del Due-Trecento che leggevano le liriche siciliane nella versione toscanizzata dei copisti pensarono che queste rime imperfette, queste anomalie (che tali in origine non erano) fossero delle ricercatezze volute o delle forme arcaiche e perciò una prerogativa stilistica dei siciliani: da qui il termine “rima siciliana”, rimasto in uso per moltissimo tempo. La stabilizzazione della canzone e la nascita del sonetto Le forme metriche usate dai siciliani sono la canzone (genere alto, poi immortalato da Dante e da Petrarca), la canzonetta (più adatta ad argomenti meno elevati), e il sonetto. Il sonetto, ideato quasi sicuramente da Jacopo da Lentini e la cui fortuna travalica i secoli per pervenire addirittura al Novecento, può essere definito il genere metrico “principe” della poesia italiana sia per la sua fortuna nei secoli sia per la varietà tematica che è stato capace di accogliere. Dai siciliani il sonetto non viene impiegato come spazio lirico della soggettività ma quasi sempre come strumento di dibattito concettuale, per disquisizioni sulla natura dell’amore, come ben si può vedere nel primo testo proposto, di Jacopo da Lentini (➜ T1 ).

La scuola siciliana GENERE

lirica

TEMPO

1230-1250

LUOGO

corte di Federico II (Magna Curia)

LINGUA

volgare siciliano illustre

TEMI

amore cortese, idealizzazione della figura femminile

DESTINAZIONE

lettura, non ascolto

MODELLO

lirica provenzale

DIFFUSIONE

attraverso i copisti toscani

AUTORI

funzionari di corte: Jacopo da Lentini (notaio), Pier della Vigna, Guido delle Colonne

Fissare i concetti La scuola siciliana 1. Quali sono le caratteristiche della lirica siciliana rispetto alla lirica provenzale? 2. Chi sono i poeti della lirica siciliana e quale ruolo rivestono a corte? 3. Quale lingua utilizzano i poeti siciliani? Come ci sono pervenuti i loro testi? 4. Di che cosa tratta il contrasto di Cielo d’Alcamo Rosa fresca aulentissima?

La scuola siciliana 1 155


Jacopo da Lentini

T1 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

Amor è uno desio che ven da core Il sonetto fa parte di una “tenzone” incentrata sulla definizione della natura dell’amore. La tenzone vede coinvolti tre poeti della scuola siciliana: Jacopo Mostacci apre il dibattito; gli rispondono Pier della Vigna con il sonetto Però ch’amore non si po’vedere, qui proposto online, e appunto Jacopo da Lentini. Quest’ultimo sostiene il ruolo primario esercitato nell’innamoramento dalla vista dell’amata. Il cuore dà alimento a un sentimento-impulso che è attivato dalla bellezza della persona amata, la cui immagine è trasmessa appunto dalla vista.

Amor è uno desio1 che ven da core per abondanza di gran piacimento2; e li occhi in prima3 generan l’amore 4 e lo core li dà nutricamento4. Ben è alcuna fiata om amatore senza vedere so ’namoramento5, ma quell’amor che stringe con furore 8 da la vista de li occhi ha nascimento: ché li occhi rapresentan a lo core d’onni cosa che veden bono e rio, 11 com’è formata naturalemente6; e lo cor, che di zo è concepitore7, imagina, e li piace quel desio: 14 e questo amore regna fra la gente.

La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB ACD ACD

1 2

desio: desiderio. per abondanza di gran piacimento: per eccesso di piacere. 3 in prima: prima di tutto, in un primo tempo. 4 li dà nutricamento: gli dà nutrimento. 5 Ben è… ’namoramento: è pur vero che qualche volta (alcuna fiata) l’uomo

ama senza vedere l’oggetto del proprio amore. Probabilmente Jacopo allude al trovatore Jaufre Rudel e al tema provenzale dell’“amore di lontano” (➜ C1 T10 ). 6 ché li occhi… naturalemente: di ogni cosa che vedono, gli occhi rappresentano nella realtà (com’è... naturalemente) il positivo e il negativo. 7 che di zo è concepitore: che accoglie ciò (che gli occhi gli trasmettono).

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Scena cortese: il cavaliere offre alla dama il proprio cuore, part., arazzo, sec. XV.


Analisi del testo La struttura argomentativa Nella prima quartina l’autore sostiene che l’amore è una passione (disìo) che proviene dal cuore, ma è la vista (della donna) che la attiva, mentre il core poi la alimenta. Nella seconda quartina Jacopo sembra correggere l’assolutezza dell’asserzione presente nella prima strofa: vi è effettivamente qualche caso in cui ci si innamora a prescindere dalla visione della donna; aggiunge però che la forte passione amorosa (quell’amor che stringe con furore) deriva sempre dalla vista. Jacopo pare qui alludere al motivo convenzionale dell’“amore di lontano”, proprio in particolare del trovatore Jaufre Rudel (➜ C1), che di fatto Jacopo da Lentini ridimensiona. Le due terzine non presentano un’ulteriore progressione argomentativa, ma si limitano a richiamare la funzione, nel processo dell’innamoramento, esercitata rispettivamente dalla vista (prima terzina), considerata fonte di una fedele riproduzione della realtà, e del cuore (seconda terzina), valutato quale fonte del processo immaginativo ed emotivo che genera l’amore.

Una definizione in poesia Anche un lettore sprovveduto si rende conto che questo sonetto non è un testo spontaneo sull’amore, l’effusione lirica di un sentimento individuale. Vi si oppone l’evidente uso di una struttura argomentativa e la frequenza di nessi logici finalizzati a evidenziare il rapporto tra i concetti. Il sonetto è espressione di un atteggiamento fortemente intellettualistico, del desiderio di chiarire la natura e il significato di un’esperienza chiave come quella d’amore; inoltre ha una precisa fonte, l’inizio del celebre trattato sull’argomento di Andrea Cappellano, di cui riprende sinteticamente alcuni punti. «L’amore è una passione innata che procede per visione e per incessante pensiero di persona d’altro sesso [...]. La passione, a ben guardare la verità, non nasce da nessuna azione, ma la passione nasce dal solo pensiero che l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, uno vede una donna che corrisponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore [...]. Dunque la passione innata nasce da visione e da pensiero». Andrea Cappellano, De Amore, trad. di J. Insana, SE, Milano 1996.

online

Verso il Novecento Il sonetto viaggia nel tempo…

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in almeno 10 righe. COMPRENSIONE 2. Da che cosa nasce l’amore secondo il poeta? LESSICO 3. Nel sonetto sono presenti termini che appartengono al campo semantico dell’amore. Rintracciali e trascrivili. 4. I protagonisti dell’azione rappresentata sono gli occhi e il cuore: indica i termini che appartengono all’area semantica del “vedere” ed evidenzia le ricorrenze del termine core-cor. STILE 5. Quale figura retorica è utilizzata al v. 4? Rintracciala.

Interpretare

TESTI IN DIALOGO 6. Metti in evidenza il rapporto fra il testo di Andrea Cappellano e il sonetto, facendo un elenco dei punti di contatto e descrivendo l’elemento di novità introdotto da Jacopo da Lentini (max 15 righe).

La scuola siciliana 1 157


Jacopo da Lentini

T2 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

Io m’aggio posto in core a Dio servire L’interesse primario di questo sonetto, al di là delle capacità retoriche e metriche che la critica riconosce proprie di Jacopo da Lentini, riguarda il contenuto: il poeta prospetta il difficile rapporto fra amore profano e dimensione religiosa, che tenta di conciliare. In un paradiso molto “terreno”, assai simile a una corte, egli immagina che, a rendere più completa la sua gioia, gli sia vicina la sua donna e possa continuare così a contemplarne la bellezza e ad ammirarne le virtù.

Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire1, com’io potesse gire in paradiso2, al santo loco ch’ag[g]io audito dire3, 4 u’ si manten sollazzo, gioco e riso4. Sanza mia donna non vi vorria gire5, quella c’ha blonda testa e claro viso6, ché sanza lei non poteria gaudere, 8 estando da la mia donna diviso7. Ma non lo dico a tale intendimento8, perch’io pec[c]ato ci volesse fare; 11 se non veder lo suo bel portamento9 e lo bel viso e ’l morbido sguardare10: ché lo mi teria in gran consolamento11, 14 veg[g]endo la mia donna in ghiora12 stare.

La metrica Sonetto con schema delle rime ABAB ABAB CDC DCD

1 Io m’ag[g]io… servire: io mi sono riproposto di servire Dio. L’uso dell’ausiliare avere per rendere riflessivo il verbo appartiene ai dialetti meridionali. 2 com’io… in paradiso: così che io possa andare in paradiso. Anche l’uso del congiuntivo imperfetto per il presente è un meridionalismo. 3 ch’ag[g]io audito dire: di cui ho sentito parlare; audito è un latinismo. 4 u’ si manten… riso: dove (lat. ubi) dura ininterrottamente la gioia, il divertimento e l’allegria. I termini sollazzo, gioco e riso ricorrono nella tradizione provenzale e rimandano alla raffinata e piacevole vita della corte (anche ➜ T4 OL, v. 59). 5 non... gire: non vorrei andarci. 6 quella… viso: la bellezza della donna è sintetizzata nel particolare dei capelli biondi e del viso luminoso secondo un’immagine topica derivata dalla tradizione cortese.

7 non poteria… diviso: non potrei essere felice stando separato dalla mia signora. donna dal lat. domina “signora”. 8 a tale intendimento: allo scopo di. Ha valore prolettico rispetto al successivo perch’io. 9 se non veder… portamento: ma soltanto (se non) per vedere (anche in paradiso) il suo nobile modo di comportarsi. Nella poesia cortese il termine portamento ha un’accezione ben diversa da quella odierna. 10 ’l morbido sguardare: il dolce modo di guardare. 11 ché… consolamento: perché riterrei ciò per me (lo mi teria) una grande consolazione. 12 in ghiora: nella gloria (del paradiso). La forma popolare ghiora forse è dovuta al copista toscano.

Coppia di sposi, olio su tavola, 1470 ca. (Cleveland, The Cleveland Museum of Art).

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Analisi del testo Il paradiso come immagine della corte Nella prima quartina il poeta enuncia il proponimento di una condotta morale tale da assicurargli il paradiso, un luogo che nessuno ha visto e che egli riesce a immaginare solo come “doppio” di una corte terrena, dove regnano la gioia e il divertimento (un paradiso dunque ben poco spirituale). Nella seconda quartina entra in scena la donna, che il poeta vorrebbe accanto a sé in paradiso, quasi come se gli riuscisse impossibile staccarsi dall’amore terreno per essa (dice espressamente che non potrebbe gaudere stando diviso da lei). Nella dimensione ultraterrena, che dovrebbe essere esclusivamente spirituale, viene dunque inserito l’elemento profano dell’amore per la donna. Le due terzine, introdotte dall’avversativa ‘ma’, contengono una giustificazione che il poeta ritiene di addurre per spiegare il suo desiderio: non intende certo commettere peccato quando sarà in paradiso con la sua donna, ma la vuole accanto a sé solo per poterla (castamente) contemplare (ricorre due volte un riferimento alla vista: veder [v. 11] e veggendo [v. 14]). In realtà, domina nelle due terzine la fascinosa immagine della bellezza femminile, enfatizzata dalla ripetizione dell’aggettivo bel, dall’enjambement e dal polisindeto (e... e..) che collegano le due terzine, oltre che dall’allitterazione (e ’l morbido sguardare).

L’embrionale conflittualità tra amore per la donna e amore per Dio Nel complesso il sonetto può testimoniare il difficile rapporto fra dimensione morale-religiosa e attrazione per la bellezza femminile e i piaceri terreni. Il sonetto ha suscitato diverse interpretazioni, fra cui quella di chi lo ritiene un’anticipazione della divinizzazione della donna e della spiritualizzazione del sentimento amoroso, poi sviluppati dagli stilnovisti.

Lo stile e la lingua Il sonetto evidenzia la scelta di Jacopo di utilizzare un siciliano “illustre”, lontano da forme del parlato e dialettali. La patina siciliana originale, al di là degli adattamenti fonetici toscani, si può ancora riscontrare in un verbo come aggio o nelle forme al condizionale voria (vorrei), poteria (potrei), teria (terrei). Ma evidente è d’altra parte l’apporto di latinismi (come claro, dal lat. Clarus, cioè “chiaro” o audito e gaudere) e di provenzalismi (come il termine sollazzo, dal provenzale sollatz, a sua volta derivato dal latino solatium) o di vari termini con suffisso -mento. Da notare, come in altri testi della scuola siciliana, la presenza della cosidetta rima siciliana: in particolare, nella versione originaria, il v. 5 rimava correttamente con il v. 7 (giri/gaudiri), mentre nella versione dei copisti toscani si crea un’anomalia: una parola come gire rima con gaudere.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto e indica il tema principale. ANALISI 2. Come è rappresentato il paradiso nella lirica? Rintraccia nel testo i termini della descrizione. 3. Rintraccia e sottolinea nel testo le espressioni che il poeta utilizza per descrivere la sua amata. LESSICO 4. Nel sonetto sono più volte utilizzati termini e immagini tratti dalla poesia provenzale. In quali versi e a che proposito? STILE 5. Quale figura retorica è utilizzata nel primo verso?

Interpretare

online T3 Pier della Vigna

ESPOSIZIONE ORALE 6. Il sonetto analizza il difficile rapporto tra “amor sacro” e “amor profano”. Prepara un intervento orale di circa 3 minuti per illustrare brevemente quest’aspetto.

Però ch’amore non si po’ vedere

online T4 Guido delle Colonne Gioiosamente canto

La scuola siciliana 1 159


PER APPROFONDIRE

Il sonetto Il termine sonetto deriva dal provenzale sonet e in origine indicava un testo destinato ad essere cantato. Mentre l’ideazione della canzone si deve ai provenzali, il sonetto è stato “inventato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo: quasi certamente il suo ideatore è il siciliano Jacopo da Lentini. La sua presenza si rileva fin dalle origini della tradizione lirica italiana e la sua presenza persiste fino al Novecento; in questo lungo periodo di tempo è stato imitato nelle principali letterature europee. Il sonetto è costituito da 14 versi endecasillabi, suddivisi in due quartine e due terzine, ognuna portatrice, almeno potenzialmente, di un’unità sul piano del senso: esiste quindi spesso, almeno alle origini del genere metrico, un rapporto tra struttura strofica e piano semantico. In realtà anche il sonetto, come la canzone, si presta a duttili funzioni poetiche: si può così andare dalla struttura chiusa e fortemente pausata del sonetto petrarchesco al vero e proprio «gorgo ritmico»

(Getto) del Foscolo, realizzato soprattutto attraverso l’uso degli enjambements. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate), mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni. Il sonetto nasce per ospitare la riflessione sulla natura d’amore, ma nella sua lunga storia fu anche impiegato nel registro comico (ad esempio da Cecco Angiolieri, Burchiello o Berni) o satirico (come nei poeti dialettali del primo Ottocento, Porta e Belli). Non viene abbandonato neppure nel Novecento (lo si ritrova in Saba, Zanzotto e altri). Riportiamo a titolo di esempio il sonetto [C]hi non avesse mai veduto foco di Giacomo da Lentini. La successione delle rime è ABAB, ABAB, CDE, CDE: rime alternate nelle quartine e ripetute nelle terzine.

[C]hi non avesse mai veduto foco

A

no crederia che cocere potesse,

B

anti li sembraria solazzo e gioco

A

4 lo so isprendor[e], quando lo vedesse.

B

Ma s’ello lo tocasse in alcun loco,

A

be·lli se[m]brara che forte cocesse:

B

quello d’Amore m’à tocato un poco,

A

8 molto me coce – Deo, che s’aprendesse!

B

prima quartina

seconda quartina

Che s’aprendesse in voi, [ma]donna mia, C che mi mostrate dar solazzo amando,

D

11 e voi mi date pur pen’e tormento.

E

Certo l’Amor[e] fa gran vilania,

C

che no distringe te che vai gabando,

D

14 a me che servo non dà isbaldimento

E

prima terzina

seconda terzina

Incipit di Jacopo da Lentini, Codice Palatino 418, 1200 ca. (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale).

160 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


T5

Tenzone di donna (forse Nina) e un anonimo Si tratta di una tenzone (duello verbale) molto in uso nella lirica del periodo medievale, ovvero sonetti di botta e risposta concepiti spesso come esercizio poetico.

Anonimo (forse Nina Siciliana)

T5a Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

Tapina ahimè, ch’amava uno sparvero La poetessa è consapevole di aver dato il suo amore a un uomo inaffidabile, che come uno sparviero se ne è andato via.

Tapina ahimè1, ch’amava uno sparvero: amaval tanto ch’io me ne moria; a lo richiamo ben m’era manero2, e dunque pascer troppo nol dovia. 5

Or è montato e salito sì altero3, as[s]ai più alto che far non solia ed è asiso dentro a uno verzero4: un’altra donna lo tene in balìa5.

Isparvero mio, ch’io t’avea nodrito6, 10 sonaglio d’oro ti facea portare perché dell’uc[c]ellar fosse7 più ardito: or se’ salito sì come lo mare, ed ha’ rotti li geti8 e se’ fug[g]ito, quando eri fermo nel tuo uc[c]ellare.

La metrica Sonetto con schema di rime ABAB ABAB CDC DCD 1 2

Tapina ahimè: Povera me. manero: docile, domestico.

3 Or… altero: ora è volato e salito tanto in alto. 4 ed è… verzero: e si è stabilito dentro un giardino. 5 in balìa: in suo potere.

6 nodrito: allevato. 7 fosse: fossi. 8 geti: le pastoie applicate alle zampe dei rapaci. Qui è metafora della servitù d’amore, rotta dall’uomo amato.

Un ritratto di Nina Siciliana in Biografia degli uomini illustri della Sicilia, ornata de’ loro rispettivi ritratti, 1819.

La scuola siciliana 1 161


Anonimo

T5b Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

Vis’ amoros’, angelico e clero L’uomo accusato di aver lasciato la sua amata per un’altra donna, rifiuta le accuse e nega tutto.

Vis’ amoros’1, angelico e clero, in cui regna savere e cortesia, non v’apellate di tapin mestero2 per creder cosa ch’es[s]er non poria. 5

Ch’io partisse da voi core e penzero? 3 Inanti foss’io morto quella dia4: ch’io altra gioia non voglio né spero se no la vostra gaia segnoria5.

E ben confesso, sono alti salito, 10 pensando che cangiato6 son d’amare da voi, cui sono fedele e gechito7. online T6 Rinaldo d’Aquino

Giamäi non mi conforto

Chi altro vi fa credere o pensare è disleale, larone e traìto8, che vuol la nostra gioia disturbare.

La metrica Sonetto con schema di rime ABAB ABAB CDC DCD

1 Vis’ amoros’: viso che fa innamorare. 2 di tapin mestero: disgraziata. 3 Ch’io…penzero?: [Credeste] che io allontanassi da voi il mio cuore e la mia mente? 4 dia: dal latino die, giorno. 5 segnoria: signoria. 6 cangiato: ricambiato. 7 gechito: sottomesso (gallicismo). 8 larone e traìto: mascalzone e traditore.

Analisi del testo La metafora dello sparviero Nel primo sonetto la poetessa si definisce infelice in quanto ha mal riposto il suo amore in un uomo che si è rivelato essere uno sparviero, un uomo inaffidabile che è volato via dalla sua donna per vivere ora in potere di un’altra. A nulla è servito il fatto che lei lo amasse da morire. Nella descrizione dell’evento emerge lo stupore della donna in quanto il suo amato appariva docile al suo richiamo e si rammarica di averlo amato troppo. Di derivazione provenzale è sicuramente il servizio d’amore dell’uomo nei confronti della donna.

La netta smentita Nel sonetto di risposta l’uomo respinge tutte le accuse mossegli dalla sua amata, dichiarando di non aver mai commesso il fatto e di non desiderare altro che il gioioso servizio d’amore. Nell’incipit della risposta si colloca una sorta di captatio benevolentiae in quanto alle accuse l’uomo risponde con una lode, definendo il viso della sua amata angelico e luminoso, luogo in cui regnano saggezza e cortesia. Il sonetto in chiusura fa riferimento ai malparlieri, ovvero gli invidiosi che gelosi della felicità degli amanti cercano di separarli con bugie e invenzioni. Questi elementi di ascendenza provenzale confermano gli stretti contatti tra i primi poeti di lirica in volgare in Italia e la poesia provenzale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto delle due poesie in non più di 10 righe. ANALISI 2. Perché l’uomo amato viene paragonato a uno sparviero? STILE 3. Quale figura retorica riconosci al v. 12?

Interpretare

SCRITTURA 4. Rintraccia i motivi tipici della lirica provenzale e siciliana, e scrivi un testo di max 20 righe per ripercorrere gli elementi più importanti delle due manifestazioni poetiche.

162 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


PER APPROFONDIRE

La canzone e la canzonetta La forma metrica principale introdotta dai provenzali è la canzone (canso in provenzale): nel nome essa testimonia la fusione fra testo lirico e musica tipica della poesia trobadorica e destinata a perdersi in Italia già con i siciliani. Nella nostra tradizione lirica è sicuramente il genere metrico più nobile: già Dante, nel De vulgari eloquentia, colloca la canzone al primo posto, per lo stile alto e i contenuti elevati che tratta. La canzone è caratterizzata dalla presenza di più strofe dette stanze (da cinque a sette) e da una forte simmetria: queste (dette coblas in provenzale) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema di rime. Le stanze di una canzone possono essere indivisibili, cioè prive di articolazione interna oppure divisibili, come è normale nella canzone italiana. I nomi usati sono fronte per la prima parte della stanza e sirma per la seconda. La fronte può essere ulteriormente divisibile in due piedi e la sirma, prima di Petrarca, in due volte. Le combinazioni possibili per la stanza divisibile sono quattro: stanza di fronte e sirma (non contemplata da Dante); stanza di piedi e sirma (Petrarca); stanza di fronte e volte; stanza di piedi e volte. Tra la fronte e la sirma ci può essere un verso di collegamento, detto chiave. Talvolta (spesso in Dante e sempre in Petrarca) si verificano legami tra le strofe: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma, istituendo una concatenazione tra le due parti della canzone; ma fin dai tempi della lirica provenzale

esistono diversi altri artifici finalizzati a creare un legame tra le strofe e, dunque, a rafforzare l’armonia e la simmetria della canzone: l’ultima rima di una stanza viene ripresa nel primo verso della successiva (coblas copcaudadas) oppure all’inizio di ogni stanza viene ripresa, magari modificata, l’ultima parola della strofa precedente (coblas capfinidas), come nella celebre canzone di Guido Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre Amore. La canzone si può chiudere con una strofa più breve, detta congedo, con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa. La regolare successione delle parti e la simmetria architettonica proprie della canzone, consacrate dal Canzoniere di Petrarca, vengono rispettate per secoli nella tradizione lirica. Sarà Leopardi nel primo Ottocento, durante la sua ricerca di una poesia che sia “canto” e libera espressione dei moti dell’animo, a infrangere lo schema costrittivo della canzone per dare vita alla cosiddetta canzone libera, che abbandona lo schema delle strofe tutte uguali e alterna liberamente endecasillabi e settenari, con rime che ricorrono senza vincoli. Se una canzone è composta di soli settenari viene detta canzonetta. Riportiamo un esempio di canzone in stanze di piedi e volte; in questo caso è divisibile sia la prima sia la seconda parte. A questo tipo appartiene la stanza della canzone di Giacomo da Lentini Madonna dir vo voglio:

Madonna, dir vo voglio como l’amor m’à priso,

I PIEDE

inver’ lo grande orgoglio che voi bella mostrate, e no m’aita.

FRONTE 5O i lasso, lo meo core, che ‘n tante pene è miso che vive quando more

II PIEDE

per bene amare, e teneselo a vita. Dunque mor’e viv’eo? 10 No, ma lo core meo more più spesso e forte

I VOLTA

Che no faria di morte naturale,

SIRMA per voi, donna, cui ama, più che se stesso brama, 15 e voi pur lo sdegnate:

II VOLTA

amor, vostra ’mistate vidi male. (Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Il Mulino 1991).

La scuola siciliana 1 163


Cielo d’Alcamo

T7 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

online

audio e video Dario Fo, Mistero Buffo Interpretazione di Cielo d’Alcamo

EDUCAZIONE CIVICA

Rosa fresca aulentissima

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

Si tratta di un vivace dialogo di 32 strofe (in tutto 160 versi): un “botta e risposta” tra un cavaliere e una donna del popolo che egli vorrebbe far sua, ma che lo rifiuta con motivazioni sempre più deboli, fino alla resa finale (lo schema e il contenuto richiamano direttamente il genere trobadorico della pastorella). «Rosa fresca aulentis[s]ima

ch’apari inver’ la state, pulzell’ e maritate: tràgemi d’este focora,   se t’este a bolontate;    per te non ajo abento notte e dia, le donne ti disiano,

penzando pur di voi, madonna mia.» «Se di meve trabàgliti,   follia lo ti fa fare. Lo mar potresti arompere,   a venti asemenare, l’abere d’esto secolo   tut[t]o quanto asembrare:    avere me non pòteri a esto monno; 10    avanti li cavelli m’aritonno.» 5

«Se li cavelli artón[n]iti,

avanti foss’io morto, lo solacc[i]o e’l diporto. Quando ci passo e véjoti,   rosa fresca de l’orto,    bono conforto dónimi tut[t]ore: 15    poniamo che s’ajunga il nostro amore.» ca’n is[s]i [sì] mi pèrdera

«Ke ’l nostro amore ajùngasi,

non boglio m’atalenti cogli altri miei parenti, guarda non t’ar[i]golgano   questi forti cor[r]enti.    Como ti seppe bona la venuta, 20    consiglio che ti guardi a la partuta.» se ci ti trova pàremo

La metrica Contrasto di trentadue strofe totali, ciascuna di cinque versi, costituite da tre versi alessandrini con primo emistichio sdrucciolo e secondo emistichio piano, seguiti da un distico di endecasillabi a rima baciata. Lo schema metrico è AAA BB

1-5 «Rosa… madonna mia»: nella prima strofa è il cavaliere che prende la parola per lodare la fanciulla e confessarle il suo tormento amoroso. «O rosa fresca profumatissima (aulentissima) che appari al sopraggiungere dell’estate, ti desiderano le donne, sia fanciulle (pulzell’) sia maritate: traimi da questi fuochi (focora) d’amore, se lo vuoi (se t’este a bolontate); a causa tua (per te) non ho pace (abento) né di notte né di giorno, continuando a pensare (penzando pur) a voi, madonna mia». 6-10 «Se di meve… m’aritonno»: la seconda strofa, con il rifiuto netto della donna, imposta la situazione del contrasto.

«Se per me ti tormenti (se di meve trabàgliti), sei folle. Potresti arare (arompere) il mare, seminare ai venti, mettere insieme (asembrare) tutti i beni di questa terra, non potresti (pòteri) avermi in questo mondo; piuttosto mi taglio i capelli (la donna minaccia dunque di farsi monaca)». “Arare il mare”, “seminare al vento”, “assommare le ricchezze del mondo” sono immagini rispondenti alla figura retorica dell’adynaton, ovvero l’indicazione di condizioni per definizione impossibili a realizzarsi (in greco adynaton significa appunto “impossibile”). 11-15 «Se li cavelli artón[n]iti… il nostro amore»: «Se tu ti tagli i capelli (e quindi se ti fai monaca) prima possa io essere ucciso, perché (ca) in essi (i capelli dell’amata) perderei la mia gioia e il mio diletto (la coppia sinonimica è di derivazione provenzale: solatz et deport). Quando passo qui (ci) e ti vedo, rosa fresca

164 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”

dell’orto, mi doni sempre (tuttore) gioia: facciamo in modo che si congiunga il nostro amore». L’espressione, che allude spregiudicatamente all’unione fisica, contrasta con le lodi della donna, ispirate al codice amoroso cortese. 16-20 «Ke ’l nostro amore… a la partuta»: la donna, ribadendo il proprio diniego, prospetta al cavaliere i pericoli che potrebbero derivare dalla sua insistenza. «Non voglio che mi piaccia (atalenti: gallicismo) il realizzarsi del nostro amore: se mio padre, (pàremo: la posposizione del possessivo in posizione enclitica è ancora presente nei dialetti meridionali) con gli altri miei parenti, ti trova qui (ci), bada che essi, che corrono forte (questi forti correnti) non ti sorprendano. Ti è andata bene la venuta: ti consiglio di fare attenzione alla partenza».


«Se i tuoi parenti trova[n]mi,

e che mi pozzon fare? di dumili’ agostari: non mi toc[c]ara pàdreto   per quanto avere ha ’n Bari.    Viva lo ’mperadore, graz[i’] a Deo! 25    Intendi, bella, quel che ti dico eo?» Una difensa mèt[t]oci

«Tu me no lasci vivere

né sera né maitino d’auro massamotino. Se tanto aver donàssemi   quanto ha lo Saladino,    e per ajunta quant’ha lo soldano, 30    toc[c]are me non pòteri a la mano.» Donna mi so’ di pèrperi,

«Molte sono le femine

c’hanno dura la testa, l’adimina e amonesta: tanto intorno procàzzala   fin che.ll’ ha in sua podesta.    Femina d’omo non si può tenere: 35    guàrdati, bella, pur de ripentere.» e l’omo con parabole

«K’eo ne [pur ri]pentésseme?

davanti foss’io aucisa per me fosse ripresa! [A]ersera passàstici,   cor[r]enno a la distesa.    Aquìstati riposa, canzoneri: 40    le tue parole a me non piac[c]ion gueri.» ca nulla bona femina

«Quante sono le schiantora

che m’ha’ mise a lo core, la dia quanno vo fore! Femina d’esto secolo   tanto non amai ancore    quant’amo teve, rosa invidïata: 45    ben credo che mi fosti distinata.» «Se distinata fósseti,   caderia de l’altezze, ché male messe fòrano   in teve mie bellezze. e solo purpenzànnome

21-25 «Se i tuoi parenti… dico eo?»: il cavaliere, di fronte alla larvata minaccia della donna, prospetta come difesa una legge, emanata da Federico II nel 1231, che imponeva una forte multa agli aggressori. «Se i tuoi parenti mi trovano, che cosa mi possono fare? Io metto avanti una multa di duemila augustali (monete che Federico aveva fatto coniare nel 1231: il componimento non può dunque essere precedente a questa data): non mi toccherà tuo padre (pàdreto) per quante ricchezze sono in Bari (qui sinonimo di città molto ricca). Viva l’imperatore, grazie a Dio!» L’esclamazione implica che Federico sia ancora vivo: il componimento non può quindi essere posteriore al 1250, data della morte dell’imperatore. Si allude a una disposizione in base alla quale un aggredito, appellandosi all’imperatore,

poteva indicare la multa da comminare agli aggressori. 26-30 «Tu me no… a la mano»: «Tu non mi lasci vivere né di sera né di mattina. Io sono una donna preziosa (i pèrperi erano monete d’oro bizantine; il massamotino era una moneta d’oro in uso in Africa settentrionale e Andalusia). Se mi facessi dono dei tesori del Saladino e in più (per ajunta) del soldano (il sultano d’Egitto) non mi potresti (comunque) toccare». 31-35 «Molte sono le femine… pur de ripentere»: «Sono molte le donne dalla testa dura, e l’uomo con le parole le domina e le convince: tanto la incalza (procàzzala), che la riduce in suo potere (si passa dal plurale al singolare). La donna non può fare a meno dell’uomo: bella, sta’ attenta di non doverti pentire».

36-40 «K’eo ne… gueri»: la donna, risentita («Pentirmi io?»), riprende le ultime parole del cavaliere e, per giustificare la sua resistenza, avanza ragioni morali: vorrebbe essere uccisa piuttosto che un’altra donna per bene (nulla bona femina) fosse a causa sua rimproverata. E aggiunge ironicamente: «Ieri sera sei passato di qua, correndo a perdifiato (a la distesa). Riposati, canterino (canzoneri): le tue parole a me non piacciono affatto (gueri)». 41-45 «Quante sono… distinata»: «Quanti sono gli affanni (schiantora, plurale della forma di focora, al v. 3) che mi hai posto nel cuore, anche solo al pensiero di te (e solo purpenzànnome) il giorno (la dia) quando esco! Io non ho ancora mai amato una donna quanto amo te, rosa desiderata (invidïata): davvero credo che tu mi sia stata destinata».

La scuola siciliana 1 165


Se tut[t]o adivenìssemi,

tagliàrami le trezze,    e consore m’arenno a una magione, 50    avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone.» «Se tu consore arènneti,

donna col viso cleri, a lo mostero vènoci   e rènnomi confleri: per tanta prova vencerti   fàralo volonteri.    Conteco stao la sera e lo maitino: 55    besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino.» [...] [A questo punto la donna chiede al cavaliere di presentarsi a suo padre e a sua madre per chiedere la sua mano. Se acconsentiranno, vuole essere condotta in chiesa e sposata: solo allora cederà alle richieste amorose del cavaliere. Però, dopo una nuova serie di schermaglie, la donna viene a più miti consigli: il cavaliere giuri almeno fedeltà eterna sui Vangeli. Con le due strofe che seguono si chiude la composizione.] «Le Vangel[ï]e, càrama?

ch’io le porto in seno: a lo mostero présile   (non ci era lo patrino). Sovr’esto libro jùroti   mai non ti vegno meno.    Arcompli mi’ talento in caritate, 155    ché l’arma me ne sta in sut[t]ilitate.» «Meo sire, poi juràstimi,

eo tut[t]a quanta incenno. Sono a la tua presenz[ï]a,   da voi non mi difenno. S’eo minespreso àjoti,   merzé, a voi m’arenno.    A lo letto ne gimo a la bon’ora, 160    ché chissa cosa n’è data in ventura.» 46-50 «Se distinata… ’n la persone»: la donna reagisce indignata alle ultime parole del cavaliere: cadrebbe proprio in basso (caderia de l’altezze) se fosse stata destinata al cavaliere, la sua bellezza sarebbe proprio sprecata per uno come lui. E aggiunge: «Se mi capitasse tutto ciò (se tut[t]o addivenìssemi), mi taglierò le trecce e mi ritirerò come suora in un convento (magione) prima che tu possa mettere le tue mani su di me». 51-55 «Se tu consore… al meo dimino»: pronta la risposta del cavaliere: se la don-

na dal luminoso viso (viso cleri) si farà suora, lui è pronto ad andare allo stesso monastero e a farsi frate (confleri); per vincerla in una gara così importante (tanta prova) lo farà volentieri. Almeno starà con lei sera e mattina: assolutamente deve averla in suo potere (al meo dimino). 151-155 «Le Vangel[ï]e, càrama?… sut[t]ilitate»: «I Vangeli, mia cara? Io li porto sul petto; li ho presi al monastero (non c’era il prete). Ti giuro su questo libro che non verrò mai meno al mio amore. Esaudisci ora il mio desiderio

(Arcompli mi’ talento) in modo benigno, perché l’anima mi si sta consumando (l’arma me ne sta in sut[t]ilitate)». 156-160 «Meo sire… in ventura»: a questo punto la donna non può che arrendersi: «Mio signore, dato che hai giurato, io mi accendo tutta quanta (d’amore). Sono davanti a te, da voi non mi difendo. Se ti ho disprezzato (minespreso àjoti), perdono, a voi mi arrendo. Andiamo a letto subito (a la bon’ora), perché chissà che cosa ci riserva la sorte».

Analisi del testo Il genere del “contrasto” Rosa fresca aulentissima è una composizione strutturata in forma di contrasto: una tipologia testuale che implica il confronto tra due personaggi che rappresentano posizioni diverse, se non opposte. Un celebre esempio di contrasto riferito all’ambito della poesia religiosa è Quando t’aliegre, omo d’altura di Jacopone da Todi (➜ C2 T5 OL) in cui si confrontano un vivo e un morto. Anche in questo testo, come in Rosa fresca aulentissima, la forma del contrasto implica un “botta e risposta” tra i due interlocutori-contendenti; in molte strofe c’è una ripresa diretta e precisa di un’espressione contenuta nella strofa precedente: ad es. li cavelli m’aritonno // Se li cavelli artón[n] iti (vv. 10-11), poniamo che s’ajunga il nostro amore // Ke ’l nostro amore ajùngasi (vv. 15-16).

166 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


Chi era l’autore del contrasto? L’autore di questo componimento, che ci è stato tramandato nello stesso codice assieme ai testi dei poeti della corte di Federico II, è stato identificato da un erudito del Cinquecento in un certo Cielo (probabilmente toscanizzazione del copista per Celi, diminutivo di Miceli, ovvero Michele) d’Alcamo (cittadina della Sicilia nord-occidentale). Si tratta forse di un giullare, che dimostra però piena padronanza dei modi della poesia cortese e un’abilità metrico-retorica non consueta nella produzione giullaresca.

Un esercizio letterario a scopo probabilmente parodico Non si deve immaginare, dietro la composizione, una situazione reale: si tratta di un esercizio letterario, polemico verso la letteratura d’amore “alta”. I due contendenti appartengono, così sembra, più o meno alla stessa classe sociale e la donna, dopo aver avuto un’assicurazione puramente formale, alla fine cede all’insistenza dell’uomo e lo fa da consenziente. Lo scopo della composizione è probabilmente parodico nei confronti della tradizione cortese: l’obiettivo stesso dell’uomo che dialoga con la donna – la conquista sessuale – appare volutamente contrapposto all’idealizzazione dell’amore presente nei poeti della Magna Curia, che in seguito caratterizzerà ancor più gli stilnovisti. Inoltre lo scrittore contamina consapevolmente modi e termini della poesia aulica con quelli popolareschi. Di conseguenza, anche il pubblico a cui presumibilmente l’autore si rivolge non è di persone incolte, incapaci di apprezzare la scaltrita parodizzazione delle modalità cortesi.

Un intarsio linguistico-stilistico multiforme Il contrasto utilizza un linguaggio e un registro stilistico compositi: la lingua di fondo è il siciliano medio – dunque non illustre (come invece è la lingua usata dai poeti della scuola siciliana) – arricchito da francesismi (come asembrare, atalenti, confleri, mosteri) e provenzalismi. A volte la contaminazione delle forme dialettali con i gallicismi suscita un effetto quasi comico. L’autore mostra piena padronanza delle formule cortesi, a cominciare dall’associazione donnarosa, intensificata dal raffinato aggettivo superlativo aulentissima, che apre il contrasto. Un altro esempio è il binomio sinonimico solacc[i]o-diporto al v. 12, ricorrente nella poesia trobadorica o ancora l’attributo viso cleri, che allude alla luminosa bellezza della donna (cfr. ad esempio Jacopo da Lentini «quella ch’ha blonda testa e claro viso»). D’altra parte queste formule cortesi sono associate – con stridente contrasto, appunto – a richieste di una corresponsione molto concreta da parte del cavaliere (poniamo che s’ajunga il nostro amore al v. 15) e da bruschi abbassamenti di tono (Molte sono le femine c’hanno dura la testa al v. 31). Anche da questi pochi esempi si può dunque comprendere che il contrasto non è certo frutto di un’ispirazione popolaresca e ingenua, ma al contrario nasce da una sofisticata operazione letteraria.

Esercitare le competenze comprendere e analizzare

SInteSI 1. Sintetizza il componimento in 10 righe. coMPrenSIone 2. Chi sono i due contendenti del contrasto? Qual è l’oggetto della contesa? AnALISI 3. I due protagonisti sono contrassegnati da una forte personalità; rintraccia nel testo i termini e le espressioni che descrivono l’uomo e la donna. 4. Quali riferimenti del testo ci permettono di stabilirne la datazione? 5. L’uomo attua una vera e propria “strategia di seduzione” nei confronti della donna. Mettine in luce le principali modalità. LeSSIco 6. Fai una scheda con le espressioni popolaresche e quelle cortesi.

Interpretare

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

ScrItturA 7. In che senso questo testo può rappresentare una parodia della letteratura e in particolare della lirica cortese?

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

8. Nel testo il cavaliere afferma che «molte sono le femine c’hanno dura la testa, e l’omo con parabole l’adimina e amonesta». Secondo te, tenendo conto di quest’affermazione, quale immagine della donna emerge? È possibile parlare di parità di genere? Perché?

La scuola siciliana 1 167


2

I poeti siculo-toscani 1 La poesia nella Toscana comunale

online

Mappa interattiva I luoghi della poesia

Dalla Sicilia alla Toscana Dopo la morte di Federico e il rapido declino della potenza sveva, il “testimone” della poesia lirica passa alla Toscana: una regione emergente, caratterizzata da un grande dinamismo culturale, che ha le sue basi nella prosperità economica di questa zona dell’Italia, creata soprattutto dalla fiorente attività delle banche di Firenze e di Siena e dal traffico commerciale del porto di Pisa. Nei vari Comuni toscani fiorisce una produzione lirica i cui autori vengono in genere denominati “siculo-toscani” perché da un lato ereditano l’interesse al tema amoroso e le forme metriche dei siciliani, mentre dall’altro si aprono a tematiche nuove: ad esempio quella della riflessione morale e politica, a volte con toni polemici e satirici, ispirate dalla vivace realtà comunale nella quale vivono e scrivono. Nel complesso si può dire che l’universo poetico compatto della lirica siciliana, privo di un centro anche politico unificante, si sfaldi per dar vita a un policentrismo culturale; vengono contemporaneamente alla ribalta Lucca (nella quale vive e opera Bonagiunta Orbicciani), Pistoia, Pisa, Arezzo e infine Firenze, dove il gusto lirico, grazie alle personalità di Monte Andrea e di Chiaro Davanzati, inizia a orientarsi verso modalità relativamente autonome rispetto alla scuola siciliana.

Guittone d’Arezzo Il maggiore dei poeti siculo-toscani è considerato Guittone d’Arezzo (1235 ca.-1294 ?), che, esempio paradigmatico di intellettuale comunale, segue con passione e partecipazione gli eventi politici del Comune di Arezzo e ne lamenta la decadenza e la lotta tra le fazioni. La sua ampia produzione (50 canzoni e ben 251 sonetti, oltre a numerose lettere) è divisa in due fasi: nella prima, accanto al tema amoroso, emerge significativamente il tema politico, trattato con una passione che riflette la diretta partecipazione del poeta alle lotte tra guelfi e ghibellini che agitavano il panorama politico dei Comuni toscani (Guittone apparteneva al partito guelfo); nella seconda, successiva alla sua decisione di lasciare la sua città e la sua stessa famiglia per entrare in una confraternita religiosa, dominano testi di argomento religioso e morale. La forte personalità poetica di Guittone si manifesta nella predilezione per uno stile aspro – vicino, soprattutto nelle prime composizioni, ai modi del provenzale trobar clus – e nella propensione per un uso virtuosistico degli strumenti retorici, che rende i suoi testi ardui a comprendersi. Uno stile che suggestionò molti poeti, ma suscitò la forte critica di Dante, sebbene proprio quest’ultimo fosse stato influenzato dal poeta toscano, come si ricava da vari riferimenti del De vulgari eloquentia. Tumulti ad Arezzo, in una miniatura toscana Nella Commedia il poeta fiorentino prende nettamente

del XIV secolo.

168 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


le distanze da Guittone (Pg XXIV, 55-57; XXVI 24-126) e in genere dai poeti siculotoscani, mettendo in bocca a uno di essi, Bonagiunta Orbicciani, che immagina di incontrare nel Purgatorio, una celebre definizione del “dolce stil novo” che ne sancisce la netta distanza rispetto alle esperienze liriche immediatamente precedenti. Compiuta Donzella Come per Nina Siciliana i critici nel corso del tempo si sono divisi tra chi l’ha considerata tra le prime poetesse della letteratura italiana e chi invece ha pensato che dietro di lei si nascondesse una mano maschile, negandone l’esistenza. Nuove ipotesi confermano l’esistenza della poetessa e la collocano addirittura in un panorama europeo. L’ipotesi è che “compiuta” fosse il nome di battesimo, nome abbastanza diffuso a Firenze tra XIII e XIV secolo. Si ritiene invece che “Donzella” non potesse essere il cognome, anche se era diffuso già in epoca medioevale e tutt’oggi presente in Sicilia e in Toscana. Alla poetessa fanno riferimento un gran numero di testi di autori del 1200; tra questi segnaliamo: la lettera V dell’epistolario di Guittone d’Arezzo; i sonetti di Mastro Rinuccino, i sonetti attribuiti a Maestro Torrigiano. È possibile che lei fosse in contatto con altri poeti del Duecento fiorentino e fosse stata introdotta in qualche circolo letterario della città. A lei si attribuiscono tre sonetti contenuti nel codice Vaticano 3793: A la stagion che ’l mondo foglia e fiora; Lasciar vor[r]ia lo mondo e Dio servire e Ornato di gran pregio e valenza, ma è possibile che i testi a lei riconducibili possano essere superiori. Nei primi due sonetti compare il motivo del matrimonio forzato e la figura del padre-padrone che vuole obbligare la figlia ad adempiere al suo volere.

La lirica siculo-toscana GENERE

lirica

TEMPO

seconda metà del XIII secolo

LUOGO

comuni toscani (Arezzo, Lucca, Firenze)

LINGUA

volgare toscano

STILE

ricercato, complesso, arduo

TEMI

amoroso, morale e religioso

MODELLO

scuola siciliana e lirica provenzale

AUTORI

Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani

online

online

T8 Guittone d’Arezzo Ahi lasso, or è stagion de doler tanto

T9 Guittone d’Arezzo Ora parrà s’eo saverò cantare I stanza

I poeti siculo-toscani 2 169


Compiuta Donzella

T10 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

A la stagion che ’l mondo foglia e fiora La poetessa, a causa della sua sofferenza, derivante dal matrimonio forzato, si sente esclusa dalla gioia primaverile che si riflette su tutti gli altri.

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

A1 la stagion che ’l mondo foglia e fiora2 acresce3 gioia a tut[t]i fin’ amanti: vanno insieme a li giardini alora che4 gli auscelletti fanno dolzi canti; 5

la franca5 gente tutta s’inamora, e di servir ciascun trag[g]es’ inanti6, ed ogni damigella in gioia dimora; e me, n’abondan mar[r]imenti7 e pianti.

Ca lo mio padre m’ha messa ’n er[r]ore8, 10 e tenemi sovente in forte doglia: donar mi vole a mia forza segnore9, ed io di ciò non ho disio né voglia, e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore; però non mi ralegra fior né foglia10. La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD 1 Il verso è affine alle poesie trobadoriche, ma soprattutto siciliane (Rinaldo d’Aquino). 2 foglia e fiora: mette foglie e fiori. Fiora: sta per fiore, cambiamento dovuto alla rima.

3 4 5 6

acresce: con prostesi di -a. alora che: nell’ora in cui. franca: moralmente nobile. e di servir…inanti: e ognuno si predispone al servizio d’amore. 7 mar[r]imenti: tristezze, provenzalismo.

8 m’ha…er[r]ore: mi ha messa in una situazione dolorosa.

9 donar… segnore: mi vuole far sposare contro la mia volontà. 10 fior né foglia: ripresa in chiusura, ma in forma negativa, della formula dell’incipit “foglia e fiore”.

Analisi del testo Incipit

Lessico chanson de toile Antica composizione in lingua d’oil, di carattere lirico narrativo, in cui si finge che donne intente a tessere o cucire raccontino la storia di una donna che soffre per la lontananza del suo amante. Quasi tutte si concludono felicemente.

La protagonista manifesta il suo dolore e il suo smarrimento in contrasto con il mondo che la circonda, che appare felice. Esprime inoltre tutto il suo dissenso verso la volontà paterna di volerla dare forzatamente in sposa a un uomo che non ama. I sonetti di Compiuta Donzella si possono analizzare alla luce della situazione sociale della Firenze del Duecento, dove i matrimoni forzati erano molto diffusi. Lauriello fa notare che pur avvertendosi l’influenza della poesia provenzale, nei sonetti di Compiuta Donzella emerge spontaneità, freschezza di sentimenti e immagini del tutto personali. Compiuta può essere ritenuta un’abile versificatrice, esperta di retorica e non priva di ironia nel momento in cui rovescia il canone delle chansons de toile .

La struttura bipartita Il sonetto risulta bipartito: alla lode della gioia universale per l’arrivo della primavera si contrappone a partire dal v. 8 la sofferenza dell’autrice. Nella prima metà del sonetto è sottolineata l’universalità: tutti (v. 2), insieme (v. 3), tutta (v. 5), ciascun (v. 6), ogni (v. 7); nella seconda metà del sonetto l’autobiografismo è estremamente marcato: me (v. 8), mio; m’ (v. 9), -mi (v. 10), mi e mia (v. 11), io (v. 12), mi (v. 14).

La chiusura ad anello La chiusura del sonetto, come sottolineato nelle note è circolare da foglia e fiora (v. 1) si giunge a fior né foglia (v. 14); da acresce gioia a tut[t]i fin’amanti (v.2) si giunge a non mi ralegra (v. 14).

170 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


Esercitare le competenze comprendere e analizzare

PArAFrASI 1. Fai la parafrasi delle due quartine. StILe 2. Il sonetto è ricco di variazioni ovvero la poetessa esprime lo stesso concetto variando i termini. Rintraccia nel testo due esempi. 3. La poesia è caratterizzata dall’utilizzo di termini a coppia (binomi). Rintracciali nel testo e soffermati a spiegarne un binomio. AnALISI 4. Scrivi il verso in cui la poetessa inizia a descrivere il suo stato d’animo.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

coMPetenZA DIGItALe

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

5. In questo sonetto la poetessa descrive una situazione non molto lontana nel tempo e che ancora oggi caratterizza alcuni Paesi: il diritto di decidere della vita di una donna da parte della componente maschile della famiglia (padre-fratello-marito). Fai una ricerca che ti porti a individuare in quali Paesi la donna non ha ancora diritto di scegliere per la sua vita chi sposare, quale lavoro praticare e condividi i risultati della tua ricerca con i compagni di classe attraverso un file con testo e immagini.

Fissare i concetti I poeti siculo-toscani 1. Quali caratteristiche presenta la poesia dei siculo-toscani rispetto alla lirica siciliana? 2. In quante fasi si può dividere la produzione di Guittone d’Arezzo e quali temi tratta? 3. Quale stile utilizza Guittone nelle sue poesie? 4. Come risulta composto il corpus delle poesie di Compiuta Donzella?

Alexandre Cabanel, I poeti fiorentini, olio su tela, 1861 (New York, Metropolitan Museum of Art).

I poeti siculo-toscani 2 171


3

Il dolce stilnovo 1 Che cos’è lo stilnovo

Il dio dell’amore colpisce l’amante, miniatura da un codice francese del Roman de la Rose, 1490 ca. (Londra, British Library).

Il ruolo di Dante nella fondazione del concetto di “stilnovo” Il “dolce stil novo”, dopo la scuola siciliana e il suo passaggio in Toscana, rappresenta un altro importante momento nella formazione della lirica italiana, ed è proprio a Firenze che si sviluppa. Con il termine “stilnovo” si indica quindi l’esperienza poetica di alcuni autori fiorentini nella seconda metà del Duecento. La denominazione di «dolce stil novo» si ricava dalle parole che Dante fa pronunciare a Bonagiunta Orbicciani, da Lucca, un poeta siculo-toscano, nel XXIV canto del Purgatorio. Bonagiunta chiede a Dante se si trova di fronte all’iniziatore del nuovo stile con Donne ch’avete intelletto d’amore (nella Vita nuova) e Dante chiarisce di essere un poeta che trae ispirazione dall’amore «I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando». Questa dichiarazione di Dante sottolinea a Bonagiunta la lontananza dei poeti della scuola siciliana, di Guittone e di lui stesso, dall’esperienza dei nuovi poeti: «“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”». Dal dialogo con Bonagiunta comprendiamo che la novità di questa poesia è la fedeltà assoluta all’ispirazione che proviene da Amore; grazie alla risposta di Dante, Bonagiunta comprende qual è il «nodo», l’impedimento che separa lui e gli altri poeti da questa nuova esperienza poetica, ovvero la assoluta adesione all’illuminazione provocata da Amore. Le caratteristiche dello stilnovo È necessario chiarire che cos’è il nodo di cui parla Dante nel colloquio con Bonagiunta e analizzarlo sia sul piano formale che su quello dei contenuti. Dal primo punto di vista ciò che distingue questi poeti è la scelta di uno stile raffinato e selettivo, la cui “dolcezza” si contrappone alle asprezze e alle oscurità dello stile guittoniano. Sul piano dei contenuti, all’omaggio rivolto alla dama, caratteristico dell’amore cortese, si sostituisce una visione più spiritualizzata della donna, che viene lodata come angelo in Terra e come tramite per la salvezza. Si può con certezza affermare che la concezione dell’amore degli stilnovisti si riconnette ai trovatori della letteratura provenzale dell’ultimo periodo e a quella di Chiaro Davanzati, poeta siculo-toscano. Uno dei concetti più importanti che possiamo osservare nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore di Guido Guinizzelli (➜ T11 ) è l’identificazione dell’amore con la gentilezza: solo chi è dotato di nobiltà d’animo è in grado di provare amore. In questa affermazione è tutta la novità dello stilnovo: la nobiltà di cui si parla non è più quella di sangue ma quella di animo, come già affermato nel trattato De Amore di Andrea Cappellano (➜ C1 T8 ).

172 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


lezione di Guido Guinizzelli 2 La e le caratteristiche del nuovo modo di poetare L’iniziatore dello stilnovismo L’iniziatore del gruppo è da considerare il bolognese Guido Guinizzelli, autore di quello che è ritenuto il manifesto della nuova scuola, ossia la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore e che Dante definisce «il padre mio e de li altri miei» nel XXVI canto del Purgatorio. Non c’è da stupirsi se l’iniziatore dello stilnovismo è stato un bolognese, in quanto la città emiliana era all’avanguardia dal punto di vista culturale per la presenza di una famosa università. Della vita di Guido Guinizzelli, di una generazione precedente a quella di Dante (la sua nascita è oggi collocata intorno al 1218, ma altri la spostano molto più avanti), si sa pochissimo: se è corretta l’identificazione in Guido, figlio del giudice bolognese Guinizzello di Magnano, egli fu uomo di legge, attivo come giudice a Bologna tra il 1268 e il 1274; di parte ghibellina, fu esiliato nel 1274 a Monselice, presso Padova, in seguito alla sconfitta, nella sua città, della fazione ghibellina. Morì prima del novembre del 1276. La sua produzione (cinque canzoni e quindici sonetti) si muove tra ascendenze siciliane e guittoniane e intuizioni stilnovistiche. Gli stilnovisti e le caratteristiche dello stilnovo I principali esponenti del gruppo degli “stilnovisti”, come è consuetudine definirli, sono Guido Cavalcanti, Dante (ma solo negli anni giovanili), Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Gianni Alfani: se in passato è prevalsa, proprio per suggestione dei versi danteschi, l’idea della “scuola”, in tempi più recenti si tende piuttosto a sottolineare e valorizzare la diversità delle singole personalità poetiche tradizionalmente raggruppate sotto l’etichetta di “poeti stilnovisti”. Gli aspetti comuni Anche senza ammettere, appunto, l’esistenza di una vera e propria “scuola”, che implicherebbe l’adesione consapevole a una poetica da tutti condivisa, è possibile evidenziare aspetti che accomunano i cosiddetti “stilnovisti”. • Le loro liriche danno l’impressione di una vera e propria vocazione all’esercizio poetico, non più passatempo raffinato come per i siciliani, ma esperienza centrale di vita, fulcro della qual è l’amore. • Il tema amoroso occupa un posto di assoluta centralità: sebbene tutti i poeti partecipino alle lotte politiche del tempo, in poesia, come già i siciliani, trattano esclusivamente d’amore. La concezione d’amore si distacca ormai dal galateo cortese e dal codice feudale per diventare esperienza assoluta, percorso iniziatico, in alcuni casi (soprattutto Dante) proiettato verso una dimensione religiosa; ma comunque esperienza totalizzante, tale da isolare il soggetto dalla realtà comune. Per gli stilnovisti l’amore ha in ogni caso un valore conoscitivo, è lo strumento privilegiato per interpretare sé stessi. • La figura femminile è presentata non con particolari realistici ma come luminosa, sconvolgente apparizione: il suo manifestarsi agli occhi del poeta e il suo saluto acquistano quasi il valore di una rivelazione (➜ T12 ). La donna rimane lontana, irraggiungibile ma, mentre nella lirica provenzale la distanza aveva motivazioni soprattutto sociali, radicate nel costume dei rapporti feudali, ora essa diventa una lontananza metafisica, la percezione di una distanza che niente e nessuno potrà mai colmare. • Guinizzelli e (soprattutto) Dante attribuiscono virtù salvifiche alla donna, considerata sede di ogni valore spirituale e morale (➜ T12 ) e, associando tema amoroso e religioso, la concepiscono come un tramite per l’assoluto. Cavalcanti tende invece nella sua poesia a rappresentare l’amore come esperienza angosciosa e distruttiva. Il dolce stilnovo 3 173


• Nelle liriche degli stilnovisti viene esaltato il valore della “gentilezza” , una ri-

proposizione aggiornata della cortesia, che accomuna il poeta che ama, la donna amata e il pubblico ideale cui la loro poesia si rivolge. La gentilezza prescinde dalla nobiltà di sangue e si lega piuttosto alle qualità interiori, come precisa con forza Guinizzelli nella celebre canzone Al cor gentil. • Sul piano linguistico i nuovi poeti si caratterizzano per una raffinata selezione lessicale (prediligono, almeno nei momenti più propriamente lirici, termini piani, musicali) e per l’uso ricorrente della terminologia filosofica, che contrappone la loro poesia allo stile di Guittone, fondato soprattutto su un uso virtuosistico ed esibito degli artifici retorici (➜ T8 OL). Proprio questa dimensione filosofica sarà rimproverata a Guinizzelli da Bonagiunta nel sonetto Voi ch’avete mutata la mainera. Il vertice dello stilnovo si trova nella poesia di Dante L’esperienza dei nuovi poeti toscani culmina nella produzione lirica di Dante, il maggiore poeta del suo tempo che, intorno al 1295, allestisce nella Vita nuova un’antologia delle sue poesie, caratterizzate dalla focalizzazione su un mito femminile – quello di Beatrice – centrale in tutta la sua esperienza umana e poetica.

Parola chiave

Lo stilnovo GENERE

lirica

TEMPO

1280-1300 ca.

LUOGO

Bologna e Firenze

LINGUA

volgare toscano

STILE

dolcezza espressiva

TEMI

identificazione di amore e gentilezza, donna angelo, amore spiritualizzato

AUTORI

Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante (solo negli anni giovanili), Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Gianni Alfani

gentilezza/gentile Il termine gentile è per noi oggi sinonimo di persona dai modi cortesi, garbati e soprattutto attenta a rispettare il prossimo. In origine la parola non aveva affatto questa accezione: deriva infatti dal lat. gentilis, che significa semplicemente “appartenente alla gens”, cioè alla stirpe; in età feudale gentile diventa sinonimo di “persona di stirpe nobile”, cioè designa la classe sociale dei nobili. È in età comunale che il termine gentile subisce una profonda variazione di significato, in rapporto alla sempre maggiore importanza (non solo a livello economico ma anche di rappresentatività politica) della classe borghese nelle città del centro e nord d’Italia. Questi ceti si impegnano, attraverso gli intellettuali più importanti, a definire un quadro di valori e di prerogative atte a nobilitare la pro-

174 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”

pria classe: rilievo particolare in questo processo ha proprio il concetto di gentilezza come sinonimo di nobiltà. Gentile non è più per definizione il nobile, la gentilezza non è più un privilegio di casta, ma un insieme di qualità morali e intellettuali che tutti possono possedere. Nelle liriche stilnovistiche, a cominciare dalla celebre canzone di Guinizzelli, alle liriche di Cavalcanti e di Dante, gentile e gentilezza nella nuova accezione sono vere e proprie parole chiave. Ma anche Brunetto Latini, uomo politico e intellettuale di spicco del comune di Firenze, nel suo Tesoretto (un’opera didattico-allegorica), sostiene con forza che gentile non è chi è altolocato ma chi «oltre suo lignaggio [il suo privilegio di nascita] / fa cose d’avantaggio [compie azioni nobilitanti] / e vive orratamente [in modo onorevole], / sì che piace a la gente».


Guido Guinizzelli

T11 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

AUDIOLETTURA

Al cor gentil rempaira sempre amore Questa celebre canzone di Guido Guinizzelli è tradizionalmente considerata il “manifesto” della poetica stilnovistica. Indubbiamente il carattere prettamente teorico della composizione testimonia la consapevole volontà dell’autore di esporre e chiarire, con stringente logica argomentativa, i nodi fondamentali della concezione d’amore che fu propria dei poeti comunemente definiti “stilnovisti”: in particolare l’associazione gentilezza-amore. È importante, però, anche precisare che il carattere programmatico e l’importanza stessa della canzone all’interno della poesia stilnovistica sono sanciti soprattutto dall’autorevole intervento di Dante, che la elogia come esempio di perfezione linguistico-stilistica e la richiama espressamente in un sonetto della Vita nuova (XX, 3) e soprattutto in un celeberrimo passo della Commedia (If V, 100). Al cor gentil rempaira sempre amore come l’ausello in selva a la verdura; né fe’ amor anti che gentil core, né gentil core anti ch’amor, natura: 5

ch’adesso con’ fu ’l sole,

sì tosto lo splendore fu lucente, né fu davanti ’l sole; e prende amore in gentilezza loco così propïamente 10

come calore in clarità di foco.

Foco d’amore in gentil cor s’aprende come vertute in petra prezïosa, che da la stella valor no i discende anti che ’l sol la faccia gentil cosa;

poi che n’ha tratto fòre per sua forza lo sol ciò che li è vile, stella li dà valore: così lo cor ch’è fatto da natura asletto, pur, gentile, 20 donna a guisa di stella lo ’nnamora. 15

La metrica Canzone di sei stanze di dieci versi ciascuna secondo lo schema ABAB (fronte) cDcEdE (sirma). Nella fronte i versi sono tutti endecasillabi, nella sirma si alternano endecasillabi e settenari. Il primo termine della II, III, IV, V stanza riprende l’ultimo della strofa precedente secondo la tecnica, propria della poesia trobadorica, della coblas capfinidas (I-II foco-foco; II-III ’nnamora-Amor; III-IV ferro-fere; IV-V splendore-splende)

1-10

Al cor gentil… di foco: L’amore tende sempre a ritornare (rempaira, fran-

cesismo) al cuore nobile (gentil), come l’uccello ritorna fra le verdi foglie nel bosco; e la natura non ha creato l’amore prima (anti che) del cuore nobile, né il cuore nobile prima dell’amore (quindi la natura ha creato contemporaneamente l’amore e gli animi nobili): non appena (adesso con’) fu creato il sole, immediatamente (sì tosto) si manifestò lo splendore della sua luce; e non risplendette prima della creazione del sole. L’amore trova collocazione (prende… loco) nella gentilezza con la stessa naturalezza del (così propïamente / come) calore nello splendore del fuoco.

11-20 Foco d’amore… lo ‘nnamora: Il fuoco d’amore si accende nel cuore nobile come le proprietà (vertute) nella pietra preziosa, nella quale non giunge l’influenza della stella prima che (anti che) il sole l’abbia purificata; dopo che il sole, per il suo potere (forza), ha tolto da essa ogni impurità (ciò che li è vile), la stella le conferisce le sue proprietà (valore): allo stesso modo la donna, come la stella, fa innamorare il cuore creato dalla natura eletto (asletto, francesismo), puro, nobile.

Il dolce stilnovo 3 175


Amor per tal ragion sta ’n cor gentile per qual lo foco in cima del doplero: splendeli al su’ diletto, clar, sottile; no li stari’ altra guisa, tant’è fero. 25

Così prava natura

recontra amor come fa l’aigua il foco caldo, per la freddura. Amore in gentil cor prende rivera per suo consimel loco 30

com’adamàs del ferro in la minera.

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno: vile reman, né ’l sol perde calore; dis’ omo alter: «Gentil per sclatta torno»; lui semblo al fango, al sol gentil valore:

ché non dé dar om fé che gentilezza sia fòr di coraggio in degnità d’ere’ sed a vertute non ha gentil core, com’aigua porta raggio 40 e ’l ciel riten le stelle e lo splendore. 35

Splende ’n la ’ntelligenzia del cielo Deo creator più che [’n] nostr’occhi ’l sole: ella intende suo fattor oltra ’l cielo, e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole; 45

e con’ segue, al primero,

del giusto Deo beato compimento, così dar dovria, al vero, la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende del suo gentil, talento 50

che mai di lei obedir non si disprende.

21-30 Amor per tal ragion… in la minera: L’amore risiede nel cuore nobile per la stessa ragione per la quale il fuoco arde in cima al candelabro (doplero): lì splende (splendeli) a suo piacere (al su’ diletto), luminoso, leggero; non potrebbe starci in modo diverso (non li stari’ altra guisa), tanto è indomabile (fero). Così una natura vile (prava) respinge (recontra) l’amore come l’acqua fa con il fuoco caldo, perché essa è fredda (per la freddura). L’amore prende dimora nel cuore gentile come luogo congeniale, come il diamante (adamàs) nel minerale (in la minera) del ferro. Anche questa immagine, come quella precedente della pietra preziosa, è tratta dai lapidari: si pensava che il diamante venisse prodotto da una modificazione del ferro.

31-40 Fere lo sol… lo splendore: Il sole col-

41-50 Splende… non si disprende: Dio

pisce (Fere) il fango tutto il giorno, ma questo rimane cosa vile e il sole non perde il suo calore (per il fatto di riscaldare il fango); l’uomo superbo (omo alter) dice: «Io sono nobile per stirpe (sclatta)»; io lo paragono (semblo) al fango, (mentre) al sole paragono la nobiltà d’animo: perché l’uomo non deve credere (non dé dar om fé) che la gentilezza sia fuori dal cuore (fòr di coraggio), nella dignità ereditaria (in degnità d’ere’), se una persona non possiede un cuore nobile predisposto alla virtù, proprio come l’acqua si lascia trapassare dalla luce e il cielo trattiene le stelle e il loro splendore. Il paragone intende sottolineare che l’uomo non può ricevere da altre fonti (come appunto la stirpe illustre) la nobiltà se non la possiede autonomamente.

creatore, più di quanto risplenda il sole nei nostri occhi, rifulge nelle intelligenze celesti (gli angeli): essi comprendono la volontà del loro creatore immediatamente, oltre il singolo cielo (al cui movimento sono preposte) e, imprimendo al cielo la rotazione (’l ciel volgiando), prendono (tole) a ubbidirgli; e come (con’) istantaneamente (al primero) segue la felice realizzazione (beato compimento) (della volontà) del giusto Dio, allo stesso modo, in verità, la bella donna dovrebbe imprimere (dar dovria), una volta che splende negli occhi del suo nobile innamorato, il desiderio (talento) di non allontanarsi mai (mai… non si disprende) dall’ubbidirle.

176 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?», siando l’alma mia a lui davanti. «Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti e desti in vano amor Me per semblanti: 55

ch’a Me conven le laude

e a la reina del regname degno, per cui cessa onne fraude». Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza che fosse del Tuo regno; 60

non me fu fallo, s’in lei posi amanza».

51-60 Donna, Deo mi dirà… posi amanza»: O donna, Dio mi dirà: «Che presunzione hai avuto?» quando la mia anima sarà (siando) davanti a lui. «Attraversasti il cielo e giungesti fino a Me e prendesti Me come termine di paragone (semblanti) per un

amore vano (un amore cioè terreno): (solo) a Me convengono le lodi (laude) e alla Madonna, regina del paradiso (la reina del regname degno), per i cui meriti è dissolto ogni peccato (fraude sta propr. per “inganno”). Gli potrò rispondere: «(La donna che

amo) ebbe l’aspetto (sembianza) di un angelo che appartenesse al tuo regno (cioè al paradiso); non ho commesso una colpa (fallo) se ho rivolto a lei il mio amore».

Analisi del testo Un testo argomentativo sul tema dell’amore In questo celebre testo Guinizzelli non vuole trasmettere al lettore sentimenti o impressioni legati alla sua personale esperienza amorosa, ma formula con autorevolezza una precisa concezione dell’amore: da questa ambizione teorica deriva la struttura della canzone, in cui le varie stanze si agganciano l’una all’altra, costruendo i nodi fondamentali dell’argomentazione in una rigorosa progressione logica. Il concetto chiave – cioè l’identità di gentilezza e amore – è asserito con forza nel primo verso della canzone e viene poi sviluppato attraverso una lunga serie di paragoni tratti dal mondo naturale e appartenenti alla comune “enciclopedia” di un uomo colto del Medioevo, al suo bagaglio di conoscenze. Nella prima stanza la scelta dei paragoni è guidata dall’assoluta e indiscutibile evidenza dei referenti scelti per il confronto: si può immaginare il sole senza la presenza della luce? Si può pensare il fuoco luminoso senza il calore? Allo stesso modo, si può immaginare l’amore senza un animo nobile che possa accoglierlo, e viceversa? Il lettore è indotto a una conclusione presentata come necessaria. Resta invece implicito il fondamentale concetto che l’amore di cui si parla nel testo non è un amore comune, volgare, ma un’esperienza elevata destinata a pochi animi eletti. Il ruolo della seconda e terza stanza non è quello di far procedere ulteriormente l’argomentazione, ma di amplificare attraverso nuovi paragoni il concetto già enunciato nella prima. La quarta stanza, che si colloca idealmente e strutturalmente al centro della canzone, produce invece un importante avanzamento dell’argomentazione, proponendo un nucleo concettuale chiave di grande forza, anche ideologica: la stanza è focalizzata infatti sulla definizione di che cosa sia veramente la gentilezza, più volte nominata nelle parti precedenti. All’autore preme mettere in chiaro che essa nulla ha a che fare con i privilegi di una casta, quella nobiliare, ma è essenzialmente una qualità interiore, un privilegio di spiriti elevati. Per sostenere questa tesi l’autore ricorre, come fa in tutto il componimento, allo strumento del paragone, in questo caso esplicitando la funzione autoriale: lui semblo al fango. La quinta e la sesta stanza sono legate tra di loro. L’argomentazione conosce un ulteriore avanzamento: viene infatti definita la natura quasi ultraterrena della donna, che induce il poeta a elevare la sua riflessione con un ardito collegamento tra l’azione di Dio sulle intelligenze celesti e il potere salvifico esercitato sull’uomo dalla donna. L’angelica sembianza femminile è evocata alla fine della canzone come giustificazione dell’amore che il poeta ha riposto in lei.

La revisione del concetto di gentilezza Tranne l’ultima stanza, le altre cinque sono caratterizzate dalla presenza di termini ricorrenti in riferimento alla gentilezza (➜ PAROLA CHIAVE, PAG. 174): tre occorrenze nella prima stanza (vv. 1, 3), tre nella seconda (vv. 11, 14, 19), due nella terza (21, 28), quattro nella quarta (vv. 33, 34, 36, 38), una nella quinta (v. 49).

Il dolce stilnovo 3 177


Più ancora che una teoria dell’amore, la canzone di Guinizzelli si configura come una decisiva valorizzazione dei valori spirituali e culturali del singolo individuo, nella prospettiva di una nuova aristocrazia, non più strettamente legata alla nobiltà di sangue, anche in relazione alle diverse condizioni socio-culturali in cui fiorisce la poesia degli stilnovisti.

La donna-angelo e la possibile risoluzione di un conflitto di coscienza e di poetica I poeti del tardo Duecento colsero nell’affermazione di Guinizzelli (Tenne d’angel sembianza) una grande portata innovativa. Esisteva indubbiamente un conflitto tra l’esaltazione dell’amore cortese (che implicava anche l’idea dell’adulterio) e la visione religiosa propria della cultura medievale. L’angelicazione della donna comportava la possibilità di fare del sentimento amoroso un tramite verso il divino, di conciliare la visione religiosa e le forme poetiche incentrate sull’esaltazione dell’amore. Come ha sottolineato il critico Mario Marti, il parallelismo donna-intelligenze celesti non è solo un’immagine ardita, ma ha un significato profondo. Anche il ruolo femminile, così come quello degli angeli che traducono in armonia cosmica il disegno di Dio, ha carattere provvidenziale: volgendo, grazie all’amore, l’animo dell’uomo verso il bene e alla fin fine verso Dio, la donna appare a sua volta mediatrice del disegno divino. Quella della donna-angelo non è dunque un’ennesima metafora galante, ma una vera e propria reimpostazione, più rigorosamente spirituale, del sentimento amoroso. Chi interpreterà nel modo più coerente la lezione guinizzelliana sarà Dante: non solo nell’itinerario poetico ed esistenziale tracciato nella Vita nuova, ma ancor più nel cammino della Commedia.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza con una breve frase il contenuto di ogni stanza. COMPRENSIONE 2. Su quale fondamentale concetto si fonda l’analogia fra le prime tre stanze? 3. Che cosa rimprovera Dio al poeta nell’immaginario colloquio dell’ultima strofa? Come si difende il poeta dall’accusa mossagli? 4. Nella quarta stanza, alla dichiarazione dell’uomo superbo si contrappone la posizione del poeta. Su quale aspetto verte la contrapposizione? ANALISI 5. Perché secondo te Guinizzelli ha tratto la maggior parte dei termini di paragone dalla realtà naturale? LESSICO 6. Analizza il lessico e rintraccia nel testo i termini che appartengono al campo semantico della luce. 7. Questi termini hanno un significato diverso da quello odierno: indicane il senso nel contesto della canzone. gentil / gentilezza ................................................................................................................................................................. verdura (v. 2) ........................................................................................................................................................................... vertute (v. 12) .......................................................................................................................................................................... valor (v. 13) .............................................................................................................................................................................. vile (v. 16) ................................................................................................................................................................................. freddura (v. 27) ....................................................................................................................................................................... intelligenzia (v. 41) ............................................................................................................................................................... talento (v. 49) .......................................................................................................................................................................... STILE 8. Nel testo è presente una rima siciliana: sai identificarla?

Interpretare

SCRITTURA 9. Delinea sinteticamente l’immagine della donna che si ricava dalla canzone (max 20 righe, facendo riferimento al testo).

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Guido Guinizzelli

T12 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

Io voglio del ver la mia donna laudare Dei quindici sonetti presenti nel corpus delle poesie guinizzelliane, molti sono ancora legati alla tradizione cortese e presentano quindi elementi sicilianeggianti e provenzaleggianti. Alcuni, però, introducono motivi che saranno in vario modo ripresi dagli stilnovisti, e in particolare da Dante, che appunto guarderà a Guinizzelli come a un maestro. È il caso del sonetto che presentiamo, incentrato sulla lode della donna e sugli effetti miracolosi che il suo solo saluto produce in chi la incontra. Io voglio del ver1 la mia donna laudare2 ed asembrarli3 la rosa e lo giglio: più che stella dïana4 splende e pare5, 4

e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio6.

Verde river’ a lei rasembro e l’âre7, tutti color di fior’, giano8 e vermiglio, oro ed azzurro9 e ricche gioi per dare10: 8

medesmo Amor per lei rafina meglio11.

Passa per via adorna12, e sì gentile ch’abassa orgoglio a cui dona salute13, 11

e fa ’l de nostra fé se non la crede14;

e no·lle pò apressare om che sia vile15; ancor ve dirò c’ha maggior vertute16: 14

null’om pò mal pensar fin che la vede.

La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDE CDE 1 2

del ver: secondo verità. la mia donna laudare: lodare (latinismo) la mia signora (lat. domina), la signora del mio cuore. 3 asembrarli: paragonarle. 4 stella dïana: Lucifero, la stella del mattino. 5 pare: appare, si manifesta. Allo stesso modo Dante in Tanto gentile e tanto onesta pare ➜ C6 T5 .

6 somiglio: paragono. 7 Verde… âre: paragono (cfr. v. 2) a lei una verde campagna e l’aria. âre è forma contratta per aere. 8 giano: giallo (francesismo). 9 azzurro: è il colore della pietra preziosa del lapislazzuli. 10 ricche… dare: gemme preziose degne di essere donate. 11 medesmo… meglio: persino l’Amore si perfeziona grazie a lei. 12 adorna: ornata della sua stessa bellezza.

13 ch’abassa... salute: che diminuisce l’orgoglio a colui a cui dona il suo saluto. Il termine salute allude anche alla salvezza (salus in latino) spirituale che la donna può dare già con l’atto del salutare. Il concetto ritornerà nella Vita nuova di Dante. 14 fa ’l… crede: lo converte alla nostra fede se ancora non è credente. 15 no·lle… vile: non si può avvicinare a lei una persona d’animo non nobile. 16 ch’a maggior vertute: che ha un potere ancor più straordinario.

Analisi del testo Una struttura bipartita Il sonetto è incentrato sul tema della lode della donna, come viene programmaticamente enunciato nel primo verso. La lode si articola in due momenti nettamente distinti, corrispondenti rispettivamente alle due quartine e alle due terzine: nelle quartine l’autore ne loda la bellezza, mentre nelle due terzine si sofferma sulle sue doti spirituali e sugli straordinari “effetti” della sua apparizione (qui esclusivamente positivi; in altri poeti, come Cavalcanti, tali effetti sono invece soprattutto angosciosi e distruttivi).

La rivisitazione del plazer La lode della bellezza è affidata al paragone con la bellezza della natura e con le pietre preziose e resa, tramite effetti soprattutto visivi, attraverso vivaci particolari coloristici (il verde, l’azzurro, il giallo, l’oro). Caro a Guinizzelli è il paragone donna-stella, che ricorre anche in un altro sonetto (Vedut’ho la lucente stella diana).

Il dolce stilnovo 3 179


L’elenco delle cose belle a cui la donna viene paragonata richiama il modello del plazer provenzale (un tipo di componimento in cui si elencano cose e situazioni considerate piacevoli).

L’archetipo dell’“angelo visitante” Nelle due terzine è proposta l’immagine di una donna non solo genericamente stilizzata, come nella poesia dei siciliani, ma addirittura non appartenente alla dimensione dell’umano, considerati gli straordinari effetti morali che il suo solo passare per la via e il saluto producono su chi la guarda. Effetti volutamente enfatizzati dal poeta, così da essere quasi delle iperboli: la donna è capace di convertire chi non crede, e addirittura di controllare, per il tempo in cui dura la “visione”, i pensieri delle persone (infatti nessuno può nutrire, in quel frammento di tempo, pensieri malvagi). Guinizzelli fornisce con questo sonetto il modello dell’apparizione quasi soprannaturale della donna: un’apparizione che può essere annichilente e addirittura terrifica (in Cavalcanti) o beatificante, come nel caso della Beatrice dantesca.

L’idealizzazione amorosa: tra dinamiche psicologiche e schemi culturali Nella letteratura medievale di argomento amoroso la donna è costantemente soggetta a un processo di idealizzazione: essa è posta su un piedestallo di perfezione assoluta e l’uomo che la ama si trova abissalmente distante da lei senza riuscire a trovare nel linguaggio adeguati strumenti per cantare la sua sublime bellezza. Come interpretare questa costante propensione idealizzante? Da un lato, essa può rimandare ad alcuni processi tipici della dinamica amorosa, indagati dalle scienze psicologiche: secondo la psicanalisi, l’idealizzazione dell’oggetto amato gratifica il nostro narcisismo. D’altro canto, però, l’idealizzazione amorosa – cioè il riconoscimento dell’unicità dell’oggetto d’amore e l’assoluta dedizione ad esso – ricorre in determinate culture con maggior frequenza che in altre: la forma specifica assunta dall’idealizzazione della donna nella letteratura amorosa medievale è il frutto di un’elaborazione culturale specifica della cultura occidentale, inaugurata nell’XI secolo in Provenza, che ha prodotto determinati schemi attraverso i quali il singolo poeta è indotto a “leggere” la propria esperienza amorosa e che, in qualche modo, lo influenzano.

Le scelte stilistiche Dante considera Guinizzelli un maestro per chi compone «rime d’amor… dolci e leggiadre» (Pg XXVI, 99). Il sonetto Io voglio del ver costituisce un esempio particolarmente significativo di quello che Dante definirà “il dolce stile”, contrapponendolo in particolare allo stile difficile, denso di artifici retorici, di Guittone d’Arezzo. La composizione ha un andamento fluido e musicale, creato dai richiami fonici tra verso e verso e dalla scelta di una sintassi piana e lineare, in cui prevalgono le frasi coordinate. Il lessico predilige termini semplici, seppur eleganti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del sonetto (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Quale significato riveste l’associazione attraverso la rima dei termini-chiave gentile: vile? LESSICO 3. Nel sonetto sono presenti alcuni termini che nel linguaggio del tempo, e all’interno della poetica del “dolce stile”, hanno un significato lontano da quello odierno; spiega in rapporto al contesto i seguenti termini: pare, adorna, gentile, salute, vertute. STILE 4. Spiega perché Amor è scritto con la lettera maiuscola. 5. Individua le similitudini presenti nel sonetto, trascrivile e per ciascuna indica: ambito da cui è tratto il paragone – significato letterale – significato figurato.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Confronta il contenuto delle terzine con le due stanze conclusive della canzone Al cor gentil (➜ T11 ) e spiega se e per quali motivi il sonetto rappresenta un’esemplificazione di quanto sostenuto a livello teorico nella canzone.

180 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Mario Marti L’immagine della donna nei poeti nuovi Poeti del Dolce stil nuovo a cura di M. Marti, Le Monnier, Firenze 1969

Il critico Mario Marti (1914-2015), nella sua introduzione a un’importante raccolta poetica da lui stesso curata, prospetta le differenze fondamentali che distinguono la figura della donna nella poesia pre-stilnovistica e in quella stilnovistica.

[...] La donna gentile dei poeti nuovi era davvero altra cosa dalla analoga immagine dei Toscani, dei Siciliani, dei Provenzali [...] poiché, se da una parte la nuova donna gentile – lo si è visto – è identificata in un angelo, in una Intelligenza Motrice che opera beneficamente sul cuore gentile dell’uomo, provocando, in 5 un continuo processo di perfettibilità morale, il passaggio dalla potenza all’atto1 [...]; dall’altra quella stessa immagine femminile viene trasposta da termine di un rapporto ideologicamente feudale e cavalleresco a termine di un rapporto ideologicamente borghese e comunale, storicamente impossibile ai poeti delle generazioni spente2. Insomma, mentre la donna dei poeti tradizionali, fantasticamente 10 astratta o concreta, biograficamente identificabile o meno, socialmente più o meno qualificata, viene sempre inserita in un rapporto cortese di carattere feudale e cavalleresco e proiettata in un’altezza tendenzialmente politico-sociale [...], la donna degli stilnovisti è la donna della nuova borghesia comunale (vogliam dire della nuova nobiltà dei ricchi?), rivale su altro piano [...] delle reine Ginevre e 15 delle madonne Isotte3, sul piano cioè di una elezione letteraria che ha profonde e schiette motivazioni etiche; e viene inserita invece in un rapporto socialmente democratico, ma ugualmente proiettata verso altezze sublimi solo in grazia della funzione eticamente eudemonistica che il poeta le attribuisce4 e le riconosce [...]. Beatrice, Giovanna, Mandetta, Selvaggia5 sono donne di una nuova realtà storico20 sociale, non espressioni di “cortesia”, perché a loro mancherebbe proprio la “corte” (e ripensiamo alle regine, alle contesse, alle duchesse ecc.); vivono e operano nelle loro città, sono visibili alle finestre delle loro case; passeggiano nelle strade, incontrano i loro poeti, li salutano, e muoiono infine suscitando pianto e cordoglio nel cuore dei loro innamorati. Eppure queste democratiche e comunali 25 vicende assumono, per via delle idee-forza sopra indicate, valori emblematici e paradigmatici di poesia e di civiltà, anche perché sono pronte a caricarsi di un simbolismo fresco ed ingenuo, percepibile subito, a occhio nudo, che ci riporta ad una sovra-realtà di carattere metafisico. 1 il passaggio... all’atto: la terminologia filosofica aristotelica allude alla canzone di Guinizzelli Al cor gentil, in particolare alla quinta stanza, nella quale il poeta bolognese assimila la donna alle intelligenze angeliche preposte, secondo la cosmologia medievale, al movimento dei cieli (da qui il termine usato dal-

lo studioso di «Intelligenza Motrice»). 2 spente: passate. 3 reine Ginevre... madonne Isotte: riferimento a due personaggi di romanzi cavallereschi, cioè Ginevra, moglie di re Artù, amata da Lancillotto e Isotta, amata da Tristano. 4 in grazia... le attribuisce: gra-

zie alla funzione, che il poeta le attribuisce, di strumento capace di dare la felicità (all’uomo). 5 Beatrice... Selvaggia: Marti nomina qui le donne cantate dai poeti stilnovisti: dalla Beatrice dantesca a Giovanna e Mandetta, cui fa riferimento Cavalcanti, a Selvaggia, la donna amata da Cino da Pistoia.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Riassumi per punti in sequenza le osservazioni di Marti. 2. Sai spiegare perché il critico usa il plurale parlando della regina Ginevra e di madonna Isotta? 3. Scrivi una definizione dell’espressione «Intelligenza Motrice». 4. Cerca sul dizionario il significato dell’aggettivo eudemonistico e poi spiegalo con parole tue.

Il dolce stilnovo 3 181


3 «Per altezza d’ingegno»: Guido Cavalcanti Una vita all’insegna della passione filosofica, poetica, politica Guido Cavalcanti (1259 ca.-1300), fiorentino, appartenente a una ricca famiglia di recente nobiltà, è ritratto dai contemporanei come uomo dotato di grande intelligenza, dal carattere sdegnoso e aristocratico, dedito alla poesia ma al contempo «ottimo loico [logico, ragionatore] e buon filosofo» (Boccaccio). Fu legato per alcuni anni da amicizia con Dante, che a lui fu accomunato per l’«altezza d’ingegno» e che nella Vita nuova lo definisce «primo de li miei amici». La separazione tra i due fu probabilmente dovuta a differenti interessi culturali, cui alludono in modo alquanto enigmatico alcuni celebri versi della Commedia (If X). Come dimostra la sua opera, Cavalcanti fu vicino alle tesi dell’aristotelismo radicale, l’averroismo (➜ PER APPROFONDIRE, L’avverroismo, PAG. 183), diffuso soprattutto negli ambienti universitari bolognesi da lui frequentati. Schierato, come l’amico Dante, tra i guelfi di parte bianca, nel 1284 Cavalcanti fece parte del Consiglio generale del comune di Firenze. Partecipò in prima persona alle lotte tra Bianchi e Neri. In seguito all’intensificarsi di episodi di violenza, il 24 giugno del 1300 fu esiliato, insieme ad altri capi delle due fazioni, per decisione dei Priori (tra di essi vi era anche Dante). A Sarzana, dove si trovava in esilio, contrasse la malaria. Rientrato a Firenze, vi morì in quello stesso anno. L’opera poetica Cavalcanti ha lasciato un canzoniere di circa cinquanta testi (sonetti, ballate, canzoni), non tutti di sicura attribuzione. Nella sua attività poetica prende sicuramente spunto dalla lezione di Guinizzelli; mentre però quest’ultimo è aperto a diverse suggestioni (dai siciliani ai provenzali, a Guittone), la poesia di Cavalcanti si mostra omogenea nei modi e nei temi, marcatamente personale nelle immagini scelte e globalmente innovativa. È perciò forse più giusto, come oggi si tende a fare, considerare Cavalcanti anziché Guinizzelli il vero maestro della nuova poesia. La concezione cavalcantiana dell’amore Proprio per suggestione del tardo averroismo, Cavalcanti concepisce l’amore non come strumento di elevazione spirituale ma, al contrario, come una passione irrazionale e incontrollabile che si origina nella parte sensitiva, il cuore (nelle sue poesie il «core» è contrapposto all’anima, centro delle funzioni vitali, ma soprattutto alla mente, facoltà intellettuale che osserva e analizza). Per Cavalcanti l’amore è sostanzialmente “malattia” (➜ PER APPROFONDIRE, La malattia d’amore come topos letterario, PAG. 186): di conseguenza la donna, nella sua poesia, non esercita, come per Guinizzelli e soprattutto Dante, il ruolo salvifico di mediatrice verso il bene e Dio; l’apparizione della donna provoca nel poeta un paralizzante smarrimento: la sua sublime bellezza non può essere interpretata con il filtro della ragione né essere pienamente rappresentata con le parole. Questa impotenza a capire e a dire insieme origina l’angoscia che domina nei testi cavalcantiani. È sicuramente fuori luogo vedere nella poesia di Guido (come spesso in passato si è fatto sulla scia di un pregiudizio romantico) la spontanea confessione di un’infelice passione amorosa; in realtà, al poeta interessa esplorare, in modo lucido e distaccato, la passione amorosa e gli effetti psicologici e fisiologici che produce su di lui; egli conduce quest’analisi attraverso i metodi e la terminologia della medicina araba ormai noti in Italia.

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L’immaginario poetico cavalcantiano Protagonista della poesia di Cavalcanti, più che la donna, è dunque l’interiorità del poeta, esplorata attraverso una profonda autoanalisi che ha effetti destabilizzanti. Domina nella sua poesia un clima drammatico, reso stilisticamente da frequentissime personificazioni, interrogazioni, apostrofi, esclamazioni. Si ripetono inoltre vere e proprie “scene” (la critica ha parlato di “teatralizzazione”) che alludono alla vittoria della distruttiva passione amorosa su un io debole e franto; nel tessuto linguistico ricorrono ossessivamente espressioni che alludono a paura, dolore, distruzione, morte. Maria Corti ha sottolineato la particolare iteratività delle scelte lessicali del poeta fiorentino. (➜INTERPRETAZIONI CRITICHE, L’iteratività come “cifra” della poesia cavalcantiana OL). Gli spiritelli Tipico della poesia cavalcantiana è il contrasto fra entità psichiche personalizzate (gli spiritelli) in cui viene in un certo senso “sceneggiata” la drammatica condizione della frantumazione dell’io in seguito alla vittoria delle pulsioni irrazionali e sensuali sulla ragione, che in altri poeti presiede all’idealizzazione della figura femminile. Modernità di Cavalcanti Nonostante la difficoltà di lettura dei suoi testi poetici, legata anche ai codici rappresentativi di un tempo ormai lontanissimo, la poesia di Cavalcanti presenta indubbi elementi di suggestione anche per noi moderni: l’amore cavalcantiano rappresenta infatti il manifestarsi dei fantasmi interiori, l’emergere di forze oscure e irrazionali che provengono dagli abissi dell’io, da quello che dopo Freud sarà chiamato “inconscio”.

PER APPROFONDIRE

Johann Heinrich Füssli, Teodoro incontra nella selva lo spettro del suo antenato Guido Cavalcanti, olio su tela, 1783 (Tokyo, National Museum of Western Art).

L’averroismo Il termine averroismo indica il pensiero filosofico e scientifico del filosofo di origine araba Averroè (Ibn Rušd, 1126-1198) – autore di un importante Commento ai testi aristotelici – e di quanti ne seguirono l’insegnamento: in particolare la scuola filosofica fiorita attorno al 1270 nello Studium di Parigi, che ebbe i suoi maggiori esponenti in Sigieri di Brabante e nel suo discepolo Boezio di Dacia. L’insegnamento averroista si basa su una interpretazione di Aristotele diversa da quella sostenuta dalla Chiesa (e concordante con gli insegnamenti della Scrittura) e che per questo motivo sarà condannata come dottrina eretica dall’arcivescovo di Parigi, Stefano Tempier, nel 1277. L’interpretazione fornita da Averroè della filosofia aristotelica metteva in discussione alcuni dogmi della dottrina cristiana: anzitutto, affermando la necessità ed eternità della materia e del mondo, metteva in dubbio il concetto di

creazione divina dell’universo; in secondo luogo, indicando nella ragione l’unico strumento valido per acquisire delle conoscenze scientifiche, apriva un pericoloso campo di autonomia per la ricerca umana rispetto alle verità ritenute tali per fede. Fu, però, soprattutto il cosiddetto “monopsichismo” (dal greco mònos, “solo” e psyché, “anima”) a essere maggiormente attaccato dalle autorità religiose. L’averroismo sosteneva l’esistenza di una sola anima sovraindividuale, della quale le singole anime sarebbero manifestazioni imperfette. Solo la prima esisteva eternamente, mentre l’anima degli uomini era da considerarsi mortale, con i problemi che derivavano per la giustificazione del sistema di premi e punizioni prospettato dalla dottrina cristiana. Per un primo orientamento: G. Vasoli, La filosofia medievale, Feltrinelli, Milano 1982.

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Guido Cavalcanti

T13 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

AUDIOLETTURA

ANALISI INTERATTIVA

Voi che per li occhi mi passaste ’l core

LEGGERE LE EMOZIONI

È questo uno dei più noti ed esemplificativi fra i trentasette sonetti composti da Cavalcanti. In esso il poeta si rivolge alla donna (Voi che…) e la invita a contemplare l’effetto distruttivo provocato dall’amore nel poeta (guardate a l’angosciosa vita mia): tutte le sue facoltà vitali sono annientate, tranne l’uso della parola, che però può essere impiegata solo per esprimere dolore. Voi che per li occhi mi passaste ’l core1 e destaste la mente che dormia2, guardate a l’angosciosa vita mia, 4

che sospirando la distrugge Amore3.

E’ vèn tagliando di sì gran valore4, che’ deboletti spiriti5 van via: riman figura sol en segnoria 8

e voce alquanta, che parla dolore6.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto da’ vostr’occhi gentil’ presta7 si mosse: 11

un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto8, che l’anima tremando si riscosse9 14

veggendo morto ’l cor nel lato manco10.

La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDE CDE

1 Voi… core: «Voi che, servendovi degli sguardi, mi trafiggeste il cuore» (Contini). L’interlocutore è la donna amata. 2 destaste… dormia: risvegliaste la mente assopita. 3 che… Amore: che Amore distrugge (la è pleonastico) a forza di sospiri (sospirando è riferito a vita).

4 E’ vèn... valore: egli [l’Amore] va colpendo di taglio con tale forza (di sì gran valore). 5 deboletti spiriti: gli spiriti sono una presenza costante nella poesia cavalcantiana e derivano dalla filosofia naturale del tempo: indicano le facoltà sensoriali (la vista, il tatto...) e psichiche. La dispersione, la fuga degli spiriti (deboletti... van via) indica un indebolimento dell’energia vitale.

6 riman… dolore: restano in potere dell’Amore (en segnoria) solo l’aspetto esterno e la voce che esprime dolore (uso transitivo di parlare). 7 presta: veloce (latinismo). 8 Sì giunse… tratto: giunse (sogg. ’l colpo) così preciso (ritto, con una traiettoria diretta) al primo lancio (tratto). 9 si riscosse: si risvegliò. 10 lato manco: fianco sinistro.

Analisi del testo L’analisi “scientifica” degli effetti distruttivi dell’amore Ciò che il lettore percepisce immediatamente è il fatto che l’esperienza d’amore per Cavalcanti è angosciosa e distruttiva: da qui la frequenza, nel sonetto, di termini “negativi” associati all’amore: angosciosa vita mia, distrugge (vv. 3-4), dolore (v. 8), disfatto (v. 9), morto (v. 14) e di un lessico che rimanda alla battaglia (tagliando... dardo... colpo). Ogni strofa è aperta da un’immagine che allude al “colpire”, al “ferire”. Questa drammatica condizione non è però trasmessa al lettore attraverso il filtro della soggettività, dell’emotività. A Cavalcanti interessa costruire una rappresentazione analitica, oggettiva, quasi scientifica, di ciò che accade dentro di lui in rapporto all’esperienza d’amore. In questa, come in altre sue poesie, non sono in primo piano né l’io lirico né la donna, ma l’analisi lucida degli “effetti d’amore”. Assistiamo in questa e in altre poesie cavalcantiane, a una sorta di “dissezione anatomica” che interessa il corpo e lo spirito, in una prospettiva strettamente organicistica che deriva certamente dall’adesione di Cavalcanti all’averroismo.

184 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


Core-anima-mente: una terminologia “tecnica” per una scena teatrale Il lettore moderno legge istintivamente la parola core come sede dei sentimenti o anche come sinonimo di animo, mentre Guido Cavalcanti, in rapporto alle proprie conoscenze filosofiche, usa questo termine in modo tecnico, con una precisa accezione così come, del resto, i termini anima e mente, a cui corrispondono entità ben distinte: la mente è la sede del pensiero, l’attività razionale che contempla e analizza (ma non riesce a comprendere); il core è il luogo della sensibilità cui afferiscono gli spiriti vitali; l’anima è il centro unificatore delle funzioni vitali e ha comunque a che fare con l’ambito sensibile, con il piano fisiologico. Il riferimento a queste tre entità è costante: «in Guido la mente, l’anima e il cuore si spartiscono i ruoli sul palcoscenico poetico della vicenda amorosa» (M. Corti). Nell’animazione teatrale degli stati d’animo si manifesta il bisogno di Cavalcanti di oggettivare la trattazione del tema amoroso, ma si esprime al tempo stesso anche il tema della dissociazione prodotta dall’amore all’interno del soggetto.

Guido e gli “spiriti” Nella poesia di Guido Cavalcanti è molto frequente la presenza degli spiriti o spiritelli (il termine ricorre più di 40 volte nel corpus). Cavalcanti rielabora e utilizza in modo del tutto personale un concetto che ha la sua radice nella medicina araba, e in particolare nel pensiero del medico e filosofo musulmano Avicenna (980-1037): gli spiriti si formano nel cuore, sono composti di materia sottile e presiedono alle funzioni vitali dell’organismo attraverso i nervi, le vene e le arterie. Cavalcanti va però oltre il piano fisiologico, per fare degli spiriti delle entità vive, funzionali alla sua drammatica e pessimistica visione: gli spiritelli agiscono su una specie di “scena” – che corrisponde all’io turbato del poeta – in cui avvengono continuamente battaglie, scontri, messe in fuga di queste entità da parte del nemico, identificato nella distruttiva passione amorosa. La presenza degli spiriti tornerà nella prima parte della Vita nuova di Dante, in cui più marcata è l’influenza di Cavalcanti, in particolare in rapporto alla descrizione degli effetti sconvolgenti prodotti nel poeta dalla prima comparsa di Beatrice (II, 4-7).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. ANALISI 2. La struttura del componimento prevede una progressione nelle due terzine oppure si può definire circolare? Motiva la tua risposta. 3. Osserva la scelta delle parole collocate in rima, in particolare: core : Amore : dolore e vita mia : en signoria. Quale significato si può attribuire a questi gruppi? LESSICO 4. Rintraccia nel testo i termini e le immagini che appartengono al campo semantico della guerra (riprendendo il topos dell’“amore come guerra”) suddividendoli in sostantivi, aggettivi, verbi.

Interpretare

SCRITTURA DOCUMENTATA 5. Sulla base dei ➜ T12 - T13 sviluppa il tema della seduzione dello sguardo in amore (max 15-20 righe). Gli spunti di partenza forniti sono: una celeberrima tela (dipinta in un secolo lontano dal tempo in esame) ➜ D1 e la riflessione di un noto psicoanalista contemporaneo ➜ D2 riferita al ➜ T13 .

Vermeer, La ragazza con l’orecchino di perla o col turbante, 1660-1665 D1 Jan (L’Aja, Museo Mauritshuis).

Il dolce stilnovo 3 185


è uno specchio sul quale resta impressa l’immagine dell’amata, e dal quale essa giunge al D2 «L’occhio “core”, e si imprime nell’anima. La percezione visiva dell’amata non è sufficiente perché l’attrazione estetica diventi attrazione erotica. È necessaria una visione interna, interiorizzata, della donna e ciò può avvenire solo lasciando decantare l’immagine reale grazie all’assenza, alla lontananza nel tempo e nello spazio. […] L’immagine della donna amata perde così le sue reali connotazioni e si trasfigura in un’immagine psichica, contemplata non attraverso i sensi esterni ma attraverso un occhio interiore, l’occhio del poeta. Ciò che questa vista interna decifra e rivela sono le operazioni psicologiche più sottili, più segrete e più complesse dell’esperienza della seduzione amorosa, che, tradotte in parola, danno vita ad una tra le più alte pagine della letteratura occidentale». A. Carotenuto, Riti e miti della seduzione, Bompiani, Milano 1994

PER APPROFONDIRE

LEGGERE LE EMOZIONI

ESPOSIZIONE ORALE 6. Attingendo a tue esperienze e convinzioni, spiega se e per quali motivi la concezione cavalcantiana dell’amore presenta aspetti di modernità.

La malattia d’amore come topos letterario Nella cultura medievale era assai diffusa la concezione che considerava la passione amorosa una vera e propria malattia. È una visione che sconcerta non poco noi moderni e che aveva le sue radici in fonti classiche: letterarie (Lucrezio, il grande poeta latino del I sec. a.C., nel De rerum natura dedica ampio spazio a un’analisi molto negativa dell’innamoramento), filosofiche (Aristotele), ma soprattutto mediche (da Ippocrate a Galeno, alla medicina araba). Le scuole mediche di Salerno, Montpellier e Bologna arrivarono a definire stabilmente cause, sintomatologia e possibili rimedi della malattia d’amore: la malattia d’amore è fatta derivare da un continuo pensare all’oggetto amato, la cui immagine, percepita come piacevole dai sensi e soprattutto dalla vista, rimane così saldamente impressa nell’organo dell’immaginazione da diventare un’idea ossessiva che ottenebra la ragione; il che provoca gravi conseguenze per l’intero organismo. Le cognizioni mediche e filosofiche sull’amore sono riprese in modo quasi stereotipato dalla letteratura medievale e la malattia d’amore diviene un vero e proprio topos: nel Roman de Tristan in prosa, ad esempio, Tristano impazzisce in seguito alla forzata separazione da Isotta. Le convenzioni della malattia d’amore passano ai poeti provenzali e poi alla lirica italiana del Duecento (da Cavalcanti a Dante), pervasa da continui riferimenti ai sospiri, al pallore, al tremore, agli svenimenti e così via. Anche nel Decameron trova posto questo topos. La novella del Decameron che meglio esprime la malattia d’amore come una forza rovinosa capace di diventare addirittura letale è certamente quella che ha per protagonista la gio-

186 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”

vane Lisabetta da Messina (IV, 5), forse la più celebre vittima letteraria della malattia amorosa: in lei la privazione dell’oggetto del desiderio assume i caratteri autodistruttivi di una vera e propria “psicosi delirante”, come la definirebbe la moderna scienza psichiatrica. Saggio di riferimento: M. Ciavolella, La “malattia d’amore” dall’antichità al Medioevo, Bulzoni, Roma 1976.

Amore sta per scoccare la sua freccia, miniatura, sec. XIV.


Collabora all’analisi

T14 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

Guido Cavalcanti

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira È, questo, uno dei più celebri sonetti cavalcantiani. Incentrato sulla lode della donna, il sonetto guarda espressamente al modello guinizzelliano; ma si avverte un clima poetico diverso, prettamente cavalcantiano: la lode sfocia nell’ammissione dell’ineffabilità, il tentativo di conoscere razionalmente l’essenza della bellezza femminile (e, alla fine, dell’Amore) naufraga di fronte a un’apparizione soprannaturale, più che terrena. Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira1, che fa tremar di chiaritate l’âre2 e mena seco3 Amor, sì che parlare 4

null’omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira, dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare4: cotanto d’umiltà donna mi pare, 8

ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira5.

Non si poria contar la sua piagenza, ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, 11

e la beltate per sua dea la mostra6.

Non fu sì alta già la mente nostra e non si pose ’n noi tanta salute, 14

che propiamente n’aviàn canoscenza7.

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE EDC 1 Chi è… la mira: il sonetto si apre con una domanda, che si conclude al quarto verso. Si tratta in realtà di una domandaesclamazione di fronte alla straordinaria apparizione della donna, che attira su di sé gli sguardi ammirati di tutti. L’incipit del sonetto riecheggia passi biblici (in particolare «Chi è costei che avanza…» dal Cantico dei Cantici 6, 9) e traspone su un piano laico espressioni proprie del culto mariano. 2 che fa… l’âre: che trasmette un fremito di luce all’aria, che fa palpitare di luminosità l’aria. Il tema della luce che la donna emana è probabilmente memore della cosiddetta “metafisica della luce”, elaborata dai francescani e dal filosofo domenicano Alberto Magno. 3 mena seco: conduce con sé. 4 dical’… contare: lo dica Amore in persona, perché io non lo saprei esprimere. 5 cotanto… ira: mi sembra una donna dotata di tanta umiltà che ogni altra, a paragone con lei, la chiamerei ira (ovvero “superba”, “sdegnosa”).

6 Non si poria… la mostra: non sarebbe possibile descrivere la sua bellezza, perché davanti a lei si inchina ogni nobile virtù e la bellezza (personificazione) la indica come sua dea.

7

Non fu… canoscenza: la nostra capacità di conoscere (mente) non fu così elevata e non è stata posta in noi tanta perfezione (salute) che possiamo adeguatamente conoscere (un essere così perfetto).

Scena cortese in un affresco trecentesco (Firenze, Museo di Palazzo Davanzati, Camera da letto).

Il dolce stilnovo 3 187


Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il sonetto si apre con una domanda relativa alla figura femminile, la cui folgorante apparizione domina l’intera composizione. 1. Il poeta si interroga sull’identità di una figura sconosciuta oppure il senso della sua domanda è un altro? È data, in seguito, risposta alla domanda? 2. Fai la parafrasi della prima quartina. La seconda quartina contiene la prima di tre dichiarazioni in successione che fanno riferimento all’inadeguatezza del poeta a rappresentare la donna, dichiarazioni sottolineate dalla ripetizione di formule negative. 3. Individua e trascrivi le tre formule negative presenti nel testo. 4. A che cosa si riferiscono le dichiarazioni di inadeguatezza del poeta e da che cosa è motivata la sua impotenza? La situazione rappresentata dal sonetto richiama esplicitamente il testo guinizzelliano Io voglio del ver la mia donna laudare (➜ T14 ) con il quale, probabilmente, Cavalcanti intende entrare in competizione: l’avanzare della donna tra gli sguardi stupefatti, la sua bellezza e gentilezza riprendono temi e anche singole espressioni del testo di Guinizzelli. 5. Individua nel sonetto le analogie tematiche e i termini che ricorrono anche nel testo guinizzelliano: hanno la stessa accezione? Con forte scarto rispetto alla lode di Guinizzelli, Cavalcanti rinuncia completamente ai parallelismi tra la bellezza della donna e gli elementi della natura e, qui come in altre composizioni, colloca la figura femminile in un orizzonte astratto: l’uomo può solo contemplare, in uno stato di sostanziale passività, quasi di estasi, il manifestarsi sconvolgente di un’apparizione sovrumana. 6. Può avere un significato l’assenza di ogni similitudine nel sonetto cavalcantiano? 7. La lirica è dominata dall’allusione al silenzio attonito di fronte all’apparizione della donna: in quali punti del testo vi si fa riferimento? Quale significato si può attribuire a questo silenzio? 8. Quali effetti produce l’apparizione della donna? Riguardano solo il poeta o un’intera collettività? Il sonetto cavalcantiano esemplifica in modo chiaro le più generali scelte stilistiche degli stilnovisti: la sintassi piana, con una tendenza alla ripetizione dei costrutti, e l’elegante medietà del lessico. Il risultato di questo insieme di scelte è una composizione armonica che si contrappone nettamente al trobar clus di Guittone. 9. La struttura sintattica del testo poggia sulla ricorrenza di una stessa proposizione subordinata, cosa che crea un effetto armonico: di quale proposizione si tratta? Individuane e trascrivine le occorrenze nel testo.

Interpretare

10. In un breve testo (15 righe circa) fai un confronto tra il sonetto di Guinizzelli Io voglio del ver e questo sonetto cavalcantiano, mettendo in luce le analogie, ascrivibili a un comune contesto, e le differenze.

online

online

Epifanie femminili novecentesche: due esempi

Maria Corti L’iterattività come “cifra” della poesia cavalcantiana

Verso il Novecento

188 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”

Interpretazioni critiche


Guido Cavalcanti

T15 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

Perch’i’ no spero di tornar giammai La ballata (➜ C2, PAG. 107) è certamente uno dei testi più conosciuti di Guido Cavalcanti. Questa notorietà si deve anche alla tradizionale interpretazione (oggi messa in discussione) che faceva del testo un doloroso messaggio alla donna amata composto quando Guido si trovava esiliato a Sarzana e gravemente malato. In realtà non esistono elementi per ascrivere la composizione a un preciso momento biografico. Più probabile è la radice letteraria del testo: la ballata ripropone il topos, comune nella poesia cortese, della “lontananza” associata all’amore. Nella ballata il poeta si rivolge alla sua stessa composizione attraverso un’espressione vezzeggiativa (ballatetta), invitandola a raggiungere la donna amata. Perch’i’ no spero di tornar giammai1, ballatetta, in Toscana, va’ tu, leggera e piana2, dritt’ a la donna mia,

che per sua cortesia3 ti farà molto onore. 5

Tu porterai novelle4 di sospiri piene di dogli’5 e di molta paura; ma guarda che persona non ti miri6 10

che sia nemica di gentil natura:

ché certo per la mia disaventura7 tu saresti contesa8, tanto da lei ripresa9 che mi sarebbe angoscia;

dopo la morte, poscia, pianto e novel dolore. 15

Tu senti, ballatetta, che la morte mi stringe sì, che vita m’abbandona; e senti come ’l cor si sbatte forte

per quel che ciascun spirito ragiona10. Tanto è distrutta già la mia persona, ch’i’ non posso soffrire11: se tu mi vuoi servire, mena l’anima teco12 25 (molto di ciò ti preco) quando uscirà del core. 20

La metrica Ballata con schema ABAB (fronte) Bccddx (sirma). Le stanze sono di 10 versi ciascuna (5 endecasillabi e 5 settenari). La ripresa (vv. 1-6) riprende la sirma delle stanze 1 Perch’i’... giammai: dato che non spero di tornare più.

2 3

leggera e piana: veloce e lieve. per sua cortesia: per la sua gentilez-

8 contesa: osteggiata. 9 ripresa: rimproverata. 10 per quel... ragiona: a causa di ciò di

novelle: notizie. dogli’: dolore. miri: scorga. per la mia disaventura: per mia sventura.

cui parlano tutti gli spiriti (l’imminenza della morte). 11 soffrire: resistere. 12 mena l’anima teco: conduci l’anima con te.

za.

4 5 6 7

Il dolce stilnovo 3 189


Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate13 quest’anima che trema raccomando: menala teco, nella sua pietate14, 30

a quella bella donna a cu’ ti mando.

Deh, ballatetta, dille sospirando, quando le se’presente: «Questa vostra servente vien per istar con voi,

partita da colui che fu servo d’Amore». 35

Tu, voce sbigottita e deboletta ch’esci piangendo de lo cor dolente, coll’anima e con questa ballatetta

va’ ragionando della strutta15 mente. Voi troverete una donna piacente16, di sì dolce intelletto che vi sarà diletto starle davanti ognora17. 45 Anim’, e tu l’adora sempre, nel su’ valore18. 40

13 amistate: amicizia. 14 nella sua pietate: nella sua pietosa condizione.

15 strutta: distrutta. 16 piacente: adorna di bellezza. 17 che vi... ognora: che vi darà piacere

18 Anim’… valore: e tu, anima, adorala sempre per le sue virtù (valore).

starle sempre (ognora) davanti.

Analisi del testo Il codice cavalcantiano La ballata ripropone la visione pessimistica che caratterizza la poesia cavalcantiana, con il corollario abituale di termini che alludono all’angoscia, al dolore (sospiri, distrutta, piangendo, dolente ecc.). Qui, però, più che all’azione distruttiva e destabilizzante dell’amore-passione, Guido allude alla triste percezione dell’imminenza della morte (comunque si intenda questo riferimento, come reale o come immaginario). Il tono è più malinconico e pacato che drammatico.

Un’immagine femminile rassicurante La composizione inoltre non ruota, come di solito, intorno all’autoanalisi tormentosa del poeta, ma alla presenza della donna, che, contrariamente ad altri testi, è un’immagine rassicurante: la figura femminile non è presentata come sconvolgente apparizione capace di annichilire il poeta e metterne in fuga gli spiriti vitali, ma come immagine dolce e gentile, che saprà accogliere benevolmente la messaggera del poeta, ovvero la sua piccola ballata.

La piccola ballata Quest’ultima è il terzo personaggio della composizione, accanto all’io lirico e alla donna gentile: il poeta le si rivolge affettuosamente attraverso il vezzeggiativo ballatetta e le affida il suo messaggio, che ribadisce l’eterna “servitù d’amore” del poeta. Traspare dal testo, indirettamente, attraverso la personalizzazione della ballata, la fedeltà del poeta alla poesia amorosa nei modi del “dolce stile”, mentre il riferimento al timore che spiriti volgari possano intercettare la sua poesia (guarda che persona non ti miri / che sia nemica di gentil natura) ribadisce l’idea di una destinazione-circolazione limitata a un pubblico elitario e raffinato. Sarà questa “chiusura” programmatica che finirà per dividere Guido dall’amico Dante, proiettato invece verso un’idea di poesia come “missione” che lo condurrà oltre i ristretti confini dei “fedeli d’Amore”.

190 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Completa la tabella sintetizzando il contenuto di ogni strofa e individuando tematiche e parole chiave. Infine, organizza i dati raccolti in un testo chiaro e completo (max 15 righe). sintesi

tema centrale

parola chiave

Ripresa vv. 1.6 I vv. 7-16 II vv. 17-26 III vv. 27-36 IV vv. 37-46

COMPRENSIONE 2. Chi è servente (v. 33)? 3. Quale funzione esercita nel testo la ballata, a cui il poeta si rivolge? LESSICO 4. Individua nel testo i termini e le espressioni che Cavalcanti utilizza per descrivere la ballatetta, a partire dall’uso del diminutivo affettivo. 5. Individua e trascrivi le espressioni che alludono al dolore. Quale visione traspare? STILE 6. Con quale procedimento stilistico si apre la ballata? 7. Riesci a individuare la sola rima siciliana presente nella ballata? (È nella penultima stanza).

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 8. In questo componimento è riproposto il topos della “lontananza” associata all’amore, motivo caro alla poesia cortese, ma affrontato da Cavalcanti con originalità. Argomenta in un breve testo (max 20 righe) e prova a mettere in evidenza le possibili differenze e analogie. Per la tua trattazione, possono esserti utili queste domande. a. La lontananza in Cavalcanti rende l’amore più sognato o reale? b. Come vive il poeta la separazione dall’amata? c. La solitudine provata dal poeta è angosciosamente reale? Perché? d. La dolorosa lontananza dalla donna amata è pretesto per un intimo colloquio del poeta con sé stesso? e. Il poeta intende raccontare un fatto o una dolorosa condizione di vita?

Fissare i concetti Il dolce stilnovo 1. Che cosa si indica con il termine “stilnovo”? 2. Chi è l’iniziatore del nuovo stile? 3. Quali caratteristiche formali e contenutistiche presenta lo stilnovo? 4. Chi sono gli esponenti dello stilnovo? 5. Qual è la concezione dell’amore di Guido Cavalcanti?

online T16 Guido Cavalcanti Deh, spiriti miei, quando mi vedete

Il dolce stilnovo 3 191


EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

Donne sommerse: le rimatrici trecentesche Un attivo cenacolo poetico Fin dai primordi della letteratura italiana la donna è sostanzialmente destinataria silenziosa della parola poetica dell’uomo che la celebra come oggetto del desiderio nei differenti registri della dedizione cavalleresca, dell’elogio del corpo, della lirica che analizza la complessa natura dell’amore. A dispetto di quella che appare come una generalizzata “passività” della donna in questo iniziale ambito letterario, abbiamo, in epoca trecentesca e nello spazio geografico delle Marche, la testimonianza di un’attività letteraria femminile. Si tratta di un cenacolo poetico, tra i primi in epoca medievale, in cui alcune scrittrici affrontano, con netto anticipo sulla querelle des femmes rinascimentale, il tema della condizione di subordinazione al dominio maschile.

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

La scoperta dei filologi Mercedes Arriaga Flórez e Daniele Cerrato, due studiosi rispettivamente dell’Università di Siviglia in Spagna e dell’Università Ateneum Gdansk in Polonia, hanno il merito di avere riscoperto, nel trattato Topica poetica (1580) dell’erudito Andrea Gilio da Fabriano, questa “generazione cancellata” e di aver pubblicato un corpus di dieci sonetti nel libretto «Tacete, o maschi». Le poetesse marchigiane del ’300 accompagnate dai versi di Antonella Anedda, Mariangela Gualtieri e Franca Mancinelli, a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini (Argolibri, Ancona 2020). Le poetesse di questo cenacolo propongono nei loro sonetti diversi temi; tra i più interessanti spicca la consapevolezza del femminile che rifiuta di essere considerata mero oggetto del desiderio maschile e si afferma come soggetto capace di autodeterminazione. Uno di questi componimenti viene attribuito a Leonora della Genga, appartenente a una nobile famiglia di Fabriano, vissuta intorno il 1360.

Il testo Nel sonetto Tacete, o maschi, a dir, che la Natura, l’autrice si spinge ben oltre una semplice protesta: rivendica pari diritti per uomo e donna, partoriti allo stesso modo dalla natura. Il testo, nella versione a stampa cinquecentesca è tratto da: Topica poetica di M. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, 1580.

Tacete, o maschi, a dir, che la Natura In far il maschio solamente intenda, E per formar la femina non prenda, 4 Se non contra sua voglia alcuna cura.

State zitti, o maschi, e non dite che la natura sia intenta solo a creare il maschio e per creare la femmina non usi alcuna attenzione e lo faccia controvoglia.

Qual invidia fatal, qual nube oscura Fà, che la mente vostra non comprenda, Com’ella in farle ogni sua forza spenda, 8 Onde la gloria lor la vostra oscura?

Quale invidia fatale, quale forza oscura impedisce a voi uomini di comprendere che la Natura spende ogni sua forza per creare la donna, tanto che la vostra gloria è oscurata?

Sanno le donne maneggiar le spade, Sanno regger gli Imperi, e sanno ancora 11 Trovar il camin dritto d’Elicona.

Le donne sanno combattere Sanno governare, e sanno anche poetare1

In ogni cosa il valor vostro cade Huomini appresso loro, c’huomo non fora 14 Mai per torne di man pregio, ò corona.

Sotto ogni profilo il vostro valore cade uomini, a confronto con le donne. L’uomo non si attiva mai se non per ricavare gloria o potere.

1 È il senso del v. 11 cioè “camminare dritta sul monte residenza delle Muse”.

192 Duecento e trecento 4 “Ragionar d’Amore”


Comprensione del sonetto L’esordio è potente: «Tacete», state zitti, maschi; si rivolge al sesso (e non al genere) perché l’ambito dal quale la poetessa parte è quello della creazione: presenta la Natura intenta, attenta e desiderosa di realizzare il femminile, contrariamente a quanto affermato dalla sponda opposta. Per sottolineare l’opera utilizza il verbo formare, sottintendendo forse un medesimo materiale di partenza, possibile allusione alla costola di Adamo secondo il racconto biblico. Nella seconda quartina l’autrice lancia una sorta di sfida attraverso delle interrogative retoriche, tese a svelare la meschinità invidiosa e l’incapacità maschile di comprendere quante risorse abbia speso la Madre nel partorire l’essere femminile. La rivendicazione della prima terzina vede Leonora chiamare in causa il genere, perché l’ambito è cambiato, ora è quello sociale: le donne sanno muoversi in campo militare, politico e infine culturale, se addirittura trovano la strada “diritta” (senza troppa difficoltà?) verso il monte residenza delle Muse. Nell’ultima terzina l’uomo non regge il confronto con la donna; segue un verso controverso, che potrebbe essere sciolto così: perché l’uomo non si attiva mai se non per ricavare gloria o potere. L’autrice affermerebbe che l’universo maschile si

muove solo per tornaconto personale, al contrario di quello femminile, per cui il primo esce malconcio dal confronto. Quella di Leonora insomma si configurerebbe come una risposta ironica alla misoginia e alla misconoscenza del genere muliebre, genere ridotto al silenzio e al nascondimento dalla cultura maschile dominante.

Interrogarsi sulla disparità di genere La scelta di Leonora della Genga di interpretare il suo tempo, di affrontare tematiche civili e di confrontarsi con gli uomini la rende interlocutrice valida anche per noi oggi. La sua capacità di interrogarsi, la sua fierezza e la sua fermezza nell’affermare i diritti, almeno sulla carta, ce la rende vicina e ci aiuta a riflettere su temi importanti della nostra epoca, come quello della parità di genere. Tale diritto è inserito nell’Agenda 2030 ed è l’obiettivo n. 5: «non è solo un diritto umano fondamentale, ma la condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace. Garantire alle donne e alle ragazze parità di accesso all’istruzione, alle cure mediche, a un lavoro dignitoso, così come la rappresentanza nei processi decisionali, politici ed economici, promuoverà economie sostenibili, di cui potranno beneficiare le società e l’umanità intera». Proviamo a confrontarci.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Rileggete con attenzione il testo con l’aiuto dell’insegnante, analizzate le parole chiave (maschio, femina, Natura, donna, huomo, maneggiar le spade, regger gli Imperi, trovar il camin dritto d’Elicona) e cercate di attribuire loro il significato. ANALISI E DISCUSSIONE 2. Partendo dal lavoro precedente, individuate su quale base si fonda la parità tra sessi che la poetessa rivendica e discutetene in classe.

Interpretare

RICERCA DI DOCUMENTAZIONE 3. Ricercate documentazione riguardo i campi della vita quotidiana in cui la disparità di genere è ancora molto pronunciata: politica, economia, cultura, sport (classe divisa in gruppi) CONDIVISIONE 4. Successivamente condividete i dati reperiti. Andrea di Cione Orcagna, Il sogno della vita, particolare da Il trionfo della morte, affresco (Pisa, Chiostro di Camposanto).

Il dolce stilnovo 3 193


Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’amore”

Sintesi con audiolettura

1 La scuola siciliana

Il trapianto della lirica amorosa in Italia L’eredità della poesia trobadorica è alla base della cosiddetta “scuola siciliana” (circa 1230-1250): con il termine si designa la lirica che si sviluppa all’interno della multiculturale Magna Curia, la corte di Federico II di Svevia (in Sicilia e altri centri del Meridione). La sua fioritura si inscrive in un progetto culturale più ampio, volto a creare una cultura laica, aperta e avanzata. I poeti siciliani sono funzionari di corte e per lo più uomini di legge. La poesia è da essi concepita come oggetto raffinato di lettura che favorisca un’evasione intellettuale, destinata a un pubblico circoscritto; la lingua usata è il volgare siciliano illustre – ricco cioè di provenzalismi, francesismi e latinismi – e il tema è l’amore cortese, che i siciliani sottopongono a un’ulteriore astrazione e stilizzazione, così come accade alla figura femminile. Le liriche ci sono giunte grazie a copisti toscani coevi, che tuttavia ne “toscanizzano” foneticamente il testo creando così rime “imperfette”, dette anche “siciliane”.

2 I poeti siculo-toscani

La poesia nella Toscana comunale Caduto il regno svevo (1266), l’esperienza poetica dei siciliani passa in Toscana. In rapporto al diverso contesto (quello dei Comuni), l’unità dell’universo poetico siciliano si sfalda e alla tematica amorosa si affiancano temi morali e politici. La personalità di maggiore spicco è quella di Guittone d’Arezzo, aretino, autore di testi d’argomento dapprima amoroso e politico e poi religioso-morale. Il suo stile arduo e spesso oscuro fu criticato da Dante.

3 Il dolce stilnovo

Che cos’è lo stilnovo Nell’ultimo ventennio del Duecento e nei primi anni del Trecento si afferma a Firenze il cosiddetto “dolce stil novo”. È Dante, che ne fece parte e ne fu il principale esponente, a coniare la formula in un celebre verso della Commedia (Pg XXIV, 57) in cui è sottolineata la novità, introdotta da un gruppo di giovani poeti (Dante stesso, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia). Oltre alla dolcezza dello stile (armonia e limpidezza, sintassi piana) contrapposta alle astruserie di Guittone, l’originalità consiste in una totale fedeltà al tema amoroso, approfondito in senso filosofico e maggiormente spiritualizzato. La lezione di Guido Guinizzelli e le caratteristiche del nuovo modo di poetare Questa visione è anticipata dal bolognese Guido Guinizzelli, considerato da Dante il maestro degli stilnovisti, in particolare per la celebre canzone Al cor gentil rempaira sempre amore. In questo stesso componimento è sostenuto con forza il rapporto tra nobiltà d’animo e amore, e l’idea della gentilezza come valore della persona e non come privilegio di nascita.

194 Duecento e Trecento 4 “Ragionar d’Amore”


Ma in generale nuove, oltre alle caratteristiche già ricordate, sono anche la concezione della poesia come esperienza totalizzante e l’interpretazione (tipica soprattutto di Dante) della figura femminile, che da tutti i poeti è posta su un piedestallo per la sua perfezione morale e la sua bellezza, oltre che come tramite verso il divino. «Per altezza d’ingegno»: Guido Cavalcanti Nel gruppo degli stilnovisti spicca l’originale personalità di Guido Cavalcanti, amico di Dante: nella sua poesia, autoanalitica e personale, il concetto di amore attinge alla filosofia averroistica. Ne deriva una visione dell’amore come passione irrazionale originata nella sfera sensitiva, un sentimento capace di distruggere l’uomo poiché in conflitto con la sfera razionale. La donna, nella sua assoluta perfezione, rimane irraggiungibile ed è causa per il poeta di smarrimento e angoscia.

Zona Competenze Testi a confronto

1. Confronta il sonetto di Jacopo da Lentini Io m’aggio posto in core (➜ T2 ) e le due stanze conclusive della canzone di Guinizzelli, Al cor gentil (➜ T11 ). In un testo argomentativo di max 20 righe discuti il diverso approccio dei due autori al problema della conciliazione fra amore terreno e dimensione religiosa.

Esposizione orale

2. Prepara un intervento riepilogativo destinato alla classe sulle differenze tra il concetto di “cortesia” e quello di “gentilezza”. Dopo averle individuate e brevemente illustrate, ricostruisci le condizioni storico-sociali che hanno motivato tale evoluzione. Hai a disposizione 10 minuti.

Miniatura dal Montpellier Codex.

Sintesi

Duecento e Trecento 195


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Guido Cavalcanti

L’anima mia vilment’ è sbigotita Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

L’anima mia vilment’ è sbigotita1 de la battaglia ch’e[l]l’ave dal core2: che s’ella sente pur un poco Amore 4 più presso a lui che non sòle, ella more3. Sta come quella che non ha valore, ch’è per temenza da lo cor partita4; e chi vedesse com’ ell’è fuggita 8 diria per certo5: «Questi non ha vita». Per li occhi venne la battaglia in pria6, che ruppe ogni valore immantenente7, 11 sì che del colpo fu strutta8 la mente. Qualunqu’è9 quei che più allegrezza sente, se vedesse li spirti fuggir via, 14 di grande sua pietate10 piangeria. 1 vilment’è sbigotita: ignobilmente sconfitta, vinta. 2 ch’e[l]l’ave dal core: che essa [l’anima] riceve dal cuore. 3 che s’ella… more: poiché, se essa avverte la presenza dell’Amore più vicino a lui [il cuore] di quanto di solito non accada, morirà. L’amore è presentato come un temibile nemico, come spesso nei versi di Cavalcanti.

Comprensione e analisi

4 Sta… partita: la condizione dell’anima è quella di chi non ha più energia, forza vitale (valore), che si è allontanata per viltà dal cuore. 5 diria per certo: direbbe sicuramente. La desinenza del condizionale è siciliana; più sotto anche piangeria.

6 Per li occhi… in pria: gli occhi sono stati la prima sede della battaglia sferrata da amore. 7 immantenente: subito. 8 strutta: distrutta. 9 Qualunqu’è: chiunque. 10 di grande sua pietate: per la grande pietà che proverebbe.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprende le risposte alle domande proposte. 1. Dopo aver individuato le parole chiave, presenta il contenuto della lirica, mettendone in rilievo il tema fondamentale. 2. Indica lo schema metrico: è lo schema consueto delle rime nel sonetto? 3. Quali sono gli “attori” del dramma cui si fa riferimento nel testo? 4. Anima, core, mente sono usati nell’accezione comune di oggi? Motiva la tua risposta. 5. Li spirti cui fa riferimento il v. 13 sono frequentemente nominati da Cavalcanti: a che cosa si riferiscono? Qual è la loro funzione nella concezione amorosa di Cavalcanti e quale ruolo esercitano nello scenario poetico di questa e altre liriche cavalcantiane? 6. A quale campo semantico appartiene il lessico con cui il poeta esprime la forza distruttiva dell’amore?

Interpretazione

Metti in luce la concezione dell’amore che il sonetto esprime e fai adeguati collegamenti tematici e stilistici con altri testi.

196 Duecento e Trecento  “Ragionar d’Amore”


Duecento e trecento CAPITOLO

5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti

Nel Medioevo la comicità originariamente ha a che fare con la dimensione liberatoria e trasgressiva della festa. Portavoce dei diritti del comico nella cultura medievale sono i giullari, professionisti del divertimento, e i goliardi: in particolare la poesia goliardica, nata negli ambienti universitari, esalta il divertimento, il gioco d’azzardo, il sesso e i piaceri della tavola. Non manca la satira contro i potenti, compresi gli ecclesiastici. La raccolta più celebre è quella dei Carmina Burana, scritta per la maggior parte in latino. Si ricollegano all’area della comicità anche i fabliaux, racconti licenziosi in versi, nati nel Nord della Francia. Alle tematiche presenti nei fabliaux e soprattutto nella poesia goliardica e allo spirito irriverente che le anima si ispirano alcuni poeti toscani, attivi tra la seconda metà del Duecento e l’inizio del Trecento.

1 Il comico 2 I poeti comico-realisti 197


1 Il comico 1 Una nebulosa che sfugge alle categorizzazioni La dimensione del comico nel Medioevo La comicità è una dimensione che attraversa popoli e culture, secoli e generazioni, e cambia forme (e significato) nel corso della storia e delle vicende sociali, interessando non solo i testi letterari, ma più in generale il piano antropologico. Non si ride sempre alla stessa maniera, in ogni luogo e in ogni tempo: ad esempio, il comico medievale si manifesta in forme diverse rispetto al comico degli antichi greci e romani o a quello del Novecento. Sul piano letterario il comico si collega elettivamente a generi come la novella e la commedia, si insinua anche in generi “alti” come la lirica o l’epica e comporta scelte specifiche relative alla tipologia dei personaggi, ai contenuti (con il riferimento a una realtà materiale o addirittura sordida, a personaggi comuni e così via) e ai temi ricorrenti (come la beffa, molto presente nella novella). Fin dall’antichità classica il comico, come si può notare nelle commedie di Plauto, si è anche legato a espedienti retorici e, più in generale, linguistici, impiegati per suscitare il riso: dall’iperbole alla ripetizione, dall’errore volontario di grammatica o di ortografia, all’impiego di un linguaggio serio per una situazione con esso incongrua. Frequente è l’uso del doppio senso o addirittura del nonsense (come nella celebre novella di frate Cipolla di Boccaccio ➜ C8 T6d ). Spesso la dimensione del comico nei testi letterari si lega a procedimenti come la satira, che mette alla berlina comportamenti individuali o di un’intera categoria sociale, o la parodia, che rovescia in modo dissacrante i modelli letterari ‘alti’ ed egemoni in una data epoca: è appunto quello che fanno i poeti comico-realisti a cui si fa riferimento in questo capitolo. Due musici e un acrobata, part. di una miniatura da un manoscritto delle Decretali di Gregorio IX, 1300-1340 (Londra, British Library). Una festa in maschera, part. di una miniatura tratta dal Roman de Fauvel, poema francese allegorico-satirico, musicato, inizi sec. XIV (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

198 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti


2 I temi principali del comico nel Medioevo Un diverso significato Nel Medioevo il termine “comico” non era usato nella nostra accezione, ma esclusivamente in rapporto alla dottrina degli stili (➜ SCENARI, PAG. 33): corrispondeva alla scelta di uno stile basso, adatto ad argomenti umili e quotidiani. All’area del comico si collegano soprattutto tre temi: il tema sessuale, quello che il critico russo Bachtin ha chiamato il «basso-corporeo» e il blasfemo. Il più importante è certamente il primo: l’oscenità è infatti per secoli una costante risorsa della comicità, ricorrente nel Medioevo soprattutto dalla novella e poi consegnata in eredità alla commedia cinquecentesca. La presenza di questo tema (ma anche di quello basso-corporeo) nella comicità medievale può essere spiegata come una forma di contrapposizione all’ascetismo del periodo: una sorta di rivincita dei diritti del corpo che trae origine non dai luoghi della cultura ufficiale ma dalla “piazza” e che nasce all’interno della dimensione popolare. La severa visione religiosa del Medioevo considerava con sospetto il riso e il comico e li ammetteva soltanto in occasioni di festa e in particolari momenti dell’anno, come il Carnevale. In ambito letterario il riso ha diritto di cittadinanza a patto che rimanga confinato nelle sfere inferiori della cultura, come nel caso dei fabliaux, racconti in versi diffusi in Francia, di contenuto basso e quotidiano, che hanno come tema centrale il sesso (➜ C3, PAG. 136).Una “minorità” che il Decameron metterà in discussione, assicurando all’esperienza del ridere, anche in rapporto ad argomenti scabrosi, un posto elevato nella gerarchia delle forme letterarie.

3 I portavoce del comico nella società medievale: goliardi e giullari

PER APPROFONDIRE

I principali interpreti del comico nel Medioevo I giullari sono professionisti dello spettacolo, i goliardi hanno una cultura elevata e scrivono componimenti raffinati in latino. Sono accomunati entrambi dal nomadismo, dalla costante minaccia della povertà, dall’irriverenza nei confronti della rigida gerarchia sociale del tempo e delle regole che governano la vita sociale. Per i loro atteggiamenti dissacranti incorrono entrambi nella condanna della Chiesa.

Comico e “carnevalesco” Per secoli il comico si è manifestato soprattutto nella situazione della festa e nella cosiddetta “cultura del Carnevale”: una dimensione di grande rilevanza antropologica, sulla quale il critico russo Michail Bachtin (1895-1975), grazie alle sue indagini sul folklore e sulla cultura popolare, ha fornito indicazioni fondamentali. Bachtin ha evidenziato come nella dimensione della festa e del Carnevale, in un periodo transitorio e circoscritto nel tempo e in cui si interrompe la produzione, il popolo diventi protagonista. Costretto dalle strutture economico-politiche e culturali a un ruolo subalterno, il popolo si fa promotore di rappresentazioni comiche irriverenti e trasgressive, fondate sul rovesciamento delle gerarchie sociali, dei valori e dei modelli di comportamento prescritti (o addirittura imposti) dalla cultura ufficiale. Con la sua sregolatezza trasgressiva e liberatoria, la festa porta

in primo piano il sesso, la corporalità e le sue funzioni elementari (il «basso-corporeo»), rovesciando il disprezzo del mondo, caro agli asceti e ai chierici in genere (➜ SCENARI, PAG. 13). Veicolo e interprete del riso popolare è il buffone, il giullare, spirito allegro e beffardo, che si attribuisce, proprio per il suo status di professionista del divertimento, grande libertà d’espressione. Per estensione, il termine di “carnevalesco” (insieme alla categoria concettuale) ha trovato applicazione comune in ambito critico per alludere ad autori e tendenze letterarie, non solo medievali, caratterizzati da rovesciamenti parodici di temi e di convenzioni letterarie, da accostamenti dissacranti, contaminazioni, anche stilistico-linguistiche, tra ‘basso’ e ‘alto’, con effetti di comicità, e anche di iper-espressività. Nella letteratura medievale emblematica testimonianza del “carnevalesco” è la beffarda poesia goliardica.

Il comico 1 199


I goliardi I goliardi, sinonimo di studenti universitari e chierici vaganti, sono particolarmente attivi nel XII secolo, quando sorgono le prime università (➜ SCENARI, PAG. 29). Il termine goliardi (tuttora in uso) è di origine incerta; in ogni caso, esso sembra alludere a forme di comportamento trasgressive della rigida morale ascetica predicata dalla Chiesa. Oltre al piacere del cibo, i goliardi esaltano l’amore per le donne, il vino, il gioco, conducendo una vita scioperata e ribelle nei confronti dell’autorità ecclesiastica e dei poteri costituiti, che attaccano con il loro riso beffardo in una particolare produzione letteraria fondata essenzialmente sulla parodia e sull’irrisione: la più celebre testimonianza è costituita dai cosiddetti Carmina Burana. Di questa particolare letteratura è rimasta traccia nei riti ancora praticati dalla goliardia nelle più antiche sedi universitarie, come Padova o Pavia. I giullari Il giullare (dal latino joculator) è un professionista dell’intrattenimento, con competenze e funzioni diverse in rapporto al luogo, al tempo e al pubblico della sua performance. Egli è, contemporaneamente, mimo, cantastorie, musico, danzatore, acrobata, saltimbanco, addestratore di animali; si esibisce nello spazio che trova, con preferenza per mercati, piazze, luoghi di pellegrinaggio, ma anche corti. Il giullare vive di elemosina, spostandosi di luogo in luogo alla ricerca di un uditorio generoso e questa condizione di sradicamento lo porta a sfuggire alle regole della convivenza civile. Si avvale, in genere, di una gestualità esagerata e buffonesca e utilizza abiti di scena dai colori sgargianti, senza trascurare piume, pellicce, campanelli e maschere mostruose.

4 I Carmina Burana e il “mondo alla rovescia”

VERSO IL NOVECENTO

Una produzione colta, nata all’ombra delle università I Carmina Burana sono una raccolta di 228 canti anonimi in latino e in tedesco, composti tra il XII e il XIII secolo. Un tempo si pensavano frutto di un’elaborazione collettiva popolare, essendo privi del nome degli autori; al contrario, i Carmina Burana sono opera di autori colti, goliardi e chierici vaganti, e nascono all’interno delle scuole cattedrali e delle università europee. Il termine Carmina Burana richiama il nome del codice latino che li ha trasmessi, noto, appunto, come codex Buranus, perché proviene dall’abbazia di Benediktbeuern (Bura Sancti Benedicti) sulle Alpi bavaresi, in Germania.

Il pericolo del riso e Il nome della rosa La potenziale trasgressività e la pericolosità sociale connesse al riso e alla comicità costituiscono lo spunto fondamentale del bestseller Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco. L’autore, attento studioso della cultura e dell’estetica medievale, immagina che il secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla trattazione e teorizzazione del “comico”, sia stato volutamente tenuto nascosto in un’abbazia dal monaco Jorge, preoccupato del pericolo che avrebbe comportato la diffusione tra le persone colte di un’“estetica del comico” legittimata da Aristotele, massima autorità di pensiero nel Medioevo. Da questo spunto trae origine l’intreccio poliziesco dell’opera, che prevede una serie di terribili delitti.

Così Jorge spiega la sua posizione a Guglielmo di Baskerville, che sta appunto indagando sui misteriosi delitti commessi nell’abbazia: «Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia in gola, il villano si sente padrone perché ha capovolto i rapporti di signoria: ma questo libro potrebbe insegnare ai dotti gli artifici arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell’intelletto quello che nel gesto irriflesso del villano è ancora e fortunatamente operazione del ventre». Il riscatto del “comico” da una posizione bassa a un piano di raffinata letterarietà paventato da Jorge si verificherà realmente con il Decameron di Boccaccio, opera trasgressiva e al contempo di altissimo livello letterario.

200 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti


I temi: la satira anticuriale La prima parte dei Carmina Burana (➜ T1 OL) ha carattere satirico: vi domina il tema della corruzione del clero e della decadenza della Chiesa. La denuncia di questi problemi dell’istituzione ecclesiastica corrisponde alla realtà storica: cioè a un periodo (secoli XI-XII) in cui la Chiesa è effettivamente esposta agli scismi e alla corruzione, e non ha più un ruolo propulsivo nella società. L’amore: il rovesciamento dei canoni cortesi Il tema amoroso occupa il posto principale nei Carmina Burana. In contrapposizione alla morale ascetica della cultura clericale, in questi testi l’amore si identifica esclusivamente con il piacere e il desiderio; è una forza vitale, naturalmente gioiosa e libera. L’amore cantato dai goliardi non ha alcun tratto spirituale, non favorisce alcuna elevazione morale dell’amante, non si esaurisce certo nella contemplazione dell’amata e nella struggente nostalgia per una donna “assente” e lontana. La rappresentazione dell’amore presente nei Carmina Burana si configura dunque come un evidente rovesciamento della fin’amor dei poeti cortesi (➜ C1, PAG. 82). Il vino, il gioco, il cibo, la taverna: fenomenologia del “mondo alla rovescia” Secondo i principi del carnevalesco, domina nei canti goliardici la dimensione corporea, che rappresenta l’altra faccia della vita, quella comica e capovolta, quella dei disvalori opposti ai valori dominanti. Il tema del vino occupa un posto di rilievo all’interno della terza sezione della raccolta, intrecciandosi strettamente al gioco d’azzardo, che è spesso mezzo per procurarsi da bere quando la fortuna è favorevole al giocatore. Completa il quadro dei piaceri materiali – tanto più desiderabili in un tempo, come quello medievale, dominato dalle carestie – il riferimento al cibo. L’osteria, o taverna, è immagine funzionale a tale concezione del mondo, perché è associata al mito del paese di cuccagna: nella taverna si beve, si gioca e si gode collettivamente; essa protegge e separa i suoi frequentatori dalla realtà esterna dominata dalla miseria, da una rigida gerarchia sociale, da regole codificate. online T1 Un manifesto della poesia goliardica

Illustrazione della ruota della fortuna, dal Codex Buranus (Carmina Burana), 1230 ca. (Monaco, Biblioteca statale della Baviera).

Il comico 1 201


2 I poeti comico-realisti I tempi e i luoghi Tra il 1260 circa e i primi vent’anni del Trecento si colloca anche in Italia un’esperienza poetica in cui la rappresentazione del quotidiano e l’attenzione a una realtà “bassa” sono enfatizzate dall’uso di un linguaggio vicino al parlato, con elementi popolari e gergali. I poeti comico-realisti, si rivolgono a un pubblico ampio, di borghesi e artigiani, e operano nella vivace realtà comunale della Toscana: Firenze (da cui proviene Rustico Filippi, l’iniziatore del genere), Siena (patria di Cecco Angiolieri, il poeta più rappresentativo del gruppo), Lucca, Arezzo e San Gimignano. La contrapposizione alla lirica “alta” e i modelli La poesia comico-realistica si sviluppa negli stessi anni in cui si afferma lo stilnovo, a cui si contrappone volutamente sia nei temi sia nelle scelte linguistico-stilistiche. Ma non se ne deve dedurre che questa sia una poesia ingenua e primitiva: l’abbassamento dei motivi e del linguaggio della lirica d’amore è voluto per fini comico-parodistici, non è frutto di improvvisazione o di imperizia; al contrario, esso richiede una grande competenza e consapevolezza letteraria. E, infatti, i poeti comico-realisti si richiamano a fonti precise: in particolare ai fabliaux (➜ C3, PAG. 137) e alla poesia goliardica, oltre che alla poesia giullaresca in volgare (dalla quale deriva il “contrasto”, un tipo di composizione dialogica tra due amanti di bassa estrazione sociale).

Il giardino del piacere, miniatura del codice De Sphaera, 1460 ca. (Modena, Biblioteca Estense Universitaria).

L’area tematica della poesia comico-realista I temi caratteristici della poesia comico-realista non sono originali, ma derivano dalle fonti letterarie sopra indicate. Il più noto dei poeti comicorealisti, Cecco Angiolieri, in un celebre sonetto (➜ T3 ), prospetta una triade dei desideri insoddisfatti a causa della povertà (la donna, la taverna, il dado) che ha certamente origini goliardiche. In particolare il rapporto amore-denaro (riassumibile con: senza denaro non si può avere l’amore) costituisce un binomio inscindibile per i poeti giocosi, essendo le donne presentate come avide e venali, amanti del danaro e del lusso, secondo una concezione misogina risalente al mondo classico e poi continuata appunto nei Carmina Burana e nei fabliaux. L’amore, anche per i poeti giocosi toscani, è passione carnale, piacere dei sensi, possesso fisico; la donna ha un volto e soprattutto un corpo: è sensuale e per lo più capace di improperi e battute volgari all’indirizzo dell’amante. Siamo, com’è evidente, agli antipodi della concezione dell’amore e della donna stilnovistici: non c’è posto, nella poesia burlesca, per donne-angelo o per sentimenti spirituali, che portano alla perfezione interiore dell’amante.

202 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti


Lo stile Lo stile usato si adegua perfettamente ai contenuti dimessi e quotidiani scelti dai poeti giocosi nelle loro composizioni (con una netta prevalenza dell’utilizzo del sonetto), sia nel lessico, sia nella sintassi e nell’impiego di alcune figure retoriche appartenenti al registro del comico. • Il lessico si alimenta di espressioni popolari, gergali, plebee, da cui scaturiscono

doppi sensi ed equivoci a sfondo spesso osceno. • La sintassi è semplice, a volte spezzata da esclamazioni, domande, battute, che

riproducono la vivacità della lingua parlata. • La ricorrenza di alcune figure retoriche contribuisce a rinforzare l’effetto comi-

online

co: frequente è l’uso dell’apostrofe, soprattutto nelle invettive, della similitudine, di iperboli e antitesi, per accentuare gli aspetti caricaturali e grotteschi di un personaggio o di una situazione.

Per approfondire

• A volte, infine, sono utilizzati termini ed espressioni dei poeti stilnovisti, con

Un guazzabuglio di definizioni: poeti “comicorealisti”, “burleschi”, “giocosi”

accostamenti impropri o collocazioni inadatte e ridicole che mutano il contesto di partenza, il significato originario e lo scopo finale dei testi da cui sono tratti: la parodia è procedimento abitualmente usato dai poeti comico-realisti per rovesciare senso e funzioni della produzione poetica cortese e stilnovistica.

I principali esponenti: Rustico Filippi e Cecco Angiolieri

Lessico parodia La parodia è l’imitazione volontaria e caricaturale dello stile di un artista o di una corrente artistica all’interno di una nuova opera.

Una doppia produzione Di origine fiorentina, appartenente alla fazione dei ghibellini, Rustico Filippi nasce tra gli anni Trenta e Quaranta del Duecento e muore sul finire del secolo. Ci sono stati tramandati con il suo nome cinquantotto sonetti, alcuni dei quali riconducibili all’ambito cortese-amoroso e altri a quello comicorealistico. Nelle liriche amorose riprende come modello i poeti siciliani. Sul versante comico-realistico usa perlopiù una lingua scurrile e aspra e se fa ricorso al linguaggio aulico lo scopo è parodistico . Una vita ‘irregolare’: realtà o trasfigurazione letteraria? Cecco Angiolieri, il più noto fra i poeti comico-realisti, nasce a Siena nel 1260 da una ricca e importante famiglia di parte guelfa che milita nelle truppe comunali. Forse in occasione della battaglia di Campaldino conosce Dante, anch’egli schierato fra i guelfi bianchi contro Arezzo (del rapporto fra i due testimoniano tre sonetti di Cecco rivolti all’Alighieri). Muore prima del 1313, data di un documento in cui i figli rinunciano all’eredità paterna gravata da debiti e ipoteche; altri documenti riguardano una rissa e una multa. Tutto sembra rimandare a una condotta di vita non proprio irreprensibile. Su questa base, ma soprattutto grazie ai contenuti delle sue poesie, interpretate come sincere confessioni autobiografiche, la critica romantico-positivista ha costruito una biografia romanzesca di Cecco come poeta

Illustrazione del Roman de la Rose, sec. XIV.

I poeti comico-realisti 2 203


ribelle, dalla vita dissoluta e sregolata, perseguitato dalla povertà, amaramente malinconico. In realtà la poesia di Cecco, pur con spunti originali, riprende motivi già presenti nella poesia satirica latina e soprattutto nella tradizione goliardica. Il corpus dei suoi sonetti consta di più di cento componimenti. Vi si possono riscontrare due filoni tematici principali: le rime amorose, la maggior parte delle quali in stile comico, ispirate da una figura femminile, Becchina, antitetica alle donne stilnovistiche (volgare, infedele, avida) e le altre rime, che continuano la tradizione goliardica nell’esaltazione di piaceri terreni come il vino e il gioco, ma anche nel lamento per la povertà e per sfortune simili.

Il comico STILE

basso, per argomenti umili e quotidiani

TEMI

• sessualità • «basso-corporeità» • blasfemia

MEZZI

• espedienti retorici e linguistici • satira • parodia

INTERPRETI

• goliardi • giullari • poeti comico-realisti

OCCASIONI DI ESPRESSIONE

• feste e Carnevale • spettacoli di giullari • Carmina Burana

LA POESIA COMICOREALISTA

• fabliaux • poesia comico-realista (sonetti) • novelle e commedie

• 1260-1320 circa • Toscana • principali esponenti: Rustico Filippi e Cecco Angiolieri

online T2 Rustico Filippi Oi dolce mio marito Aldobrandino

Fissare i concetti La dimensione del comico e i poeti comico-realisti 1. In che senso era usato il termine “comico” nel Medioevo? 2. Chi sono i goliardi e i giullari? 3. Che cosa sono i Carmina Burana? 4. Quali sono le caratteristiche tematiche e stilistiche della poesia comico-realistica? 5. Chi sono i maggiori esponenti della poesia comico-realistica? 6. Qual è il rapporto della poesia comico-realistica con la poesia “alta”?

204 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti


Cecco Angiolieri

T3 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

AUDIOLETTURA

Tre cose solamente m’ènno in grado

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Questo celebre sonetto sintetizza in modo esemplare i caratteri della poesia comicorealista: in esso Cecco enuncia il suo “credo” secondo modi assai vicini alla poesia goliardica (➜ T1 OL), alla quale rimanda espressamente anche la lamentela sulla povertà, che non va quindi intesa come una realistica confessione autobiografica.

Tre cose solamente m’ènno in grado1, le quali posso non ben ben fornire2, cioè la donna, la taverna e ’l dado3: 4 queste mi fanno ’l cuor lieto sentire. Ma sì·mme le convene usar4 di rado, ché la mie borsa mi mett’al mentire5; e quando mi sovien, tutto mi sbrado6, 8 ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire. E dico: «Dato li sia d’una lancia!7» ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro8, 11 che tornare’ senza logro di Francia9. Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro10, la man di Pasqua che·ssi dà la mancia11, 14 che far pigliar la gru ad un bozzagro12!

La metrica Sonetto con schema metrico: ABAB ABAB CDC DCD

1 2

m’ènno in grado: mi sono gradite. le quali… fornire: che non riesco ad appagare, a procurarmi quanto vorrei (ben ben “pienamente”). 3 la donna, la taverna e ’l dado: gli amori, il vino e il gioco d’azzardo (la taverna e il dado sono metonimie). 4 sì.. usar: pure sono costretto a usufruirne. 5 ché… mentire: perché la mia (mie) borsa (cioè le mie sostanze) mi smentisce cioè non mi permette (impedendomi di accedere a questi piaceri).

6 quando... tutto mi sbrado: mi metto a imprecare, sbraito, quando mi ricordo (mi sovien, francesismo) della mia condizione di indigente, di povero. 7 Dato li sia d’una lancia!: che sia trafitto con una lancia! 8 ciò… magro: questo (la maledizione) a mio padre che mi tiene così a stecchetto. 9 che tornare’… Francia: che tornerei senza dimagrire (logro: dimagrimento) dalla Francia (cioè non si vedrebbero gli effetti del lungo viaggio). Cecco vuole dire che l’avarizia di suo padre lo mantiene già così magro, che non potrebbe dimagrire ulteriormente nemmeno dopo aver affrontato un lungo viaggio. Altri spiegano “sen-

za richiamo”, perché il logro era un uccello finto usato per l’addestramento dei falchi nella caccia. Cecco, che maledice suo padre per la sua avarizia, sarebbe disposto a ritornare per fame a piedi dalla Francia, senza essere sollecitato da alcun richiamo. 10 Ché fora… più agro: perché sarebbe (fora) più difficile, malagevole (agro) spillargli (tôrli) un soldo. 11 la man di Pasqua... mancia: (anche) la mattina di festa, quando si dà la mancia; il termine Pasqua indica genericamente una qualsiasi festività. 12 pigliar… bozzagro: che far catturare una gru (che è agile e veloce) da una poiana (lenta e impacciata, inadatta alla caccia).

Analisi del testo La struttura e i contenuti Le due quartine del sonetto sono dedicate all’enunciazione dei piaceri della vita e al disappunto per l’impossibilità di ottenerli. Le due terzine sono invece dominate dall’invettiva contro il padre, a cui Cecco rimprovera la grettezza, l’avarizia nei suoi confronti e a cui augura addirittura la morte.

Il credo di Cecco: un topos letterario La passione per le donne, la taverna e il gioco d’azzardo, “professione di fede” del poeta, rimandano alla poesia goliardica, in cui già questi elementi sono presenti come dissacrante immagine parodica della Trinità.

I poeti comico-realisti 2 205


Di ascendente goliardico è anche il rapporto fra le tre cose a Cecco gradite sopra ogni cosa e il denaro che le rende accessibili: il piacere, connotato in termini rigorosamente materialistici, è presentato nel sonetto come figlio della borsa e cioè della disponibilità di danaro. (“Ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire”). Ricorrente nella poesia goliardica è anche l’invettiva, ma propria di Cecco è la specifica invettiva contro il padre avaro, che impedisce al figlio di essere pienamente felice a causa delle limitazioni imposte dalla sua spilorceria.

Le scelte stilistiche In antitesi alla poesia “alta”, le immagini impiegate da Cecco – e di conseguenza il lessico – appartengono alla vita quotidiana, anche se l’uso sapiente dell’iperbole (v. 11) e dell’adynaton (ultima terzina) ne esaspera il senso. I suoni e le rime sono aspri (“mi sbrado”; “magro/ agro/bozzagro”), in antitesi al “dolce stile” degli stilnovisti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in non più di 10 righe. COMPRENSIONE 2. Il sonetto è una sorta di plazer (rassegna di desideri e cose piacevoli), in questo caso però impossibile. Indica i desideri del poeta e spiega perché non riesce a realizzarli. STILE 3. Illustra le caratteristiche che Cecco attribuisce al padre e le espressioni iperboliche relative. LESSICO 4. Individua le scelte lessicali che ribadiscono il tema del denaro come condizione indispensabile per poter godere dei piaceri della vita.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 5. Confronta il sonetto con il testo dei Carmina Burana, evidenziando contiguità tematiche e differenze. 6. La ribellione nei confronti del proprio padre e dell’autorità è un elemento caratterizzante le persone giovani. Hai mai avuto un contrasto con un adulto? Se sì, prova a raccontare i motivi che lo hanno generato e il tuo stato d’animo.

online T4 Cecco Angiolieri

La mia malinconia è tanta e tale

online T5 Cecco Angiolieri

Accorri accorri accorri, uom, a la strada!

Manoscritto Liturgia 60 (Oxford, Bodleian Library).

206 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti


Cecco Angiolieri

T6 Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M. Marti, Rizzoli, Milano 1956

S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo Si tratta del sonetto più famoso di Cecco Angiolieri, nel quale il poeta espone una serie di desideri impossibili che lo portano a inveire contro tutto e tutti.

4

S’i’ fosse foco, ardereï ’l mondo; s’i’ fosse vento, lo tempestarei1; s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo2;

8

s’i’ fosse papa, allor serei giocondo3, ché tutti cristïani imbrigarei4; s’i’ fosse ’mperator, ben lo farei; a tutti tagliarei lo capo a tondo5.

11

S’i’ fosse morte, andarei a mi’ padre; s’i’ fosse vita, non starei con lui: similemente6 farìa da mi’ madre.

14

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei7 le donne giovani e leggiadre8: le zop[p]e e vecchie lasserei altrui9.

online Audio

Fabrizio De Andrè S’i’ fosse foco

online

Sguardo sulla musica Fabrizio De Andrè S’i’ fosse foco

La metrica Sonetto con rime ABBA ABBA CDC DCD

1 tempestarei: lo tormenterei con tempeste; ar per er è un uso senese. 2 mandereil’ en profondo: lo farei sprofondare. 3 serei giocondo: sarei felice. 4 ché tutti cristïani imbrigarei: metterei in grossi guai tutti i cristiani. 5 a tondo: completamente; oppure, se lo riferiamo a tutti intorno: a tutti quelli che mi stanno intorno. 6 similemente: allo stesso modo. 7 torrei: prenderei. 8 leggiadre: belle. 9 altrui: ad altri.

Analisi del testo Desideri irrealizzabili

Con i periodi ipotetici dell’irrealtà (otto) che introducono piaceri irrealizzabili, Cecco gioca a parodiare il genere del plazer provenzale (un elenco di cose piacevoli) trasformandolo nel suo contrario, cioè l’enueg (un elenco di cose spiacevoli): il poeta vorrebbe bruciare il mondo, scuoterlo, annegarlo, sprofondarlo, mettere nei guai cristiani, decapitare tutti, andare dal padre e dalla madre nella veste della morte.

Parodia e gioco letterario

Ciò che scrive il poeta nel sonetto non va quindi inteso come uno sfogo sincero: non bisogna infatti interpretare questo testo come una testimonianza reale, ma come un gioco letterario che si comprende solo alla fine del sonetto, quando il poeta afferma di essere Cecco e di esserlo sempre stato e sostituisce l’atteggiamento distruttivo alla enunciazione della sua filosofia di vita ispirata al godimento dei piaceri materiali. È chiaro quindi che, se nella poesia del poeta può ravvisarsi qualche elemento di verità autobiografica, essa è frutto di una elaborazione formale, ossia di un gioco letterario.

Lo stile

Il fatto che si tratti di un gioco letterario è confermato dallo stile elaborato utilizzato dal poeta. Si può notare l’uso dell’anafora «S’i’ fosse», a cui fa da riscontro il condizionale in chiusura di verso in ben quattro casi (vv. 2-3-6-7), dando vita a una struttura simmetrica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Fai un elenco dei desideri che Cecco esprime in questo sonetto. ANALISI 2. Come nel precedente sonetto Tre cose solamente m’enno in grado (➜ T3 ) è presente la figura paterna. In che modo viene descritta dal poeta? STILE 3. Nei versi 13-14 è presente la figura retorica del chiasmo. Individuala.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 4. Immagina di scrivere un tuo sonetto intitolato S’i’ fosse foco. Su quali aspetti ti soffermeresti?

I poeti comico-realisti 2 207


Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti

Sintesi con audiolettura

1 Il comico

Una nebulosa che sfugge alle categorizzazioni La comicità è una dimensione che attraversa epoche e culture diverse, collegandosi a generi sia popolari sia alti e utilizzando temi ricorrenti (come la beffa). Fin dall’antichità essa si lega a espedienti retorici e linguistici: dall’iperbole alla ripetizione, dall’errore volontario all’impiego di un linguaggio serio per una situazione con esso incongrua, dal doppio senso al nonsense, dalla satira alla parodia. Questi sono anche gli strumenti dei poeti comico-realisti medievali. I temi del comico nel Medioevo Nel Medioevo il “comico” era uno stile: quello della cultura bassa. Il suo utilizzo era focalizzato su tre temi: quello sessuale (contrapposto all’ascetismo), quello «basso-corporeo» e quello blasfemo.

I portavoce del comico nella società medievale: goliardi e giullari La comicità nel Medioevo rappresenta innanzitutto una forma di trasgressione collegata alla dimensione della festa e del Carnevale, occasione per il popolo in cui contestare liberamente le gerarchie sociali e i modelli di comportamento. Al di fuori della festa, il comico è soprattutto presente negli spettacoli itineranti dei giullari, professionisti itineranti del divertimento buffonesco, e nella produzione dei goliardi: le composizioni dei goliardi (la più celebre raccolta è quella dei Carmina Burana), nate negli ambienti universitari e condannate dalla Chiesa, irridono le autorità e danno spazio al rifiuto dei principi proposti dalla cultura dominante. I Carmina Burana e il “mondo alla rovescia” Carmina Burana è appunto il titolo di una raccolta di canti anonimi in latino e in tedesco composti tra il XII e il XIII secolo da colti goliardi nell’ambito delle università tedesche ed europee. La prima parte ha carattere satirico verso la corruzione e la decadenza della Chiesa; centrale è poi il tema amoroso, elaborato mediante il rovesciamento dei canoni cortesi; i temi del bere, del cibo e del gioco d’azzardo, da vivere nella cornice dell’osteria, occupano la terza sezione della raccolta. Regnano, insomma, la dimensione corporea e il carnevalesco, in polemica con i valori cardine della società coeva.

2 I poeti comico-realisti

Parallelamente all’esperienza della lirica stilnovistica, si afferma in Toscana una linea poetica che afferisce all’area della comicità (pur non identificandosi del tutto con essa): si tratta dei poeti “comico-realisti”, definiti anche “giocosi” o “burleschi”, i cui maggiori rappresentanti sono il fiorentino Rustico Filippi, i cui sonetti comici sono caratterizzati da una lingua aspra e scurrile, e il senese Cecco Angiolieri (1260-1313 ca.). Un tempo considerata frutto di spontaneo realismo, ma anche di una sorta di “maledettismo” (anticipatorio degli atteggiamenti dei poeti francesi di fine Ottocento), in realtà la poesia di Cecco e di altri poeti del gruppo ha un carattere tutto letterario: infatti, nelle scelte

208 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti


tematiche, si richiama consapevolmente ai modelli europei del comico (dai fabliaux alla poesia goliardica). Temi come l’esaltazione dell’amore sensuale e dell’osteria, dove si gioca e si beve, hanno in questi ultimi precisi riscontri; anche la maledizione del padre per la sua avarizia, ricorrente in Cecco, ha ascendenze letterarie. L’adozione di tematiche del quotidiano e persino volgari si deve ricollegare alla voluta contrapposizione con i modelli stilnovistici.

Zona Competenze Scrittura

1. In un testo espositivo di circa 15 righe indica, facendo gli opportuni riferimenti ai testi analizzati, le scelte stilistiche che rivelano la competenza tecnico-letteraria dei poeti comico-realisti.

Scrittura argomentativa

2. Riflettendo sui contenuti appresi in PER APPROFONDIRE e VERSO IL NOVECENTO proposti alle pp. 199 e 200, spiega in che cosa consisteva la potenziale carica eversiva del comico nella civiltà medievale.

Anonimo tedesco, Trovatori, XIV secolo (Berlino, Archiv für Kunst und Geschichte).

Sintesi

Duecento e Trecento 209


Duecento e Trecento CAPITOLO

6 Dante Alighieri LEZIONE IN POWERPOINT

L'uomo Dante visto da Giovanni Boccaccio... Nell’appassionata biografia del poeta fiorentino che Giovanni Boccaccio, uno dei suoi primi estimatori, scrisse in tre redazioni (dal 1350 al 1370) si ritrova un vivace ritratto di Dante che ne delinea l’aspetto fisico e i tratti più caratterizzanti della personalità.

Fu dunque questo nostro poeta di media statura. Quando giunse in età matura prese a muoversi un po’ incurvato, conservando peraltro un incedere solenne e composto. Era sempre abbigliato nei modi confacenti perfettamente alla dignità dell’uomo maturo che egli era. Aveva viso affilato e naso aquilino, occhi più sul grande che sul piccolo, mascella squadrata e labbro inferiore prominente; carnagione scura, capelli (come i peli della barba) neri, spessi e crespi, volto sempre malinconico e pensoso...[...] Nessuno più di lui fu così preso dagli studi e da qualsiasi altro interesse da cui fosse stimolato, tanto che la moglie e la famiglia in genere se ne ebbero a lamentare, almeno fino a quando, per l’abitudine, non ci fecero più caso. Se non veniva richiesto parlava di rado, ma allora lo faceva con ponderatezza e con toni adeguati all’argomento trattato; quando invece le circostanze lo richiedevano, era facondo [eloquente] e brillante oratore. [...] Fu inoltre, il nostro poeta, meravigliosamente dotato di ferrea memoria oltre che di penetrante intelletto, tanto da darne ampia dimostrazione, quando si trovava a Parigi, discutendo un quesito in una disputa scolastica d’ambito teologico, come allora usava. Egli, infatti, in quella circostanza fu in grado di ricostruire senza la minima difficoltà, quattordici tesi presentate su svariati argomenti da diversi studiosi di valore, e di riproporle tali e quali, in rigorosa successione, complete delle loro argomentazioni pro e contro. [...] Dell’elevatissimo livello intellettuale e della raffinata originalità della sua arte, che parimenti lo caratterizzavano, rendono molto più ampia testimonianza le sue opere di quanto possano qui le mie parole. Boccaccio, Vita di Dante (1a versione), a cura di P. Baldan, Moretti & Vitali, Bergamo 1991

210


Dante è il primo e il più grande dei nostri classici, e anche uno dei pilastri della letteratura occidentale d’ogni tempo. L’indiscussa fama mondiale di Dante è legata alla Commedia. Sintesi possente dell’eredità della cultura classica e della cultura cristiano-medievale, la Commedia è l’opera che meglio ci può far comprendere il Medioevo. Con il suo capolavoro Dante consacra la supremazia del volgare e assurge a padre della lingua italiana. La restante produzione del poeta fiorentino è legata ai generi e alle tendenze proprie della cultura medievale, a cominciare dalla Vita nuova, in cui ha un ruolo centrale la figura di Beatrice, che Dante trasfigura, attribuendole una funzione salvifica. Nelle successive opere Dante sintetizza i grandi temi culturali dell'epoca: dal Convivio, sintesi della filosofia del tempo, al De vulgari eloquentia, celebrazione delle potenzialità della lingua volgare, alla Monarchia, riflessione sul rapporto fra impero e papato.

1 ritratto d'autore 2 La Vita nuova di Dante 3 Laneiparola generi e nei grandi temi culturali

4 Il poema sacro 211 211


1 Ritratto d’autore nascita, la giovinezza, 1 La la prima formazione VIDEOLEZIONE

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Una storia (ancora) avvolta nel mistero La vita del nostro maggior poeta rimane per molti aspetti oscura, nonostante secoli di indagini. Non ci è pervenuto alcuno scritto autografo e interi periodi della vita di Dante restano misteriosi. Le principali notizie provengono proprio dalla Sandro Botticelli, Ritratto di Dante, Commedia, in quanto disseminata di riferimenti autobiografici che, per quanto preziosi, tuttavia non 1495 ca. (Ginevra, collezione privata). riescono a colmare molte lacune. Dante (diminutivo di Durante) Alighieri nacque a Firenze tra il maggio e il giugno del 1265, in un’epoca in cui la città conosceva una grande espansione economica (nel 1252 era stato coniato il fiorino, prima moneta internazionale) sia come centro tessile sia come sede di floride attività bancarie (➜ SGUARDO SULLA STORIA La Firenze di Dante, PAG. 218). D’altra parte erano molto radicati nella città i conflitti tra le avverse fazioni dei guelfi (sostenitori del papa) e dei ghibellini (sostenitori dell’imperatore), destinate nel tempo a complicarsi ulteriormente per la divisione dei guelfi in Bianchi e Neri.

Cronologia interattiva

1294

Inizia il pontificato di Bonifacio VIII. 1293

Gli Ordinamenti di Giano della Bella escludono i nobili dalle cariche politiche.

1266

La battaglia di Benevento pone fine alla potenza sveva in Italia.

1250

1260

1270 1265

Nasce a Firenze da una famiglia della piccola nobiltà guelfa.

1280

1290

1283 ca.

Segue gli insegnamenti di retorica di Brunetto Latini. Inizia il suo apprendistato poetico e frequenta Guido Cavalcanti, con cui stringe un rapporto di intensa amicizia.

1289

Partecipa alla battaglia di Campaldino nelle fila della lega guelfa contro i ghibellini di Arezzo. 1290

Muore Bice Portinari, sposa di Simone de’ Bardi, celebrata da Dante con il nome di Beatrice.

1293-1295

Si dedica agli studi filosofici e teologici e compone la Vita nuova.

212 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


La famiglia di Dante apparteneva alla piccola nobiltà di parte guelfa. Anche se il poeta si mostra spesso fortemente critico verso la decadenza di valori che colpiva la classe nobiliare, manterrà comunque alcuni atteggiamenti propri della sua classe sociale: in particolare lo sdegnoso disprezzo per i nuovi ricchi, la gente nova, che animava la dinamica vita sociale del comune. Il padre di Dante, date le non elevate possibilità economiche della famiglia, esercitava un mestiere non molto onorevole: quello di cambiavalute (e forse anche di usuraio). Di lui Dante non parla mai, preferendo scegliersi nella Commedia una serie di “padri ideali”, a cominciare dal trisavolo Cacciaguida, cui affida nel Paradiso un ruolo assai rilevante (➜ PER APPROFONDIRE Un padre rifiutato, dei padri ideali, PAG. 214). Quanto alla madre Bella, essa muore quando il poeta ha solo dieci anni. Anche di lei nella Commedia non resta traccia. Sulla prima formazione di Dante possiamo fare solo delle congetture: sarà stata certo conforme all’educazione che ricevevano i ceti superiori in quel tempo, che prevedeva il percorso del trivio e del quadrivio, ovvero lo studio delle sette arti liberali (grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, musica e astronomia). Giotto, ritratto di Dante Alighieri, particolare del Giudizio universale, Paradiso, affresco, 1334-1337 (Firenze, Palazzo del Bargello, Cappella del Podestà).

1300

1310-1313

Bonifacio VIII indice il solenne giubileo. 1301

Carlo di Valois viene inviato dal papa a Firenze con lo scopo di pacificare la città, in realtà per favorire la presa di potere dei Neri. I priori in carica vengono deposti ed è avviata un’inchiesta sul loro operato.

1300

1309

Clemente V, succeduto a Bonifacio VIII, trasferisce la sede papale ad Avignone.

1310

Arrigo VII scende in Italia per restaurare l’autorità imperiale. Incoronato a Roma, morirà improvvisamente nel 1313.

1330

1340

1320 1316

1300

Viene eletto priore.

1306-1307

1301

Probabile inizio della composizione della Commedia: l’Inferno (per alcuni 1304-1308).

È a Roma per un’ambasceria a Bonifacio VIII.

1315 1303-1304

Iniziano le peregrinazioni per l’Italia. Compone: il Convivio e il De vulgari eloquentia.

1295

Inizia la carriera politica, avvicinandosi alla linea dei guelfi bianchi.

1302

Rifiuta l’offerta del governo fiorentino di rientrare in Firenze a condizioni che considera umilianti.

Viene accusato di corruzione. È esiliato e condannato a morte in contumacia.

Comincia a scrivere il Paradiso.

1312-1313

1321

Dante è ospite di Cangrande della Scala a Verona (dove rimarrà, con qualche interruzione, fino al 1319 ca.). Con ogni probabilità, termina il Purgatorio (iniziato forse nel 1309). In questi anni compone anche la Monarchia.

Durante un’ambasceria a Venezia si ammala. Muore a Ravenna fra il 13 e il 14 settembre.

1319-1320

È a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta.

Ritratto d’autore

1 213


PER APPROFONDIRE

Forse già nella prima giovinezza Dante frequentò Brunetto Latini, maestro di retorica e intellettuale di spicco nel comune di Firenze (➜ SCENARI; PAG. 33), una delle figure guida della sua formazione, ricordato con commosse parole nella Commedia (➜ D2 OL). Appena ventenne, Dante sposa Gemma Donati, appartenente a una delle famiglie guelfe più in vista in Firenze: da lei avrà i figli Jacopo e Pietro, poi letterati e primi commentatori della Commedia, Antonia (divenuta in seguito suor Beatrice) e forse un quarto figlio, Giovanni. Anche della moglie non esiste alcun cenno nella Commedia, ma occorre ricordare che i matrimoni erano al tempo di Dante esclusivamente patti economico-politici che le famiglie stringevano tra di loro e non erano certo fondati sul sentimento amoroso dei due coniugi.

Un padre rifiutato, dei padri ideali Alighiero II, il padre di Dante Dante non nomina mai, né nella Commedia, né in alcun altro suo scritto la figura di suo padre, Alighiero II, sebbene questi sia vissuto abbastanza a lungo (a differenza della madre Bella, morta prestissimo) per incidere sulla vita e sulla formazione di Dante. La figura di Alighiero II viene chiamata in causa (in modo volutamente offensivo per Dante) nella tenzone con Forese Donati, senza che Dante peraltro risponda in alcun modo alle provocazioni dell’amico. I pochi documenti di cui disponiamo ci parlano del padre del poeta come di un uomo d’affari piuttosto gretto; forse Dante non lo riteneva degno dell’alta immagine di sé che intendeva trasmettere ai lettori della Commedia. Il sostanziale rifiuto del proprio vero padre viene compensato nel poema dalla forte presenza di personaggi che ben possono essere definiti “padri ideali”: degni, essi sì, di figurare nel poema sacro come genitori elettivi di Dante. Cacciaguida Il più importante di questi “padri ideali” è Cacciaguida, il trisavolo di Dante cui viene affidata l’importantissima funzione di svelare al poeta il suo destino di esule e di consacrarne la missione poetica. Cacciaguida è chiamato espressamente “padre” due volte (Pd XVI, 16 e XVII, 106), ma già l’incontro solenne tra Dante e il suo antenato (Pd XV), attraverso l’esplicito rimando all’incontro tra Enea e il padre Anchise nell’Ade, introduce il tema della paternità ideale. Brunetto Latini Un ruolo importante e una funzione “paterna” sono inoltre affidati a Brunetto Latini (➜ SCENARI, PAG. 33)

Dante e Virgilio incontrano Brunetto Latini, illustrazione di Gustave Doré per il canto XV dell’Inferno (prima edizione italiana, Sonzogno, 1868).

214 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri

di cui Dante rievoca con note nostalgiche «la cara e buona immagine paterna» e che a sua volta definisce Dante «figliol mio». In relazione alla fiorentinità del personaggio, Brunetto è utilizzato nella Commedia per costruire – con l’autorevolezza del “padre” appunto – l’antitesi netta tra Dante e gli ingrati fiorentini che l’hanno ingiustamente emarginato dalla vita attiva. Guinizzelli Ma altrettanto importante nella Commedia è la “paternità” in ambito culturale e letterario, come nel caso di Guido Guinizzelli, che Dante immagina di incontrare tra i lussuriosi nel Purgatorio e che definisce con suggestiva perifrasi «il padre mio e de li altri mei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre» (Pg XXVI), riconoscendo così esplicitamente al poeta bolognese il ruolo di caposcuola nella poesia amorosa. Virgilio Tra i padri ideali spicca ovviamente la figura di Virgilio, indiscutibile auctoritas per il Medioevo («tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore»), ma che Dante ritrae, soprattutto nel Purgatorio, essenzialmente come guida sollecita e affettuosa, come sostegno nei momenti di dubbio e difficoltà, proprio come dovrebbe essere un padre. Assai spesso del resto Dante usa per Virgilio espressamente il termine padre (addirittura «lo più che padre» in Pg XXIII, 4), ma particolarmente intenso (e commovente), è l’appellativo dolcissimo patre che Dante rivolge al suo maestro nel momento doloroso e smarrito del congedo definitivo da lui: «Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé [ci aveva abbandonato], Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die’mi [a cui mi ero affidato per la mia salvezza]» (Pg XXX, 49-51).

Mosaico del III secolo che raffigura il poeta Virgilio tra le muse Clio e Melpomene (Tunisi, Museo del Bardo).


2 La “donna della salute” e l’esperienza stilnovista Il mito di una donna Secondo quanto Dante narra nella Vita nuova (➜ PAG. 220), a soli nove anni incontrò per la prima volta Beatrice, la figura femminile che non solo ispirerà tante sue liriche, poi inserite nella Vita nuova, ma che costituisce il vero centro dell’itinerario poetico e umano del poeta fiorentino. La donna amata da Dante fu Bice Portinari, sposa di Simone de’ Bardi, morta nel 1290 a ventisei anni; ma non ha particolare importanza conoscere la reale identità storica di colei che Dante chiama, con nome allusivo e simbolico, Beatrice (“colei che beatifica”), dato che il poeta sottopone la sua figura a un processo di trasfigurazione sublimante, che ne fa un mito umano e insieme poetico. La devozione alla “donna della salute” (come Dante la definisce nella Vita nuova) è cantata in forme letterarie riconducibili alla linea poetica che si suole definire “dolce stil novo”, prendendo spunto dall’espressione usata da Dante nell’episodio dell’incontro con il poeta Bonagiunta da Lucca (Pg XXIV). Le prime esperienze poetiche Dante aveva iniziato a comporre poesie a partire dagli anni Ottanta del XIII secolo in modi poetici riconducibili alla linea dominante della poesia cortese, nata in Provenza e poi radicata anche in Italia attraverso l’esperienza della lirica siciliana e quindi siculo-toscana. Verso la fine del secolo (probabilmente tra il 1286 e il 1287) Dante si reca a Bologna, prestigioso centro della dotta cultura universitaria, dove operava il poeta Guido Guinizzelli. Gli anni dello stilnovismo Dante entra poi in contatto con il gruppo di poeti toscani (tra cui Lapo Gianni, Gianni Alfani, Guido Cavalcanti), i “fedeli d’Amore” secondo la definizione di Dante, che danno vita a un nuovo indirizzo poetico incentrato sulla celebrazione del tema amoroso (lo stilnovo, appunto): Dante stesso Dante e Beatrice nel vi contribuisce in modo rilevante con le sue liriche amorose. A distanza di anni, cielo della Luna, quando compone il XXIV canto del Purgatorio, Dante tende a enfatizzare il proprio da un codice trecentesco contributo, attribuendosi un ruolo centrale nella poetica stilnovistica e assegnando della Divina un significato chiave alle “rime della loda”, inaugurate dalla canzone Donne ch’aveCommedia (Venezia, te intelletto d’amore e collocate al centro della Vita nuova (➜ PAG. 220). Biblioteca D’altra parte non manca nella Commedia (If XXVI) il riconoscimento dei meriti del nazionale Marciana). bolognese Guido Guinizzelli, esaltato come il maestro che diede inizio alle “rime d’amor dolci e leggiadre”; appare invece strano che nella Commedia venga fatto passare sotto silenzio il magistero dell’amico Guido Cavalcanti, nonostante l’evidente influenza dei modi cavalcantiani presente soprattutto nella prima parte della Vita nuova. Ma questo silenzio ha forse a che fare con la storia di un’amicizia, quella appunto tra Dante e Guido, probabilmente interrotta per sopraggiunte divergenze ideologiche (➜ PER APPROFONDIRE Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta, PAG. 216, ➜ D3 OL). La morte prematura di Beatrice (giugno 1290) pone fine a una fase della vita e insieme dell’esperienza poetica di Dante e provoca in lui grave sconforto. Scrive al proposito Boccaccio: «Questa perdita gettò Dante in un tale doloroso stato di prostrazione e di pianto, che i suoi più stretti familiari e amici online temettero a tutto ciò potesse porre fine solo con la morte; che D1 Giovanni Boccaccio Il primo incontro tra Dante e Beatrice ritennero anche imminente vistolo sordo a qualsiasi parola di Vita di Dante conforto, impenetrabile a ogni consolazione».

Ritratto d’autore

1 215


consolazione della filosofia. 3 La La «selva oscura» e il mistero del traviamento La frequentazione del sapere filosofico Come scrive in un passo del Convivio (II, XII 1-7), dalla prostrazione seguita alla morte di Beatrice Dante cominciò a risollevarsi leggendo le opere di Boezio (soprattutto il De consolatione philosophiae) e di Cicerone (in particolare il De amicitia) e dedicandosi intensivamente allo studio della filosofia: «Cominciai ad andare là dov’ella [la filosofia] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti». Con “scuole de li religiosi” Dante si riferisce allo studium domenicano di Santa Maria Novella a Firenze (in cui dovette approfondire gli insegnamenti dei principali esponenti della filosofia scolastica, ovvero Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, e conoscere il pensiero di Aristotele) e al convento francescano di Santa Croce (dove entrò in contatto con il pensiero mistico-ascetico di Bonaventura da Bagnoregio e presumibilmente accostò il filone platonico-agostiniano del pensiero medievale). Negli anni tra il 1290 e il 1295 Dante acquisisce dunque un rigoroso sapere filosofico-teologico che confluirà in parte nel progetto enciclopedico del Convivio, nelle rime dottrinali e quindi nel poderoso edificio della Commedia.

PER APPROFONDIRE

Oltre lo stilnovo: la sperimentazione della materia comico-realistica Al tempo stesso Dante sperimenta forme letterarie diverse, riconducibili allo stile “comico-realistico”, dietro le quali, come scrive Giorgio Petrocchi, sta un pubblico che apprezzava «le piacevolezze del parlar scurrile, le risate sguaiate […], i sottintesi maliziosi e le simbologie erotiche». All’interno della sperimentazione di questo ambito stilistico-tematico (in cui si colloca anche Il Fiore, da alcuni critici attribuito a Dante) riveste particolare importanza la tenzone con Forese Donati (➜ T10 OL), collocabile tra il 1293 e il 1296, anno della morte di Forese: si tratta di uno scambio di sonetti ingiuriosi (alla maniera dei poeti giocosi toscani) con un amico fiorentino, poi ricordato affettuosamente nel canto XXIII del Purgatorio.

Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta L’amicizia con Guido Cavalcanti: un sodalizio poetico e intellettuale Come egli stesso ricorda nella Vita nuova, negli anni della sua giovinezza Dante stringe amicizia con Guido Cavalcanti, poeta fiorentino (ca. 1250-1300), definito «quelli che io chiamo primo de li miei amici» (Vita nuova III). Un’amicizia fondata sull’appartenenza alla stessa raffinata élite dei poeti d’amore stilnovisti a cui allude metaforicamente il celebre sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. Negli anni della loro amicizia Dante e Guido devono aver condiviso anche una posizione filosofica: l’adesione all’aristotelismo radicale (o averroismo), una linea di pensiero presente all’Università di Parigi nella seconda metà del Duecento e che circolò anche in Italia, soprattutto a Bologna. Dell’averroismo restano tracce nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, mentre nella Commedia Dante mostra di averne ormai preso le distanze. Il ripensamento di Dante e il distacco da Guido Se questa posizione filosofica all’inizio deve aver unito Dante e Guido,

216 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri

in seguito deve aver costituito la ragione principale del loro distacco. Come scrive Maria Corti (che ha dedicato uno studio fondamentale alla presenza dell’aristotelismo radicale in Dante e ai suoi rapporti con Guido Cavalcanti), a un certo punto, non sappiamo bene quando, Guido dovette «apparire a Dante su un’altra sponda». Mentre il poeta della Commedia si allontana dal fascino dell’aristotelismo radicale e la sua posizione filosofica si fonda sull’aristotelismo “ortodosso”, cioè tomistico, con aperture al misticismo francescano, Guido deve essere rimasto legato ad esso: del resto la figura di sé che Guido trasmette ai posteri, come ci testimonia una celebre novella di Boccaccio, è quella di «loico e filosofo naturale», ovvero colui che non ammette nulla che non abbia a che fare con cause naturali. Non c’è quindi da stupirsi se i due amici si dovettero allontanare l’uno dall’altro. Anche se in modo criptico, Dante allude alla frattura tra lui e l’amico nel celebre canto X dell’Inferno.


Il traviamento La forte coesione tra scelte poetiche e itinerario interiore che sempre caratterizza la figura intellettuale di Dante e il turbamento con cui il poeta rievoca nella Commedia i tempi dell’amicizia con Forese inducono a pensare che l’esperienza della tenzone abbia in qualche modo a che fare con il misterioso “traviamento” di Dante. Esso, come si deduce dai rimproveri di Beatrice nel canto XXX del Purgatorio, iniziò dopo la morte della donna amata, quando il poeta, secondo le accuse della donna, cominciò a volgere «i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false». Un traviamento che, in assenza di più precisi elementi, deve collocarsi dopo il 1290 (anno appunto della morte di Beatrice) e prima del 1300 (per la verità lo smarrimento nella selva oscura del peccato è collocato nella Commedia in questa data, ma esclusivamente secondo una logica simbolico-narrativa che esclude un preciso rimando realistico). Come deve essere interpretato il traviamento di Dante? È da intendersi in senso morale, letterario, dottrinale o, più probabilmente, tutte queste cose insieme? Negli anni del lutto, approfondendo le sue conoscenze filosofiche, Dante conobbe forse la seduzione dell’aristotelismo radicale e quindi del razionalismo estremo, che fu condiviso dall’amico Guido. Quello che è certo è che Dante vive una crisi che rischia di disperdere le sue energie anche come poeta e di introdurre nella sua storia intellettuale pericolosi elementi devianti rispetto al rigore morale e insieme stilistico delle “rime della loda”, che lo avevano consacrato raffinato cantore di un purissimo sentimento amoroso. Il “ritorno a Beatrice” A distanza di anni, ponendo mano al poema sacro, Dante sa che occorreva “ricominciare da Beatrice”, la donna dell’amore virtuoso e salvifico, tramite verso l’amore di Dio, per completare degnamente la sua carriera poetica e la sua stessa storia personale.

4 La passione (e la delusione) della politica Lessico priori A Firenze i priori erano dapprima i rappresentanti delle Arti più importanti; poi, dalla fine del XIII secolo, i capi del governo della città.

Gli esordi Nel 1295 fa il suo ingresso nella vita politica dopo essersi iscritto all’Arte dei medici e degli speziali: per i nobili era necessario, infatti, iscriversi a una delle Arti qualora volessero ricoprire una carica pubblica. Dante priore Nel 1300, dopo essere stato ambasciatore a San Gimignano, Dante diventa uno dei priori di Firenze. In quello stesso anno, con l’obiettivo di porre un freno agli scontri sanguinosi tra Bianchi e Neri che funestavano quotidianamente la vita della città, i priori decidono di esiliare i capi delle due fazioni (otto di parte nera e sette di parte bianca): tra questi ultimi figura anche Guido Cavalcanti, amico di Dante e appartenente, come il poeta, ai Bianchi. L’ambasceria a Roma Nel 1301 Dante è a Roma alla guida di un’ambasceria presso il papa, volta a sondarne le reali intenzioni. Intanto Carlo di Valois, chiamato dal pontefice per far da paciere (ma in realtà per sostenere la politica ecclesiastica e favorire l’affermazione del partito dei Neri), entra in Firenze: i Neri ne approfittano per abbandonarsi a rappresaglie e violenze nei confronti dei capi bianchi, che lasciano precipitosamente la città, e per istituire nei loro confronti processi sommari. Battaglia di Montaperti tra ghibellini e guelfi in una miniatura dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani, sec. XIV (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana).

Ritratto d’autore

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La condanna A Dante – che, dice il Boccaccio, «fu trattato non come un avversario minore bensì alla stregua di uno dei massimi caporioni» – viene rivolta l’accusa di baratteria, cioè di corruzione nell’amministrazione pubblica. Invitato a discolparsi di persona, il poeta, come del resto la maggior parte dei capi bianchi, non si presenta e viene allora condannato alla confisca permanente dei beni e alla morte sul rogo, nel caso fosse stato catturato (l’atto di condanna è uno dei rari documenti che possediamo relativi alla biografia dantesca). Inizia così il doloroso periodo dell’esilio: a Firenze Dante lascia la moglie, Gemma Donati, e tre figli.

5 Gli anni dell’esilio, la morte: Dante entra nella leggenda L’esilio: un’esperienza drammatica ma ricca di frutti L’esilio fu prima di tutto un’esperienza dolorosa e umiliante per il poeta («per le parti tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato», scrive nel Convivio (➜ D4b oL). D’altra parte, se non fosse stato bandito da Firenze, forse Dante sarebbe rimasto legato a un’ottica municipale, non avrebbe superato l’ambito della poetica

Sguardo sulla storia La Firenze di Dante Firenze emerge abbastanza tardi nel panorama dei Comuni italiani, ma in compenso raggiunge una posizione preminente già nella seconda metà del Duecento, distinguendosi nell’attività commerciale e bancaria. Firenze si specializza nel settore della lana (e successivamente della seta): quando Dante nasce (1265) quasi un terzo della popolazione di Firenze è occupata in questo ambito lavorativo. Man mano che la produzione si intensifica e cresce il giro d’affari, all’azienda familiare o comunque di tipo artigianale (la “bottega”) si affiancano fabbriche di grandi dimensioni, in cui operano concentrazioni di lavoratori salariati. L’incremento della ricchezza e la presenza in Firenze di forti concentrazioni di capitali alimentano ben presto la nascita di compagnie bancarie in mano a potenti famiglie (come i Peruzzi, gli Adimari, i Portinari, i Rucellai), che gestiscono il traffico di capitali e prestano denaro a chiunque (compresi re e papi) ne faccia richiesta. Si crea così a Firenze una ricca classe di mercanti, imprenditori, banchieri che non ha eguali in Europa. La potenza economica di Firenze trova la testimonianza più evidente e insieme il suo strumento più valido nella coniazione del fiorino d’oro (1252), destinato a diventare nel giro di pochi anni la moneta più accreditata nel commercio internazionale. La presenza di una ricca borghesia mercantile e finanziaria spiega anche l’evoluzione istituzionale del Comune di Firenze: questa classe, organizzata corporativamente nelle Arti maggiori, che già detiene il potere economico nella città, rivendica per sé la direzione degli affari cittadini, giungendo ben presto a conquistarla. Queste le tappe essenziali della conquista. Nel 1282 sono conferiti i maggiori poteri politici a una nuova magistratura (i sei priori), che era espressione delle Arti maggiori e mediane. Nel 1293 gli Ordinamenti di Giano della Bella riservano l’esercizio delle cariche pubbliche solo a chi è iscritto alle Arti (maggiori, mediane e minori), aprendole quindi anche al popolo minuto e negandole

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invece alle famiglie che appartenevano all’aristocrazia feudale. Gli Ordinamenti furono effettivamente applicati solo per due anni; nel 1295 alcune famiglie nobiliari riprendono l’egemonia, dando luogo a un breve e precario equilibrio. Lo scenario politico fiorentino, negli anni immediatamente successivi, è dominato dagli aspri contrasti tra la fazione dei Bianchi e quella dei Neri. I Bianchi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, venuta dal contado e arricchitasi in poche generazioni, erano disponibili nell’ambito della vita del comune alla collaborazione con il popolo grasso (ovvero i ceti artigiani e mercantili) e nell’ambito politico più generale erano gelosi custodi dell’autonomia comunale. La fazione dei Neri (capeggiati dalla famiglia dei Donati), rappresentava la classe magnatizia ed era disposta a sacrificare l’autonomia del Comune con concessioni alla politica del papato nel momento in cui essa appare coincidere con i loro interessi economici.

1° maggio 1300: gli scontri tra le brigate dei giovani Cerchi e Donati, miniatura dal Manoscritto Chigliano L, VIII 296, Nuova Cronica di Giovanni Villani, sec. XIV (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana).


stilnovistica, e probabilmente non sarebbe arrivato a immaginare un’opera di ambizioni universalistiche come la Commedia. In esilio, oltre a realizzare il grandioso progetto della Commedia, Dante compone tutte le opere di più vasto impegno culturale, come il Convivio, il De vulgari eloquentia, il Monarchia, nelle quali si pronuncia autorevolmente sulle più importanti problematiche del suo tempo. Al periodo dell’esilio appartengono anche le tredici epistole in latino, nelle più significative delle quali campeggia la figura fiera e risentita, l’alta statura morale e civile dell’exul immeritus, che assume quel ruolo di severo moralista e profeta del proprio tempo che si ritrova anche nella Commedia. Le peregrinazioni per l’Italia Dopo qualche iniziale contatto con gli altri esuli di parte bianca (poi definiti «compagnia malvagia e scempia», Pd XVII), Dante si isola e inizia una solitaria peregrinazione in varie zone e corti d’Italia, dove riesce a trovare ospitalità e protezione (➜ D4a OL). Il primo refugio è Verona, presso la corte degli Scaligeri, dove soggiorna tra il 1303 e il 1304 e dove ritornerà forse già nel 1312; quindi forse nella Marca Trevigiana, in Lunigiana nel 1306, a Lucca forse nel 1308. Secondo la testimonianza di Boccaccio (ma anche di altri contemporanei, tra cui il cronista Villani), si reca addirittura a Parigi, anche se non ne abbiamo conferma. L’elezione di Arrigo VII alimenta le speranze di Dante L’elezione di Arrigo VII al soglio imperiale nel 1308 anima le speranze di Dante in una restaurazione dell’autorità imperiale e in una renovatio dell’Europa cristiana. Nell’attesa che l’imperatore scenda in Italia («il giardino dell’impero») per l’incoronazione, stabilita per il 2 febbraio 1312, Dante decide di esporsi personalmente scrivendo una lettera ai re e signori d’Italia in cui, con tono biblico-profetico, annuncia la venuta del “messo di Dio” che avrebbe riportato la giustizia in Italia e stroncato ogni ribellione all’autorità dell’imperatore, preposto dalla volontà di Dio al governo del mondo. La delusione La spedizione si rivela però ben presto inconcludente e Firenze rimane ribelle all’autorità imperiale. Nel 1313 Arrigo VII muore improvvisamente infrangendo crudelmente la generosa utopia dantesca e troncando definitivamente ogni speranza del poeta di poter rientrare in patria. Non riuscì più a rivedere Firenze, abbandonata vent’anni prima. Aveva rifiutato con indignazione un compromesso umiliante (riconoscere le proprie colpe) che gli avrebbe consentito di ritornare in città. Il Comune rinnova la condanna a morte nel 1315, estendendola anche ai figli. online D2 Dante Alighieri

M’insegnavate come l’uom s’etterna Inferno XV, 79-87

online D3 Guido Cavalcanti

Io vegno ’l giorno a te Rime

online

Testi in dialogo Il dramma dell’esilio

D4a Dante Alighieri Tu lascerai ogne cosa diletta Paradiso XVII, 55-69 D4b Dante Alighieri Legno sanza vela Convivio I, III, 4-5

L’ultimo soggiorno. La morte Dopo aver soggiornato a lungo a Verona alla corte di Cangrande della Scala (esaltato nel canto XVII del Paradiso), Dante è infine ospite di Guido da Polenta, a Ravenna. Sarà l’ultima tappa dell’esilio e del suo itinerario su questa terra: colpito da malaria, muore nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, all’età di 56 anni. Guido da Polenta gli fa porre sul capo quella corona d’alloro che invano aveva desiderato di ricevere dalla sua città per i suoi altissimi meriti poetici. Pur essendone ormai da tempo diffusa la conoscenza, il poema sacro non era infatti riuscito a infrangere la dura condanna delle autorità fiorentine nei confronti del poeta. Le esequie, a quanto ci testimonia Boccaccio, furono solenni; manifestazioni di costernazione per la scomparsa del grande poeta vennero da più parti (ma non dalla sua Firenze) e iniziò a crearsi nell’immaginario popolare quella trasfigurazione di Dante che in pochi anni ne avrebbe fatto una figura leggendaria.

Ritratto d’autore

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2 La Vita nuova 1 La struttura, la finalità, i destinatari VIDEOLEZIONE

La struttura La Vita nuova – la prima opera in volgare scritta da Dante, allestita tra il 1293 e il 1295 – raccoglie una trentina di sue poesie giovanili, collegate con prose che sono presumibilmente successive ai testi poetici. La Vita nuova è dunque un prosimetro, cioè un componimento misto di prosa e poesia, costituito di 42 capitoli che includono 31 testi poetici (la maggior parte dei quali sono sonetti). I testi in prosa hanno due funzioni: introdurre e contestualizzare i componimenti poetici e fornire un commento prettamente retorico che segua i testi poetici. Il ruolo dell’introduzione in prosa ai testi poetici è fondamentale perché crea un tessuto connettivo fra le liriche e fornisce al contempo un’interpretazione organica di un periodo fondamentale nella biografia umana e intellettuale di Dante, dominato dalla presenza di Beatrice. Un tempo che il poeta rivisita e ripensa anni dopo, immaginando di ritrovarlo nel “libro” della sua memoria (➜ T1 ). Una narrazione “a tesi” Dante riflette dunque a posteriori sulla natura e sul significato del suo amore per la «gentilissima» e scopre che esso ha avuto il potere di «rinnovare» totalmente la sua esistenza: a questa radicale trasformazione interiore attivata dall’esperienza amorosa allude il titolo stesso di Vita nuova con cui l’opera è stata trasmessa nei secoli. Il titolo si ricava dal primo capitolo, in cui Dante usa l’espressione latina “vita nova” in riferimento appunto a una fase della sua vita profondamente rinnovata dall’esperienza dell’amore. Il poeta si propone allora di testimoniare l’eccezionale esperienza da lui vissuta, ripercorrendone le tappe fondamentali: in questa prospettiva seleziona i testi che aveva precedentemente scritto e li riorienta, attraverso il commento interpretativo, esclusivamente in funzione dell’esaltazione della donna amata.

Andrea Bonaiuti, Danza delle donzelle nel giardino d’amore, affresco, 1355 ca. (Firenze, Santa Maria Novella Cappellone degli Spagnoli).

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Un consuntivo poetico Al contempo, considerata ormai conclusa l’esperienza stilnovistica, Dante traccia nella Vita nuova un consuntivo e una sintesi della sua esperienza poetica fino a quel momento, nella consapevolezza di poter occupare con le sue poesie un posto importante nell’ambito della tradizione lirica alta, che si era ormai affermata anche in Italia. In questo senso la Vita nuova non è solo l’opera che chiude e sigilla la giovinezza umana e poetica di Dante, da cui il poeta prende congedo nel nome di Beatrice, ma è anche la più alta e coerente testimonianza dell’esperienza stilnovista, che Dante interpreta con l’originalità propria del suo genio.


I destinatari: i “fedeli d’Amore” L’autore rivolge la sua opera a un pubblico ristretto di amici e di “fedeli d’Amore”, una cerchia culturalmente raffinata, di fatto coincidente con l’élite cui già si rivolgeva la canzone programmatica di Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre Amore. In particolare Dante indirizza l’opera a Guido Cavalcanti «questo mio primo amico a cui io ciò scrivo» (cap. XXX), già ricordato nel cap. III con analoga perifrasi («quelli cui io chiamo primo de li miei amici»). Guido si delinea dunque come figura chiave nell’esistenza e nell’apprendistato poetico di Dante (e soprattutto la prima parte dell’operetta rivela marcatamente l’influenza dello stile cavalcantiano).

2 La vicenda Attraverso lo snodarsi delle liriche e il commento in prosa l’autore narra la vicenda del suo amore per Beatrice non tanto in sé, ma dando spazio piuttosto agli effetti psicologici e ai riflessi etici e spirituali che l’amore ha prodotto in lui. Il primo incontro, le schermaglie cortesi, la negazione del saluto L’iniziazione all’esperienza amorosa avviene – secondo il racconto di Dante – nel 1274, quando, all’età di nove anni, vede per la prima volta Beatrice durante una funzione religiosa, evento che Dante interpreta come segno di predestinazione e che rappresenta in un’aura di sacralità. Nove anni dopo, Dante incontra Beatrice la seconda volta, ne riceve il saluto e se ne innamora perdutamente. Dopo un sogno in cui Amore invita la donna a cibarsi del cuore del poeta, Dante scrive il suo primo sonetto, un saluto a «tutti i fedeli d’Amore». Per qualche tempo, temendo che si identifichi la donna amata con Beatrice, Dante corteggia altre donne per farne «schermo de la veritade», secondo le convenzioni dell’amore cortese; ma Beatrice, offesa, gli nega il suo saluto. Il poeta decide allora di manifestare i propri sentimenti, ma la sola presenza di Beatrice è per lui motivo di sconvolgente turbamento. Proprio per questo viene schernito da Beatrice e dalle donne in sua compagnia: è la scena del «gabbo», ricorrente nella letteratura cortese. La svolta e le «rime della loda» Se le liriche contenute nei primi capitoli riprendono i motivi cavalcantiani dell’amore doloroso e delle forze irrazionali che agiscono sui sentimenti dell’amante, nei capitoli XVIII-XIX Dante preannuncia una svolta poetica: abbandonerà la rappresentazione dei propri tormentati stati d’animo per dare voce unicamente alla lode disinteressata della donna amata. Ispirato e sorretto da una forza superiore e dalla «volontade di dire», Dante inizia le «rime della loda»: nascono da questa nuova condizione, insieme interiore e poetica, alcuni dei testi più celebri della produzione lirica dantesca, come la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore e i sonetti Ne li occhi porta la mia donna amore, Tanto gentile e tanto onesta pare, Vede perfettamente onne salute. Tutta la parte centrale della Vita nuova insiste fondamentalmente sul tema della loda, anche se sono inserite situazioni dolorose, quali la morte del padre di Beatrice e la malattia del poeta, accompagnata dall’apocalittica visione in cui si annuncia la morte della donna amata. Al suo risveglio da questa visione Dante viene confortato da una giovane donna (cui il poeta rivolge la canzone Donna pietosa e di novella etate), grazie alla quale l’angoscia si dissolve, lasciando spazio alla contemplazione di Beatrice che si eleva al cielo.

La Vita nuova 2 221


La morte di Beatrice, lo sviamento, la missione Giunge però realmente la morte di Beatrice, che Dante non narra in modo diretto, limitandosi a trasmettere al lettore il proprio angoscioso smarrimento. Trascorso un anno, il poeta viene confortato da una «gentile donna giovane e bella molto», che nel Convivio apparirà come allegoria della filosofia. Il poeta vive un forte contrasto tra i sentimenti suscitati dalla donna gentile e il ricordo di Beatrice, ma una «forte immaginazione» gli fa apparire Beatrice come Dante la vide la prima volta: il poeta comprende allora che il suo compito è ormai quello di esaltare di fronte al mondo la figura di Beatrice (sonetto Deh peregrini che pensosi andate), elevando il proprio pensiero e il proprio spirito fino al cielo per contemplarla da vicino (Oltre la spera che più larga gira). L’opera si conclude con l’accenno a una «mirabile visione» che il poeta non descrive, dichiarando soltanto il proposito di non scrivere più di Beatrice fino a quando non sarà in grado di dire di lei «quello che mai non fue detto d’alcuna».

3 Un itinerario spirituale e poetico nel nome di Beatrice La centralità dell’esperienza d’amore La Vita nuova, come già si è accennato, delinea, intorno all’esperienza dell’amore per Beatrice, un itinerario interiore e insieme una storia della poesia dantesca: essa muove dall’influenza della poesia siculo-toscana, attraversa i toni drammatici dell’amore cavalcantiano per approdare al nuovo stile, lo «stilo della loda», in cui si esprime pienamente il contributo originale di Dante alla poetica stilnovista. Nella parte centrale dell’opera, l’amore cantato alla maniera di Cavalcanti cede il posto esclusivamente alla contemplazione di Beatrice: se l’attenzione di Dante è in un primo tempo rivolta su di sé e sugli effetti che la visione dell’amata produce in lui, successivamente il poeta supera una visione limitata dell’amore come ricerca di gratificazione e autoanalisi: la poesia stessa assume allora come unico fine la lode disinteressata della gentilissima. Come per un’improvvisa rivelazione (così almeno egli ci fa credere) Dante scopre il valore assoluto dell’amore, esperienza unica e salvifica: la Beatrice dantesca non è allora solo metafora angelica (come le figure femminili di altri stilnovisti), ma è «colei che beatifica» con la sua sola presenza, creatura «venuta di cielo in terra a miracol mostrare», miracolo essa stessa (➜ T4 , T5 ). La stupefatta scoperta della

Raffaele Giannetti, Primo incontro tra Dante e Beatrice, olio su tela, 1877 (Newport, Newport Museum and Art Gallery).

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natura soprannaturale dell’amata è il fondamento di un modo più alto d’amare, totalmente disinteressato e rivolto verso l’estatica contemplazione di lei; a questa “scoperta” consegue un modo diverso di cantare l’amore, i cui principi sono esposti nella celebre canzone Donne ch’avete intelletto d’amore e che trova altissima manifestazione poetica in alcuni sonetti, a cominciare dal celeberrimo Tanto gentile e tanto onesta pare (➜ T5 ). La fondazione del mito di Beatrice, una figura sacrale I critici sono sempre stati d’accordo nel riconoscere che Beatrice, già nella Vita nuova, non sia semplicemente una donna ma piuttosto una figura sacralizzata, che trascende la realtà terrena. Gli studiosi non concordano però sul senso preciso di questa sacralità: per alcuni Dante ha voluto fare di Beatrice la figura, l’immagine di Cristo e la Vita nuova intenderebbe tracciare, sotto l’apparente vicenda d’amore, un itinerario mistico a Dio, come più esplicitamente accadrà nella Commedia; per altri invece l’amore per Beatrice è certamente spiritualizzato, ma la prospettiva dell’opera non sarebbe ancora quella mistica: quando scrive la Vita nuova l’amore di Dante è comunque rivolto a Beatrice, non a Dio, anche se l’amata è paragonata a Cristo. I modelli della Vita nuova I precedenti del prosimetro dantesco si possono individuare nel De consolatione philosophiae di Severino Boezio, allo studio del quale Dante si era dedicato dopo la morte di Beatrice. Ma sicuramente influenza Dante anche l’uso presente nella cultura occitanica di fornire spiegazioni in prosa (razos) alle poesie e di narrare le vite romanzate (vidas) degli autori a partire dai loro testi. Componendo la Vita nuova Dante si confronta anche con l’autorevole modello delle Confessioni di Agostino, esempio di scrittura introspettiva e di un’autoanalisi che non è fine a se stessa, ma il cui scopo è l’educazione morale di chi legge; inoltre le modalità narrative, la presenza di eventi prodigiosi, l’esaltazione delle straordinarie virtù della donna e la sua stessa morte gloriosa testimoniano l’influenza sull’operetta dantesca delle vite dei santi, un genere assai popolare nel Medioevo (➜ PAG. 119). Infine, nella concezione d’amore che viene espressa nell’opera è evidente l’influenza sia di Cavalcanti (soprattutto nella prima parte), di cui Dante riprende la “drammatizzazione” dell’esperienza amorosa, sia di Guinizzelli, che trasmette a Dante la visione angelicata della controparte femminile e alcune situazioni topiche, come il saluto della donna. La dimensione simbolica In stretta relazione con quanto appena detto sulla “sacralizzazione” della figura di Beatrice, tutto ciò che accade nella Vita nuova si iscrive in un orizzonte non realistico ma simbolico. Almeno tre sono i campi simbolici, spesso tra di loro interconnessi, cui fa riferimento l’operetta dantesca: scritturali, astronomico-astrologici e numerologici. L’autore costruisce spesso analogie fra Cristo e Beatrice: in particolare l’incontro della fanciulla con Dante avviene all’ora in cui Cristo muore in croce (➜ T2 ); la visione profetica della morte di Beatrice rievoca lo sconvolgimento della terra alla morte del Salvatore (➜ T6 OL). Non è certo casuale l’insistenza sul numero nove: il numero nove deriva dal tre, che è il numero della Trinità. Dante e Beatrice si incontrano rispettivamente alla fine e all’inizio del loro nono anno di vita e nuovamente dopo nove anni (➜ T2 ); l’incontro avviene alle tre del pomeriggio; inoltre nel cap. VI Dante ricorda d’aver scritto, al tempo della prima donna-schermo, un’epistola in forma di sirventese

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sulle sessanta donne più belle di Firenze e nell’elenco Beatrice occupava la nona posizione. Ciò non deve certo stupire: la mente dell’uomo medievale legge l’universo in chiave simbolica e il numero, insieme ai nomi e ai colori fa parte del “sistema di segni” proprio dell’epoca (➜ SCENARI, PAG. 10).

online

Per approfondire Sogni e visioni nella cultura medievale

La dimensione visionario-profetica Nella Vita nuova ha inoltre un ruolo fondamentale la componente onirico-visionaria e profetica: sogni e visioni scandiscono i momenti salienti dell’esperienza narrata contribuendo in modo rilevante a sottrarla a una dimensione realistica e contingente per aprirla ad arcane significazioni. I sogni veri e propri presenti nel prosimetro sono due, collocati rispettivamente nel III capitolo («un soave sonno, ne lo quale m’apparve una meravigliosa visione» (➜ T2 ) e nel XII capitolo, quando Dante, dopo la negazione del saluto da parte di Beatrice, si ritira nella sua camera e s’addormenta. Già al primo sogno Dante tende ad attribuire carattere profetico (la morte di Beatrice), ma è la «mirabile visione» dell’ultimo capitolo (➜ T8 ) a costituire una vera e propria rivelazione: dopo l’esperienza dello sviamento, Dante contempla Beatrice ormai assunta nella gloria dei cieli, ritornata alla sede naturale da cui è discesa «per miracol mostrare» agli uomini. La visione induce il poeta a «non dire più», a interrompere la sua narrazione finché non in grado di «più degnamente trattare di lei». Le apparizioni stesse della donna della salute non sono certo casuali accadimenti, ma vere e proprie epifanie, apparizioni di una figura sacrale: importanti la prima (cap. II) e la seconda, nove anni dopo.

4 Le interpretazioni della Vita nuova La Vita nuova è un’opera complessa e misteriosa, frutto di un’esperienza insieme intellettuale e sentimentale, di vita e di poesia, connesse fra loro al punto di non essere distinguibili. Proprio per questo l’opera è stata diversamente interpretata e si può dire che ancora oggi non abbia rivelato del tutto il suo segreto. Tra autobiografia e simbolismo Non è sicuramente corretto leggere la Vita nuova come un romanzo autobiografico: se la figura del narratore (che ricostruisce la vicenda di Beatrice dopo la sua morte) e quella del protagonista della vicenda narrata possono essere ricondotte alla reale figura di Dante, le persone, a cominciare da Beatrice stessa, i luoghi, persino i nomi sfumano nell’indeterminatezza; dalla realtà vengono come filtrati pochi gesti e azioni, privati di ogni immediatezza realistica e iscritti in una dimensione irreale, rarefatta, sospesa. D’altra parte non si può neppure considerare la Vita nuova esclusivamente come un testo simbolico: al di sotto di una vicenda sottratta al tempo e allo spazio perché assurta a emblema universale, esiste una trama di vicende realmente vissute dal poeta, che non a caso nel Convivio definisce la sua operetta giovanile «fervida e passionata», quasi a rivendicarne la veridicità biografica.

Dante Gabriel Rossetti, Dantis Amor, 1860 (Londra, Tate Gallery).

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Un itinerario mistico a Dio? Secondo il dantista americano Charles S. Singleton (1909-1985), autore di un Saggio sulla Vita nuova (1958), per essere correttamente compresa, l’opera va ricollegata al misticismo medievale. In particolare, la svolta che ha come esito le «nove rime», secondo Singleton, ha affinità con la dottrina dell’amore mistico elaborata da Bernardo di Chiaravalle e Riccardo di San Vittore: l’amore che Dante scopre per Beatrice è l’amore proprio dei beati in cielo, che non mira a ricompense materiali, ma trova la sua beatitudine nella contemplazione e lode di Dio. Nella Vita nuova l’amore non è più la passione cortese dei trovatori, che pur ingentiliva l’animo, e non è neppure più l’amore degli stilnovisti. Guinizzelli e Cavalcanti cantavano la donna come miracolo e dono di Dio, ma l’amore era esclusivamente un processo discendente da Dio al poeta attraverso la donna, mentre il processo ascendente si arrestava alla donna. Era perciò inevitabile il conflitto tra l’amore per la donna e l’amore per Dio (cfr. a proposito l’ultima strofa di Al cor gentil di Guinizzelli). In Dante il conflitto è superato: il processo ascendente termina in Dio per il tramite della donna, la salute che proviene dal suo saluto è proprio la salvezza dell’anima e l’amore per la donna innalza l’anima fino alla contemplazione del divino. Dietro le apparenze di una vicenda d’amore, la Vita nuova narrerebbe dunque un’esperienza mistica, un itinerarium mentis in Deum (come quello descritto da san Bonaventura). Un’opera agiografica? Infine altri critici, come Alfredo Schiaffini (1895-1971) e Vittore Branca (1913-2004), hanno suggerito il richiamo a modelli agiografici, soprattutto alle vite di sante francescane, che farebbero della Vita nuova un’opera di consapevole edificazione cristiana, al di sotto delle parvenze di una vicenda amorosa. Una dimensione universale Comunque si voglia indirizzare l’interpretazione dell’opera, quello che è certo è che l’intento di presentare una narrazione esemplare allontana la Vita nuova dai propositi di confessione e sincerità che caratterizzano le autobiografie moderne. Il poeta inserisce la propria esperienza entro schemi simbolici che tendono a elevarla a una dimensione universale.

Vita nuova GENERE

prosimetro (un componimento misto di prosa e poesia)

METRICA

principalmente sonetti (venticinque), ma non mancano canzoni e altre forme metriche

STRUTTURA

quarantadue capitoli in prosa che includono trentadue testi poetici

CONTENUTO

racconto dell’esperienza d’amore per Beatrice; ma, pur ispirandosi alla vita reale, l’amore è rivissuto in chiave letteraria

SCOPO

lodare Beatrice senza volere nulla in cambio

STILE E LINGUA

• lingua volgare

COMPOSIZIONE

allestita tra il 1293 e il 1295

PUBBLICO

• stile raffinato

• sintassi piana

i "fedeli d’Amore"

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Dante Alighieri

T1

Il libro della memoria e la presentazione dell’opera Vita nuova, I

D. Alighieri Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Ricciardi, Milano-Napoli 1980

Nel brevissimo esordio dell’opera Dante enuncia gli intenti della Vita nuova e riconduce il libello entro l’immagine usuale del “libro della memoria”, mettendo subito in primo piano la dimensione autobiografica che è centrale nell’opera.

I. In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere1, si trova una rubrica2 la quale dice: Incipit vita nova3. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare4 in questo libello5; e se non tutte, almeno la loro sentenzia6. 1 In quella parte... leggere: il senso dell’intera espressione è: all’interno dei miei primi ricordi precisi. La memoria di Dante conserva poche tracce del tempo che precede la Vita nuova. 2 una rubrica: un titolo scritto in rosso, dal latino rubrum (rosso), proprio come

erano al tempo di Dante i titoli nei codici manoscritti. 3 Incipit vita nova: comincia la vita nuova. Il termine incipit ha significato strettamente tecnico: era la formula con cui si aprivano i libri medievali. Oggi usiamo ancora il termine latino come

sinonimo di “inizio” di un testo, le prime parole di esso (contrapposto a explicit che indica le parole finali di un testo). 4 assemplare: trascrivere, ricopiare. 5 libello: piccolo libro. 6 sentenzia: significato complessivo.

Analisi del testo L’autore e il libro della memoria L’immagine che apre la Vita nuova è quella del “libro della memoria”, in cui Dante rintraccia una particolare serie di eventi (legati all’innamoramento per Beatrice) che si accinge a narrare. Al tempo di Dante, per designare la memoria era abbastanza comune impiegare l’immagine metaforica del libro nel quale si legge. L’insieme dei termini con cui Dante presenta la sua opera appartengono tutti al campo semantico della scrittura e della produzione libraria («libro de la mia memoria, leggere, rubrica, Incipit, scritte, parole»); ciò che farà lo scrittore è identificato nell’attività dello scriba, del semplice copista (assemplare, ovvero “copiare”). Per contro, l’allusione alla sentenzia implica l’operazione di selezione “esemplare” dei dati biografici che l’autore compirà nell’opera per celebrare l’amore per Beatrice.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il proemio dell’opera. COMPRENSIONE 2. Qual è l’intento del poeta? ANALISI 3. Nel breve testo vengono usati il termine libro e libello: a che cosa rispettivamente si riferiscono? LESSICO 4. Rintraccia nel proemio i termini che appartengono al campo semantico della lettura e della scrittura. 5. Il breve testo contiene vari termini ancora in uso, ma con un significato diverso da quello attuale: indica il significato di questi termini nel testo di Dante e oggi (puoi consultare il vocabolario). rubrica; libello; sentenza/sentenzia; STILE 6. A quale tradizionale immagine metaforica ricorre il poeta fin dall’esordio? Individuala e poi spiegala attraverso una similitudine.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 7. Ripercorri in max 2 minuti le varie interpretazioni che sono state date della Vita nuova.

226 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Dante Alighieri

T2

Il primo saluto di Beatrice. Un sogno inquietante Vita nuova, III

D. Alighieri Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Ricciardi, Milano-Napoli 1980

1

Nel terzo capitolo della Vita nuova Dante rievoca il secondo incontro con Beatrice, esattamente nove anni dopo il primo (a sua volta avvenuto a nove anni: cap. II).

III [II]. Poi che fuoro passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima1, ne l’ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade2; e passando per una 5 via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso3, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo4, mi salutoe molto virtuosamente5, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno6; e però che7 quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei 10 orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti8, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puosimi9 a pensare di questa cortesissima. [iii] E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula10 di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso 15 aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé11, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus»12. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno13 leggeramente, la quale io riguardando molto intentivamente14, conobbi 20 ch’era la donna de la salute15, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum»16. E quando elli era stato alquanto17, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno18, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella 25 mangiava dubitosamente19. Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto20; e così piangendo, si ricogliea21 questa donna ne le sue

Poi che... gentilissima: dopo che furono trascorsi tanti giorni (die è latinismo) quanti erano necessari per compiere nove anni dopo la prima apparizione (apparimento) di Beatrice (definita, come molte altre volte in seguito, gentilissima). 2 di più lunga etade: maggiori d’età. 3 pauroso: timoroso, turbato. 4 meritata... secolo: «ricompensata nella vita eterna» (Contini). 5 mi salutoe molto virtuosamente: mi salutò (epitesi) in modo da esercitare su di me uno straordinario effetto. 6 nona di quello giorno: cominciando a contare le ore diurne dalle sei del mattino, l’ora del saluto corrisponde alle tre del pomeriggio.

7 però che: poiché. 8 mi partio da le genti: mi allontanai dalla folla. 9 puosimi: mi misi. 10 nebula: nuvola. 11 pareami... quanto a sé: l’immagine del misterioso personaggio ha tratti contraddittori (come spesso avviene nei sogni): incute paura, ma nondimeno il suo volto è lieto e sereno; pareami, “mi appariva”. 12 «Ego dominus tuus»: “Io sono il tuo signore”. 13 sanguigno: di color rosso. 14 molto intentivamente: con grande attenzione. 15 la donna de la salute: Beatrice, la don-

na del saluto (ma anche della salvezza: Dante gioca sull’ambiguità terminologica saluto-salute). 16 «Vide cor tuum»: “Guarda il tuo cuore”. 17 elli era stato alquanto: era rimasto fermo per un po’. 18 per suo ingegno: per la sua abilità, con ogni mezzo a sua disposizione. 19 la quale... dubitosamente: che essa mangiava con esitazione. Il motivo del cuore mangiato è assai diffuso nella cultura romanza e tornerà anche nel Decameron (IV, 9). 20 Appresso... pianto: dopo questo gesto non passava molto tempo che la sua letizia si trasformava in amarissimo pianto. 21 si ricogliea: prendeva.

La Vita nuova 2 227


braccia, e con essa mi parea che si ne gisse22 verso lo cielo; onde io sostenea23 sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere24, anzi si ruppe e fui disvegliato. E mantenente25 cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale 30 m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte26 stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte. Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire27 a molti li quali erano famosi trovatori28 in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima29, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale 35 io salutasse tutti li fedeli d’Amore30; e pregandoli che giudicassero31 la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: A ciascun’alma presa. Questo sonetto si divide in due parti; che ne la prima parte saluto e domando risponsione32, ne la seconda significo a che si dee rispondere33. La seconda parte 40 comincia quivi: Già eran. A ciascun’alma presa34 e gentil core nel cui cospetto35 ven lo dir presente36, in ciò che mi rescrivan suo parvente37, 4 salute in lor segnor38, cioè Amore. Già eran quasi che atterzate l’ore39 del tempo che onne stella n’è lucente, quando m’apparve Amor subitamente40, 8 cui essenza membrar mi dà orrore41. Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e ne le braccia avea 11 madonna involta in un drappo dormendo42. Poi la svegliava, e d’esto43 core ardendo lei paventosa umilmente pascea44: 14 appresso gir lo ne vedea piangendo45. 22 si ne gisse: se ne andasse. 23 onde io sostenea: per la qual cosa io provavo. 24 non poteo sostenere: non poté durare. 25 mantenente: subito. 26 la quarta della notte: ovvero tra le nove e le dieci di sera (dato che si iniziava a contare le ore della notte dalle sei del pomeriggio). 27 sentire: conoscere. 28 trovatori: poeti. 29 con ciò... per rima: dato che avevo già appreso per conto mio l’arte di poetare. Dante testimonia qui di aver iniziato molto presto a scrivere liriche. 30 li fedeli d’Amore: Dante definisce qui idealmente il pubblico stesso della Vita nuova, ovvero i poeti d’amore, coloro che conoscono l’esperienza amorosa (gli innamorati) e anche quelli che l’hanno cantata in poesia.

31 giudicassero: spiegassero. 32 risponsione: risposta. 33 ne la seconda... rispondere: nella seconda parte (a partire dalla seconda quartina, dove Dante inizia a narrare il sogno) dico a cosa si deve dare risposta (ovvero al significato del bianco sogno).

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDC CDC

34 A ciascun’alma presa: a ogni anima innamorata (catturata dall’amore). 35 cospetto: presenza. 36 lo dir presente: questa poesia (dir: “dire”). 37 in ciò... parvente: affinché mi dicano il loro parere. 38 salute in lor segnor: porgo un saluto nel nome del loro signore. È sottinteso

228 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri

un verbo reggente, come nella formula latina salutem dicere “salutare”. 39 Già eran... l’ore: era già quasi passato un terzo delle ore della notte (che, come detto, si riteneva iniziassero alle sei del pomeriggio). 40 subitamente: improvvisamente. 41 cui essenza... orrore: ricordare il cui aspetto mi dà (ancora) terrore. 42 dormendo: che dormiva (riferito alla donna); è gerundio con valore di participio presente (come gli altri nel sonetto: temendo, ardendo, “ardente”). 43 esto: questo (latino iste). 44 lei... pascea: in atteggiamento umile Amore nutriva (pascea) con il cuore di Dante la donna esitante (paventosa, latinismo da paveo, “temo”). 45 appresso... piangendo: in seguito, poco dopo, lo vedevo andare via (gir) piangendo.


A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie46; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici47, e disse48 allora uno sonetto, lo quale comincia: Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo fue quasi lo principio de l’amistà49 tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò man45 dato. Lo verace giudicio50 del detto sogno non fue veduto allora per alcuno51, ma ora è manifestissimo a li più semplici52.

46 sentenzie: pareri. 47 quelli... amici: si tratta di Guido Caval-

49 amistà: amicizia. 50 Lo verace giudicio: l’interpretazione

canti, uno dei poeti più importanti dello stilnovo. 48 disse: scrisse, compose.

esatta. 51 per alcuno: da alcuno (complemento d’agente: cfr. il francese par).

52 ma ora... semplici: ma ora è chiarissimo anche alle persone più sprovvedute. Dante ritiene che il sogno abbia voluto profetizzare la morte prematura di Beatrice.

Analisi del testo Il secondo incontro con Beatrice Durante il secondo incontro, per la prima volta Beatrice gli concede il suo saluto. Inebriato per la dolcezza provata, il giovane poeta si ritira nella solitudine della sua camera e si addormenta. In sogno ha una singolare visione, dai tratti così angosciosi da farlo risvegliare bruscamente. Compone allora un sonetto che ha per tema la visione stessa e decide di inviarlo ai maggiori poeti del tempo che fossero anche “fedeli d’Amore”, perché interpretassero il significato del sogno. Tra i vari poeti che accolsero la sua richiesta Dante ricorda in particolare Guido Cavalcanti: la loro amicizia nacque proprio in questa occasione.

La dimensione simbolica Le prime pagine della Vita nuova affascinano il lettore, restituendo la freschezza giovanile del testo e, in un certo senso, l’emozione. D’altra parte fin dall’inizio il racconto si proietta al di là di un’esperienza comune di vita, è quindi ben lontano dai caratteri di una narrazione diaristica. Basterebbe a provarlo l’insistenza, che anche il giovane lettore può cogliere immediatamente, sulla simbologia numerica, ricorrente nella cultura medievale. Nella prima apparizione di Beatrice (cap. II) Dante e la gentilissima hanno entrambi nove anni. Il numero si ripete nella seconda comparsa della giovane (di cui si parla appunto in questo capitolo): non solo sono passati esattamente nove anni dalla prima, ma il numero nove ricorre anche nell’ora in cui avviene il primo saluto di Beatrice e successivamente nell’ora in cui Dante ha il sogno misterioso. Non si tratta certamente di una coincidenza: Dante stesso in un capitolo successivo dell’opera (il XXIX) collegherà la figura “sacrale” di Beatrice al numero nove, che, essendo multiplo di tre, rimanda alla Trinità. Con la continua insistenza sul numero nove (che tornerà anche nella Commedia) Dante iscrive dunque consapevolmente fin dall’inizio quella che potrebbe sembrare una semplice vicenda d’amore in un orizzonte simbolico e metafisico. Contribuiscono a creare questa dimensione l’indeterminatezza antirealistica dei luoghi in cui si verifica l’“apparizione” della donna e la sottolineatura del colore della veste. Questa non viene descritta realisticamente, ma il gioco dei colori appare come elemento caratterizzante di una sorta di liturgia sacra (il rosso domina nella prima comparsa, il bianco nella seconda, ma rosso è nuovamente il panno che copre la donna nel sogno). Anche i colori avevano nel Medioevo significato simbolico. Contribuisce a intensificare la significazione “religiosa” dell’incontro, l’eco insistita di passi tratti dalle Sacre Scritture, che creano fin dall’inizio una sorta di equiparazione tra Cristo e Beatrice e ne sacralizzano quindi l’immagine. E, del resto, il nome stesso della gentilissima rimanda a una natura celeste: ella è «la Beatrice», colei che dona, come il suo nome promette, la beatitudine.

La Vita nuova 2 229


Il rapporto prosa-poesia Il capitolo III illustra con particolare evidenza il rapporto che intercorre nell’opera tra prosa e poesia e le due diverse funzioni esercitate dal commento in prosa, precedente e successivo alla poesia. Come si può facilmente notare, la parte introduttiva ricostruisce, con informazioni qui molto analitiche e ricche di notazioni anche di tipo psicologico, il contesto da cui è scaturito il sonetto, a cominciare dalla seconda apparizione della donna e dal suo saluto al poeta, che innesca la condizione emotiva da cui poi si origina il sogno. Nel sonetto si fa invece esclusivamente allusione al sogno, sinteticamente narrato, di cui si chiede l’interpretazione. Il commento che segue il sonetto si limita a una semplice (persino scontata) divisione del testo, ma introduce anche la preziosa informazione riferita a Guido Cavalcanti e all’inizio dell’amicizia tra i due poeti.

Il cuore mangiato Non bisogna dimenticare che nel testo sono operanti motivi propri della tradizione cortese: in particolare il motivo del “cuore mangiato”, che allude alla piena fusione tra l’innamorato e la donna amata. Mangiare il cuore di qualcuno simbolicamente vuol dire appropriarsi della sua anima.

Lo stile Nel capitolo emergono caratteristiche stilistiche che saranno poi ricorrenti in ampia parte del libello di Dante. Il ritmo della prosa è lento e fluido, funzionale a creare l’atmosfera sospesa, quasi fuori dal tempo, che domina nell’intera opera. Molto fitta, a livello lessicale, è la presenza di termini ed espressioni tipici del “codice” stilnovistico, in relazione a situazioni “topiche”, come il passare per via della donna, il suo saluto, il forte turbamento del poeta. Da notare la ricorrenza di superlativi, che proiettano la figura di Beatrice e il suo incontro con Dante in una dimensione straordinaria, quasi miracolosa: gentilissima, bianchissimo, dolcissimo, cortesissima.

Dante Gabriel Rossetti, Il saluto di Beatrice, 1859 (Ottawa, National Gallery of Canada).

230 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del capitolo dividendolo in tre sequenze: per ciascuna sequenza fai una breve sintesi (max 2-3 righe) e dai un titolo. COMPRENSIONE 2. Quali effetti ha su Dante il saluto di Beatrice? 3. A chi si rivolge Dante per avere spiegazione del sogno? Potrebbe aver alluso anche al pubblico ideale della Vita nuova? Chi gli risponde in particolare? Con quali termini Dante allude a questa persona? 4. Perché Dante qui utilizza superlativi e termini iperbolici (es. bianchissima, ineffabile, cortesissima)? ANALISI 5. L’incontro con Beatrice è contrassegnato da un clima volutamente sacro, reso anche dai frequenti ricorsi alla simbologia (numeri, colori, nome stesso dell’amata ecc.). Ricerca nel testo gli elementi simbolici riferiti all’apparizione di Beatrice e poi completa una tabella come questa, spiegandone per ciascuno il valore simbolico (l’esercizio è già avviato). simbologia

esempi

significato simbolico

numero nove

li nove anni

il numero nove è il quadrato di tre (già numero trinitario, simbolo di perfezione): indica il miracolo.

LESSICO 6. In particolare nella prima parte del capitolo, in cui si narra del secondo incontro tra Dante e Beatrice, si addensano molti termini che appartengono alla costellazione linguistica dello stilnovo, che Dante stesso contribuì a creare. Identificali e trascrivili.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. Il tema del saluto è centrale in questo passo della Vita nuova: confronta il «dolcissimo salutare» di Dante con la nota terzina guinizzelliana del sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare che hai già studiato (➜ C4 T12 ). Evidenzia in una tabella come questa analogie e differenze, prestando attenzione agli elementi di novità introdotti. analogie

differenze

Dante, Vita nuova, III «e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine.» Guido Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare (vv. 9-11) «Passa per via adorna, e sì gentile / ch’abassa orgoglio a cui dona salute / e fa ’l de nostra fé se non la crede.» COMPETENZA DIGITALE 8. Svolgi in internet una ricerca sul motivo del cuore mangiato, un topos della letteratura, non solo cortese. Dopo esserti documentato, prova a domandarti se ancora oggi questo motivo sia stato ripreso in qualche forma d’arte (letteratura, cinema, pittura, musica ecc.).

online T3 Dante Alighieri

Il gioco degli sguardi. Schermaglie cortesi Vita nuova, V

La Vita nuova 2 231


Dante Alighieri

T4

Donne ch’avete intelletto d’amore Vita nuova, XIX

D. Alighieri Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Ricciardi, Milano-Napoli 1980

La negazione del saluto da parte di Beatrice (e la conseguente disperazione del poeta) costituisce la premessa per la radicale svolta interiore, ma soprattutto poetica (una vera e propria “conversione”), che porta Dante a comporre le «rime della loda»: una svolta siglata dalla celebre canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, alla quale Dante stesso, a distanza di anni, attribuirà un ruolo chiave non solo nel suo personale itinerario poetico ma anche, e soprattutto, nella definizione del “dolce stile” a cui ritiene di aver dato un contributo fondamentale. Nella canzone Dante imbocca, come per improvvisa ispirazione, la strada dell’esaltazione estatica, del tutto disinteressata, della donna amata.

XIX. Avvenne poi che passando per uno cammino1 lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto2, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse3; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine4. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa5, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento6, onde poi, ritornato a la sopradetta cittade7, pensando alquanti die8, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione9. La canzone comincia: Donne ch’avete. Donne ch’avete intelletto d’amore10, i’ vo’ con voi de la mia donna dire11, non perch’io creda sua laude finire12, ma ragionar per isfogar la mente13.

Io dico che pensando il suo valore14, Amor sì dolce15 mi si fa sentire16, che s’io allora non perdessi ardire17, farei parlando innamorar la gente. E io non vo’ parlar sì altamente, 10 ch’io divenisse per temenza vile18; ma tratterò del suo stato gentile a respetto di lei leggeramente19, donne e donzelle amorose, con vui, ché non è cosa da parlarne altrui. 5

1 2

cammino: strada. sen gia... chiaro molto: scorreva un ruscello limpidissimo. 3 lo modo ch’io tenesse: pensare, alla tecnica poetica, con cui esprimermi. 4 e pensai... femmine: e pensai che non fosse opportuno parlare di lei direttamente, ma che fosse necessario rivolgermi indirettamente (usando dunque la seconda persona) ad altre donne, ma non certo a donne qualsiasi (femmine) bensì esclusivamente alle donne gentili. 5 come per sé stessa mossa: come se si muovesse da sola.

6

Queste parole... cominciamento: io impressi nella mia memoria queste parole pensando di utilizzarle come inizio (cominciamento) di una composizione poetica. 7 la sopradetta cittade: Firenze. 8 die: giorni (latinismo). 9 divisione: illustrazione della struttura del testo. (Dante allude al commento retorico che segue la lirica, in questo come in molti altri casi).

La metrica Canzone di cinque strofe, costituite ciascuna di 14 endecasillabi, con schema metrico ABBC ABBC CDD CEE

232 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri

10 Donne ch’avete intelletto d’amore: O donne che comprendete (per esperienza personale e capacità) la natura dell’amore. 11 con voi de la mia donna dire: parlare con voi della mia donna. 12 non perch’io... finire: non perché pensi di esaurire la sua lode (in questi miei versi). Il motivo della sproporzione tra la perfezione della donna e i limiti del poeta che la esalta costituisce un topos molto diffuso nella poesia cortese e stilnovista. 13 ragionar... la mente: (sott. “intendo” con ellissi del verbo reggente) parlarne (ragionar) per dar sfogo a quanto ho dentro di me. 14 valore: qui sinonimo di “doti”. 15 sì dolce: così dolcemente. “Dolce” usato con valore avverbiale. 16 mi si fa sentire: viene percepito da me. 17 ardire: coraggio. 18 E io... vile: e (d’altra parte) non voglio parlare di lei con uno stile così elevato che mi renda timoroso per la preoccupazione di non essere all’altezza del compito. 19 a respetto di lei leggeramente: in modo superficiale rispetto al suo reale valore. Leggeramente potrebbe forse anche alludere al trobar leu in contrapposizione al trobar clus proprio di poeti come Arnaut Daniel e, in Italia, di Guittone.


Angelo clama in divino intelletto20 e dice: «Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l’atto che procede d’un’anima che ’nfin qua su risplende»21. Lo cielo, che non have altro difetto 20 che d’aver lei, al suo segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede22. Sola Pietà nostra parte difende, che parla Dio, che di madonna intende23: «Diletti miei, or sofferite in pace 25 che vostra spene sia quanto me piace là ’v’è alcun che perder lei s’attende, e che dirà ne lo inferno: O mal nati, io vidi la speranza de’ beati»24. 15

Madonna è disiata in sommo cielo25:

or voi di sua virtù farvi savere26. Dico, qual vuol gentil donna parere27 vada con lei, che quando va per via, gitta nei cor villani28 Amore un gelo, per che onne lor pensero agghiaccia e pere29; 35 e qual soffrisse di starla a vedere30 diverria nobil cosa, o si morria31. E quando trova alcun che degno sia di veder lei, quei prova sua vertute, ché li avvien, ciò che li dona, in salute, 40 e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia32. Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato che non pò mal finir chi l’ha parlato33. 30

20 Angelo… in divino intelletto: un angelo implora Dio (letteralmente “reclama” presso Dio). 21 «Sire... risplende»: «Signore, sulla terra si vede un miracolo in atto che deriva da un’anima (quella di Beatrice) che risplende fino al cielo». 22 Lo cielo... merzede: il paradiso, a cui non manca nulla se non la presenza di Beatrice, la richiede a Dio e ciascun santo chiede la grazia di averla. 23 Sola Pietà... intende: soltanto la pietà (di Dio) difende la causa di noi uomini, perché Dio, riferendosi a Beatrice, dice... 24 «Diletti miei... de’ beati»: «Miei diletti (i santi e gli angeli), tollerate in pace che la vostra speranza (Beatrice) rimanga ancora per quanto tempo vorrò sulla terra, do-

ve c’è qualcuno che si aspetta di perderla (Dante stesso) e che nell’inferno (se mai dovesse andarci) dirà “O dannati, io ho visto la speranza dei beati”». 25 Madonna... in sommo cielo: Madonna (Beatrice) è desiderata nell’alto dei cieli. 26 or voi... farvi savere: ora voglio che conosciate attraverso le mie parole la sua virtù. Nella Vita nuova vale “capacità di operare straordinari effetti”. 27 qual vuol... parere: qualunque donna vuole apparire gentile. 28 cor villani: scortesi (in opposizione a gentili). 29 per che... pere: a causa del quale (gelo) ogni loro pensiero si raggela e perisce. 30 qual soffrisse... vedere: chiunque avesse la forza di stare a guardarla.

31 diverria... o si morria: diverrebbe nobile (d’animo) o morirebbe. L’iperbole sottolinea il tema, centrale in questa strofa, degli effetti nobilitanti e salvifici che la donna produce in chi anche solo la guarda. 32 E quando... oblia: e quando trova qualcuno degno di guardarla, costui (quei) sperimenta (prova) il suo valore, perché ciò che ella gli dona si trasforma (avvien) in salvezza, ed ella lo rende tanto mite che dimentica ogni offesa. 33 Ancor l’ha... parlato: Dio inoltre le ha concesso per maggior grazia che nessuno che le abbia parlato può finire male (ovvero essere dannato).

La Vita nuova 2 233


Dice di lei Amor: «Cosa34 mortale come esser pò sì adorna e sì pura?».

Poi la reguarda, e fra se stesso giura che Dio ne ’ntenda di far cosa nova35. Color di perle ha quasi, in forma quale convene a donna aver, non for misura: ella è quanto de ben pò far natura36; 50 per essemplo di lei bieltà si prova37. De li occhi suoi, come ch’ella li mova, escono spirti d’amore inflammati, che feron li occhi a qual che allor la guati, e passan sì che ’l cor ciascun retrova38: 55 voi le vedete Amor pinto nel viso39, là ’ve non pote alcun mirarla fiso40. 45

Canzone, io so che tu girai parlando a donne assai, quand’io t’avrò avanzata41. Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata

per figliuola d’Amor giovane e piana42, che là ’ve giugni tu diche pregando43: «Insegnatemi gir, ch’io son mandata a quella di cui laude so’ adornata»44. E se non vuoli andar sì come vana, 65 non restare ove sia gente villana: ingegnati, se puoi, d’esser palese solo con donne o con omo cortese, che ti merranno là per via tostana45. Tu troverai Amor con esso lei46; 70 raccomandami a lui come tu dei47. 60

34 Cosa: creatura. 35 cosa nova: qualcosa di prodigioso, di mai visto. 36 è... natura: è il massimo della perfezione che possa produrre la natura. 37 per essemplo... si prova: la bellezza assoluta si misura sul suo esempio (rispetto a lei come parametro). 38 De li occhi... retrova: dai suoi occhi, non appena li muove, escono fiammeggianti spiriti d’amore che feriscono gli occhi a chiunque allora la guardi, e penetrano in modo tale che ciascuno di essi raggiunge il cuore. Si avverte nella rappresentazione un’evidente eco cavalcantiana (ad es. Voi che per li occhi mi passaste ’l core ➜ C4 T13 ). Il percorso dell’innamoramento qui

descritto è tradizionale secondo il tragitto che dagli occhi della donna attraverso gli occhi del poeta penetra nel cuore. 39 pinto nel viso: dipinto nello sguardo. 40 là ’ve... mirarla fiso: là (cioè negli occhi) dove nessuno può guardarla fisso. 41 Canzone... avanzata: il poeta si rivolge, nel congedo alla sua stessa composizione, esprimendo la certezza che quando egli l’avrà resa pubblica (quand’io t’avrò avanzata) la canzone verrà conosciuta da molte donne. 42 perch’io... giovane e piana: dato che io ti ho cresciuta come figlia d’Amore giovane e soave, gentile. Il poeta allude qui metaforicamente ai caratteri della sua poesia.

234 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri

43 che là ’ve... pregando: che là dove tu giungerai dica pregando. 44 «Insegnatemi... adornata»: «Indicatemi la strada, perché io sono mandata a colei della cui lode sono adornata» (ovvero Beatrice). 45 E se non vuoli... via tostana: e se non vuoi compiere un cammino vano, non fermarti presso persone scortesi: cerca, se puoi, di farti conoscere solo da donne o uomini cortesi, che ti condurranno da Beatrice per la via diretta, più breve (tostana). 46 con esso lei: con lei. 47 dei: devi (fare).


Analisi del testo La struttura e i contenuti Nella prima strofa della canzone, cui Dante stesso nel commento che segue la lirica assegna una funzione proemiale, il poeta si rivolge alle donne gentili che sono in grado di comprendere chi parla d’amore e possono quindi intendere la lode che il poeta rivolge a Beatrice. Nella seconda parte della strofa Dante introduce un’importante dichiarazione di poetica: lo stile che userà non sarà difficile e astruso, ma volutamente semplice, umile. Nella seconda strofa, come nella celebre canzone di Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore, la scena si trasferisce dalla terra al cielo, dimora elettiva di Beatrice. Nella strofa domina il discorso diretto: rispettivamente di un angelo, che a nome di tutti i santi e degli angeli reclama presso Dio la presenza di Beatrice nel cielo, e di Dio stesso, che invita i suoi diletti (i santi e gli angeli, appunto) ad attendere con pazienza per tutto il tempo in cui Egli deciderà di lasciare Beatrice sulla terra, dove c’è qualcuno (Dante stesso) che teme di perderla presto. Nella terza strofa comincia (e si protrarrà nella successiva) la lode di Beatrice, la descrizione, attraverso l’insistito uso dell’iperbole, dei suoi miracolosi poteri: anche solo attraverso uno sguardo o una semplice parola, la “donna della salute” produce straordinari effetti morali sugli uomini. Ritroviamo nei versi di Dante la fenomenologia degli effetti d’amore propria della poesia stilnovista. Nella quarta strofa continua la lode della donna, incentrata soprattutto sulla bellezza fisica, seppur rappresentata nei modi stilizzati e secondo immagini stilnovistiche, in particolare cavalcantiane (come gli spiriti d’amore che hanno la loro sede negli occhi dell’amata e raggiungono facilmente il cuore). Nell’ultima strofa (il cosiddetto “congedo” della canzone) il poeta si rivolge alla sua stessa composizione nel momento in cui si accinge ad affidarla ai lettori. Dante utilizza questo spazio convenzionale per sottolineare la destinazione della sua poesia, e in particolare quella delle “rime della loda”: la natura dell’amore per Beatrice esclude dal contatto con questa poesia ogni persona che non sia gentile e cortese.

Una dichiarazione di poetica Nella breve prosa che precede la canzone e nella prima strofa di essa Dante introduce in modo indiretto precise notazioni di poetica relative alla nuova poesia a cui da quel momento in poi darà voce. Le osservazioni in prosa ricostruiscono la situazione, il contesto da cui traggono origine le «nove rime» (così sono definite in Pg XXIV): la nuova poesia non è costruita intellettualisticamente a tavolino, non è solo ars, ma è soprattutto frutto (almeno così Dante vuole farci credere) di un’irrefrenabile necessità interiore («a me giunse tanta volontade di dire»). Il poeta arriva ad annullare il proprio ruolo: non è lui che compone, ma è Amore che «ditta», ed egli è semplicemente il tramite attraverso cui Amore parla («la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa»). Anni dopo, nel riferimento abbastanza enigmatico alle «nove rime» contenuto nel canto XXIV del Purgatorio, si può dire che Dante chiosi se stesso, postilli le sue stesse affermazioni. Rispondendo al poeta Bonagiunta Orbicciani da Lucca (un rappresentante della scuola di transizione fra siciliani e stilnovisti) che gli chiede se è veramente colui che diede inizio con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore a una nuova forma di poesia, Dante risponde significativamente: «I’mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro / vo significando», versi che possono essere correttamente interpretati solo se ci si rifà al cap. XIX della Vita nuova. Quanto alla prima strofa della canzone, Dante definisce il pubblico ideale (le donne gentili che conoscono l’amore elevato); il soggetto della poesia (la donna amata); la funzione e i limiti della poesia (il poeta vuole dare sfogo a ciò che ha dentro e sa bene che la sua poesia non potrà in alcun modo esaurire la lode di Beatrice); e lo stile: Dante rifiuta per questo tipo di poesia lo stile sublime, forse anche in rapporto alle aspettative del pubblico. Peraltro la scelta dell’endecasillabo – che Dante considera proprio dello stile “tragico” e adatto ad argomenti “alti” (De vulgari eloquentia, II, XII, 3) – ci testimonia l’importanza che egli attribuiva a questo testo programmatico.

La realizzazione del «dolce stil novo» Nel passo sopra citato del Purgatorio per definire il “nuovo stile” che egli inaugura con la canzone Donne ch’avete, Dante userà la celebre espressione «dolce stil novo», a cui la critica sarebbe ricorsa in seguito per identificare il gruppo di poeti a cui Dante aveva preso parte; ma è bene precisare che egli utilizza l’espressione per riferirsi in particolare alla sua poesia. La “dolcezza” dello stile a cui Dante si riferisce nell’incontro con Bonagiunta da Lucca, la voluta rinuncia a uno stile troppo alto, enunciato nella prima strofa, programmatica, della canzone,

La Vita nuova 2 235


sono realizzati concretamente attraverso una serie di scelte che investono il piano sintattico, lessicale, fonico, retorico e ritmico: • la sintassi non è appesantita da un uso eccessivo di subordinate e di inversioni; • la scelta delle parole tiene debito conto del loro effetto fonico e vengono quindi accuratamente evitati suoni aspri. Pochissimi sono i latinismi (es. laude, clama) e anche i termini che appartengono al lessico specialistico della tradizione provenzale-siciliana (es. merzede, bieltà); • le pause sintattiche coincidono in genere con le pause metriche, conferendo alla canzone un ritmo piano e regolare. Allo stesso risultato concorre la disposizione regolare e simmetrica degli accenti dell’endecasillabo (posizione 1, 4, 7, 10 Dòn|ne|ch’a|vé|tein|tel|lèt|to|d’a|mò|re); • le figure retoriche sono usate in modo parco e rimandano a un codice convenzionale immediatamente decifrabile dai lettori: ad es. la consueta personificazione dell’Amore e le usuali metafore della fiamma («spiriti... infiammati») e della ferita («feron li occhi»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1 Fai la parafrasi della I e della IV strofa. ANALISI 2 Nelle strofe III e IV si sviluppa la lode vera e propria di Beatrice: rintraccia nel testo i termini e le espressioni che fanno riferimento ai due momenti della lode e sintetizzali in una tabella come questa. lode delle virtù interiori

lode delle qualità fisiche

v. ......................................................................................

v. ......................................................................................

LESSICO 3 Nell’ultima strofa (congedo) il poeta si rivolge alla composizione stessa. Rintraccia, trascrivi e commenta brevemente i termini e le espressioni che identificano la tipologia di pubblico a cui Dante intende rivolgersi. 4 Nella canzone ricorrono termini che rimandano al vocabolario amoroso della poesia stilnovistica: indica il significato che assumono in questa canzone e, più in generale, nella poesia stilnovistica questi termini. valore (v. 5) ����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� vile (v. 10) �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� gentile (v. 11), gentil (v. 31) ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������ virtù (v. 30) ����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� villani (v. 33) �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� nobil (v. 36) ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� salute (v. 39) �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� cortese (v. 67) ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5 Metti a confronto la seconda strofa di Donne ch’avete intelletto d’amore e l’ultima della canzone di Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore (➜ C4 T11 ): quali analogie e quali differenze noti? Prevalgono le affinità o le differenze fra i due testi? affinità o analogie

differenze

Donne ch’avete intelletto d’amore (II strofa) Al cor gentil rempaira sempre amore (ultima strofa) SCRITTURA 6 Spiega in un testo di 20 righe circa il ruolo chiave della canzone: a. nell’evoluzione della poetica di Dante; b. nella definizione delle caratteristiche generali che Dante attribuisce allo stilnovo.

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Dante Alighieri

T5

Tanto gentile e tanto onesta pare Vita nuova, XXVI

D. Alighieri, Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Ricciardi, Milano-Napoli 1980

AUDIOLETTURA

ANALISI INTERATTIVA

La forma enunciativa della lode non è un tratto originale di Dante, ma è comune ad altri poeti dello stilnovo. Unica, sicuramente è però l’essenzialità, la purezza di forme, la musicalità che la lode della donna amata conosce in questo sonetto di Dante, non solo tra i testi più celebri del poeta fiorentino ma uno dei vertici della poesia italiana di ogni tempo.

Questa gentilissima donna1, di cui ragionato è ne le precedenti parole2, venne in tanta grazia de le genti3, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea4. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di 5 rispondere a lo suo saluto5; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo credesse6. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia7. Diceano molti poi che passata era: «Questa non è femmina8, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente 10 sae adoperare!9». Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri10, che quelli che la miravano comprendeano11 in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridicere non lo sapeano12; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare13. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente14: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua 15 loda15, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni16; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere17. Allora dissi18 questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.

1 Questa gentilissima donna: Beatrice, qui designata con il consueto aggettivo al superlativo. 2 ragionato.. parole: si è parlato nei capitoli precedenti. 3 venne... de le genti: ottenne tale ammirazione presso la gente, le persone. 4 onde... me ne giungea: per cui me ne derivava straordinaria gioia. 5 quando... suo saluto: quando si trovava vicino a qualcuno, nel cuore di quello perveniva tanta nobiltà d’animo che non osava guardarla, né rispondere al suo saluto. 6 di questo... credesse: di quanto asserisco, molti, per averlo sperimentato personalmente, potrebbero testimoniare per me agli increduli. 7 Ella coronata... udia: Ella andava, ornata di umiltà, senza mostrare alcuna vanagloria (nulla gloria), alcuna superbia di ciò che vedeva e udiva. 8 non è femmina: non è una donna comune.

9 Questa... adoperare!: Questo è un miracolo, benedetto sia il Signore, che sa (sae) compiere cose così meravigliose! 10 piaceri: bellezze, virtù. 11 comprendeano: accoglievano. 12 ridicere non lo sapeano: non sapevano esprimerlo a parole. 13 né alcuno era... sospirare: e non c’era nessuno che potesse guardarla senza essere dall’inizio obbligato a sospirare. 14 da lei... virtuosamente: derivavano dalla potenza che emanava da lei. 15 volendo ripigliare... la sua loda: volendo riprendere lo stile poetico della lode di lei. 16 propuosi... operazioni: decisi di scrivere versi nei quali facessi capire i miracoli operati da lei. 17 acciò che... intendere: affinché non solo le persone che la potevano vedere con i loro occhi, ma (anche) gli altri sappiano di lei ciò che le parole possono far capire. 18 dissi: composi.

Odilon Redon, Beatrice, pastello su carta, 1885 (collezione privata).

La Vita nuova 2 237


Tanto gentile e tanto onesta pare19 la donna mia20 quand’ella altrui saluta21, ch’ogne lingua deven tremando muta, 4

e li occhi no l’ardiscon di guardare22.

Ella si va23, sentendosi laudare, benignamente d’umiltà vestuta24; e par25 che sia una cosa26 venuta 8

da cielo in terra a miracol mostrare27.

Mostrasi sì piacente28 a chi la mira, che dà per li occhi una dolcezza al core29, 11

che ’ntender no la può chi no la prova30:

e par che de la sua labbia31 si mova un spirito soave pien d’amore, 14

che va dicendo a l’anima: Sospira.

La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDE EDC 19 Tanto gentile... pare: tanto nobile (in senso spirituale) e piena di decoro (di dignità, onesta; latinismo) si manifesta (pare; latinismo, dal verbo pareo). Come afferma il critico Contini, questi tre vocaboli hanno un’accezione completamente diversa rispetto alla lingua contemporanea. 20 la donna mia: la mia signora (dal latino domina). 21 quand’ella altrui saluta: nel suo saluto (letteralmente “quando saluta qualcuno”).

22 ch’ogne lingua... guardare: che ogni lingua tremando ammutolisce e gli occhi non hanno il coraggio di guardarla. Il tremore, l’impossibilità di parlare di fronte all’apparizione della donna sono motivi ricorrenti soprattutto nella poesia di Cavalcanti: ➜ C4 T14 Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira . 23 Ella si va: ella avanza, procede. 24 benignamente d’umiltà vestuta: benevolmente adorna (vestuta è sicilianismo per “vestita”) di umiltà. 25 par: riprende il pare del verso 1: non significa semplicemente “sembra” ma,

come suggerisce il critico Contini, “appare in piena evidenza” e reca in sé l’idea dell’apparizione di un essere soprannaturale. 26 una cosa: una creatura. 27 a miracol mostrare: per dimostrare la potenza miracolosa di Dio. 28 sì piacente: così dotata di bellezza. 29 dà per li occhi... al core: attraverso gli occhi riversa nel cuore una dolcezza. 30 che...prova: che non può essere compresa da chi non ne fa esperienza. 31 labbia: labbra (sineddoche per “volto”).

Analisi del testo L’attitudine contemplativa Il sonetto costituisce la realizzazione più coerente e stilisticamente perfetta della poetica delle “nove rime”, incentrata sulla celebrazione estatica della donna amata, teorizzata da Dante in Donne ch’avete intelletto d'amore (➜ T4 ). Più che un’attitudine descrittiva, come è tipico della “lode”, si manifesta nel sonetto un’attitudine contemplativa, in stretta relazione con il nuovo atteggiamento di Dante nei confronti della “gentilissima” dopo la svolta psicologico-poetica di Donne ch’avete intelletto d'amore: per il poeta la donna è ormai un’icona del divino, che si manifesta temporaneamente sulla terra tramite la sua apparizione. Di fronte a questa “epifania” sconvolgente non c’è più posto per l’analitica descrizione degli effetti d’amore: il poeta non è più co-protagonista di un dramma amoroso e il suo sguardo non è più rivolto su di sé, ma ormai contempla, da attonito spettatore, lo strumento stesso della Provvidenza divina. La donna è ora – se possibile – ancora più distante; lontana, nella sua perfezione, dal poeta, che ne canta la bellezza e la virtù rinunciando ormai a ogni sua rappresentazione fisica. Addirittura la dolcezza che egli prova non si esprime più in parole, ma in un sospiro amoroso: un sospiro che traduce la constatazione dell’“ineffabilità”, cioè l’impossibilità di esprimere una bellezza e perfezione sovrumane.

238 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Gli echi e le fonti Nel sonetto si ravvisano molteplici influenze: innanzitutto quella di Guinizzelli (si veda in particolare Io voglio del ver la mia donna laudare), di cui Dante riprende la situazione del passaggio della donna tra gli uomini e il tema del saluto, oltre al termine chiave pare del v. 1. Il carattere sconvolgente dell’apparizione (che fa ammutolire tremando chi assiste ad essa), ma anche la centralità degli occhi nel flusso che muove dalla donna a chi le sta intorno («che dà per li occhi...» v. 10), rimandano al repertorio cavalcantiano (in particolare ➜ C4 T14 Chi è questa che vèn), ma la situazione è qui molto diversa: alla drammaticità della poesia cavalcantiana, agli effetti angosciosi e distruttivi dell’amore si sostituisce qui la dolcezza, la pienezza di un amore che è già elevazione dalla terra al cielo, dal sé al Creatore, grazie a una figura femminile che è più soprannaturale che terrena. A conferire un clima sacrale alla scena contribuisce, come è stato scritto, l’eco nel sonetto di passi evangelici (in particolare dal Vangelo di Giovanni), nella descrizione dell’incedere di Beatrice tra la gente e dei miracolosi effetti prodotti dalla sua presenza e dal suo saluto.

Una prova altissima del “dolce stile” Questa lirica costituisce la più felice ed emblematica testimonianza del “dolce stile”: il lessico è piano, caratterizzato da una sostanziale “medietà” e le rime sono facili. Il sonetto è dominato da un ritmo particolarmente lento e fluido, che traduce sul piano poetico l’attitudine contemplativa di cui sopra si è detto, creando un’atmosfera di estatico rapimento, di immobilità sospesa fuori dal tempo. Concorre in modo rilevante a creare questo effetto la frequenza (tre occorrenze) e la forte rilevanza del verbo par/pare. Il significato del verbo, come ha sottolineato la celebre lettura critica di Gianfranco Contini, è quello di «apparire con evidenza»; un verbo statico dunque, legato all’apparizione soprannaturale della donna, emissaria del divino. La medesima valenza ha il verbo sinonimico Mostrasi (“si mostra”), particolarmente enfatizzato dalla posizione incipitale (v. 9, all’inizio della prima terzina) in cui il poeta lo ha collocato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1 Sintetizza il contenuto del sonetto in non meno di 10 righe e indicane il tema fondamentale. COMPRENSIONE 2 Quali effetti produce il saluto di Beatrice? Motiva la tua risposta facendo riferimento al testo e al significato etimologico del verbo salutare. 3 Quale topos cortese è presente al v. 10? ANALISI 4 Sottolinea nel sonetto i due versi che descrivono il tema dell’ineffabilità della bellezza della donna. A quale poeta e componimento che hai già studiato si può ricollegare questa tematica? LESSICO 5 Ricerca e trascrivi i termini o le espressioni che fanno di Beatrice una “figura sacrale”. STILE 6 I termini che Dante sceglie di far rimare ai vv. 1, 4, 5, 8, possono essere messi in rapporto al tema fondamentale del sonetto e all’atmosfera poetica in esso dominante? In che modo? 7 Quale figura retorica è utilizzata nell’espressione d’umiltà vestuta (v. 6)?

Interpretare

online T6 Dante Alighieri

SCRITTURA 8 Confronta il sonetto dantesco con un altro sonetto canonico “di lode”: Io voglio del ver la mia donna laudare di Guinizzelli (➜ C4 T12 ). Quale ti sembra l’apporto originale di Dante? Spiegalo in un breve testo di max 15 righe, mettendo in luce punti di contatto e differenze.

La morte di Beatrice: tra fantasia e realtà Vita nuova, capp. XXIII e XXVIII passim

online T7 Dante Alighieri

Un nuovo sogno sconfigge la tentazione della “donna gentile” Vita nuova, cap. XXXIX

online

Verso il Novecento Lo stilnovismo montaliano e la figura femminile dell'«angelo visitante»

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Gianfranco Contini Una celebre lettura di Tanto gentile e tanto onesta pare G. Contini Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante, [1947], ora in Un’idea di Dante, Einaudi, Torino 1970

Il grande filologo e critico Gianfranco Contini (1912-1990) ha fatto una lettura del sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare che è divenuta giustamente celebre e su cui anche noi ci soffermiamo per due ragioni essenziali: innanzitutto perché è rivolta idealmente proprio agli studenti e poi perché costituisce un saggio esemplare di analisi filologica di un testo, in questo caso antico e quindi ancora più bisognoso – come Contini dimostra – di un’attenta interpretazione, senza la quale si rischia di cadere in errore. Infatti, solo in apparenza il sonetto di Dante è di facile lettura: in realtà quasi nessuna parola del testo ha un significato corrispondente nella lingua attuale, ed è quindi assolutamente necessario utilizzare sussidi linguistici adeguati per poterne comprendere correttamente il senso.

Non parrebbe che ci fosse bisogno di giustificare la scelta dell’esemplare1: considerato tipico della lirica di Dante, o più esattamente della fase stilnovistica della 5 sua lirica giovanile, e come tale mandato a memoria2 da ogni italiano mediocremente colto fin dai suoi anni liceali. Ora noi ambiremmo a che questo esercizio d’interpretazione cadesse specialmente sotto occhi liceali; sì che, entrando nella memoria, questa poesia vi s’imprimesse con un significato diverso da quello che di solito ritiene3. Passa per il tipo di componimento linguisticamente limpido, che 10 non richiede spiegazioni, che potrebbe “essere stato scritto ieri”; e si può dire invece che non ci sia parola, almeno delle essenziali, che abbia mantenuto nella lingua moderna il valore dell’originale. Si pone dunque, anzitutto, un problema di esegesi letterale, anzi lessicale. [...] Ben tre vocaboli del primo verso stanno in tutt’altra accezione4 da quella della lin15 gua contemporanea. Gentile è ‘nobile’, termine tecnico del linguaggio cortese; onesta, naturalmente latinismo5, è un suo sinonimo, nel senso però del decoro esterno [...]; più importante, essenziale anzi, determinare che pare non vale già ‘sembra’, e neppure soltanto ‘appare’, ma ‘appare evidentemente, è o si manifesta nella sua evidenza’. Questo valore di pare, parola-chiave, ricompare nella seconda quartina 20 e nella seconda terzina, cioè, in posizione strategica, in ognuno dei periodi di cui si compone il discorso del sonetto. Sembra assente dalla prima terzina, ma solo perché essa si inizia con l’equivalente Mostrasi, il quale riprende l’ultima parola della seconda quartina: non si scordi che il sonetto è una strofe di canzone, in cui le quartine sono i piedi della fronte, le terzine le volte della sirma; e concluderemo 25 che un tal collegamento tra fronte e sirma è quello medesimo che s’incontra con

1 la scelta dell’esemplare: Contini si riferisce al testo che ha scelto per la sua analisi: appunto Tanto gentile e tanto onesta pare. 2 mandato a memoria: imparato a memoria (per lo meno ai tempi in cui Contini scrive il saggio, ovvero nell’immediato dopoguerra).

3 Ora noi ambiremmo... ritiene: Contini auspica che la sua interpretazione del sonetto di Dante vada letta soprattutto da studenti liceali che memorizzino il testo e il suo significato in modo corretto (diversamente da come di solito avviene).

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accezione: significato. onesta... latinismo: honestus e honestas in latino alludono alla nobiltà dei gesti, al decoro del portamento.


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tanta frequenza tra le strofi della canzone arcaica (coblas capfinidas6 in provenzale), mettiamo la celeberrima Al cor gentil del Guinizzelli. Questo ci ha permesso di metter la mano sul concetto strutturalmente capitale del componimento. Proseguendo, s’avrà minor occasione di scoperte. Ma è opportuno segnare che donna ha esclusivamente il suo significato primitivo di ‘signora (del cuore)’, è insomma un termine con desinenza femminile puramente grammaticale, in cui il genere non segna opposizione (si pensa alla poesia portoghese del tempo, dove si può apostrofare col maschile senhor l’amata, si pensa al provenzale midons); per ‘donna’ la prosa-commento della Vita Nuova usa, in opposizione ad angeli, femmina. [...]. Piacente (che del resto è l’occitanico plazen) non significa la semplice gradevolezza soggettiva per il contemplante: come tutto insiste sulla manifestazione delle qualità [...], così piacente allude a un attributo oggettivo in quanto si palesa, ‘fornita di bellezza’, ‘determinante l’effetto che la bellezza necessariamente produce’. Non per nulla ‘piacere’ significa nel linguaggio stilnovistico ‘bellezza’, addirittura ‘bel volto’, e la prosa stessa dichiara: «ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri». [...] Riassumendo in uno schema di parafrasi la nostra esposizione, si ottiene press’a poco: «Tale è l’evidenza della nobiltà e del decoro di colei ch’è mia signora, nel suo salutare, che ogni lingua trema tanto da ammutolirne, e gli occhi non osano guardarla. Essa procede, mentre sente le parole di lode, esternamente atteggiata alla sua interna benevolenza, e si fa evidente la sua natura di essere venuto di cielo in terra per rappresentare in concreto la potenza divina. Questa rappresentazione è, per chi la contempla, così carica di bellezza che per il canale degli occhi entra in cuore una dolcezza conoscibile solo per diretta esperienza. E dalla sua fisionomia muove, oggettivata e fatta visibile, una soave ispirazione amorosa che non fa se non suggerire all’anima di sospirare».

1 la scelta dell’esemplare: Contini si 3 Ora noi ambiremmo... ritiene: Con- 5 onesta... latinismo: honestus e ho1 la scelta dell’esemplare: si 3 Ora noi ambiremmo... ritiene: Con5 onesta... latinismo: e horiferisce al testo che ha sceltoContini per la sua tini auspica che la sua interpretazione nestas in latino alludonohonestus alla nobiltà dei riferisce appunto al testo che ha scelto pere la sua tini sonetto auspica di che la sua interpretazione nestasalindecoro latino del alludono alla nobiltà dei analisi: Tanto gentile tanto del Dante vada letta sopratgesti, portamento. analisi: appunto Tanto gentile e tantoin cui, del in sonetto di Dante vada letta sopratgesti, all’ultima decoro del portamento. coblas capfinidas: un tipo di canzone ogni stanza, l’inizio del primo verso riprende parola dell’ultimo verso 6 onesta 6 coblas capfinidas: un tipo di canpare. tutto da studenti liceali che memoriz6 coblas capfinidas: un tipo di canonesta pare. tutto ilda studenti liceali che memorizdella stanza precedente. 2 mandato a memoria: imparato a zone in cui, in ogni stanza, l’inizio del zino testo e il suo significato in modo 2 mandato imparato a zone inverso cui, inriprende ogni stanza, l’inizio del zino il testo e il suo significato memoria (per alomemoria: meno ai tempi in cui primo l’ultima parola corretto (diversamente da comein dimodo solito memoria (per illosaggio, meno ovvero ai tempi in cui primo verso riprende l’ultima parola corretto (diversamente da come di solito Contini scrive nell’imdell’ultimo verso della stanza precedenavviene). Contini scrive il saggio, ovvero nell’imdell’ultimo verso della stanza precedenavviene). 4 accezione: significato. mediato dopoguerra). te. 4 accezione: significato. mediato dopoguerra). te.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1 Per quale motivo il critico non ha bisogno di giustificare la scelta del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare per la sua analisi? 2 Con quale sinonimo si potrebbe sostituire l’avverbio mediocremente? 3 Qual è lo scopo della lettura del sonetto da parte del critico? 4 Qual è la tesi espressa nel testo? 5 Rintraccia e sottolinea nel testo le motivazioni che il critico adduce a sostegno della sua tesi. 6 Sintetizza il contenuto del sonetto riportato in parafrasi nel testo critico.

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Dante Alighieri

T8

Oltre la spera che più alta gira Vita nuova, XLI-XLII

D. Alighieri, Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Ricciardi, Milano-Napoli 1980

Dopo lo sviamento legato all’interesse del poeta per la «donna pietosa e gentile» che allontana temporaneamente Dante dal culto di Beatrice (capp. XXXV-XXXIX), l’ultima parte della Vita nuova vede definitivamente riconfermata la fedeltà del poeta alla sua ispiratrice. Superata la tentazione di un nuovo amore (comunque esso possa essere interpretato), Dante torna a Beatrice e la celebra con l’ultimo sonetto dell’opera. Dopo una nuova visione, infine, Dante si congeda dall’opera e dai lettori con una misteriosa promessa. «La Vita nuova, apertasi con l’immagine del “libro della memoria”, si chiude su quella del libro da scrivere» (De Robertis).

Oltre la spera che più larga gira passa ’l sospiro ch’esce del mio core1: intelligenza nova, che l’Amore 4 piangendo mette in lui, pur su lo tira2. Quand’elli è giunto là dove disira3, vede una donna, che riceve onore, e luce sì4, che per lo suo splendore 8 lo peregrino spirito la mira5. Vedela tal, che quando ’l mi ridice, io no lo intendo, sì parla sottile 11 al cor dolente, che lo fa parlare6. So io che parla di quella gentile, però che7 spesso ricorda Beatrice, 14 sì ch’io lo ’ntendo ben8, donne mie care9.

La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDE DCE

1 Oltre la spera... core: il sospiro che esce dal mio cuore oltrepassa la sfera celeste che compie la rotazione più ampia. Secondo la concezione cosmologica del tempo, si tratta del nono cielo, il Cristallino o Primo Mobile, oltre il quale c’è l’empireo, la sede dei beati, dove, dopo la sua morte, si trova anche Beatrice. 2 intelligenza nova... lo tira: una comprensione inusitata (una nuova capacità di intendere), che l’Amore, piangendo (attraverso il dolore) ha posto in esso (nel cuore del poeta) lo eleva fino al paradiso. 3 là dove disira: là dove desidera giungere (ovvero la sede celeste di Beatrice; il soggetto è sempre ’l sospiro). 4 luce sì: risplende (luce è un verbo) con tale intensità. 5 lo peregrino spirito la mira: lo spirito che migra oltre la dimensione terrena la contempla. 6 Vedela tal... parlare: la vede così bella che (soggetto è lo spirito, qui immaginato quasi staccato dal corpo, rimasto sulla terra) quando me ne riferisce, io non lo comprendo tanto è complesso (sottile) il discorso che rivolge al cuore dolente che lo fa parlare. 7 però che: dato che. 8 sì ch’io... ben: cosicché lo capisco bene (che sta parlando di Beatrice). 9 donne mie care: il vocativo che chiude il sonetto riporta sulla scena le donne gentili cui si rivolge la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore.

XLII. Appresso questo sonetto10 apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre11 di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente12. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono13, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer14 di lei quello che mai 15 16 5 non fue detto d’alcuna . E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia , che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus17. 10 Appresso questo sonetto: subito dopo che ebbi composto questo sonetto. 11 proporre: decidere. 12 E di venire... veracemente: e io mi impegno quanto posso per raggiungere questo obiettivo (e cioè cantare nuovamente Beatrice in modo adeguato alla sua perfezione), come lei certamente sa. 13 se piacere... vivono: se vorrà colui che

fa vivere tutte le cose, cioè Dio (perifrasi).

14 dicer: dire (latinismo). 15 quello che... d’alcuna: Dante si propone di esaltare Beatrice attraverso la sua poesia come non è avvenuto di nessuna altra donna (una sfida che il poeta fiorentino vincerà scrivendo la Commedia). 16 colui... cortesia: nuova perifrasi per intendere Dio.

242 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri

17 qui est per omnia secula benedictus: che è benedetto per tutti i secoli. L’operetta si era aperta con una formula in latino («Incipit vita nova») e si chiude solennemente con un’espressione biblica (Salmo 71): Sit nomen eius benedictum in saecula, “Sia benedetto nei secoli il suo nome”.


Analisi del testo Intelligenza nova: verso una nuova poetica dell’amore La Vita nuova si chiude con un sonetto che dimostra come l’ispirazione di Dante rispetto al tema amoroso sia ormai lontana non solo dai modi della poesia cortese, ma anche dagli stessi stilnovisti. Negli stilnovisti l’amore per la donna, pur stilizzato e sublimato, si conciliava comunque con difficoltà con la dimensione religiosa (e non è un caso che Guinizzelli sia posto da Dante nel Purgatorio tra i lussuriosi). Dante invece, attraverso il rigoroso e coerente itinerario tracciato nella Vita nuova, ha superato ogni conflitto: l’ultimo sonetto sottrae la donna amata al mondo dell’imperfezione, della contingenza terrena e la colloca stabilmente nella dimensione del trascendente a cui è sempre appartenuta. Anche il poeta deve compiere allora una radicale trasformazione: non è più possibile usare gli stessi codici poetici. Un’«intelligenza nova», l’intuizione mistica della natura ultraterrena del suo amore, lo proietta necessariamente verso nuove dimensioni poetiche, che preludono forse – anche se Dante non ne è ancora del tutto consapevole – alla Commedia. Nel «poema di Dio» la funzione severamente didattica attribuita alla poesia non implicherà però la rinuncia per il poeta a cantare la sua Beatrice, ma lo indurrà coerentemente ad attribuirle un ruolo altissimo: quello di guida alla visione di Dio.

Un progetto misterioso Strettamente conseguente alla visione rappresentata nel sonetto è perciò l’ultimo capitolo, in cui Dante, congedandosi dai lettori, enuncia, seppur in modo vago, il progetto di una nuova opera che canterà Beatrice come nessuna donna al mondo è mai stata celebrata. La «beatrice» è ormai significativamente trasformata nella «benedetta». E non a caso la Vita nuova, che si è aperta con l’immagine del libro della memoria di Dante stesso, si chiude nel nome di Dio, che sarà il nuovo soggetto della poesia di Dante.

La riapparizione di Beatrice Come segnala opportunamente il critico Gorni nel suo commento, la formula biblica che chiude la Vita nuova («qui est per omnia saecula benedictus») troverà il suo corrispettivo nella formula «Benedictus qui venis!» (Pg XXX, 19), cantata dagli angeli in riferimento alla riapparizione – verso la fine del Purgatorio, in un clima sacrale – di Beatrice, ormai trasfigurata nel simbolo della Fede e della Teologia (Pg XXX, 28-33). Il progetto, ancora indeterminato, enunciato alla fine dell’operetta giovanile risulterà allora pienamente realizzato. Il poeta aveva già fugacemente evocato sulla scena del poema «la gentilissima», accorsa dal cielo a soccorrere l’amato smarrito nella selva oscura (If II,53 e sgg.), ma è nella terza cantica che il mito poetico di Beatrice trionfa: essa guida il percorso del poeta verso Dio, scioglie con sollecitudine materna ogni suo dubbio, ogni sua esitazione. La sua bellezza, l’intensità meravigliosa del suo sorriso crescono di cielo in cielo, fino all’ultima visione, quando Dante la contempla nella gloria dei beati riuniti nella Candida Rosa.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1 Presenta in sintesi il contenuto del capitolo conclusivo (max 10 righe) e indicane il tema principale. COMPRENSIONE 2 Qual è secondo te la parola chiave del sonetto? Motiva la tua scelta. ANALISI 3 In quale punto del sonetto si allude al tema dell’ineffabilità? LESSICO 4 Rintraccia nelle due quartine la presenza di verbi che alludono al viaggio e spiega a quale viaggio fanno riferimento. 5 A quale campo semantico può essere ricondotta la maggior parte dei termini?

Interpretare

SCRITTURA 6 In un testo espositivo-argomentativo di max 20 righe spiega come gli ultimi due capitoli chiarifichino il senso della Vita nuova quale percorso di Dante verso Dio.

La Vita nuova 2 243


3

La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo Oltre la Vita nuova Dopo la stesura della Vita nuova maturano in Dante nuovi interessi, soprattutto di tipo etico-politico e filosofico. Cantato l’amore per Beatrice, Dante passa a esaltare, attraverso una serie di canzoni allegorico-dottrinali, l’amore per la sapienza, la rettitudine morale, la giustizia. Il passaggio dall’esplorazione dell’ambito esistenziale-amoroso a una complessa analisi filosofica, etica, linguistica e politica è documentato dalle tre opere successive all’esilio: Convivio, De vulgari eloquentia e Monarchia oltre che, naturalmente, dalla Commedia. A questo ampliamento di vedute culturali, a questo più ambizioso impegno intellettuale, corrisponde l’immagine di un pubblico diverso, più ampio ed eterogeneo, rispetto ai “fedeli d’Amore” a cui era espressamente rivolta l’operetta giovanile. In un lungo arco di tempo si colloca una vasta produzione poetica in parte precedente alla Vita nuova, in parte successiva (Rime) che attesta nel suo insieme la sperimentazione di forme e temi molto diversificati.

1 Le Rime Un itinerario poetico all’insegna dello sperimentalismo Con Rime (o talvolta Rime extravaganti) si intende il complesso di testi poetici (cinquantaquattro quelli sicuramente attribuibili a Dante) prodotto da Dante dal 1283 al 1307 circa e che non vennero inclusi nella Vita nuova o nel Convivio. Si tratta di un insieme di composizioni non organico, non organizzato in alcun modo dall’autore, a differenza del grande modello del Canzoniere petrarchesco. Proprio per questa ragione i singoli testi ebbero anche una diffusione autonoma. Le liriche si distribuiscono in un arco di tempo molto ampio (venticinque anni) e anche per questo presentano una grande varietà, in rapporto alle molteplici esperienze di vita e letterarie dell’autore. L’unica costante che vi si può ritrovare è lo sperimentalismo, la curiosità di Dante nel saggiare le proprie capacità in ambiti poetici diversissimi, sotto lo stimolo delle suggestioni che via via gli si presentavano.

Luca Signorelli, Ritratto di Dante, affresco, 1500-1504 ca. (Orvieto, Duomo, Cappella della Madonna di San Brizio).

244 DuecenTo e TrecenTo 6 Dante Alighieri


L’apprendistato poetico e l’esperienza stilnovistica Le primissime esperienze poetiche di Dante hanno come modello Guittone d’Arezzo, poi rifiutato come maestro (Pg XXIV) e sostituito nella memoria da Guinizzelli («il padre mio»). L’identità di Dante come poeta si costruisce soprattutto all’interno dell’esperienza dello stilnovo, e si definisce in particolare attraverso l’amicizia e il sodalizio poetico con Guido Cavalcanti, a cui lo accomuna il culto dell’amore, il gusto per una poesia raffinata e l’atteggiamento di aristocratico distacco: aspetti ben evidenziati dal celebre sonetto Guido, i’ vorrei (➜ T9 ). Un gruppo selezionato di componimenti scritti in quel periodo sono poi inseriti nella Vita nuova, nella quale Dante fonda un modo nuovo di fare poesia rispetto agli altri stilnovisti, consapevolmente rivolto alla lode della donna amata, trasfigurata in mediatrice del divino. Oltre il “dolce stile”: la scelta dello stile “comico” Già durante la stagione dello stilnovo, che si conclude con la stesura della Vita nuova (una sorta di bilancio, come si è detto, insieme esistenziale e poetico), Dante esplora anche modalità poetiche diverse: in particolare sperimenta lo stile “comico”, che mostra di padroneggiare nella Tenzone con Forese Donati. Una volta esaurita l’esperienza stilnovista, Dante si aprirà ancor più a nuove suggestioni e arricchirà ulteriormente il suo repertorio tematico e le forme del suo stile. La tenzone con Forese Donati Al realismo proprio della tradizione giocosa e dello stile comico (Dante ha conosciuto Cecco Angiolieri) si richiama espressamente la tenzone con Forese Donati, uno scambio di sei sonetti ingiuriosi (il primo, il terzo, il quinto di Dante; il secondo, il quarto, il sesto di Forese Donati). Anche in rapporto al giudizio severo pronunciato nei confronti di Forese in un passo della Commedia (Pg XXIII, 115-117), gli studiosi collocano la tenzone al tempo dello smarrimento morale del poeta seguìto alla morte di Beatrice (ovvero tra il 1293 circa, anno in cui Dante si innamora della «donna gentile», e il 1296, anno della morte di Forese). Quest’ultimo, sebbene appartenesse alla famiglia Donati, che era a capo della fazione dei Neri, e fosse quindi avversario politico di Dante, era legato al poeta da rapporti molto affettuosi, come si deduce appunto dal canto citato del Purgatorio. In questo canto l’autore compirà una sorta di ritrattazione di quella ormai lontana esperienza: in particolare riabiliterà, tessendone un alto elogio, la moglie di Forese, Nella, sulla quale aveva scritto volgari espressioni nella tenzone (➜ T10 OL).

Particolare con Dante e Guido Cavalcanti alle sue spalle, dall'opera di Giorgio Vasari, Ritratto di sei poeti toscani, olio su tela, 1544 (Minneapolis, Minneapolis Institute of Art).

La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 245


Il Fiore Un’ulteriore testimonianza della sperimentazione dello stile “comico” da parte di Dante potrebbe essere rappresentata dal Fiore: una corona di duecentotrentadue sonetti in cui vengono rimaneggiate e rielaborate in volgare fiorentino parti di una delle opere allegoriche più note della cultura medievale, ovvero il Roman de la Rose, scritto nel 1237 da Guillaume de Lorris e ampliato decenni dopo da Jean de Meung. La paternità dantesca dell’opera è però discussa. Le rime “petrose” L’infrazione del “dolce stile” si manifesta anche nella direzione di una poesia aspra, dura, secondo il modello del poeta provenzale Arnaut Daniel, maestro del trobar clus, che Dante celebra nel XXVI canto del Purgatorio. L’esito di questa sperimentazione è documentato dalle rime “petrose”, un gruppetto di quattro composizioni (due canzoni, una sestina e una sestina doppia) composte probabilmente tra il 1296 e il 1298, così denominate dalla critica per la ricorrenza in esse del senhal «Petra/petra», immagine metaforica con cui Dante allude alla durezza di una misteriosa figura femminile che non è stato possibile identificare. Verso di essa il poeta esibisce una disposizione di accesa passionalità che nulla ha a che vedere con l’amore sublime e del tutto spirituale per la «gentilissima». Molto probabilmente, più che un’esperienza amorosa realmente vissuta dal poeta dopo la morte di Beatrice, le “petrose” testimoniano la volontà di Dante di saggiare le proprie capacità, come si è detto, in nuove direzioni stilistiche, in questo caso verso uno stile “aspro” e difficile ma anche realistico, contrapposto vistosamente allo stile “dolce” e “piano” esperito nella fase stilnovistica. Lo testimonia chiaramente la dichiarazione di poetica contenuta nel primo verso della più nota delle “petrose”: Così nel mio parlar voglio esser aspro (➜ T11 ). Le rime allegorico-dottrinali e morali Su un versante opposto il poeta fiorentino affronta una poesia più complessa e impegnata in senso morale e civile, nella quale emerge spesso la dimensione allegorica. Ne è esempio la canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, composta nei primi tempi dell’esilio (e molto probabilmente destinata a essere inclusa nel Convivio): la dolorosa vicenda personale vissuta da Dante diventa nella canzone occasione per una vibrante denuncia della decadenza della giustizia.

Le rime di Dante POESIE STILNOVISTICHE

poesia raffinata e culto d’amore

POESIE IN STILE “COMICO”

realismo e stile comico; tenzone con Forese Donati

IL FIORE (DI DUBBIA ATTRIBUZIONE)

stile comico; rimaneggiamento del Roman de la Rose

RIME “PETROSE”

poesia aspra e dura (modello per il trobar clus); misteriosa figura femminile (Petra)

RIME ALLEGORICODOTTRINALI E MORALI

dimensione allegorica; poesia impegnata

246 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Dante Alighieri

T9

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io Rime (9) (LII)

D. Alighieri, Rime, a cura di G. Contini, Einaudi, Torino 1965

AUDIOLETTURA

ANALISI INTERATTIVA

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

I poeti che è consuetudine denominare “stilnovisti” erano legati da rapporti di amicizia e da un sodalizio fondato su una raffinata concezione della poesia, che faceva di essi un’élite intellettuale nella prosaica, e a volte gretta, realtà dei Comuni. In questo celeberrimo sonetto, Dante evoca, attraverso un’affascinante fantasticheria, il mondo “separato” dei giovani poeti di cui fece parte.

Guido1, i’ vorrei che tu e Lapo2 ed io fossimo presi per incantamento3, e messi in un vasel4 ch’ad ogni vento5 4 per mare andasse al6 voler vostro e mio, sí che fortuna od altro tempo rio7 non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento8, 8 di stare insieme crescesse ’l disio9. E monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta 11 con noi ponesse il buono incantatore10: e quivi ragionar11 sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, 14 sì come i’ credo che saremmo noi.

La metrica: Sonetto con schema ABBA ABBA CDE EDC

1 2

Guido: è Guido Cavalcanti. Lapo: presumibilmente il notaio e poeta Lapo Gianni, elogiato da Dante nel De vulgari eloquentia (I, xiii, 4). Il filologo Guglielmo Gorni ha però sostenuto, con convincenti motivazioni scientifiche, che il nome sia un errore del copista e che l’amico evocato sia invece un rimatore fiorentino, Lippo Pasci de’ Bardi. 3 presi per incantamento: catturati da un incantesimo.

4 vasel: navicella, imbarcazione (anche Pg II, 41). 5 ch’ad ogni vento: con qualunque vento. 6 al: secondo il. 7 fortuna od altro tempo rio: un fortunale, una tempesta o altro tempo cattivo (rio). 8 in un talento: in una stessa volontà, in pieno accordo. 9 ’l disio: il desiderio. 10 monna Vanna… incantatore: [vorrei] che il valente mago (il mago Merlino) ponesse insieme a noi monna (= m[ad]

onna) Vanna e monna Lagia. Si tratta delle donne amate rispettivamente da Guido Cavalcanti e Lapo Gianni. Una terza donna è indicata dalla perifrasi (quella ch’è sul numer de le trenta): in un sirventese, andato perduto, Dante elencava le sessanta donne più belle di Firenze. La donna misteriosa (forse una delle “donne schermo” della Vita nuova) occupava il trentesimo posto della lista o forse, più genericamente, era una delle prime trenta. 11 ragionar: [vorrei che si potesse] conversare.

Analisi del testo Un elogio dell’amicizia Il tema dell’amicizia domina il sonetto ed è proposto fin dall’incipit, che associa strettamente, in un solo verso, i tre amici: Guido, Lapo e Dante. Significativa è la frequenza, poi, di espressioni che sottolineano l’unità d’intenti che lega gli amici-poeti (gli aggettivi possessivi vostro e mio, le parole sempre in un talento e stare insieme). Nella concezione di Dante e dei poeti stilnovisti l’amicizia ha a che fare indissolubilmente con il comune culto dell’amore: nel sogno d’evasione i poeti non sono soli, ma sono accompagnati dalle donne amate, che a loro volta sono donne gentili, che hanno “intelletto d’amore”. Sul vascello incantato Dante immagina che la compagnia di amici si dedichi esclusivamente a ragionar... d’amore: il verbo all’infinito, che si sgancia inaspettatamente dalla catena dei

La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 247


verbi al congiuntivo retti dall’iniziale vorrei, intensificato dall’avverbio sempre, prospetta una dimensione di continuità atemporale. L’amicizia infine non può non essere associata alla gioia (sottolineata dagli ultimi due versi) e soprattutto all’evasione dalla prosaica realtà comune, qui prospettata come fantasia, come desiderio (l’intera struttura sintattica del sonetto è retta dalla forma desiderativa del verbo vorrei), ma certo propria anche della realtà di vita dei giovani poeti, almeno come atteggiamento mentale. Spiriti eletti, accomunati da una visione dell’amore e della poesia, animi “gentili” secondo i dettami del maestro Guinizzelli, la cerchia di poeti di cui fece parte Dante per una stagione importante della sua vita costituiva un’élite intellettuale. Come tutte le avanguardie, sdegnavano “gli altri”, il pubblico comune. In questa condizione di spirito sta la genesi del sonetto.

Suggestioni letterarie Il tema cui sopra si è fatto riferimento è proiettato in una dimensione fantastica: Dante immagina che lui e i suoi amici con le loro dame siano soggetti all’incantesimo del mago Merlino e trasportati su un vascello incantato. Nell’ideazione di questa affascinante fantasticheria, Dante da un lato riprende la tipologia del plazer (elenco di situazioni che danno piacere) della tradizione occitanica, dall’altro attinge al repertorio della narrativa cortese bretone, cui appartiene il motivo della magia, la figura del mago Merlino e quella del vascello incantato. Vita e letteratura, sogno e realtà si intrecciano dunque in questa raffinata composizione poetica, che ci sembra presentare in modo particolarmente efficace il clima psicologico e spirituale in cui nacque la poesia degli stilnovisti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto e indicane il tema principale. ANALISI 2. Chi sono Guido, Lapo, Vanna e Lagia e perché il poeta li nomina? 3. I veri “padroni” del vascello sono i poeti-amici: è il loro concorde volere che muove il vascello. Che significato può avere questa immagine metaforica? 4. Rintraccia nel sonetto gli elementi afferenti al magico e al meraviglioso. A quale tradizione letteraria rimandano? LESSICO 5. Analizza il lessico e individua i termini che appartengono al campo semantico dell’amicizia e del desiderio di isolamento. STILE 6. Quale figura retorica è presente al v. 10?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. Quali elementi consentono di ascrivere il sonetto alla tipologia del plazer, presente nella poesia occitanica? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. Il sonetto presenta una struttura simmetrica e circolare, abilmente intrecciata alle tematiche trattate. Argomenta in un breve testo (max 15 righe) e metti soprattutto in evidenza: – uso della prima persona; – uso dell’antitesi di parole in rima; – presentazione dei protagonisti; – rapporti tra quartine e terzine. 9. In questo sonetto Dante affronta il tema dell’amicizia come condizione di vita. Ritieni che l’amicizia sia fondamentale nella vita di una persona? Quale importanza riveste nella tua vita?

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

online T10 Dante Alighieri

Chi udisse tossir la malfatata Rime (26) (LXXIII)

248 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Dante Alighieri

T11

Così nel mio parlar voglio esser aspro Rime (46) (CIII)

D. Alighieri, Rime, a cura di G. Contini, Einaudi, Torino 1965

Proponiamo la più nota delle “petrose”. Dopo l’importante dichiarazione iniziale, in cui Dante associa strettamente la scelta di uno stile aspro al particolare contenuto della sua poesia, in cui campeggia la figura di una donna dura e sprezzante che ferisce il suo cuore, la canzone si articola, nella prima parte, in un ritratto della donna e nella descrizione della sua insensibilità verso il poeta; nella seconda (ultime due strofe e congedo) si illustra il desiderio del poeta di vendicarsi. Riproduciamo le prime e le ultime due strofe, seguite dal “congedo”.

Così nel mio parlar voglio esser aspro com’è ne li atti questa bella petra1, la quale ognora impetra maggior durezza e più natura cruda2, 5 e veste sua persona d’un dïaspro3 tal che per lui, o perch’ella s’arretra, non esce di faretra saetta che già mai la colga ignuda4; ed ella ancide5, e non val ch’om si chiuda 10 né si dilunghi da’ colpi mortali6, che, com’avesser ali, giungono altrui e spezzan ciascun’arme7; sí ch’io non so da lei né posso atarme8. Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi né loco che dal suo viso m’asconda: ché, come fior di fronda, così de la mia mente tien la cima9. Cotanto del mio mal par che si prezzi quanto legno di mar che non lieva onda10; 20 e ’1 peso che m’affonda è tal che non potrebbe adequar rima11. Ahi angosciosa e dispietata lima12 che sordamente la mia vita scemi13, perché non ti ritemi 25 sí di rodermi il core a scorza a scorza com’io di dire altrui chi ti dà forza14? […] 15

La metrica: Canzone secondo lo schema AbbC Abbc (fronte) CddEE (sirma)

1 Così… petra: gli atteggiamenti duri della “donna pietra” (è il senhal) inducono il poeta alla scelta di uno stile aspro e difficile, opposto alla musicalità del “dolce stile”. 2 la quale… cruda: la quale sempre desidera e ottiene. Ma, spiega il Contini, si può pensare anche a «racchiude in sé co-

me in una pietra» una durezza maggiore e un’indole più crudele (natura cruda). 3 diaspro: pietra preziosa durissima; per i lapidari medievali era capace di rendere inattaccabile chi la portasse. 4 tal che… ignuda: tale che, grazie ad esso (per lui, cioè il diaspro) o perché ella si tira indietro (s’arretra), dalla faretra non esca mai una freccia che la colga indifesa (ignuda). Dante usa qui la tradizionale immagine metaforica che presenta Amore

come un arciere che colpisce con le sue frecce. 5 ancide: uccide. 6 e non val… mortali: e non serve (non val) che una persona (ch’om) si difenda (si chiuda) e si allontani (si dilunghi) dai colpi mortali. 7 giungono... arme: raggiungono ogni persona e trapassano ogni armatura (arme). 8 sí ch'io… atarme: sì che io non so né posso proteggermi (atarme “aiutarmi”) da lei. 9 ché, come… la cima: perché, come il fiore (occupa la cima) del ramo (di fronda), così ella occupa la cima della mia mente. Oggi si direbbe: “è in cima ai miei pensieri”. 10 Cotanto… onda: sembra che si curi (si prezzi) della mia sofferenza (mal) quanto una nave (legno) si può curare di un mare calmo (che non lieva onda). 11 e ’l peso… adequar rima: e l’angoscia che mi opprime (m’affonda) è tale che nessuna poesia (rima) potrebbe adeguatamente rappresentarla (adequar). 12 lima: metafora riferita alla passione amorosa. 13 scemi: logori. 14 perché non ti ritemi… forza?: perché non hai ritegno di rodermi il cuore a poco a poco, come io ho ritegno di rivelare alla gente (dire altrui) il nome di chi (ovvero della donna) ti dà tanto vigore? Nella poesia trobadorica vigeva la consuetudine cortese di non rivelare l’identità della donna amata: da qui l’uso appunto del senhal, a cui anche Dante stesso ricorre occultando l’identità della donna sotto la denominazione di petra.

La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 249


[Nelle due strofe successive il poeta tratteggia un fosco quadro degli effetti d’amore, tutt’altro che salvifici, prodotti in lui dalla passione per la donna. Amore, armato di spada, è presentato come un guerriero crudele e sanguinario che vuole la morte del poeta.] Così vedess’io lui fender per mezzo lo core a la crudele che ’1 mio squatra15; 55 poi non mi sarebb’atra16 la morte, ov’io per sua bellezza corro17: ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo questa scherana micidiale e latra18. Omè, perché non latra 60 per me, com’io per lei, nel caldo borro19? ché tosto griderei: «Io vi soccorro»; e fare’1 volentier, sì come quelli che ne’ biondi capelli ch’Amor per consumarmi increspa e dora 65 metterei mano, e piacere’le allora20. S’io avessi le belle trecce prese, che fatte son per me scudiscio e ferza, pigliandole anzi terza, con esse passerei vespero e squille21: 70 e non sarei pietoso né cortese, anzi farei com’orso quando scherza22; e se Amor me ne sferza, io mi vendicherei di più di mille23. Ancor ne li occhi, ond’escon le faville 75 che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso, guarderei presso e fiso, per vendicar lo fuggir che mi face; e poi le renderei con amor pace24.

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Canzon, vattene dritto a quella donna che m’ha ferito il core e che m’invola quello ond’io ho più gola25, e dàlle per lo cor d’una saetta26: ché bell’onor s’acquista in far vendetta.

15 Così vedess’io… squatra: Allo stesso modo (con la stessa violenza) potessi io vedere (vedess’io) da lui (ovvero da Amore; lui è dativo d’agente) spaccare a metà (fender per mezzo) il cuore alla crudele (cioè alla donna petra) che squarta il mio. 16 atra: dolorosa, crudele (lett. “nera”, dal lat. ater). 17 ov’io... corro: verso la quale io (ov’io) corro a causa della sua bellezza. 18 ché tanto dà… latra: perché questa assassina (scherana micidiale) e ladra col-

pisce (dà) tanto nel sole quanto nell’ombra (rezzo). Ossia che colpisce in ogni circostanza. 19 Omè, perché… borro?: ohimè, perché non urla (latra) d’amore per me come faccio io per lei nel caldo precipizio della passione? Propriamente il borro è un burrone, una gola scoscesa in cui scorre un corso d’acqua. Per alcuni commentatori è l’inferno. 20 sì come quelli… allora: inizia da questo punto la serie di immagini ispirate a un rovesciamento delle condizioni

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dell’amore cortese. Il poeta si autoritrae nell’atto di vendicarsi della crudeltà della donna, infliggendole delle sofferenze fisiche: verrebbe in soccorso della donna, ma come uno che (sì come quelli che) metterebbe le mani a forza nei biondi capelli, che Amore stesso rende ricci e dorati (increspa e dora) per consumare di passione il poeta; e, finalmente, piacerebbe alla donna crudele (e piacere’le: le piacerei). 21 S’io avessi… squille: se io avessi afferrato le belle trecce che sono diventate (fatte son) per me una frusta (scudiscio e ferza è una dittologia sinonimica), prendendole in mano prima della terza ora (anzi terza), passerei con esse (con le trecce, continuando a tenerle) pomeriggio e sera (vespero e squille). Con anzi terza si indicano circa le nove del mattino; vespro è la penultima ora della giornata; squille sono le campane suonate durante compieta, l’ultima ora, dopo le diciotto. Seguendo le consuetudini liturgiche, il suono delle campane ritmava la giornata dell’uomo medievale. 22 com’orso quando scherza: il senso del paragone è sempre allusivo alla violenza: l’orso, anche quando scherza, rimane pericoloso. 23 se Amor… più di mille: se l’Amore mi sferza con quelle trecce (me ne sferza) io mi vendicherei con più di mille volte tanto (di frustate). 24 Ancor… pace: inoltre la guarderei da vicino (presso) e fissamente (fiso) negli occhi dai quali escono le fiamme che mi incendiano il cuore, che io porto (dentro di me) ucciso (ch’io porto anciso), per vendicare il suo fuggire da me, e solo allora la perdonerei (le renderei pace) e tornerei ad amarla. 25 m’invola… gola: mi sottrae (m’invola) ciò che più desidero, ovvero il suo amore. Ma il termine greve e materiale gola allude a un amore afferente alla sfera dei sensi: “quello che più mi fa gola”. 26 e dàlle per lo cor d’una saetta: e colpiscila con una freccia in mezzo al cuore. È la canzone stessa ora, nel canonico congedo, a farsi strumento della volontà di vendetta del poeta.


Analisi del testo Il rovesciamento della poetica stilnovistica Chi è la donna denominata petra? A quale situazione di vita allude la composizione? Forse rispondere a questi interrogativi non è così importante. La canzone è infatti innanzitutto il frutto di una consapevole operazione letteraria e si iscrive nel costante sperimentalismo poetico di Dante. Dopo aver esaurito i modi della poesia d’amore aulica, dopo aver magistralmente interpretato la lezione di Guinizzelli e Cavalcanti, Dante intende provare le sue capacità di scrittore nell’ambito di uno stile diverso: è significativo che proprio all’inizio della canzone Dante sottolinei la forte intenzionalità che, come autore, lo ispira: Così nel mio parlar voglio esser aspro. Come la critica ha puntualmente messo in luce, gli è maestro questa volta il provenzale Arnaut Daniel, che già aveva attuato in alcune sue composizioni una «carnalizzazione» (Sansone) dell’amore e offerto esempi di uno stile aspro e difficile (➜ C1). Una lezione che Dante estremizza ulteriormente in questa canzone. L’asprezza dello stile, che si concretizzerà in scelte espressive omogenee, è richiesta – secondo il principio cardine della poetica medievale – dalla natura della materia che il poeta si appresta a cantare: la durezza, l’insensibilità della donna verso di lui e, per contro, il suo desiderio di vendicarsi per un amore tutto fisico, una bruciante passione non corrisposta. L’amore per la donna “petra” costituisce il voluto rovesciamento dei canoni stilnovistici: non è un amore sublime, non eleva lo spirito, ma anzi lo trascina in basso, nei cupi gorghi di una passione sensuale, quasi bestiale (v. 81 e, ancor più, v. 58).

Lo stile Lo stile della canzone e le specifiche scelte lessicali, ritmiche e soprattutto foniche sono frutto di una virtuosistica competenza tecnica. Segnaliamo, in particolare: •  la netta prevalenza (spesso enfatizzata dalla collocazione in rima delle parole che li contengono) di nessi consonantici aspri, come -TR- (petra, impetra, arretra, squatra, latra ecc.), -RZ- (scorza, forza, ferza, terza ecc.) e altri ancora. •  la presenza di rime rare, difficili e di una rima equivoca (ossia latra, ai vv. 58 e 59) in cui il primo termine è un sostantivo, il secondo una voce verbale. •  la presenza fittissima di metafore. Lo stile delle “petrose” ritornerà, ulteriormente accentuato, in alcune terzine dell’Inferno. Il poeta, indotto dalla “bassezza” della materia, non arretrerà di fronte a scelte linguistiche estreme, percorrendo senza esitazione la strada di un abbassamento dello stile che ancora oggi non manca di colpirci e sconcertarci. La rappresentazione del «tristo buco», ovvero il fondo dell’inferno, richiede obbligatoriamente – Dante ben lo sa – «rime aspre e chiocce» (If XXXII 1-2) dure, dissonanti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Dopo aver fatto la parafrasi completa del testo, presentane sinteticamente il contenuto. COMPRENSIONE 2. Per quale motivo nel congedo Dante chiede alla canzone di andare dall’amata? ANALISI 3. Perché Dante ha scelto per la donna di cui si parla nel testo il senhal Petra/petra? In quale punto del testo si fa allusione all’occultamento del vero nome della donna? STILE 4. La canzone è caratterizzata da un linguaggio figurato ricchissimo. Individua le numerose metafore, similitudini e personificazioni presenti nel testo e poi rispondi: a quali tematiche riconducono? A quali campi semantici appartengono? Quale rapporto si instaura con il linguaggio dolce e soave degli stilnovisti?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Fai un confronto tra i due ritratti di donna (Petra e Beatrice) che Dante ci consegna e prova a mettere in evidenza: – gli effetti delle donne sul poeta; – i rapporti con la letteratura cortese – la visione dell’amore (sensuale o spirituale); e stilnovista.

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2 Un intellettuale al servizio del suo tempo: il progetto del Convivio I caratteri dell’opera Il titolo e la struttura La dolorosa condizione di exul immeritus, aggravata dall’interruzione dei rapporti con gli altri fuoriusciti bianchi, avrebbe potuto indurre Dante a chiudersi in uno sterile isolamento. Al contrario, il poeta reagisce alla sventura che lo ha colpito con una forte tensione progettuale, con l’assunzione di un ruolo operativo e costruttivo: quello di «inducere… a scienza e virtù» (Convivio, I, IX), di trasmettere parole di verità e moralità attraverso l’allestimento di un “banchetto” di sapere (da qui il titolo dell’opera). Nel trattato, sempre utilizzando il campo metaforico del cibo e del banchetto, le “vivande” saranno le canzoni e il “pane” il commento che le accompagna. Anche il Convivio è dunque un prosimetrum, come la Vita nuova. Lo scrittore si propone di trattare i diversi ambiti del sapere, rendendoli accessibili a quanti non possono soddisfare la naturale inclinazione umana alla conoscenza per ostacoli di diversa natura, ma soprattutto per incombenze civili e politiche. Un progetto interrotto La maggior parte degli studiosi concorda nel collocare la stesura del Convivio tra il 1303-1304 e il 1307. Maria Corti propende per uno stacco netto fra il tempo in cui vennero stesi i primi tre trattati (1303-1304) e l’ultimo, che la studiosa fa risalire al 1306-1308. Occorre in ogni caso precisare che, come già i testi poetici inseriti nella Vita nuova, anche nel Convivio le tre canzoni sono sicuramente precedenti all’allestimento delle parti in prosa. Come Dante dichiara espressamente nell’introduzione all’opera, il Convivio avrebbe dovuto comprendere quindici libri o trattati, uno introduttivo e gli altri quattordici a commento di altrettante canzoni. L’opera si interrompe però dopo il quarto trattato, rimanendo incompiuta, probabilmente perché le energie del poeta vennero totalmente assorbite dalla composizione della Commedia, iniziata verso il 1307. Un’opera enciclopedica per un nuovo pubblico Il Convivio si iscrive nel genere delle summae medievali: è, cioè, un’opera enciclopedica, che si rivolge però a un pubblico ampio di persone: uomini e donne, dice Dante, nobili d’animo, anche se «non letterati», cioè privi della conoscenza del latino. Proprio per questo Dante decide di utilizzare il volgare anziché il latino, compiendo una scelta fortemente innovativa, volta a sottrarre le chiavi del sapere “alto” al mondo chiuso e autoreferenziale dei litterati (sui quali dà un giudizio molto severo ➜ T12 ) per offrirle al pubblico emergente della società comunale. Una tale opera di divulgazione è veramente necessaria perché, secondo Dante – ed è questa la convinzione su cui si fonda l’opera – la perfezione e la felicità su questa terra sono realizzabili solo attraverso la Filosofia: solo l’esercizio della ragione rende l’uomo partecipe della natura divina. Con questo lavoro di alto profilo Dante sperava anche di riscattare la sua fama, compromessa dall’esilio, proponendosi come intellettuale autorevole sia alle nuove élite della società, sia ai signori delle corti dai quali avrebbe potuto ricevere incarichi diplomatici e protezione.

I contenuti Il primo trattato Dopo l’introduzione, in cui spiega il significato del titolo, lo scopo dell’opera e il pubblico a cui il trattato intende rivolgersi, Dante difende la propria scelta di scrivere in volgare (➜ T13 OL) (definito entusiasticamente «luce nuova, sole nuovo» rispetto al latino): la maggior parte dei capitoli del primo libro serve per giustificare questa preferenza innovativa.

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La prima parte dell’opera allude anche alle drammatiche circostanze autobiografiche (l’esilio) che spingono il poeta a difendersi dai suoi ingiusti detrattori anche grazie a un’opera caratterizzata da «autoritade» e «gravezza». Il secondo e il terzo trattato I due successivi trattati costituiscono un blocco unico, poiché si articolano intorno a un solo argomento: la lode della Filosofia. Prima di commentare la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (che risale probabilmente al 1293-1294), Dante fa riferimento ai quattro sensi dei testi scritti – letterale, allegorico, morale, anagogico – e distingue fra l’allegoria dei poeti, che è «veritade ascosa sotto bella menzogna», e l’allegoria dei filosofi (➜ T14 OL e ➜ T15 OL). Dopo il commento letterale della canzone, che contiene varie digressioni dottrinarie, Dante parla del suo innamoramento per la «donna gentile», che già nominava nella Vita nuova (capp. XXXV-XXXIX). Nel nuovo contesto, e a distanza di alcuni anni, lo scrittore identifica allegoricamente la donna gentile con la Filosofia: dopo la morte di Beatrice, per trovare consolazione, egli si era dedicato alla lettura di Cicerone e di Boezio e alla frequentazione delle scuole filosofiche del tempo. Una volta “allegorizzato”, il nuovo amore che sottrasse Dante al culto di Beatrice non è più considerato uno sviamento, una crisi della ragione, come nell’operetta giovanile, ma assume un carattere positivo. Nel terzo trattato, che commenta la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, Dante riprende e sviluppa la lode della donna gentile-Filosofia, definita «amoroso uso di sapienza» e della felicità che essa suscita in chi la pratica. Nella canzone Dante utilizza nuovamente le modalità poetiche della «loda», stilnovisticamente costruita sull’immagine della donna-angelo e della donna-miracolo, ma il nuovo contesto in cui la lode è inserita ne modifica di fatto il significato. Il quarto trattato Nell’ultimo trattato, molto più esteso dei precedenti (30 capitoli anziché 15), commentando la canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, Dante affronta un argomento di grande attualità ai suoi tempi: la definizione di che cosa sia la vera nobiltà. Egli confuta attraverso serrate argomentazioni la teoria che la nobiltà dipenda da «antiche ricchezze e belli costumi» (attribuita a Federico II) o che sia legata alla nascita e sostiene invece che essa è una disposizione individuale, frutto di un dono divino, una condizione che può essere sviluppata nell’esercizio pratico delle virtù morali. Si tratta di affermazioni non certo esclusive di Dante (basti pensare a Brunetto Latini e allo stesso Guinizzelli della celebre canzone Al cor gentil), frutto anche di un momento storico che, in particolare a Firenze, aveva messo in discussione l’egemonia della classe nobiliare, aprendo la strada all’ascesa politica della borghesia, forte delle proprie doti intellettuali e del proprio prestigio economico. Nel quarto trattato entra in campo anche il tema politico, con alcune anticipazioni (come la missione provvidenziale dell’Impero) di quanto sarà poi sviluppato nella Monarchia.

La Filosofia presenta a Boezio le Sette Arti Liberali in una miniatura francese, 1460-1470 ca. (Los Angeles, J. Paul Getty Museum).

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Le fonti, i modelli e lo stile Fonti e modelli Data l’impostazione enciclopedica dell’opera, molteplici sono i modelli utilizzati da Dante: da Aristotele a Tommaso d’Aquino e soprattutto Alberto Magno, dalle Sacre Scritture al De consolatione philosophiae di Boezio e alle Confessioni di Agostino; testi, questi ultimi, già conosciuti da Dante negli anni della Vita nuova. Il Convivio fonda la prosa filosofica in volgare Nel Convivio, Dante non solo difende la possibilità del volgare di trattare, con la stessa dignità del latino, argomenti elevati, ma sperimenta egli stesso queste potenzialità della nuova lingua, facendosi divulgatore, presso un nuovo pubblico, di alti concetti filosofici. All’andamento essenzialmente lirico dell’opera giovanile, si sostituisce nel Convivio un periodare ampio, uno stile argomentativo ed espositivo, adatto a trattare i grandi temi della cultura filosofica del tempo. La prosa del Convivio, ispirata al periodare del latino classico, è caratterizzata da una sintassi complessa, ricca di subordinate, ma al contempo chiara e vigorosa. Frequente, in particolare nel quarto trattato, è l’impiego di procedimenti tipici della filosofia scolastica, come i sillogismi, la discussione di ipotetiche obiezioni e, in generale, l’andamento dimostrativo. Dante utilizza però abbondantemente anche metafore e similitudini, attraverso le quali conferisce immediata evidenza e vigore rappresentativo ai concetti esposti. Giustamente, dunque, è stato affermato che Dante con il Convivio fonda la prosa filosofica in volgare (Segre).

Convivio FORMA

prosimetro

DATAZIONE

1303-1307 ca.

STRUTTURA

il progetto prevedeva quattordici trattati + uno di introduzione a commento di altrettante canzoni; Dante ne ha scritti solo quattro

LINGUA

volgare

GENERE

si colloca tra le summae medievali

TEMI

sintesi del pensiero filosofico del tempo

SCOPO

rendere accessibili alcuni ambiti del sapere

DESTINATARI

pubblico di uomini e donne, nobili d’animo, privi della conoscenza del latino

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Dante Alighieri

T12

L’obiettivo e i destinatari dell’opera Convivio I, I

D. Alighieri, Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, Le Lettere, Firenze 1995

ANALISI INTERATTIVA

1

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Cittadinanza digitale competenza 10

Il primo capitolo del Convivio ne costituisce la necessaria introduzione. Dante motiva infatti in modo molto chiaro le ragioni che ispirano il progetto culturale dell’opera: se è vero che in tutti gli uomini si fa sentire il desiderio di conoscere, è altrettanto vero che la maggior parte delle persone è esclusa da essa per vari impedimenti (e, in particolare, per incombenze familiari e civili). Lo scrittore si propone quindi di imbandire un “banchetto” del sapere, facendosi mediatore fra i dotti e chi non ha potuto godere della cultura “alta”.

Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia1, tutti li uomini naturalmente2 desiderano di sapere. La ragione di che puote essere [ed] è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propia perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale 5 sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti3. Veramente4 da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro all’uomo e di fuori da esso lui rimovono dall’abito di scienza5. Dentro dall’uomo possono essere due difetti6 e impedi[men]ti: l’uno dalla parte del corpo, l’altro dalla parte de l’anima. Dalla parte del corpo è quando le parti sono indebita10 mente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili7. Dalla parte dell’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile8. Di fuori dall’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una delle quali 15 è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia9. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene delli uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione essere non possono10. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano11.

Sì come dice… Prima Filosofia: il Convivio si apre nel nome autorevole di Aristotele, lo Filosofo per antonomasia, massima auctoritas della materia nel Medioevo: Dante lo definisce in If IV, 131 «’l maestro di color che sanno». Con Prima Filosofia si riferisce ai trattati della Metafisica. 2 naturalmente: per natura. 3 La ragione di che… subietti: la ragione di questo può essere ed è che ciascuna creatura (cosa), spinta dalla legge provvidenziale della natura universale (da providenza di prima natura impinta) tende (è inclinabile) a realizzare la propria perfezione; per cui (onde) dato che la conoscenza (scienza) è la somma (ultima) perfezione della nostra anima, nella quale risiede la nostra massima felicità, tutti siamo soggetti (semo subietti) al desiderio di essa (cioè della conoscenza). 4 Veramente: ma, però (dal latino verum). Ha valore avversativo.

5

lui rimovono dall’abito di scienza: lo allontanano (rimovono è un latinismo, da removere) dalla conquista della scienza. Il soggetto è diverse cagioni, ovvero i vari motivi, interni all’uomo ed esterni, che lo scrittore analizzerà subito dopo. 6 difetti: mancanze. 7 Dalla parte del corpo… loro simili: gli impedimenti fisici (dalla parte del corpo), spiega Dante, si verificano, come nel caso dei muti e dei sordi, quando le parti del corpo sono mal disposte, così che il corpo non può ricevere né dare alcun messaggio. 8 Dalla parte de l’anima… tiene a vile: per quanto riguarda l’anima (il difetto) è quando prevale la disposizione al male, così che (l’anima) inizia a perseguire piaceri viziosi (viziose delettazioni), dai quali è talmente ingannata che per quelli disprezza (tiene a vile) ogni cosa.

9 Di fuori… pigrizia: delle due ragioni esterne all’uomo, l’una induce una situazione di necessità, l’altra comporta pigrizia, disinteresse. 10 La prima… non possono: la prima consiste negli obblighi (cura) della vita familiare e civile, che impegnano giustamente (convenevolemente) la maggior parte degli uomini, così che non possono dedicarsi all’attività intellettuale (ozio di speculazione). Ozio è un latinismo: l’otium per i romani era l’assenza di un’occupazione (che si diceva negotium), la quale consentiva appunto di poter dedicarsi agli studi. 11 L’altra… lontano: l’altra (ragione) consiste nei limiti del luogo dove si vive, che talora (tal ora) sarà privo di occasioni culturali (ogni studio) e lontano da chi si dedica al sapere (gente studiosa).

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Le due di queste cagioni, cioè la prima dalla parte [di dentro e la prima dalla parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione12. Manifestamente13 adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che all’abito da tutti desiderato possano pervenire14, e innumerabili quasi sono 25 li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati15. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane delli angeli si manuca! e miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo16! Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono 30 cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande se[n] gire mangiando17. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata18. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito 35 della pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale alli occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi19. Per che20 40 ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio21 di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata22. [...] E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore de’ vizii, perché lo stomaco suo 20

12 Le due… abominazione: il primo impedimento relativo all’interno dell’uomo (ovvero le malformazioni fisiche) e il primo relativo all’esterno dell’uomo (ovvero le cure familiari e civili) non sono da biasimare, ma si devono scusare e sono meritevoli di perdono; gli altri due (ovvero l’inclinazione al male e i limiti del luogo che possono impigrire) sono degni di riprovazione, anche se l’uno più dell’altro (ovvero l’inclinazione al male, che più di tutto, secondo Dante, ostacola il cammino della conoscenza). 13 Manifestamente: chiaramente. 14 pochi… possano pervenire: rimangono in pochi quelli che possano pervenire alla consuetudine degli studi. Letteralmente: “all’abito da tutti desiderato”, cioè alla conquista del sapere, di cui si è parlato all’inizio. 15 e innumerabili… affamati: la maggioranza delle persone vive priva di questo cibo, cioè del sapere. È qui introdotta la metafora del cibo che dominerà i paragrafi successivi (e che ispira il titolo dell’opera). 16 Oh beati… comune cibo!: Dante distingue le persone che condividono il cibo (hanno comune cibo) degli animali (fuor di metafora: coloro che non si elevano alla conoscenza) dai pochi fortunati (quelli pochi) che si cibano (manucare, “mangia-

re”) della scienza filosofica e teologica (lo pane delli angeli, con espressione biblica). 17 Ma però che… mangiando!: Ma, dato che per natura ogni uomo è amico all’altro uomo e ciascun amico si addolora di ciò che manca (difetto) a chi ama, coloro che si cibano a una mensa così alta (cioè i pochi privilegiati di cui si è parlato prima) provano compassione (misericordia) per quelli che vedono andarsene (se[n]gire) cibandosi di erba e ghiande in un pascolo per animali (bestiale pastura), cioè vivendo nell’ignoranza. Dante continua a usare la metafora del cibo nel suo argomentare. 18 E acciò che… è nominata: Dante sostiene che la misericordia necessariamente ispira opere di generosità (è madre di beneficio); di conseguenza le persone che possiedono la sapienza la offrono a chi non la possiede (alli veri poveri) e rappresentano quasi una fonte viva che può dissetare (refrigera) la sete naturale, il desiderio di sapere, insito nell’uomo, di cui si è parlato prima. 19 E io adunque… vogliosi: entra in scena l’autore che ora si autorappresenta, definendo (non senza modestia) il proprio ruolo di intellettuale, e che presenta la propria opera, le finalità che si propone, e anche il pubblico a cui si rivolge. Lo scrittore non si colloca tra i sapienti (che

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siedono alla beata mensa), ma si raffigura come colui che, allontanatosi dalla massa ignorante (fuggito della pastura del vulgo), raccoglie ciò che cade dalla mensa, ne gusta la dolcezza e, spinto appunto dalla misericordia, memore della propria condizione (non me dimenticando), pensa di renderne partecipi i miseri (cioè chi è privo di sapere) e ha riservato per essi qualcosa, che ha fatto conoscere da tempo, accendendo il loro desiderio di sapere (e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi): Dante si riferisce ad alcune canzoni dottrinali che intende commentare nel Convivio e che in parte erano divulgate già prima, appunto, del progetto dell’opera. 20 Per che: Per cui. 21 un generale convivio: un banchetto di sapienza per tutti. 22 di ciò… esser mangiata: Dante intende offrire nel banchetto come vivanda le canzoni dottrinali, appunto (ciò ch’i’ ho loro mostrato), e accompagnarle con del pane (il commento alle canzoni stesse) che è necessario (ch’è mestiere) a una vivanda di quel tipo, senza il quale non potrebbe essere mangiata da quelle persone. Fuor di metafora: il commento è necessario perché i non specialisti in materia possano comprendere il contenuto delle canzoni.


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è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe23. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa colli altri simili impediti s’assetti24; e alli loro piedi si pongono tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere25: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane che la farà loro e gustare e patire26. [...]

[Nella parte conclusiva del capitolo Dante spiega che il Convivio sarà composto da 14 canzoni che, se prive del commento, sarebbero rimaste in parte oscure e apprezzate esclusivamente per i loro pregi artistici (e non per il loro profondo significato). Allude quindi al diverso carattere del Convivio rispetto alla Vita nuova: fervida e passionata quest’ultima, proprio perché libro della giovinezza; temperata e virile la nuova opera, come si conviene a uno scritto che non appartiene più all’età giovanile. Infine lo scrittore enuncia la volontà di spiegare le canzoni per allegorica esposizione, cioè attribuendo alla lettera del testo un significato allegorico, che corrisponde alla vera intenzione del poeta nel comporre quei testi.] 23 però ad esso… non terrebbe: perciò non si sieda (assetti) ad esso chi ha carenze fisiche (alcuno... disposto) perché non sarebbe in grado di gustare il cibo offerto (però che né denti, né lingua ha né palato) ma neppure i malvagi (alcuno assettatore de' vizii) perché il loro stomaco è pieno di umori velenosi che impedirebbero di trattenere (non terrebbe) nel loro stomaco ogni cibo. Dante dunque, sempre attraverso un linguaggio metaforico, fissa limiti precisi

perché si possa accedere al suo banchetto, richiamandosi agli impedimenti fisici e spirituali di cui ha parlato nella prima parte del trattato; assettatore, cioè “seguace”, è un latinismo da asseditare. 24 Ma vegna qua… s’assetti: ma venga qui chiunque sia rimasto nella naturale fame (del sapere) a causa di impegni familiari o civili e si sieda (s’assetti) alla stessa mensa con gli altri che hanno avuto gli stessi impedimenti (colli altri simili impediti).

25 e alli loro piedi… sedere: nella sua ideale rappresentazione del convivio, Dante pone a un gradino più basso (immagina infatti che stiano ai piedi dei convitati prima nominati) coloro che sono stati lontani dalla conoscenza a causa della pigrizia, perché non sono degni di stare seduti a mensa alla pari con gli altri. 26 prendano... patire: prendano la mia vivanda insieme al pane (cioè il commento), che la farà loro gustare e digerire (patire).

Analisi del testo Un’opera di alta divulgazione per un nuovo pubblico Il Convivio si apre nel nome del filosofo greco Aristotele, massima auctoritas filosofica nel Medioevo. Del filosofo Dante fa sua, prospettandola come un assioma, l’asserzione della congenita aspirazione dell’essere umano alla conoscenza, in cui risiede la sua perfezione. Su questa autorevole premessa si regge a ben vedere l’intero progetto del Convivio: se questa è la natura dell’uomo, è doveroso che chi è in grado di farlo si adoperi per rimuovere ogni ostacolo che impedisca la conquista del sapere a cui ognuno tende. In realtà è facile constatare che solo pochi riescono, a causa di vari impedimenti, ad accedere al sapere. Di fatto Dante si pone al servizio di coloro che sono occupati nelle incombenze familiari e soprattutto civili, e con acuta lungimiranza intercetta la necessità di acculturazione dei nuovi ceti dirigenti della società comunale, tenuti lontani dall’alta cultura anche dall’ignoranza del latino. L’immagine metaforica con cui il poeta si ritrae (non è uno dei sapienti, ma raccoglie le briciole del loro sapere e le dispensa a chi ne ha bisogno) identifica il ruolo di divulgatore che lo scrittore si attribuisce e che comporta, di conseguenza, la scelta rivoluzionaria della lingua volgare in un trattato filosofico. Un compito arduo e prestigioso quello che Dante si assume, nella speranza di recuperare innanzitutto, presso i suoi concittadini, la propria fama umiliata dalla condanna.

La tecnica argomentativa Il testo di Dante è strutturato secondo lo schema espositivo proprio della filosofia scolastica, che comportava la proposta di un principio generale e la verifica o discussione di esso attraverso successive distinzioni. Molto forte è l’asserzione iniziale tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere, presentata come principio indiscutibile (soprattutto perché sostenuta dall’autorità di Aristotele). Segue un procedimento di tipo sillogistico: a) ogni cosa tende alla perfezione; b) la massima perfezione dell’anima consiste nella scienza; c) dunque tutti per natura desideriamo il sapere (di fatto ribadendo il principio generale enunciato all’inizio). Si enunciano poi le ragioni che privano non poche persone della possibilità di accedere al sapere attraverso l’uso di una struttura bipartita, che distingue innanzitutto cause interne ed esterne, a cui segue una ulteriore differenziazione. La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 257


Il procedere, sempre rigorosamente logico, dell’argomentazione, trova uno snodo fondamentale nella constatazione che ciascun uomo a ciascun uomo naturalmente è amico, quindi nell’idea che la solidarietà sia naturale tra chi possiede qualcosa (in questo caso il sapere) e chi ne è privo: sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri. Da questo principio, posto anch’esso come indiscutibile, deriva, secondo la rigorosa logica argomentativa che struttura il capitolo, la scelta stessa del Convivio di dispensare il sapere di cui Dante dispone (per quanto esso possa essere limitato) a chi ne è privo e merita di riceverlo: Dante esclude per definizione chi è assettatore de' vizii, cioè chi persegue una vita viziosa.

Il ruolo delle metafore Oltre alla rigorosa argomentazione, caratterizza il passo l’uso di immagini metaforiche, che sono al servizio delle tesi sostenute dall’autore. Come è stato osservato, le metafore contribuiscono a chiarire i concetti, riportando il discorso teorico a una dimensione concreta, familiare al lettore non specialista a cui Dante intende rivolgersi con la propria opera. Nel passo le metafore afferiscono per lo più al campo semantico del banchetto e del cibo, che dà il titolo all’opera. Ad es. mensa, pane (delli angeli), si manuca, pane, vivanda in contrapposizione a bestiale pastura.

Esercitare le competenze comprendere e analizzare

SInTeSI 1. Sintetizza il contenuto del testo (max 10 righe). coMPrenSIone 2. Il capitolo del Convivio si apre con una “dichiarazione di intenti” da parte di Dante: quale? 3. Quale tra gli impedimenti indicati è per Dante superabile e non implica un giudizio limitativo da parte dello scrittore? AnALISI 4. Il capitolo si apre con un’affermazione generale, quale? Da quale autorità è sostenuta? 5. Schematizza la solida struttura argomentativa del testo. a. Enunciazione del principio generale ....................................................................................................................................................................................................................

b. Cause che impediscono di raggiungere il sapere ....................................................................................................................................................................................................................

c. Metafora del banchetto della sapienza ....................................................................................................................................................................................................................

d. Ruolo di Dante intellettuale (presentazione dell’opera, finalità, pubblico) ....................................................................................................................................................................................................................

STILe 6. Spiega il significato delle seguenti metafore, identificando a che cosa o a chi si riferiscono: a. pane delli angeli ........................................................................................................................................................................ b. quelli pochi che seggiono a quella mensa .................................................................................................................... c. quelli che con le pecore hanno comune cibo ..................................................................................................................... d. un generale convivio ................................................................................................................................................................ e. quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda .........................................................................................................

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Cittadinanza digitale

competenza 10

ScrITTurA ArGoMenTATIVA 7. L’operazione compiuta da Dante nel Convivio è quella di divulgare un sapere destinato tradizionalmente agli “addetti ai lavori” a un pubblico diverso, con mezzi e linguaggio adatti all’obiettivo. Immagina un progetto di questo genere oggi. Quali campi conoscitivi ti sembrano necessitare di un’opera di divulgazione? Per quale pubblico? Con quali mezzi? Elabora un testo argomentativo su questo tema.

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T13 Dante Alighieri

T14 Dante Alighieri

T15 Dante Alighieri

T16 Dante Alighieri L’enigma della donna gentile - Filosofia Convivio II, XII, 1-8

Perchè è giusto impiegare il volgare Convivio I, IX, 2-5

Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete Convivio II, II, canzone I

258 DuecenTo e TrecenTo 6 Dante Alighieri

Significato letterale e “sovrasensi” Convivio II, IX, 1-19; 11; 15


3 Dante teorico della lingua volgare: il De vulgari eloquentia Una monografia sul volgare scritta in latino: una scelta paradossale? Nel primo trattato del Convivio (I, v, 10) Dante preannuncia l’intenzione di scrivere «uno libello [...] di Volgare Eloquenza»: da qui il titolo comunemente attribuito all’opera, a cui lo scrittore si dedicò probabilmente fra il 1303 e il 1305 e la cui finalità era quella di illustrare la dignità e le potenzialità letterarie della lingua volgare. Presumibilmente la scelta innovativa che Dante compie nel Convivio – cioè l’uso della lingua volgare per un trattato filosofico – stimola nello scrittore la necessità di una riflessione teorica sulla natura, le caratteristiche e i pregi del volgare. La lingua che Dante utilizza per questo scopo è però il latino. Una scelta che a prima vista potrebbe sembrare paradossale, ma che invece è spiegabile: il De vulgari eloquentia non è rivolto a un vasto pubblico come il Convivio, ma è programmaticamente destinato a un pubblico specialistico di “addetti ai lavori”, uomini di cultura che l’autore vuole convincere della piena legittimità di scegliere il volgare per scrivere e ai quali Dante si rivolge nel ruolo di autorevole maestro. Un altro progetto interrotto L’ambizioso progetto concepito in origine, che prevedeva quattro libri, non fu portato a termine: l’opera è interrotta al capitolo XIV del secondo libro, nel punto in cui l’autore analizza la forma della canzone. Da alcuni passi sappiamo che avrebbero dovuto seguire altri due libri: nulla si può dire del contenuto del terzo, mentre il quarto avrebbe dovuto trattare lo stile comico e il volgare «mediocre» ad esso relativo. Come per il Convivio, anche per il De vulgari eloquentia si può ipotizzare che l’interruzione dell’opera sia stata determinata dalla sovrapposizione del progetto della Commedia, destinato inevitabilmente ad assorbire ogni energia intellettuale e creativa dell’autore. Una (favolosa) storia della lingua L’opera si apre con l’affermazione che il volgare è la lingua “naturale”, in quanto appreso fin dall’infanzia in modo spontaneo; perciò (contrariamente a quanto affermato nel primo trattato del Convivio) è più nobile del latino, che Dante immaginava fosse una lingua “artificiale”, stabile nel tempo proprio perché non parlata ma solo appresa attraverso lo studio. Secondo Dante (che segue il racconto biblico della Genesi 11, 1-9) la lingua, dono di Dio all’uomo, era originariamente unica ma, in seguito all’atto di superbia che indusse gli uomini a costruire la torre di Babele per innalzarsi al cielo, Dio volle punirli mediante la loro divisione e confusione. L’idioma unitario delle origini si divise dunque in molteplici lingue. L’interesse di Dante si rivolge in particolare all’idioma dell’Europa sud-occidentale, tripartito (ma con elementi linguistici comuni) in lingua d’oc (parlata fra il Sud della Francia e la Catalogna), lingua d’oïl (nella Francia settentrionale) e lingua del sì (parlata dai Latini, o Ytali, appunto nelle diverse zone dell’Italia). Le tre aree linguistiche sono designate dall’avverbio di affermazione: oc, oïl, sì. Nell’invettiva contro la città di Pisa (If XXXIII 80), colpevole dell’orribile fine di Ugolino e dei suoi cari, Dante allude all’Italia con l’espressione «bel paese là dove ’l sì suona», divenuta poi proverbiale. Alla ricerca del volgare illustre Sia la lingua d’oc sia quella d’oil hanno prodotto grandi opere, ma la più nobile è per Dante quella del sì, in quanto più vicina al latino. Dante esamina quindi le varianti locali del volgare italiano, chiedendosi quale di esse possa assurgere a modello di volgare «illustre» (ideale lingua unitaria della penisola, che dovrebbe essere al di sopra dei regionalismi e, ancor più, dei municipalismi). La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 259


Egli ne individua quattordici varianti locali, ma a suo giudizio nessuna (neppure il toscano e il fiorentino) può aspirare al titolo di volgare «illustre», pur possedendo ciascuna di esse alcune tracce della lingua ideale. La ricerca del volgare illustre è metaforicamente rappresentata da Dante come una caccia e la lingua di cui egli va alla ricerca è assimilata alla pantera della quale, secondo la tradizione dei bestiari medievali, si avverte il profumo ma che non si lascia né trovare né catturare. La rassegna dei volgari italiani compiuta da Dante è la prima analisi di questo genere nella cultura del paese e dimostra la presenza, nello scrittore fiorentino, di una particolare sensibilità al problema linguistico e di una non comune competenza critica in questo ambito. Una lingua per una nazione che non c’è Ma quali sono secondo Dante le prerogative del volgare? Deve essere illustre, cioè di alto livello stilistico; cardinale, cioè il cardine attorno a cui ruotano gli altri volgari municipali; regale o aulico, degno di una reggia (in latino. aula): se in Italia ce ne fosse una, sarebbe parlato lì; curiale, ovvero dotato di quella qualità (la curialità, consistente nell’equilibrata norma nell’agire politico-civile) che si trova nelle curie superiori. Dalle ultime due prerogative che Dante assegna al volgare ideale-illustre, si comprende che la riflessione sulla lingua si intreccia inevitabilmente, nel suo pensiero, con il problema politico: egli è ben consapevole della mancanza, in Italia, di un organismo politico capace di assicurare l’unità della penisola e di conseguenza l’unità linguistica. Afferma allora un principio fondamentale: in mancanza di un’autorità politica, di un sovrano, è ai letterati (e in particolare ai poeti) che spetta il compito di fornire un modello linguistico esemplare, supplendo alle carenze istituzionali. La poesia italiana, in particolare nelle forme dello stile tragico, è per Dante in grado di gareggiare con le altre tradizioni dell’area romanza e di assumere il compito di “guida” linguistica per l’area italiana. La prima “storia della letteratura italiana” Nel secondo libro, sulla base delle premesse appena enunciate, Dante analizza puntualmente modelli stilistici e contenuti della poesia “alta”, partendo dal più generale presupposto che la poesia sia superiore alla prosa. L’analisi letteraria di Dante costituisce la prima organica trattazione della letteratura duecentesca e fonda il canone dei modelli più autorevoli, tra i quali lo scrittore pone anche sé stesso e con un ruolo non certo marginale.

Caratteri del volgare ILLUSTRE

dotato di alto livello stilistico

CARDINALE

lingua guida e riferimento dei volgari municipali

AULICO

degno di essere parlato in una reggia, se in Italia ce ne fosse una

CURIALE

dotato dell’equilibrata norma dell’agire politico-civile

260 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Come è stato osservato, l’idea della letteratura delle origini tuttora corrente si deve proprio all’autorevolezza del giudizio dantesco (Mengaldo): ad esempio, l’esistenza stessa di una “scuola siciliana”, aggregatasi attorno alle corti di Federico II e Manfredi, come pure la sostanziale continuità (poi smentita dalla Commedia) tra siciliani e stilnovisti, e soprattutto l’importanza indiscutibile di questi ultimi nel panorama letterario italiano, i più grandi tra i quali sono Cavalcanti, Cino da Pistoia e lo stesso Dante. Secondo una concezione prettamente gerarchica dei contenuti e dei corrispondenti stili poetici, il volgare illustre, secondo Dante, deve essere impiegato per trattare argomenti nobili (quelli che egli definisce i «magnalia», dal latino. magnus, “grande”): il valore nelle armi, la passione amorosa e la retta volontà. Stabiliti gli argomenti degni del volgare illustre, l’autore passa in rassegna le forme metriche: la più alta è la canzone, adatta allo stile tragico; alla commedia si addice invece un volgare «humile» e «mediocre», mentre all’elegia solo il volgare «humile». Il trattato si interrompe dopo la rassegna dei caratteri retorici della canzone, condotta attraverso numerosi esempi dalla letteratura provenzale e italiana.

online

Per approfondire La questione della lingua

Oltre il “volgare illustre” La concezione della lingua che Dante espone nel trattato è senza dubbio selettiva, aristocratica: essa riflette l’idioma concretamente esperito da Dante nella prosa della Vita nuova e/o nelle canzoni dottrinali del Convivio, ma è invece ben lontana dalla prassi linguistica della Commedia. All’universo multiforme del poema il volgare “illustre” celebrato nel trattato non poteva che andare stretto. Senza esitazioni il poeta supera il teorico e accoglie nel repertorio linguistico della Commedia persino quei termini rozzi e municipali che il trattato espressamente condanna.

De vulgari eloquentia DATAZIONE

1303-1305 ca.

STRUTTURA

il progetto prevedeva quattro libri ma si interrompe al XIV capitolo del secondo libro

LINGUA

latino

GENERE

trattato di retorica

TEMI

la difesa del volgare

SCOPO

convincere i dotti a utilizzare il volgare

DESTINATARI

pubblico di letterati

La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 261


Dante Alighieri

T17

Caratteristiche del volgare illustre De vulgari eloquentia I, XVI-XVIII

D. Alighieri, Opere minori, II, a cura di P.V. Mengaldo Ricciardi, MilanoNapoli 1979

1

Presentiamo, dal primo libro del De vulgari eloquentia, i capitoli XVI-XVIII, in cui Dante indica le prerogative del volgare nobile e unitario che sta ricercando.

XVI. [...] definiamo in Italia volgare illustre, cardinale, regale e curiale quello che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati1. XVII. A questo punto occorre esporre con ordine le ragioni per cui chiamiamo con 5 gli attributi di illustre, cardinale, regale e curiale questo volgare che abbiamo trovato: procedimento attraverso il quale ne faremo risaltare in modo più limpido l’intrinseca essenza. E in primo luogo dunque mettiamo in chiaro cosa vogliamo significare con l’attributo di illustre e perché definiamo quel volgare come illustre. Invero, quando usiamo il termine “illustre” intendiamo qualcosa che diffonde luce e che, investito 10 dalla luce, risplende chiaro su tutto: ed è a questa stregua che chiamiamo certi uomini illustri, o perché illuminati dal potere diffondono sugli altri una luce di giustizia e carità, o perché, depositari di un alto magistero, sanno altamente ammaestrare: come Seneca e Numa Pompilio2. Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da un magistero e da un potere che lo sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con 15 l’onore e la gloria. Che possieda un magistero che lo inalza è manifesto, dato che lo vediamo, cavato fuori com’è da tanti vocaboli rozzi che usano gli Italiani, da tante costruzioni intricate, da tante desinenze erronee, da tanti accenti campagnoli3, emergere così nobile, così limpido, così perfetto e così urbano come mostrano Cino Pistoiese e l’amico 20 suo4 nelle loro canzoni. [...] XVIII. E non è senza ragione che fregiamo questo volgare illustre del secondo attributo, per cui cioè si chiama cardinale. Come infatti la porta intera va dietro al cardine, in modo da volgersi anch’essa nel senso in cui il cardine si volge, sia che si pieghi verso l’interno sia che si apra verso l’esterno, così l’intero gregge dei volgari 25 municipali si volge e rivolge, si muove e s’arresta secondo gli ordini di questo, che si mostra un vero e proprio capofamiglia5. Non strappa egli ogni giorno i cespugli spinosi dalla selva italica? Non innesta ogni giorno germogli e trapianta pianticelle? A che altro sono intenti i suoi giardinieri se non a togliere e a inserire, come si è detto? Per cui merita pienamente di fregiarsi di un epiteto così nobile.

definiamo… comparati: nella parte conclusiva del capitolo XVI Dante definisce il carattere di modello ideale della lingua italiana a cui pensa: esso funge da parametro su cui giudicare i singoli volgari locali. 2 Seneca e Numa Pompilio: Dante associa due figure appartenenti alla civiltà latina, ma molto distanti nel tempo: Numa Pompilio è uno dei mitici re di Roma, noto come saggio legislatore, mentre Seneca è il filosofo stoico (I sec. d.C.) che per alcuni anni fu consigliere di Nerone

e poi vittima egli stesso della crudele repressione dell’imperatore. 3 vocaboli rozzi... campagnoli: Dante si riferisce alle espressioni dialettali che ha esaminato nei capitoli precedenti per dimostrare che nessuno dei volgari d’Italia può essere identificato nel volgare illustre che sta definendo. 4 Cino Pistoiese e l’amico suo: come modelli della lingua nobile di cui Dante sta trattando vengono scelti due poeti dello stilnovo: Cino da Pistoia e Dante stesso (l’amico suo).

262 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri

5

capofamiglia: per rappresentare il ruolo regolatore e modellizzante del volgare illustre sulle lingue locali, Dante usa l’immagine molto efficace di un capofamiglia che dà ordini precisi e opera lui stesso perché il suo podere sia ordinato e ben coltivato. Il paragone è sottolineato anche dalle metafore seguenti, in cui i giardinieri sono gli autori impegnati nell’attuazione di questo modello.


Quanto poi al nome di regale che gli attribuiamo, il motivo è questo, che se noi Italiani avessimo una reggia, esso prenderebbe posto in quel palazzo. Perché se la reggia è la casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le sue parti, qualunque cosa è tale da esser comune a tutti senza appartenere in proprio a nessuno, deve necessariamente abitare nella reggia e praticarla, e non vi è altra dimora degna di 35 un così nobile inquilino: tale veramente appare il volgare del quale parliamo. Di qui deriva che tutti coloro che frequentano le reggie parlano sempre il volgare illustre; e ne deriva anche che il nostro volgare illustre se ne va pellegrino come uno straniero e trova ospitalità in umili asili, dato che noi siamo privi di una reggia6. Infine quel volgare va definito a buon diritto curiale7, poiché la curialità non è altro 40 che una norma ben soppesata delle azioni da compiere; e siccome la bilancia8 capace di soppesare in questo modo si trova d’abitudine solo nelle curie più eccelse, ne viene che tutto quanto nelle nostre azioni è soppesato con esattezza, viene chiamato curiale. Per cui questo volgare, poiché è stato soppesato nella curia più eccelsa degli Italiani, è degno di essere definito curiale. 45 Ma dire che è stato soppesato nella più eccelsa curia degli Italiani sembra una burla, dato che siamo privi d’una curia. Ma è facile rispondere. Perché se è vero che in Italia non esiste una curia, nell’accezione di curia unificata – come quella del re di Germania – tuttavia non fanno difetto le membra che la costituiscono; e come le membra di quella curia traggono la loro unità dalla persona unica del Principe, 50 così le membra di questa sono state unite dalla luce di grazia della ragione. Perciò sarebbe falso sostenere che gli Italiani mancano di curia, anche se manchiamo di un Principe, perché in realtà una curia la possediamo, anche se fisicamente dispersa9. 30

Costruzione della Torre di Babele in una miniatura per una Bibbia del XIV secolo (Troyes, Bibliothèque Municipale).

6 se ne va pellegrino… privi di una reggia: Dante allude probabilmente al fatto che i poeti, depositari per eccellenza del volgare illustre, vagano per le corti minori d’Italia (è forse questo il senso di umili asili) perché la penisola è priva di una reggia. 7 curiale: il termine deriva da curia, il centro dell’amministrazione politica e della giustizia all’interno della corte e

al contempo l’insieme dei dignitari che assistono il sovrano nel governo (come i poeti-funzionari della Magna Curia di Federico II). 8 la bilancia: immagine simbolica comunemente associata alla giustizia. 9 Perché se è vero… fisicamente dispersa: Dante non nega l’assenza di una vera e propria curia nell’Italia del suo

tempo, ma sostiene che essa esista solo potenzialmente, perché esistono individui nobili (gli intellettuali) degni di farne parte, anche se ora sono dispersi. Il concetto non risulta molto convincente sul piano logico-argomentativo, ma esprime più che altro la forte aspirazione di Dante a una struttura politica (e di conseguenza linguistica) unificante.

La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 263


Analisi del testo Un volgare regale e curiale Tra le varie definizioni che Dante dà del volgare-modello a cui pensa, sicuramente le più interessanti sono le ultime due (regale e curiale) in cui il problema linguistico si aggancia indissolubilmente, nella riflessione dello scrittore, al problema politico italiano: Dante lamenta l’assenza in Italia di un forte organismo centrale, conformemente alle sue più generali convinzioni testimoniate dal Convivio e dalla Monarchia. Interessante (e davvero premonitrice) è l’idea che gli intellettuali (le membra di quella curia ideale fondata, per Dante, sull’esercizio della ragione) potessero avere un ruolo determinante nel creare, almeno a livello di alta cultura, quell’unità nazionale che la realtà storica negava e avrebbe a lungo negato all’Italia. Su questo punto proponiamo un’incisiva riflessione del critico e storico della letteratura Giuseppe Petronio (1909-2003): «Questo volgare, pensa Dante, oggi virtuale [potenziale], poteva diventare una realtà effettuale [effettiva] solo che in Italia si costituisse un’“aula”, una corte dove concorresse il fior fiore degli intellettuali di tutto il Paese, e lì, dal loro conversare, si formasse una lingua depurata di tratti municipali, costituita dagli elementi comuni a tutti i volgari, modellata sul grande esemplare latino. Questa lingua sarebbe naturalmente capita da tutti, moderna, in grado di cantare letterariamente i massimi temi, quelli propri della tragedìa, come allora dicevano: le armi, l’amore, la magnanimità. Questo progetto o sogno di Dante non si realizzò, almeno non si realizzò nei modi che lui auspicava. Gli imperatori tedeschi trascurarono l’Italia, che pure era il giardin de l’Impero e non la unificarono; l’Italia rimase divisa, e mezzo secolo dopo invano Petrarca avrebbe predicato ai tanti Signori: “I’ vo gridando: ‘Pace, pace, pace’”; un’“aula” italiana, cioè la corte di uno Stato nazionale italiano, non ci sarebbe stata, fino al 1861. Eppure, quel sogno o progetto si realizzò, in parte, già nel Trecento; di fatto già allora si costituì in Italia, dispersa per tutta la penisola, quella società letteraria [...] e usò una lingua forgiata sulle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio; una lingua che, fra alterne vicende, è stata poi la lingua della letteratura italiana e, nello stesso tempo, la base di una lingua nazionale parlata, ma solo a un certo livello di società e di cultura. Ma, pure con questo limite, quella lingua e quella letteratura – italiane, e sentite tali – hanno tenuto viva nei secoli la coscienza di una unità nazionale, un fatto che ha rappresentato, più tardi, un elemento essenziale per la nascita di uno Stato su basi nazionali». G. Petronio, La letteratura italiana raccontata da Giuseppe Petronio vol. I, Mondadori, Milano 1995

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Dividi il testo in sequenze e per ciascuna di esse assegna un titolo; poi riassumi l’intero brano in non più di 10 righe. ANALISI 2. Nel testo si parla di lingua, ma si formula anche un giudizio politico: quale? STILE 3. Il carattere del passo non è “discorsivo”, ma si fonda su una serie di articolate argomentazioni, strutturate secondo un procedimento deduttivo. Tuttavia, come già nel Convivio, anche in questo caso Dante ricorre a paragoni e immagini metaforiche per conferire al discorso una più immediata evidenza. Individua paragoni e metafore, spiegane la funzione in rapporto al contesto e valutane l’efficacia.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. L’ottica con cui Dante parla del volgare in questo passo – e in genere nel trattato – ti sembra la stessa del Convivio? Per rispondere leggi anche il testo del Convivio proposto in ➜ T13 OL, dove Dante parla della necessità di impiegare il volgare (anziché il latino).

online T18 Dante Alighieri

Lo stile tragico De vulgari eloquentia, II, IV, 7-11

264 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


4 La riflessione politica: la Monarchia Un trattato politico di scottante attualità nel primo Trecento Il De Monarchia è l’unica opera teorica completata da Dante. È un trattato in tre libri scritto in latino, perché l’autore si rivolge a un pubblico di dotti, e non solo italiani (sappiamo che a quel tempo il latino è la lingua “internazionale” della cultura). In esso il fiorentino riprende in parte temi già presenti nel Convivio, di cui la Monarchia è un approfondimento e insieme uno sviluppo, e interviene nella polemica giuridica e politica sui ruoli delle due istituzioni universali, il papato e l’Impero, che all’epoca manifestavano evidenti segni di crisi. Stimolato dalla difficile situazione del suo tempo e dalla sua stessa dolorosa esperienza di exul immeritus, Dante si inserisce autorevolmente nel dibattito che contrapponeva i sostenitori della teocrazia, assertori della superiorità del potere spirituale attraverso il rappresentante di Dio in terra, il papa, e coloro che invece difendevano l’autonomia del potere politico da quello religioso. Dante si schiera nettamente con questi ultimi. L’opera è importante per comprendere il pensiero politico dello scrittore e costituisce un fondamentale commento a molti passi della Commedia. La datazione dell’opera Il De Monarchia è sicuramente posteriore al Convivio e, in particolare, si può considerare uno sviluppo del quarto libro dell’opera. I critici propongono però datazioni diverse: la Monarchia potrebbe essere una risposta alla bolla Unam Sanctam (1302) in cui Bonifacio VIII affermava la superiorità del potere spirituale del papa su quello dell’imperatore, e in questo caso risalirebbe al 13071309; oppure (ed è l’ipotesi più probabile) potrebbe essere stata composta al tempo della discesa di Arrigo VII in Italia (1310): tesi, questa, avallata dalla testimonianza di Boccaccio (Trattatello in laude di Dante, XXVI). In tal caso l’opera avrebbe avuto come fine quello di favorire l’impresa imperiale, nella quale Dante riponeva molte speranze; infine, considerando un rinvio esplicito (Monarchia I, XII, 6) a un passo del Paradiso (V, 19-22) e varie concordanze ideologiche e formali tra l’opera e la terza cantica, alcuni hanno pensato a una stesura più tarda dell’opera (forse il 1317). La monarchia universale è necessaria Il primo libro dell’opera sostiene la necessità della monarchia universale per consentire all’uomo la realizzazione delle potenzialità intellettuali. Essa è possibile solo se regnano la pace e la giustizia e se è messa a tacere l’avidità di beni materiali: essa, infatti, impedisce al genere umano di conquistare la piena felicità terrena, che per Dante si raggiunge dedicandosi alla conoscenza e alla filosofia. Solo un imperatore nelle cui mani siano concentrati il potere temporale e le ricchezze può essere al di sopra delle parti e garante di pace, come avvenne durante l’impero di Augusto, che portò uno stato di pace universale. Arrigo VII attraversa le Alpi in occasione della sua discesa in Italia nel 1310, illustrazione miniata dal Codex Balduini Trevirensis. Lo stesso Baldovino, autore del codice e vescovo di Treviri, è raffigurato con il berretto rosso e gli stendardi di Treviri e del Lussemburgo, insieme ad Arrigo, che porta le insegne regali e a Margherita di Brabante, 1340 (Coblenza, Landeshauptarchiv).

La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 265


Il papa e l’imperatore ricevono la tiara e la spada dal divino legislatore, miniatura da un codice del Decretum Gratiani del XIV secolo (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana).

L’Impero romano è stato voluto da Dio Nel secondo libro, Dante individua nel disegno di Dio l’affermazione dell’Impero romano. A differenza di quanto lui stesso pensava un tempo, ora Dante sostiene che i Romani basarono il proprio dominio sul diritto e non sulla violenza e furono quindi meritevoli di dare vita all’istituzione imperiale, la cui realizzazione fu favorita da Dio con numerosi miracoli. L’unità del mondo sotto l’autorità di Roma è stata voluta da Dio perché potesse diffondersi la parola di Cristo, nato e morto durante l’Impero romano. Dante interpreta la storia dell’Impero secondo la prospettiva provvidenziale che ritorna anche nel canto VI del Paradiso, quando, per bocca di Giustiniano, viene difeso e celebrato il potere romano. Papato e Impero Il tema affrontato nel terzo libro della Monarchia rappresenta l’argomento più spinoso del trattato. Dante afferma che sia il potere temporale sia il potere spirituale derivano direttamente da Dio, perciò l’Impero risulta autonomo rispetto alla Chiesa (teoria dei "due soli"). Dante sa di avere molti avversari e confuta le loro diverse tesi con argomentazioni derivate dalla Bibbia e dai dati storici. Conclude l’opera affermando che, se la Provvidenza ha stabilito due fini per l’uomo, cioè la felicità terrena e la beatitudine eterna, due sono le guide per conseguirli: l’imperatore, che ha il dovere di condurre gli uomini alla felicità terrena, e il papa, che deve alimentare negli animi le virtù teologali; ma, poiché la felicità terrena è imperfetta senza l’eterna beatitudine, l’imperatore deve considerare il papa come un padre, anche se ciascuno dei due risponde solo a Dio della propria autorità.

Teoria dei “due soli” Dio pone due autorità alla guida degli uomini

al papa la guida spirituale

all’imperatore la guida temporale

per raggiungere la

per raggiungere la

beatitudine eterna

felicità terrena

ciascuno risponde solo a Dio

266 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Un’opera utopistica? Il sogno di un impero sovranazionale, universalmente accettato all’inizio del XIV secolo, era certamente irrealizzabile all’epoca di Dante: sia i Comuni italiani sia i principati territoriali non erano disposti a rinunciare alla loro autonomia. Sotto questo aspetto la prospettiva di Dante appare utopistica, come utopistica, a ben vedere, è l’idea che l’imperatore guidi l’umanità a lui sottoposta attraverso gli insegnamenti della filosofia (➜ T19 ). Però utopistica non è, ma anzi risulta volutamente propositiva e polemica, la netta opposizione che Dante manifesta nel trattato nei confronti della concezione teocratica. In questo senso la Monarchia si lega alle molte pagine della Commedia in cui Dante attacca severamente il potere temporale della Chiesa e le pretese di ingerenza negli affari pubblici e politici. Una diffusione ostacolata L’opera suscitò aspre condanne da parte delle gerarchie ecclesiastiche, mentre ebbe fortuna in ambienti ostili al potere temporale della Chiesa, in particolare presso i riformatori protestanti. La Monarchia fu pubblicamente bruciata per volere del cardinal Bertrando del Poggetto a Bologna nel 1329 e inserita, nel XVI secolo, nell’Indice dei libri proibiti, in cui rimase addirittura fino al 1881. Non è dunque certo un caso che la prima edizione a stampa avvenisse in un Paese luterano, a Basilea, nel 1559.

Hans Bornemann, Cristo, nella mandorla, offre al papa e all'imperatore le spade del potere spirituale e temporale, illustrazione miniata dal codice giuridico Sachsenspigel, 1442 (Lüneburg, Biblioteca comunale).

Monarchia DATAZIONE

incerta

STRUTTURA

3 libri (completi)

LINGUA

latino

GENERE

trattato politico

TEMI

necessità della monarchia universale (I libro); l’origine divina dell’Impero romano (II libro); il rapporto tra papato e Impero (III libro)

DESTINATARI

pubblico di dotti

La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 267


Collabora all’analisi

T19 D. Alighieri, Opere minori, II, a cura di B. Nardi, Ricciardi, Milano-Napoli 1979

Dante Alighieri

I due diversi fini dell’uomo e le due guide Monarchia, III, XV, 7-18 Nell’ultimo capitolo dell’opera Dante chiarisce con grande evidenza dimostrativa il suo pensiero riguardo alle due autorità preposte alla guida dell’umanità: il papa e l’imperatore. Nella prima parte del capitolo (non riportata) Dante sottolinea che l’uomo è composto di una natura corruttibile (il corpo) e di una incorruttibile (l’anima). Proprio per questa sua duplice natura, egli ha due diversi fini, al raggiungimento dei quali è guidato, in piena autonomia, rispettivamente dall’autorità temporale (l’imperatore) e spirituale (il papa). II primo non dipende in alcun modo dal secondo, anche se l’imperatore deve comunque avere verso di lui una reverenza filiale.

XV. [...] Due fini, adunque, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose innanzi all’uomo: vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre1; e la beatitudine della vita eterna, consistente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non 5 può giungere senza il soccorso del lume divino, e adombrata nel paradiso celeste. A queste [due] beatitudini, come a [due] conclusioni2 diverse, conviene arrivare con procedimenti diversi. Alla prima invero noi perveniamo per mezzo delle dottrine filosofiche, purché le seguiamo praticando le virtù morali3 e quelle intellettuali; alla seconda invece giungiamo per mezzo degl’insegnamenti divini che trascendono la 10 ragione umana, purché li seguiamo praticando le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità. Benché queste conclusioni e questi procedimenti siano stati a noi mostrati, quelli dalla ragione umana, tutta quanta per noi spiegata ad opera dei filosofi, questi4 dallo Spirito Santo che per mezzo dei profeti e degli scrittori ispirati, per mezzo 15 di Gesù Cristo, figliuol di Dio, a lui coeterno, e dei suoi discepoli ci ha rivelato la verità sovrannaturale a noi necessaria, tuttavia l’umana cupidigia se li butterebbe dietro le spalle, se gli uomini, a guisa di cavalli5, portati dalla loro bestialità ad andar vagando, non fossero trattenuti nel loro viaggio «con la briglia e col freno»6. Per questo fu necessaria all’uomo una duplice guida corrispondente al duplice fine: 20 cioè il sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita eterna per mezzo delle dottrine rivelate; e l’Imperatore, il quale indirizzasse il genere umano alla felicità temporale per mezzo degl’insegnamenti della filosofia. E siccome a questo porto nessuno, o soltanto pochi, e anche questi con soverchia7 difficoltà, possono arrivare, se il genere umano, sedati i flutti della blanda cupidigia8, non riposa libero 25 nella tranquillità della pace, a questo fine appunto deve tendere con tutte le forze colui che ha cura del mondo e che dicesi Principe romano, che si possa cioè vivere

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raffigurata nel paradiso terrestre: la condizione di felicità terrena è rappresentata nel paradiso terrestre, una condizione che l’uomo, a causa del peccato originale, ha perduto e deve faticosamente riacquistare. 2 conclusioni: fini, obiettivi. 3 le virtù morali: sono prudenza, fortez-

za, giustizia, temperanza.

4 quelli... questi: quelli sono i comportamenti che conducono alla beatitudine terrena, questi i comportamenti che conducono alla beatitudine celeste. 5 a guisa di cavalli: come cavalli. 6 «con la briglia e col freno»: l’espressione biblica (Salmi 31, 9) è giustificata

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dal paragone tra gli uomini, vittime della cupidigia, e i cavalli sfrenati. 7 soverchia: eccessiva. 8 sedati... cupidigia: placate le onde della cupidigia seduttrice. È un’immagine metaforica appartenente al campo della navigazione, come prima l’immagine del porto.


liberamente in pace in questa aiuola dei mortali9. E siccome la disposizione di questo mondo è conseguenza della disposizione risultante dal ruotare dei cieli10 perché gli utili insegnamenti della libertà e della pace vengano applicati senza intoppo ai 11 30 luoghi e ai tempi, è necessario che a questo curatore sia provveduto da Colui che ha presente al suo sguardo tutta quanta la disposizione dei cieli. Or questi è soltanto colui che tal disposizione preordinò, sì che per mezzo di essa, nella sua provvidenza, ogni cosa ha legato al posto che le spetta12. Se così è, egli solo elegge13, egli solo conferma poiché non ha alcuno sopra di sé. Dal che si può inoltre ricavare, che né 14 35 quelli dei nostri giorni né altri che in qualunque modo sono stati detti “elettori” , han da chiamarsi con questo nome; ma piuttosto son da ritenere “annunciatori del provvedere divino”. Onde avviene che talvolta quelli cui è stato conferito l’onore di dare questo annuncio, son tra loro discordi, o perché tutti o perché alcuni di loro, ottenebrati dalla nebbia della cupidigia, non riescono a discernere la faccia della 15 40 divina disposizione . Così appar dunque evidente che l’autorità del Monarca temporale discende in esso senza alcun intermediario dal Fonte dell’universale autorità16; il qual Fonte, unito nella rocca17 della sua semplice natura, si spande in molteplici rivi per sovrabbondanza della sua bontà. E ciò mi par che basti ormai al raggiungimento della mèta propostami. Giacché è 45 stata svelata appieno la verità sul problema, se al benessere del mondo fosse necessario l’ufficio del Monarca, e sul problema se il popolo romano a buon diritto si sia arrogato l’Impero, nonché sull’ultimo quesito, se l’autorità del Monarca dipendesse immediatamente da Dio oppure da qualche altro18. La verità, per altro, a riguardo dell’ultima questione non va intesa così strettamente, nel senso che il Principe 50 romano non sottostia in qualche cosa al romano Pontefice, essendo la beatitudine di questa vita mortale ordinata in qualche modo alla beatitudine immortale. Usi pertanto Cesare quella riverenza verso Pietro, che il figlio primogenito ha da usare verso il padre; sì che, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa con maggiore efficacia irraggiare la terra, al cui governo è stato preposto soltanto da Colui che di 19 55 tutte le cose spirituali e temporali ha il dominio .

9 aiuola dei mortali: è la terra. 10 E siccome... dei cieli: secondo la concezione astronomico-astrologica del tempo, Dante ammette l’influenza della rotazione delle sfere celesti sul mondo e sui comportamenti umani. 11 a questo curatore: all’imperatore, più sopra definito Principe romano. 12 Or questi... le spetta: ora questi (si riferisce alla perifrasi precedente) è soltanto colui che ha creato un disegno provvidenziale (Dio) per mezzo del quale ogni elemento è nel posto che è preordinato a occupare nell’universo. 13 egli solo elegge: solo a Dio spetta scegliere (latinismo da eligere). 14 “elettori”: i principi tedeschi, elettori dell’imperatore. Il ragionamento di Dante è il seguente: se solo Dio può “elegge-

re” chi è alla guida terrena dell’umanità, nessuno può usurpare il titolo di “elettore”. 15 la faccia della divina disposizione: il vero disegno di Dio. 16 Fonte dell’universale autorità: Dio, da cui emana ogni autorità. 17 rocca: roccaforte. È un’immagine metaforica. 18 se al benessere... qualche altro: Dante riassume qui i nuclei fondamentali dei tre libri che compongono il trattato: si ricordi che il primo libro ha come tema fondamentale la necessità di una monarchia universale che garantisca giustizia e pace; il secondo dimostra che l’autorità imperiale è stata provvidenzialmente concessa da Dio al popolo romano perché unifichi e pacifichi il mondo

preparando la diffusione del messaggio cristiano; il terzo affronta il problema cruciale dei rapporti tra Impero e papato e se l’autorità dell’imperatore derivi dal papa o da Dio. 19 La verità... ha il dominio: come colto da scrupoli, Dante precisa nella conclusione del trattato che in ogni caso la beatitudine immortale è superiore a quella terrena e quindi l’imperatore deve avere un atteggiamento di riverenza filiale verso il papa così che, da lui illuminato, possa meglio reggere i popoli della terra, al cui governo comunque è stato preposto da Dio, signore di tutte le cose spirituali e temporali. Cesare e Pietro sono per Dante rispettivamente i fondatori dell’Impero e della Chiesa.

La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 269


Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il passo si legge nella conclusione dell’opera, dove Dante riprende e ribadisce la tesi generale del Monarchia. La prima parte (rr. 1-22, fino a filosofia) consiste in un’ampia premessa, sostenuta da una rigorosa struttura argomentativa, finalizzata a giustificare la necessità di due guide per l’umanità. 1. Indica: – i due fini che Dio ha voluto per l’uomo; – i mezzi con cui è possibile raggiungere tali fini; – l’ostacolo al loro raggiungimento che Dante individua; – le guide che Dio ha stabilito provvidenzialmente per l’umanità; – i diversi compiti e i diversi strumenti delle due guide in rapporto ai fini. Nella seconda parte del passo (rr. 22-48, da E siccome a qualche altro) Dante si sofferma a riflettere sul potere dell’imperatore, che chiama Principe romano, al quale spetta l’importante compito di assicurare all’uomo la possibilità di vivere in pace e libertà. Lo scrittore sostiene con convinzione che l’autorità dell’imperatore derivi da Dio, dei cui provvidenziali progetti questa figura è solo uno strumento. 2. Perché Dante asserisce che gli elettori dell’imperatore non possono essere definiti con questo termine? Con quale espressione, invece, dovrebbero essere definiti secondo lui e perché? Nell’ultima parte del suo discorso (rr. 48-55) Dante sembra attenuare la rigida separazione tra potere spirituale e temporale e sancire la pari dignità di Impero e papato, in quanto entrambi voluti da Dio. 3. Quale motivo adduce Dante per giustificare la riverenza dovuta dall’imperatore al papa? Il testo è fortemente coeso grazie alla presenza insistita di parallelismi e contrapposizioni, nonché di connettivi testuali che scandiscono con incisività il procedere dell’argomentazione. (Ricorda che connettivi non sono solo congiunzioni e avverbi, ma anche locuzioni o intere proposizioni.) 4. Individua e trascrivi: – i connettivi testuali; – le opposizioni. Nella struttura logica particolarmente accentuata del testo sono presenti anche similitudini e immagini metaforiche particolarmente efficaci. 5. Individua e spiega, in rapporto al contesto, le similitudini e le metafore. Nella cultura medievale e ancora nella visione di Dante la dimensione trascendente permea ogni manifestazione della vita terrena e condiziona i comportamenti umani. Anche nella riflessione di Dante la presenza della dimensione morale e religiosa si intreccia costantemente ai riferimenti alla vita e alla gestione politica. 6. Esemplifica con qualche opportuno riferimento.

Interpretare

Il trattato dantesco prende le mosse da una concreta situazione storico-politica e da un acceso dibattito sulle due autorità universalistiche. 7. Riassumi la tesi di Dante e quindi esprimi una valutazione critica: la posizione di Dante ti sembra realistica oppure utopistica o anacronistica, come è parso a molti?

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5 Epistole Di Dante ci sono pervenute 13 epistole, composte tra il 1304 e il 1317. Le Epistole sono scritte, come era consueto a quel tempo, in latino e secondo lo stile – alto, sostenuto, denso di riferimenti colti e di figure retoriche – previsto dalle artes dictandi, i manuali sull’arte di scrivere. Tra di esse alcune hanno carattere autobiografico (II, IV e XII) e testimoniano lo stato d’animo di Dante negli anni dell’esilio. Notevole interesse rivestono le cinque epistole dedicate al tema politico (I, V, VI, VII, XI): una delle più significative è la VII, indirizzata all’imperatore Arrigo VII, che nel 1310 era disceso in Italia con l’intenzione di pacificarne le città e di restaurare l’autorità imperiale. Un progetto che suscitò l’entusiasmo e le speranze (poi deluse) di Dante, che nell’epistola si rivolge all’imperatore invitandolo, con enfasi e immagini bibliche, a rompere ogni indugio. In rapporto alla discesa dell’imperatore, Dante rivolge anche (V) un invito ai signori d’Italia affinché collaborino con il sovrano e sostengano la sua missione, e un’apostrofe minacciosa agli scellerati fiorentini (VI). Molto nota (anche se tuttora si discute sulla sua autenticità) è l’Epistola XIII, rivolta a Cangrande della Scala, il signore di Verona presso il quale Dante aveva trovato accoglienza. A Cangrande, Dante dedica e invia il Paradiso (o parte di esso) quale rinonline graziamento, come specifica nella prima parte della lettera. T20 Dante Alighieri L’importanza dell’Epistola XIII sta nel fatto che in essa Dante A un amico fiorentino Epistole, XII (ammesso che ne sia l’autore) introduce una serie di indicazioT21 Dante Alighieri ni sul modo di accostarsi alla Commedia (secondo lo schema Una introduzione “d’autore” medievale dell’accessus ad auctores), sul significato del titolo e alla lettura della Commedia Epistole, XIII, 7-8; 10 sul rapporto tra lettera e allegoria.

Agnolo Bronzino, Ritratto di Dante Alighieri, olio su tela, 1532-1533 (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

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4 Il poema sacro 1 Le caratteristiche generali VIDEOLEZIONE

Un grandioso poema La Commedia è un poema in terzine di endecasillabi a rima alternata. È diviso in tre cantiche, Inferno (If), Purgatorio (Pg), Paradiso (Pd), ognuna delle quali è costituita da trentatré canti. A essi si aggiunge il primo canto dell’Inferno che funge da proemio all’intera opera, che risulta dunque composta complessivamente da cento canti. Colpisce subito la ricorrenza, persino nella struttura metrica, del numero tre, che nella cultura cristiano-medievale aveva una forte valenza simbolica: è infatti il numero sacro per eccellenza, il numero della Trinità. Non a caso il tre (o il suo multiplo perfetto, ovvero il nove, quindi il tre considerato tre volte) ricorre anche nella strutturazione dei tre regni ultraterreni: nove sono i cerchi infernali, nove le zone in cui è diviso il Purgatorio, nove i cieli del Paradiso. Perché Commedia? L’enigma del titolo L’aggettivo divina, che il lettore è abituato da secoli ad associare al capolavoro di Dante, si deve non all’autore, ma a Giovanni Boccaccio, grande estimatore del poeta fiorentino, il quale lo usa però riferendosi al solo Paradiso (dove si parla appunto di cose «divine»). L’aggettivo fu incorporato stabilmente nel titolo del capolavoro dantesco a partire dall’edizione curata da Ludovico Dolce e stampata a Venezia nel 1555. Dante denomina la propria opera semplicemente comedìa (secondo l’accentazione in uso nel Medioevo), ovvero commedia, sulla base di criteri essenzialmente retorici, riconducibili alla distinzione medievale degli stili di cui anche Dante tratta nel De vulgari eloquentia. Il termine è usato nella celebre Epistola a Cangrande della Scala, benefattore e protettore del poeta (➜ T21 OL), dove si giustifica il titolo dell’opera in relazione sia al contenuto sia alla lingua impiegata. Il poema è definibile come “commedia” innanzitutto per la materia, che trascorre dal tragico orrore dell’Inferno alla gioiosa letizia del Paradiso. Quanto al linguaggio impiegato, Dante lo definisce «dimesso e umile perché si tratta della parlata volgare che usano anche le donnette» in contrapposizione al latino, lingua dell’alta cultura e del poema epico cui l’autore guarda come riferimento, ovvero l’Eneide di Virgilio, definita «alta [...] tragedìa» in If XX, 113.

Dante verso il Purgatorio, in un capolettera miniato illustrato da Priamo della Quercia, codice Yates Thompson, 1444-1450 (Londra, The British Library).

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Probabilmente il termine “commedia” deve essere nato nella mente di Dante quando il poeta componeva la prima cantica e ad essa principalmente sembra adeguato. Non a caso nel Paradiso (XXIII, 62) Dante usa altre parole per riferirsi alla sua opera, come sacrato poema. online

Per approfondire Ricostruire il testo originale della Commedia: un problema filologico ancora aperto

Quando è stata composta la Commedia? La cronologia di composizione della Commedia è alquanto incerta e su di essa esistono soltanto delle congetture. Si concorda, ormai, sul fatto che il poema sia stato iniziato quando il poeta si trovava già in esilio: forse nel 1304, ma secondo la maggioranza degli studiosi nel 1306-1307. L’Inferno fu probabilmente concluso nel 1308, il Purgatorio intorno al 1312, mentre il Paradiso, avviato intorno al 1316, fu terminato poco prima della morte del poeta (1321).

2 Il viaggio ultraterreno Lo schema narrativo del viaggio Per assolvere al compito educativo che si è imposto e nell’intenzione consapevole di rivolgersi a un pubblico vasto ed eterogeneo, Dante non utilizza il trattato in prosa ma sceglie il genere del poema e adotta lo schema narrativo del viaggio, assai familiare ai lettori del tempo perché radicato nella letteratura classica (si pensi all’Odissea e all’Eneide) e medievale (➜ C3, PAG. 127). Nella Commedia Dante assume dunque le vesti di un pellegrino che visita i tre regni dell’aldilà – Inferno, Purgatorio e Paradiso – per ricavarne insegnamenti morali utili a sé e a tutta l’umanità: un viaggio conoscitivo, fondato sul modello romanzesco dell’“inchiesta”, in questo caso di carattere etico-religioso (➜ T22 OL). Il modello delle “visioni” e la reinterpretazione di Dante Al suo viaggio, Dante conferisce i caratteri di un’esperienza verificatasi realmente adottando il modello della letteratura delle “visioni”, assai popolare nel Medioevo (dall’apocrifa Visione di san Paolo alla Visione di Alberico, a quella di Tugdalo e a molte altre) (➜ C2, PAG. 121; C3, PAG. 127;). Al tempo, gli episodi visionari erano ritenuti degni di credibilità: anzi, è proprio il configurarsi come visione che conferisce al testo dantesco l’autorità di un messaggio salvifico, in rapporto appunto alla missione provvidenziale che lo scrittore si attribuisce. Mentre però le visioni medievali si iscrivevano in un tempo metafisico, non misurabile in modo preciso, il poeta colloca gli accadimenti del poema entro coordinate cronologiche (e spaziali) precise, che creano un effetto di realtà estremamente coinvolgente per il lettore. È la primavera del 1300, l’anno del primo Giubileo; Dante ha 35 anni e si trova dunque «nel mezzo» della propria esistenza (il corso della vita umana allora era fissato all’incirca intorno ai settant’anni) quando inizia il viaggio: nella notte dell’8 aprile, venerdì santo (ci troviamo dunque nella settimana della Passione di Cristo), egli si ritrova nella «selva oscura» e inizia il suo avventuroso cammino (➜ T22a OL). L’intero viaggio si completerà nel corso di una sola settimana. Lo spazio delle visioni era, inoltre, sostanzialmente simbolico e le descrizioni di esso frammentarie e occasionali; Dante delinea invece una vera e propria “mappa” dell’oltretomba, costruendo realisticamente lo spazio. Inoltre, mentre il viaggio nelle visioni è esperienza individuale dell’autore, nella Commedia – come l’autore stesso spiega nell’Epistola a Cangrande – è anche allegoria dell’itinerario dell’anima dalla caduta alla salvezza: nel suo capolavoro, Dante si prospetta come simbolo dell’umanità intera in cammino dall’oscurità del peccato alla luce di Dio. Il poema sacro 4 273


PER APPROFONDIRE

La configurazione dell’aldilà dantesco Il viaggio di Dante attraverso i tre regni dell’aldilà si iscrive in una topografia precisa, in parte collegata alla cosmologia medievale e in parte frutto dell’originale creazione dell’autore. La Terra, posta immobile al centro dell’universo secondo la concezione aristotelico-tolemaica, è divisa in due emisferi: quello boreale, dove si trovano le terre emerse, è abitato, mentre quello australe è completamente coperto dalle acque e disabitato («mondo sanza gente»: If XXVI, 117).

L’Inferno è una voragine che si sprofonda sotto la città santa, Gerusalemme, immaginata al centro dell’emisfero superiore. Il baratro dell’Inferno si è formato in seguito alla caduta dai cieli di Lucifero, l’angelo ribelle, da allora conficcato per sempre nel centro della Terra. Dante lo rappresenta come un enorme mostro con tre facce e ali di pipistrello, bloccato al centro del lago di ghiaccio in cui sono imprigionati i peccatori più gravi, i traditori. I dannati, tormentati da pene atroci, sono distribuiti in nove zone concentriche via via più ristrette, secondo la crescente gravità delle colpe commesse. La tipologia delle colpe corrisponde a tre fondamentali disposizioni negative dell’animo già definite da Aristotele: l’incontinenza (il desiderare cioè smodatamente i beni e i piaceri terreni) punita dal II al V cerchio; la violenza (VII cerchio, diviso in tre gironi) e infine la frode, considerata il peggiore dei peccati perché nel perpetrarla l’uomo perverte la qualità che lo distingue, cioè la ragione. Dante incontra i fraudolenti nell’VIII cerchio, diviso in dieci fosse concentriche (le Malebolge) e nel IX e ultimo cerchio, a sua volta diviso in quattro zone, i traditori. Al di fuori della tipologia aristotelica stanno gli eretici (VI cerchio), puniti entro tombe infuocate. Il primo cerchio dell’Inferno è costituito dal Limbo, dove stanno i bambini morti senza aver ricevuto il battesimo. In una zona isolata nel Limbo, all’interno di un nobile castello, Dante immagina la sede dei grandi spiriti dell’antichità (gli «spiriti magni»), tra i quali Virgilio stesso: pur essendo vissuti nella virtù, essi non possono accedere né al Paradiso né al Purgatorio perché non hanno conosciuto la parola di Cristo. La loro pena non è fisica, ma consiste unicamente nel tormento interiore che deriva loro dall’impossibilità di appagare il desiderio di conoscere il vero bene. I nove cerchi dell’Inferno sono preceduti dall’Antinferno, dove si trovano gli ignavi: la loro incapacità di scegliere nella vita terrena tra male e bene li emargina sia dal regno infernale sia dal Paradiso. Accompagnato dal poeta latino Virgilio, invocato da Beatrice in suo soccorso, Dante percorre l’intero regno infernale, fino a giungere al centro della Terra, da dove risale, attraverso un lungo cunicolo, la natural burella (If XXXIV, 98), in superficie. Si ritrova agli antipodi di Gerusalemme, sulla spiaggia del Purgatorio.

Anonimo cremonese, Giudizio universale, particolare, sec. XVII (Cremona, Museo civico Ala Ponzone).

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Il Purgatorio è un’altissima montagna che si eleva nell’emisfero australe, coperto dalle acque, esattamente dalla parte opposta della Terra rispetto a Gerusalemme. È stata formata dalla Terra che si è ritratta inorridita quando Lucifero cadde dal cielo. Alla spiaggia del Purgatorio i penitenti arrivano attraversando le acque su una barca condotta dall’angelo nocchiero, che raccoglie gli spiriti sulle rive del Tevere. Alle basi della montagna si stende la zona dell’Antipurgatorio, dove gli spiriti che si sono pentiti dei loro peccati solo al termine della vita devono rimanere lungo tempo prima di poter essere ammessi al Purgatorio vero e proprio. Questo è costituito da sette cornici: nelle più basse gli spiriti, attraverso pene che non sono meno dolorose di quelle dei dannati, espiano le colpe della superbia, dell’invidia e dell’ira. Nella quarta cornice ci si purifica dall’accidia, nelle ultime tre dall’avarizia e dalla prodigalità, dalla gola e infine dalla lussuria. Nel Purgatorio gli spiriti percorrono tutte le cornici, purificandosi di tutti i tipi di peccato, a differenza dei dannati che scontano la loro colpa più grave, quella che maggiormente li identifica come peccatori e sono quindi confinati per l’eternità in un’unica zona dell’Inferno. Sulla sommità del Purgatorio si trova il Paradiso Terrestre (la «divina foresta spessa e viva»: Pg XXVIII, 2), dove scorrono due fiumi in cui Dante stesso, accomunato nel suo cammino ai penitenti, si immergerà per completare così la sua purificazione: il Lete è il fiume che induce l’oblìo dei peccati commessi in vita; l’Eunoè, il fiume della “buona conoscenza”, restituisce la memoria di tutto il bene che si è compiuto nella vita. Nel Paradiso Terrestre Virgilio abbandona improvvisamente Dante. La sua nuova guida è Beatrice, che lo condurrà nel regno dei beati.

Il Paradiso è costituito da nove cieli che ruotano intorno alla Terra e che prendono nome dal pianeta che in essi si trova, secondo la concezione cosmologica del tempo. Il movimento, impresso dai nove gruppi di intelligenze angeliche che presiedono ai vari cieli, è via via più rapido man mano che ci si allontana dalla Terra. A differenza di quanto accade nell’Inferno e nel Purgatorio, i beati non hanno sedi diverse ma stanno tutti nell’Empireo, il decimo cielo, fuori dal tempo e dallo spazio, l’unico non in movimento perché pienamente appagato dalla luce di Dio. Essi sono distribuiti nella “candida rosa”, una sorta di immenso anfiteatro dove, insieme agli angeli, contemplano Dio. Per evidenziare però sensibilmente a Dante le loro qualità e i diversi gradi della loro perfezione spirituale, i beati si fanno incontro al poeta nei vari cieli: Dante incontra così nel cielo della Luna gli spiriti che furono costretti dalla volontà altrui a rinunciare ai voti; nel cielo di Mercurio gli spiriti che operarono il bene per desiderio di fama e gloria; nel cielo di Venere gli spiriti amanti; nel cielo del Sole i sapienti; nel cielo di Marte i combattenti per la fede; nel cielo di Giove gli spiriti giusti; in quello di Saturno gli spiriti contemplanti. Se nel cielo della Luna i beati conservano ancora una pallida traccia di corporeità, in seguito si presentano come parvenze luminose, spesso danzanti e, nei cieli più alti, disposte in figure simboliche, come la grande croce luminosa del cielo di Marte di cui fa parte Cacciaguida, l’antenato di Dante che gli rivelerà il suo destino. Il colloquio con gli spiriti si esaurisce nel cielo di Saturno. Dopo le sublimi visioni del trionfo di Cristo e Maria nel cielo delle Stelle fisse e del trionfo delle gerarchie angeliche intorno alla luce di Dio nel Primo Mobile (il cielo cui per primo è impresso il movimento che anima l’universo), Dante giunge al Paradiso vero e proprio, l’Empireo, dove ha la visione della “candida rosa”. Rivolgendogli un ultimo sorriso Beatrice, terminato il suo compito di guida, riprende il suo posto tra gli altri beati. Dopo Virgilio e Beatrice l’ultima guida di Dante sarà il grande mistico Bernardo di Chiaravalle. Sarà lui a chiedere a Maria per Dante la grazia di accedere alla visione suprema di Dio, con la quale si chiude il poema.

Anonimo cremonese, Giudizio universale, particolari, sec. XVII (Cremona, Museo civico Ala Ponzone).

Il poema sacro 4 275


PER APPROFONDIRE

Inferno

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Purgatorio

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PER APPROFONDIRE

Paradiso

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3 La missione didattica e profetica di Dante «In pro del mondo che mal vive» Quando si accinge a comporre la Commedia, Dante ha ormai maturato una concezione della letteratura esclusivamente incentrata sulla funzione didattica. L’esperienza dolorosa dell’esilio, che proietta l’autore fuori dei confini della sua Firenze e al di là della ristretta dimensione municipale, sviluppa in Dante la piena consapevolezza del doveroso compito educativo che spetta all’intellettuale. In una società che ha smarrito persino i valori basilari, che ha perso ogni orientamento morale, il poeta fiorentino si attribuisce il ruolo di nuovo “auctor” per la civiltà intera dell’Europa cristiana, presentandosi come investito da Dio stesso di una missione profetica di salvezza tra gli uomini. Una missione che trova la sua consacrazione ufficiale nel Paradiso attraverso le parole di Cacciaguida (Pd XVII ➜ T24a OL), di san Pietro (Pd XXVII, 64-66) e prima ancora, verso la fine del Purgatorio, nell’esplicita esortazione che Beatrice rivolge al poeta: «in pro del mondo che mal vive / ... quel che vedi / ritornato di là, fa’ che tu scrive» (Pg XXXII, 103-105). Il fine della Commedia, come si legge nell’Epistola a Cangrande, sarà allora quello di «allontanare gli uomini dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità». Una visione negativa del presente La missione profetica di Dante nasce da una visione amaramente pessimistica del presente che, prendendo le mosse dalla decadenza di Firenze, patria del poeta, investe l’Italia intera (ad es. Pg VI e XIV). Il giudizio di Dante mette in primo piano soprattutto la degenerazione morale che ha investito la società e persino gli ordini religiosi, ma non manca di cogliere le cause sociali e politiche della grave crisi delle istituzioni comunali, identificate da un lato nell’avanzare della cinica e affaristica civiltà mercantile e dall’altro nella sempre più forte ingerenza della Chiesa nelle questioni temporali e nella crisi dell’autorità imperiale, con la conseguente mancanza di una forte presenza, anche fisica, dell’imperatore in Italia (➜ T23 OL). La problematica politica che emerge dal complesso della Commedia ricalca da vicino le concezioni espresse prima nel Convivio e quindi nella Monarchia, e a esse è perciò opportuno riferirsi. Nella Commedia, però, il discorso politico, proposto nei trattati in termini astratti, viene “drammatizzato” attraverso la situazione dell’incontro e del colloquio tra il poeta pellegrino e le personalità del suo tempo. Gli spazi particolarmente deputati a ospitare la polemica etico-politica nel poema sono sicuramente le invettive, le apostrofi (come quella celeberrima rivolta all’Italia nel canto VI del Purgatorio), o ancora le molte profezie affidate ai personaggi incontrati dal poeta nel suo viaggio. Utopia e agonismo L’appassionata esaltazione del ruolo chiave dell’istituzione imperiale e l’affermazione della sua provvidenzialità ha indubbiamente i tratti di una generosa utopia di fronte a una realtà storico-sociale che ne smentiva inesorabilmente le premesse: la decadenza dell’Impero era ormai realtà, come del tutto insperabile e improbabile la speranza che un salvatore fosse mandato da Dio a por fine all’anarchia delle fazioni dell’Italia comunale. Eppure l’ispirazione della Commedia è appassionatamente agonistica, attiva: la Commedia non si limita a constatare la presenza del male nella storia, ma incita ogni uomo all’azione generosa che può cambiare il corso della storia e restaurare una civiltà autenticamente cristiana, fedele ai dettami del Vangelo. Il poema sacro 4 279


4 La Commedia come summa della cultura medievale

Lessico aristotelismo tomistico

Lessico eterodosso

Il modello ideologico-culturale della Commedia: “pluralità nell’unità” La potente tendenza alla sintesi e al sincretismo culturale è percepibile in ogni pagina della Commedia. Soprattutto quando scrive il Paradiso, Dante è ormai al di sopra delle aspre battaglie ideologiche che nel suo tempo contrapponevano, in modo a volte addirittura feroce, esponenti di diverse correnti filosofiche e politiche. L’autore della Commedia crede invece nella possibilità e nella positività della conciliazione: in particolare, pur subordinandola alla fede, salvaguarda la dignità della ragione, e assume una posizione equilibrata tra aristotelismo tomistico e misticismo francescano, accogliendo nel poema le suggestioni di entrambe le correnti senza escludere posizioni eterodosse . L’apertura al pluralismo ideologico è da Dante efficacemente ritratta nella figurazione delle due “corone” di spiriti che, nel cielo del Sole (il cielo dei sapienti), circondano Beatrice e Dante, forse a simboleggiare la necessaria convergenza delle varie posizioni ideologiche verso la fede e la verità rivelata.

Contrario a quanto ritenuto comunemente vero o giusto nel contesto in cui si vive o a cui ci si riferisce; il contrario di questo aggettivo è “ortodosso” o “conforme”.

Dante e la cultura classica Non manca infine – e ha anzi un ruolo fondamentale – l’apporto della cultura classica: il sostrato letterario della Commedia testimonia la costante influenza della letteratura latina, da Virgilio a Stazio, da Cicerone a Livio, senza dimenticare Orazio, Persio e Lucano. La cultura classica è da Dante interpretata, secondo l’ottica medievale, come prefigurazione della cultura cristiana: ne sono piena espressione il ruolo guida di Virgilio e l’interpretazione della sua opera (vedi in particolare Pg XXI e XXII).

Influente corrente filosofica basata sul tentativo di armonizzazione tra le dottrine di Aristotele e la teologia cristiana; elaborata nel XIII secolo dal frate domenicano Tommaso d’Aquino, illustre filosofo e teologo medievale, fu criticata specialmente dai francescani.

Parola chiave

Un’opera enciclopedica La Commedia è un’opera enciclopedica, frutto di una cultura sterminata, che intende trasmettere ai lettori insegnamenti morali, concetti filosofici, scientifici e precetti etico-politici. Il capolavoro dantesco si può leggere quindi non solo come testo letterario di altissimo valore poetico, ma anche come grandiosa sintesi dell’intera tradizione culturale classicomedievale. Nella Commedia si danno appuntamento i temi più rilevanti del dibattito ideologico del tempo, come il ruolo e la qualità dell’amore, il rapporto tra fede e ragione e il confronto fra papato e Impero. Inoltre appaiono, in veste suggestiva di personaggi, i protagonisti della storia antica (come Giustiniano) e medievale (come Manfredi o Carlo Martello); i più importanti filosofi, pagani e cristiani, da Aristotele («il maestro di color che sanno») a san Bonaventura, ma anche san Tommaso, san Pier Damiani e san Benedetto; ancora, i maggiori poeti antichi (come Omero e lo stesso Virgilio) e del tempo di Dante, da Arnaut Daniel a Guido Guinizzelli.

sincretismo Il termine sincretismo (dal greco synkretismós, in origine nel senso di “coalizione cretese”, a proposito della capacità mostrata dai cretesi di coalizzarsi di fronte a un grave pericolo esterno) nel tempo passa a indicare la tendenza a conciliare, fondendone i diversi elementi, tradizioni religiose differenti (come avvenne nell’età

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dell’ellenismo o nel tardo Impero romano) o modelli culturali diversi. Nel Medioevo molti elementi della cultura pagana furono assorbiti da quella cristiana attraverso una reinterpretazione e un adattamento di essi ai parametri della cultura cristiano-medievale.


«E io fui sesto tra cotanto senno»: un nuovo “auctor” Che Dante avesse piena consapevolezza del posto privilegiato che occupava nella cultura del suo tempo lo dimostra un celebre passo dell’Inferno. Nel IV canto, in cui immagina di incontrare nel Limbo i grandi spiriti dell’antichità classica (gli “spiriti magni”), egli si unisce al gruppo delle maggiori auctoritates letterarie del Medioevo (Omero, Orazio, Virgilio, Ovidio e Lucano) e immagina di poter conversare con loro «alla pari», di essere «sesto tra cotanto senno» (➜ T24b OL): attraverso questa celeberrima espressione, il poeta fiorentino traduce l’orgogliosa consapevolezza della propria grandezza di scrittore e di intellettuale, riconoscendosi il ruolo di principale mediatore tra cultura classica e cultura medievale. Il poeta fiorentino va considerato come nuovo “auctor“ della cultura romanza, capace di proporsi al suo tempo con la stessa “autorevolezza”, appunto, dei grandi autori classici che costituivano i pilastri della cultura medievale (➜ T24a , ➜ T24b OL).

5 Le tecniche narrative Lo statuto del narratore e l’immagine del lettore La Commedia come “Danteide” La Commedia è un poema epico-romanzesco narrato in prima persona. Una tipologia narrativa non nuova nella tradizione romanza (è presente tra l’altro nel Roman de la Rose e nel Tesoretto); ma originale è certamente la marcata identità, lo spessore psicologico del narratore, che è anche il protagonista dell’opera: una figura largamente sovrapponibile alla figura storica di Dante. Nel poema vibrano infatti le passioni, fremono gli odi stessi di un uomo vero, si riflette l’avventura umana e intellettuale del poeta fiorentino Dante Alighieri. La duplicità dei piani narrativi: Dante autore/narratore e Dante personaggio È una consuetudine critica ormai consolidata la distinzione nell’opera tra Dante autore e Dante personaggio o, con maggiore precisione, tra autore/io narrante e personaggio/io narrato. Per lo più, la narrazione adotta il “punto di vista” limitato, incompleto, a volte addirittura erroneo, del personaggio: una strategia narrativa che favorisce l’immedesimazione del lettore, necessaria affinché egli possa compiere lo stesso cammino salvifico del protagonista. Il protagonista, di cui si narra il viaggio e la cui figura si palesa soprattutto attraverso i dialoghi con gli spiriti, è un personaggio “dinamico”, non fissato per l’eternità (come invece le anime che incontra), è un soggetto alla ricerca di sé e della propria salvezza spirituale. Soprattutto all’inizio dell’opera egli appare esitante, dubbioso, timoroso che il viaggio stesso possa essere “folle”, ovvero frutto di superbia intellettuale (➜ T22d OL). Di fatto, comunque, le due figure interagiscono con diversi equilibri e modalità per tutto il poema: ad esempio, nel canto XXXIII dell’Inferno, al silenzio del personaggio di fronte al tragico racconto di Ugolino fa da contrappunto il prorompente sdegno dell’io narrante, che condanna senza mezze misure lo spegnersi di ogni umana pietà, l’assenza di valori che ha consentito in Pisa l’orribile fine del dannato e della sua famiglia («Ahi Pisa, vituperio delle genti / del bel paese là dove ’l sì suona...» If XXXIII, 79-80).

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Noi lettori (di allora e di oggi) ora prestiamo orecchio alle severe rampogne dell’io narrante, ora trepidiamo con il personaggio di fronte alle minacciose parole che legge sulla porta dell’Inferno (➜ T22c OL) e fatichiamo fisicamente con lui a scendere e salire nell’oscurità delle Malebolge. Il risultato è qualcosa di straordinario, di assolutamente unico: un’altissima lezione morale, religiosa, culturale, ma anche una narrazione mozzafiato, non priva di momenti di vera e propria suspense e sempre avvincente, come nella scena chiave in cui Lucifero, il signore del male, è presentato attraverso lo sguardo inorridito di Dante personaggio.

Lessico allocuzione Atto, intervento del parlante (o dello scrivente) attraverso il quale egli si rivolge a chi ascolta (o legge).

L’immagine del lettore: doppio del protagonista Nell’itinerario del protagonista si rispecchia anche il lettore: anche lui è “un uomo in cammino”, accomunato al personaggio dal viaggio conoscitivo e morale che egli compie in nome di tutta l’umanità. Proprio perché l’autore attiva forti processi di immedesimazione, il lettore della Commedia si sente vicino e quasi sovrapponibile al pellegrino protagonista; ne condivide dubbi, paure, turbamenti; “vede” con i suoi occhi (un’immedesimazione ancora più facile per il lettore contemporaneo a Dante, coinvolto anche dai frequenti riferimenti alla cronaca e alla realtà politica del tempo). Al suo lettore, Dante/autore non chiede però solo immedesimazione e partecipazione emotiva, ma anche attitudine critico-interpretativa: da qui le allocuzioni dirette al lettore perché presti attenzione non superficiale a quanto legge («Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero» Pg VIII, 19).

Il colloquio con gli spiriti: la costante narrativa del poema Una scelta narrativa funzionale all’obiettivo didattico Per assolvere alla funzione didattica che si propone, Dante non sceglie l’argomentazione astratta ma opta per una struttura narrativa di straordinaria suggestione: il colloquio del protagonista con i morti.

Studiare con l'immagine ANALIZZA L’IMMAGINE Dante mostra sul libro aperto l’incipit del poema; a destra Firenze con alcuni monumenti rappresentativi, a sinistra la porta dell’Inferno con figure di ignavi e diavoli. In secondo piano, la montagna del Purgatorio con le sette cornici, l’arcangelo Michele e il Paradiso Terrestre. Prova a identificare i diversi elementi che conosci, a ricercarne alcuni che non riconosci. Racconta questo dipinto nelle sue caratteristiche essenzali in max 2 minuti. Domenico di Michelino, Ritratto di Dante, la città di Firenze e l’allegoria della Divina Commedia, affresco, 1465 (Firenze, Basilica di Santa Maria del Fiore).

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Le problematiche filosofiche, etiche, politiche che il poeta si propone di trattare vengono via via evocate attraverso la viva voce degli spiriti, chiamati al palcoscenico della Commedia dalla potente fantasia creatrice di Dante autore che li porta a colloquiare con Dante personaggio. online

Verso il Novecento Testimonianze dall’aldilà: l’Antologia di Spoon River

Una straordinaria galleria di personaggi La Commedia è la più vasta galleria di personaggi mai creata da alcuno scrittore nella letteratura mondiale: più di cinquecento, alcuni dei quali – come il conte Ugolino e Farinata degli Uberti – iscritti indelebilmente nella memoria collettiva. Si tratta di personalità dalle più varie provenienze: possono essere ai vertici della gerarchia sociale (come re, imperatori, papi, grandi nobili) ma possono essere anche borghesi; molti sono tratti dalla cronaca locale fiorentina e toscana o da un recente passato e riverberano nella Commedia le aspre contese che contrapponevano i Comuni dell’area. Non mancano personaggi, come lo stesso Virgilio o Ulisse, tratti dall’antichità classica e dalla letteratura. Essenze di vite e testimonianze “esemplari” Tutti i personaggi della Commedia rispondono, in modo più o meno marcato a seconda dell’importanza del tema che Dante intende trattare, alla funzione di exempla morali, in positivo e in negativo: il Sommo Poeta li fa riemergere dalla memoria personale o collettiva non per interessare genericamente il lettore alle loro vicende personali, ai loro intimi segreti, ma esclusivamente per trasmettere un insegnamento morale-religioso. Da questa fondamentale funzione del personaggio dantesco deriva una costante nel “metodo” con cui Dante costruisce il personaggio stesso e struttura il colloquio. La brevitas come metodo narrativo È giustamente celebrata la potente capacità sintetica di Dante: in pochissimi versi egli è capace di delineare una figura, di tratteggiare una vita intera. Ma forse non si sottolinea abbastanza che questa brevitas è la diretta conseguenza della prospettiva didattica adottata dall’autore in tutta la Commedia: lo scrittore infatti evidenzia solo quegli aspetti ed elementi biografici che concorrono all’esemplarità della testimonianza, fissando il personaggio nel momento culminante della sua vita che decide la sua sorte nell’eternità, come è evidente nel celeberrimo discorso di Francesca da Rimini o nella tragica testimonianza del suicida Pier della Vigna (➜ T26a OL; ➜ T26b OL). Il principio del contrappasso Sia nell’Inferno che nel Purgatorio Dante istituisce, seppur in modo non meccanico e ripetitivo, un particolare rapporto tra colpa e pena noto come principio del “contrappasso”: la pena corrisponde, per analogia oppure per contrasto, al tipo di colpa o comunque in qualche modo la richiama. Si tratta di una scelta, è bene sottolinearlo, che ha pur sempre a che fare con la finalità didattica che ispira il poema: la sottolineatura del parallelismo colpa-pena è volta infatti a enfatizzare il peccato, a stamparlo, attraverso immagini di grande evidenza, nella mente del lettore. Qualche esempio: lo struggente racconto di Francesca da Rimini (If V), caduta in peccato di lussuria con il cognato Paolo, non avrebbe lo stesso impatto sul lettore e la stessa forza dimostrativa se chi legge non iscrivesse mentalmente la dolorosa testimonianza della giovane donna sullo sfondo della tempesta («La bufera infernal, che mai non resta»: If V, 31) che trascina in eterno i lussuriosi, così come in vita li travolse la bufera dei sensi (è questo, appunto, il peccato dei lussuriosi). E ancora più angoscioso (e perciò esemplare) risulta il racconto del suicida Pier della Vigna (If XIII), se si considera che le sue parole fuoriescono stentatamente da un tronco spinoso; chi ha scelto, come appunto i suicidi, di far violenza a quella vita Il poema sacro 4 283


che è dono di Dio e che solo Dio può togliere, è sottoposto dal suo severo giudizio – di cui la fantasia del poeta si fa interprete – a un’orrenda metamorfosi: è infatti un albero contorto, è regredito al regno vegetale, non è degno neppure di sembianze umane, come disumana è stata la sua tragica scelta. Il basso peccato della gola trasforma Ciacco e i suoi miseri compagni (If VI) in esseri subumani («urlar li fa la pioggia come cani»: If VI, 19), la cui coscienza è come assopita perché nella vita hanno assecondato il lato bestiale della natura umana. Sono immersi in una fanghiglia puzzolente, graffiati dal mostro Cerbero che nel suo stesso repellente aspetto traduce visivamente l’ingordigia senza freni. Ancor più evidente è il legame colpa-pena nei golosi del Purgatorio, tra i quali Dante immagina di incontrare l’amico di gioventù Forese Donati: i golosi sono trasformati in scheletri viventi dal desiderio costantemente insoddisfatto di mangiare e di bere. Ma l’espiazione, in questo caso, prevede per i golosi anche la dolcezza di cantare tutti insieme il Salmo 50 a Dio, di forte allusività simbolica (per contrasto) alla colpa di cui si sono macchiati in vita e che vanno ormai scontando. «Aprirai le mie labbra, Signore, per cantare le tue lodi» («Labïa mëa, Domine»: Pg XXIII, 11): le labbra che hanno cercato voracemente soddisfazione nel cibo sono ora impiegate per cantare l’amore di Dio. Un ultimo illuminante esempio, tra i moltissimi citabili, dell’efficacia didattica del principio del contrappasso: difficilmente chi legge il canto XI nella seconda cantica può dimenticare l’immagine del gruppo dei penitenti che avanzano lentamente, oppressi da un masso che li costringe a tenere chino quel capo che nella vita terrena usavano altezzosamente tenere alto, come dice uno di loro, il nobile Guglielmo Aldobrandeschi: «...dal sasso / che la cervice mia superba doma, / onde portar convienmi il viso basso» (Pg XI, 52-54).

La concezione figurale La "prefigurazione" come metodo Secondo il critico Auerbach, nella Commedia è ampiamente riscontrabile un metodo di lettura e interpretazione della realtà che era particolarmente diffuso nella cultura cristiana: il metodo “figurale”, attribuzione che deriva dal significato che il termine figura aveva assunto nella tarda latinità, ovvero quello di “prefigurazione” di qualcosa, evento o personaggio. Il primo impiego del termine fu quello di istituire un rapporto tra Vecchio e Nuovo Testamento per il quale il secondo, attuando il disegno di Dio, è “adempimento”, realizzazione del primo, che lo anticipa e prefigura: Cristo dunque “adempie” e completa le figure dei profeti dell’Antico; per contro Mosè, liberando dalla schiavitù d’Egitto il popolo di Israele, è “figura” di Cristo che nel corso successivo della storia libera l’umanità tutta dalla schiavitù del peccato. Secondo questa stessa visione, personalità del mondo pagano possono in qualche modo prefigurare, “adombrare” figure ed eventi del cristianesimo, i quali ne completano il significato in senso appunto religioso e cristiano. Anche la costruzione della maggior parte dei personaggi danteschi nella Commedia risponde alla concezione figurale. Essi conservano la loro individualità terrena, ma al contempo la realizzano nell’aldilà, la “adempiono”: la prospettiva dell’eterno svela il vero senso della loro vita. In particolare la figuralità è evidente in Virgilio, Beatrice, Catone (quest’ultimo non è propriamente una guida, come i primi due personaggi ma, in quanto custode del Purgatorio, ha comunque grande rilevanza simbolica come personaggio).

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Le guide di Dante: personaggi figurali La prima guida di Dante nella Commedia è Virgilio, grande poeta latino del i sec. a.C., autore dell'Eneide: accompagna il poeta-pellegrino attraverso Inferno e Purgatorio, per affidarlo poi alla seconda guida, Beatrice. Per comprendere l’importantissimo ruolo che Dante gli riserva nella Commedia, è riduttivo e forse anche inesatto considerare Virgilio, come spesso si fa, allegoria della ragione umana. Intanto egli non ha la freddezza di un simbolo astratto: Dante ne fa un personaggio vivo, un vero e proprio deuteragonista, come si dice in ambito drammaturgico, che dialoga costantemente con il protagonista, ed è figura autorevole e insieme amicale, prestigiosa auctoritas culturale e al contempo sostegno, conforto umano per il pellegrino spesso in difficoltà e preda di dubbi. Ma soprattutto Virgilio è personaggio prettamente “figurale” e solo facendo riferimento, come ha fatto Auerbach, al metodo e all’interpretazione figurale, è possibile intenderne pienamente la natura: Virgilio non è solo il poeta ammirato nel Medioevo, ma è l’autore che nel suo poema (l’Eneide) ha già rappresentato l’esperienza del viaggio nell’oltretomba (VI canto) e che ha esaltato, ben prima di Dante, il ruolo provvidenziale dell’Impero, in particolare di quell’Impero di Augusto che celebrò la giustizia e la pace; è colui che, nella quarta ecloga, inconsapevolmente profetizza (secondo un’interpretazione medievale) il nuovo ordine che sarebbe stato portato da Cristo. Dunque, il Virgilio della Commedia è “adempimento”, “completamento” del Virgilio storico: il lavoro dantesco completa, in una prospettiva metafisica e cristiana, il viaggio già provvidenziale di Enea, iscrivendo il nuovo iter in un campo di valori nuovo, da cui tutto trae rinnovata illuminazione e spiegazione, anche il ruolo provvidenziale dell’Impero e della storia romana. Con tutto ciò, è certamente vero che Virgilio è anche il simbolo della cultura classica tanto amata e ammirata da Dante, dei suoi valori intellettuali (la razionalità) e comportamentali (la virtù, la saggezza, l’equilibrio); una cultura che Dante valorizza al massimo, ma che non può costituire un riferimento assoluto per l’uomo: anche se Virgilio è stato capace di illuminare la via degli altri verso la verità, non ha potuto raggiungerla ed è escluso per sempre, come il mondo di cui è il portavoce autorevole, dal possesso di tale verità, che coincide con il Verbo di Cristo. Beatrice: come Virgilio, anche Beatrice, la seconda guida di Dante, non è un’allegoria, ma una figura storica reinterpretata in prospettiva figurale. Beatrice è figura chiave nella vita e nell’esperienza poetica di Dante: proviene dal suo passato personale e la sua evocazione nella Commedia concretizza il progetto annunciato nella conclusione della Vita nuova. Con la Commedia il trauma della morte della «gentilissima» viene finalmente colmato con una «rinascita gloriosa della leggenda giovanile» (Borsellino): l’embrione della Commedia, secondo recenti studi, starebbe proprio nel “ritorno a Beatrice”, per la quale il poeta avrebbe pensato inizialmente di comporre un poema “paradisiaco”.

Beatrice e Virgilio in una tavola di Gustave Doré per l’edizione illustrata della Divina Commedia (Parigi 1861-1868).

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Ma il nuovo e ancor più grave trauma dell’esilio deve poi aver trasformato le intenzioni di Dante: ne derivò il grandioso progetto della Commedia, che non nega, ma assorbe al suo interno la celebrazione della donna amata, la quale ricompare nel poema come guida attraverso il Paradiso. Sulla figura di Beatrice, Dante opera una rilettura figurale: l’apparizione della donna amata, accorsa dal cielo in soccorso del suo fedele amico (If II), è costellata di “segnali stilnovistici”, certo non casuali ma intesi a collegare espressamente il personaggio ultraterreno a quello terreno, di cui il primo costituisce non la negazione, ma anzi il pieno completamento, l’adempimento. La donna gentile e cortese, modello di perfezione e bellezza secondo i moduli stilnovistico-cortesi, assume, verso la fine del Purgatorio, quando prende in consegna Dante per accompagnarlo nell’ultimo viaggio, il volto di “madre severa” e insieme diviene figura della fede e della teologia. La “donna della salute”, che già in Terra indusse nel poeta un cammino di salvazione e di elevazione spirituale, nel Paradiso completa il suo ruolo (importante, per il “mito di Beatrice”, tutto il passo di Pd XXXI, 79-90): colei che gli fu guida nel breve e fallace itinerario terreno, diventa ora guida alla visione di Dio, che solo la fede e i sussidi della “scienza del divino”, ovvero la teologia, possono garantire. Nel Paradiso, Beatrice risolve dubbi filosofici e illustra al poeta complesse verità teologiche; ma non per questo è censurata quella bellezza che un giorno lontano ammaliò il giovane poeta, bensì è ulteriormente esaltata: anzi, quella che caratterizza la Beatrice del Paradiso è una bellezza molto meno astratta e stilizzata rispetto al libello giovanile.

Le forme della rappresentazione: realismo e simbolismo Il realismo È giustamente celebrata l’ineguagliabile potenza del realismo dantesco. Ed effettivamente, soprattutto nell’Inferno, la rappresentazione di Dante è sempre “visiva”, affidata a immagini di concreta evidenza: l’autore è maestro nel rappresentare aspetti fisici e sensibili delle anime, a fissarli in gesti espressivi. Gli stessi stati d’animo, come è stato osservato, si traducono in immagini di forte plasticità: non a caso il poeta è contemporaneo di Giotto. Il realismo dantesco è anche e soprattutto realismo linguistico e corrisponde a un’esplorazione del reale a tutto campo, dalla quale nulla rimane escluso: lo sguardo di Dante trapassa dal mondo naturale a quello cosmologico, dalla vita quotidiana alla sfera intellettuale e alla rappresentazione di sensazioni e passioni. È importante però precisare che, allo stesso modo del simbolismo (l’altra faccia dell’arte dantesca), anche il realismo è finalizzato all’obiettivo didattico che tanto sta a cuore a Dante: proprio colpendo, come egli magistralmente sa fare, la fantasia, i sensi, la vista, l’udito del lettore, il poeta della Commedia può svolgere la sua missione educativa. Uno strumento del realismo: la similitudine Strumento fondamentale del realismo dantesco è la similitudine: figura retorica tipica dell’epica classica, usata (e abusata) nella nostra tradizione poetica con funzione essenzialmente esornativa, la similitudine è invece per lo più impiegata da Dante proprio in funzione del realismo rappresentativo. Attraverso la similitudine il poeta riconduce infatti gli accadimenti ultraterreni, difficilmente commensurabili all’esperienza umana, soprattutto nel Paradiso, al vissuto e all’immaginario di ogni uomo. Ciò è evidente fin dalla prima, celeberrima similitudine del poema: uscito a fatica dalla selva oscura, Dante si paragona a un naufrago che si volge a guardare, una volta scampato al pericolo, il mare: «E come quei che con lena affannata» (➜ T22a OL If I, 22-27). I luoghi dell’aldilà evocati dalla fantasia dantesca sono riportati all’esperienza dei lettori del tempo attraverso similitudini che chiamano in gioco zone dell’Italia, ma

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anche dell’Europa, certo note ai mercanti e ai molti viaggiatori dell’Italia trecentesca: ad esempio le alte muraglie entro cui scorre il fiume infernale Flegetonte sono paragonate alle dighe erette dai «Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia» (If XV, 4); la ripidezza della montagna del Purgatorio è ancora maggiore della costa ligure tra Lerici e Monaco: «Tra Lerice e Turbìa la più diserta, / la più rotta ruina è una scala, verso di quella (in confronto a quella) agevole e aperta» (Pg III, 49-51). È costante in tutta la Commedia lo sforzo di ricondurre ciò che accade nel viaggio oltremondano alla vita comune: circondato dai penitenti, incuriositi dalla sua privilegiata condizione di vivo tra i morti e desiderosi di ottenere preghiere da parte dei viventi quando sarà tornato sulla Terra, il poeta si paragona al giocatore vincitore di un gioco allora popolare «Quando si parte il gioco de la zara» (Pg VI, 1). Lo strumento della similitudine diventa ancor più necessario nel Paradiso, il regno della “poesia impossibile” che impone al poeta ardue e nuove sfide: la luce abbagliante che colpisce il pellegrino che con Beatrice sta attraversando la sfera del fuoco è allora paragonata al ferro incandescente «che bogliente esce dal foco» (Pd I, 60). Gli spiriti mancanti ai voti del cielo della Luna (Pd III, 10-16) appaiono a Dante come immagini riflesse: «Quali per vetri trasparenti e tersi, / o ver per acque nitide e tranquille, / [...] tornan d’i nostri visi le postille / [...] tali vid’io più facce a parlar pronte». Non mancano ovviamente, e sono anzi assai diffuse, similitudini destinate soprattutto al lettore colto e attinte per lo più dalla mitologia classica attraverso la costante mediazione delle Metamorfosi di Ovidio: ad esempio l’esperienza sconvolgente del “trasumanare”, dell’oltrepassare cioè i confini della dimensione umana, non è certo comprensibile a chi è ancora totalmente immerso nella condizione terrestre; e il poeta ben lo sa: «Trasumanar significar per verba / non si porìa» (Pd I, 70-71). Dante ricorre allora a un esempio mitologico certo noto ai lettori colti del tempo, paragonandosi a Glauco, divenuto divinità marina. Il simbolismo La tendenza opposta a quella del realismo, ma cooperante con essa al fine educativo del poema, è il simbolismo, più direttamente connesso alla poetica e all’ottica stessa del Medioevo, che percepisce la realtà sensibile come specchio e figura di una più profonda realtà religioso-spirituale (➜ SCENARI, PAG. 10). La tendenza a una rappresentazione simbolico-allegorica è particolarmente evidente (e doveva esserlo tanto più per il lettore del tempo) in alcune immagini e figure del primo canto della Commedia: la selva oscura in cui il poeta si smarrisce rimanda alla condizione angosciosa del peccato, le tre fiere che ostacolano la sua ascesa del dilettoso monte (la via del bene, illuminata dalla Grazia divina) simboleggiano tre peccati capitali (la lussuria, la superbia, l’avidità) mentre il cane da caccia (il «veltro» nel testo) che ricaccerà la lupa nell’Inferno è immagine allegorica di un misterioso salvatore dell’umanità.

Realismo e simbolismo nella Commedia Le due dimensioni della narrazione nella Commedia

realismo

simbolismo - allegorismo

forte caratterizzazione nella presentazione di situazioni, ambienti e personaggi

rimando a un significato religioso di personaggi, spazi e tempi

contribuiscono entrambe al fine didattico Il poema sacro 4 287


Spazio e tempo Gli stessi modelli spaziali entro cui si iscrive il viaggio di Dante sono simbolici. Nella Commedia è fortemente marcata l’opposizione alto/basso, con connotazione rispettivamente positiva e negativa: la voragine dell’Inferno è la traduzione, di immediata evidenza simbolica, della caduta nel peccato, così come la montagna del Purgatorio che Dante e Virgilio salgono corrisponde simbolicamente all’ascesa, alla purificazione dal peccato. Anche le connotazioni temporali del viaggio si prestano a significazioni simboliche: l’ingresso nell’Inferno avviene di notte, il cammino del Purgatorio inizia all’alba, l’ascesa del Paradiso a mezzogiorno. Nella simbologia cristiano-medievale questi tre momenti della giornata erano comunemente associati alla disperazione, alla speranza, alla salvezza.

6 Lo stile, la lingua, la metrica Dallo sperimentalismo delle Rime alla lingua “globale” della Commedia All’inizio del Trecento la lingua poetica contava in Italia meno di un secolo di vita ed era testimoniata soprattutto da due opposte esperienze, certo importanti, ma entrambe per ragioni diverse destinate a non influire in modo rilevante sul destino della lingua: da un lato la poesia religiosa, con la sua virulenza plebea, i suoi forti prestiti dialettali; sul fronte opposto, la lingua selettiva e raffinata della lirica siciliana e poi stilnovistica, impiegata esclusivamente per rappresentare la sfera dell’io in rapporto al tema dell’amore. Con la Commedia Dante invece “inventa” (in un modo che appare ancora oggi sbalorditivo) una lingua “globale” per una rappresentazione “globale”. Già aveva evidenziato nelle sue precedenti esperienze poetiche, in particolare nelle Rime, una forte vocazione sperimentale; nella Commedia egli non solo mette a frutto le conoscenze linguistiche acquisite, ma le amplia enormemente grazie anche a un’illimitata curiosità terminologico-lessicale. Nel poema dominano infatti una ricchezza e un’originalità di scelte formali e stilistiche che non ha precedenti né modelli canonici: la Commedia non è infatti scritta in stile “mezzano”, come ci si sarebbe potuti aspettare, né tragico o umile, bensì in tutti gli stili possibili. Oltre il De vulgari eloquentia: fiorentinità e plurilinguismo Nella realizzazione del suo capolavoro, dunque, Dante oltrepassa (e di fatto contesta) le posizioni da lui stesso assunte nel De vulgari eloquentia: innanzitutto la Commedia attinge la maggior parte delle parole impiegate dal fiorentino (di cui oltretutto accoglie anche forme prettamente vernacolari), mentre il trattato teorizzava la necessità di una lingua sovra-regionale, di fatto ideale. Inoltre la lingua usata è spesso (soprattutto nella prima cantica) ben lontana dal volgare illustre, aulico che Dante aveva cercato di delineare: utilizza infatti una varietà estrema di registri, che non escludono il lessico familiare, considerato inopportuno nel trattato (come ad esempio i termini «pappo» e «dindi» usati dai bambini piccoli), e persino quello scurrile («puttaneggiar»). La “contaminazione” degli stili Nella Commedia domina un’assoluta libertà linguistica, sempre funzionale a specifici obiettivi. La lingua di Dante spazia dal linguaggio comico-realistico al sublime-tragico e di fatto attua la contaminazione degli stili non solo nel complesso dell’opera, ma all’interno di una stessa cantica: il Paradiso, prevalentemente scritto in stile tragico, sotto la spinta dell’indignazione e della polemica, ospita vertiginosi abbassamenti linguistici, come nel caso della tirata contro la degenerazione del papato messa in bocca niente meno che a san

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Pietro (nelle parole dell’apostolo la sede papale è definita «cloaca / del sangue e de la puzza»: Pd XXVII 25-26 ➜ T28a 2 OL). L’abbattimento degli “steccati” linguistici propri del Medioevo si verifica anche nelle parole di uno stesso personaggio: Cacciaguida, il trisavolo di Dante, esordisce con solenni parole in latino: «O sanguis meus, o superinfusa / gratïa Deï...» (Pd XV, 2829), ma per invitare Dante a mostrare ai viventi quello che ha visto nel viaggio e a ignorare le inevitabili reazioni negative che le sue parole susciteranno, usa un’icastica espressione che starebbe bene in bocca a un popolano («e lascia pur grattar dov’è la rogna»: Pd XVII, 129). La contaminazione degli stili può persino verificarsi all’interno della breve misura di un solo verso: all’incipit della celebre apostrofe all’Italia («Ahi serva Italia, di dolore ostello») segue la fremente denuncia della decadenza del paese: «non donna di provincie, ma bordello!» (Pg VI, 78): in un solo verso Dante contrappone, in forte antitesi, il latinismo «donna di provincie» (domina provinciarum, signora di province, come era stata l’Italia al tempo dell’Impero romano) a «bordello», termine inequivocabilmente basso. Una straordinaria ricchezza lessicale Nella Commedia Dante attua un’esplorazione a tutto campo del linguaggio a disposizione della sua ricca competenza linguistico-culturale: usa molti latinismi, soprattutto nel Paradiso; assume termini da altre aree linguistiche, italiane e non (in particolare alcuni gallicismi, come «miraglio» “specchio” o «riviera» “fiume”); dà spazio a seconda delle necessità poetiche a tutte le varianti linguistiche possibili per uno stesso termine: ad esempio, per dire “vecchio” il poeta usa ben tre varianti: «vecchio» per Caronte, il nocchiero infernale (If II, 83), il gallicismo «veglio» per il custode autorevole del Purgatorio, Catone l’Uticense (Pg I, 31) e infine il latinismo «sene» per san Bernardo nel Paradiso (Pd XXXI, 59). Ma le parole a disposizione a volte non bastano e Dante allora conia dei neologismi (circa cento; ad esempio da pronomi possessivi: «in-lui-arsi»; da avverbi: «insempr-arsi»), in particolare nel Paradiso, la cantica in cui le possibilità espressive della lingua sono portate ai confini stessi della significatività. Il vero miracolo della Commedia non è allora l’ideazione o la grande capacità narrativa, il vero miracolo è la lingua: una lingua straordinariamente duttile a evocare suoni («che mugghia come fa mar per tempesta»: If V, 29) e sensazioni fisiche (come nella terribile descrizione di Ugolino che riprende a mordere il cranio dell’arcivescovo Ruggeri: «riprese ’l teschio misero co’denti, / che furo a l’osso, come d’un can, forti»: If XXXIII, 77-78), o che sa inglobare termini della speculazione filosofica o della teologia, ma anche creare un verso di sublime semplicità come «la bocca mi basciò tutto tremante» (If V, 136), che si scolpisce nella memoria del lettore. La metrica: la terzina dantesca Anche sul piano delle scelte metriche Dante mostra nella Commedia straordinaria originalità: non è possibile ridurre a schemi univoci la metrica dantesca, tanto è ricca e variata nella scelta delle rime, delle simmetrie, delle cadenze ritmiche del verso.

Lingua e stile della Commedia Lingua

• volgare fiorentino • prestiti da: altri volgari italiani, latino, lingue romanze • neologismi (dantismi)

plurilinguismo

Stile

• commistione di comico e tragico

pluristilismo

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online

Interpretazioni critiche Mario Fubini Pensar per terzine

Il verso usato dall’autore per il suo poema è l’endecasillabo, organizzato sul piano strofico in terzine a rima incatenata, secondo cioè lo schema ABA BCB CDC e così via, fino a concludere ogni canto con un verso isolato che rima con il terz’ultimo: «La terzina di Dante» scrive Fortini «protende un verso – il secondo – che non ha pace finché non trova una sua rima oltre il terzo verso e così spinge avanti il processo sonoro fino a quando, con quell’ultimo verso isolato, lo arresta». Una scelta dunque, quella della terzina, che risulta pienamente funzionale al movimento narrativo: da un lato, infatti, la strofe dantesca è una struttura compatta (circa nella metà dei casi ogni terzina corrisponde a un periodo concluso), dall’altro l’incatenamento delle rime apre ogni strofa alle successive, rilanciando continuamente in avanti la narrazione. Nell’universo della Commedia la terzina è impiegata con straordinaria elasticità, piegandosi a ospitare parti narrative e dialoghi, enunciati di carattere descrittivo e riflessivo, squarci lirici, aspre invettive. La naturalezza con cui il poeta utilizza la “sua” terzina è tale che giustamente è stato detto che Dante “pensa per terzine”. La rima e il ritmo degli endecasillabi La rima è di sicuro uno degli strumenti espressivi fondamentali della Commedia e collabora intensivamente nell’organizzare il ritmo poetico. La ricerca di rime inusuali, inattese, ricche, che ha stimolato in Dante la stessa invenzione linguistica, non ha mai valore fine a sé stesso, non è mai preziosismo da letterati, ma tende a fissare in modo icastico un concetto, un’immagine, nella mente dei lettori. Attraverso lo studio attento delle rime il poeta cercava forse anche di favorire (e ci riuscì pienamente) la memorabilità dei versi. Estremamente vario è anche l’endecasillabo dantesco: Dante ne utilizza tutte le possibili accentazioni, conferendo al verso ritmi e quindi effetti poetici sempre diversi. Addirittura possono avere diversissimo timbro espressivo due endecasillabi con lo stesso ritmo di accenti tonici (ictus): ad esempio l’endecasillabo «E càddi còme còrpo mòrto càde» (If V, 142), lento e franto, suona ben diversamente da «Di quà, di là, di giù, di sù li mèna» (If V, 43), in un movimento regolare a monosillabi, sebbene la disposizione degli ictus sia identica (in 2a, 4a, 6a, 8a, fissa 10a).

Commedia DATAZIONE

incerta: l’opera è iniziata quando Dante era già in esilio. • 1304-1308 Inferno • 1309-1312 Purgatorio • 1316-1321 Paradiso

STRUTTURA

3 cantiche di 100 canti: (1+33) Inferno, (33) Purgatorio e (33) Paradiso

ARGOMENTO

il viaggio di Dante attraverso i tre regni dell’oltretomba

GENERE

poema sacro didascalico-allegorico

SCOPO

salvare l’umanità dal peccato

METRO

terzine dantesche di endecasillabi a rima alternata

STILE

dal tragico al sublime

290 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


PER APPROFONDIRE

Perché si parla di Dante come “padre” della lingua italiana? Il contributo della Commedia all’arricchimento e stabilizzazione della lingua volgare, e non solo in ambito strettamente poetico, è stato fondamentale. È stato calcolato che il 50% delle parole base dell’italiano (almeno fino alla metà del Novecento) era già in uso nel Duecento, di cui ben il 15%, secondo gli studi del linguista Tullio De Mauro, è frutto proprio dell’apporto di Dante. Di fatto però, come osserva il critico Enrico Malato, il ruolo del poema nella storia della lingua italiana va accentuato

ulteriormente, perché moltissime parole attestate nel XIII secolo sono accolte dalla Commedia, che le ha vitalizzate e ha conferito loro autorevolezza, acquisendole definitivamente al patrimonio linguistico nazionale. Dunque fu soprattutto Dante a mostrare «ciò che potea la lingua nostra» (Pg VII, 17), facendone un potente strumento di cultura anche a livello popolare, ed è perciò pienamente motivato il tradizionale giudizio che ne fa il “padre” della lingua italiana.

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T22 Dante Alighieri

T25 La visione culturale di Dante

Il viaggio provvidenziale di Dante vs il viaggio proibito

T22a Dante Alighieri

Il prologo del poema Inferno I

T22b Dante Alighieri

Io non Enëa, io non Paulo sono… Inferno II, 1-36

T25a Dante Alighieri

Gli spiriti magni Inferno IV, 106-144

T25b Dante Alighieri La concezione dantesca di sapienza: pluralismo e unità Paradiso X, 94-138; XII, 127-141

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Verso il Novecento Primo Levi Il canto di Ulisse, antidoto alla barbarie

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Per approfondire La Commedia nel tempo

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T22c Dante Alighieri L’inizio del viaggio Inferno III, 1-30

T26 Il personaggio dantesco: esemplarità e sintesi

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T22d Dante Alighieri

T26a Dante Alighieri

Le letture dantesche di Sermonti e Benigni, eventi di massa

Il viaggio proibito: Ulisse “doppio” di Dante? Inferno XXVI, 85-142

Francesca o dei pericoli dell'amor cortese Inferno V, 82-142

T26b Dante Alighieri L'ingiusta giustizia del suicida Pier della Vigna Inferno XIII, 22-78 online

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T23 Una visione negativa del presente: Firenze, l'Italia, il papato

T27 La dimensione figurale

T23a Dante Alighieri

La città partita Inferno VI, 58-75

T23b Dante Alighieri Ahi serva Italia... Purgatorio VI, 76-90 T23c Dante Alighieri

Fatto v'avete dio d'oro e d'argento Purgatorio XIX, 88-96; 100-117

T27a Dante Alighieri

Il ritorno di Beatrice: dalla Vita nuova alla Commedia Inferno II, 52-75; Purgatorio XXX, 22-48; 55-75; 109-145

1 ... e donna mi chiamò beata e bella 2 ... donna m’apparve, sotto verde manto Purgatorio XXX, 22-48; 55-75; 109-145 T27b Dante Alighieri Il personaggio di Catone Purgatorio I, 19-93

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T24 Dante nuovo “auctor” e profeta

T28 Il pluristilismo della Commedia

T24a Dante Alighieri

T28a Dante Alighieri

La consacrazione della missione profetica di Dante Paradiso XVII, 106-142

T24b Dante Alighieri

Il registro comico-realistico Inferno XVIII, 100-136; Paradiso XXVII, 16-30

1 Gli adulatori 2 L’invettiva di san Pietro

Io fui sesto tra cotanto senno Inferno IV, 79-102

Paradiso XXVII, 16-30

T24c Dante Alighieri

T28b Dante Alighieri

Un’immagine del lettore Paradiso II, 1-18

Il registro tragico. Un esempio: il proemio del Paradiso Paradiso I, 1-36

Per approfondire

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Per approfondire Le lecturae Dantis

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Per approfondire Una poesia metamorfica

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Per approfondire Pier Paolo Pasolini La Divina Mimesis

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Paolo e Francesca nell’interpretazione di vari artisti

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Sguardo sul cinema Dante e il cinema

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Verso l'esame di Stato Tipologia C Riflessione di carattere espositivoargomentativo su tematiche di attualità

Il poema sacro 4 291


Fissare i concetti Dante Alighieri Ritratto d’autore 1. Quando Dante fa il suo ingresso nella vita politica? 2. Che cosa succede a Firenze nel 1301 nel momento in cui Dante si trova a Roma? 3. Per quale motivo Dante viene condannato all’esilio? La Vita nuova 4. Quale struttura presenta l’opera? 5. A che cosa allude il titolo? 6. Chi sono i destinatari dell’opera? 7. Quali sono le vicende narrate nella Vita nuova? 8. Qual è l’itinerario spirituale che Dante compie nell’opera? 9. La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 10. Che cosa si intende con Rime? 11. Quale costante caratterizza le rime dantesche? 12. Quali elementi presentano le rime cosiddette “petrose”? 13. Qual è il significato del titolo Convivio? 14. Quale struttura presenta? 15. A quale pubblico si rivolge? 16. Quale argomento affronta nel quarto trattato? 17. A chi Dante dedica l’opera De vulgari eloquentia e perché? 18. Quali caratteristiche deve possedere il volgare? 19. Per quale motivo Dante nel secondo libro del Monarchia sostiene l’origine divina dell’Impero romano? 20. Che cosa afferma Dante nel terzo libro del Monarchia in relazione al papato e all’Impero? 21. Quante epistole di Dante ci sono pervenute e quando sono state composte? 22. Perché è importante l’epistola a Cangrande della Scala? Il poema sacro 23. Quale struttura presenta la Commedia? 24. A che cosa si deve il titolo? 25. Con quale scopo Dante scrive la Commedia? 26. Per quale motivo è definita un’opera enciclopedica? 27. Quali punti di vista adotta Dante nella narrazione? 28. Che cos’è il principio del contrappasso? 29. In che cosa consiste la concezione figurale applicata alla Commedia? 30. Quali scelte metriche e linguistiche compie Dante nella Commedia?

Virgilio e Dante incontrano Sordello, miniatura del manoscritto Holkham (Oxford, Bodleian Library).

292 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Duecento e Trecento letteratura cortese 6La Dante Alighieri nella Francia feudale

Sintesi Zona Competenze con audiolettura

1 Ritratto d’autore

La vita Dante (diminutivo di Durante) Alighieri nasce tra il maggio e il giugno del 1265 a Firenze, città all’epoca profondamente divisa tra ghibellini e guelfi. All’età di nove anni vi incontra Beatrice (Bice Portinari), la donna che diventerà il centro del suo itinerario poetico e umano attraverso un processo di trasfigurazione letteraria. Tra il 1286 e il 1287 è a Bologna, dove opera Guido Guinizzelli. In seguito conosce anche altri poeti toscani, i “fedeli d’Amore”, insieme ai quali dà vita a un nuovo indirizzo poetico incentrato sulla celebrazione dell’amore: lo stilnovo. La morte prematura di Beatrice nel 1290 rappresenta uno spartiacque nella sua vita e nell’esperienza poetica. Dalla grave prostrazione che ne consegue egli sfugge attraverso lo studio intenso di filosofia e teologia, condotto tra il 1290 e il 1295, i cui risultati verranno trasfusi in tutte le opere principali. Nello stesso tempo, però, Dante sperimenta anche forme letterarie diverse, riconducibili allo stile “comico-realistico”, caratterizzato da contenuti più bassi e meno curati. È probabile che si debba ascrivere a questo periodo il misterioso “traviamento”: egli devia dal rigore stilistico e morale della Vita nuova forse per l’influsso dell’aristotelismo radicale e quindi del razionalismo estremo. Dopo anni, iniziando la redazione della Commedia, lo scrittore decide tuttavia di “ricominciare da Beatrice”, la donna dell’amore virtuoso e salvifico, tramite verso Dio, per completare la carriera poetica e la sua stessa storia personale. Nel 1295 lo scrittore fa anche il proprio ingresso nella vita politica fiorentina tra i guelfi Bianchi; l’esperienza culmina nel 1300, con la nomina a priore del comune. Già nel 1301, però, egli è accusato di corruzione dai guelfi Neri mentre si trova a Roma per un’ambasceria: processato in contumacia per corruzione, viene condannato a morte. Non potendo tornare in città, inizia un lungo esilio. Durante questo doloroso periodo, che dura sino alla morte, Dante compone i lavori più celebri, riuscendo ad abbandonare l’ottica esclusivamente municipale e gli influssi stilnovistici. Il poeta trova ospitalità in diverse zone e corti d’Italia (Verona, la Marca trevigiana, la Lunigiana, Lucca), sempre sperando in una restaurazione dell’autorità imperiale (idea vanamente alimentata da Arrigo VII nel 1308) e in una renovatio dell’Europa cristiana. Muore a Ravenna, ultima tappa dell’esilio, tra il 13 e il 14 settembre 1321.

2 La Vita nuova

La struttura, la finalità, i destinatari La Vita nuova è un prosimetrum, cioè un componimento misto di prosa e di poesia in 42 capitoli. È infatti un’antologia delle rime giovanili di Dante, attentamente selezionate e collegate da una parte in prosa che le commenta e contestualizza. Rappresenta la prima opera in volgare scritta dall’autore e la sua realizzazione è collocabile tra il 1293-1294 o, secondo altri, nel periodo 1293-1295. La destinazione è elitaria: il lavoro è indirizzato a Guido Cavalcanti e alla cerchia di amici e “fedeli d’amore”. Nella raccolta viene ricostruita a posteriori la vicenda dell’amore di Dante per Beatrice fino alla morte della donna e agli eventi ad essa immediatamente successivi. Questo racconto per tappe esemplari è accompagnato dalla riflessione sul potere dei sentimenti, in grado di

Sintesi

Duecento e Trecento 293


cambiare un’intera esistenza. Da ciò deriva la reinterpretazione dell’esperienza stilnovistica dantesca, che chiude una fase esistenziale e poetica per farne iniziare una più matura sotto tutti i punti di vista. La vicenda La Vita nuova non è una semplice narrazione autobiografica: i dati servono a delineare non solo un racconto di vita, ma anche l’itinerario di Dante da un amore terreno a un amore spirituale. Nella prima parte dell’opera Dante racconta i due incontri con Beatrice, il saluto che riceve e il suo innamoramento; ma anche le schermaglie tipiche della letteratura cortese. Nei capitoli XVIII-XIX, invece, l’autore compie una svolta, tralasciando la descrizione dei propri stati d’animo per concentrarsi sulla lode disinteressata della donna amata: iniziano le celebri «rime della loda», che non escludono, comunque, la trattazione di situazioni dolorose. Nella parte finale si illustra lo smarrimento che segue la morte di Beatrice: Dante, tuttavia, è salvato da una donna, allegoria della Filosofia, che gli permette di capire come il suo compito sia ora quello di esaltare la figura dell’amata innalzando verso il divino il proprio pensiero. Un itinerario spirituale e poetico nel nome di Beatrice La Vita nuova narra, attraverso un’esperienza di vita riletta in modo simbolico e la figura sacralizzata di Beatrice, la scoperta di una concezione più alta dell’amore, che si riflette in un nuovo modo di fare poesia. I modelli che si possono individuare per l’opera (Boezio, sant’Agostino, la poesia occitanica, le Vite dei Santi, Cavalcanti e Guinizzelli) rivelano l’influenza che su Dante hanno avuto sia gli studi filosofici sia l’interpretazione stilnovistica dell’amore. Le interpretazioni della Vita nuova La Vita nuova è un’opera complessa, né totalmente autobiografica né completamente simbolica, seppur finalizzata a conferire un significato universale a una vicenda individuale: da ciò derivano diverse interpretazioni. Da una parte il lavoro può essere letto come il racconto di un itinerario mistico verso Dio per il tramite della donna: un percorso, quindi, inverso rispetto a quanto teorizzato nei componimenti stilnovistici. Dall’altra vi si può vedere un’opera agiografica, con lo scopo di edificare cristianamente i lettori per il tramite di una storia d’amore.

parola di Dante nei generi 3 La e nei grandi temi culturali del suo tempo Le Rime I testi poetici di Dante non inseriti nella Vita nuova confluiscono nelle Rime. Essi abbracciano un periodo che va dal 1283 ai primi anni dell’esilio. Vi si può constatare l’attitudine dello scrittore a sperimentare diverse forme poetiche: dai modi cortesi-stilnovistici (che si definiscono soprattutto attraverso l’amicizia e il sodalizio con Guido Cavalcanti) alla tendenza comico-burlesca e realista (la “tenzone” con Forese Donati), allo stile “aspro” secondo il modello del provenzale Arnaut Daniel (le “rime petrose”), all’impegno allegorico-dottrinale. Un intellettuale al servizio del suo tempo: il progetto del Convivio Il Convivio è anch’esso un prosimetrum. Composto tra il 1304 e il 1307, è rimasto incompiuto: avrebbe dovuto comprendere 14 trattazioni oltre al proemio, mentre consta solo di questa prima parte (in cui Dante illustra gli obiettivi dell’opera) e di tre trattati, strutturati come commento ad altrettante canzoni, delle quali è spiegato il senso letterale e allegorico. Si tratta di un’opera enciclopedica, una summa medievale modellata sui grandi testi filosofici del passato, in cui Dante si propone di diffondere nozioni e conoscenze allestendo per un pubblico ampio, quello emergente nella civiltà comunale, formato da non dotti, un “banchetto” del sapere (da qui il titolo dell’opera). L’obiettivo didattico e divulgativo del Convivio è quello di permettere ai lettori di esercitare la ragione attraverso la filosofia, e dunque raggiungere la felicità su questa terra avvicinandosi anche alla perfezione divina; esso motiva la scelta dell’autore, certo allora non usuale per argomenti filosofici, di usare il volgare.

294 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Dante teorico della lingua volgare: il De vulgari eloquentia Composto contemporaneamente al Convivio (probabilmente tra il 1304 e il 1305), il De vulgari eloquentia è un trattato di retorica in latino, rimasto anch’esso incompiuto. L’opera mira a spiegare la natura, le caratteristiche e i pregi del volgare ma, essendo rivolta a un pubblico di dotti e specialisti, è scritta in latino. Dante difende la dignità e le potenzialità di questa lingua e cerca di dimostrare che essa è degna di affrontare anche argomenti alti e nobili; ma afferma che debba trattarsi di un volgare “illustre”, non municipale. Intrecciando il discorso retoricolinguistico con quello politico, l’autore asserisce che – poiché in Italia manca, a livello politico, una “curia”, ossia un centro di governo – lo sviluppo del volgare è e deve essere affidato ai più prestigiosi letterati. Segue una trattazione dei suoi usi possibili in poesia, con particolare riferimento al genere metrico della canzone. L’opera si interrompe all’inizio del XIV capitolo del secondo libro, cui avrebbero dovuto far seguito altri due volumi. La riflessione politica: la Monarchia La datazione dell’ultimo trattato di Dante, la Monarchia, è incerta, ma l’opera è sicuramente posteriore al Convivio, di cui riprende e sviluppa alcune fondamentali riflessioni. La Monarchia è scritta in latino perché si rivolge a un pubblico di dotti e non solo italiano, dati i temi affrontati. La riflessione si incentra sulla natura e sul ruolo dell’autorità imperiale (la Monarchia appunto) e sul rapporto tra papato e Impero, un tema di scottante attualità nel primo Trecento. Dante sostiene la derivazione da Dio di entrambi i poteri, la piena autonomia reciproca (ma anche la loro complementarità) e illustra i diversi fini che essi si propongono: l’imperatore deve realizzare la felicità terrena, strumento fondamentale della quale è la pace, mentre il papa deve guidare gli uomini a raggiungere la beatitudine eterna. Epistole Di Dante ci sono pervenute anche 13 epistole scritte in latino tra il 1304 e il 1317. Lo stile è estremamente curato e l’autore se ne serve per parlare di argomenti diversi: alcune lettere accennano a episodi autobiografici, altre trattano il tema politico. Una delle più celebri è la XIII: indirizzata a Cangrande della Scala, signore di Verona, cui Dante dedica e invia la cantica del Paradiso, essa riporta indicazioni del poeta sulle modalità con le quali accostarsi alla sua Commedia.

4 Il poema sacro

Le caratteristiche generali La Commedia è un grandioso poema in tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso), ognuna a sua volta divisa in 33 canti, a cui si aggiunge il primo, proemio all’intera opera. Già nella strutturazione generale è evidente il gusto medievale della simbologia numerica (ricorrono il numero 3 e i suoi multipli). L’opera fu composta in esilio, forse a partire dal 1304, e fu conclusa poco prima della morte del poeta (1321). Il titolo si deve essenzialmente allo stile impiegato: quello “comico” (congruente alla commedia, appunto; nella tripartizione coeva degli stili è lo stile basso), che Dante utilizza soprattutto nell’Inferno. Probabilmente il poeta adottò il titolo mentre scriveva questa cantica, o forse pensò alla commistione degli stili propria dell’opera nel suo insieme. Il viaggio ultraterreno La Commedia, pur non potendo ascriversi a nessun genere, rimanda a quello del viaggio, profondamente radicato nella cultura classica e qui ambientato nel mondo ultraterreno: vi si narra infatti di un’allegorica “inchiesta” etico-religiosa di Dante stesso, accompagnato prima dal poeta latino Virgilio (Inferno e Purgatorio) e poi da Beatrice (Paradiso), nei tre regni dei morti. Un simbolo, dunque, dell’itinerario dell’anima dal peccato alla salvezza, ma anche dell’intera umanità alla ricerca del vero bene. Il viaggio è immaginato secondo il modello medievale delle “visioni”, estremamente popolare, inserito però all’interno di coordinate geografiche e cosmologiche molto precise e proprie della concezione aristotelico-tolemaica dominante nel Medioevo: in grado, quindi di creare un coinvolgente effetto di realtà per i lettori. Si svolge, nella finzione letteraria, Sintesi

Duecento e Trecento 295


nella settimana santa del 1300. È quindi retrodatato rispetto al tempo della composizione: questo espediente consente a Dante-autore di profetizzare, spesso con toni apocalittici e accusatori, eventi in realtà già accaduti. La missione didattica e profetica di Dante Quando compone la Commedia, Dante attribuisce all’intellettuale e alla letteratura una funzione didattica. Dopo il Convivio, egli si sente investito di una missione profetica: incitare l’umanità all’azione generosa che può cambiare il corso della storia e restaurare una civiltà autenticamente cristiana. Questo volontarismo si origina da una visione pessimistica del proprio presente; a provocarla sono la degenerazione morale della società e del mondo ecclesiastico sotto forma di crisi istituzionale determinata sia dalla rampante cultura mercantile sia dall’ingerenza della Chiesa negli affari temporali, oltre che dall’assenza dell’autorità imperiale. Nella Commedia questo discorso politico, fino a quel momento trattato in termini astratti, viene “drammatizzato” attraverso l’incontro e il colloquio tra il poeta pellegrino e le personalità del suo tempo all’interno di invettive, apostrofi o profezie. Gli obiettivi danteschi che seguono alle osservazioni sono indubbiamente utopici; ciononostante la Commedia è un’opera appassionatamente agonistica, capace di chiamare il lettore all’azione. La Commedia come summa della cultura medievale La Commedia si configura, oltre che come testo letterario, anche come una summa del sapere tardo-medievale: essa accoglie i temi più dibattuti al tempo in un’atmosfera di pluralismo ideologico, senza escludere la presentazione di posizioni teoriche eterodosse in campo filosofico e politico. Dante è consapevole del proprio ruolo e della propria autorevolezza culturale e funge da mediatore tra diverse istanze, arrivando a conciliare componenti della cultura classica e cristianomedievale secondo un’ottica enciclopedica e sincretistica. Le tecniche narrative L’opera è un poema epico-romanzesco raccontato in prima persona. Il narratore è il protagonista e coincide con il Dante storico. Si distinguono, però, un Dante personaggio e un Dante autore; la narrazione adotta il “punto di vista” del primo, caratterizzato con tratti psicologicamente dinamici, senza escludere interventi del secondo: strategia che favorisce nel lettore l’immedesimazione necessaria per compiere lo stesso cammino salvifico. Per assolvere alla funzione didattica, Dante sviscera i contenuti da trattare in colloqui con i morti: un enorme numero di personaggi dalle più varie provenienze utilizzati come exempla morali, positivi o meno, per trasmettere un messaggio etico. In ossequio al principio della brevitas, intere personalità vengono dipinte in pochi tratti e ognuna è fissata in quel momento esemplare e culminante della vita che ne decide la sorte nell’eternità. Nell’Inferno e nel Purgatorio, infatti, tutti sono sottomessi al rapporto tra colpa e pena noto come “principio del contrappasso”: la pena corrisponde, per analogia oppure per contrasto, al tipo di peccato prevalente in vita; una scelta che imprime immagini nitide nella mente di chi legge. Nel viaggio, Dante è accompagnato da due guide: il poeta Virgilio e Beatrice. Entrambi sono personaggi figurali, ossia entità che conservano la propria individualità terrena ma al contempo la realizzano nell’aldilà, svelandone il vero senso. Il lavoro del poeta si caratterizza per due aspetti in particolare: il realismo e il simbolismo, entrambi finalizzati al ricercato obiettivo didattico. Il primo si esplica nella resa “visiva”, concreta, degli aspetti fisici delle anime e nella plasticità delle immagini con cui è tratteggiata l’interiorità; ma è inteso anche in senso linguistico, per riuscire a coprire tutti gli aspetti del reale e, attraverso lo strumento della similitudine, a descrivere anche gli incommensurabili accadimenti ultraterreni. Il secondo, invece, si configura come presentazione di personaggi, spazi e tempi quali specchi, simboli di una realtà spirituale ben più profonda.

296 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Lo stile, la lingua, la metrica Per la rappresentazione di una realtà così diversificata e globale, Dante sperimenta un numero senza precedenti di soluzioni formalmente e stilisticamente originali. L’impianto linguistico dell’opera si serve, alla base, del volgare fiorentino, ma aperto a prestiti degli altri dialetti italiani e degli altri idiomi romanzi, oltre che del latino, senza escludere non pochi neologismi. Amplissimo è lo spettro dei registri e delle scelte stilistico-linguistiche del poema, che spaziano dal comico al tragico, spesso in pochi versi. Il risultato è, dunque, uno strumento comunicativo estremamente vario e duttile, che caratterizza il poema nel segno del plurilinguismo e del pluristilismo. Dal punto di vista metrico, l’autore si vale di terzine di endecasillabi a rime incatenate, in tutte le accentazioni possibili, per sottolineare il movimento narrativo incalzante e rendere memorabili, anche grazie alle rime, i propri versi.

Priamo della Quercia, supplizio dei simoniaci, dal ciclo di miniature dell’Inferno e del Purgatorio danteschi, manoscritto Yates Thompson 36, foglio 34r, 1442-1450 (Londra, British Library).

Zona Competenze Competenza digitale

1. Prepara una presentazione da illustrare alla classe sulla compresenza di realismo e simbolismo nella Divina Commedia: puoi procedere definendo le due modalità di rappresentazione e poi esemplificandole con riferimenti ai testi letti ed esaminati.

Scrittura

2. Scrivi un testo espositivo-argomentativo sul percorso poetico e spirituale attraverso cui Dante supera e trasforma la concezione dell’amore cortese (max 30 righe).

Sintesi

3. In alcuni passi del Convivio, della Monarchia e della Commedia Dante denuncia i mali che affliggono la politica e la società del suo tempo. Individuali e sintetizzali in una tabella.

Sintesi

Duecento e Trecento 297


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Dante Alighieri

Vede perfettamente onne salute Vita nuova, XXVI D. Alighieri, Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Ricciardi, MilanoNapoli 1980

Vede perfettamente1 onne salute2 chi la mia donna tra le donne3 vede; quelle che vanno con lei son tenute4 4 di bella grazia a Dio render merzede5. E sua bieltate è di tanta vertute6, che nulla7 invidia a l’altre ne procede8, anzi le face andar seco vestute 8 di gentilezza, d’amore e di fede. La vista sua fa onne cosa umile; e non fa sola sé parer piacente9, 11 ma ciascuna per10 lei riceve onore. Ed è ne li atti suoi tanto gentile, che nessun la si può recare a mente11, 14 che non sospiri12 in dolcezza d’amore. 1 perfettamente: del tutto, completamente. 2 onne salute: ogni perfezione e beatitudine. 3 tra le donne: in compagnia di altre donne. 4 son tenute: devono, sono obbligate a.

Comprensione e analisi

Interpretazione

5 di bella... merzede: a rendere grazie a Dio per il grande bene ricevuto. 6 sua bieltate… tanta vertute: la sua bellezza (francesismo) è di tale potere. 7 nulla: nessuna.

8 procede: deriva. 9 parer piacente: apparire bella. 10 per: attraverso. 11 la si... mente: ricordarsela. 12 che non sospiri: senza sospirare.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. In quante parti si può suddividere il sonetto? Indicale e fai una sintesi di ciascuna. 2. Individua nel sonetto i termini legati al campo semantico della vista. 3. Quale reazione genera nelle altre donne la vista di Beatrice? 4. Elenca gli effetti di Beatrice elencati dal poeta nella prima terzina. 5. Individua le caratteristiche dello stile “dolce”: ci sono suoni aspri? Ci sono enjambements? Ci sono termini inconsueti? La sintassi è semplice o complessa? 6. Sia in questo sonetto sia in Tanto gentile e tanto onesta pare nell’ultimo verso il poeta fa riferimento all’atto del sospirare: fai un confronto tra gli ultimi due versi dei sonetti. Confronta il testo dantesco con Io voglio del ver la mia donna laudare di Guido Guinizzelli e Chi è questa che vèn ch’ogn’om la mira di Guido Cavalcanti, indicando gli elementi comuni e quelli che invece contraddistinguono ciascuno dei tre sonetti.

298 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri


Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da Giuliano Procacci, Storia degli italiani, 1, Laterza, Bari 1968

La storia religiosa italiana nei secoli XI e XII non differisce sostanzialmente da quella degli altri paesi dell’Europa cristiana. Anche nella penisola infatti i primi fermenti ereticali ebbero la loro culla nell’ambiente agitato e ricettivo delle città in via di sviluppo e di trasformazione. Milano in particolare, che più tardi si meritò l’appellativo di «fossa degli eretici», ebbe sin dal secolo XI i suoi “patari” e i suoi eretici. Ma anche in Italia il movimento per la riforma della Chiesa riuscì in buona parte a riassorbire temporaneamente le istanze di rinnovamento religioso e sociale che si esprimevano attraverso il fermento innovatore ed ereticale. Nel corso del secolo XII quest’ultimo conobbe però un nuovo potente rilancio. La stessa Roma, dalla quale una sollevazione cittadina aveva temporaneamente cacciato il pontefice, fu teatro negli anni tra il 1146 e il 1154 della predicazione di Arnaldo da Brescia, un inquieto allievo dell’inquieto Abelardo1. Come in tutti i movimenti ereticali medievali, in essa il motivo principale era quello della rampogna contro la degenerazione e la corruzione degli ecclesiastici e l’ottica quella della restituzione della Chiesa alla sua primitiva purezza. Arnaldo, catturato dal Barbarossa e da questi consegnato al papa, finì coraggiosamente e virilmente i suoi giorni sul rogo, ma ciò non valse ad arrestare i progressi dell’eresia e delle istanze rinnovatrici. Nell’evoluta società urbana della fine del secolo XII e degli inizi del secolo XIII questi pullulavano dovunque: nell’Italia settentrionale si diffusero largamente, con diversi nomi, con diverse ramificazioni, il movimento dei valdesi e quello, più intransigente e manicheo, dei càtari; dalle campagne della Calabria veniva la predicazione millenaristica2 di Gioacchino da Fiore, un cistercense staccatosi dal suo ordine per formare un proprio monastero, autore di scritti profetici che avranno larga risonanza e forza di suggestione su intere generazioni di fedeli. Certo, dal punto di vista dottrinale, questi movimenti presentavano sensibili differenze ed è estremamente difficile stabilire ove veramente passasse il confine tra eresia e ortodossia3. Essi però erano tutti insieme la testimonianza di una diffusa inquietudine, del disagio di una società nuova o in via di rapida trasformazione nei confronti di una fede e di una liturgia che stentavano a tenere il passo coi tempi. È noto che anche questa volta la Chiesa reagì sotto il papato di Innocenzo III e che la sua reazione fu diretta da una parte a reprimere, dall’altra ad assorbire e a incanalare verso l’ortodossia le agitazioni e le istanze rinnovatrici del movimento ereticale. Abbiamo così da una parte la crociata contro gli albigesi (1209) e l’istituzione dell’Inquisizione, dall’altra l’approvazione dei nuovi ordini mendicanti con le nuove forme di devozione da essi introdotte. Ma i modi e l’efficacia di questa duplice reazione, fatta di riforma e controriforma, non furono gli stessi dovunque ed è appunto a partire di qui che la storia religiosa italiana comincia a divergere da quella degli altri paesi dell’Occidente europeo. 1

Abelardo: Pietro Abelardo (1079-1142), uno dei massimi filosofi medievali. 2 millenaristica: ispirata alla credenza e all’attesa del regno di Cristo

in terra, prima del giudizio finale; riservato ai soli giusti, secondo un computo respinto dall’interpretazione ufficiale delle Sacre Scritture, era destinato a durare 1000 anni.

3 ortodossia: conformità a una determinata religione, di cui si accetta integralmente la dottrina.

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Mentre infatti fuori d’Italia la complessa azione antiereticale del Papato non riuscì né a reprimere né ad assorbire completamente le virtualità4 ereticali della religiosità popolare e queste seguiteranno a vivere sotterraneamente per affiorare di volta in volta sotto questa o quella forma e per confluire infine nel grande moto della Riforma, in Italia invece l’operazione poté dirsi riuscita. Non bisogna, tra l’altro, dimenticare che l’Italia era e continuò ad essere, salvo la parentesi avignonese, la sedia e la sede del Papato. Ma essa fu anche – e ciò ci riporta nel cuore del secolo XIII – la culla della rivoluzione francescana, la quale vi ebbe un seguito e un’influenza in profondità che difficilmente possono essere sopravvalutate. Ad essa perciò, ai suoi sviluppi e alle sue forme, noi siamo condotti se vogliamo renderci ragione della particolarità che la storia religiosa italiana (e non solo quella religiosa) presenta a partire dal secolo XIII. 4 virtualità: potenzialità.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Riassumi il testo mettendone in luce gli snodi argomentativi. 2. Quali sono secondo lo storico gli elementi che accomunano la storia religiosa italiana dei primi secoli del basso Medioevo a quella di altri paesi europei? 3. Quando e perché, invece, la situazione italiana e quella europea cominciano a divergere? 4. In che senso Procacci parla di «riforma» e «controriforma» a proposito delle scelte e delle reazioni della Chiesa di Roma nei confronti dei molteplici e diversificati movimenti di inquietudine religiosa del XII e XIII secolo? 5. Quale fattore, secondo lo storico, caratterizza e identifica in specifico la situazione italiana?

Produzione

Nei movimenti ereticali del Medioevo confluiscono molti e diversi fattori che la storiografia di volta in volta ha enfatizzato o ridimensionato: aspirazioni ideali e spirituali, disagio sociale, nuovi impulsi economici, fermenti politici. Riflettendo sul giudizio formulato dallo storico Giuliano Procacci nel brano proposto, ricostruisci il complesso fenomeno dei movimenti ereticali e in generale del dissenso religioso sullo sfondo dei profondi cambiamenti sociali, culturali, politici dei secoli appena successivi al Mille. Illustra le tue riflessioni in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

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Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da R. Davidsohn, Storia di Firenze, VII, trad. di E. DupréTheseider, Sansoni, Firenze 1973

Giacché l’esperienza insegnava che nelle piante e nei minerali esistevano delle forze attive, e d’altra parte mancava l’esatta conoscenza delle reazioni biologico-chimiche, fu la fantasia che si impadronì di questo dominio. Si pensò che tutto quello ch’era prezioso dovesse esser anche efficace: orbene, il fiorino d’oro era coniato, come si riteneva, in metallo purissimo, ed in più recava l’effigie del Battista1, il che avrà anche accresciuto la fede nel suo potere benefico, e pertanto la limatura del fiorino, finemente polverizzata, era considerata un rimedio mirabile, dal quale perfino il primo pontefice avignonese2 si era atteso un effetto benefico. E il medesimo Clemente V faceva unire alle sue vivande della polvere di pietre preziose a scopo di medicamento. Dino Compagni3 [...] enumera i magici poteri dei gioielli: gli uni eliminano la febbre, lo zaffiro conserva la gioventù, altri giovano contro gli spettri notturni, contro il sonnambulismo, guariscono le emorroidi. Cecco d’Ascoli4 [...] narra come il diamante liberi dalla malìa, dal veleno e dagli spettri, come ravvivi l’amore spento – la qual cosa può realmente avverarsi – come protegga dai nemici colui che lo porta al braccio sinistro; lo smeraldo poi scaccia l’epilessia e rafforza la memoria. Dante menziona la fede dei ladri che l’elitropia5 avesse il potere di renderli invisibili ed introvabili. Tra le cose lasciate da un armaiolo fiorentino v’era un gioiello montato in argento, che aveva la virtù di arrestare le emorragie. Si comprende come fosse facile in questo campo l’impostura […]. La conoscenza dell’efficacia delle piante fa parte della storia della medicina popolare, ma noi vogliamo in queste pagine ricordare le fantasticherie e le esagerazioni su tale argomento. 1 Battista: san Giovanni Battista è il protettore di Firenze, e come tale la sua immagine era riportata sulla moneta cittadina. 2 primo pontefice avignonese: si tratta di Clemente V, citato ancora di seguito, e così definito

in quanto fu il primo dei papi che stabilirono la sede in Francia. 3 Dino Compagni: uomo politico e scrittore fiorentino (ca. 12471324) cui si deve un’importante cronaca delle contemporanee vicende di Firenze.

4 Cecco d’Ascoli: astrologo e scrittore (1269-1327), condannato al rogo come eretico. 5 elitropia: minerale di calcedonio. Sul suo presunto potere di rendere invisibili è incentrata anche una novella di Boccaccio.

Il passo riportato offre una rassegna delle credenze sui poteri magici di elementi naturali, assai diffuse nel Medioevo anche presso i ceti colti e spesso condivise anche dagli stessi ecclesiastici. Se tali interpretazioni potevano essere in parte giustificate da una visione della natura ancora prescientifica, stupisce che nella civiltà odierna, intrisa di conoscenze scientifiche e tecnologie avanzate, possano sopravvivere credenze e comportamenti che fanno affidamento sulle arti magiche. Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali, di letture e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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Duecento e Trecento CAPITOLO

7 Francesco Petrarca LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Petrarca visto da Giovanni Boccaccio... Nell’ammirata biografia (Vita e costumi di messer Francesco Petrarca da Firenze) che Boccaccio dedica a Petrarca, suo maestro e amico, l’autore del Decameron così presenta il grande poeta...

Alto di statura, di leggiadro aspetto, e piacevole per il viso tondeggiante [...]. Severo il movimento degli occhi; felice e insieme sottile l’intuito per acuta perspicacia; mite nell’aspetto, quanto mai misurato nei gesti: senz’altro disponibile al riso, ma non fu mai visto agitarsi per una risata stupida e scomposta. Controllato nel camminare, sereno e gioioso nell’esporre, parla tuttavia di rado, a meno che non gli siano poste delle domande: ma allora porge parole così chiare a chi lo interroga, soppesate con tale serietà, da guadagnare all’ascolto anche i più semplici... E che dire della sua indole? In lui non c’è nulla di ambiguo, nulla di oscuro, ma ogni cosa gli si manifesta come chiara, limpida e aperta... Quanto poi alla memoria, credo che lui debba essere ritenuto piuttosto divino che umano: sembra, indubbiamente, conoscere e ricordare qualsiasi cosa, quasi fosse sempre presente. G. Boccaccio, Vita di Petrarca, Salerno, Roma 2004

... e da sé medesimo All’inizio dell’epistola Posteritati (una lettera del 1367 in forma di autobiografia indirizzata ai posteri) Petrarca delinea un autoritratto fisico e morale.

Ebbi sempre grande disprezzo per le ricchezze, e non perché non le desiderassi, ma perché avevo in odio le preoccupazioni e gli affanni che ne sono inseparabili compagni. [...] Quelli che si chiamano banchetti (e sono gozzoviglie, nemiche del vivere misurato e costumato) mi sono sempre dispiaciuti: e mi è parsa una fatica inutile invitarvi gli altri o, dagli altri, esservi invitato. Mi è piaciuto invece pranzare con gli amici, e mi è piaciuto a tal punto da non provare nulla di più gradito dell’averli a tavola e mai, di mia volontà, ho mangiato senza compagnia. Nulla mi è mai tanto dispiaciuto quanto il fasto, e non solo perché si tratta di un vizio contrario all’umiltà, ma anche perché oneroso e nemico della quiete. [...] Ebbi la fortuna, sino all’invidia, di godere della dimestichezza dei principi e dei re e dell’amicizia di persone altolocate. Cercai comunque di tenermi lontano da molti di costoro, che pure amavo assai: tanto fu in me radicato l’amore per la libertà da evitare con ogni cura chi mi pareva fosse contrario anche al suo nome soltanto. [...]. Fui d’intelligenza piuttosto equilibrata che acuta, [...] particolarmente disposta alla filosofia morale e alla poesia. F. Petrarca, Epistole, a cura di U. Dotti, Utet, Torino 1978

302


Francesco Petrarca occupa un ruolo chiave nella letteratura italiana ed europea per la raccolta di liriche nota come Canzoniere, incentrata sul tormentato amore del poeta per Laura. Per il suo altissimo valore artistico l’opera costituirà per secoli l’indiscusso modello della poesia amorosa in tutta Europa. Per la prima volta Petrarca pone al centro della poesia la vita interiore dell’“io”: un io che si presenta lacerato dal conflitto tra il divino e il terreno, fra la tensione all’ascesi e l’opposta attrazione della gloria e delle passioni, che ne fa un personaggio moderno, ormai ai confini del Medioevo. Anche per le sue scelte di vita e letterarie, come il culto dei classici e l’uso del latino per molte sue opere, Petrarca rappresenta un nuovo tipo di intellettuale che prelude all’età umanistica.

1 ritratto d'autore 2

Dalla mancanza di un "centro" al progetto autobiografico

3 Il canzoniere 303 303


1 Ritratto d’autore 1 Una vita come ricerca VIDEOLEZIONE

«Sono nato in esilio»: il destino annunciato di un intellettuale cosmopolita Francesco Petrarca nasce ad Arezzo il 20 luglio 1304. Il padre, il notaio fiorentino ser Petracco, in quanto schierato con la fazione dei Bianchi, sopraffatta dalla parte dei Neri, era stato esiliato nel 1302, contemporaneamente a Dante di cui era amico. Dopo un breve soggiorno in terra toscana, il notaio Giusto di Gand, Ritratto di Francesco si trasferisce con la famiglia a Carpentras, nelle Petrarca dipinto con la corona di lauro, sec. XV (Urbino, Galleria Nazionale delle vicinanze di Avignone, dove aveva ottenuto un Marche). incarico presso la curia papale (la sede del papato era stata trasferita nella città provenzale nel 1309). In alcune lettere Petrarca enfatizza la condizione di esiliato, che non gli ha consentito l’appartenenza a una “sua” città: «sono nato in esilio ad Arezzo» afferma nella celebre lettera Posteritati, facendo dell’esilio il motivo-chiave iniziale della sua biografia, forse anche per suggestione del grande modello di Dante, l’esule per eccellenza. La condizione di sradicamento, l’assenza di una patria, sarà quasi un destino per Petrarca, la cui intera esistenza sarà caratterizzata da continui spostamenti, da moltissimi viaggi in Italia e anche in Europa.

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1337

1309

1321

Il papato e la corte papale di trasferiscono ad Avignone, in Provenza.

1300

Inizia la guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra.

Muore in esilio Dante.

1310

1320

1330

1340

1327

Il 6 aprile, nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, incontra Laura per la prima volta.

1312

1304

Nasce ad Arezzo il 20 luglio.

Con la famiglia Francesco si trasferisce a Carpentras (Avignone).

1330

1316-1326

Petrarca studia diritto all’università di Montpellier e in seguito a Bologna. Nel 1326 la morte del padre lo richiama ad Avignone.

304 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca

Prende gli ordini minori ed entra al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Ai Colonna rimarrà legato fino al 1347 compiendo numerose missioni diplomatiche in vari paesi europei. 1336

Verso la fine dell’anno visita Roma.


Un giurista mancato Dopo la prima formazione, Petrarca viene avviato dal padre agli studi giuridici, a cui si dedica, insieme al fratello Gherardo e all’amico Guido Sette, prima a Montpellier e poi a Bologna. Fin dagli anni giovanili è però attratto dalla letteratura classica, in cui ritrovava un mondo più nobile e affascinante di quello contemporaneo. A Bologna entra anche in contatto con la poesia stilnovistica e diventa amico di Cino da Pistoia, ultimo esponente della modalità poetica del “dolce stile”. Avignone. L’incontro con Laura (1326-1337) Dopo il rientro ad Avignone, in seguito alla morte del padre (1326), abbandona gli studi giuridici, entra negli ambienti colti della città e partecipa, insieme al fratello Gherardo, alla vita mondana avignonese, attratto dai lussi e dai divertimenti offerti in quel tempo dalla città che ospitava la curia papale. Ad Avignone avviene l’incontro con Laura, la misteriosa figura che Petrarca immortalerà nel Canzoniere e intorno alla quale ruota la complessa vicenda umana ritratta nell’opera. Il primo incontro con la donna avviene, secondo la testimonianza dello stesso poeta, nella chiesa di Santa Chiara, il 6 aprile del 1327: da quella fatale apparizione nasce una lunga passione amorosa, che segnerà tutta la vicenda esistenziale e letteraria del poeta. Ritratto presunto di Laura in una miniatura del 1463, particolare dal manoscritto del Canzoniere e Trionfi del Petrarca (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana).

1345

La guerra nel territorio di Parma, che vede lo scontro tra gli Este da una parte e i Gonzaga e i Visconti dall’altra, ispira la Canzone all’Italia.

1347

Appoggia il tentativo rivoluzionario di Cola di Rienzo, ispirato al sogno di restaurare l’antica repubblica romana. Il progetto fallirà miseramente.

1375

A un anno di distanza muore Giovanni Boccaccio.

1348

La peste infuria in Europa. Il 6 aprile muore anche Laura.

1350

1360

1370

1380

1361-1368 1349-1351

Boccaccio compone il Decameron.

1341

L’8 aprile è incoronato poeta in Campidoglio.

1337-1340

Di ritorno da Roma, si stabilisce a Valchiusa, presso Avignone, dove inizia l’Africa e il De viris illustribus.

1350

In viaggio per Roma in occasione del giubileo, a Firenze incontra Boccaccio. 1345

A Verona, nella biblioteca della cattedrale, scopre le lettere di Cicerone ad Attico, a Bruto, al fratello Quinto. Da questo fortunato ritrovamento nasce l’idea delle Familiares.

L’avanzare della peste lo induce a lasciare Milano e a stabilirsi prima a Padova e poi a Venezia. Nel 1366 inizia a far trascrivere il Canzoniere e si dedica alle Seniles.

1374

Nella notte tra il 18 e il 19 luglio muore. 1370

Pone la sua residenza ad Arquà, sui colli Euganei, non lontano da Padova. 1351-1353

Vive a Padova, ospite di Francesco da Carrara, e quindi, per l’ultima volta, a Valchiusa che lascia definitivamente nel 1353. Si stabilisce a Milano, dove rimarrà fino al 1361, presso i Visconti; compie missioni diplomatiche anche fuori d’Italia (Parigi, Praga).

Ritratto d’autore

1 305


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Per approfondire Ma Laura è veramente esistita?

Lessico ordini minori Sono così definiti quei ministeri che nella Chiesa cattolica latina erano legati a una particolare funzione all’interno della comunità cristiana e conferivano lo status di chierico (cui corrispondeva una rendita). A partire dall’Alto Medioevo diventarono prevalentemente delle tappe nell’itinerario di un chierico verso il sacerdozio sacramentale (nei suoi tre gradi maggiori del diaconato, presbiterato, episcopato).

Come apparve chiaro già ai contemporanei di Petrarca, le vicissitudini dell’amore per Laura a cui fa riferimento il Canzoniere, più che con un sentimento amoroso reale hanno a che fare con il complesso itinerario, interiore e insieme letterario, del poeta e Laura stessa è soprattutto una presenza poetica. Non a caso dunque vi fu, già al tempo di Petrarca, chi dubitò della sua reale esistenza. La fedeltà alla professione di letterato Rientrato ad Avignone Petrarca decide di intraprendere la carriera ecclesiastica prendendo gli ordini minori . Una scelta comune a quel tempo, che non imponeva impegni vincolanti e che Petrarca compie non certo per vocazione, ma per garantirsi una rendita fissa che gli consenta di dedicarsi senza preoccupazioni economiche agli amati studi. La sua vocazione è infatti sempre più quella letteraria, anche se non ha ancora scoperto la sua strada maestra come autore: legge molto i classici latini, in particolare Cicerone e Virgilio (che, insieme poi ad Agostino, rimarranno nel tempo i “suoi” autori) e si apre all’interesse per la storia romana. Nella stessa ottica si spiega anche la scelta di entrare al servizio a partire dal 1330 (e fino al 1347) della potente famiglia dei Colonna per i quali compirà missioni diplomatiche importanti che lo porteranno a viaggiare a Parigi, nel Belgio, in Germania. La fama di letterato prestigioso gli consentirà in seguito, una volta lasciati i Colonna, di essere riverito e ospitato da grandi famiglie signorili, come i Visconti (presso i quali rimarrà per otto anni, dal 1353, anno in cui lascia definitivamente Avignone, al 1361) o da governi repubblicani come Venezia, senza propriamente essere al loro servizio, ma limitandosi a svolgere funzioni diplomatiche di alto livello o a tenere discorsi in momenti particolarmente importanti. Vi fu chi rimproverò a Petrarca questi legami (in particolare, l’amico Boccaccio lo accusò in una lettera di essersi messo al servizio di un tiranno, nemico di Firenze), ma la realtà è che egli fu veramente al servizio solo della letteratura, da lui intesa come missione e professione, a cui subordinò ogni scelta di vita.

I luoghi di Petrarca Nel 1360 va a Parigi per conto dei Visconti Nel 1353 si trasferisce a Milano presso i Visconti, dove resterà fino al 1361 Dal 1337 al 1353 risiede periodicamente Dal 1312 con la famiglia a Valchiusa si trasferisce ad Avignone, sede papale. Qui incontra Laura Dal 1316 al 1320 studia Legge a Montpellier

Nasce ad Arezzo nel 1304

Nel 1345 si stabilisce a Verona

Si trasferisce nel 1361 a Venezia

Dal 1320 studia Legge a Bologna

A Roma riceve la corona poetica nel 1341

306 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca

Nel 1370 si trasferisce ad Arquà,dove morirà nel 1374


Un intellettuale “europeo” attento ai problemi italiani Le tappe del percorso di vita di Petrarca lo portano a muoversi tra i centri più importanti dell’Italia, da Roma a Parma, Verona, Mantova, Ferrara, Firenze, e altre città ancora ma anche a spaziare entro il territorio europeo, in una dimensione di apertura ormai cosmopolita. Questa dimensione “internazionale” fa di Petrarca un nuovo tipo di intellettuale, ormai slegato dai ristretti orizzonti della cultura comunale, che si propone come portavoce delle ragioni universali della cultura, in grado per il suo prestigio di dialogare alla pari con i potenti. Pur ormai proiettato in una dimensione europea, Petrarca ha però a cuore i problemi dell’Italia, nella quale lamenta la mancanza di un centro politico e culturale in grado di arginare le contese fra i signori italiani e le lotte tra le fazioni. Uno dei temi principali della riflessione di Petrarca è la perenne situazione di conflittualità in Italia (celebre è l’accorato appello alla pace nella Canzone all’Italia, (➜ T15a ), dovuta alla mancanza di un centro politico forte e autorevole. Dalla dimensione comunale alla dimensione nazionale Per Petrarca, ormai, la “patria” non è più un singolo comune, ma l’Italia. All’Italia rivolge dall’alto del Monginevro, nel momento di rientrarvi definitivamente lasciando la Provenza, un commosso saluto, non privo di quell’enfasi retorica che sarà poi comune ai tanti elogi nazionalistici tipici della cultura italiana: l’Italia è salutata come terra «veneranda per la gloria d’armi e di sacre leggi, dimora delle Muse, ricca di tesori e d’eroi […]». Certo, il sentimento nazionale di Petrarca non poteva ancora poggiare su alcun concreto elemento politico, ma si fonda su un’idea tutta letteraria, e in qualche modo mitica, dell’Italia. L’appoggio al progetto di Cola di Rienzo In questa prospettiva si spiega l’appoggio entusiastico di Petrarca al progetto di Cola di Rienzo, grande ammiratore della storia e della cultura romana, che gli pareva potesse fare di Roma il centro politico dell’Italia e insieme il centro della cristianità. Di fatto Cola, che Petrarca aveva personalmente conosciuto ad Avignone, intendeva porre fine allo strapotere della nobiltà romana e progettava un governo democratico popolare che restaurasse l’antica repubblica romana. Quando Cola nel 1347 riesce a prendere il potere, Petrarca scrive un’orazione in cui condanna i privilegi delle grandi famiglie nobiliari, compresi i Colonna, e presenta Cola come l’uomo della Provvidenza. Ma il tentativo fallisce e Cola, scomunicato dal papa, viene ucciso nel 1354 dalla plebe romana. L’intellettuale a confronto con il potere signorile Petrarca ormai accetta l’esistenza dei regimi signorili e la conseguente necessità che occorra confrontarsi con una realtà che non è più quella comunale, per trovare un personale spazio di azione e di libertà. Lasciata la Provenza quando ormai è un intellettuale celebre, sceglie di vivere non a Firenze, ma presso la signoria dei Visconti. Una scelta, come già detto, contestata da chi, come l’amico Boccaccio, lo accusa di servire un tiranno. Petrarca era fermamente convinto che la politica non potesse fare a meno della cultura e che l’intellettuale, nella difficile contingenza storica, dovesse rappresentare una figura super partes, un consigliere saggio che operasse per la pace rimanendo indipendente da ogni ideologia. Valchiusa: il buon ritiro e l’“officina” di Petrarca Dal 1337 al 1353 quando, disgustato dalla corte avignonese, deciderà di stabilirsi definitivamente in Italia, Petrarca vive a periodi alterni a Valchiusa (Vaucluse), presso Avignone in una piccola casa addossata a una rupe, sulla riva sinistra del fiume Sorga.

Ritratto d’autore

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Valchiusa rappresentò per molti anni il “buon ritiro” di Petrarca, che amava tornarvi appena possibile come a un porto sicuro, lontano dagli obblighi sociali e dagli intrighi della corte papale ad Avignone. Nella pace del ritiro campestre Petrarca concepisce e scrive (per lo meno in una prima stesura) le sue opere più importanti, come egli stesso riconobbe: il De vita solitaria (La vita solitaria) e il De otio religioso (La quiete della vita religiosa), il Bucolicum carmen, parte dell’Epistolario e il Secretum. Lo stesso Canzoniere ha la sua genesi e viene elaborato nelle sue prime fasi compositive proprio a Valchiusa. Petrarca poeta “laureato” Pur consapevole della labilità della gloria, Petrarca aspirava ardentemente a un riconoscimento ufficiale dei suoi meriti e riuscì a ottenerlo: nel 1341, dopo esser stato sottoposto per sua richiesta a Napoli a un esame dal re Roberto d’Angiò, cultore delle lettere, ottiene la “laurea” poetica a Roma con una solenne cerimonia in Campidoglio, che ebbe vasta eco in Italia (il termine laurea e l’aggettivo derivato laureatus alludevano allora alla consuetudine, già presente nella tradizione latina, di porre sul capo dei grandi poeti una corona di alloro, laurum in latino). Il riconoscimento ufficiale accresce ulteriormente la fama di Petrarca e ne fa un intellettuale corteggiato dai potenti per il suo indubbio prestigio.

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Per approfondire I libri come amici?

Sulle tracce del passato: la ricerca dei codici antichi Le missioni diplomatiche e gli incarichi importanti affidatigli prima dai Colonna e più tardi dai Visconti rappresentano per Petrarca, amante della classicità, occasioni preziose per andare alla ricerca, nelle biblioteche d’Italia e d’Europa (da Parigi a Gand, da Lione a Liegi), di testi classici andati perduti. L’appassionata ricerca dei codici antichi, ispirata dal desiderio di riportare in vita dall’oblio gli amati classici, preannuncia la vera e propria “febbre” degli umanisti, sempre alla caccia dei testi classici scomparsi dalla circolazione. Nel 1333 a Liegi Petrarca ritrova l’orazione di Cicerone Pro Archia, che contiene un elogio della poesia e della figura del poeta, in sintonia con la valorizzazione della letteratura propria dello stesso Petrarca. Folgorante sarà poi per lui la fortunata scoperta, nel 1345, di ampia parte dell’epistolario di Cicerone nella Biblioteca capitolare di Verona. Un ritrovamento che influenzerà non poco le scelte compositive dello scrittore: Petrarca deciderà infatti di sistemare in forma organica le proprie lettere sul modello autorevole del grande scrittore latino.

Simone Martini, allegoria virgiliana per il Virgilio ambrosiano di Francesco Petrarca. Nella miniatura sono rappresentati, oltre al commentatore latino Servio che “svela” il poeta, un soldato, un contadino e un pastore, facendo riferimento a Eneide, Georgiche e Bucoliche di Virgilio contenute nel volume (Milano, Biblioteca Ambrosiana).

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Il culto dell’amicizia e il legame con Boccaccio Petrarca tenne in grande considerazione l’amicizia, come testimonia in più punti il suo epistolario. Pur amando la solitudine, lo scrittore ricercava al tempo stesso la compagnia di persone vicine a lui culturalmente e spiritualmente, anticipando in questo atteggiamento il culto dell’amicizia che sarà proprio degli umanisti. Tra gli amici di Petrarca, uniti a lui dalla comune aspirazione alla formazione di una nuova cultura e dall’amore per i testi antichi, il posto più importante è occupato da Giovanni Boccaccio, l’altro grande scrittore trecentesco, che Petrarca conobbe a Firenze nel 1350 durante una sosta del suo viaggio verso Roma, in occasione del giubileo. I rapporti affettuosi tra i due grandi letterati, testimoniati da varie lettere, durarono fino alla morte di Francesco (Per la profonda influenza esercitata da Petrarca sull’amico Boccaccio ➜ PER APPROFONDIRE, Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda, C8, PAG. 393). L’ultimo rifugio Petrarca lascia definitivamente Milano nel 1361 per sfuggire a un’epidemia di peste. Dopo vari spostamenti, finisce per stabilirsi ad Arquà, una cittadina collinare sui Colli Euganei presso Padova, che ora porta anche il suo nome. Qui lo scrittore sembra ritrovare la pace di Valchiusa: la casa in collina che si fece costruire era circondata da alberi e viti, ai quali lavorava lo stesso poeta nei momenti in cui abbandonava la sua principale attività di studioso e scrittore. Non rifiuta però di compiere missioni diplomatiche: per i Visconti, recandosi a Pavia, e infine a Venezia per un trattato di pace tra Veneziani e Padovani. Nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374, alla vigilia del suo settantesimo compleanno, Petrarca muore, dopo aver lavorato fino all’ultimo all’ordinamento del suo Canzoniere. Il destinatario della sua ultima lettera era stato Boccaccio, che l’anno dopo seguirà nella morte l’amico e maestro.

Boccaccio e Petrarca leggono dei libri in un particolare di una miniatura del XV secolo (Londra, British Library).

online D1 Petrarca e la solitudine D1a Francesco Petrarca

Ideale di vita De vita solitaria, I, VI

D1b Francesco Petrarca La solitudine nel locus amoenus di Valchiusa Lettere familiari, VI, 3 D1c Francesco Petrarca La vita cittadina non è fatta per gli spiriti eletti De vita solitaria, II, XV D1d Francesco Petrarca Come leggeva Petrarca De vita solitaria, II, XIV online

Interpretazioni critiche Ugo Dotti Il significato della solitudine per Petrarca

Ritratto d’autore

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nuovo modello di intellettuale 2 Un e una nuova visione culturale: verso l’Umanesimo

La concezione filosofica e letteraria La polemica contro l’aristotelismo e l’esaltazione della filosofia morale Immerso nel confronto con una realtà che è ormai mutata – come abbiamo visto, l’esperienza storico-sociale dei comuni ha lasciato il posto ai regimi signorili –, Petrarca rifiuta nettamente, ormai, le interpretazioni generali e totalizzanti del mondo che dominavano nella cultura medievale: in particolare, prende le distanze dal sistema aristotelico e dalla filosofia Scolastica, in accordo del resto con le più generali tendenze della filosofia del suo tempo. Il poeta considera ormai astratta e lontana la visione enciclopedica e classificatoria della cultura ancora vigente nelle università e contrappone ai metodi della Scolastica – fondati sulla valorizzazione della logica e della dialettica – una “cultura dell’interiorità”. Per Petrarca l’unica filosofia che serva veramente all’uomo è quella morale: alle scienze naturali, come alle speculazioni astrattamente metafisiche, Petrarca contrappone l’indagine sull’interiorità dell’uomo già presente nel pensiero di Seneca e soprattutto nell’opera di sant’Agostino, principale “maestro di pensiero” per Petrarca (➜ T2 OL). Antonello da Messina, Sant’Agostino, tempera su tela, 1473 (Palermo, Palazzo Abatellis).

Il ruolo della letteratura Un ruolo formativo altrettanto importante è rivestito dalle lettere e dalla poesia, in cui per Petrarca si esprimono i più alti valori umani. Egli istituisce ormai una netta distanza tra poesia e teologia, rivendicando l’autonomia della letteratura: essa non ha il compito per Petrarca, a differenza di Dante, di comunicare immutabili verità trascendenti, ma di indurre nell’uomo la crescita morale e spirituale, di portarlo alla coscienza di sé.

PER APPROFONDIRE

Il classicismo preumanistico di Petrarca Nella personalità culturale di Petrarca è centrale il culto dell’antichità classica, concepito fin dalla prima giovinezza e alimentato per tutta la vita, che lo induce, già ai suoi esordi come poeta, a imitare i grandi autori dell’antichità (Virgilio, Livio, Seneca). Il rapporto di Petrarca con i classici prefigura, per più di un aspetto, l’età umanistica. • Mentre i contemporanei di Petrarca non avevano ancora riscoperta nella sua integrità autonoma la tradizione classica e vedevano ancora come irraggiungibili i modelli antichi, Petrarca invece coglie già in pieno la “modernità dell’antico” e si riallaccia agli autori del mondo antico per attingere dalle loro pagine verità morali e insegnamenti civili (➜ T1 ).

La crisi della Scolastica I fondamenti della filosofia Scolastica di san Tommaso e in particolare l’interdipendenza tra ragione e fede, tra teologia e filosofia, le stesse complesse categorie metafisiche su cui si strutturava il pensiero scolastico erano messi in discussione nel corso del Trecento da vari pensatori. La più radicale contestazione del rapporto fede-ragione elaborato dal tomismo viene dal francescano Guglielmo di Ockham (1290-1349), docente all’università di Oxford.

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Ockham infrange il legame tra fede e ragione. Esse operano in campi diversi e separati: la ragione ha a che fare con l’osservazione del reale e i dati dell’esperienza, la fede conduce alla conoscenza di Dio per vie del tutto autonome dalla ragione. Una distinzione che liberava la riflessione razionale-scientifica dal controllo della teologia, aprendo la strada alla futura ricerca sperimentale.


• Nel rapportarsi ai classici, Petrarca si dissocia dalle interpretazioni talora defor-

manti che di alcuni di essi (si pensi a Virgilio) aveva fatto il Medioevo, anticipando lo spirito critico e filologico dell’età umanistica. Allestisce lui stesso quella che è considerata la prima edizione critica mettendo a confronto, grazie alle sue competenze linguistiche, più copie delle tre Decadi di Tito Livio, per ricavarne un testo più corretto e presumibilmente vicino all’originale. Petrarca istituisce con i grandi del passato un rapporto di familiarità che sarebbe stato inimmaginabile ai tempi di Dante, in cui vigeva il concetto di auctoritas (➜ SCENARI, PAGG. 9, 27). La testimonianza più eloquente di questo nuovo modo di rapportarsi ai classici sono le lettere del XXIV libro delle Familiares, che Petrarca scrive ai grandi dell’antichità: in queste lo scrittore si rivolge a essi come se fossero suoi interlocutori (➜ T1a OL), addirittura degli amici con cui intrattenere un rapporto alla pari. In questo ideale colloquio con i classici si può scorgere il preludio di quello stretto rapporto con gli antichi scrittori latini che caratterizzerà l’Umanesimo-Rinascimento. Un Umanesimo cristiano Petrarca non vive il suo amore per i classici come conflittuale con la cultura cristiana, ma tenta di operare una sintesi fra tradizione classica e pensiero cristiano sentendosi erede e portavoce di entrambe: da qui la compresenza nelle sue opere di motivi e modelli classico-pagani e cristiano-medievali. Fondamento di questa conciliazione, per la quale si è parlato per Petrarca di “Umanesimo cristiano”, è innanzitutto l’idea di una sostanziale uguaglianza dell’animo umano nelle diverse epoche storiche, ma soprattutto la convinzione che compito della cultura è insegnare a diventare uomini migliori. Su questa base Petrarca non vede alcuna frattura, ma anzi constata una forte continuità tra pensatori come Platone, Cicerone, Seneca, vissuti in un’età precristiana, e Agostino. La scelta dominante del latino Petrarca può essere definito uno scrittore “bilingue”, nell’accezione più propria del termine: egli utilizza infatti con la stessa naturalezza ed eleganza sia il latino sia il volgare. La maggior parte delle sue opere sono però scritte in latino (usa il volgare soltanto per il Canzoniere e i Trionfi): una scelta che testimonia indubbiamente una concezione elitaria di cultura, espressione di un ceto intellettuale che tende a separarsi dalla cultura dei più. Si tratta di una condizione destinata ad accentuarsi con l’Umanesimo.

I classici dal Medioevo a Petrarca Nel Medioevo…

Per Petrarca...

i classici sono modelli irraggiungibili

i classici sono modelli cui attingere

i classici sono visti come auctoritas

si deve instaurare con i classici un rapporto di “familiarità”: ci si pone alla pari con essi

i testi classici sono soggetti a interpretazioni allegoriche e fuorvianti

i testi classici sono letti con senso della prospettiva storica

Ritratto d’autore

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Petrarca, peraltro, si serviva del latino addirittura come lingua della comunicazione quotidiana (lo testimoniano le note e le postille al Canzoniere, scritte appunto in latino). È probabile – è stato osservato – che Petrarca in latino addirittura pensasse. Occorre precisare che il latino di Petrarca non è più quello medievale della filosofia Scolastica, irto di tecnicismi, né d’altra parte quello infarcito di volgarismi delle cronache e dei documenti di carattere pratico. Petrarca intendeva infatti ripristinare la dignità del latino classico. Crea così un “suo” latino, modellato su Cicerone per quanto riguarda la prosa, soprattutto nelle Epistole, mentre i suoi versi riecheggiano il ritmo armonioso degli esametri virgiliani. Petrarca uomo delle contraddizioni Già i contemporanei di Petrarca avevano rilevato la presenza nel poeta di opposti richiami esistenziali e di pensiero. Un’oscillazione che fu sintetizzata nel secolo XIX dalla celebre definizione di Francesco De Sanctis, grande critico di età romantica, che inquadrò la personalità di Petrarca nell’ambito di un dissidio «tra terra e cielo». L’opera e la figura di Petrarca sono effettivamente segnate da elementi di conflittualità e da un’insoddisfazione interiore che l’autore non solo non nasconde ma addirittura esibisce, presentando se stesso ai lettori come uomo irrisolto e non come autorevole modello di vita. Un momento di transizione Le indubbie contraddizioni che percorrono la vita e le opere di Petrarca e che interessano anche il suo ruolo come intellettuale non sono solo espressione di un dramma individuale, ma appaiono in rapporto a un momento storico di crisi e di transizione negli scenari storico-sociali, valoriali e culturali. Petrarca interpreta e amplifica, per la sua acuta sensibilità, il contrasto tra due grandi modelli culturali: da un lato la visione del mondo medievale, giunta ormai al crepuscolo, incentrata sul trascendente e sulla svalutazione della dimensione terrena, dall’altro l’incipiente civiltà umanistico-rinascimentale, caratterizzata dalla rivalutazione della sfera terrena e dall’autonomia della cultura e della ricerca intellettuale rispetto ai valori religiosi.

Due visioni del mondo a confronto Visione tardo-medievale

Visione preumanistica

aspirazione profonda all’unità e alla coerenza

consapevolezza e quasi compiacimento delle proprie contraddizioni

desiderio di ascesi e tensione religiosa

fascino della bellezza e della sensualità

desiderio di gloria e aspirazione al successo letterario

consapevolezza della precarietà e transitorietà di ogni cosa umana

attrazione per la dimensione del viaggio e la vita pubblica nel ruolo dell’intellettuale

amore per la solitudine e il raccoglimento

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T1

Petrarca e i classici Moltissimi sono, nelle opere di Petrarca, e soprattutto nell’epistolario, i riferimenti al modo nuovo in cui lo scrittore leggeva gli amati classici. Abbiamo scelto due brevi passi.

online T1a Francesco Petrarca La lettura dei classici come occasione di meditazione Lettere familiari, XXIV, 1

Due testi polemici

Per testimoniare la visione petrarchesca della filosofia e della cultura sono molto significativi due testi polemici nei quali T1b Francesco Petrarca lo scrittore enuncia in modo particolarmente vibrante le proI classici come interlocutori viventi prie idee al proposito: le Invective contra medicum quendam Lettere familiari, I, 1 (Invettive contro un medico) e il De sui ipsius et multorum ignorantia (Dell’ignoranza propria e di molti). L’occasione delle Invective contra medicum quendam (1352-1355) fu offerta dal contrasto con un eminente medico, che si era offeso per le critiche di Petrarca nei confronti delle sterili dispute dei medici che curavano, in pieno disaccordo tra loro, papa Clemente VI. Petrarca accusa di ciarlataneria e di ignoranza coloro che esercitano professioni da cui traggono guadagno, come la medicina, ostenta disprezzo per il sapere tecnico-scientifico, a cui contrappone la disinteressata nobiltà della poesia e la funzione civile delle lettere, collocate ai vertici delle gerarchie del sapere, come sarà poi consueto per gli umanisti. Per Petrarca l’intellettuale coincide online essenzialmente con il letterato, cui egli affida una missione T2 Francesco Petrarca civilizzatrice tra gli uomini. La lettura di Aristotele serve forse a renderci Il trattatello De sui ipsius et multorum ignorantia (1367-1370) più colti, ma non migliori Sull’ignoranza sua e di molti è polemicamente rivolto contro quattro filosofi averroisti che avevano accusato lo scrittore di ignoranza. Al dogmatico sapere aristotelico Petrarca contrappone la superiorità della online filosofia morale, che ha come obiettivo la conoscenza del T3 Francesco Petrarca Contro la cultura enciclopedica proprio “io” interiore e il raggiungimento della virtù attraverso Sull’ignoranza sua e di molti un faticoso percorso di perfezionamento etico.

Francesco Petrarca nello studium, particolare, affresco anonimo, 1385 ca. (Padova, Reggia Carrarese, Sala dei Giganti).

Ritratto d’autore

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Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico di Petrarca alla ricerca 1 L’itinerario della propria identità di scrittore L’interesse per la dimensione storico-erudita Petrarca esordì come autore di rime in volgare, scritte in varie occasioni e del tutto sciolte l’una dall’altra. Nei primi anni della sua produzione egli era però anche attratto dal modello del grande “autore” della tradizione classica, che compone opere su grandi temi e illustri personaggi nella lingua della letteratura “alta”, cioè in latino. Era da queste ultime che lo scrittore si attendeva la gloria e la fama presso i posteri, e in particolare dall’Africa, un grande poema sulla guerra punica (➜ PAG. 315). Quasi tutte le opere di Petrarca sono in latino: sono scritti in volgare i Trionfi, un poema allegorico incompiuto, e il Canzoniere, suo capolavoro e una delle opere più importanti della letteratura italiana. La crisi spirituale e il mutamento di vita: mito o realtà? Nel Secretum, una sorta di “libro-confessione”, oltre che in alcune lettere, Petrarca ricostruisce a posteriori una crisi spirituale e una vera e propria svolta (la chiama mutatio vitae) che l’avrebbe colto quando aveva circa quarant’anni (1344), destinata a trasformare radicalmente il suo modo di essere e le sue scelte letterarie. La critica dava un tempo ampio credito all’idea di un vero e proprio spartiacque nella vita e nella produzione di Petrarca. La crisi sarebbe stata motivata dal concorrere di eventi biografici assai rilevanti per lo scrittore, collocati nel 1343: da un lato la nascita a Valchiusa di una figlia illegittima, Francesca, che appariva al poeta testimonianza palese della sua sensualità; dall’altro, nello stesso anno, la monacazione dell’amato fratello Gherardo, che col suo esempio indicava la strada opposta dell’ascesi.

online

Per approfondire Una data simbolica per una svolta paradigmatica

La scelta di una “letteratura dell’interiorità” Se di svolta si può parlare – almeno sul piano delle scelte letterarie – essa avviene in realtà negli anni tra il 1348 e il 1353, dopo il tragico evento della peste, nello stesso periodo in cui, secondo gli ultimi studi critici, Petrarca scrive il Secretum, dialogo tra Francesco (l’autore stesso) e sant’Agostino, motivato dalla ricerca da parte di Petrarca della propria strada di uomo, ma soprattutto di scrittore. Nella finzione letteraria è proprio Agostino a indicarla a Francesco: «Che ti giova cantare dolcemente per gli altri, se non odi te stesso?... […] Deponi i gravi pesi della storia: le gesta romane sono state illustrate a sufficienza [...]. Abbandona l’Africa e lasciala ai suoi possessori [...]. Lasciate dunque queste opere, restituisci finalmente te a te stesso». Alla luce di questa presa di coscienza, guidata dal pensiero di Agostino, Petrarca rinuncerà definitivamente a perseguire la gloria attraverso le grandi opere storiche e erudite; il suo interesse si orienterà invece definitivamente verso una produzione letteraria incentrata sull’esplorazione della propria interiorità e sui grandi temi morali ed esistenziali.

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«Raccogliere i frammenti dell’anima»: il progetto autobiografico Il mutamento non comporta solo un sostanziale spostamento di interesse (dalla storia e dall’eloquenza alla meditazione interiore), ma si traduce soprattutto nell’esigenza di conferire ordine e unitarietà a una produzione rimasta fino ad allora sparsa e slegata. Come Francesco stesso confessa ad Agostino nel Secretum, a un certo punto della sua vita Petrarca sente il bisogno di «raccogliere i frammenti dell’anima», mettendo contemporaneamente ordine nella sua produzione e nel suo spirito: si profila così un nuovo percorso etico ed esistenziale e insieme un nuovo impegno letterario. Intorno al 1350, dopo la morte di Laura (1348), evento chiave nella biografia umana e letteraria di Petrarca, le lettere precedentemente scritte e le composizioni poetiche sparse, già note al pubblico, diventano oggetto di un progetto compositivo unitario: Petrarca ricompone i suoi componimenti sparsi, frutto di momenti staccati e diversi della vita dell’io, in un libro che costituisca nel suo insieme un autoritratto da consegnare ai posteri, in cui sia registrata la sua storia personale.

2 Una multiforme produzione: il Petrarca latino I due filoni principali della produzione Nella vasta produzione in latino di Petrarca si possono individuare due filoni (ai quali si aggiungono le opere di carattere polemico di cui già si è parlato): le opere di ispirazione storico-erudita che anticipano il gusto umanistico e la cui ideazione appartiene per lo più al periodo giovanile, e le opere di ispirazione morale-religiosa. Trattiamo a parte il Secretum e le Epistole, data l’importanza che queste opere rivestono per la ricostruzione della personalità umana e artistica di Petrarca.

Opere di ispirazione storico-erudita Africa Poema epico in 9 libri, composto in esametri e dedicato a Roberto d’Angiò, che proprio per quest’opera lo incoronò poeta in Campidoglio. Del resto, proprio dall’Africa Petrarca si aspettava la fama, ma il poema, iniziato tra il 1338 e il 1339, rimase incompiuto. L’argomento è costituito dalla seconda guerra punica, vista come la lotta tra l’humanitas romana e la barbarie cartaginese. Per il poema Petrarca utilizza come modello poetico Virgilio e come fonte storica Tito Livio, due tra gli autori più amati sia dal Medioevo sia dall’incipiente umanesimo. Interessante è la presenza nell’opera di temi cari a Petrarca lirico volgare, come l’amore infelice (episodio di Sofonisba e di Massinissa) e la caducità della vita umana e delle cose (lamento di Magone morente). De viris illustribus (Gli uomini illustri) Quest’opera in prosa fu composta in diverse fasi (avviata nel 1338-1343, fu ripresa tra il 1351 e il 1353) e ampliata notevolmente nel tempo. Contiene soprattutto le vite di illustri personaggi romani, con l’aggiunta di alcuni personaggi biblici e mitologici. Nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto abbracciare l’intera storia dell’umanità, ma il progetto non ebbe compimento. Il modello di riferimento è in questo caso il latino Svetonio, autore delle Vite. L’intento, comune a tutto il gruppo delle opere storico-erudite, è quello di esaltare la grandezza del mondo classico, i cui grandi uomini potranno servire da esempio ai contemporanei del poeta. Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico 2 315


Rerum memorandarum (I fatti memorabili) In 4 libri, composti tra il 1343 e il 1345, è un’opera incompiuta di intento storico-morale: si tratta di una raccolta di aneddoti ed esempi attinti dalla storia e dalle opere letterarie latine. Il modello è ancora una volta un autore classico: i Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo (I sec. d.C.). Bucolicum carmen (Carme bucolico) È un’opera più tarda rispetto alle precedenti. Costituito da 12 ecloghe composte tra il 1346 e il 1357, ha come modello il Virgilio delle Bucoliche, anche nelle frequenti allusioni a eventi contemporanei: come i pastori virgiliani, anche i pastori delle ecloghe petrarchesche alludono a personaggi reali, contemporanei del poeta.

Opere di ispirazione morale-religiosa Le opere di questa tipologia, sicuramente di maggior interesse per il lettore di oggi, traggono ispirazione dalla meditazione religiosa ed etica di Petrarca, condotta attraverso le letture dei filosofi classici e dei testi cristiani; sono in varia misura riconducibili alla tematica psicologico-esistenziale centrale nell’opera e nella figura intellettuale del poeta. De vita solitaria (La vita nella solitudine) In quest’opera, composta tra il 1346 e il 1356, lo scrittore delinea un ideale di vita solitaria intesa come evasione dagli affanni e dalle preoccupazioni della vita sociale e come otium letterario. Le suggestioni dei classici sono evidenti nella ricerca dello scenario opportuno alla meditazione solitaria, il locus amoenus, e nell’esaltazione dello studio, quale premessa indispensabile per la conoscenza di sé a cui Petrarca aspira: «La solitudine senza cultura è certo un esilio, un carcere, una tortura. Aggiungivi la cultura: diventa la patria, la libertà, il godimento». De otio religioso (La tranquilla esistenza dei religiosi o La quiete della vita religiosa) Scritto dopo una visita al fratello Gherardo da pochissimo divenuto monaco a Montreaux, costituisce come l’opera precedente un’esaltazione della vita contemplativa e solitaria, in questo caso legata alla vita monacale. De remediis utriusque fortunae (I rimedi alla buona e alla cattiva sorte) Serie di dialoghi tra figure allegoriche (come Ragione e Speranza), composti tra il 1354 e il 1360, in cui, dietro il modello di Cicerone, Seneca e Boezio, si individuano i rimedi contro gli eccessi sia della gioia sia del dolore. La figura del sapiens, il saggio stoico, che sa reagire con equilibrio alle mosse della fortuna, costituì un punto di riferimento per gli umanisti.

Arnold Böcklin, Petrarca a Fontaine-de-Vaucluse, 1863-1864 (Lipsia, Museo delle Belle Arti).

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3 Il Secretum, il libro dei conflitti L’opera e la data di composizione Il dialogo in tre libri noto come Secretum, ma intitolato secondo il manoscritto più autorevole De secreto conflictu curarum mearum (Del segreto conflitto dei miei affanni), registra quella crisi interiore il cui esito furono le scelte letterarie di cui sopra si è parlato e costituisce per certi versi una sorta di autocommento al Canzoniere stesso. Petrarca afferma di avere scritto l’opera sedici anni dopo aver conosciuto Laura, ossia tra l’aprile del 1342 e l’aprile del 1343. In realtà da molti indizi e rimandi sappiamo oggi che il Secretum fu scritto parecchio tempo dopo, probabilmente a tappe, tra il 1347 e il 1353. La struttura e i modelli Nel Proemio dell’opera è introdotta una visione: a Francesco appare una donna di grande bellezza. Insieme a lei avanza un uomo di nobile e venerabile aspetto, sant’Agostino. La donna, che si rivela essere la Verità, prega il santo di intervenire per salvare Francesco, spiritualmente turbato e confuso (una situazione che richiama evidentemente la richiesta di aiuto rivolta da Beatrice a Virgilio nella Commedia). La Verità assisterà senza intervenire al loro colloquio: esso si svolge in tre giornate, a cui corrispondono i tre libri che costituiscono l’opera. L’opera è strutturata nella forma di un dialogo che oppone direttamente, in un certo modo “dal vivo”, le parole di due personaggi: Francesco, che rappresenta il poeta stesso, e Agostino appunto, il grande pensatore cristiano che Petrarca considerava uno dei suoi maestri spirituali. Petrarca sceglie la forma del dialogo non solo per suggestione dei modelli classici, ma anche, e soprattutto, perché la considerava adatta a “sceneggiare” il tema che gli stava a cuore, ovvero la sua irrisolta “duplicità”. La fonte principale è senz’altro Cicerone, che a sua volta si rifà a Platone ma, come sempre nelle opere petrarchesche, l’apporto classico coesiste e si armonizza con quello degli scrittori cristiani, in particolare coi Soliloquia di sant’Agostino e col De consolatione philosophiae di Severino Boezio. I contenuti Nel primo libro Agostino e Francesco discutono della «volontà inferma» del poeta che confonde il non volere con il non potere; nel secondo libro si attua un vero e proprio esame di coscienza di Francesco che, guidato da Agostino, passa in rassegna a uno a uno i peccati capitali esaminando il proprio comportamento al riguardo: egli appare quasi immune dalla gola, dall’invidia e dall’ira, mentre particolarmente pericolosi per lui sono la lussuria, la superbia e, ancor più, l’accidia, ovvero quell’indolenza e quella fragilità della volontà non priva di una sorta di autocompiacimento che impedisce a Francesco di intraprendere un retto cammino; nel terzo libro, infine, si analizzano le due grandi passioni del poeta, l’amore e l’attrazione per la gloria (➜ T5b OL). Attratto da queste due forze centrifughe, Francesco, secondo l’accusa di Agostino, non ha la forza di rivolgersi pacificato a Dio. Il serrato confronto tra i due interlocutori si chiude senza una vera e propria risoluzione: alla presa di coscienza delle sue manchevolezze non si accompagna infatti in Francesco una conseguente, ferma, volontà di cambiare la sua vita.

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Gli “attori” del dialogo: Francesco e Agostino Il protagonista, Francesco, rappresenta l’autore in un particolare momento della sua vita e del suo cammino. Quanto al sant’Agostino del Petrarca, pur avendo tutte le caratteristiche del pensiero del grande autore cristiano, è un personaggio della sua fantasia (del resto lo stesso poeta, in una lettera a Giacomo Colonna, parla di «simulatus ille Augustinus», “quell’Agostino fittizio”). Nel Secretum Agostino assume il ruolo di un maestro che veglia amorosamente sul peccatore Francesco per salvarlo (si intravede in questa ideazione la suggestione dantesca del rapporto Dante-Virgilio nella Commedia) e lo sottopone a una vera e propria “inquisizione”, secondo lo schema del sacramento della “confessione”. Un gioco di specchi: Agostino “doppio” di Francesco Francesco vede però in Agostino non solo il grande maestro di sapienza e di moralità, ma anche l’uomo che in passato ha conosciuto tentazioni, cedimenti e pentimenti, proprio come accade anche a lui. In questo senso Agostino è al contempo un doppio di Francesco e il modello ideale a cui guardare: se Agostino è stato un tempo ciò che tuttora è Francesco, quest’ultimo a sua volta può e deve diventare ciò che Agostino è diventato. Un libro “segreto”? Il Secretum riprende la struttura del sacramento della confessione, con il quale dovrebbe condividere anche la necessità della segretezza. In effetti Petrarca stesso si rivolge al suo libro definendolo «il mio segreto», un’opera che avrebbe dovuto evitare «i ritrovi degli uomini» e rimanere esclusivamente con il suo autore. Secondo tale dichiarazione, il libro non sarebbe stato scritto per essere diffuso, e in effetti non fu pubblicato durante la vita di Petrarca (anche se ne circolava notizia). D’altra parte è difficile pensare che il Secretum fosse davvero stato scritto solo per l’autore stesso; Petrarca pensava probabilmente a un pubblico di lettori futuri, come suggerisce il critico Marco Santagata.

Sant’Agostino legge le epistole dell’apostolo Paolo, in un particolare delle Storie di sant’Agostino di Benozzo Gozzoli, 1465 (San Gimignano, chiesa di Sant’Agostino).

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Francesco Petrarca

LEGGERE LE EMOZIONI

L’accidia, il male dell’uomo moderno

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Secretum II, 13 F. Petrarca, Secretum, trad. e a cura di U. Dotti, Archivio Guido Izzi, Roma 1993

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Nell’esame di coscienza di Francesco, guidato da Agostino secondo la ricognizione dei sette peccati capitali, il peccato forse più grave appare quello dell’accidia: già presente nella casistica dei peccati ritratta nella Commedia, nella riflessione del Secretum l’accidia diventa sinonimo del conflitto interiore paralizzante del poeta, e forse quasi sinonimo della malattia interiore dell’uomo moderno.

A. Ti possiede un morbo pestifero: i moderni lo chiamano «accidia»1, gli antichi2 «egritudo»3. F. Il suo solo nome mi fa inorridire. A. Naturalmente, ché ne sei stato afflitto a lungo e in modo assai grave. F. Lo ammetto, e bisogna aggiungere che mentre negli altri mali dei quali soffro c’è pure qualcosa di dolce, anche se falso, in questo tormento tutto è aspro, amaro e spaventoso4; la via della disperazione è sempre aperta e tutto non fa che spingere verso la morte le anime colpite da tale sventura. E non basta: delle altre passioni soffro attacchi frequenti, ma brevi e passeggeri; questa peste, invece, mi assale talora con tale forza che mi tiene avvinto ad essa e mi tormenta per giorni e notti; e la mia giornata, allora, non ha più né luce né vita e diviene del tutto simile a una notte infernale e a una morte crudelissima. E – cosa che può ben dirsi il colmo delle miserie – mi pasco5 talmente di lacrime e di dolore, e con una voluttà così funesta6, che me ne stacco poi a malincuore. A. Conosci perfettamente il tuo male; ora ne conoscerai la ragione. Avanti, dimmi: cos’è che ti contrista7 tanto? La fuga delle cose mondane? dolori fisici? oppure qualche ingiuria del destino troppo avverso? F. Una sola di queste ragioni non avrebbe forza sufficiente. Se dovessi combattere con questi mali ad uno ad uno, risulterei vittorioso. Il fatto è che son travolto da un intero esercito. A. Precisa con maggior esattezza ciò che ti opprime. F. Ogni volta che il destino m’infligge una ferita, resisto impavidamente8, ricordandomi come spesso, per quanto colpito gravemente, io sia riuscito a uscirne vincitore. Quando poi esso raddoppia i suoi colpi, comincio a vacillare un poco; e se al secondo ne succede un terzo od un altro, allora mi vedo costretto a ritirarmi nella rocca della ragione, non già però in fuga precipitosa, ma con ordine. Se però la fortuna mi viene addosso circondandomi con tutte le sue schiere, e per espugnarmi ammassa tutte le miserie della condizione umana, e cioè la memoria degli affanni passati con la paura di quelli che dovranno venire, allora finalmente9, assalito da ogni lato e atterrito da tanta congerie10 di sciagure, levo alti i lamenti. Il mio grave dolore nasce di qui. Mi trovo infatti nelle condizioni di colui che sia chiuso da ogni parte da un numero enorme di nemici, senza possibilità di scampo, senza speranza di misericordia, senza

1 «accidia»: stato d’animo caratterizzato da inerzia spirituale e perenne insoddisfazione. 2 gli antichi: gli scrittori latini.

3 «egritudo»: è il lat. aegritudo “infermità fisica”, ma anche, “malessere spirituale, sofferenza”. 4 aspro, amaro e spaventoso: gli aggettivi sono disposti in climax. 5 mi pasco: mi nutro.

6 una voluttà così funesta: un senso di piacere così angoscioso. 7 contrista: affligge, opprime. 8 impavidamente: con coraggio. 9 finalmente: alla fine. 10 congerie: massa.

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conforto. Tutto gli è ostile: le macchine da guerra sono già drizzate; sotto terra sono già stati scavati i cunicoli; già tremano le torri; già le scale sono state appoggiate ai bastioni; i ponti sono già stati agganciati alle mura e il fuoco avanza sugli assiti11. Dovunque le spade balenano, dovunque il volto dei nemici minaccia. Scorgendo tutto questo e vedendosi davanti agli occhi la morte ormai vicina, non si dovrà dunque avere paura? E non si dovrà piangere quando, anche senza tutti questi pericoli, la sola perdita della libertà rappresenta, per gli uomini forti, un grave dolore? A. Per quanto abbia esposto i tuoi affanni in modo abbastanza confuso, tuttavia riesco a comprendere che la ragione di tutti i tuoi mali è una impressione sbagliata, un’idea che ha già prostrato e prostrerà molte altre persone. Tu pensi di star male? F. Malissimo. A. Per quale ragione? F. Certamente non per una sola: sono infinite. A. Fai come coloro che, quando subiscono un’offesa anche lieve, subito si ricordano degli antichi affronti. F. Non c’è in me ferita così antica da poter essere stata cancellata dall’oblio: tutte quelle che mi tormentano sono recenti. E se pure il tempo ne avesse sanato qualcuna, la fortuna è tornata così spesso a colpirmi nello stesso punto che non c’è cicatrice che sia valsa a rimarginare la piaga aperta. Mettici12 l’odio e il disprezzo della condizione umana: son così tante le ragioni dalle quali mi sento oppresso che non posso che essere come sono: tristissimo. Chiama la mia malattia come vuoi, accidia, «egritudo» o come altro ti pare: non ha importanza. Sulla sostanza siamo d’accordo. A. Giacché vedo che il male ti si è abbarbicato addosso con radici profonde, non basterà reciderlo in superficie: rinascerebbe immediatamente. Bisogna strapparlo alle radici. Solo che sono incerto da dove cominciare, tante sono le cose che mi rendono perplesso. Facilitiamo allora l’esito del lavoro col suddividerlo per argomenti. Dimmi dunque: quale ti sembra la cosa più fastidiosa? F. Tutto quello che immediatamente vedo, che ascolto o che sento. A. Diamine! Non ti piace nulla di nulla? F. Nulla o quasi nulla. A. Mi auguro che ti piaccia almeno ciò che è salutare! Rispondimi allora: cosa ti dispiace più di tutto? F. Ti ho già risposto. A. Sono tratti caratteristici di ciò che ho definito accidia: nulla che tu abbia ti appaga.

11 sugli assiti: sulle palizzate.

12 Mettici: aggiungici.

Analisi del testo Una autoanalisi moderna nel nome dell’“accidia” Il passo proposto è certamente tra i più suggestivi e moderni del Secretum. Rivela infatti una notevole capacità di diagnosi e analisi delle dinamiche psicologiche in tempi in cui non esisteva ancora la psicoanalisi e non era certo diffusa come oggi la lettura del disagio interiore e dei comportamenti più in generale. L’efficacia dell’analisi è anche dovuta all’ideazione, che sta alla base del Secretum, dei due interlocutori, Francesco e Agostino, di fatto uno sdoppiamento dell’autore in due voci, l’una delle quali in genere accusatoria, l’altra autodifensiva. In questo caso però Agostino non assume tanto il ruolo di accusatore, ma piuttosto, con le sue incalzanti domande e continui inviti di chiarimenti e precisazioni, quello di “facilitatore” dell’autoanalisi di Francesco-Petrarca. Un’autoanalisi che, ben più che i riferimenti all’amore per Laura (➜ T5a ) o all’attaccamento alla fama e alla gloria (➜ T5b OL), mette a fuoco il vero

320 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


nodo della personalità di Petrarca: appunto l’accidia, una condizione psicologica che è difficile superare, sia per la sua complessità, sia per la tendenza, a cui Francesco allude nel passo, a una sorta di identificazione in essa, a uno sterile compiacimento della propria condizione: «…mi pasco talmente di lacrime e di dolore, e con una voluttà così funesta, che me ne stacco poi a malincuore».

Dall’accidia medievale al malessere esistenziale Al tempo di Petrarca l’accidia era ancora uno dei peccati capitali. Nel VII canto dell’Inferno Dante colloca gli accidiosi nello stesso girone degli iracondi: sospirano, sommersi nel fango della palude Stigia. Più che all’ottica medievale, che implica un severo giudizio morale e considera l’accidia una colpa, Petrarca si ricollega però al mondo classico in cui era usato il termine aegritudo che già allude a una sorta di malattia interiore: un’accezione dell’accidia che Petrarca fa sua e approfondisce, facendo dell’accidia una manifestazione del male di vivere, del tedio esistenziale che paralizza la volontà. L’accidia è insieme il frutto di una somma insostenibile di mali, di esperienze dolorose, ma è anche, e forse soprattutto, la conseguenza di una visione amara, fortemente pessimistica, che dell’esistenza coglie soltanto la labilità e la miseria della condizione umana. Una visione che deriva, secondo Agostino, da “un’impressione sbagliata”, oggi diremmo da una percezione distorta del reale che finisce per amplificare eccessivamente gli aspetti negativi e crea una paralisi della volontà.

Lo stile Come gli altri testi del Secretum, il passo si articola su un dialogo serrato tra i due interlocutori. Si può notare che in questo caso lo spazio maggiore è occupato dalle riflessioni di Francesco, impegnato ad analizzare la sua condizione. Nelle sue parole spiccano per la loro frequenza e incisività le immagini metaforiche tratte dal campo semantico della guerra, con una grande densità di termini militari, anche molto specifici, che rimandano all’idea che domina nel passo, dell’aggressione da parte di forze ostili che forse provengono dall’io del poeta stesso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Dividi il brano in sequenze dando a ognuna di esse un titolo; poi organizza i contenuti in una sintesi (max 10 righe). ANALISI 2. Individua nel testo le caratteristiche salienti dell’accidia quale risulta dall’analisi di Petrarca. natura dell’accidia: ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� origine dell’accidia: ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������ effetti dell’accidia: �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� LESSICO 3. Analizza il lessico e rintraccia nel testo i termini che appartengono al campo semantico della guerra. STILE 4. Nel testo si fa largo uso di immagini metaforiche: individua le principali, indica il campo metaforico a cui afferiscono e cerca di spiegarne la funzione in rapporto al contenuto del testo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Nella Commedia gli accidiosi sono severamente giudicati da Dante, che assegna loro una pena squallida, che traduce il sostanziale disprezzo dello scrittore per questa categoria di peccatori. Leggi (o rileggi) il passo del canto VII dell’Inferno che riguarda gli accidiosi (vv. 115-126): commenta la definizione che ne dà Dante e metti a confronto la visione dantesca dell’accidia con quella petrarchesca. Quali differenze noti? Come le spieghi?

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 6. In questo passo Petrarca racconta ad Agostino il suo male interiore: l’accidia. Ti è mai capitato di trovarti nella condizione descritta da Petrarca? Come hai reagito? Ti sei fatto sopraffare o hai trovato il modo di uscire da una condizione che penalizza anche la volontà?

Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico 2 321


I due ostacoli al perfezionamento morale di Francesco

T5

Nel III libro del Secretum, l’esame di coscienza a cui Agostino induce (e talvolta quasi costringe) Francesco si concentra su due grandi temi, centrali nella vita e nell’immaginario poetico di Petrarca: l’amore per Laura e l’amore per la gloria. I due passi che presentiamo si riferiscono rispettivamente al primo e al secondo tema e contengono spunti essenziali per comprendere le tematiche dello stesso Canzoniere.

Francesco Petrarca

T5a

L’amore per Laura Secretum III, 5

F. Petrarca, Secretum, trad. e a cura di U. Dotti, Archivio Guido Izzi, Roma 1993

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Nelle pagine precedenti al passo, Petrarca-Francesco ha appena sostenuto che nel suo amore per Laura non vi fu nulla di turpe e di colpevole, perché egli fu attratto dallo spirito di Laura, dalle sue qualità interiori e non dal suo corpo, dalla sua bellezza fisica. Inesorabile è la contestazione di Agostino (che arriva a parlare di Laura come di una muliercula, una “donnetta”, trasformata in dea, in santa dall’esaltazione di Francesco) alle sempre più deboli argomentazioni di Francesco. Se quest’ultimo sostiene di essersi potuto elevare, di essersi distinto dal volgo grazie a Laura, Agostino ribatte che anzi avrebbe potuto diventare un grand’uomo se non fosse stato attratto da lei.

A. [... È] proprio costei che tu celebri e cui dici di dover tutto, colei che ti condusse alla rovina. F. Buon Dio, e come potrai persuadermene? A. Ella ha allontanato il tuo animo dall’amore delle cose celesti e dal Creatore l’ha rivolto al desiderio della creatura: e questa, e solo questa, è sempre stata la via più rapida alla morte1. F. Non dare un giudizio precipitoso, ti prego: l’amore per lei mi ha indubbiamente consentito di amare Iddio. A. Ma ha invertito l’ordine. F. Cioè? A. Mentre ogni creatura deve essere amata per amore del Creatore, tu invece, preso dal fascino della creatura, hai amato il Creatore non come si conviene, ma ammirandone soltanto il suo artefice2, quasi non avesse creato nulla di più bello. E sì che la bellezza corporea è l’ultima delle bellezze. F. Chiamo a testimonio questa che è qui presente3 – e con lei la mia coscienza – che, come ho già detto prima, non ho amato il suo corpo più della sua anima. E te ne potrai convincere da questo: via via che ella è andata avanti negli anni – irreparabile colpo per la sua bellezza fisica –, ancor più saldo io sono divenuto nel mio primo pensiero. Sebbene infatti col trascorrere del tempo il fiore della sua giovinezza declinasse visibilmente, cresceva con gli anni lo splendore dell’animo; e ciò mi diede appunto la forza per perseverare nel mio amore come mi aveva dato la prima spinta ad amare. Se mi fossi invece smarrito dietro il suo corpo, chissà da quanto tempo avrei dovuto mutare proposito.

1 morte: si intende la morte dell’anima, la caduta nell’abiezione morale.

2 ammirandone soltanto il suo artefice: ammirando in Dio solo l’artefice (il creatore) di Laura.

322 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca

3 questa… presente: si tratta della Verità, che assiste al colloquio tra Francesco e Agostino.


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A. Ti fai beffe di me? Se quell’animo avesse abitato in un corpo rugoso e avvizzito, ti sarebbe forse egualmente piaciuto? F. Non oso dirlo; l’animo infatti non può essere veduto, né l’aspetto esteriore me ne poteva promettere uno tanto bello; ma se lo si fosse potuto scorgere con lo sguardo, avrei sicuramente amato la sua bellezza anche se posta in una sede deforme. A. Cerchi di reggerti sulle parole; se non puoi amare se non ciò che si vede, non c’è dubbio che abbia amato un corpo. Non ch’io neghi con questo che anche il suo animo e i suoi costumi abbiano porto esca alle tue fiamme, dato che, come tra poco dovrò dirti, persino il suo nome ha non poco contribuito ai tuoi deliri. Come in tutte le passioni del resto, anche e soprattutto in questa accade che da pochissime scintille insorgano vasti incendi. F. Vedo a che mi costringi: a confessare con Ovidio che «ho amato l’animo insieme al corpo4». A. E bisognerà che confessi anche quest’altra colpa: che non li hai amati, entrambi, con la moderazione e la misura convenienti. F. Mi dovrai porre ai tormenti prima di costringermi ad ammetterlo. A. E non basta: che a causa di quest’amore sei caduto in gravi disgrazie. F. Mai, neppure se mi metti alla tortura.

4 ho amato l’animo insieme al corpo: citazione dagli Amores (X, 13) di Ovidio, celebre poeta latino d’età augustea.

Analisi del testo Due diverse interpretazioni dell’amore Nel breve passo lo sdoppiamento Agostino-Francesco che regge l’intera struttura del Secretum è funzionale a “sceneggiare” due diverse concezioni dell’amore, tra di loro inconciliabili: in Agostino, o meglio nell’Agostino petrarchesco, parla una concezione rigorosamente cristiana, che condanna di fatto l’attaccamento a ogni forma di amore terreno, ancor più quello che considera falsamente spiritualizzato e di cui impietosamente svela il carattere di alibi. Nell’autodifesa di Francesco, anche se debole e non priva di contraddizioni, si esprime invece la visione ereditata dallo stilnovismo, che tenta di fare della donna un tramite verso il divino («Tenne d’angel sembianza / [...] non me fu fallo, s’in lei posi amanza» scriveva Guinizzelli in Al cor gentil rempaira sempre amore, vv. 58 e 60). Se Dante aveva risolto il dilemma della conciliazione tra amore profano e dimensione religiosa fin dalla Vita nuova e ancor più nella Commedia, in Petrarca – alle soglie ormai di una nuova età – il conflitto si ripropone in toni drammatici. La parte accusatoria della coscienza (Agostino) mostra di prevalere, qui come in tanti altri punti del Secretum, sulla parte difensiva (Francesco); le argomentazioni della prima sono più stringenti e convincenti di quelle della seconda. Attraverso lo schema efficace dell’“autoprocesso”, Petrarca vuole dunque dirci di essere pienamente consapevole di non essere riuscito a fare di Laura la “sua” Beatrice, ma al contempo sa che proprio in questo sta la sua modernità rispetto allo schiacciante modello del suo illustre predecessore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale significato riveste la scelta di Agostino come interlocutore nel dialogo? ANALISI 2. Completa una tabella come questa schematizzando le argomentazioni accusatorie di Agostino e quelle usate da Francesco per difendersi. accuse di Agostino

tentativi di difesa di Francesco

Infine sintetizza le argomentazioni in un breve testo (max 15 righe) che risponda ai seguenti quesiti.

Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico 2 323


a. Quali argomentazioni prevalgono? Perché? b. Quali rispettive concezioni dell’amore sono rappresentate e sostenute dai due protagonisti del dialogo? A quali tradizioni dell’amore si richiamano? c. Quali accorgimenti retorici utilizza Petrarca per esaltare la drammaticità del conflitto tra Agostino e Francesco?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. Spiega con opportuni riferimenti al testo perché Petrarca scelga di adottare nel Secretum la forma del dialogo per rappresentare il proprio dissidio interiore.

online T5b Francesco Petrarca L’ambizione e l’eccessiva attrazione per la gloria Secretum III, 14

4 L’epistolario: un ritratto di sé da consegnare ai posteri Rileggere la vita Fin dagli anni giovanili Petrarca cominciò a scrivere lettere e continuò a farlo per tutta la vita, in rapporto alla fitta rete di relazioni e di amicizie che sempre coltivò. L’epistolario di Petrarca è dunque vastissimo: è costituito infatti di circa 500 lettere, ma molte altre furono distrutte dallo scrittore, a quanto egli stesso asserisce. Dopo la scoperta dell’epistolario di Cicerone e la decisiva svolta del 1349-50, Petrarca decide però di raccogliere, ordinandole, le lettere scritte fino a quel momento e di scriverne altre, con l’obiettivo di costruire attraverso di esse un ritratto di sé da consegnare ai posteri: è il ritratto di un intellettuale nuovo, in cui il modello del saggio stoico e cristiano coesiste con le contraddizioni e le inquietudini spirituali proprie dell’uomo moderno. Il ritratto di un’epoca Accostarsi all’epistolario di Petrarca non significa solo avvicinarsi alla sua personalità di uomo e studioso, ma anche ritrovarsi nello scenario storico-culturale, nel costume e nella mentalità di un’intera epoca. Tra gli interlocutori di Petrarca figurano uomini politici come Cola di Rienzo, nobili di rango, e addirittura papi e imperatori. Per il suo ruolo di intellettuale pubblico e consigliere dei potenti, Petrarca è infatti partecipe di tutti gli avvenimenti politici del tempo, e la sue lettere ci consentono così di conoscere da vicino gli ambienti dell’alta politica, come la corte di Avignone (di cui egli svela impietosamente corruzione e intrighi) e di ripercorrere dal vivo i principali eventi storici del tempo, come le guerre sanguinose che opponevano i signori italiani; ma anche di conoscere i luoghi diversi dove i suoi molteplici viaggi lo portavano. Uno dei temi dominanti nelle epistole riguardanti l’ambito politico è costituito dall’amara constatazione della grande crisi dilagata ovunque, sicché non vi è più alcuna città che non mostri, rispetto al passato, segni gravi di decadenza e di impoverimento. I temi “privati” e la riflessione esistenziale Per noi moderni le pagine dell’epistolario più suggestive sono quelle di confessione autobiografica (come la celeberrima lettera, nota come L’ascesa al monte Ventoso ➜ T6 ), quelle che si riferiscono ai rapporti con gli amici, legati a Petrarca da comuni interessi culturali e da quel culto dei classici che preannunciava la cultura umanistica. Quando si parla, per le lettere, di dimensione autobiografica, non si deve però pensare a un resoconto veridico: i dati autobiografici, anche in quelle apparentemente più spontanee, sono sempre ripensati e spesso trasfigurati secondo il modello dei classici (Cicerone innanzitutto e in parte Seneca), oltre che armonizzati dalla raffinatezza dello stile: Petrarca compie una selezione comunque idealizzante, volta a costruire e trasmettere un ritratto esemplare di sé come intellettuale.

324 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


online

Per approfondire Il metodo di allestimento dell’epistolario

online

Interpretazioni critiche Vinicio Pacca «Gestire la propria immagine in prima persona»: la funzione dell’Epistolario

Il corpus delle Epistole L’epistolario è costituito da varie raccolte. • Le Familiares, suddivise in 24 libri per un totale di 350 lettere inviate agli amici, al

fratello Gherardo, a persone variamente legate all’autore; l’ultimo libro contiene lettere, evidentemente fittizie, scritte ai grandi scrittori dell’antichità come Cicerone, Seneca, Quintiliano, Livio, Virgilio e altri. La raccolta si ferma all’anno 1361. • Le Seniles o Senilium rerum libri, 125 lettere suddivise in 17 libri, scritte a partire dal 1361, sempre rivolte per lo più ad amici; la raccolta si chiude con la celebre epistola Posteritati, che non fu però completata. • Le 19 lettere Sine nomine, prive cioè dell’indicazione del destinatario, per il contenuto aspramente polemico contro la curia papale avignonese. • Le Variae, che l’autore non intendeva pubblicare, ma che furono raccolte in seguito dai posteri. A queste vanno aggiunte le 66 Epistulae metricae, scritte in poesia prevalentemente negli anni giovanili. La caducità delle cose umane e il valore salvifico della memoria e della scrittura Nell’epistolario (soprattutto nelle Familiares e ancor più nelle Seniles) si possono ritrovare i grandi temi caratterizzanti l’opera di Petrarca, comuni al Secretum e al Canzoniere, e riconducibili a una nuova ottica letteraria che valorizza la centralità dell’io. Un tema che attraversa come un filo rosso tutto l’epistolario petrarchesco è la consapevolezza della vanità delle passioni umane e della caducità delle cose terrene, soggette allo scorrere inarrestabile del tempo. All’angosciosa percezione della transitorietà e vanità di tutto ciò che è mortale, si contrappone nella riflessione di Petrarca il valore della memoria e della scrittura, capaci di salvaguardare la dignità dell’uomo dando un senso alla sua labile esistenza.

Opere in latino Africa

poema epico

De viris illustribus

biografie di grandi del passato

De vita solitaria

elogio della solitudine

De otio religioso

elogio della vita monacale

Secretum

dialogo in tre libri tra sant’Agostino e Francesco sulle debolezze che gli impediscono una vita virtuosa

De remediis utriusque fortunae

sul comportamento equilibrato da tenere nella buona e cattiva sorte

Erudite

Religioso-morali

Familiares cinquecento lettere organizzate in varie raccolte: Epistolario in latino

Seniles Sine nomine

ritratto idealizzato di sé

Variae

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Francesco Petrarca

T6

Un itinerario simbolico: l’ascesa al monte Ventoso

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Lettere familiari, IV, 1 F. Petrarca, Familiares, in Epistole, a cura di U. Dotti, Utet, Torino 1978

Questa è la lettera più celebre, proprio perché molto rappresentativa, dell’intero epistolario petrarchesco. Scritta in latino come tutte le lettere di Petrarca, narra l’ascesa al monte Ventoso (Mont Ventoux), non lontano da Valchiusa, che Petrarca avrebbe compiuto insieme al fratello Gherardo tra il 24 e il 26 aprile del 1336. A quanto asserisce Petrarca nell’ultima parte della lettera (qui non riprodotta), la stesura sarebbe avvenuta di getto immediatamente dopo l’avvenimento narrato. In realtà la critica più accreditata ritiene che sia stata scritta una ventina di anni dopo (1352-53 o addirittura 1355), quando Gherardo aveva già da tempo scelto la vita monacale (1342) e sia quindi il frutto di una rilettura a posteriori di quella lontana avventura. La lettera è indirizzata al teologo agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, conosciuto nel 1333 e che aveva donato al poeta una copia delle Confessioni di sant’Agostino, a cui si fa riferimento nella lettera. A DIONIGI DA BORGO SAN SEPOLCRO DELL’ORDINE DI SANT’AGOSTINO E PROFESSORE DELLA SACRA PAGINA. SUI PROPRI AFFANNI.

5

Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia1 e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. [Nel passo omesso Petrarca dichiara di aver sempre desiderato di compiere quell’impresa e di essersi deciso dopo la lettura di un passo dello storico romano Tito Livio. La difficoltà fu però quella di trovare un compagno adatto tra i suoi conoscenti. Infine la scelta cadde sul fratello Gherardo, che fu ben felice di accogliere la proposta.]

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Partimmo da casa il giorno stabilito2 e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta3 che «l’ostinata fatica vince ogni cosa». Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani. Lasciate

1 ho abitato... sino dall’infanzia: Petrarca si trasferì in Provenza all’età di otto anni insieme al fratello Gherardo quando

il padre prese servizio alla curia avignonese. 2 il giorno stabilito: appunto il 24 aprile.

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3 il poeta: Virgilio. La citazione che segue è tratta dalle Georgiche (I, 145-46).


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presso di lui le vesti e gli oggetti che ci potevano essere d’impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e ci incamminiamo alacremente. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava. Annoiatomi e pentito oramai di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l’alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme. Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà. Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo spesso in qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle incorporee, mi imponevo riflessioni di questo genere: «Ciò che hai tante volte provato oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo sono invisibili ed occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono, è la strada che vi conduce4. Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio. [...] [Nella parte omessa continuano le riflessioni dello scrittore sulla necessità di «volere con ardore» se si vuole raggiungere lo scopo, di affrontare il cammino della virtù anche se appare arduo e difficoltoso da percorrere.]

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C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il «Figliuolo»; perché non so dirti; se non forse per antifrasi5, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio6, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi

4 stretta... vi conduce: citazione dal Vangelo (Matteo 7, 14). 5 per antifrasi: per ironia, cioè affermando l’opposto di quel che si vuol significare: e infatti subito dopo si dice

che in realtà il monte è il più alto di quelli vicini. 6 padre mio: è il destinatario della lettera, quel Dionigi (ca. 1300-1342) a cui, seppur fosse quasi suo coetaneo, Francesco si

rivolge qui con un appellativo affettuoso e riverente. Fu suo confessore durante il soggiorno francese e a lui il poeta rivolse un commosso epitaffio in morte.

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divennero meno incredibili l’Athos e l’Olimpo7 nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quanto avevo letto ed udito di essi. Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno passò quel feroce nemico del nome di Roma rompendone, come dicono, le rocce con l’aceto8, mi parvero, pur così lontane, vicine. Lo confesso: ho sospirato verso quel cielo d’Italia che scorgevo con l’anima più che con gli occhi e m’invase un desiderio bruciante di rivedere l’amico9 e la patria anche se, in quello stesso momento, provai un poco di vergogna per questo doppio desiderio non ancora virile; eppure non mi sarebbero mancate, per l’uno e per l’altro, giustificazioni confermate da grandi testimonianze. Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi. «Oggi – mi dicevo – si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna10: Dio immortale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto11 da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell’ordine stesso in cui sono avvenute, premettendovi le parole di Agostino12: “Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio”. Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta13 “Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia”. Non sono ancora passati tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me». Così andavo col pensiero a quel passato decennio. Rivolgendomi all’avvenire, mi domandavo: «Se ti accadesse di prolungare per altri due lustri questa vita che fugge e di avvicinarti alla virtù nella stessa proporzione in cui, in questo biennio, per l’insorgere della nuova volontà contro la vecchia, ti sei allontanato dalla primitiva protervia, non potresti forse allora, se non con certezza almeno con speranza, andare incontro alla morte sui quarant’anni e questi residui anni di una vita che già declina verso la vecchiezza, trascurarli senza rimpianti?». Questi ed altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nella mente. Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allungava. I Pirenei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono di qui, e non credo per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola

7 l’Athos e l’Olimpo: celebri monti della Grecia, il primo allora, come oggi, ospita vari monasteri, il secondo è considerato dalla mitologia la sede degli dei. 8 quel nemico... aceto: si tratta di Annibale; il fatto menzionato è riportato dallo storico latino Livio (XXI, 37, 2).

9 l’amico: è quasi sicuramente il destinatario della lettera. 10 Oggi... Bologna: Petrarca lasciò Bologna nell’aprile del 1326. Da qui la datazione dell’ascensione (1336), almeno nella ricostruzione che ne traccia Petrarca in questa lettera.

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11 in porto: il porto è metafora del distacco dalle passioni terrene e dell’appagamento spirituale nelle verità della fede. 12 le parole di Agostino: il passo che viene citato è tratto dalle Confessioni (II, 1, 1). 13 un famosissimo poeta: la citazione che segue è tratta da Ovidio, Amores, III, 11b, 3.


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debolezza della nostra vista; a destra, molto nitidamente, si scorgevano invece i monti della provincia di Lione, a sinistra il mare di Marsiglia e quello che batte Acque Morte14 lontani alcuni giorni di cammino; quanto al Rodano, era sotto i nostri occhi. Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto15 libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato, io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi»16. Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande. Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle parole tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri; [...].

14 Acque Morte: Aigues-Mortes, cittadina francese presso Montpellier. 15 dono del tuo affetto: Dionigi aveva

donato a Petrarca un’edizione di piccola mole delle Confessioni di sant’Agostino, che era effettivamente molto cara al poeta.

16 «e vanno... se stessi»: cit. dalle Confessioni (X, 8, 15).

Analisi del testo Un titolo significativo La lettera è nota come L’ascesa al monte Ventoso. In realtà il titolo petrarchesco è De curis propriis (I propri affanni) e pone significativamente l’accento sul risvolto interiore dell’ascesa più che sul fatto in sé. Attraverso il titolo, Petrarca segnala già ai lettori (contemporanei e forse ancor più posteri) che narrerà non tanto un’esperienza di viaggio quanto una storia interiore, una drammatica battaglia combattuta nel suo intimo.

Un itinerario simbolico di carattere esemplare Inizialmente la lettera sembra una “pagina di viaggio”; lo stile della narrazione è vivace e ricco di particolari realistici, ma ben presto la pagina assume altro spessore e altra natura: la difficile salita del monte Ventoso acquista l’evidente carattere di un itinerario simbolico. In questo testo Petrarca utilizza in modo straordinariamente consapevole (potremmo quasi dire strumentale) il codice simbolico per veicolare un contenuto che gli sta particolarmente a cuore: la radiografia della propria inquieta sensibilità, il proprio identikit di moderno intellettuale, tormentato e complesso, diviso tra l’attrazione per tutto ciò che è terreno e la tensione alla dimensione spirituale e soprannaturale. L’esemplarità della vicenda è innanzitutto segnalata dal simbolismo numerico e temporale: l’ascesa del monte dura tre giornate, per tre volte Petrarca sbaglia il cammino (il simbolismo ternario era diffusissimo nella cultura medievale e rimandava alla Trinità), il giorno in cui sarebbe iniziato il viaggio (ovvero il 24 aprile 1336) era venerdì santo, il giorno che precede la Pasqua e la resurrezione. Inoltre anche la “rivelazione” indotta dalle parole del libro di Agostino aperto a caso, che ha un ruolo chiave nella vicenda, è iscrivibile in una dimensione allusiva e sacrale: la cosiddetta bibliomanzia, cioè la lettura apparentemente casuale (in realtà, appunto, rivelatrice) di un passo era infatti una situazione ricorrente, come osserva il critico Pacca, nelle narrazioni delle Vite dei Santi e aveva la funzione di orientare la vocazione del futuro santo.

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Una rilettura a posteriori Proprio questa anche troppo esibita dimensione simbolica, oltre a molteplici indizi testuali (che rimandano in particolare al Secretum), ha indotto i critici a interpretare la lettera come una ricostruzione e una rilettura a posteriori di un’esperienza precedente, collocandone la stesura dopo la metà del Trecento. Se questa ipotesi è corretta, lo stesso destinatario è fittizio, essendo il teologo agostiniano Dionigi ormai morto da una decina d’anni. Anche quest’ultimo elemento contribuisce dunque a sottolineare il carattere “costruito” dell’epistola, finalizzata a tracciare una vicenda che risultasse fortemente esemplare all’interno del bilancio esistenziale e del progetto autobiografico che Petrarca avvia verso il 1350. Nel 1336 Petrarca aveva trentadue anni, proprio la stessa età di Agostino quando visse la sua conversione: anche la salita al Ventoso implica a suo modo una “conversione” e la retrodatazione può essere stata motivata proprio dal tentativo di costruire un parallelismo con il santo. La lettera risulta dunque particolarmente indicativa di uno dei caratteri principali dell’epistolario petrarchesco, ovvero il tentativo dello scrittore di costruire attraverso le lettere un autoritratto ideale, un profilo interessante di sé come intellettuale moderno.

Il codice spaziale Nella costruzione del significato esemplare della vicenda è rilevante l’uso del codice spaziale. Nella prima parte del testo domina soprattutto l’opposizione tra “alto” e “basso”. Se l’ascesa è evidentemente allusiva (come del resto Petrarca stesso spiega) all’elevazione spirituale, la retrocessione, la stasi nelle zone basse della montagna simboleggia l’attrazione per tutto ciò che è materiale e terreno: mentre il fratello Gherardo prende con sicurezza la via della salita, anche se erta e faticosa, Petrarca indugia e si smarrisce a lungo nel girovagare cercando la via più comoda. Nella seconda parte (da «C’è una cima più alta di tutte» [r. 50], fino allo sguardo sul Rodano), che rappresenta una seconda tappa dell’itinerario spirituale dello scrittore sceneggiato nella lettera, il simbolismo spaziale poggia essenzialmente sull’opposizione tra “dentro” e “fuori”, “esterno” e “interno”. Il percorso conoscitivo ed etico del poeta non è solo proiettato verso l’alto, verso la conquista della vetta ma è al contempo un cammino “dentro” la propria coscienza, alla ricerca della verità. Questo momento di intensa riflessione sugli ultimi dieci anni della sua esistenza porta il poeta a incontrare l’esperienza di Agostino, che lo guida a identificare sé stesso come “doppio uomo”, uomo del costante e non superato dissidio. Mentre il giorno declina e il poeta si trova ancora una volta combattuto tra il basso e l’alto («ora pensavo a cose terrene e ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima»), si apre una sorta di momento “epifanico”, che coincide con l’apertura a caso del libro delle Confessioni: nel processo di iniziazione alla verità, le parole di Agostino hanno la funzione di sancire con la loro autorevolezza la verità che il poeta ha scoperto già per conto suo: ovvero la necessità di rivolgere lo sguardo dentro di sé. È dentro di sé che occorre viaggiare, questa è anche la sua missione di intellettuale: testimoniare il valore dell’interiorità.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto della lettera in 10 righe. ANALISI 2. L’ascesa al monte Ventoso assume un significato allegorico: quale? 3. Analizza la lettera da «Troppi sono ancora» (r. 74) a «sofferenza» (r.79). Quale ritratto del poeta se ne può dedurre? 4. Individua i passi in cui Petrarca offre una rappresentazione del paesaggio (reale e simbolica). STILE 5. Analizza il testo dal punto di vista sintattico: quale costrutto sintattico predomina? La paratassi o l’ipotassi? A che cosa è finalizzata questa scelta stilistica?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

LETTERATURA E NOI 6. Francesco e il fratello si accingono a salire il monte. Incontrano però un vecchio pastore che cerca inutilmente di dissuaderli dall’impresa e non riuscendovi indica loro un sentiero scosceso per iniziare la salita. Nel racconto di questo incontro Petrarca afferma: «Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto». È capitato anche a te di sentirti ancor più motivato a un’impresa nel momento in cui hai ricevuto un divieto? Davvero le persone giovani secondo te sono restie a ogni consiglio?

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5 Il tentativo di un poema allegorico: i Trionfi Un poema in volgare ispirato alla Commedia L’unica opera in volgare di Petrarca, oltre al Canzoniere, sono i Trionfi (il titolo originale è però in latino: Triumphi), un poema allegorico strutturato in “visioni” secondo il modello della Commedia, a cui rimanda anche la scelta metrica della terzina dantesca (ma non manca la suggestione dell’Amorosa visione di Boccaccio). Progettati forse già nel 1340, composti tra il 1350 e il 1360 e portati avanti fino alla morte dello scrittore, i Trionfi non furono mai conclusi. Il significato del titolo Il titolo scelto dal poeta prende spunto dalle cerimonie pubbliche in uso nel mondo romano, i “trionfi” appunto, in occasione dei quali i condottieri celebravano pubblicamente la loro vittoria. Anche la struttura dell’opera è organizzata intorno al tema della vittoria, secondo uno schema dialettico che prevede una sequenza progressiva ascendente: A è vinto da B, ma B è poi vinto da C e così via. La struttura: una narrazione allegorica Il poema è strutturato in sei “visioni”. Si apre con il Trionfo d’Amore (Triumphus Amoris), in cui al poeta appare la visione del dio Amore trionfante, seguito da una schiera di personaggi sottomessi al suo giogo. Anche il poeta è vittima dell’Amore per una fanciulla apparsa improvvisamente (Laura) ed è trasportato a Cipro insieme agli altri prigionieri del dio. Segue il Trionfo della Castità (Triumphus Pudicitiae): Laura sconfigge Amore e celebra, con altre donne famose per la loro virtù, la vittoria della castità nel tempio della Pudicizia a Roma. Ma la morte si fa incontro a Laura (Triumphus Mortis) e la fanciulla muore, per comparire poi in sogno al poeta rivelandogli la propria beatitudine. La morte però può essere a sua volta vinta dalla Fama (Triumphus Famae), che può eternare i valori e le persone: nella quarta visione appare la Fama vittoriosa, seguita da un corteo di uomini celebri. Anche la Fama però è fugace e può essere annullata dal trascorrere inesorabile del tempo (Triumphus Temporis). Solo l’eternità (Triumphus Eternitatis) può davvero sottrarre l’uomo alla precarietà e alla sconfitta. Nell’ultima visione appare al poeta un mondo fuori dal tempo in cui potrà rivedere Laura. Un’opera deludente L’opera, come si è detto si ispira certamente – come dimostra il metro adottato e la dominante dimensione allegorica – alla Commedia, ma l’illustre modello è adattato a una dimensione prettamente autobiografica, lontana dalla severa prospettiva trascendente e didascalica di Dante: Petrarca tenta di sceneggiare il suo incerto cammino verso la virtù, il superamento (mai del tutto avvenuto) delle passioni terrene. L’esito non è convincente: la struttura narrativa è macchinosa, l’impianto allegorico rimane schematico e astratto e la rassegna di personaggi, appesantita da continui riferimenti eruditi, risulta alla fine ripetitiva. Il Trionfo di Castità e Ragione in una miniatura francese del XV secolo, codice dei Trionfi di Petrarca (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia). Sul carro trionfale, tirato da unicorni (simbolo di purezza e castità), la giovane donna che personifica la Castità ha uno scudo e una colonna, simboli del suo impegno a difendere la virtù, rafforzato dall’influsso della Ragione (la statua in secondo piano).

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3 Il Canzoniere VIDEOLEZIONE

Il Canzoniere, uno dei libri più importanti della tradizione letteraria italiana, è una raccolta di 366 componimenti poetici, collegati per la maggior parte al tema fondamentale dell’amore per Laura, di cui a posteriori Petrarca ripercorre la storia e analizza il ruolo nel proprio itinerario esistenziale. La maggior parte delle liriche sono sonetti (317), ma sono presenti anche altre forme metriche della tradizione lirica: 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.

1 L’elaborazione dell’opera, i modelli, la struttura Dalle rime sparse all’unità del “libro” Fin dagli anni giovanili, Petrarca compone rime sul modello provenzale e stilnovistico; questi componimenti diventano famosi presso un vasto pubblico e successivamente l’autore decide di organizzarli in una raccolta unitaria basandosi dapprima su un criterio tematico, come testimonia una prima silloge di 14 rime risalente al 1342. Il vero e proprio Canzoniere nasce però solo quando, dopo il 1348 – anno della morte di Laura, perciò in un momento di profonda crisi – il poeta decide di riunire le rime “sparse” in un unico libro, nel quale tracciare la propria storia interiore: fonda così un genere nuovo, destinato a un’immensa fortuna nella letteratura europea. Petrarca colloca nel Canzoniere i testi precedentemente scritti e gli altri che veniva componendo secondo un preciso disegno compositivo, che non coincide con l’oronline Per approfondire dine cronologico della loro effettiva scrittura, ma è finalizzato alla costruzione di Work in progress: un’autobiografia ideale. Tale ordine viene più volte ridisegnato dall’autore, che, nel la composizione del Canzoniere corso di un lavoro più che ventennale, si dedica instancabilmente a perfezionarlo. Come hanno documentato gli studi prima di Ernest H. Wilkins (1880-1966) e poi di Marco Santagata (1947-2020) il Canzoniere assume almeno nove forme diverse prima dell’ultima e definitiva, portata a termine nel 1374, l’ultimo anno della vita di Petrarca, e affidata a un manoscritto in parte autografo denominato Vaticano Latino 3195. È stato possibile ricostruire il processo elaborativo del Canzoniere grazie al fatto che, mentre per Dante non disponiamo di alcun manoscritto autografo, di Petrarca possediamo non solo la versione definitiva del lavoro, ma anche il cosiddetto “codice degli abbozzi”, di mano dello stesso Petrarca (Vaticano Latino 3196); esso contiene sia componimenti poi inseriti nel Canzoniere sia testi poi esclusi, ma anche brani in stato di abbozzo o con indicate le varianti che l’autore aveva previsto. Negli spazi a margine dei fogli sono inserite osservazioni e ipotesi di correzione, indicazioni sulla collocazione dei testi. Come si può facilmente intuire, il “codice degli abbozzi” risulta molto prezioso per ricostruire L’offerta della corona d’alloro a Petrarca, miniatura la complessa storia dell’opera. di scuola lombarda dagli Admiranda acta, sec. XV.

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Rerum vulgarium fragmenta o Canzoniere? Due titoli antitetici La raccolta petrarchesca viene indicata con due titoli (uno voluto dall’autore, l’altro affermatosi nella tradizione) che evidenziano due diversi volti dell’opera. Il titolo latino scelto da Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta (“Frammenti di cose in volgare”), sembra a prima vista sminuire l’opera: lo scrittore utilizza infatti la parola res, che significa semplicemente “cose”, associandola all’aggettivo vulgaris, con riferimento alla lingua volgare impiegata, che egli considerava inferiore al latino (in cui scrive quasi tutte le sue opere). Termine chiave nel titolo latino è però fragmenta (“frammenti”), che allude al fatto che le rime sono state scritte in momenti e stati d’animo diversi: alla frammentarietà dell’opera corrisponde la frammentazione dell’esistenza stessa dell’autore, priva di un centro e preda costante di incertezze e conflitti. In realtà l’avere riunito le rime sparse in un libro indica già il tentativo di superare tale disposizione esistenziale dispersiva. Già dal Cinquecento, i lettori preferirono perciò chiamare l’opera petrarchesca Canzoniere, a indicare la sua natura di opera organica, in cui tutte le parti si richiamano secondo un ben preciso disegno compositivo; il titolo è perciò ancor oggi comunemente utilizzato per designare il capolavoro di Petrarca e adottato anche dai moderni editori. Dal testo al macrotesto In rapporto a quanto detto, nel Canzoniere coesistono due dimensioni (che implicano due diverse prospettive di lettura): una “microtestuale”, che interessa i singoli componimenti, volta a dare al lettore, anche attraverso precise indicazioni spaziali e cronologiche, l’impressione di un diario amoroso, colto (e godibile) nei suoi singoli momenti; l’altra “macrotestuale” ( PER APPROFONDIRE Cos'è un macrotesto?), che comporta la meditata collocazione dei testi in un disegno autobiografico, mirato a ricostruire un itinerario esistenziale esemplare.

PER APPROFONDIRE

La simbologia numerica: Petrarca medievale Nel Canzoniere persiste una componente prettamente medievale, ossia la presenza di corrispondenze numerologiche, di carattere simbolico, fondate in particolare sulla ricorrenza del numero 6: il 6 aprile (Venerdì Santo, giorno della Passione di Cristo) è il giorno in cui Petrarca dichiara di aver visto Laura per la prima volta, e il 6 aprile è anche il giorno della morte della donna amata. Il numero complessivo dei componimenti della redazione ultima del Canzoniere è 366: contiene due volte il numero 6 e una volta il numero 3 (il numero perfetto, nella visione medievale). Il numero 366 è uguale, inoltre, a quello dei giorni dell’anno se si esclude un sonetto, il proemiale, che funge da introduzione e ricapitola i temi

Cos’è un macrotesto? Secondo la definizione della filologa Maria Corti (1915-2002), un macrotesto è un testo (un “grande testo”, come suggerisce l’etimo greco) costituito da un insieme di più scritti che possono essere considerati come un’estesa entità unitaria. Non tutte le raccolte di poesie o prose di un medesimo autore si possono definire “macrotesto”, perché un gruppo di rime o di racconti può essere un semplice insieme di lavori riuniti per motivazioni diverse. Di “macrotesto” si può invece parlare quando si verifica almeno una delle seguenti condizioni: 1. ricorrono elementi tematici e/o formali che conferiscono unità alla raccolta; 2. ogni singolo testo poe-

tico o prosastico (si veda per esempio il Decameron) ha una precisa collocazione nella raccolta in rapporto al significato dell’insieme. Queste due condizioni sono entrambe presenti nel Canzoniere di Petrarca, che non è un semplice aggregato di rime ma il frutto di una coscienza progettuale che presiede alla collocazione delle liriche e istituisce corrispondenze e richiami tra di esse. Testo di riferimento: M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Bompiani, Milano 1976.

Il Canzoniere 3 333


fondamentali del libro. La misura dell’anno rappresenta simbolicamente il corso della vita umana e ogni testo poetico corrisponde a momenti della vita interiore dell’autore, collegati dal filo rosso dell’amore per Laura. Dietro l’insistita simbologia numerica e il collegamento, denso di significato, istituito dal poeta tra l’innamoramento e il Venerdì Santo, si avverte l’influenza del modello autorevole della Vita nuova di Dante, in cui l’amore dell’autore della Commedia per Beatrice fin dall’inizio è inscritto in una dimensione sacrale.

online

Per approfondire L’ombra di Dante, un modello “rimosso”

Il dialogo con la tradizione letteraria e il modello dantesco Il Canzoniere è un’opera profondamente innovativa ma che dialoga con la precedente tradizione letteraria, rivelando un orizzonte culturale vastissimo: dai classici latini alla produzione religiosa medio-latina, dalla poesia romanza a quella stilnovistica (in particolare Dante e Cavalcanti). Il precedente fondamentale per l’ideazione del Canzoniere è, però, la Vita nuova di Dante, che già aveva inserito le sue composizioni poetiche, legate all’amore per Beatrice, in un percorso di vita esistenziale e religioso. Anche se Petrarca tende a minimizzare l’influsso di Dante (➜ PER APPROFONDIRE L’ombra di Dante. Un modello “rimosso” OL), oggi sappiamo con certezza che il modello del fiorentino è stato ben presente nell’elaborazione del Canzoniere, come dimostra il continuo riaffiorare di situazioni e di stilemi danteschi. Anzi, come hanno sottolineato i più recenti studi, e in particolare quelli di Marco Santagata, l’opera di Petrarca deve essere letta nella prospettiva di un consapevole confronto con quella dell’illustre modello (la Vita nuova innanzitutto, ma anche la Commedia). Come Dante nella Vita nuova, Petrarca conferisce alle proprie rime un ordine narrativo; tuttavia non affianca alle liriche una narrazione in prosa (come aveva fatto Dante, secondo il modello del commento medievale), ma, più modernamente, fa emergere la vicenda narrativa e la tesi morale del Canzoniere da un’accorta e ben calcolata disposizione dei testi poetici. La suddivisione in due parti del Canzoniere Il Canzoniere è stato diviso dall’autore in due parti: il codice manoscritto Vat. Lat. 3195, che ne contiene l’ultima redazione, evidenzia tale struttura bipartita collocando alcuni fogli bianchi tra le due sezioni che lo compongono. La seconda delle due sezioni, che inizia con la canzone 264, è tradizionalmente denominata «in morte di Laura», perché la maggior parte delle rime in essa presenti vennero composte dopo la morte della donna, e ad essa alludono varie composizioni. La distinzione non è però rigida: nei primi testi della seconda parte Laura è ancora viva e la sua morte viene annunciata solo nel sonetto 267, Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo. Se inoltre si guarda all’effettiva data di composizione, anche molte rime della prima sezione (compreso, con ogni probabilità, il sonetto proemiale) furono in realtà composte dopo la morte di Laura. La suddivisione in due parti documenta soprattutto, nelle intenzioni dell’autore, una mutata disposizione interiore del protagonista: nella prima, nonostante la consapevolezza più volte espressa della fugacità di tutto quanto è terreno, tendono a imporsi le passioni mondane; nella seconda, aperta dalla canzone 264, in cui l’autore esprime una decisa volontà di cambiamento, assumono una decisa prevalenza i temi etico-religiosi, in rapporto alla morte di Laura che rende con dolorosa certezza la precarietà delle cose terrene. In realtà nel Canzoniere nessuna situazione etico-psicologica è mai definitivamente superata.

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2 La modernità del Canzoniere: la scoperta di un io diviso L’“io” è il vero protagonista del Canzoniere La maggior parte delle liriche del Canzoniere sono ispirate all’amore per Laura. A differenza, però, della poesia amorosa precedente (dalla lirica provenzale a quella stilnovistica), la raccolta petrarchesca pone al centro delle composizioni non la lode della donna, ma l’io del poeta, vero protagonista dell’opera, analizzato in modo sorprendentemente moderno. Nel Canzoniere l’amore appare lo specchio di un conflitto di portata epocale tra codici etico-culturali, che si rifrangono all’interno della coscienza del protagonista, diviso tra il richiamo a una spiritualità cristiana ancora ascetica e medievale e l’attrazione per la dimensione terrena, secondo una concezione della vita già preumanistica. Un percorso ascendente o il ritratto dell’imperfezione umana? La collocazione di due testi chiave, il sonetto di pentimento che apre l’opera e la canzone Vergine bella che la chiude, sembrerebbero tracciare un percorso ascendente in senso cristiano, volto a evidenziare come, alla fine, il protagonista si liberi dalle catene della passione amorosa e si ravveda, rivolgendosi dunque a Dio e alla figura mediatrice della Vergine. In questo senso il Canzoniere potrebbe apparire una trasposizione poetica delle Confessioni di sant’Agostino. In realtà Petrarca rimane ben lontano dalla radicalità della conversione agostiniana, così come dalla linearità del percorso dantesco, che dalla selva oscura del peccato giunge a Dio attraverso un progressivo e univoco cammino ascendente. La tensione al trascendente, pur sinceramente avvertita, è in lui costantemente combattuta dall’attrazione (mai definitivamente vinta) per le cose del mondo: il suo cammino verso la virtù è tortuoso, segnato da incertezze, conflitti, ricadute e successivi pentimenti. Il Canzoniere non traccia quindi un medievale itinerarium mentis in Deum, ma delinea piuttosto il moderno ritratto dell’umana imperfezione, mettendo a nudo per la prima volta la distanza tra ideale religioso e uomo reale (una distanza che ancora oggi è spesso vissuta da chi si professa cristiano e credente). La rappresentazione di un io diviso e contraddittorio è sicuramente il tratto più moderno dell’opera di Petrarca: pensiamo infatti a come la psicologia e la psicoanalisi contemporanee siano nate proprio da una visione dell’io come campo di tensioni che possono essere in contraddizione; e come la percezione di un’interiorità instabile e molteplice abbia caratterizzato la produzione letteraria più complessa e “filosofica” del Novecento: da Pirandello a Svevo, a Gadda e a Joyce. online

Interpretazioni critiche Karlheinz Stierle Il mondo gerarchico e verticale di Dante e il mondo orizzontale e molteplice di Petrarca

L’irriducibile contrasto tra amore e fede La contraddizione tra la fedeltà al Vangelo, che predica il distacco dalle cose terrene, e la naturale tendenza dell’uomo verso di esse è rappresentata nel Canzoniere principalmente dal desiderio amoroso. Mentre per Dante anche l’amore per una donna può essere ricondotto a Dio, attraverso il mito stilnovistico della donna-angelo, tramite per il divino, Petrarca, ormai lontano dalla visione universalistica della Scolastica, concepisce una netta separazione tra il piano trascendente e quello terreno: l’amore per la donna perciò non può essere, alla maniera stilnovistica, una via per accedere al divino ma anzi può soltanto distoglierne. Alla base del Canzoniere sta dunque la consapevolezza della natura peccaminosa dell’amore. Una consapevolezza posta in rilievo già nel sonetto 3 (➜ T8a ), in cui l’innamoramento, avvenuto, proprio il Venerdì Santo, nel giorno della morte di Cristo, distoglie Francesco dal «commune dolor» per la Passione di Cristo, estraniandolo dalla comunità cristiana. Il Canzoniere 3 335


La visione ambivalente dell’esperienza amorosa Ma, come si è detto, Petrarca non ha una visione univoca e coerente del suo amore per Laura; possono così essere accostate, l’una dopo l’altra, composizioni ispirate a stati d’animo opposti, come i sonetti 61 e 62 (➜ T9a OL e ➜ T9b OL), volutamente posizionati uno vicino all’altro: nel primo l’amore per Laura è visto come esperienza positiva e felice, nel secondo rappresenta una tentazione peccaminosa.

3 I temi del Canzoniere L’omogeneità tematica della raccolta Leggendo il Canzoniere si ha l’impressione di un’opera unitaria, la cui irripetibile identità è riconoscibile in ogni pagina sia grazie all’omogeneità stilistico-linguistica che caratterizza l’opera, sia mediante la continuità di alcuni filoni tematici che percorrono tutta la raccolta. Al centro del Canzoniere sta quello che potrebbe essere definito un “macrotema”: il conflitto interiore in rapporto, essenzialmente, all’amore: a esso abbiamo già dato spazio nel precedente paragrafo. Qui faremo riferimento agli altri principali temi dell’opera, che peraltro interagiscono in vario modo con quello portante.

Il paesaggio, riflesso dell’interiorità Una nuova visione della natura Con la poesia petrarchesca lo spazio naturale non è più concepito come specchio del divino, ma assume il nuovo volto di paesaggiostato d’animo, riflesso dell’interiorità, un volto destinato a larga fortuna nella letteratura, nell’arte e più in generale nella sensibilità occidentale. Nel Canzoniere le forme della natura recano sempre l’impronta della percezione soggettiva e dei sentimenti di chi le contempla: possono allora riflettere lo stato d’animo estatico dell’innamorato, per cui tutto quello che lo circonda appare radioso e splendido, o rispecchiare, attraverso il riferimento a luoghi solitari, aspri e selvaggi, la tormentata condizione interiore dell’io lirico, come nel celebre sonetto Solo et pensoso (➜ T11a ). Il motivo del colloquio con la natura Nel Canzoniere prende rilievo il motivo, che diventerà poi canonico nel genere lirico, del colloquio con la natura, confidente dell’io, come nel già citato sonetto Solo et pensoso, in cui «monti et piagge et fiumi et selve» sembrano conoscere e condividere lo stato d’animo del protagonista; o nella canzone Chiare, fresche et dolci acque, in cui il protagonista si rivolge ai luoghi che hanno visto la bellezza della donna amata, quasi confessandosi ad essi (➜ T12b ). La rivisitazione del locus amoenus Al tema dell’amore felice è legato, nella raccolta, lo scenario classico del locus amoenus, a cui si aggiungono le connotazioni proprie del plazer di origine provenzale, con gli elementi topici delle limpide acque, dei prati fioriti, dei boschi, del canto degli uccelli: oltre che dai modelli letterari, l’ispirazione viene anche da luoghi reali, soprattutto Valchiusa e la valle del Sorga, nei dintorni di Avignone, dove Petrarca amava soggiornare.

La memoria La centralità della dimensione temporale La novità fondamentale del Canzoniere rispetto alla precedente lirica d’amore è l’aver sostituito all’oggettività dell’esperienza amorosa, collocata in un momento esatto del tempo (nella lirica precedente a

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Petrarca la donna in genere è descritta al presente, come se fosse vista in quel momento), la realtà psicologica, nella quale i tempi si sovrappongono e con il presente convivono il futuro dell’attesa e il passato del ricordo. Il ruolo centrale assunto dalla memoria e, più in generale, dal tema del tempo nel Canzoniere risente del pensiero di sant’Agostino: nelle sue Confessioni il filosofo evidenzia, infatti, il rapporto fra tempo e interiorità, mostrando come il passato e il futuro esistano soltanto nella coscienza.

PER APPROFONDIRE

La «memoria innamorata» Nel Canzoniere, Laura stessa è soprattutto una creazione della memoria: con ogni probabilità Petrarca incontrò poche volte la donna, ma l’amore per lei, nutrito dal ricordo, domina per tutta la vita l’animo e la poesia del poeta, incessantemente intento a rievocare i momenti felici. Del ricordo di Laura sono pervasi i luoghi in cui il poeta l’ha vista nel fulgore della sua bellezza: gli basta tornarvi (in particolare a Valchiusa) perché la «memoria innamorata» (come egli stesso la definisce nel Canzoniere 71, v. 99), anche a distanza di molti anni, restituisca intatto l’incanto del ricordo della donna amata. Paradossalmente, le liriche in cui l’immagine di Laura appare più vivida e affascinante sono proprio quelle in cui la donna è assente ed è evocata soltanto nel ricordo nostalgico dell’amante, come nella canzone Chiare, fresche et dolci acque (➜ T12b ) o nel sonetto Erano i capei d’oro a l'aura sparsi (➜ T12a ).

I volti di Laura Le molteplici immagini di Laura Poiché la poesia petrarchesca è incentrata sull’interiorità del protagonista, la visione (e la rappresentazione) della donna amata muta in rapporto alle diverse disposizioni del suo animo, alle forze in conflitto momentaneamente prevalenti (passione amorosa-ragione-fede) e alla sua evoluzione interiore. • Laura “nemica” Nella prima parte del Canzoniere, in cui è prevalente la dimensione sensuale dell’amore, Laura assume i tratti della donna crudele e indifferente, che sfugge e rifiuta l’amante, spingendolo alla disperazione e persino all’idea del suicidio. Tale immagine di Laura è evidenziata da termini come «nemica», «spietata», «aspra e superba», «aspra e cruda»: una scelta lessicale che rimanda alle rime “petrose” di Dante. Collegato a tale rappresentazione è anche l’uso di stilemi relativi alla “malattia d’amore” (➜ C4). La “crudeltà” di Laura – come il protagonista comprenderà successivamente – era in realtà dovuta alla sua virtù. • Laura in prospettiva stilnovistica In un secondo momento il protagonista tende a idealizzare il proprio sentimento amoroso. Di conseguenza (soprattutto a partire dalla canzone 70), sui tratti “petrosi” prevale l’immagine di Laura come figura angelica e beatificante, che induce il poeta al perfezionamento spirituale e addirittura lo avvia verso Dio. Ad esempio, nell’apertura della canzone 72, Laura è evocata in termini prettamente stilnovistici: «Gentil mia donna, i’ veggio / nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume / che mi mostra la via ch’al ciel conduce». Ma si tratta di un’illusione: per

quanto spiritualizzato, l’amore è comunque fonte di peccato, perché rivolge a una creatura terrena l’amore che dovrebbe essere rivolto a Dio. • Laura dopo la morte La morte di Laura non distoglie il poeta dall’amore e dal pensiero costante della donna. Attraverso il filtro della memoria e dell’immaginazione poetica, Laura conosce, come personaggio del Canzoniere, una nuova vita (➜ T14c ): scomparsa dalla dimensione terrena, può finalmente diventare una creatura della fantasia poetica, dalla quale può essere plasmata secondo il desiderio dell’amato e apparire così pietosa e innamorata del poeta, quale mai era stata in vita. Si ripropongono, comunque, nella figurazione di Laura morta le oscillazioni psicologiche proprie di Petrarca: si alternano infatti rime in cui è espressa una disperazione inconsolabile per la sua perdita ad altre in cui, al contrario, la donna appare come una figura dolce e consolatrice, ma soprattutto portatrice di un messaggio salvifico rivolto all’amato: la vera vita, lo ammonisce, sta in cielo, in una dimensione lontana dall’imperfezione e dalla vanità delle cose terrene (➜ T14a OL). Anche nelle “rime in morte” Laura continua comunque a essere, a differenza delle donne stilnoviste, una figura femminile reale, dotata di corporeità: costante è infatti il riferimento struggente al suo corpo, un tempo bellissimo, ora «poca polvere […] che nulla sente» (➜ T14b   ), a riprova del fatto che la fascinazione terrena non è stata del tutto cancellata dalla morte.

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La fuga del tempo e la caducità delle cose umane Un tema di ascendenza classica La consapevolezza del trascorrere rapido e inesorabile del tempo costituisce uno dei nuclei poetici più importanti e di maggiore suggestione del Canzoniere, un tema che emerge persino nelle poesie ispirate alla tematica politica: nella canzone Italia mia, ai prìncipi avidi di potere il poeta ricorda che «’l tempo vola» e che essi dovranno presentarsi a Dio con il carico delle proprie colpe. Si tratta di un tema che Petrarca già ritrovava negli amati classici (da Virgilio a Orazio, a Ovidio) e in filosofi come Seneca che, in particolare nelle Lettere a Lucilio e nel De brevitate vitae (La brevità della vita), riflette sul valore del tempo e sull’importanza di non dissiparlo in futili e dispersive occupazioni (➜ D2 OL, D3a-D3b OL). La peccaminosa attrazione per ciò che è destinato a svanire La fugacità del tempo si associa nel Canzoniere all’angosciosa percezione della caducità di tutto ciò che è terreno, dalla fama all’amore («quanto piace al mondo», come recita il sonetto proemiale, è soltanto «breve sogno»). Da qui l’aspirazione del poeta a sottrarre all’oblio, grazie alla memoria e alla scrittura, eventi, sentimenti, la bellezza stessa di Laura, destinata a sfiorire: ne deriva la costituzione stessa dell’opera, concepita da Petrarca come sfida alla dissoluzione operata dal tempo. Ma, pure, proprio la consapevolezza della precarietà di ciò che è terreno intensifica in Petrarca la coscienza del carattere peccaminoso dell’attrazione per esso e il conseguente desiderio di staccarsene, sostituendo ai labili oggetti transeunti le realtà spirituali, degne e stabili. Una prospettiva che emerge soprattutto (anche se non senza contraddizioni) nella seconda parte dell’opera, in rapporto alla morte di Laura (1348): la scomparsa della donna amata diventa infatti per il poeta testimonianza evidente e lacerante della caducità delle cose terrene.

La visione politica I sonetti sulla corruzione della curia papale ad Avignone Sebbene non abbiano la stessa rilevanza che nel poema dantesco, nel Canzoniere sono presenti anche rime dedicate al tema politico, fra cui in particolare i sonetti “antibabilonesi” (136138). Si tratta di una serie di componimenti incentrati sulla corruzione della Chiesa e della curia papale, in quel tempo stabilitasi ad Avignone, che il poeta rappresenta come il luogo di ogni corruzione e vizio, non dissimile dalla biblica Babilonia («L’avara Babilonia à colmo il sacco d’ira di Dio, e di vitii empii et rei», «Fontana di dolore, albergo d’ira, scola d’errori et templo d’eresia»).

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Per approfondire “Italia”, “italiani”: un mito linguisticoletterario

La canzone Italia mia Ma il tema politico è soprattutto collegato alla celeberrima canzone Italia mia (➜ T15a ), che ispirerà, due secoli dopo, la pagina conclusiva del Principe di Machiavelli, in cui lo scrittore esorta Lorenzo di Piero de’ Medici, dedicatario della propria opera, a liberare l’Italia dagli stranieri. Anche per il rilievo dato da Machiavelli a questo lavoro, Italia mia diventò un modello per la canzone politica dei secoli successivi, come dimostra l’esempio di Leopardi, autore in età giovanile di una canzone All’Italia, ispirata al modello petrarchesco, e di altri poeti di età risorgimentale e post-risorgimentale. In Italia mia Petrarca rivolge un solenne appello ai signori italiani perché pongano fine alla reciproca ostilità che produce danni irreparabili alla patria comune, dilaniata dalle guerre civili («Vostre voglie divise / guastan del mondo la più bella parte») e perché rinuncino a utilizzare le truppe mercenarie straniere (un tema che diventerà drammaticamente attuale al tempo di Machiavelli). L’identità di Petrarca

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è ormai quella di un intellettuale cosmopolita che, in nome della propria autorevolezza culturale, può rivolgersi alla pari ai potenti signori italiani, facendo appello alle comuni radici e alla memoria della grandezza di Roma.

Il tema religioso del pentimento e gli ultimi testi del Canzoniere

PER APPROFONDIRE

Gli ultimi testi del Canzoniere (361-366) devono essere considerati a parte, data l’importanza che la loro collocazione implica per il significato complessivo della raccolta. In essi domina il tema religioso del pentimento, che, pur essendo già presente in alcune delle rime precedenti, sembra in queste ultime suggerire l’apertura a una dimensione spirituale diversa, rivolta finalmente alla fede e alla speranza ultraterrena, che concluderebbe la vicenda interiore dell’opera, riconducendola a un significato religioso. Va precisato che il cammino finale del protagonista delineato dall’autore non va letto come trasposizione di una reale situazione biografica di Petrarca stesso, ma risponde a esigenze strutturali e compositive, volte a chiudere la raccolta nel nome dell’approdo alla fede e del definitivo ripudio dell’“errore”, della vanità delle passioni terrene, realizzando intenzionalmente una «chiusura del cerchio» (P. Cherchi).

Le parole chiave del Canzoniere Nel Canzoniere le relazioni intertestuali sono evidenziate dal ricorrere di parole chiave, che tracciano una serie di percorsi tematici all’interno dell’opera. Proponiamo alcuni termini collegati ai temi fondamentali della raccolta. Errore È un termine molto importante nel Canzoniere, come già annuncia il sonetto proemiale (v. 3 «in sul mio primo giovenile errore»). “Errore” rimanda sia all’ambito filosofico, in particolare alla filosofia stoica, ed è considerato il frutto di un insufficiente controllo della ragione sia, soprattutto, all’ambito morale-religioso, in cui assume il significato di dispersione, incostanza morale e vera e propria deviazione dalla retta via: una condizione più volte evidenziata nelle rime sparse (ad es. ➜ PAG. 387: la fragile barca, che simboleggia la vita del poeta, è carica «d’error» e si trova «in alto mar senza governo»). Vano Parola chiave del Canzoniere, legata al tema scritturale della Vanitas. Le attrattive terrene, spesso chiamate «dolci», nel momento in cui subentra nel poeta uno stato d’animo meditativo e cosciente della transitorietà della vita diventano «vane» perché inconsistenti, non destinate a durare. Nel sonetto proemiale compare anche il verbo vaneggiare, che ricorre nelle rime ispirate alla tematica del pentimento, come il sonetto 62: «dopo le notti vaneggiando spese» (➜ T9b OL). Vergogna La parola ha un valore “segnaletico” particolarmente forte nel Canzoniere: la presenza del termine nel sonetto proemiale preannuncia che il tema amoroso sarà trattato nella raccolta in un’ottica penitenziale cristiana. La vergogna è lo sprone che induce il protagonista, consapevole di aver sprecato il tempo della propria vita vaneggiando, a ricercare il cambiamento che dovrebbe portarlo a incamminarsi sulla strada della virtù. Guerra La parola nel Canzoniere indica il conflitto interiore (spesso designato anche dall’immagine metaforica della tempesta), ma anche la tentazione, ciò che distoglie l’uomo dalla via del Bene. La ricorrenza del termine rispecchia una visione

della vita come conflitto tra forze opposte, propria della concezione del filosofo greco Eraclito (VI-V sec.), che Petrarca dichiara di condividere. Speranza Nel Canzoniere sono contrapposte due accezioni di speranza: una, rivolta alle cose terrene, destinata a rimanere delusa e ad accompagnarsi alla sofferenza (le «vane speranze» e il «van dolore» del sonetto proemiale); l’altra, intesa come virtù teologale, rivolta a Dio e destinata ad essere appagata con certezza se si ha fede (la virtù teologale della speranza è quella del vecchio pellegrino che spera di vedere in cielo il Volto Santo ➜ T8b OL). Nella canzone 264 (vv. 48-50), snodo chiave dell’opera, il protagonista comprende di dover rivolgere le sue speranze a beni più alti ed eterni («or ti solleva a più beata spene / mirando ’l ciel che ti si volve intorno, / immortal et addorno»). Il suo cambiamento è compiuto quando, nell’ultimo sonetto (365 ➜ T16a ), ideale conclusione del cammino interiore tracciato nell’opera, il protagonista affida le sue speranze soltanto a Dio («Tu sai ben che ’n altrui non ò speranza»): «la speranza ha trovato il suo oggetto vero» (Cherchi). Pace È la parola che chiude il Canzoniere. Diverse sono, nella raccolta petrarchesca, le forme di pace cui l’anima aspira: la pace legata alla serenità (in Chiare, fresche et dolci acque il luogo è così amato dal protagonista, da indurlo a confessare «ch’altrove non ò pace»); la pace in senso politico, nella canzone 128, che si conclude con una triplice invocazione: «I’ vo gridando: Pace, pace, pace». Nell’ultimo testo, la canzone Vergine bella, la pace indica il superamento del tormentoso conflitto interiore e l’approdo a Dio. Le tre cantiche del poema dantesco si chiudono tutte sulla parola stelle, a indicare il raggiungimento della sfera che nella visione simbolica medievale rappresenta il divino, e perciò stesso l’allontanamento dalla dimensione terrena; Petrarca chiude invece significativamente la sua opera con la parola pace, sigillo simbolico di un itinerario tormentato, tutto all’interno dell’anima.

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4 Le scelte stilistiche del Canzoniere e l’unilinguismo Alla ricerca del volgare perfetto Petrarca non ha lasciato scritti sulla lingua, ma, indirettamente, evidenzia il proprio ideale stilistico attraverso l’incessante lavoro di correzione delle rime, testimoniato dal cosiddetto “codice degli abbozzi”, il Vat. Lat. 3196, costellato di annotazioni scritte dal poeta come promemoria per correzioni che intendeva fare. Attorno ai testi poetici, sui margini, negli spazi bianchi, vicino a interi versi o a singoli vocaboli, l’autore scrive frasi in latino (la lingua a lui familiare, tanto da servirsene, come qui, anche a scopi pratici): hic placet (“qui mi piace”), dic aliter hic (“qui esprimiti in modo diverso”), non videtur satis triste principium (“l’inizio non sembra abbastanza triste”) e simili autoesortazioni e ipotesi correttive, alla ricerca di quel volgare perfetto che costituisce l’obiettivo delle cure stilistiche. Tale lavoro intenso e sistematico è stato studiato in particolare dal filologo Gianfranco Contini che, attraverso l’esame del sistema delle varianti petrarchesche, ha delineato l’ideale stilistico perseguito da Petrarca. Dante e Petrarca: due scelte stilistiche opposte Contini istituisce un confronto tra Dante e Petrarca relativo alle scelte linguistiche operate dai due grandi poeti. Il critico conia le opposte categorie di “unilinguismo” (per Petrarca) e di “plurilinguismo” (per Dante), categorie in seguito applicate dai critici anche ad altri scrittori di varie epoche, fino ai giorni nostri. Le opposte scelte stilistiche di Dante e Petrarca per Contini sono da mettere in rapporto con la loro visione radicalmente diversa del mondo: il plurilinguismo dantesco nella Divina Commedia corrisponde a una visione “totale” dell’universo. Per il “poema sacro” Dante utilizza una pluralità di registri, adatta a raffigurare la varietà del mondo, toccando tutti gli estremi dello stile, dal livello basso ed espressionistico a quello sublime dell’ineffabilità. Il lessico della Divina Commedia attinge agli ambiti più diversi, arrivando a ospitare persino arditi neologismi; inoltre, Dante, al contrario di Petrarca, non dissimula i contrasti tonali, ma anzi, li enfatizza (un solo esempio: Pd XVII, 129). All’opposto Petrarca, il cui orizzonte nel Canzoniere non è l’universo visto con gli occhi di Dio ma il cerchio ristretto dell’anima, persegue con coerenza scelte stilistiche del tutto diverse, improntate all’unità tonale: limitandosi a esplorare il territorio dell’interiorità, inesauribile oggetto della propria ricerca, Petrarca costruisce la lingua del Canzoniere come un sistema chiuso, dotato di una rigorosa coerenza interna. L’unilinguismo petrarchesco comporta la forte tendenza all’uniformità: di tono, di scelte lessicali, di registro linguistico. Petrarca adotta una lingua rarefatta e selettiva, più elevata del linguaggio quotidiano, evitando di contaminarla con un registro basso, ma rifuggendo anche dall’estremo opposto, l’ardua elevatezza del tono, e l’uso di termini carichi di valenze filosofiche. L’unilinguismo di Petrarca dà luogo a una lingua raffinata, organizzata in un sistema coerente e calcolato, e perciò relativamente facile da imitare; non sorprende perciò che essa sia stata adottata dai poeti lirici successivi e codificata da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua come base per la futura lingua poetica italiana. Le caratteristiche stilistiche del Canzoniere Le principali caratteristiche del linguaggio e dello stile del Canzoniere possono essere così sintetizzate: • lessico: il lessico del Canzoniere è estremamente selettivo. L’autore evita i termini troppo corposi e realistici, quelli eccessivamente specifici, quelli municipali e dialettali, insistendo su una serie di parole chiave, in particolare aggettivi: basti

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Per approfondire Come si legge la grafia di Petrarca

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Per approfondire Il Canzoniere nel tempo

pensare, ad esempio, che, come è stato rilevato, nel Canzoniere l’aggettivo dolce ricorre ben 250 volte; egli privilegia termini vaghi e polisemici, che assumono sfumature differenti a seconda del contesto come vago, vano, chiaro. • figure retoriche: anche le figure retoriche del Canzoniere rispondono alla logica compositiva unitaria della raccolta. Come le parole chiave, alcune metafore ricorrenti stabiliscono collegamenti intratestuali: ad esempio, la metafora della vita come navicella nel mare tempestoso della vita, le immagini belliche applicate all’amore, il fuoco amoroso e così via. Tra le modalità retoriche fondanti del Canzoniere c’è la ricorrenza di termini antitetici accoppiati, come pace/guerra, terra/cielo, vita/morte, che rispecchiano le contrapposizioni (e contraddizioni) che caratterizzano l’universo tematico e simbolico del Canzoniere: amore terreno vs amore celeste, perdizione vs ricerca di salvezza, beni terreni vs beni eterni. All’antitesi si affianca spesso l’ossimoro, che supera le opposizioni logiche nell’unità dell’esperienza vissuta: dolce affanno, fera mansüeta. Altre figure frequenti nelle rime petrarchesche sono quelle “di disposizione”, finalizzate a conferire armonia e ordine al discorso, come il parallelismo, le coppie aggettivali in endiadi, il chiasmo. • sintassi: la sintassi del Canzoniere è logica e piana. Non mancano le subordinate, a evidenziare i rapporti logici tra le proposizioni, ma il discorso tende prevalentemente alla paratassi. • metrica: nei sonetti le pause logiche e sintattiche tendono per lo più a coincidere con quelle metriche, e il discorso raramente travalica i confini dei raggruppamenti metrici delle quartine e delle terzine. Pur presenti, gli enjambements non sono molto frequenti, determinando variazioni poco vistose nel ritmo dei versi che, di andamento piano e armonioso, generalmente coincidono con le unità metriche. Il ritmo delle canzoni petrarchesche (peraltro sempre più fluido di quello dei sonetti) varia a seconda che prevalgano i settenari, che conferiscono scorrevolezza e musicalità, o gli endecasillabi, preferiti per ottenere toni più gravi e sostenuti. • suoni: anche i suoni della poesia petrarchesca sono ispirati all’ideale di medietà e sfumature monotonali che caratterizza la raccolta. Prevalgono le parole piane, spesso bisillabe, e sono frequenti le allitterazioni; rari i suoni duri e cupi, e quelli troppo marcati sul piano fonico.

Il Canzoniere TITOLO

Rerum vulgarium fragmenta (“Frammenti di cose volgari”); Canzoniere.

STRUTTURA

trecentosessantasei componimenti (di cui trecentodiciassette sonetti, ventinove canzoni, nove sestine, sette ballate e quattro madrigali) suddivisi in due parti: “la vita di Laura” (1-263), dove prevalgono le passioni mondane; “la morte di Laura” (264-366), dove prevalgono temi etico-religiosi.

ARGOMENTO

l’amore per Laura

TEMI

l’io del poeta in conflitto, il contrasto amore-fede, la visione ambivalente dell’amore, la caducità delle cose umane, il pentimento, la corruzione della Chiesa

GENERE

raccolta poetica

STILE

unilinguismo (uniformità di tono, di scelte lessicali, di registro linguistico)

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Francesco Petrarca

T7

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono Canzoniere, 1

F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

AUDIOLETTURA

La miglior chiave di lettura dell’intero Canzoniere è il sonetto proemiale, quasi certamente scritto nel periodo in cui Petrarca, dopo la morte di Laura, concepì il progetto di riunire le rime sparse in un libro unitario, quindi probabilmente intorno agli anni 1349-1350. Posto come introduzione alla raccolta, il sonetto ne è anche, idealmente, la sintesi conclusiva: il componimento ne indica infatti i destinatari, la natura, i temi, le caratteristiche, ma traccia anche una sorta di bilancio esistenziale.

Voi ch’ascoltate1 in rime sparse2 il suono di quei sospiri3 ond’io nudriva ’l core4 in sul mio primo giovenile errore5 4 quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono6, del vario stile in ch’io piango et ragiono fra le vane speranze e ’l van dolore7, ove sia chi per prova intenda amore8, 8 spero9 trovar pietà, nonché perdono.

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Interpretazioni critiche Marco Santagata L’errore del sonetto proemiale

Ma ben veggio or sí come al popol tutto favola fui gran tempo10 onde sovente 11 di me medesmo meco mi vergogno11 et del mio vaneggiar12 vergogna è ’l frutto, e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente 14 che quanto piace al mondo13 è breve sogno14.

La metrica Sonetto con schema di rime ABBA ABBA CDE CDE 1 Voi ch’ascoltate: il sonetto si apre con un’invocazione ai destinatari dell’opera, ma il vocativo resterà sospeso e non seguito a distanza da alcun verbo; a partire dal v. 2, l’attenzione si rivolge invece al sogg. di prima persona, più volte richiamato nei versi seguenti da pronomi e aggettivi possessivi. Non a caso il poeta si rivolge ad ascoltatori (ascoltate) e non a lettori, perché egli chiede una partecipazione ai propri sentimenti, trasmessi con maggior immediatezza dalla voce che non dalle parole scritte. 2 rime sparse: l’espressione corrisponde al titolo latino della raccolta, Rerum vulgarium fragmenta, e sottolinea il carattere fondamentale del libro, pensato come una raccolta di poesie corrispondenti a momenti, stati d’animo, sentimenti diversi e spesso in contraddizione tra loro. 3 suono… sospiri: l’allitterazione della s, evidenziata dall’enjambement tra i vv. 1 e 2, sottolinea il legame tra la poesia (suono) e la sofferenza amorosa (sospiri). 4 ond’io… core: di cui alimentavo il mio animo. 5 giovenile errore: l’amore per Laura, visto come una peccaminosa deviazione

dalla retta via della fede, dovuta alla passionalità giovanile. 6 quand’era… sono: quando ero, almeno in parte, un uomo differente da quel che sono adesso; nel verso viene sottolineato il confronto fra il giovane che ha scritto poesie amorose e l’uomo più saggio e maturo che le ha raccolte e ordinate. Il mutamento non è stato però completo: l’io nuovo differisce solo in parte dall’io del passato. 7 del vario stile… van dolore: dello stile mutevole attraverso il quale esprimo le mie sofferenze e le mie riflessioni, tra speranze e dolore, entrambi vani nella prospettiva dell’eterno. Le caratteristiche della raccolta petrarchesca, oscillante fra stati d’animo contraddittori, fra illusione e disillusione, si riflette in un diverso stile delle rime, ora liete, ora malinconiche; l’espressione vario stile è messa in rilievo dall’anticipazione. La parola chiave vane neutralizza l’opposizione tra speranze e dolore, accomunandoli nella vanità propria delle cose terrene. 8 ove sia… amore: qualora vi sia qualcuno che abbia provato per esperienza che cosa sia l’amore. Il “lettore ideale” a cui è destinata l’opera è colui che ha provato gli stessi sentimenti e le stesse passioni dell’autore, ed è perciò in grado di comprenderlo.

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9 spero: con un anacoluto, dato che il soggetto voi del v. 1 non è seguito a distanza da alcun verbo, al v. 8 si passa alla prima persona, spero, che sposta l’attenzione dai destinatari all’io del protagonista. La costruzione irregolare mette in evidenza la centralità dell’io del poeta, vero soggetto della raccolta. 10 Ma ben veggio… gran tempo: ma ora mi accorgo chiaramente come per tutte le persone sono stato a lungo oggetto di derisione. Le terzine si aprono con un’antitesi che pone in contrasto il passato del giovenile errore e il presente della consapevolezza e della maturità, tracciando fra di esse una netta linea di separazione. 11 di me… vergogno: l’allitterazione del suono “me” concentra l’attenzione sul protagonista del Canzoniere, sottolineando il suo sentimento di vergogna. 12 vaneggiar: inseguire beni vani. Vaneggiare è parola chiave del Canzoniere, legata al tema della vanitas. I beni terreni, transitori, sono contrapposti a quelli spirituali, eternamente durevoli, e il poeta si rammarica di aver posto al centro dell’esistenza beni caduchi, che non meritavano la passione ad essi rivolta. 13 al mondo: durante la vita terrena. 14 vergogna… sogno: conseguenze dell’aver inseguito cose vane sono la vergogna, il pentimento e la consapevolezza che i beni terreni sono illusioni fuggevoli come un sogno. Nelle terzine del sonetto proemiale viene delineato il percorso psicologico che sarà proprio del Canzoniere: con il tempo, il poeta riconoscerà la vanità delle cose terrene e si pentirà di aver dedicato ad esse, fugaci come un sogno, tanta passione e dedizione. La parola sogno che chiude il sonetto (significativamente in rima con vergogno e in assonanza con suono) mette in evidenzia tuttavia anche il fascino dell’amore e delle cose mondane, da cui il poeta non riesce a staccarsi del tutto.


Analisi del testo Il sonetto proemiale come chiave di lettura dell’intera raccolta Nell’esordio del sonetto proemiale (per Santagata, un «sonetto-manifesto» ➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE L’errore del sonetto proemiale OL) Petrarca presenta il proprio lavoro come raccolta di “rime sparse”: l’espressione rimanda al titolo latino, Rerum vulgarium fragmenta, e sottolinea le oscillazioni psicologiche che stanno alla base della composizione delle rime e che si riflettono nella struttura e nella forma dell’opera.

Un nuovo rapporto autore-lettore In secondo luogo, Petrarca evidenzia già nell’apertura della raccolta un rapporto innovativo dell’io lirico con i lettori: egli infatti non si propone loro come guida e modello ma, confessando i propri errori e debolezze, si pone sullo stesso piano del pubblico, con il quale cerca di creare una condizione di “simpatia” (nel senso etimologico) coinvolgendolo subito attraverso l’allocuzione che apre il Canzoniere (Voi ch’ascoltate...). La differenza con la Commedia non potrebbe essere maggiore: se Dante si offre come autorevole maestro capace di istruire un lettore-discepolo, indirizzando un messaggio salvifico a tutta l’umanità («Nel mezzo del cammin di nostra vita»), i destinatari del Canzoniere sono invece pensati come un pubblico selettivo, immaginato nella condizione intima e raccolta, propria della prima tradizione lirica, dell’ascolto (ascoltate… il suono); insomma, confidenti-amici accomunati all’io lirico dall’esperienza amorosa, spesso difficile e dolorosa («ove sia chi per prova intenda amore / spero trovar pietà»).

Un bilancio esistenziale L’elemento del tempo, fondamentale nel Canzoniere, assume grande rilevanza fin da questo primo testo. Il sonetto proemiale mostra infatti come la raccolta non si riferisca a un momento parziale dell’esperienza dell’autore, ma raccolga il senso di tutta la sua vita, ripercorsa nei suoi diversi momenti, dal giovenile errore del primo innamoramento alla disillusione sopravvenuta nel momento in cui si è compresa la vanità delle cose terrene («quanto piace al mondo è breve sogno»). Ma già si anticipa al lettore che l’esito della storia non sarà un completo mutamento del protagonista («era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono»): il Canzoniere si presenta dunque, come giustamente si è detto, come una sorta di “romanzo di formazione” incompiuto. Con lo sguardo del presente, frutto di una raggiunta consapevolezza e maturità di giudizio (si noti l’espressione fortemente assertiva: «ben veggio or sì»), il protagonista condanna il proprio passato ma, al contempo, riconosce di non essersene ancora del tutto liberato.

I modelli etici irraggiungibili di Petrarca Come hanno segnalato in particolare gli studi di Marco Santagata, due sono i modelli etici a cui Petrarca si ispira: uno classico, il saggio stoico; l’altro cristiano, il convertito sant’Agostino. Il saggio stoico è colui che, dopo un lungo apprendistato filosofico, ha imparato a tenere a freno le passioni, conformando la propria vita alla ragione; ma Petrarca nel Canzoniere si dichiara incapace di raggiungere tale ideale, mostrandosi costantemente insidiato dalle passioni e incapace di autocontrollo. Allo stesso modo è irraggiungibile per lui, almeno fino alle ultime rime, il modello esemplare di sant’Agostino, che vive nel peccato la prima parte della propria esistenza ma attua poi una profonda conversione, appagando la propria inquietudine esistenziale nell’approdo al divino: una svolta radicale di cui Francesco si rivela incapace.

I campi lessicali del sonetto Il lessico di questo primo sonetto afferisce a campi semantici che saranno distintivi dell’intera opera. In primo luogo assume già notevole spicco quello della vanità (vane speranze, van dolore, vaneggiar) delle cose terrene, che richiama sia un ideale religioso ascetico, di ispirazione biblica (si pensi all’Ecclesiaste 1, 2, «vanitas vanitatum et omnia vanitas», “vanità delle vanità e tutto è vanità”) sia l’idea della caducità dei beni terreni, che trova un sigillo nella chiusa sentenziosa. Il lessico evidenzia inoltre un altro tema portante della raccolta petrarchesca, quello della vergogna, parola chiave al v. 12, già preannunciata dalla voce verbale mi vergogno del v. 11, a conclusione della prima terzina: il termine così evidenziato sottolinea la consapevolezza del peccato e dell’errore, ma anche la difficoltà a superarlo.

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Il livello fonico L’apparente scorrevolezza dei versi non deve ingannare. Petrarca costruisce una tessitura fonica ricercata e meditata: spicca in particolare l’uso insistito dell’allitterazione, a cominciare dai primi due versi, in cui domina la ripetizione della s, accentuata dall’enjambement (ascoltate / sparse / suono / sospiri), e del gruppo /ri/ (Rime / sospiRi, nudRiva, pRimo). Il v. 11 è particolarmente importante: suggella il blocco delle due quartine e presenta un’allitterazione che intensifica ulteriormente la ripetizione ossessiva del pronome in prima persona (di me medesmo meco mi vergogno), suggerendo non solo la centralità assoluta dell’io lirico nell’opera, ma anche la tortuosità che ne caratterizza il vissuto interiore. Il filo rosso allitterante che percorre l’intero sonetto prosegue collegando, attraverso la ripetizione insistita del fonema /v/, termini che rimandano al tema della vanità e della vergogna che ne consegue, centrale nel testo proemiale (e anche nell’intera opera): vane / van / vaneggiar / vergogna; ed è significativo che lo stesso fonema ricorra anche al v. 9, nel verbo veggio, che rinvia alla consapevolezza razionale della colpa. Il livello fonico esercita dunque un ruolo primario nella costruzione di un messaggio poetico che già si annuncia come nuovo e complesso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. COMPRENSIONE 2. Per quanto è detto nel sonetto proemiale, chi sono i destinatari del Canzoniere? ANALISI 3. Che cosa significa vario stile e come tale caratteristica delle rime è posta in rapporto con il piano etico? 4. Qual è il duplice significato della parola errore nel sonetto? 5. Rintraccia e trascrivi gli aggettivi del sonetto, evidenziando (max 10 righe) come attraverso di essi sia presentato il giudizio dell’autore sulla propria vita e sulla propria poesia. Ti sembra un giudizio positivo o negativo? Ti sembra legato a una concezione della vita religiosa o laica? STILE 6. Quale figura retorica è utilizzata nell’espressione io nudriva ’l core (v. 2)? 7. Osserva la struttura bipartita del sonetto e rifletti sull’uso: a. della punteggiatura; b. degli enjambements; c. del ma avversativo nelle terzine. La divisione in due parti del sonetto riflette in qualche modo i due momenti esistenziali della vita del poeta? Quali temi contraddistinguono ciascuna di esse?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 8. Dopo aver letto il passo critico di Santagata (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE L’errore del sonetto proemiale OL), spiega in che senso l’“io” descritto nel sonetto possa essere giudicato attraverso un confronto con l’ideale del sapiente stoico e del convertito secondo il modello agostiniano. 9. Un altro tema portante di tutta la raccolta petrarchesca, anticipato in questo sonetto proemiale, è quello della vergogna (evidenziato soprattutto dalle parole chiave ai vv. 11-12); rifletti sulla consapevolezza del peccato e dell’errore ma anche sulla difficoltà a superarlo, secondo Petrarca.

344 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


Studiare con l'immagine SCRITTURA 10. Prova a interpretare la pagina miniata del sonetto proemiale aiutandoti con le seguenti domande: a. Perché Petrarca è inginocchiato di fronte a Laura? b. Quale gesto sta compiendo Laura nei confronti del poeta? c. Come è rappresentato Amore? d. Che cosa vedi sullo sfondo? Dopo aver completato il lavoro confronta le tue risposte con i contenuti dell’immagine interattiva.

IMMAGINE INTERATTIVA

Petrarca colpito dalla freccia scoccata da Amore e incoronato da Laura, pagine miniate del sonetto proemiale Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, sec. XV (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana).

Il Canzoniere 3 345


T8

Il dissidio interiore I due sonetti che seguono focalizzano la distanza tra la concezione stilnovistica (in particolare dantesca) dell’amore come esperienza edificante e addirittura salvifica e la percezione petrarchesca dell’amore come colpevole passione terrena, in contrasto con la fede.

Francesco Petrarca

T8a

Era il giorno ch’al sol si scoloraro Canzoniere, 3

F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

Probabilmente composto dopo la morte di Laura, e quindi più di vent’anni dopo l’evento descritto, il sonetto (è il terzo) costituisce una sorta di prologo narrativo del Canzoniere: vi si narra infatti il momento dell’innamoramento, avvenuto, secondo l’autore, nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, durante la liturgia del Venerdì Santo.

Era il giorno ch’al sol si scoloraro per la pietà del suo Factore i rai1, quando i’ fui preso, et non me ne guardai2, 4 ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro3. Tempo non mi parea da far riparo contra’ colpi d’Amor4: però5 m’andai secur, senza sospetto6; onde i miei guai7 8 nel commune dolor8 s’incominciaro. Trovommi Amor del tutto disarmato, et aperta la via per gli occhi9 al core, 11 che di lagrime son fatti uscio et varco10: però, al mio parer, non li fu honore ferir me de saetta11 in quello stato, 14 a voi armata non mostrar pur l’arco12.

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE 1 Era… rai: era l’anniversario del giorno in cui si oscurarono i raggi del sole per pietà del proprio Creatore. Alla morte di Cristo, come raccontano i Vangeli, il sole si oscurò e sulla terra discesero le tenebre. La partecipazione cosmica al dolore della Passione sottolinea la colpa di Francesco, che si estranea dal commune dolor degli altri fedeli. L’oscurarsi dei raggi del sole allude forse simbolicamente all’oscurarsi della coscienza del protagonista. 2 non me ne guardai: non opposi difesa. Il verbo introduce la metafora dell’amore come guerra, successivamente sviluppata nel sonetto. 3 mi legaro: mi legarono. Il legame amoroso segna la fine della libertà inte-

riore dell’innamorato, distogliendolo dal vero Bene. 4 Tempo… Amor: nella triste ricorrenza religiosa, l’innamoramento coglie Francesco di sorpresa, impreparato a difendersi. 5 però: perciò. 6 senza sospetto: senza prevedere ciò che sarebbe accaduto. È una citazione dantesca dell’episodio di Paolo e Francesca: «soli eravamo e sanza alcun sospetto» (If V, 129): incapace di dominare i propri sentimenti con la ragione, Francesco cade nello stesso peccato dei celebri amanti della Divina Commedia. 7 guai: lamenti. Il termine dantesco, evidenziato dall’enjambement, sottolinea il contrasto fra il dolore dei devoti cristiani e le private sofferenze amorose di Francesco. 8 commune dolor: il dolore comune dei devoti cristiani.

346 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca

9 per gli occhi: attraverso gli occhi. L’amore nasce guardando la donna. 10 che di lagrime… varco: dagli occhi, da cui nasce l’innamoramento, usciranno poi molte lacrime. Essi divengono perciò uscio et varco (coppia sinonimica), ossia via d’uscita per le lacrime. 11 de saetta: con una freccia. L’Amore fornito di arco e frecce è un topos della poesia amorosa, a partire dai testi classici. 12 a voi… arco: mentre a voi Laura, armata di virtù, non mostrare neppure l’arco. Laura non è minimamente toccata dalla passione. Nel sonetto, che costituisce una sorta di prologo narrativo del Canzoniere, la donna è descritta come fredda e indifferente nei confronti dell’amante, preda della passione. È l’immagine di Laura che predomina nella prima parte del Canzoniere.


Analisi del testo La coincidenza tra il momento dell'innamoramento e l'evento religioso La coincidenza sembra in realtà creata ad arte dal poeta per sottolineare il carattere peccaminoso dell’innamoramento, perché il 6 aprile 1327, giorno in cui Francesco racconta di aver visto Laura per la prima volta, non era un venerdì, ma un lunedì (e quell’anno il Venerdì Santo cadde il 10 aprile).

Il carattere narrativo del sonetto Organizzando le rime nel Canzoniere, Petrarca non affida la narrazione della vicenda amorosa a un commento in prosa, come Dante nella Vita nuova, ma lo fa emergere da una ben calcolata successione di testi. Perciò racconta i principali eventi della circostanza inserendo anche poesie composte a posteriori, come questo sonetto, il terzo della raccolta (con ogni probabilità composto dopo la morte di Laura, quindi più di vent’anni dopo l’evento descritto); il componimento rievoca, in una sorta di flash back, l’innamoramento del protagonista. Già l’incipit, Era il giorno, sottolinea il carattere narrativo del sonetto, contraddistinto dai tempi verbali al passato, mentre il tempo consueto della lirica è il presente atemporale.

Il codice mitologico-cortese Due sono i “racconti” che qui si intrecciano e si contrappongono: un racconto di stampo classicheggiante e cortese e uno di ispirazione cristiana. Il primo livello narrativo delinea il rapporto tra i due protagonisti della raccolta attraverso un topos della poesia, appunto, classica e cortese (Amore è armato di arco e frecce): Laura, fredda e indifferente, non è colpita dalle frecce amorose; perciò non ricambia la passione dell’amante, che invece è reso prigioniero dagli occhi della donna (i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro) e condannato alla sofferenza.

L’amore come peccato e inversione dei valori Ma più importante è il contesto cronologico in cui avviene (o, meglio, si vuole che sia avvenuto) l’innamoramento, che dà luogo a una narrazione dal significato cristiano: proprio nel giorno della Passione di Cristo, quando il cosmo intero, con l’oscurarsi dei raggi del sole, sembra partecipare al dolore universale, Francesco intraprende la via solitaria del peccato, rivolgendo verso una donna l’amore che, soprattutto in quel giorno, avrebbe dovuto essere dedicato soltanto a Dio. La contrapposizione con gli altri fedeli evidenzia la natura sensuale e peccaminosa di questo sentimento: mentre tutti i cristiani sono uniti nel dolore (commune dolor) per la Passione di Cristo, Francesco soffre per una ragione individuale e privata (i miei guai) e, rovesciando la scala dei valori, antepone l’amore profano a quello sacro. Attraverso il riferimento al Venerdì Santo come momento dell’innamoramento, Petrarca si pone in un confronto dialettico con Dante: anche il viaggio ultraterreno della Commedia, infatti, era iniziato lo stesso giorno. Alcuni termini ripresi dal V canto dell’Inferno dantesco (senza sospetto e guai), suggeriscono un’analogia tra Francesco, fuorviato dalla passione amorosa, e la schiera dantesca dei lussuriosi, che «la ragion sommettono al talento».

Antonio Grifo, illustrazione del sonetto Movesi il vecchierel (particolare) dall’apparato decorativo del Petrarca miniato nell’incunabolo INC. G. V. 15, foglio 4v, 1470 (Brescia, Biblioteca Civica Queriniana).

Il Canzoniere 3 347


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in una frase il contenuto di ciascuna delle quartine e delle terzine; poi ricavane un breve testo. COMPRENSIONE 2. Quando, secondo il poeta, ebbe inizio il suo amore per Laura? Quale valore simbolico assumono le circostanze dell’innamoramento? ANALISI 3. Il sonetto ha un carattere narrativo: analizzane lo spazio, il tempo, il sistema dei personaggi, le azioni. LESSICO 4. Rintraccia nel testo i termini e le espressioni che evidenziano l’accostamento tra la dimensione sacra e quella profana e trascrivili in una tabella. Spiega poi in un breve testo (max 10 righe) come si configura nel sonetto il rapporto fra tema religioso e tema amoroso. amore sacro

amore terreno

STILE 5. Individua le metafore e le personificazioni presenti nel testo.

Interpretare

SCRITTURA 6. Il tema del primo incontro tra il poeta e la donna amata è centrale in questo passo del Canzoniere come nella Vita nuova di Dante. Confronta l’incontro fra Petrarca e Laura con quello fra Dante e Beatrice. Evidenzia analogie e differenze tra le due situazioni narrative ed esponi le tue riflessioni in un breve testo (max 15 righe).

online T8b Francesco Petrarca

Movesi il vecchierel canuto et biancho Canzoniere, 16

online T9 L'ambivalenza dell'amore T9a Francesco Petrarca Benedetto sia 'l giorno, et 'l mese, et l'anno Canzoniere, 61 T9b Francesco Petrarca Padre del ciel, dopo i perduti giorni Canzoniere, 62

348 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


T10

Lo spazio dell’io Molti sonetti di Petrarca sono dedicati all’analisi della sua condizione interiore, il vero protagonista del Canzoniere è il poeta stesso lacerato tra opposte spinte interiori.

online T10a Francesco Petrarca

Passa la nave mia colma d’oblio Canzoniere, 189

Francesco Petrarca

T10b

O cameretta che già fosti un porto

LEGGERE LE EMOZIONI

Canzoniere, 234 F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

Attraverso il riferimento alla propria cameretta, a cui l’io lirico si rivolge, Petrarca dà ancora una volta voce alle proprie contraddizioni in rapporto alle sue pene d’amore. La cameretta è intesa come spazio dell’intimità e del silenzio: se in passato lì il poeta trovava pace, ora essa è divenuta fonte di paura e sofferenza.

O cameretta che già1 fosti un porto2 a le gravi tempeste3 mie diürne, fonte se’ or di lagrime nocturne, 4 che ’l dí celate per vergogna porto.4 O letticciuol5 che requie6 eri et conforto in tanti affanni, di che dogliose urne7 ti bagna Amor, con quelle mani8 eburne,9 8 solo ver ’me crudeli10 a sí gran torto! Né pur11 il mio secreto e ’l mio riposo fuggo12, ma piú me stesso e ’l mio pensero, 11 che, seguendol, talor levommi a volo;13 e ’l vulgo a me nemico et odïoso (chi ’l pensò mai?)14 per mio refugio chero:15 14 tal paura ò di ritrovarmi solo. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE 1 2 3

già: in passato. porto: rifugio. tempeste: tormenti, angosce. 4 fonte… porto: ora, durante la notte, sei fonte di lacrime, che durante il giorno cerco di nascondere per vergogna. 5 letticciuol: piccolo letto. 6 requie: quiete, riposo. 7 urne: contenitori delle lacrime (occhi del poeta che contengono lacrime di dolore).

8 con quelle mani: tramite le mani di Laura.

9 eburne: eburnee, bianche come l’avorio. 10 ver ’me crudeli: verso di me crudeli. 11 pur: solo. 12 fuggo: evito. 13 che, seguendol, talor levommi a volo: benché il mio pensiero, in passato, mi diede ispirazione per compiere opere di valore (mi permise di innalzarmi). 14 (chi ’l pensò mai?): chi l’avrebbe mai creduto? 15 chero: cerco.

Testo e illustrazione del sonetto O cameretta che già fosti un porto di Antonio Grifo, dall’apparato decorativo del Petrarca miniato nell’incunabolo INC. G. V. 15, foglio 73r, 1470 (Brescia, Biblioteca Civica Queriniana).

Il Canzoniere 3 349


Analisi del testo Il contenuto e la struttura Il sonetto è articolato su una netta antitesi tra passato e presente in rapporto alla trasformazione che l’amore non corrisposto (si allude infatti a una ingiusta crudeltà della donna, qui rappresentata simbolicamente dalle sue mani bianche) ha prodotto nel poeta. Il medium di cui si serve qui Petrarca per sviluppare la sua riflessione esistenziale è la piccola camera e il piccolo letto in essa collocato a cui l’io lirico si rivolge direttamente nelle due quartine, con due vezzeggiativi che ne sottolineano la valenza affettiva. Mentre in passato il poeta era solito trovare in quello spazio privato, lontano dalla gente, rifugio e riparo dalle sofferenze, ora invece rifugge da esso; ma soprattutto arriva a cercare paradossalmente la compagnia del vulgo.... nemico et odÏoso, perché la solitudine e il confronto con sé stesso gli fanno paura. L’antitesi tra due diversi modi di essere e di vivere si traduce nelle due quartine in un netto contrasto temporale, espresso dall’alternanza di tempi verbali (fosti... se’or; eri...ti bagna). Torna nel testo un tema caro a Petrarca, la solitudine, che assume però qui una valenza conflittuale. Persino il volgo, cioè la gente comune, da cui il saggio tende per sua natura (e per aristocratica visione del mondo) a isolarsi, diventa un possibile interlocutore pur di non guardare in faccia il proprio dolore.

La crudeltà di Amore Quale sia la fonte della sofferenza è velatamente rivelata dal poeta ai versi 7-8: il responsabile della trasformazione dei due occhi del poeta in due vasi di dolore, urne, è Amore con mani bianchissime, crudeli solo verso il poeta. A lungo la critica si è interrogata sull’appartenenza di queste mani; recentemente il critico Santagata ha sottolineato il fatto che Amore e Laura nel sonetto si sovrappongono e alla fine si confondono l’uno con l’altra. Laura e il poeta, affresco anonimo sec. XVI (Arquà Petrarca, Casa del Petrarca). Laura è ritratta mentre tiene in mano il cuore dello scrittore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Fai il riassunto del sonetto. ANALISI 2. Nel sonetto sono presenti numerose antitesi: individuale e spiegane il significato. LESSICO 3. Rintraccia i latinismi presenti nel sonetto e con l’aiuto del dizionario ricostruiscine l’etimologia. STILE 4. Il sonetto è intriso di metafore: rintracciale nel testo e spiegane il significato.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

TESTI A CONFRONTO 5. Nel sonetto ricompare il tema della vergogna del poeta di fronte alla sua sofferenza non celata. In quale altra poesia che hai letto compare con insistenza il tema della vergogna? Fai un confronto. SCRITTURA 6. Nel sonetto, ai vv. 9-10 («Né pur il mio secreto e ’l mio riposo fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero») il poeta afferma di fuggire da sé stesso e dal suo pensiero. Molte volte, nella nostra vita, ci ritroviamo a provare un’inquietudine interiore dovuta a una sofferenza che ci porta a volerci allontanare da noi stessi e da ciò che sentiamo dentro, tanto da desiderare la compagnia altrui per non sentire dolore. In tutto questo risiede la modernità di Petrarca, che descrive una situazione che possiamo vivere anche noi oggi. Ti è mai capitato di trovarti in una situazione di questo tipo? Se sì, descrivila.

350 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Marco Santagata Il nuovo spazio dell’io nella poesia petrarchesca M. Santagata, Introduzione a Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Mondadori, Milano 1996

Il passo critico evidenzia la novità della poesia amorosa petrarchesca, che sostituisce alla rappresentazione della donna l’analisi dell’io del poeta: una novità che sarebbe stata alla base della lirica successiva, con un’influenza su tutta la letteratura europea. Per la prima volta la resa della passione amorosa è sottoposta a un severo giudizio morale: ne consegue un amalgama di poesia lirica e riflessione etica che costituisce la profonda originalità del Canzoniere. Nella seconda parte del passo, il critico indaga sui fondamenti etici dell’analisi petrarchesca, mettendo in luce l’importanza basilare della filosofia stoica e delle Confessioni di Agostino.

Petrarca opera dunque un vero e proprio rovesciamento della tradizione. Il soggetto che desidera viene con lui ad occupare quello spazio che era riservato alle rappresentazioni della donna, ai rituali del corteggiamento, all’analisi oggettivante di amore. Il palcoscenico sul quale si sceneggiava il rapporto triadico1 Amore, 5 amata e amante si trasforma nello spazio dell’“io”. Questo, che a prima vista può sembrare un impoverimento, nei secoli si rivelerà un territorio sconfinato. È anche grazie a questa scelta che Petrarca diventerà il caposcuola della poesia moderna. Egli ha sottratto il discorso amoroso ai condizionamenti storici, alle trasformazioni dei contesti sociali e culturali e ne ha fatto 10 una zona franca, capace di rigenerarsi con il trascorrere del tempo. La scelta, benché indipendente, è omogenea a quella linguistica. L’una e l’altra definiscono la moderna poesia erotica2 come spazio dell’“io” e delle sue contraddizioni. Niente impedisce di interpretare l’“io” petrarchesco in chiave psicologica e di analizzarne i dinamismi pulsionali3 con i moderni strumenti della critica psicoa15 nalitica. Per una esatta collocazione storica, tuttavia, è bene non dimenticare che agli occhi del poeta Petrarca l’“io” non è tanto un campo di tensioni psicologiche, quanto lo spazio della coscienza, spazio misurabile attraverso le categorie dell’etica e della morale. La negazione del desiderio scatta in lui da una controspinta ideologica: la consapevolezza, vissuta anche come contraddizione dolorosa, della 20 sua negatività etica. Il disvalore può investire la sfera della razionalità, quando l’amore è sentito come passione dell’anima, turbamento degli equilibri intellettuali, o quella etico-religiosa, quando l’amore è vissuto come peccato, turbamento dell’ordine provvidenziale del creato: in ogni caso, la sua negatività è misurabile, esprimibile e giudicabile. L’“io” non è dunque un imprendibile fascio di forze e 25 di contraddizioni, ma un punto di riferimento sicuro, esplorabile con gli strumenti della logica e della filosofia; […] i percorsi dell’analisi interiore conducono là dove mai era giunta la lirica romanza precedente, vale a dire, a fare di quell’istanza locutrice4 priva di autonomo spessore che era l’“io” un personaggio vero e proprio. I parametri culturali con i quali Petrarca misura l’esperienza amorosa consistono 30 in un amalgama di stoicismo e di agostinismo. L’uno e l’altro, separatamente o congiunti, non rientravano nell’orizzonte dei lirici romanzi. Ecco dunque che nel richiamo all’ordine di Petrarca ancora una volta individuiamo una componente culturale che ci allontana dalla poesia in volgare e ci riporta in quel territorio umanistico dal quale Petrarca guarda alla modernità. Il che non significa avallare 35 la vecchia tesi del dissidio fra antico e moderno e dell’uomo nuovo divaricato fra cielo e terra. Al contrario, bisogna insistere sulle valenze cristiane del suo uma-

Il Canzoniere 3 351


INTERPRETAZIONI CRITICHE

nesimo, sul fatto che egli abbia introdotto nel discorso amoroso la dimensione etica, abbia trasformato una tradizione sostanzialmente laica nella palestra di una continua esercitazione moralistica, abbia sostituito ai giudizi di valore commisurati 40 ai codici sociali la problematica del valore morale commisurato alle nozioni di grazia e di peccato. […] Il valore etico risiede nel fatto che l’“io” viene proposto come esemplare e rappresentativo del “noi” dei lettori. [...] La filosofia stoica, appresa sulle pagine di Cicerone, di Seneca e dello stesso Ago45 stino, forniva a Petrarca un modello laico di saggezza. Saggio è chi ha il completo controllo delle passioni e dei sentimenti, colui che è sempre presente a sé stesso in qualunque situazione si trovi. Non lo turbano sconvolgimenti interiori o eventi esterni. La ragione predomina sui sentimenti, l’autocontrollo sull’istintualità. Il saggio è “uno”: cioè padrone della sua intera personalità. Un modello siffatto 50 consentiva un’autobiografia in due tempi: ad un primo tempo caratterizzato dalla dissipazione e dalla dispersione dell’“io”, preda delle passioni e delle illusioni mondane, poteva correlarsi una seconda fase caratterizzata dalla raggiunta saggezza e dalla conquista di un quadro stabile di valori. Petrarca individua nel percorso stoicizzante verso l’apatia5 il punto saliente 55 dell’autobiografia da consegnare ai posteri. Tradotto in racconto, quel percorso richiede una conversione, il racconto di come dal vecchio nasca l’uomo nuovo. E qui si inserisce l’altro modello, quello di Agostino, con il suo esempio di grande intellettuale che ha una conversione al centro della sua vita e che, soprattutto, quella conversione racconta in un libro autobiografico: le Confessiones. 1 2 3

triadico: in triade, a tre. erotica: amorosa. dinamismi pulsionali: moti dovuti al desiderio; pulsione è un termine che appartiene al linguaggio psicanalitico e che indica gli impulsi psichici.

4 istanza locutrice: l’io lirico, colui che parla nella poesia (locutrice deriva dal verbo lat. loqui, “parlare”).

5

apatia: è la suprema virtù dello stoico che, vivendo secondo ragione, non si lascia dominare dalle passioni, ma le sa tenere a freno.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Sintetizza la tesi proposta dal critico, indicando i passaggi fondamentali della sua argomentazione. 2. In che cosa consiste, a giudizio del critico, il rovesciamento della tradizione (r. 1) operato da Petrarca nel Canzoniere? 3. Che cosa significa affermare che Petrarca ha fatto del discorso amoroso una zona franca (r. 10)? 4. Come giustifica Santagata il giudizio secondo cui ricondurre l’analisi dell’“io” petrarchesco a un approccio di tipo psicoanalitico risulta inadeguato? 5. In che senso il critico corregge la vecchia tesi (r. 35) secondo cui in Petrarca si scontrano antico e moderno, il richiamo della terra e quello del cielo? 6. Santagata presenta, secondo un’ottica originale, la “modernità” di Petrarca e il suo decisivo contributo alla fondazione della poesia amorosa che si svilupperà nei secoli successivi. Ripercorrendo l’evolversi della lirica amorosa medievale illustra ed esemplifica tale giudizio, sulla base delle tue letture e delle tue conoscenze di studio. Elabora le tue opinioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

352 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


T11

Il paesaggio della natura come proiezione dell’io e come confidente Uno degli elementi di novità introdotto da Petrarca è la rappresentazione del paesaggio naturale che si pone “al servizio” dell’interiorità del poeta, è in stretta relazione con essa e ne rispecchia la mutevolezza. Con il paesaggio, l’io lirico intrattiene per la prima volta un dialogo che sarà ripreso in particolare dal romanticismo. Il testo del Canzoniere che meglio rispecchia la presenza di quello che è stato giustamente definito un “paesaggiostato d’animo” è il celebre sonetto Solo et pensoso. Ma altrettanto significativa è la canzone 129, Di pensier in pensier, di monte in monte, che in qualche modo amplifica e arricchisce, anche per l’evocazione della figura di Laura, il tema proposto nel sonetto.

Francesco Petrarca

T11a

Solo et pensoso Canzoniere, 35

F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

Il tema principale di Solo et pensoso è la ricerca di solitudine per tentare di placare il tormento interiore suscitato dalle pene d’amore.

Solo et pensoso1 i piú deserti campi vo mesurando2 a passi tardi et lenti3, et gli occhi porto per fuggire intenti4 4 ove vestigio human l’arena stampi5. AUDIOLETTURA

ANALISI INTERATTIVA

Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti6, perché negli atti d’alegrezza spenti 8 di fuor si legge com’io dentro avampi7: sí ch’io mi credo omai che monti et piagge et fiumi et selve8 sappian di che tempre9 11 sia la mia vita, ch’è celata altrui10. Ma pur sí aspre vie né sí selvagge cercar non so ch’Amor non venga sempre 14 ragionando con meco, et io co∙llui11.

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE 1 Solo et pensoso: i due aggettivi, come emergerà successivamente nel sonetto, sono fra loro strettamente collegati. I pensieri tristi e l’ossessione amorosa spingono infatti il protagonista ad allontanarsi da tutti. 2 vo mesurando: vado misurando, percorro in lungo e in largo, come se li misurassi. Il gerundio sottolinea la lentezza dell’incedere; misurare i propri passi sembra inoltre un tentativo di dare una misura anche agli affanni e all’inquietudine interiore. 3 tardi et lenti: rari e mossi molto lentamente. I due aggettivi costituiscono una coppia sinonimica, stilema tipico del Canzoniere. 4 gli occhi… intenti: volgo gli occhi,

guardo attentamente [a terra] per fuggire; la costruzione irregolare (iperbato) pone l’accento sull’aggettivo intenti, in rima, a sottolineare il contrasto tra la flemma dei passi e l’agitazione interiore che si rivela nello sguardo, ansioso di sfuggire ogni presenza umana. 5 ove… stampi: dove tracce di uomini segnino il terreno, dove cioè ci siano indizi della presenza di altri esseri umani. Il senso è, insomma: “così che, in caso veda orme umane, possa fuggire restando nella mia solitudine”. 6 Altro schermo… genti: non trovo altro riparo «dalla palese consapevolezza del mio stato d’animo che la gente dimostra» (Bezzola); vale a dire, per sottrarmi all’attenzione della gente, che si accorge chiaramente del mio stato. Per non far tra-

sparire la propria sofferenza il poeta non trova altra soluzione che l’isolamento. 7 perché… avampi: perché dai miei gesti, in cui è spenta ogni allegria, si comprende chiaramente come io bruci dentro (per amore); avampi rimanda alla metafora del fuoco, motivo topico della poesia amorosa. 8 monti… selve: il polisindeto, evidenziato dall’enjambement, suggerisce l’impressione che il paesaggio si allarghi in una smisurata vastità, che mette in risalto la solitudine del poeta. 9 di che tempre: di quale tenore, di che genere. La natura stessa sarebbe ormai a conoscenza della tristezza del poeta. L’affermazione conferma la consonanza tra la natura e il protagonista. 10 altrui: alle altre persone. 11 Ma… lui: l’antitesi (Ma pur: “eppure”) che apre l’ultima terzina sottolinea come si possa sfuggire agli altri, ma non a sé stessi. La personificazione di Amore, che segue ovunque il poeta, indica che i pensieri amorosi lo dominano con una forza invincibile. Ragionando vale “discorrendo”; meco “con me”; co·llui, “con lui” (forma assimilata in fonosintassi).

Il Canzoniere 3 353


Analisi del testo Il tema: la malinconia d’amore e la ricerca della solitudine nella natura In Solo et pensoso il tema del paesaggio (in questo caso “selvaggio” e deserto, ben lontano perciò dal locus amoenus) è strettamente collegato alla condizione interiore del protagonista, sofferente per amore e desideroso di isolarsi dagli altri uomini per nascondere il proprio tormento. Universalmente ammirato, questo sonetto è diventato un modello nella letteratura europea per la sua capacità di rappresentare il contatto degli amanti infelici con la natura, capace di lenire i loro affanni. Secoli dopo il Canzoniere, esso ha contribuito all’affermarsi della concezione romantica della natura, vista come specchio e confidente dei sentimenti umani. Il paesaggio non è solo lo sfondo del sonetto e lo specchio dello stato d’animo malinconico del protagonista, ma appare come un vero e proprio personaggio, confidente delle pene amorose del poeta. Il sonetto, non posteriore al 1337, è uno dei primi composti da Petrarca.

Un modo nuovo di rappresentare il paesaggio In Solo et pensoso il paesaggio non è descritto oggettivamente, ma come riflesso dello stato d’animo del protagonista: Petrarca non introduce, infatti, elementi descrittivi di tipo realistico che identifichino i luoghi evocati, ma delinea un paesaggio incolore e stilizzato, dai tratti indeterminati (deserti campi... monti... piagge... fiumi... selve), funzionale a esprimere innanzitutto il desiderio del protagonista di fuggire il più lontano possibile dal contatto con la gente e il suo bisogno assoluto di solitudine: l’uso del polisindeto ai vv. 9-10, enfatizzato dall’enjambement (monti et piagge / et fiumi et selve) delinea uno scenario dilatato, potenzialmente illimitato, entro cui si muove il protagonista, solitario, senza una meta (a simboleggiare l’inquietudine, l’assenza di valori-guida). Altrettanto indeterminato è il tempo dell’azione, registrata da un presente atemporale. In altre connotazioni del paesaggio, memori della selva dantesca ritratta nel primo canto dell’Inferno («sì aspre vie... sì selvagge»), si proietta lo stato d’animo angosciato del protagonista, amante infelice, preda della passione, che diventa ossessione del pensiero.

Lo stile: una forma armonica per un vissuto angoscioso La suggestione esercitata dal sonetto si deve alla forma armoniosa ed equilibrata con cui presenta una condizione in sé penosa e angosciante. Come osservava nell’Ottocento il critico Francesco De Sanctis, è «difficile trovare un sonetto […] che con sì poca ostentazione di passione sia più appassionato». L’armonia dello stile, in questa come in tante altre composizioni del Canzoniere, ha una motivazione etica: analizzare il tormento interiore in modo pacato e riflessivo significa tentare di dominarlo razionalmente, mentre esprimerlo in modo passionale significherebbe cedervi, senza tentare di superarne i lati oscuri e negativi. Tutti gli elementi stilistici del sonetto concorrono a suggerire un’impressione di controllo e di equilibrio, in contrasto con l’evidente angoscia che ne ispira la tematica. Innanzitutto è da rilevare come ogni strofa sia in sé conclusa, col punto fermo o in un caso coi due punti, così da creare un ritmo regolare, lento e scandito, a cui contribuisce ulteriormente la ripartizione di ogni quartina in due distici (cioè in due coppie di due versi ciascuna). Il ritmo dei versi sembra quasi riprodurre quello lento e cadenzato dei passi, in particolare proprio nel secondo verso, grazie al gerundio ingressivo (vo mesurando), ma soprattutto all’iterazione di bisillabi accentati (passi... tardi... lenti). Il componimento è caratterizzato da una sapiente ricerca di simmetrie, di parallelismi, che creano un effetto armonico: spicca in particolare la frequenza di coppie di aggettivi e la loro studiata disposizione, rispettivamente all’inizio e alla fine di versi in successione (solo et pensoso, tardi et lenti) o all’interno dello stesso verso (sì aspre... sì selvagge; con meco... co∙llui). In rapporto antitetico stanno le coppie di verbi spenti/avampi (vv. 7-8) e sappian/celata (vv. 10-11), riferiti questi ultimi rispettivamente al paesaggio-confidente e agli uomini. Ma nel sonetto esiste, poi, tutta una rete di richiami fonici, creati dalle frequenti assonanze e allitterazioni (si veda anche solo i vv. 1-2 e 12) e dai nessi, in rima, di nasale + consonante occlusiva, presenti sia nelle quartine (campi, lenti) sia nelle terzine (tempre, sempre).

354 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Completa la tabella e poi organizza i dati raccolti in una sintesi (max 15 righe). strofa

titolo

tema centrale

parola chiave

I II III IV COMPRENSIONE 2. Perché l’autore del sonetto cerca di sfuggire la presenza di altri esseri umani? STILE 3. A che cosa contribuisce la scelta dell’iperbato al v. 3? 4. Spiega con parole tue le espressioni metaforiche spenti (v. 7) e avampi (v. 8). A quali campi semantici fanno riferimento? Quale rapporto si può instaurare tra i due significati? 5. Nel sonetto c’è una personificazione: quale? Che cosa tende a sottolineare?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Il motivo della solitudine dell’innamorato e la ricerca dell’isolamento sono profondamente intrecciati con il paesaggio (evocato e suggerito, mai descritto). Rifletti su questo aspetto e confronta questo sonetto con il ➜ D1b OL (Fam., VI, 3) che presenta alcune significative analogie. Fai un confronto tra i due testi, sulla base di analogie di immagini e stilemi.

online T11b Francesco Petrarca

Petrarca in meditazione sotto le fronde di un lauro, particolare della pagina miniata di un manoscritto quattrocentesco dei Trionfi di Petrarca (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

Di pensier in pensier, di monte in monte Canzoniere, 129

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T12

Il tema della «memoria innamorata» I due testi che seguono, tra i più celebri della poesia italiana, sono incentrati sull’evocazione della bellezza di Laura nel ricordo idealizzante del poeta. Nella canzone Chiare, fresche et dolci acque il ricordo della donna amata si lega strettamente all’evocazione di un idillico scenario naturale, di cui Laura stessa sembra far parte.

Francesco Petrarca

T12a

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi Canzoniere, 90

F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

AUDIOLETTURA

Il sonetto, scritto anni dopo l’innamoramento, in una data non precisata, è incentrato sul tema del ricordo della donna amata: il poeta rievoca l’immagine di Laura come la vide per la prima volta, e come resta nella sua memoria, nel pieno del suo splendore, confrontandola con quella, ormai mutata, del presente. Ne scaturisce una «dichiarazione di dedizione oltre il tempo» (G. Contini).

Erano i capei d’oro a l’aura1 sparsi che ’n mille dolci nodi2 gli avolgea, e ’l vago lume oltra misura ardea3 4 di quei begli occhi, ch’or ne son sí scarsi4; e ’l viso di pietosi color’ farsi, non so se vero o falso, mi parea5: i’ che l’ésca amorosa al petto avea6, 8 qual meraviglia se di súbito arsi?7 Non era l’andar suo cosa mortale, ma d’angelica forma8; et le parole 11 sonavan altro, che pur voce humana9. Uno spirto celeste, un vivo sole fu quel ch’i’ vidi: et se non fosse or tale10, 14 piagha per allentar d’arco non sana11.

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE 1 a l’aura: al vento. Petrarca gioca sull’omofonia (uguaglianza di suono) con il nome di Laura. A distanza di tempo, il poeta rievoca l’immagine di Laura splendente di bellezza, coi capelli sciolti al vento, come la vide nel momento in cui se ne innamorò. L’atmosfera intorno alla donna, ancora presente nel ricordo, sembra partecipe della sua bellezza. 2 mille dolci nodi: l’immagine del vento che gioca tra i lunghi capelli biondi inanellati di Laura sottolinea l’armonia tra la bellezza della natura e quella della donna e ne fissa indelebilmente l’iconografia. A evidenziare l’incanto del ricordo ritorna l’aggettivo dolce, parola chiave del Canzoniere; mille è un’iperbole, e indica un valore indefinito; i nodi dei capelli suggeriscono i nodi d’amore, anche per il gioco allitterante DOlcI nODI.

3 ’l vago… ardea: l’affascinante luminosità degli occhi brillava oltre ogni umano splendore. 4 ch’or… scarsi: ora gli occhi di Laura sono meno luminosi di un tempo. Di questo verso vengono date differenti interpretazioni: secondo alcuni commentatori Laura è meno bella, non essendo più nel pieno della giovinezza; secondo altri, la più intensa luminosità dello sguardo nel passato sarebbe stata segno di un più affettuoso interesse per il poeta, a cui si allude anche nei versi successivi (vv. 5-6): nel momento in cui Petrarca scrive il sonetto, Laura appare invece più distaccata. In ogni caso, al ricordo ancora vivo del passato splendore si contrappone una diversa immagine di Laura nel presente, anche se l’amore permane immutato. 5 ’l viso… parea: mi pareva, non so se fosse verità o illusione, che il suo viso esprimesse un’affettuosa compassione per

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me, forse con un leggero rossore, oppure, al contrario, impallidendo. 6 i' che l’ésca… avea: io che ero pronto a innamorarmi. L’esca è una materia facilmente infiammabile se vi si avvicina una scintilla; l’immagine si collega al topos dell’amore come fuoco, ripreso dal successivo verbo arsi. Nelle quartine sono indicate le cause dell’innamoramento: la bellezza di Laura, il suo atteggiamento non indifferente verso il poeta, l’inclinazione di quest’ultimo al sentimento amoroso. 7 di súbito arsi?: immediatamente mi innamorai. Il passaggio dall’imperfetto al passato remoto segnala che ciò che rimase incancellabile nella memoria avvenne in un istante. L’interrogativa, che occupa tutto il v. 8, sottolinea l’intensità di quel sentimento inaspettato. 8 Non era… forma: il suo incedere non era di una persona mortale, ma di un angelo. Angelica forma suggerisce l’idea di una bellezza spirituale, quasi immateriale. Nel sonetto Laura ricorda l’immagine stilnovistica della donna, anche se il suo mutare nel tempo la differenzia profondamente dalla “donna angelo”. 9 le parole… humana: le sue parole avevano un timbro diverso dal quello di una semplice voce umana. 10 se non fosse or tale: se Laura ora fosse diversa (meno bella o più indifferente all’amore del poeta). 11 piagha… sana: una ferita non guarisce se l’arco che l’ha prodotta (mediante una freccia) allenta la sua corda (e non può scagliare altre frecce). La conclusione di tipo proverbiale, al presente, indica che, come una ferita non guarisce per quanto la corda si allenti dopo il tiro, così l’amore resta immutato anche se la donna può cambiare.


Analisi del testo Gli echi stilnovistici e la nuova dimensione del tempo Nella raffigurazione del poeta l’immagine di Laura, che irrompe all’improvviso nella sua memoria, assume i tratti propri dell’apparizione stilnovistica della figura femminile: la folgorante bellezza, il riferimento alla luce degli occhi e al nobile incedere, ma soprattutto le espressioni (aggettivi e metafore) che alludono alla natura quasi soprannaturale della donna (Non era... cosa mortale, angelica forma, Uno spirto celeste) rimandano alla rappresentazione che si ritrova in celebri componimenti di Guinizzelli, Cavalcanti e Dante stesso. Il medesimo periodare del sonetto petrarchesco – sinuoso e fluido, ricco di enjambements – e il suo ritmo lento e armonioso ricordano da vicino il sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare. Ma rispetto alla tradizione stilnovista, il sonetto petrarchesco introduce una rilevante novità: la dimensione del tempo, che sottrae la figura di Laura alla atemporale perfezione e astrattezza delle donne dello stilnovo. Nonostante le espressioni iperboliche usate dal poeta, Laura non è un angelo, ma una donna terrena, e pertanto è sottoposta alla caducità e alla mutevolezza («et se non fosse or tale») di tutto ciò che è umano.

La divaricazione passato-presente e l’alternanza dei tempi verbali La centralità della memoria è rimarcata nel sonetto dalla preponderanza dell’imperfetto e del passato remoto. L’alternanza dei due tempi verbali rileva due dimensioni del ricordo: l’imperfetto, che domina nelle due quartine e nella prima terzina, a partire dall’incipit intensamente evocativo (Erano) e poi nella successione dei verbi in rima (avolgea, ardea, parea, avea), sottolinea la continuità del ricordo, che connette il passato con il presente e colloca la visione di Laura in una dimensione indeterminata, quasi mitica. Nel tessuto verbale all’imperfetto si stacca e assume rilievo il passato remoto (arsi, fu, vidi), che isola nel continuum della memoria il preciso momento dell’improvviso innamoramento (evidenziato anche dalla locuzione avverbiale di súbito, al v. 8), evidenziandone la folgorante intensità, tale da imprimere lo splendore di quell’apparizione in modo indelebile nella mente dell’innamorato. Ai tempi al passato fa da contrappunto il presente che, già nella prima e seconda quartina, infrange bruscamente l’elegia della memoria, sia attraverso il riferimento alla bellezza ormai sfiorita di Laura («or ne son sí scarsi», v. 4), sia introducendo una nota critico-dubitativa relativa al ricordo («non so se vero o falso»). Il presente dell’ultimo verso (non sana) assume invece un carattere sentenzioso, esprimendo la convinzione che la forza dell’amore (sostenuta dalla memoria) non cede di fronte al trascorrere inesorabile del tempo.

L’immagine di Laura: dai modelli classici alle icone della bellezza rinascimentale Il ritratto della bellezza di Laura, immersa nel ricordo in un’atmosfera mossa e vitale, con il vento che le muove i capelli, inanellandoli, e lo splendore dello sguardo, rivela un’ascendenza classica: rimanda infatti sia all’immagine di Dafne nelle Metamorfosi di Ovidio (I, 529), con i capelli sciolti al vento durante la sua fuga da Apollo, sia a quella di Venere nell’Eneide (I, 317), che appare al figlio nelle vesti di una cacciatrice, con la chioma sciolta al vento e una bellezza così fulgida da rivelarne l’origine divina (le parole di Enea «non hai volto mortale, né suona umana la tua voce» non possono non richiamare il sonetto petrarchesco). Contribuisce alla suggestione del ritratto di Laura nel ricordo l’andamento stesso del periodo, sinuoso e fluido, meno legato del consueto alle unità metriche e più ricco di enjambements, che sembra suggerire l’incedere armonioso e leggiadro della donna con i capelli mossi dal vento. Il fascino di Laura è poi sottolineato da una serie di metafore evocanti luminosità e splendore: dall’oro dei capelli al vago lume dello sguardo e alle altre immagini di luce che contrassegnano il sonetto, con un andamento a climax, culminante nell’immagine iperbolica del v. 12 (Uno spirto celeste, un vivo sole), messa in rilievo dall’enjambement. La descrizione fissa in modo indimenticabile l’iconografia di Laura, che diverrà poi un modello di bellezza femminile per i poeti e i pittori del Rinascimento (si pensi alla Primavera e alla Nascita di Venere di Botticelli).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è il tema principale del sonetto? ANALISI 2. Indica gli elementi stilnovistici presenti nella descrizione di Laura e quelli che invece si differenziano da tale concezione. LESSICO 3. Analizza il lessico ed evidenzia i termini legati al campo semantico della luminosità. STILE 4. Quale figura retorica è utilizzata al v. 7? Trasforma l’espressione l’ésca amorosa al petto avea in una similitudine. 5. Individua gli enjambements; osserva in quale parte del testo sono più frequenti, e indica quale effetto producono sul ritmo (e non solo sul ritmo).

PER APPROFONDIRE

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Il motivo dell’apparizione della donna in tutta la sua bellezza e degli effetti straordinari che produce è un topos della letteratura e in particolare di alcuni testi che conosci: Io voglio del ver la mia donna laudare di Guinizzelli (➜ C4 T12 ) e Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira di Cavalcanti (➜ C4 T14 ). Svolgi un confronto tra i due testi citati e questo sonetto petrarchesco e indica le possibili analogie e differenze.

Un nome “segno”: Laura-l’aura-lauro Nel sonetto 90 Laura non viene nominata, ma la sua presenza è evocata dal termine l’aura, che si riferisce letteralmente al vento leggero che muove i suoi capelli, ma che ne riecheggia il nome (tanto più perché la grafia del tempo non prescriveva l’apostrofo per staccare l’articolo dal sostantivo in caso di elisione: nel manoscritto petrarchesco Vat. Lat. 3195 la scrittura continua laura sta per l’aura, aggiungendo così l’omografia delle due parole all’omofonia). L’aura è perciò un senhal, secondo una tradizione introdotta dai poeti provenzali, che evitavano di rendere noto il nome della donna amata per non farla riconoscere da tutti, preferendo evocarla attraverso allusioni. Nel Canzoniere il nome di Laura è anche associato al lauro, la pianta dell’alloro in cui nelle Metamorfosi ovidiane si trasforma la ninfa Dafne, simbolo fin dall’antichità della gloria poetica: l’aspirazione costante alla gloria (che quindi, attraverso il nome-segno, risulta associata all’attrazione per Laura) rappresenta nei versi della raccolta (ma anche nel Secretum) l’altro, fondamentale ostacolo al desiderio dell’autore di superare l’attrazione per i beni terreni.

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Petrarca e Laura, ritratto di scuola veneziana, 1510 ca. (Oxford, The Ashmolean Museum of Art and Archaeology).


Francesco Petrarca

T12b

Chiare, fresche et dolci acque Canzoniere, 126

F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

La canzone, di datazione incerta, è incentrata sul ricordo nostalgico della presenza di Laura nel sereno paesaggio della valle del fiume Sorga, presso Valchiusa, in Provenza, luogo caro a Petrarca. Ora il poeta è solo, rivede i luoghi dove aveva incontrato Laura e al ricordo struggente della felicità passata si sovrappongono malinconiche fantasticherie, nel presentimento della morte imminente.

Chiare, fresche et dolci acque1, ove le belle membra pose2 colei che sola a me par donna3; gentil4 ramo ove piacque 5 (con sospir’ mi rimembra5) a lei di fare al bel fiancho colonna6; herba et fior’ che la gonna leggiadra ricoverse co l’angelico seno7; 10 aere sacro, sereno8, ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse9: date udïenza insieme10 a le dolenti mie parole extreme11.

La metrica Canzone di 5 stanze, in settenari ed endecasillabi, con schema abC abC (fronte) cdeeDfF (sirma). Il congedo riprende gli ultimi tre versi della sirma, DfF

1

Chiare… acque: il poeta si rivolge alle acque del fiume (si pensa sia il Sorga, a Valchiusa, in Provenza) chiare e fresche, cristalline, perché presso la sorgente; dolci perché il luogo suscita soavi ricordi. È la prima di una serie di invocazioni a elementi della natura, testimoni della presenza della donna. I tre aggettivi bisillabi, con l’allitterazione in e e r dei primi due, introducono l’atmosfera lieve e idillica della canzone. Dolce è parola chiave del Canzoniere: è infatti l’aggettivo più frequentemente usato nella raccolta. 2 membra / pose: non si deve tanto pensare che Laura si sia bagnata nel fiume (sarebbe anacronistico e contrario alle usanze del tempo) quanto piuttosto che si sia rinfrescata il volto o semplicemente si sia seduta, appoggiata a un albero, vicino alle acque.

3 colei… donna: colei che sola per me è degna di essere chiamata donna (perché domina completamente il cuore del poeta). 4 gentil: l’attributo gentile, riferito al ramo dell’albero, mostra come il paesaggio sia rimasto, per l’amante, come impregnato delle qualità della donna che vi ha soggiornato. L’idealizzazione della scena è affidata all’aggettivazione. 5 con sospir'… mi rimembra: me ne ricordo con un sospiro di rimpianto. L’inciso, sottolineato dalle allitterazioni in r, rallenta il ritmo, come se prolungasse la durata del ricordo, ed evidenzia lo stato d’animo di malinconico rimpianto del poeta. 6 fare… colonna: appoggiarsi. L’albero è probabilmente un grande pioppo che si trovava vicino alla sorgente del fiume Sorga. 7 seno: probabilmente si intende la piega (dal lat. sinus) della veste, essendo Laura seduta sull’erba; ma non si può escludere che il poeta si riferisca al seno

di Laura, appoggiata sull’erba; herba et fior’ sono compl. oggetto di ricoverse, il cui sogg. è gonna leggiadra. 8 aere… sereno: aria resa sacra dalla presenza della donna e serena perché primaverile. Le allitterazioni in r sottolineano l’ariosità dello sfondo naturale. 9 co’ begli occhi… aperse: attraverso i begli occhi di Laura Amore aprì il mio cuore. 10 date… insieme: ascoltate tutti le mie dolorose ultime parole. Il poeta si rivolge agli elementi della natura che sono stati testimoni dei momenti felici del passato. 11 extreme: ultime, perché il poeta prova tanto dolore e rimpianto da sentirsi vicino alla morte; l’aggettivo suggerisce anche l’intensità delle parole, quasi fossero un testamento.

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S’egli è pur12 mio destino, 15 e ’l cielo in ciò s’adopra, ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda13, qualche gratia il meschino corpo fra voi ricopra14, e torni l’alma al proprio albergo ignuda15. 20 La morte fia men cruda16 se questa spene17 porto a quel dubbioso passo18: ché lo spirito lasso19 non poria mai in piú riposato porto 25 né in piú tranquilla fossa fuggir la carne travagliata et l’ossa20. Tempo verrà anchor forse21 ch’a l’usato soggiorno22 torni la fera23 bella et mansüeta24, 30 et là ’v’ella mi scorse nel benedetto giorno25, volga la vista disïosa26 et lieta, cercandomi: et, o pieta! 27, già terra in fra le pietre 35 vedendo28 Amor l’inspiri in guisa che29 sospiri sí dolcemente che mercé m’impetre30, et faccia forza al cielo, asciugandosi gli occhi col bel velo31. 12 S’egli è pur: se è veramente; egli è sogg. impersonale. 13 ch’Amor… chiuda: che io muoia per il dolore. 14 qualche gratia… ricopra: qualche grazia provveda a far seppellire il corpo infelice in mezzo a voi. 15 e torni… ignuda: e l’anima, privata del corpo, torni al Cielo, sua vera sede. 16 fia men cruda: sarà meno crudele. 17 spene: speranza (latinismo). Il poeta immagina di morire e spera di essere sepolto a Valchiusa. 18 dubbioso passo: il pauroso passaggio dalla vita alla morte. 19 lasso: sfinito. 20 non poria… l’ossa: non potrebbe lasciare il corpo travagliato e le ossa in un luogo più sereno e in un sepolcro più tranquillo di Valchiusa. Il luogo ha visto infatti la presenza di Laura e i momenti più felici per il poeta. 21 Tempo… forse: l’avverbio forse sottolinea l’indeterminatezza temporale del sogno a occhi aperti. 22 a l’usato soggiorno: nel luogo che era solita frequentare. Forse Laura trascorse

qualche tempo in una località vicina alla casa del poeta a Valchiusa. 23 fera: crudele come una belva feroce. L’aggettivo allude alla durezza di Laura, che non corrisponde all’amore del poeta, e fa parte del lessico riferito all’immagine “petrosa” della donna. 24 mansüeta: divenuta dolce. 25 nel benedetto giorno: il giorno felice dell’incontro. 26 la vista disïosa: lo sguardo pieno di desiderio. Il poeta immagina che Laura, pur mostrandosi indifferente, in realtà non lo sia affatto e torni a Valchiusa per rivederlo, trovandovi però soltanto il suo sepolcro. 27 o pieta!: oh spettacolo pietoso! L’inciso sottolinea l’angosciosa sorpresa di Laura. 28 già terra… vedendo: immaginandomi ormai ridotto in polvere tra le pietre tombali. 29 in guisa che: in modo che. 30 mercé m’impetre: ottenga per me pietà [da Dio]. 31 et faccia forza… velo: e attenui il rigore della giustizia divina asciugandosi le lacrime con il suo velo (col suo pianto).

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Incipit della canzone Chiare, fresche et dolci acque. Laura è raffigurata sotto una pioggia di fiori, presso la sorgente del Sorga; sullo sfondo, a destra del laureto, un libro che si identifica con il poeta stesso è attaccato dal serpentello della lussuria. Incunabolo [antica edizione a stampa] del Canzoniere e Trionfi di Petrarca, 1470 (Brescia, Biblioteca Queriniana).


Da’ be’ rami scendea (dolce ne la memoria32) una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo; et ella si sedea humile33 in tanta gloria, 45 coverta già de l’amoroso nembo34 Qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch’oro forbito35 et perle36 eran quel dí a vederle; 50 qual si posava in terra, et qual su l’onde; qual con un vago errore37 girando parea dir: Qui regna Amore. 40

Quante volte diss’io38 allor pien di spavento: 55 Costei per fermo39 nacque in paradiso. Cosí carco d’oblio40 il divin portamento e ’l volto e le parole e ’l dolce riso m’aveano, et sí diviso 60 da l’imagine vera41, ch’i’ dicea sospirando: Qui come venn’io, o quando?; credendo esser in ciel, non là dov’era42 Da indi in qua mi piace 65 questa herba43 sí, ch’altrove non ò pace. Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia, poresti arditamente uscir del boscho, et gir in fra la gente44. 32 Da’ be’ rami... memoria: dai bei ra-

34 amoroso nembo: nuvola di fiori,

mi scendeva (è dolce ricordarlo). Dopo la fantasticheria sulla propria morte, la mente torna al passato che, evocato dalla memoria involontaria, sembra farsi più vivo e quasi presente. L’inciso dolce ne la memoria, con il suo effetto di rallentamento ritmico, evidenzia il mutamento dello stato d’animo del poeta, ormai ispirato soltanto alla dolcezza del ricordo non più commista all’amarezza del rimpianto. L’imperfetto evidenzia la sospensione temporale nella memoria. 33 humile: inconsapevole del suo splendore. L’aggettivo humile, posto in contrasto con la gloria dello splendore della donna, conferisce un’atmosfera stilnovistica alla scena, ricordando Beatrice nella Vita nuova (XXVI, 2): «Ella coronata e vestita d’umilitate s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia».

ispiratrice d’amore. L’aggettivo amoroso, riferito alla nuvola di fiori, sembra suggerire una partecipazione della natura allo splendore della donna, come se gli elementi naturali rendessero amorosamente omaggio alla sua bellezza. 35 forbito: lucente. 36 perle: i fiori bianchi, posati sui biondi capelli di Laura, sembrano perle. 37 vago errore: leggiadro volteggio. I minuziosi particolari (ogni fiore è seguito nel suo volteggiare finché ricade sui capelli di Laura, sulle acque del fiume, sull’erba) rallentano la scena, creando un effetto di sospensione temporale. Al contempo, lo splendore di Laura appare ancora più strettamente legato a quello della natura, come in un trionfo d’Amore. 38 diss’io: il passato remoto evidenzia un distacco dall’atmosfera idillica della

strofa precedente, contrapponendosi all’imperfetto dell’indugio nella dolcezza del ricordo. In questa strofa è evidente e dichiarata la distanza dallo stilnovismo: la visione paradisiaca era soltanto un’illusione, effetto della bellezza della donna, e la beatitudine amorosa era tutta terrena, non celestiale. 39 per fermo: sicuramente. 40 carco d’oblio: reso dimentico di tutto. Letteralmente “colmato di dimenticanza”; dipende dal verbo m’aveano al v. 59, i cui soggetti sono ai vv. 57-58; l’espressione indica la perdita di contatto con la realtà a causa dell’estasi amorosa. 41 diviso… imagine vera: allontanato dalla vera realtà. 42 credendo… dov’era: convinto di trovarmi in Paradiso, non dov’ero veramente. C’è una climax nei sentimenti dell’amante, dall’ammirato stupore alla perdita di contatto con la realtà. 43 Da indi… herba: da quel giorno in poi mi piace questa campagna. Da allora il poeta ha amato ancora di più Valchiusa, perché legata al ricordo di Laura. 44 Se tu avessi … fra la gente: se tu (come d’uso, il congedo si rivolge alla canzone personificata) avessi pregi artistici quanti ne vorresti, potresti, senza timore, uscire da queste selve (il luogo bucolico, in cui sei stata scritta) e andare tra la gente (essere conosciuta da tutti). La poesia è stata immaginata e scritta nella solitudine di un luogo idillico: per la sua raffinata eleganza potrà tuttavia essere conosciuta da molti lettori.

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Analisi del testo Il tema della memoria La canzone Chiare, fresche et dolci acque esercita un fascino immediato sul lettore, e sembra perciò apparentemente di facile lettura; in realtà c’è una concezione poetica nuova e complessa, che il poeta riesce a tradurre in immagini di pronta capacità evocativa. Tema centrale della canzone è la memoria. Prima ancora che questo tema sia esplicitato negli incisi dei vv. 5 e 41 (con sospir’ mi rimembra e dolce ne la memoria), già l’incipit fa percepire al lettore che il paesaggio è legato a un ricordo gioioso: se il poeta si rivolge a una campagna rappresentata come un Paradiso in terra, è perché vi ha certamente vissuto momenti lieti.

Dal paesaggio all’evocazione della donna amata Già la successione dei tre aggettivi dell’incipit costruisce una progressiva interiorizzazione del paesaggio: se fresche si addice alle acque di un fiume presso la sua sorgente, chiare già associa all’immagine dell’acqua limpida quella dell’intero paesaggio, risplendente nella luce primaverile, mentre dolci (dolce è parola chiave del Canzoniere) aggiunge alla scena una connotazione psicologica che la interiorizza, evocando un ricordo felice. Solo a poco a poco la figura femminile emerge, rivelando l’intrinseco legame fra il ricordo della sua presenza e il luogo idillico, del quale alcuni elementi appaiono quasi una proiezione del corpo dell’amata: da qui l’attribuzione di connotazioni che in realtà appartengono a lei, come l’aggettivo gentil – proprio di una donna nobile, fine, cortese – attribuito al ramo su cui lei si è una volta appoggiata.

Il contrasto con Dante: la natura e la donna restituite alla dimensione terrena La critica ha rilevato la suggestione di alcuni versi del Purgatorio di Dante: in particolare, la scena di Laura avvolta da una nuvola di fiori ricalca l’apparizione di Beatrice nel canto XXX di questa cantica (vv. 28-32): «così dentro una nuvola di fiori / che da le mani angeliche saliva / e ricadeva in giù dentro e di fori / sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve» (➜ C6 T27a2 OL). Pur simili in apparenza, le due situazioni sono in realtà profondamente diverse: nella Commedia il paesaggio è splendido perché appartiene al Paradiso Terrestre, in cui la natura è per definizione perfetta, mentre nel Canzoniere appare tale perché legato a un ricordo felice. A sua volta, Laura non simboleggia la teologia come Beatrice nei versi danteschi ricordati, ma è invece una donna terrena, come mostrano i dettagli fisici concreti rievocati nella canzone: i biondi capelli, i begli occhi, le belle membra, la gonna, il velo. Se perciò il protagonista la vede come un angelo, e immagina di essere in Paradiso, ciò è dovuto alla sua visione ingannevole e soggettiva, come il poeta esplicitamente evidenzia, ricordando di essere stato «sí diviso / da l’imagine vera, / ch’i’ dicea sospirando: / Qui come venn’io, o quando?; / credendo esser in ciel, non là dov’era».

Il tempo dell’interiorità Dall’attenzione per la vita psichica soggettiva, secondo il modello delle Confessioni di Agostino, deriva la rappresentazione innovativa e moderna del tempo come durata; un tema che filosofi e poeti del Novecento avrebbero ampiamente trattato, sottolineando come il tempo della coscienza sia profondamente diverso da quello esterno e oggettivo. Il tempo dell’interiorità è infatti un flusso continuamente ondeggiante tra presente, passato e futuro: dimensioni che continuamente si sovrappongono nella mente, come è messo in evidenza nel componimento petrarchesco, grazie al movimento incessante dell’“io” tra il presente, il passato del ricordo, il futuro del sogno e delle fantasticherie. L’intreccio dei tre tempi e il loro continuo e fluido trapassare uno nell’altro nella coscienza è così distribuito nelle diverse strofe della canzone: I strofa

presente: il poeta si rivolge ai luoghi che, in passato, hanno visto la bellezza di Laura; passato: ricorda la visione della donna nello sfondo naturale; II strofa futuro: fantasticheria di essere sepolto in quel luogo, presso le chiare, fresche et dolci acque, essendo morto per amore; III strofa futuro: fantasticheria di come Laura, tornando in quel luogo ansiosa di rivedere il poeta, trovi soltanto la sua tomba, e, piangendone la morte, esprima un coinvolgimento amoroso prima celato;

362 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


IV strofa passato: con una struttura circolare, la canzone torna al momento iniziale, con il ricordo della donna che sembra farsi ancora vivo e quasi presente; il tempo imperfetto, dominante nella strofa, sottolinea la durata del ricordo, in cui il poeta indugia per la sua dolcezza; V strofa passato: all’imperfetto della strofa precedente si contrappone il passato remoto, che mette in primo piano l’istante, quando il poeta, al culmine della beatitudine amorosa, crede di essere in Paradiso; presente: alla fine della strofa si torna al presente, momento di composizione della canzone, con un andamento circolare, per evidenziare perché quel luogo sia da allora prediletto dal poeta.

La varietà del ritmo e l’armonia dei suoni Il libero fluire della coscienza tra passato, presente e futuro, con le corrispondenti dimensioni psicologiche, si traduce nelle variazioni ritmiche della canzone: ad esempio, nelle strofe dedicate al ricordo (la prima e la quarta) il ritmo appare decisamente più rallentato, ritardato, in particolare dagli incisi (vv. 5 e 41: con sospir’ mi rimembra e dolce ne la memoria), che creano una pausa suscitando un effetto di sospensione temporale, come a evidenziare la forte carica emozionale del ricordo, tra dolcezza e malinconico rimpianto. A rallentare il ritmo delle due strofe, contribuiscono anche le ripetizioni anaforiche: nella I strofa del nesso ove, che istituisce un rapporto fra il luogo e il ricordo della donna amata; nella IV l’anafora di qual, che “accompagna”, per così dire, la pioggia di fiori, seguiti uno per uno nel loro soave volteggiare. Anche a livello fonico le strofe I e IV, dedicate alla rievocazione, si differenziano dalle altre per la prevalenza di suoni lievi e aerei (vocali e consonanti liquide, come la r): spicca in particolare l’incipit, in cui sono presenti la l, la r, e – sapientemente variate – tutte le vocali (con prevalenza della a e della e), a eccezione della u (dal suono troppo cupo). Nella strofa IV la musicalità lieve, legata alla fragile dimensione della memoria, è espressa dagli imperfetti, che formano una catena di rime interne e a fine verso (scendea, sedea, cadea, parea, nella variante più letteraria con la caduta della v). Il lessico concorre all’atmosfera di incanto che regna nella canzone: prevalgono gli aggettivi che esprimono bellezza, armonia, dolcezza (bello, più volte ripetuto, e dolce).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Completa la tabella e poi organizza i dati raccolti in un breve riassunto (max 15 righe). strofa

titolo

tema centrale

parola chiave

I II III IV V congedo ANALISI 2. Indica gli elementi naturali associati al ricordo di Laura. Quale rapporto il poeta vi instaura e perché? LESSICO 3. Analizza la canzone dal punto di vista lessicale: quali sono gli aggettivi del componimento che, a tuo parere, meglio sottolineano la bellezza di Laura e della natura? Quali i campi semantici prevalenti?

Interpretare

SCRITTURA 4. Descrivi il luogo dell’incontro con Laura in un breve testo (max 10 righe) seguendo la traccia delle risposte sugli aspetti indicati: a. Si tratta di un locus amoenus? b. Il paesaggio è evocativo di un particolare stato d’animo? Quale? c. Il paesaggio, da elemento puramente decorativo, diventa per Petrarca un vero e proprio personaggio, come fosse animato e intimamente legato allo stato d’animo del poeta: in quali occasioni? Rintracciale nel testo.

Il Canzoniere 3 363


Il tema della fuga del tempo e della caducità della vita

T13

online T13a Francesco Petrarca

Quanto piú m’avicino al giorno extremo Canzoniere, 32

Il tema della vanitas, della fuga del tempo e della caducità della vita, percorre tutto il Canzoniere: per esemplificarlo proponiamo in particolare due sonetti, l’uno tratto dalla parte iniziale della raccolta (32), l’altro appartenente alla sezione “in morte di Laura” (272). Se nel primo la percezione dell’universale labilità della vita è oggetto di una pacata meditazione filosofica, nel secondo l’esperienza drammatica della perdita della donna amata induce un senso angoscioso di desolazione. Il tema dello scorrere inesorabile del tempo è trattato in modo più lieve e in una dimensione di diffusa malinconia nel sonetto Vago augelletto che cantando vai (353) (➜ T13c OL), che ha ispirato a Leopardi la celebre canzone Il passero solitario.

Francesco Petrarca

La vita fugge et non s’arresta una hora

T13b

Canzoniere, 272 F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

Il sonetto è collocato nella seconda parte del Canzoniere e fu sicuramente scritto dopo il 1348, anno della morte di Laura. La percezione della fugacità della vita non è più legata a una meditazione filosofica, ma è il frutto di una dolorosa esperienza personale, ossia la morte della donna amata, che conduce il poeta a una disperazione inconsolabile.

La vita fugge et non s’arresta una hora, et la morte vien dietro a gran giornate1, et le cose presenti et le passate 4 mi dànno guerra, et le future anchora2; e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora3, or quinci or quindi4; sí che ’n veritate, se non ch’i’ ò di me stesso pietate, 8 i’ sarei già di questi penser’ fora5. Tornami avanti6, s’alcun dolce7 mai ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte 11 veggio al mio navigar turbati i vènti8; veggio fortuna in porto9, et stanco omai il mio nocchier10, et rotte arbore et sarte11, 14 e i lumi bei12, che mirar soglio, spenti13. La metrica Sonetto con schema di rime ABBA ABBA CDE CDE 1

a gran giornate: a marce forzate, rapidamente. Corrisponde all’espressione latina magnis itineribus, che negli storici (e in particolare in Cesare) indica il cammino dell’esercito a tappe forzate. Il ritmo rapido dei versi, scandito dalla struttura paratattica della sintassi e dal polisindeto, rende efficacemente la fuga della vita, incalzata alle spalle dalla morte. 2 le cose… anchora: mi angosciano la situazione presente, il ricordo del passato

e anche il pensiero del futuro. Passato, presente e futuro sono fonte d’angoscia: mi dànno guerra “mi fanno soffrire”. 3 e ’l rimembrare… m’accora: sia il ricordare sia l’attendere gli eventi futuri è per me doloroso. 4 or quinci or quindi: da una parte e dall’altra. Cioè secondo le oscillazioni del ricordo e dell’attesa: ogni dimensione temporale offre un’immagine di desolata tristezza. 5 se non ch’i’… fora: se non fosse che ho pietà di me stesso (temendo la dannazione eterna dell’anima), mi sarei già liberato da queste angosce (lett. “ne sarei già fuori”).

364 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca

6 Tornami avanti: mi torna davanti agli occhi della mente. 7 dolce: dolcezza (agg. sostantivato). Poiché tutte le dolcezze sono legate al ricordo di Laura, la morte di lei suscita un’irrimediabile desolazione. 8 turbati i vènti: i venti turbinosi e contrari. Ci si riferisce, qui, alla metafora della vita come navigazione in un mare in tempesta, ricorrente nel Canzoniere. 9 veggio fortuna in porto: vedo tempesta (fortuna) nel porto (alla fine della vita). L’espressione, sottolineata dall’anafora di veggio (vv. 11 e 12), indica che sfiducia e disperazione non riguardano soltanto la vita, ma anche la speranza nella salvezza ultraterrena. 10 nocchier: timoniere della nave. Metaforicamente: la ragione. 11 rotte arbore et sarte: rotto l’albero e le sartie. Le sartie sono le funi che reggono l’albero della nave; per metafora rappresentano le virtù. L’albero della nave, infranto, rappresenta il disgregarsi dell’“io”, la perdita di sé. 12 i lumi bei: i begli occhi (di Laura). Gli occhi di Laura erano come le stelle, che guidano i naviganti; i lumi possono anche essere intesi come i fari di orientamento per i marinai. 13 che mirar soglio, spenti: che solevo guardare, spenti (perché Laura è morta). L’interposizione della relativa dopo l’aggettivo bei spezza il ritmo del verso, conferendo un forte rilievo alla parola chiave spenti che, preceduta da una pausa, resta staccata dal resto del sonetto. La morte di Laura ispira tutto il componimento ma viene ricordata soltanto alla fine, accentuando così la drammaticità dell’evento.


Analisi del testo Il sonetto 32: una meditazione filosofica sulla morte Il sonetto Quanto piú m’avicino si presenta con i caratteri di una meditazione filosofica sullo scorrere del tempo e sulla caducità dei beni terreni. Da questi il poeta non appare ancora distaccato, come prova il prevalere dei tempi futuri, che collocano in un momento successivo il superamento delle passioni e l’acquisizione di una saggezza definitiva (andremo d’amor parlando omai, pace avremo, cadrà quella speranza, vedrem chiaro). Anche la constatazione iniziale dell’approssimarsi alla morte potrebbe non alludere alla tarda età del poeta ma alla condizione umana in una prospettiva filosofica: secondo la riflessione di Seneca (che Petrarca riprende nella prima lettera del libro XXIV delle Familiares, diretta a Philippe de Cavaillon) noi «moriamo continuamente», perché ogni giorno, qualunque sia l’età, ci avvicina alla morte (➜ D2 OL). La fuga del tempo è vista nel sonetto con pacata malinconia, come da una grande distanza. In un colloquio interiore staccato dall’immediatezza delle passioni, il poeta si volge con il pensiero dall’effimero all’eterno, anticipando con la meditazione filosofica la prospettiva della morte, per acquisire così consapevolezza della vanità dell’esistenza (l’umana miseria). È ciò che Agostino consiglia di fare a Francesco nel Secretum. A dare l’effetto del tempo che passa concorre anche il suggestivo paragone con la neve che si scioglie («come frescha neve / si va struggendo»), enfatizzato dai due enjambements dei vv. 6-8, che conferiscono un’estrema fluidità al ritmo. Il componimento presenta una struttura articolata in due parti: la prima coincide con la quartina iniziale ed è caratterizzata dal tempo presente; la seconda, comprendente la seconda quartina e le due terzine, contraddistinta dal tempo futuro.

Il sonetto 272: l’esperienza personale della caducità di ciò che è terreno Nessuna saggezza è però mai definitivamente acquisita nel Canzoniere, perché l’attrattiva della vita torna sempre a rinascere, almeno finché la morte della donna amata non la cancella: il sonetto 272, “in morte di Laura” ripropone lo stesso tema del 32, ma in una prospettiva e con un tono ben più drammatici, derivanti dall’esperienza personale della precarietà dei beni terreni: «la fugacità della vita e l’incalzare della morte gli si presentano ora con l’evidenza di una catastrofe che lo sbigottisce» (Fornasiero). Lo stato d’animo disperato che ispira il sonetto è evidenziato da due metafore che simboleggiano la vita: la prima, d’ambito militare, come fuga incalzante dall’incombere della morte; la seconda, ricorrente nel Canzoniere, come navigazione in un mare tempestoso («veggio al mio navigar turbati i vènti») che fa dubitare dell’approdo e fa presagire la possibilità di un naufragio. Ormai lasciata alle spalle ogni speranza di gioia terrena, il futuro appare non meno angosciante del passato («e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora»).

Il diverso stile dei due sonetti La diversa situazione psicologica che sta alla base dei due sonetti (a prescindere dal momento reale in cui sono stati composti) si riflette nello stile. Al ritmo fluido e armonico del primo si contrappone il ritmo quasi affannoso del secondo, a cominciare dall’isolamento per mezzo dei due punti a fine verso della frase lapidaria dell’incipit, che enuncia con forte evidenza il tema chiave. La prevalenza della paratassi, la dominante presenza del polisindeto in tutto il brano, creano, pur nel consueto dominio formale, il senso di un affollarsi di sensazioni ed emozioni negative che investono senza via di scampo e senza possibilità di controllo razionale il presente, il futuro e il passato stesso. Analoghe differenze tra i due sonetti si possono riscontrare nel lessico. In ➜ T13a OL predomina il campo semantico della vanitas (sperar… fallace, cose dubbiose, indarno, vaneggiar) con una prevalenza di suoni lievi e consonanti liquide (in particolare la r); nel componimento in morte di Laura (➜ T13b ) prevalgono invece i termini che indicano angoscia e distruzione (tristo, guerra, turbati, stanco, rotte, spenti) e suoni duri e laceranti (in particolare per il prevalere della dentale t). L’inciso che mirar soglio isola spenti, ultima parola del sonetto, e suscita il senso di un evento irreparabile.

Il Canzoniere 3 365


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Fai il riassunto del sonetto (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Nel sonetto si parla delle passioni umane: quali sono elencate? in quale prospettiva sono considerate? ANALISI 3. In quale prospettiva è vista la fuga del tempo? LESSICO 4. Analizza il sonetto dal punto di vista lessicale: ricerca nel testo i termini appartenenti a questi campi semantici: militare, navigazione, luce/vista. STILE 5. Indica le metafore che nel sonetto si riferiscono al tema della vanità dell’esistenza. 6. Soprattutto nella prima quartina e nell’ultima terzina l’incalzare del tempo e la fugacità della vita sono resi da una particolare figura retorica: quale? Grazie a questa scelta stilistica, come risulta il ritmo?

Interpretare

SCRITTURA 7. Sulla base dell’analisi svolta, dei testi che conosci e dello stralcio da una lettera di Petrarca (Familiari XXI, 12) all’amico Francesco Nelli (Milano, 13 novembre 1359), sviluppa il tema dell’inesorabile trascorrere del tempo in un breve testo (max 20 righe). «Velocissimo è il tempo, e con nessun artificio si può fermare; tu dorma o vegli, corrono le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i secoli; tutto ciò che è sotto il cielo, appena nato, si affretta e s’avvia con mirabile velocità verso la fine. […] Ad essa ci affrettiamo con impeto; ogni istante ci incalza e contro voglia ci spinge dal mare al porto, strani viaggiatori amanti del viaggio e timorosi dell’arrivo».

online T13c Francesco Petrarca Vago augelletto che cantando vai Canzoniere, 353

online

Testi in dialogo Il sentimento del tempo: un tema transepocale Una testimonianza antica

D2 Seneca Ogni giorno si muore Lettere a Lucilio III, 24, 19-20 Due esempi novecenteschi

D3a Gabriele d’Annunzio La sabbia del Tempo Alcyone

D3b Eugenio Montale Quartetto Altri versi

Il Bronzino, Ritratto di giovinetta con libro, 1545 (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

366 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


T14

Il tema della morte di Laura Nei sonetti qui raggruppati si possono confrontare le diverse modalità con cui Petrarca rappresenta Laura dopo la sua morte. Anche di fronte a questo tema chiave della poesia petrarchesca si ripropongono le oscillazioni proprie dell’attività dell’autore, frutto non solo del suo dissidio interiore ma anche del conflitto tra diversi codici culturali nel modo di vivere, e quindi di rappresentare, la morte dell’amata (➜ PER APPROFONDIRE, I volti di Laura, PAG. 337).

online T14a Francesco Petrarca

Se lamentar augelli, o verdi fronde Canzoniere, 279

Collabora all’analisi

T14b

Francesco Petrarca

Gli occhi di ch’io parlai sí caldamente Canzoniere, 292

F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

Il sonetto è incentrato su una cupa disperazione, priva di consolazione religiosa, per la morte della donna amata, che induce il poeta al proposito di rinunciare alla poesia d’amore, potendo ormai solo piangere. In una redazione del Canzoniere anteriore a quella definitiva, Petrarca aveva posto questo sonetto alla fine della raccolta. In un primo tempo dunque aveva pensato di chiudere i Rerum vulgarium in modo angoscioso e in toni drammatici; solo in seguito preferirà l’accorata preghiera e il pentimento religioso della Canzone alla Vergine.

Gli occhi di ch’io parlai sí caldamente, et le braccia et le mani e i piedi e ’l viso1, che m’avean sí da me stesso diviso, 4 et fatto singular da l’altra gente2; le crespe chiome d’òr puro lucente e ’l lampeggiar de l’angelico riso, che solean fare in terra un paradiso, 8 poca polvere son, che nulla sente3. Et io pur vivo, onde mi doglio et sdegno4, rimaso5 senza ’l lume ch’amai tanto6, 11 in gran fortuna7 e ’n disarmato legno8. Or sia qui fine al mio amoroso canto: secca è la vena de l’usato ingegno9, 14 et la cetera mia rivolta in pianto10. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD 1 et le braccia… viso: il polisindeto sottolinea il rimpianto per la bellezza della donna, ricordata nei dettagli. 2 che m’avean… gente: che mi avevano rapito a me stesso e allontanato dagli altri. 3 poca polvere… sente: la bellezza di Laura è ridotta a poca polvere, che non sente più nulla. È evidente la citazione

dell’ammonimento biblico della Genesi: «pulvis es, et in pulverem reverteris» (“polvere sei, e nella polvere tornerai”). 4 Et io pur vivo…sdegno: e io, nonostante ciò, vivo, cosa di cui (onde) mi addoloro e mi sdegno. 5 rimaso: rimasto. 6 senza... tanto: senza la luce che tanto amai. Ossia senza l’amata Laura. 7 fortuna: fortunale, tempesta. 8 disarmato legno: la barca (legno è metonimia per nave; allegoricamente,

l’io del poeta) è priva di ciò che serve per navigare (albero, vele, timone) e simboleggia perciò l’incapacità di vivere. 9 secca… ingegno: è inaridita la fonte della mia ispirazione poetica. 10 et la cetera… in pianto: la mia cetra (strumento simbolo della poesia) è rivolta al pianto. Petrarca cita qui un passo biblico del Libro di Giobbe, 30-31: «La mia cetra si è mutata in lutto e il mio flauto in voce di pianto».

Il Canzoniere 3 367


Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il sonetto, tra i più angosciosi del Canzoniere, è ispirato dalla morte di Laura ed è fondato sullo struggente contrasto fra il vivo ricordo della donna, la cui bellezza è evocata analiticamente nei particolari fisici, e la dura realtà della sua scomparsa. Smarrito e privato ormai della fonte stessa della sua ispirazione, il poeta è indotto a congedarsi dalla poesia amorosa. 1. Quali sono le conseguenze che la morte di Laura produce sulla poesia di Petrarca?

Il sonetto può essere diviso in quattro parti, coincidenti con le scansioni metriche: le due quartine sono incentrate sulla figura di Laura e sul confronto tra il suo passato splendore e la realtà della morte, quando la bellezza luminosa della donna è divenuta poca polvere. Le due terzine sono invece dedicate al protagonista: la prima ne delinea la drammatica situazione psicologica ed esistenziale dopo che è scomparsa dalla sua vita la luce che la guidava e illuminava. A definire la condizione interiore del poeta ricorrono le consuete immagini tratte dal campo semantico della navigazione (gran fortuna, disarmato legno). La seconda terzina, dominata dalla parola chiave pianto, che chiude il sonetto e ne è la parola chiave, fa riferimento, attraverso un’immagine metaforica, alla crisi dell’ispirazione poetica. Figura predominante nel componimento è l’antitesi. 2. Su quali antitesi è costruito il sonetto? Indicale e spiegane il senso. 3. Analizza la funzione del polisindeto (vv. 1-4). 4. La seconda quartina è ricca di allitterazioni. Individuale e spiega la funzione del tessuto fonico dei vv. 5-8. 5. Quali elementi della bellezza di Laura sono ricordati? 6. Individua e spiega le metafore presenti nel testo.

Secondo molti critici, Petrarca è il primo ad avvalersi, nel Canzoniere, di una varietà di fonti estranee alla tradizione della lirica amorosa, pur riuscendo ad armonizzarle nella compatta unità tonale dell’opera. 7. In questo sonetto possono essere evidenziati alcuni riferimenti biblici: individuali con l’aiuto delle note e valutane l’effetto in rapporto al contesto in cui sono introdotti.

Interpretare

Come i più recenti studi critici hanno sottolineato, il Canzoniere si costruisce nel confronto con la tradizione stilnovista e con l’opera di Dante: un confronto che si risolve per lo più in un distanziamento dai modelli, come risulta anche da questo sonetto. 8. Individua aspetti e immagini che rimandano al “codice” stilnovistico. Metti in evidenza poi la distanza tra la rappresentazione stilnovistica della donna e quella che qui ritrovi. 9. Quali differenze emergono, rispetto alla Vita nuova, nel modo di trattare il tema della morte della donna amata?

Per comprendere il significato del Canzoniere è fondamentale individuare la fitta rete di rapporti intertestuali che, attraverso parole chiave e metafore ricorrenti, evidenziano le relazioni tematiche fra i diversi testi dei Rerum vulgarium fragmenta. 10. In quali rime del Canzoniere la figura di Laura presenta analogie con quella descritta in questo sonetto? 11. L’espressione del v. 4, fatto singular da l’altra gente, cioè “allontanato dagli altri”, a quali sonetti può riportare? Quali temi mette in evidenza? 12. Analizza la metafora della vita come navigazione, presente nel brano, ponendola in confronto con altri testi del Canzoniere in cui si può trovare la stessa immagine.

368 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


Francesco Petrarca

T14c

Levommi il mio penser in parte ov’era Canzoniere, 302

F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

Nel sonetto, probabilmente composto a Valchiusa tra il 1351 e il 1352, Petrarca immagina di incontrare Laura in Paradiso, nel cielo di Venere, il cielo degli spiriti amanti, al quale il poeta stesso, dopo la sua morte, è destinato e dove Laura lo attende. Il sonetto è chiaramente memore del sonetto dantesco Oltre la spera che più larga gira, l’ultimo della Vita nuova, ma è evidente la distanza dal modello: alla visione mistica del poeta fiorentino, giunto a contemplare le verità celesti attraverso l’amore per la donna, si contrappone un’immaginazione consolatrice, che non ha altra realtà se non nel desiderio del protagonista.

Levommi il mio penser in parte ov’era quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra1: ivi, fra lor che ’l terzo cerchio serra, 4 la rividi piú bella et meno altera2. Per man mi prese, et disse: – In questa spera3 sarai anchor meco, se ’l desir non erra4: i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra, 8 et compie’ mia giornata inanzi sera5. Mio ben non cape in intelletto humano6: te solo aspetto, et quel che tanto amasti 11 e là giuso è rimaso, il mio bel velo7. – Deh perché tacque, et allargò la mano? Ch’al suon de’ detti sí pietosi et casti8 14 poco mancò ch’io non rimasi in cielo.

La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDE CDE

1 Levommi… terra: (leggi: levòmmi) il mio pensiero mi sollevò (attraverso una visione) nel luogo celeste dov’era quella che sulla terra io cerco e non ritrovo. La posizione iniziale del verbo Levommi (con la posposizione del pronome personale mi) sottolinea l’ascesa al cielo. 2 ivi… altera: lì, fra gli spiriti che sono racchiusi nel terzo cerchio del Paradiso (il cielo di Venere, dove si trovano gli spiriti amanti) la rividi più bella e più

dolce, meno distante (che in vita). In vita, secondo quanto immagina Petrarca, Laura avrebbe assunto un atteggiamento distaccato per non compromettere la propria virtù; in morte appare perciò più dolce e affettuosa verso il poeta. Come Piccarda Donati nel Paradiso dantesco (III, 48), così nella gloria celeste Laura appare più bella. 3 spera: è la sfera celeste. 4 sarai… erra: sarai di nuovo con me, se il mio desiderio non m’inganna. 5 i’ so’ colei… sera: io sono colei che tanto ti ha fatto soffrire e che ha concluso

la vita prima del tempo (essendo morta ancora giovane). 6 Mio ben… humano: la mia beatitudine non può essere compresa da un intelletto umano. 7 te solo… bel velo: attendo solo te e [attendo] quello che tu hai tanto amato, ed è rimasto laggiù sulla terra, il mio bel corpo (velo dell’anima). Il giorno del Giudizio Universale il corpo si ricongiungerà infatti con l’anima. 8 detti sí pietosi et casti: parole così compassionevoli e pure.

Il Canzoniere 3 369


Analisi del testo Il modello della Vita nuova L’ascesa al cielo del protagonista e la visione paradisiaca di Laura, come detto, rimandano all’ultimo sonetto della Vita nuova (e all’ultimo capitolo del libello, in cui Dante allude a una «mirabile visione»); ma in Petrarca la situazione evocata è profondamente (e consapevolmente) differente: è probabile che il poeta si ponga in un rapporto di emulazione rispetto all’illustre modello. Il sonetto dantesco fa riferimento a una vera e propria visione mistica: «’l sospiro» per il rimpianto di Beatrice solleva lo spirito di Dante «oltre la spera che più larga gira», traendolo verso l’alto e infondendogli un’«intelligenza nova», eccezionale, che gli consente l’intuizione dei misteri divini. La natura di rivelazione della visione dantesca è sottolineata dal fatto che, una volta svanita la visione, il poeta tenti di interpretarne il senso («sì ch’io lo ’ntendo ben»).

Laura in Paradiso: una fantasticheria con connotazioni terrene Nel sonetto petrarchesco, invece, il protagonista non vive un rapimento mistico, ma concepisce una sorta di fantasticheria in cui immagina di incontrare la donna amata nella dimensione ultraterrena: sostanzialmente un sogno che, come tutti i sogni, svanisce, anche se il poeta avrebbe voluto prolungarne la dolcezza («poco mancò ch’io non rimasi in cielo»). La raffigurazione di Laura beata non reca l’impronta di un’autentica tensione religiosa, ma è frutto del processo di trasfigurazione sublimante e compensatoria della figura femminile dopo la morte («la rividi piÚ bella e meno altera») che ricorre anche in altri sonetti “in morte”: appare perciò nell’atteggiamento di donna innamorata che rinnega ormai gli atteggiamenti sdegnosi che tanto affanno procurarono a Francesco («i' so’ colei che ti die’ tanta guerra») e desidera solo congiungersi a lui («te solo aspetto»). Non ha tratti “angelici” (a parte la dichiarazione d’ineffabilità di sapore dantesco «Mio ben non cape in intelletto umano»), ma terreni: non a caso fa riferimento al suo bel corpo («il mio bel velo»), tanto amato dal poeta e rimasto in terra («là giuso»); alla terra continua di fatto a guardare anche l’autore che, dopo la sua morte, continua a cercare Laura nella dimensione mondana («quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra»). Sandro Botticelli, Ritratto di giovane donna, tempera su tavola, 1480-1485 (Francoforte, Städel Museum).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la visione narrata nel sonetto. ANALISI 2. Come Petrarca immagina la figura di Laura dopo la morte? Quale metamorfosi subisce il suo personaggio rispetto alla Laura terrena? LESSICO 3. Individua: a. gli aggettivi e le perifrasi che si riferiscono a Laura e spiegane l’utilizzo in riferimento all’esperienza della visione; b. i termini e le espressioni che sottolineano una ripresa di motivi cortesi e stilnovistici.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Confronta questo testo con il sonetto dantesco Oltre la spera che più larga gira, posto a conclusione della Vita nuova. Attraverso precisi riscontri testuali, evidenzia analogie e differenze tematiche e stilistiche fra i due testi.

370 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


Francesco Petrarca

T14d

Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena Canzoniere, 310

F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

Il sonetto, probabilmente scritto nella primavera del 1352, fu composto da Petrarca in occasione del ritorno a Valchiusa dopo la morte di Laura. Alla rinascita primaverile della natura, coi suoi ricchi e splendidi colori, si contrappone la desolazione del poeta, incapace di provare gioia dopo la morte della donna amata: per lui anche quei luoghi ameni sono ormai come un deserto.

Zephiro1 torna, e ’l bel tempo rimena2, e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia3, et garrir Progne et pianger Philomena4, 4 et primavera candida et vermiglia5. Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena6; Giove s’allegra di mirar sua figlia7; l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena; 8 ogni animal d’amar si riconsiglia8. Ma9 per me, lasso10, tornano i più gravi11 sospiri, che del cor profondo tragge12 11 quella ch’al ciel se ne portò le chiavi13; et cantar augelletti, et fiorir piagge14, e ’n belle donne honeste atti soavi15 14 sono16 un deserto, et fere aspre17 et selvagge.

La metrica Sonetto con schema metrico ABAB ABAB CDC DCD 1 Zephiro: vento primaverile. Qui è simbolo della vitalità della natura, che si rinnova in primavera. 2 rimena: porta nuovamente (con sé). 3 sua dolce famiglia: che sempre lo accompagnano. 4 garrir… Philomena: (riporta) il garrire della rondine e il piangere dell’usignolo. Il soggetto è sempre il vento primaverile; il riferimento mitologico introduce una nota di tristezza nel luminoso quadro. Il mito a cui allude Petrarca, narrato nelle Metamorfosi di Ovidio (VI, 421-674), è infatti uno dei più violenti e tragici dell’opera latina: Tereo, marito di Progne, violenta la sorella di lei, Filomela (Philomena), la imprigiona e le taglia la lingua perché non possa raccontare l’accaduto; Filomela riesce ugualmente a informare Progne, che la libera; insieme uccidono Iti, figlio di Progne e Tereo, e ne imbandiscono le carni a Tereo. Quando questi apprende l’accaduto, insegue le due donne; ma gli dei, per sottrarle alla sua ira, le trasformano in rondine

(Progne) e in usignolo (Filomela). Di qui il verso lamentoso dei due uccelli. 5 primavera… vermiglia: i due aggettivi, con espressione felicemente sintetica, si riferiscono ai colori dei fiori primaverili. 6 Ridono… rasserena: il chiasmo pone in evidenza, agli estremi del verso, i due verbi (ridono e rasserena), entrambi riferiti alla serenità dell’atmosfera primaverile e legati dall’affinità del suono. 7 Giove… figlia: allude alla reciproca posizione dei pianeti Giove e Venere, più vicini nel cielo primaverile. Secondo una versione del mito, Venere sarebbe infatti figlia di Giove (e Dione). L’espressione potrebbe anche riferirsi, però, al ritorno sulla terra di Proserpina, simbolo della primavera, figlia di Giove e Demetra, rapita nell’Ade da Plutone. 8 ogni animal... si riconsiglia: ogni essere vivente si predispone ad amare. 9 Ma: l’avversativa, che apre le terzine, sottolinea il passaggio dalla contemplazione della gioiosa scena primaverile al sentimento di estraneità del poeta, che non può tornare alla felicità dopo la morte della donna amata.

10 lasso: infelice. L’interiezione sottolinea lo stato d’animo desolato e inconsolabile del poeta, per il quale le liete immagini primaverili rinnovano il dolore per la morte di Laura. 11 gravi: profondi. L’aggettivo, riferito ai sospiri con cui il poeta rimpiange Laura, è evidenziato dal forte enjambement, a sottolineare il contrasto tra il ritorno della gioiosa stagione primaverile e l’esclusione del poeta da tale atmosfera di festa. 12 tragge: trae. 13 quella… chiavi: quella (Laura) che si portò in cielo le chiavi del mio cuore (chiudendolo per sempre alla gioia e all’amore). L’espressione ricalca i versi danteschi dedicati a Pier della Vigna (If XIII, 58-59): «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo». 14 piagge: campagne, pianure. 15 ’n belle... atti soavi: i dolci atteggiamenti di belle dame nobili d’animo. 16 sono: mi appaiono come. Sottinteso “per me”. 17 fere aspre: fiere crudeli.

Il Canzoniere 3 371


Analisi del testo La struttura e il contenuto Il sonetto è costruito su una struttura nettamente bipartita, fondata su una forte antitesi tra le due quartine e le due terzine e sottolineata dalla congiunzione avversativa “ma” che apre la prima terzina. Le due quartine evocano il gioioso risveglio della natura campestre in primavera attraverso riferimenti naturalistici ma anche dotti (seppur non pesanti), rimandi mitologici (come il mito di Progne e Filomela, trasformate in rondine e usignolo nelle Metamorfosi di Ovidio) ed echi classici, in particolare virgiliani. Al ritorno della gioia e dell’amore, che anima la natura primaverile e gli esseri viventi, si contrappone vistosamente la tristezza dell’io lirico, rappresentato mentre sospira al pensiero di Laura scomparsa, che ha portato con sé in cielo le chiavi del cuore del poeta. Egli non può ormai che essere estraneo alla bellezza e alla gioia. Alla ciclicità del tempo, che prevede dopo l’inverno il ritorno gioioso della primavera, si contrappone il tempo interiore che, dopo il trauma della morte dell’amata, non può prevedere nient’altro che la stasi di una perenne sofferenza.

Lo stile Mentre nelle quartine domina un ritmo musicale e prevalgono suoni dolci, in particolare nelle parole in rima, nelle terzine, e in particolare nella prima terzina, in cui emerge la sofferenza del poeta, il ritmo si modifica e prevalgono suoni più aspri. L’ultima strofa del testo torna, per la verità, a ospitare immagini positive, di bellezza e dolcezza, ma solo per smentirle duramente nell’ultimo verso, spezzato dalla cesura e caratterizzato da scelte lessicali e foniche che traducono con immediatezza il vuoto esistenziale che la morte di Laura ha creato nel protagonista.

Elizabeth Jane Gardner, Filomela e Progne, olio su tela, 1890, (collezione privata).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Descrivi il quadro primaverile presentato nelle quartine e, in rapporto ad esso, i sentimenti del poeta. 2. Evidenzia gli elementi di contrasto tra la prima e la seconda parte del sonetto (corrispondenti alle quartine e alle terzine). Ti puoi riferire in particolare alla struttura sintattica, ai temi, ai campi semantici prevalenti, alle parole chiave, ai riferimenti mitologici, alle figure retoriche, a rime, a enjambements e a suoni. 3. Nelle due parti del sonetto l’io del poeta assume un rilievo diverso. È posto in primo piano nelle quartine o nelle terzine? Per quali ragioni? Quali elementi testuali evidenziano la differenza? LESSICO 4. Indica le espressioni con cui il poeta rappresenta il ritorno della primavera. Quali aspetti del paesaggio mettono in risalto? STILE 5. Tutto il sonetto è costruito su una figura retorica: quale?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Confronta il sonetto con altre rime “in morte” di Laura, indicando i temi comuni.

online

Verso il Novecento Due interpretazioni psicanalitiche del personaggio di Laura

372 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


T15

Il tema politico Petrarca non è solo il cantore dell’amore sofferto e conflittuale per Laura, quindi non solo un modello esemplare di poesia lirica sentimentale, ma nel Canzoniere esprime anche, in un’alternanza di toni accesi e compassionevoli, la sua idea politica nei confronti della situazione italiana. E anche in questo ambito, così come in quello amoroso, si riconosce un differente punto di vista rispetto a Dante: se quest’ultimo, infatti, legato alla società del Comune del Medioevo teorizzava, nel De Monarchia (➜ C6, PAG. 265), un ideale ormai irrealizzabile e utopistico, al contrario l’esperienza di Petrarca entra in contatto con il profilarsi sulla scena politica italiana delle Signorie e quindi col crollo delle istituzioni comunali. Nasce da qui la delusione e la deplorazione delle guerre tra gli stati italiani, in un’accesa critica all’uso delle truppe mercenarie; e allo stesso tempo, in una sorta di invito super partes ai signori d’Italia, l’esortazione a recuperare nella cultura classica, nella passata grandezza di Roma, quella superiorità della stirpe latina e quel sentimento nazionale che sembrano essere stati dimenticati e calpestati.

Analisi passo dopo passo

T15a

Francesco Petrarca

Italia mia, benché ’l parlar sia indarno

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 2

Canzoniere, 128 F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

La Canzone all’Italia forse fu composta (ma è un’ipotesi, non una certezza) in occasione della guerra tra Estensi, Gonzaga e Visconti (1344-1345), che si svolse presso Parma e che coinvolse personalmente Petrarca, costringendolo a fuggire da questa città, dove soggiornava. I temi principali della canzone sono: la deplorazione delle guerre tra gli stati italiani, il richiamo alla passata grandezza di Roma e alla tradizione di civiltà dell’Italia, la condanna dell’uso di milizie mercenarie straniere.

Italia mia1, benché ’l parlar sia indarno a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sí spesse veggio2, piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali 5 spera ’l Tevero et l’Arno, e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio3.

La metrica Canzone di 7 stanze di 16 versi, endecasillabi e settenari, con schema AbC BaC cDEeDdfGfG; congedo a schema aBCcBbdEdE 1 Italia mia: Petrarca si rivolge all’Italia personificata. Nella stessa strofa, dal v. 7, si rivolgerà a Dio. Con una terza apostrofe, dalla seconda strofa della canzone, molto elaborata dal punto di vista retorico, si rivolgerà ai signori italiani in guerra.

2

benché… veggio: benché il parlare sia vano a le ferite mortali (piaghe), che così numerose (spesse) vedo sul tuo bel corpo; l’agg. indarno evidenzia lo stato d’animo rassegnato del poeta, consapevole dell’inutilità delle proprie esortazioni nei confronti di un’Italia funestata dalle guerre, che è paragonata a una donna morente (l’immagine è già nel Purgatorio VII, 95: «sanar le piaghe c’hanno Italia morta»). Questa figura retorica della pro-

La canzone si apre con un’apostrofe all’Italia personificata che ricorda quella dantesca del VI canto del Purgatorio (vv. 76-78). Ma, in contrasto con l’aspra invettiva delle terzine dantesche («Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiero in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!»), il tono della canzone petrarchesca appare fin dall’inizio affettuosamente compassionevole. La condizione dell’Italia martoriata suscita nel poeta, che si trova nella zona del conflitto tra i vari signori italiani, una dolente perplessità.

sopopea è spesso usata in componimenti poetici di tema politico. 3 piacemi... seggio: desidero (piacemi, “mi piace”) almeno che i miei sospiri siano quali si aspettano da me il Tevere, l’Arno e il Po, dove, addolorato (doglioso) e preoccupato (grave), ora mi trovo (nella Pianura Padana). Le regioni d’Italia (precisamente settentrionale e centrale) sono indicate per metonimia attraverso i nomi dei fiumi che vi scorrono.

Il Canzoniere 3 373


Rettor del cielo4, io cheggio5 che la pietà che Ti condusse in terra Ti volga al Tuo dilecto almo paese6. 10 Vedi, Segnor cortese, di che lievi cagion’ che crudel guerra7; e i cor’, che ’ndura et serra Marte superbo et fero, apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda8; 15 ivi fa’ che ’l Tuo vero, qual io mi sia, per la mia lingua s’oda9.

Attraverso la seconda apostrofe, rivolta a Dio perché illumini i signori italiani (vv. 7-16), è introdotto un primo accenno al tema religioso, che sarà poi sviluppato nella settima. L’ascendenza che il poeta invoca sulle anime dei principi è espressa dai tre verbi apri, ’ntenerisci e snoda, a cui si contrappongono i due verbi riferiti all’influsso di Marte (’ndura e serra): il Dio cristiano (evocato attraverso tre diversi appellativi in successione: Rettor del cielo al v. 7, Segnor cortese al v. 10, Padre al v. 14) è dunque contrapposto al dio mitologico della guerra (identificato dagli aggettivi superbo e fero). La prima strofa (vv. 1-16) contiene anche la presentazione del poeta: sconfortato per la situazione italiana (v. 6), negli ultimi versi di questa parte si propone nel ruolo autorevole di interprete e mediatore, mediante la sua poesia, della verità divina.

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno de le belle contrade10, di che nulla pietà par che vi stringa, 20 che fan qui tante pellegrine spade11? perché ’l verde terreno12 del barbarico sangue si depinga? Vano error vi lusinga13: poco vedete, et parvi veder molto14, 25 ché ’n cor venale amor cercate o fede15. Qual piú gente possede, colui è piú da’ suoi nemici avolto16. O diluvio17 raccolto di che deserti strani18, 30 per inondar i nostri dolci campi! Se da le proprie mani questo n’avene, or chi fia che ne scampi?19

Nella seconda strofa (vv. 17-32) il poeta si rivolge con tono accusatorio ai signori italiani, incolpati di mettere a rischio le belle contrade del paese affidate al loro governo dalla Fortuna (è significativo che, diversamente da Dante, Petrarca attribuisca alla Fortuna, e non alla Provvidenza, lo storico volgere degli eventi umani). Il fulcro dell’accusa è la scelta di impiegare sempre più frequentemente le milizie mercenarie, dal comportamento pericoloso e infido. Nel Cinquecento l’argomento delle truppe al soldo sarà ripreso da Machiavelli, che nel Principe citerà, non a caso, proprio alcuni versi della canzone di Petrarca. L’espressione Vano error è in genere riferita dall’autore alla passione amorosa. L’elemento che può collegare la visione negativa dell’amore, rappresentata in più testi del Canzoniere, al comportamento dei signori è il prevalere delle passioni e l’oscurarsi del raziocinio. Non è questo l’unico punto di contatto tra tema sentimentale e tema politico: in una strofa successiva (la VII) i prìncipi, come l’innamorato che si perde nel vaneggiare, saranno invitati a meditare sulla morte e sulla vanità delle cose terrene per mutare anch’essi la propria condotta di vita.

4 Rettor del cielo: il poeta si rivolge a

10 Voi… contrade: voi, signori d’Italia, a

Dio, e la canzone politica assume un tono di preghiera. 5 cheggio: chiedo. 6 dilecto almo paese: prediletto, nobile paese. L’aggettivo almo può essere inteso come “santo, nobile, venerando”, oppure, alla latina, «che dà vita (in quanto sede degli Apostoli)» (Santagata). L’Italia è considerata prediletta da Dio perché scelta come sede del vicario di Cristo. 7 di che lievi… guerra: per quali ragioni di scarsa importanza che guerra crudele (si è generata). Il contrasto tra gli agg. lievi e crudel sottolinea la sproporzione tra l’insignificanza delle cause e la durezza della guerra. 8 i cor’… snoda: apri, addolcisci e libera i cuori (dei signori che governano l’Italia) che Marte (dio della guerra nella mitologia), superbo e crudele, indurisce e chiude (alla pietà), e rendili compassionevoli e sensibili. 9 ivi… s’oda: là (negli animi), (Tu, o Dio) fai sì che la tua verità sia ascoltata attraverso le mie parole, qualunque sia il mio valore. Intendi: “per quanto poco io valga”.

cui la Fortuna (e non il vostro merito, né la Provvidenza divina) ha (à) affidato il governo (freno) delle belle regioni italiane. Per indicare l’attività di governo Petrarca utilizza la metafora già dantesca (Pg VI, 91-99) del cavaliere che guida e tiene a freno un cavallo. 11 pellegrine spade: soldati stranieri. La metonimia (le spade in luogo dei soldati) evidenzia l’immagine minacciosa dei mercenari stranieri, potenziali nemici delle popolazioni italiane. 12 ’l verde terreno: il colore sottolinea la bellezza e la fertilità delle regioni italiane, in contrasto con il rosso del sangue di cui esse si tingerebbero a causa della guerra. 13 Vano… lusinga: un’illusione vi inganna. I signori si illudono nel credere che i mercenari stranieri siano disposti a versare il loro sangue per l’Italia. L’espressione vano error, in genere riferita dal poeta alla passione amorosa, evidenzia il legame fra il tema politico e quello morale nel Canzoniere.

374 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca

14 poco… molto: credete di essere lungimiranti, e invece siete miopi.

15 ché ’n cor… fede: perché nel cuore di chi si vende per denaro (i mercenari) cercate affetto e lealtà (impossibili da trovare). 16 Qual… avolto: chi ha al suo seguito più soldati, quello è più circondato da (potenziali) nemici. Dato che i mercenari servono chi li paga di più, potrebbero facilmente passare alla parte avversa; così, chi possedesse più soldati si troverebbe ad essere circondato da altrettanti nemici. 17 diluvio: pioggia di armi. La metafora indica l’enorme numero di soldati mercenari giunti in Italia. 18 raccolto… strani: reclutato da luoghi deserti ed estranei, selvatici (cioè ancor privi della cultura e della civiltà italiane). 19 Se da le proprie… scampi?: se questo ci accade (n’avene) per opera degli stessi italiani, chi sarà che potrà salvarcene? L’interrogativa retorica evidenzia l’accusa di irresponsabilità ai signori italiani nei confronti delle sorti dell’Italia, con il ricorso alle milizie straniere.


Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo 35 pose fra noi et la tedesca rabbia20; ma ’l desir cieco, e ’ncontra ’l suo ben fermo21, s’è poi tanto ingegnato, ch’al corpo sano à procurato scabbia22. Or dentro ad una gabbia 40 fiere selvagge et mansüete gregge s’annidan sí che sempre il miglior geme23; et è questo del seme, per piú dolor, del popol senza legge24: al qual, come si legge, 45 Mario aperse sí ’l fianco, che memoria de l’opra ancho non langue25, quando assetato et stanco non piú bevve del fiume acqua che sangue26. Cesare taccio27, che per ogni piaggia 50 fece l’erbe sanguigne di lor vene, ove ’l nostro ferro mise28. Or par, non so per che stelle maligne29, che ’l cielo in odio n’aggia30: vostra mercé, cui tanto si commise31. 55 Vostre voglie divise Guastan del mondo la piú bella parte32. Qual colpa, qual giudicio o qual destino33 fastidire il vicino povero34, et le fortune afflicte et sparte

20 Ben provide… rabbia: la colpa dei signori è ancora più grave perché stravolge l’ordine naturale che, con le Alpi, aveva posto una barriera per la nostra sicurezza (al nostro stato) fra noi e la ferocia dei popoli germanici (la tedesca rabbia). 21 ’l desir… fermo: la cupidigia, cieca e ostinata contro il proprio vantaggio. Anche il termine desir, con l’aggettivo cieco, crea un legame fra la tematica politica del Canzoniere e quella della passione amorosa. 22 s’è poi… scabbia: si è data da fare (ingegnato) a tal punto che ha devastato il corpo sano (l’Italia). Il male deturpante della metafora è la scabbia, grave malattia della pelle. 23 il miglior geme: i più nobili d’animo sono vittime e soffrono. Le miti popolazioni italiane sono sottoposte alla violenza dei mercenari tedeschi; la situazione è resa attraverso la metafora di una gabbia in cui siano rinchiusi insieme (s’annidan) animali feroci e pecore mansuete, cosicché i primi strazino le seconde (il miglior geme, “le greggi”, cioè gli italiani, “gemo-

Nella terza strofa (vv. 33-48) emerge il tema del confronto con Roma antica: gli italiani, pronti a invocare l’aiuto di milizie mercenarie tedesche, dovrebbero ricordarsi di discendere dagli antichi Romani, che più volte, in passato (è ricordato Mario e, nella strofa successiva, Cesare) hanno sanguinosamente sconfitto il popolo germanico, alla cui stirpe appartengono i mercenari. Al contrario, la stolida avidità (’l desir cieco) dei signori è riuscita a introdurre un morbo infestante (appunto la presenza delle truppe mercenarie) in un corpo sano (l’Italia). Per sottolineare le colpevoli responsabilità dei prìncipi italiani Petrarca introduce alcune incisive metafore: la scabbia, tratta dal linguaggio medico, a cui segue la metafora spaziale della gabbia; le popolazioni italiane e i crudeli mercenari si trovano a convivere forzatamente nello stesso paese, in una condizione innaturale, così come in una stessa gabbia animali miti e fiere sanguinarie.

Nella quarta strofa (vv. 49-64) il poeta ricorda le pesantissime sconfitte inferte da Cesare alle popolazioni germaniche attraverso una preterizione, per sottolineare la notorietà degli eventi taciuti.

Attraverso un’espressione duramente accusatoria Petrarca incolpa della rovina dell’Italia le brame discordi dei signori (Vostre voglie divise), indegni dell’alto compito a loro affidato: mentre infieriscono su stati vicini più deboli, ricercano e accolgono armate straniere che vendono la propria stessa vita. Petrarca condanna il principio stesso che sostiene l’attività delle milizie mercenarie.

no, oppresse”). Anche il chiasmo sottolinea il contrasto fra le due popolazioni. 24 et è questo… legge: e questo ci viene, per (darci) maggior dolore, dalla discendenza di quello stesso popolo privo della civiltà. Si intendono qui i Germani che, ai tempi delle lotte con Roma, patria del diritto, non possedevano ancora leggi scritte. 25 Mario… langue: (popolo) che Mario sbaragliò (lett. “a tal segno sventrò”) al punto che il ricordo dell’impresa (opra) non è ancora (ancho) svanito. Nel 102 a.C. il console Caio Mario sconfisse ad Aquae Sextiae (Aix-en-Provence) la popolazione germanica dei Teutoni, che si preparavano a invadere l’Italia. 26 quando… sangue: secondo lo storico latino Floro, nel fiume presso il luogo della battaglia alla fine scorreva più sangue che acqua. 27 Cesare taccio: tralascio di parlare di Cesare. È una preterizione: dicendo che non si tratterà di qualcosa, in realtà se ne

parla, ma incidentalmente, il che sottolinea la notorietà dei fatti (qui le imprese di Cesare in Gallia e Germania). 28 per ogni piaggia… mise: in tutti i territori dove portò le nostre armi (’l nostro ferro), le legioni romane, bagnò l’erba del loro sangue (vene). 29 per che stelle maligne: per qual destino avverso, per quali influenze astrali avverse. 30 in odio n’aggia: ci abbia in odio (noi, italiani). 31 vostra mercé… si commise: per vostra colpa (dei signori italiani), a cui fu affidato un compito così importante (tanto). vostra mercé è ironico (antifrastico). 32 Vostre voglie… parte: le vostre discordi aspirazioni rovinano il più bel paese del mondo. 33 Qual colpa… destino: a causa di quale vostra colpa, di quale decreto divino, di quale fatalità. 34 fastidire il vicino povero: (siete spinti a) tormentare i confinanti meno potenti.

Il Canzoniere 3 375


60

perseguire35, e ’n disparte cercar gente et gradire36, che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo37? Io parlo per ver dire38, non per odio d’altrui, né per disprezzo. 39

Né v’accorgete anchor per tante prove del bavarico inganno40 ch’alzando il dito colla morte scherza41? Peggio è lo strazio42, al mio parer, che ’l danno; ma ’l vostro sangue piove 70 piú largamente, ch’altr’ira vi sferza43. Da la matina a terza44 di voi45 pensate, et vederete come tien caro altrui che tien sé cosí vile46. Latin sangue gentile47, 75 sgombra da te queste dannose some48; non far idolo un nome vano senza soggetto49: ché ’l furor de lassú, gente ritrosa, vincerne d’intellecto, 80 peccato è nostro, et non natural cosa50. 65

Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria? Non è questo il mio nido ove nudrito fui sí dolcemente51?

35 le fortune… perseguire: a infierire sui loro beni già danneggiati (o intaccati) e dispersi (o dissipati). 36 ’n disparte… gradire: a cercare e apprezzare gente richiamata da luoghi lontani. 37 l’alma a prezzo: la loro vita per danaro. 38 per ver dire: per dire la verità. 39 anchor: ancora, cioè dopo tante prove. 40 bavarico inganno: inganno dei mercenari tedeschi. La Baviera è una regione della Germania da cui provenivano molti mercenari; l’aggettivo è usato per sineddoche. 41 alzando… scherza: alzare il dito era un gesto di resa per i gladiatori sconfitti. Qui si intende che i mercenari tedeschi si arrendono. 42 lo strazio: il disonore, lo scherno.

Anche questa strofa (la quinta, vv. 65-80) è incentrata sulle milizie mercenarie, di cui è evidenziato il modo vile di combattere, che non merita fiducia: guerreggiando per uno stipendio, e non per una causa in cui credano, ben difficilmente rischiano la vita e, trovandosi nel pericolo, si arrendono. Al contrario, a cadere sul campo sono più facilmente gli italiani, che combattono per ben diverse motivazioni («altr’ira vi sferza»). Gli italiani sono qui identificati dall’espressione «Latin sangue gentile», che allude alla loro gloriosa origine e ne sottolinea la superiorità rispetto ai Germani.

La sesta strofa della canzone (vv. 81-96) vede un cambiamento di registro rispetto alla precedente. Prevale qui una tonalità emotiva e commossa, anche in rapporto al personale coinvolgimento dell’autore: l’Italia è il luogo dove è nato, dove è stato allevato e dove sono sepolti i suoi genitori. Emerge nella strofa la visione dell’Italia come patria, luogo delle memorie e degli affetti. L’intensità della commozione del poeta è espressa attraverso tre interrogative retoriche, enfatizzate dall’anafora e dal climax.

43 ’l vostro sangue… vi sferza: il sangue fratricida (vostro, cioè degli italiani) scorre più copiosamente, perché una ben diversa rabbia vi assale. Gli italiani trovano più facilmente ferite e morte perché mossi a combattere da un odio sincero verso il nemico. 44 Da la matina… terza: dall’alba alle nove del mattino (a terza, sott. ora, per la tradizionale scansione del tempo del giorno secondo le ore canoniche). Un tempo breve, ma propizio alla meditazione. 45 di voi: a voi. 46 vederete… vile: vedrete come può mostrare dedizione ad altri colui che tiene sé stesso in così poco conto (da vendersi per denaro, come fanno i mercenari). 47 Latin sangue gentile: o nobile stirpe latina. 48 sgombra… dannose some: liberati da

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questo peso inutile e pericoloso. Si allude sempre ai mercenari. 49 non far idolo… senza soggetto: non sopravvalutare una fama vana (il valore dei combattenti tedeschi), senza corrispondenza con la realtà. 50 ché ’l furor… cosa: perché è colpa nostra, e non cosa naturale, che ci superi in intelligenza la selvaggia popolazione germanica, avversa alla civiltà (ritrosa). 51 Non è questo… dolcemente: non è questo il terreno che per primo toccai (dove nacqui)? Non è questa la mia casa (nido) dove fui allevato così dolcemente? Le interrogative retoriche, evidenziate dall’anafora, sottolineano l’amore per la patria italiana. Tali sentimenti però, dovrebbero essere comuni a tutti gli italiani e agli stessi prìncipi. 52 in ch’io mi fido: a cui mi affido.


Non è questa la patria in ch’io mi fido52, 85 madre benigna et pia, che copre l’un et l’altro mio parente53? Perdio54, questo la mente talor vi mova55, et con pietà guardate le lagrime del popol doloroso56, 90 che sol da voi57 riposo58 dopo Dio spera; et pur che voi mostriate segno alcun di pietate59, vertú contra furore prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: 95 ché l’antiquo valore ne l’italici cor’ non è anchor morto60. Signor’, mirate61 come ’l tempo vola62, et sí come la vita fugge, et la morte n’è sovra le spalle63. 100 Voi siete or qui; pensate a la partita64: ché l’alma ignuda et sola conven ch’arrive a quel dubbioso calle65. Al passar questa valle piacciavi porre giú66 l’odio et lo sdegno, 105 vènti contrari a la vita serena67; et quel che ’n altrui pena tempo si spende, in qualche acto piú degno o di mano o d’ingegno, in qualche bella lode, 110 in qualche honesto studio si converta68: cosí qua giú si gode69, et la strada del ciel si trova aperta70. Canzone71, io t’ammonisco che tua ragion cortesemente dica72, 53 madre… parente: madre benevola e pietosa, dove sono sepolti entrambi i miei genitori. L’amore per la patria nasce dai più dolci affetti e dai primi ricordi. 54 Perdio: in nome di Dio. 55 questo… mova: questi pensieri (del nido e della patria) vi commuovano (mova al sing.) qualche volta. 56 doloroso: addolorato. 57 da voi: dai signori, a cui il poeta si rivolge. 58 riposo: pace. 59 et pur… pietate: e se voi mostrerete qualche segno di amore per l’Italia. 60 vertú… morto: il valore (degli italiani) prenderà le armi contro la ferocia (dei mercenari tedeschi) e il combattimento sarà breve perché (ché) l’antico valore (dimostrato dagli antichi Romani) non è ancora spento nei cuori italiani. Emerge

Presupponendo che la devozione alla patria comune sia condivisa anche dai prìncipi, il poeta chiede che abbiano pietà delle popolazioni loro affidate; si dichiara infine persuaso che la virtù (nel senso latino) degli italici possa prevalere sulla bestiale ferocia dei mercenari tedeschi, dimostrando come il valore degli italiani sia rimasto quello degli antichi latini. Emerge nei versi conclusivi della strofa il tema preumanistico della continuità tra la virtù degli antichi Romani e gli italiani, che dovrebbero esserne degni eredi. Non a caso, i versi saranno posti da Machiavelli alla conclusione del Principe proprio come monito agli italiani del suo tempo.

Nella settima e ultima strofa (vv. 97-112) il poeta torna a rivolgersi direttamente ai prìncipi, invitandoli ad una riflessione sulla brevità della vita, sull’incombere della morte e del giudizio di Dio. Il tema filosofico e religioso della meditazione sulla morte per acquisire consapevolezza della vanità delle passioni terrene è centrale nel Canzoniere (basti pensare al sonetto CCLXXII: La vita fugge et non s’arresta una hora (➜ T13b ), che presenta evidenti affinità con questi versi della canzone). La presa di coscienza della transitorietà dell’esistenza e il pensiero della morte dovrebbe indurre i prìncipi ad abbandonare gli atteggiamenti di sopraffazione che inducono alla violenza e alla guerra, per dedicare il tempo a più nobili e meritevoli gesti e imprese. Osserva ai vv. 106-112 la netta contrapposizione, a livello lessicale, tra due modi opposti di impiegare il tempo della vita: da un lato le guerre fratricide e dall’altro le opere degne di lode, che dopo la morte saranno premiate.

qui il tema umanistico della grandezza di Roma e della continuità tra i Romani e gli italiani; questi versi saranno citati come monito per gli italiani da Machiavelli nel capitolo conclusivo del Principe. 61 mirate: guardate, considerate. 62 ’l tempo vola: anche nella canzone politica emerge il tema petrarchesco della fugacità del tempo e della vita. 63 n’è sovra le spalle: incombe su di noi. 64 a la partita: alla dipartita, alla morte. 65 ché l’alma… dubbioso calle: perché l’anima dei potenti, nella morte, priva di potere e di ricchezze (ignuda) e di seguito (sola) dovrà imboccare quel pauroso passaggio (quello della morte). I signori dovranno render conto a Dio del loro operato. 66 Al passar… porre giú: nell’attraversare questa vita vogliate deporre. La vita

è, metaforicamente, una valle di lacrime, secondo la tradizione scritturale. 67 vènti… serena: allusione alla metafora della vita come navigazione, ricorrente nel Canzoniere, in cui i venti rappresentano le passioni, contrarie alla saggezza. 68 quel… si converta: quel tempo che si spende per (causare) mali agli altri venga dedicato a qualche attività più degna, o pratica (di mano) o intellettuale (d’ingegno), a qualche azione degna di lode, a qualche onorevole impresa. 69 qua giú… gode: in questa vita si prova gioia. 70 la strada… aperta: si merita il Paradiso. 71 Canzone: come tradizione, nella strofa finale del congedo, il poeta si rivolge alla propria canzone. 72 tua ragion… dica: tu esponga le tue ragioni in modo cortese.

Il Canzoniere 3 377


perché fra gente altera ir ti convene73, et le voglie son piene già de l’usanza pessima et antica, del ver sempre nemica74. Proverai tua ventura 120 fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace75. Di’ lor: – Chi m’assicura?76 I’ vo gridando: Pace, pace, pace. – 115

73 fra gente… convene: tu devi andare fra gente superba (i prìncipi). Nel congedo è ribadita la posizione di aperta critica ai signori cui è rivolta la canzone. 74 le voglie… nemica: le passioni dell’anima sono inclini all’abitudine pessima e

Il congedo evidenzia l’intento fondamentale della canzone: l’appello alla pace. Come d’uso, in questa parte il poeta si rivolge alla canzone, sottolineando qui la necessità di indirizzare in modo cortese le sue giuste ragioni a prìncipi superbi e abituati a essere adulati, ritenendo che solo pochi magnanimi e amanti del bene la vorranno ascoltare. La triplice invocazione alla pace, parola conclusiva della canzone, evidenzia l’importanza di tale valore anche nel Canzoniere, di cui pace è, appunto, la parola conclusiva.

inveterata (l’adulazione), da sempre nemica della verità. 75 Proverai… piace: avrai buona accoglienza fra i pochi nobili d’animo che amano il bene. A scopo persuasivo è introdotta una distinzione tra i signo-

ri d’Italia rivolti al bene e quelli sensibili all’adulazione: soltanto i primi ascolteranno il messaggio di pace della canzone. 76 Chi m’assicura?: chi si offre di difendermi (in quanto messaggera di pace)?

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza le critiche rivolte dal poeta ai signori italiani e indica quale sia, sempre secondo il poeta, la missione a cui essi dovrebbero tendere. COMPRENSIONE 2. Indica in un paragrafo le ragioni sostenute nella canzone contro le milizie mercenarie. 3. Quale immagine dell’antica Roma emerge nella canzone? ANALISI 4. Indica i versi della canzone in cui, intrecciato a quello politico, è presente il tema religioso. 5. Indica i versi in cui il poeta fa riferimento al proprio ruolo nei confronti dei potenti. STILE 6. Individua e analizza le metafore che rappresentano la situazione dell’Italia nella canzone.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1, 2

7. Nel congedo il poeta, rivolgendosi alla canzone, le chiede di andare dai potenti superbi e di invocare presso di loro la pace. Quanto questo tema stia a cuore a Petrarca si comprende dalla ripetizione della parola pace nell’ultimo verso per ben tre volte. Interessante anche notare che Petrarca crei un connubio tra coloro che amano la pace e gli animi magnanimi: così affermando, dunque, che solo coloro che sono nobili d’animo possono amare la pace. Quant’è attuale questo appello di Petrarca? Ci sono aspetti in questa canzone che si possono riferire anche all’attualità? LETTERATURA E NOI 8. Componi uno scritto accusatorio: quali aspetti negativi del nostro paese metteresti in luce?

online T15b Francesco Petrarca

Fiamma dal ciel su le tue treccie piova Canzoniere, 186

Simone Martini, Ritratto di Guidoriccio da Fogliano, affresco, 1328 ca. (Siena, Palazzo Pubblico).

378 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


T16

Verso la chiusura del cerchio? Come detto nel Profilo, gli ultimi testi del Canzoniere indicano la volontà programmatica dell’autore di chiudere l’opera nel segno del pentimento e dell’approdo alla dimensione religiosa, in modo da riscattare l’“errore” di cui si parla nel sonetto proemiale. Questo mutato atteggiamento spirituale è testimoniato in particolare dal penultimo testo (I’ vo piangendo i miei passati tempi), che proponiamo qui, e dalla Canzone alla Vergine, che chiude la raccolta.

Francesco Petrarca

T16a

I’ vo piangendo i miei passati tempi Canzoniere, 365

F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

La posizione che Petrarca assegna a questo sonetto nel Canzoniere (l’ultimo testo dell’opera prima della conclusiva Canzone alla Vergine) implica che gli attribuisse un significato importante nell’itinerario esemplare tracciatovi. Ormai giunto alla fase estrema della vita («quel poco di viver che m’avanza», v. 12), il poeta rivolge un’accorata preghiera a Dio che prepara e anticipa quella che verrà rivolta alla Vergine nella canzone finale: quest’ultima appare così in stretto rapporto tematico con il sonetto qui presentato.

I’ vo piangendo i miei passati tempi i quai posi in amar cosa mortale1, senza levarmi a volo, abbiend’io l’ale2, 4 per dar forse di me non bassi exempi. Tu che vedi i miei mali indegni et empi, Re del cielo invisibile immortale, soccorri a l’alma disvïata et frale3, 8 e ’l suo defecto di Tua gratia adempi4: sí che, s’io vissi in guerra et in tempesta, mora5 in pace et in porto; et se la stanza6 11 fu vana, almen sia la partita7 honesta8. A quel poco di viver che m’avanza et al morir, degni esser Tua man presta9: 14 Tu sai ben che ’n altrui10 non ò speranza.

La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDC DCD 1

i quai posi… mortale: che ho impiegato nell’amare una cosa mortale (Laura). 2 senza… l’ale: senza sollevarmi in volo, pur avendo le ali. Metaforicamente: senza innalzarmi a Dio, sebbene ne avessi la possibilità.

3 disvïata et frale: sviata dall’errore e fragile, debole. 4 ’l suo… adempi: compensa le sue mancanze con la Tua grazia. 5 mora: muoia. 6 stanza: permanenza in terra. 7 partita: il momento del distacco (la morte).

8 honesta: virtuosa. 9 degni… presta: la tua mano (simbolicamente: la Grazia divina) si degni di essere pronta (a soccorrermi). 10 altrui: altri.

online T16b Francesco Petrarca

Vergine bella Canzoniere, 366

Il Canzoniere 3 379


Analisi del testo Un testo di ispirazione religiosa Nella raccolta petrarchesca erano già presenti altri testi incentrati sul pentimento e sul riconoscimento dell’errore (a partire dallo stesso sonetto proemiale), come non mancano testi-preghiera (ad esempio Padre del ciel ➜ T9b OL); ma in questo sonetto si evidenziano dei segni di cambiamento che vanno oltre la consueta oscillazione di stati d’animo propria del Canzoniere. L’abbandono fiducioso in Dio che impronta il testo conferisce al componimento un più marcato tratto religioso: anche se le passioni terrene non sono vinte, la fede sembra finalmente prevalere, così da consentire al poeta la speranza di concludere la vita in modo opposto a come l’ha vissuta.

Un amaro bilancio esistenziale Giunto alla fine dell’itinerario umano e poetico tracciato nel Canzoniere, nella prospettiva della morte, avvertita come ormai vicina, l’autore traccia un amaro bilancio esistenziale, in cui il passato è giudicato con severità: non c’è più posto per i ricordi nostalgici, capaci di illuminare con la loro luce consolatoria l’esistenza, ma solo per la dolorosa constatazione di aver speso male la vita nell’attaccamento alla dimensione mondana e a un amore fallace («mali indegni et empi») anziché elevarsi, come pure avrebbe potuto fare, alla dimensione del divino. Anche alla fine dell’opera Petrarca conferma di voler consegnare ai lettori presenti, ma soprattutto futuri, un’immagine di sé come modello non di perfezione ma di fragilità. Non resta ormai che rivolgere una accorata richiesta d’aiuto a Dio perché assicuri allo scrittore una morte cristiana, dopo tanti errori.

La struttura e lo stile La prima quartina vede in primo piano l’io lirico, impegnato in una dolorosa autoanalisi: significativo l’uso dell’indicativo presente + gerundio (vo piangendo) che conferisce all’azione carattere durativo. La seconda quartina mette in evidenza il Signore («Tu che vedi i miei mali...») aprendo la preghiera che occupa il resto del sonetto. Ma di certo l’io non scompare: in particolare nella prima terzina ritorna, addirittura accentuato, il consueto autoritratto di Petrarca come uomo del dissidio e dell’errore. Particolarmente presente in questo testo l’uso delle antitesi in rapporto alla contrapposizione vita/morte, che è al centro del sonetto; ma sono presenti anche i confronti di guerra vs pace, tempesta vs porto e vana vs honesta; ma l’antitesi era già presente nell’opposizione, all’interno della prima quartina, tra l’attaccamento al terreno e caduco e l’elevazione al divino. Significativo l’accostamento in rima tra mortale (v. 2) e l’ale (v. 3), poi ripreso nella quartina successiva dall’accostamento tra immortale riferito a Dio e frale, cioè “fragile”, riferito all’anima del poeta.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto di ciascuna delle quartine e delle terzine del sonetto. COMPRENSIONE 2. A cosa ritieni alluda il poeta quando, al v. 4, afferma che avrebbe potuto dare di sé non bassi exempi? 3. Quali contrapposizioni sono istituite tra il passato e il presente del protagonista? ANALISI 4. Indica in quale verso del sonetto si allude all’amore per Laura e quale valutazione ne viene proposta. 5. Il poeta dice, al v. 14, di non avere speranza ’n altrui: a chi pensi si riferisca? Che cosa intende sottolineare con tale affermazione? 6. Individua nel testo le espressioni antitetiche, riportando i termini che si riferiscono alla sfera lessicale della bassezza e fragilità umana, e quelli invece riferiti alla sfera trascendente della salvezza.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. Metti a confronto questo sonetto con quello proemiale, segnalando analogie e differenze.

380 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


Dante e Petrarca a confronto Dante

Petrarca

L’UOMO E IL POETA

• partecipa alla vita pubblica e politica di Firenze • la sua opera si confronta spesso con la realtà e la società del suo tempo

• è un intellettuale appartato e si pone al servizio dei grandi signori • nella sua opera soggettività e interiorità hanno un ruolo centrale

LATINO O VOLGARE?

• difende l’importanza del volgare come lingua letteraria (pur riconoscendo la nobiltà del latino)

• ritiene che il latino sia la lingua della cultura per eccellenza

LA LINGUA E LO STILE

• plurilinguismo e sperimentalismo formale • linguaggio in cui convivono vocaboli di varia origine (lessico popolare, tecnico, latinismi, provenzalismi, neologismi ecc.) • interesse per la riflessione sulla lingua • capacità di usare e, nel caso, mescolare diversi stili

• monolinguismo e “classicismo” • l inguaggio selezionato e circoscritto • s carso interesse per la riflessione sulla lingua • r icerca di uno stile “medio”, di una omogeneità senza dissonanze

LA CONCEZIONE DELL’AMORE

• il tema dell’amore è importante ma non è esclusivo • Beatrice è una creatura angelica, spirituale, che porta salvezza e beatitudine • l’amore per Beatrice è la via che porta all’amore per Dio

• il tema dell’amore è centrale • Laura è una creatura umana, di una bellezza sublime, ma “terrena” • l’amore per Laura non è conciliabile con l’amore per Dio

Fissare i concetti Francesco Petrarca Ritratto d’autore 1. Perché la figura di Petrarca rappresenta una novità nel panorama letterario della sua epoca? 2. Quale influenza ebbe l’incontro con Laura nella vita e nell’opera di Petrarca? 3. Quali sono le peculiarità delle opere di ispirazione storico-erudita? Quali quelle delle opere di ispirazione morale-religiosa? 4. Per quale motivo il Secretum può essere definito il “libro dei conflitti”? 5. Quali sono i modelli letterari del Secretum? 6. Quale immagine consegna di sé stesso ai posteri Petrarca, attraverso il suo epistolario? 7. Qual è il significato del titolo dell’opera i Trionfi? Il Canzoniere 8. Come sono ordinati i singoli componimenti all’interno del Canzoniere? 9. Quali temi vengono affrontati nel Canzoniere? 10. In che cosa consiste la modernità del Canzoniere? 11. Quali scelte stilistiche adotta Petrarca nel Canzoniere? 12. Qual è stata la ricezione del Canzoniere nel tempo?

Il Canzoniere 3 381


VERSO IL NOVECENTO

Andrea Zanzotto Notificazione di presenza sui Colli Euganei

IX Ecloghe

A. Zanzotto, IX Ecloghe, Mondadori, Milano 1962

Zanzotto ebbe a dichiarare che questo era il suo testo più vicino al sonetto proemiale del Canzoniere, ma il componimento riecheggia in realtà più liriche petrarchesche; in particolare l’incipit ipotetico riprende il sonetto CCXXIV: «S’una fede amorosa, un cor non finto»; il v. 8, con la forte antitesi «in opposti tormenti agghiaccio et ardo» ne ricorda il v. 12 («s’arder da lunge e agghiacciar da presso»). Al celebre sonetto Solo et pensoso rimanda il riferimento ai passi del v. 4, ma soprattutto il tema di un paesaggio specchio dell’io (v. 11). Ma in tutta la lirica aleggia un clima petrarchesco per il riferimento a un io tormentato, diviso da opposte spinte interiori, che ricerca faticosamente la pace («...il ciel mi dia ventura / et in armonie pur io possa compormi»). D’altra parte il titolo, Notificazione di presenza sui Colli Euganei, che utilizza ironicamente il registro burocratico, sottolinea la distanza tra lo stile poetico della tradizione letteraria e il linguaggio attuale, e allude insieme alla frattura ormai incolmabile tra l’uomo moderno alienato e la natura.

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Se la fede, la calma d’uno sguardo come un nimbo, se spazi di serene ore domando1, mentre qui m’attardo sul crinale che i passi miei sostiene2, se deprecando vado le catene e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo onde per entro le più occulte vene in opposti tormenti agghiaccio et ardo, i vostri intimi fuochi e l’acque folli di fervori e di geli avviso, o colli in sì gran parte specchi a me conformi3. Ah, domata qual voi l’agra natura, pari alla vostra il ciel mi dia ventura e in armonie pur io possa compormi4.

La metrica Sonetto, con schema ABAB BABA CCD EED. Lo schema a chiasmo delle quartine ha un precedente nel sonetto CCLXXIX del Canzoniere, mentre lo schema delle terzine non ha precedenti nella raccolta. 1 Se… domando: Se chiedo la fede, la calma di uno sguardo come una nuvola (nimbo), se (chiedo) lo spazio temporale di ore serene. Nimbo può essere equivalente di nembo (“nuvola gravida di pioggia”), ma può anche significare l’alone luminoso posto intorno al capo delle figure divine nell’iconografia cristiana.

382 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca

2 mentre… sostiene: mentre mi attardo qui sul crinale (allineamento dei rilievi di una catena montuosa) che sostiene i miei passi. Come è detto nel titolo, si tratta dei Colli Euganei, dove si trovava Arquà, ultima dimora petrarchesca; il rimando è anche alle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, il cui protagonista trova rifugio appunto sui Colli Euganei. 3 se deprecando… conformi: se vado biasimando le catene (amorose) e l’incantesimo che dura da anni e il filtro e le frecce d’amore, per cui nella parte più nascosta di me agghiaccio e ardo in opposti tormenti, o colli, in così ampia mi-

sura specchi fedeli del mio animo, (anche in voi) riconosco (avviso) i vostri interni fuochi e le acque folli di calori e di gelo. I Colli Euganei sono di origine vulcanica e custodiscono sorgenti di acque termali, alcune ad alta temperatura. In modo originale Zanzotto riprende il tema petrarchesco della natura come specchio della condizione interiore. 4 Ah, domata… compormi: Ah, domata come voi la mia natura aspra, il cielo mi dia una sorte simile alla vostra e possa anch’io ricompormi in armonia.


Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Francesco Petrarca nasce ad Arezzo il 20 luglio 1304. Il padre, notaio fiorentino, era stato esiliato da Firenze due anni prima. Dopo un breve soggiorno in Toscana, il notaio si trasferisce con la famiglia nelle vicinanze di Avignone, dove aveva ottenuto un incarico presso la curia papale. A partire da qui l’intera esistenza di Petrarca sarà caratterizzata da diversi spostamenti. Petrarca viene avviato agli studi giuridici (Montpellier e Bologna) che però abbandona rientrando ad Avignone in seguito alla morte del padre. Qui avviene l’incontro con Laura, la misteriosa figura immortalata nel Canzoniere intorno alla quale ruota la complessa vicenda umana ritratta nell’opera. A partire da questo incontro nasce una lunga passione amorosa, che segnerà tutta la vicenda esistenziale e letteraria del poeta. Per garantirsi una rendita fissa che gli consenta di dedicarsi senza preoccupazioni economiche agli amati studi letterari, decide di intraprendere la carriera ecclesiastica ed entra al servizio, dal 1330 al 1347, della potente famiglia dei Colonna. Il prestigio crescente legato alla fama di letterato lo porta poi a compiere diverse missioni diplomatiche per la famiglia dei Visconti o per il governo repubblicano di Venezia. Si muove tra i centri più importanti dell’Italia, tra cui Roma, Parma, Verona, Mantova, Ferrara, Firenze, e altre città ancora, ma spazia anche entro il territorio europeo: Parigi, Gand, Lione, Liegi (queste missioni diplomatiche sono l’occasione per ricercare nelle biblioteche di tutta Europa i testi degli autori classici andati perduti). Gli restano particolarmente cari i problemi dell’Italia di cui lamenta la perenne situazione di conflittualità. Disgustato dalla corte avignonese, dal 1337 al 1353 vive a periodi alterni a Valchiusa, che rappresenta per molti anni il suo “buon ritiro”: qui concepisce e compone le sue opere più importanti: il De vita solitaria (La vita solitaria) e il De otio religioso (La quiete della vita religiosa), il Bucolicum carmen, parte dell’Epistolario e il Secretum. Anche lo stesso Canzoniere ha la sua genesi e la prima elaborazione a Valchiusa. Nel 1341, dopo esser stato sottoposto, per sua richiesta, a Napoli a un esame dal re Roberto d’Angiò, cultore delle lettere, ottiene la “laurea” poetica a Roma. Nel 1361 lascia Milano per sfuggire a un’epidemia di peste e si stabilisce ad Arquà, una cittadina sui Colli Euganei presso Padova: qui ritrova la pace della Valchiusa, anche se non disdegna di compiere ancora diverse missioni diplomatiche (a Pavia, a Venezia). Nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374 muore, dopo aver lavorato fino all’ultimo all’ordinamento del suo Canzoniere.

Un nuovo modello di intellettuale e una nuova visione culturale: verso l’Umanesimo Immerso in una realtà in forte cambiamento, Petrarca rifiuta le interpretazioni generali e totalizzanti del mondo proprie della cultura medievale. Egli prende le distanze dal sistema aristotelico e dalla Scolastica, filosofie che studiavano la realtà con scopi enciclopedici e classificatori, contrapponendovi una “cultura dell’interiorità”, già presente nei lavori di Seneca e soprattutto di sant’Agostino, il suo principale “maestro di pensiero”: per il

Sintesi

Duecento e Trecento 383


poeta, dunque, l’unica filosofia veramente utile per l’uomo è quella morale. Lo scrittore ha grandissima considerazione della letteratura, che ritiene una disciplina autonoma da tutte le altre e necessaria per la crescita spirituale dei lettori. Tali concezioni derivano da un’assidua lettura dei pensatori classici: attraverso di essi egli ritrova insegnamenti da applicare nella vita quotidiana e modelli a cui conformare la propria condotta. Nel contempo, lo scrittore instaura con essi un dialogo ideale e un rapporto alla pari, quasi familiare; il tutto senza mai trascurare, però, la storicità dei loro lavori: in ciò egli mostra una sensibilità e uno spirito critico che anticipano quelli dell’Umanesimo e del Rinascimento. L’autore vive il proprio apprezzamento per gli intellettuali antichi in modo non conflittuale con la fede cristiana; al contrario, egli cerca di operare una sintesi tra le due culture, più tardi definita “Umanesimo cristiano”. Petrarca è uno scrittore “bilingue”, si serve con naturalezza sia del volgare sia del latino; il suo latino è quello classico, modellato su Cicerone e Virgilio, ed è utilizzato nella maggioranza delle opere, a testimonianza di una concezione elitaria della cultura.

2 Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico

L’itinerario di Petrarca alla ricerca della propria identità di scrittore Francesco Petrarca esordisce come autore di rime in volgare. Tuttavia, è attratto dal modello dell’autore classico che compone in latino. È da questi lavori che si aspetta fama e gloria; ma, sebbene la maggior parte dei suoi scritti sia in latino, il Canzoniere, il suo capolavoro e una delle opere più importanti della letteratura italiana, insieme ai Trionfi, un poema allegorico incompiuto, sono scritti in volgare. Nel Secretum, una sorta di “libro-confessione”, e in alcune lettere, Petrarca ricostruisce retrospettivamente una crisi spirituale che lo coglie a circa quarant’anni (1344). Lo scrittore abbandona, dunque, i lavori storici ed eruditi e incentra la propria produzione su temi morali ed esistenziali, e in particolare sull’esplorazione dell’interiorità. Nasce così la necessità di mettere ordine sia nella vita sia nella produzione letteraria, raccogliendo i frammenti sparsi di quest’ultima in un’opera unitaria che ne descriva l’esistenza e ne faccia un autoritratto: nasce il Canzoniere. Nella produzione latina di Petrarca, oltre al Secretum e alle Epistole, si possono individuare due filoni principali. Le opere storicoerudite sono ispirate all’entusiasmo per i classici e sono avviate alla fine degli anni Trenta del XIV secolo: l’Africa è un poema epico in esametri ispirato a Livio e a Virgilio, rimasto incompiuto. Il De viris illustribus, pure incompiuto, è un esempio di erudizione che espone le biografie di grandi uomini del passato. Il Rerum memorandarum è una raccolta incompiuta di aneddoti ed esempi dal mondo latino e ispirata da Valerio Massimo. Il Bucolicum carmen è un poema in 12 ecloghe sul modello virgiliano ricco di allusioni a eventi e personaggi coevi allo scrittore. Le opere religioso-morali sono opere di riflessione morale e religiosa, fondate sulla lezione di Seneca, Agostino e Boezio. Il De vita solitaria, iniziato tra il 1346 e il 1347 a Valchiusa, parla della vocazione petrarchesca alla solitudine, ma anche dell’ideale classico dell’otium. Il De otio religioso, iniziato nello stesso periodo, esalta la vita serena dei monaci. Il De remediis utriusque fortunae (1354-1360 ca.) è una specie di manuale su come deve comportarsi il saggio. Il Secretum, il libro dei conflitti Il Secretum (1347-1353 ca.) esprime pienamente il nuovo concetto di una “letteratura dell’interiorità”, qui conseguenza di una crisi interiore dell’autore. Nell’opera, in tre libri, Francesco dialoga con sant’Agostino, un modello ideale cui tendere ma anche un proprio “doppio”. Lo scambio si svolge secondo il modello inquisitorio tipico del sacramento della confessione e ha la funzione di un vero e proprio esame di coscienza. Dai rimproveri di Agostino emerge la debolezza di Francesco, l’accidia nel perseguire l’obiettivo di migliorarsi.

384 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


L’epistolario: un ritratto di sé da consegnare ai posteri L’epistolario contiene in totale più di 500 lettere, tutte scritte in latino, indirizzate ad amici e personaggi importanti del tempo e organizzate in diverse raccolte: le Familiares, le Seniles, le Sine nomine e le Variae. Nell’epistolario Petrarca costruisce un ritratto di sé, modellato sull’esempio classico, che vuole essere esemplare soprattutto per i posteri. Il tentativo di un poema allegorico: i Trionfi I Trionfi (1350-1360 ca.) rappresentano l’unica opera in volgare di Petrarca, insieme al Canzoniere. Si tratta di un poema allegorico in terzine dantesche, ispirato alla Commedia; il poeta vi ritrae, attraverso una sequenza progressiva di sei “trionfi”, cioè di celebrazioni di vittoria, il proprio tormentato itinerario interiore e rappresenta le tematiche che percorrono, in forma diversa, lo stesso Canzoniere. Si tratta di un’opera irrisolta, legata a forme rappresentative ancora medievali.

3 Il Canzoniere

L’elaborazione dell’opera, i modelli, la struttura Il Canzoniere (o Rerum vulgarium fragmenta) è la prima organica raccolta di liriche della nostra letteratura, ed è anche la più celebre. Il libro ebbe una lunga elaborazione nel tempo fino alla stesura definitiva, consegnata a un manoscritto in parte autografo del 1374: non solo nel tempo il numero delle componenti crebbe fino a comprendere 366 testi (prevalentemente sonetti e canzoni), ma l’autore intervenne sui brani correggendoli e spostandone la collocazione all’interno di un vero e proprio progetto macrotestuale finalizzato alla costruzione di un’autobiografia ideale. Esso utilizza le liriche per rappresentare la conflittuale storia interiore di Petrarca, che ruota attorno alla figura di Laura, una donna dai tratti stilizzati, più simbolo che personaggio reale. Proprio il di lei destino consente di dividere l’opera in due parti: nella prima Laura è ancora viva, mentre nella seconda, che inizia con la canzone 264, sono raccolti componimenti scritti dopo la morte della donna. Questa suddivisione indica anche un mutato atteggiamento dell’autore: la prima parte vede prevalere tematiche legate alle passioni mondane; la seconda, invece, ai temi eticoreligiosi. La modernità del Canzoniere: la scoperta di un io diviso Il vero protagonista è però l’io del poeta, diviso tra la dimensione sensuale e terrena e l’aspirazione all’ascesi spirituale: un io che, attraverso l’ambivalente concezione del sentimento amoroso, vive il conflitto tra spiritualità medievale e concezione della vita preumanistica. La collocazione di due testi chiave, il sonetto iniziale di pentimento e la canzone finale Vergine bella, sembrerebbero indicare un percorso ascendente cristiano di pentimento. Tuttavia, lo scrittore rimane lontano dagli esempi più radicali di tale cammino interiore, come la conversione agostiniana o l’iter dantesco. L’opera rappresenta l’imperfezione umana e la distanza tra l’ideale religioso e l’uomo reale, evidenziando un’interiorità scissa e contraddittoria: un aspetto moderno che ha influenzato la produzione letteraria anche nel Novecento. I temi del Canzoniere Con questo macrotema e con l’amore per Laura interagiscono altri argomenti. Centrale è quello della natura, intesa non più come specchio del divino ma come riflesso della coscienza del singolo, del quale essa diventa anche confidente. Essenziale è poi la memoria, attraverso cui si nutre in gran parte il sentimento petrarchesco verso l’oggetto del desiderio: l’amore non è più un’esperienza collocata nel presente ma, al contrario, è vissuto attraverso una pluralità di tempi diversi, come il futuro dell’attesa e, soprattutto, il passato del ricordo. A ciò si associa la riflessione riguardo la caducità di tutto ciò che è umano e dell’inesorabile, distruttivo trascorrere del tempo, che solo la scrittura letteraria può arginare. Nel Canzoniere sono anche

Sintesi

Duecento e Trecento 385


presenti rime sul tema politico: Petrarca critica la corruzione della Chiesa e della curia papale ad Avignone e nella celebre canzone Italia mia rivolge un appello solenne ai signori italiani per porre fine alle ostilità che danneggiano la patria comune. Negli ultimi testi domina il tema religioso del pentimento che, sebbene non rifletta la biografia del poeta, apre a una dimensione spirituale rivolta alla fede e alla speranza ultraterrena in grado di chiudere la raccolta con coerenza. Il ravvedimento finale si manifesta in una preghiera intensa e nella canzone conclusiva, in cui l’oggetto del desiderio passa dalla donna terrena (Laura) a quella celeste (la Vergine), chiudendo il cerchio aperto dalla passione per Laura, capace di allontanare il protagonista dalla devozione cristiana. Le scelte stilistiche del Canzoniere e l’unilinguismo Lo stile del Canzoniere è stato oggetto di celebri analisi critiche, che ne hanno indicato come cifra distintiva l’unilinguismo, ossia la rinuncia a ogni eccesso espressivo, a favore di un’omogeneità armoniosa ed elegante nel registro, nel tono e nelle scelte lessicali e fonologiche: una scelta del tutto opposta a quelle di Dante, alle cui Vita nuova e Commedia Petrarca comunque si ispira in molti aspetti.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Prepara un PowerPoint da presentare alla classe per illustrare – con puntuali riferimenti ai testi del Canzoniere esaminati – l’interpretazione del critico H. Friedrich, che definisce quello di Petrarca un «paesaggio interiorizzato». Hai a disposizione 10-15 minuti.

Scrittura argomentativa

2. «L’adolescenza mi illuse, la gioventù mi traviò, ma la vecchiaia mi ha corretto, e con l’esperienza mi ha messo bene in testa che era vero quel che avevo letto tanto tempo prima: che i godimenti dell’adolescenza sono vanità […]». Così scrive lo stesso Francesco Petrarca (nella lettera Posteritati, “Alla posterità”). In un testo espositivo-argomentativo (max 4 colonne di foglio protocollo) interpreta questo passo dell’epistolario alla luce della conoscenza complessiva del poeta e della sua opera.

386 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca


Verso l’esame di Stato Prima prova

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Francesco Petrarca

S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento? F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964

Canzoniere, 132 Nella tradizione della poesia in volgare, a partire dalla scuola siciliana, sono frequenti i testi in cui, sul modello della quaestio filosofica medievale, si propone una riflessione sulla natura dell’amore. Questo sonetto riprende tale tradizione, ma al contempo se ne distingue.

S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento? Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?1 Se bona, onde l’effecto aspro mortale?2 4 Se ria, onde sí dolce ogni tormento?3

1 che cosa et quale?: qual è la sua essenza e la sua qualità. 2 Se bona… mortale?: se è un bene, da dove (deriva) il suo effetto crudele, mortale per l’anima? 3 Se ria… tormento?: se è un male, perché ogni tormento amoroso è così dolce? S’a mia voglia ardo, onde ’l pianto e lamento?4 4 S’a mia voglia… lamento?: se posso scegliere liberamente di amare, da cosa derivaS’a mal mio grado, il lamentar che vale?5 no il pianto e il lamento (ingiusti se c’è stata O viva morte, o dilectoso male, libertà di scelta)? 5 S’a mal mio grado… vale?: se subisco 8 come puoi tanto in me, s’io nol consento?6 la passione amorosa contro la mia volontà (per necessità), a cosa serve lamentarmi (in 7 Et s’io ’l consento, a gran torto mi doglio . quanto essa è comunque inevitabile)? 6 O viva morte… nol consento?: o amore, Fra sí contrari vènti8 in frale9 barca che dai vita e morte, o male che susciti tanto 11 mi trovo in alto mar senza governo, piacere, com’è che hai tanto potere su di me, se io non lo voglio? sí lieve di saver, d’error sí carca 7 s’io ’l consento… mi doglio: se ne sono responsabile, mi lamento del tutto a torto. ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio, 8 contrari vènti: sono i venti delle passioni. 14 e tremo a mezza state, ardendo il verno. 9 frale: fragile.

Comprensione e analisi

Interpretazione

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è la questione posta nella prima quartina? Quali opposte soluzioni sono prese in considerazione? 2. Quale il tema fondamentale della seconda quartina? Quali opposizioni riscontri? 3. Spiega il significato del verso finale. 4. Indica lo schema metrico del sonetto. 5. Come Petrarca “rivisita” la tradizione della quaestio sulla natura d’amore? 6. Nella prima quartina, quale figura retorica mette in rilievo il rapporto fra le diverse domande? 7. Attraverso quali elementi retorici e stilistici si sottolinea la natura irrazionale dell’amore? 8. Quale figura retorica riconosci al v. 7? Quali funzione esercita riguardo al tema fondamentale della composizione? 9. Attraverso quale metafora il poeta riporta il tema generale dal piano dottrinale alla propria situazione esistenziale? 10. Al v. 13 si riscontra un’allitterazione: individuala e spiega che cosa mette in risalto. 11. Il sonetto sviluppa la metafora della navigazione come allegoria della vita umana attraverso varie immagini: ricerca il significato di termini ed espressioni riferiti alla navigazione. Nel sonetto è centrale il tema della sofferenza d’amore, dei suoi effetti devastanti e soprattutto del dissidio interiore che disorienta l’io del poeta. Scegli una composizione che conosci fra quelle della precedente tradizione lirica, centrata sul motivo dell’amore come passione distruttiva, e metti in evidenza differenze e analogie con questo sonetto, riflettendo in particolare sulla novità tematica introdotta da Petrarca.

Verso l’esame di Stato 3 387


Duecento e Trecento

8 Giovanni Boccaccio

CAPITOLO

LEZIONE IN POWERPOINT

L'uomo Boccaccio visto da Alberto Moravia... Boccaccio era soprannominato “Giovanni della tranquillità” per la sua tendenza a ricercare una dimensione di vita tranquilla, lontana da ogni forma di protagonismo. In un saggio del 1964 lo scrittore Alberto Moravia offre un incisivo ritratto della personalità di Giovanni Boccaccio, incentrato sul contrasto fra la vocazione a una vita placida e appartata e il culto dell’azione che traspare da moltissime novelle del Decameron.

Ho sempre pensato che il Boccaccio, quest’uomo che ci viene dipinto placido e amante dei propri comodi, questo “Giovanni della tranquillità”, fosse nel fondo dell’animo suo, per compenso e forse per sublimazione, un vagheggiatore dell’azione. Con ogni probabilità era uno di quegli uomini che non possono godere degli agi e dei comodi se non immaginandosi nei disagi e nei pericoli; che hanno bisogno di fingersi una vita fantasticamente attiva per continuare a menare senza scosse né squilibri la solita esistenza tranquilla. [...] Si veda con quanta segreta voluttà sono complicate, arricchite, articolate le peripezie; e come vivamente le rappresenta, quasi invidioso dei suoi personaggi. I luoghi così vari: marine, città, boschi, camere, grotte, deserti, i personaggi che abbracciano tutte le condizioni, tutte le nazionalità e tutti i tempi, dimostrano che per il Boccaccio, l’importante [... era] sentirsi vivere negli uomini, nelle circostanze, nei luoghi e nei tempi più diversi. [...] Alla sua sete d’azione non poteva bastare Firenze e il contado; ci voleva il Levante e la Francia, Napoli e Venezia, Roma e la Sicilia; l’antichità e il Medio Evo; insomma, oltre ai luoghi e ai tempi che gli erano familiari, anche quelli di cui aveva soltanto sentito parlare. [...] Il Boccaccio, per la sua sete di avventura, aveva bisogno [...] prima di tutto di non essere appesantito e intralciato da alcun grave e severo concetto morale; di non dovere continuamente stabilire rapporti di giudizio morale tra sé e i personaggi, tra sé e il mondo. [...] il Boccaccio aveva bisogno puramente e semplicemente di azione. Di una azione purchessia; visto che l’azione valeva in quanto era azione e non in quanto era buona o cattiva, triste o allegra, fantastica o reale. A. Moravia, Boccaccio, in L’uomo come fine, Bompiani, Milano 1964

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Il Decameron è uno dei capolavori della letteratura italiana, per secoli esempio autorevole di come si racconta: dalle tecniche narrative alla varietà di luoghi, ambienti, situazioni, ai personaggi creati dalla fantasia dell’autore. La rappresentazione di casi umani è così ampia e ricca da non temere il confronto con la Divina Commedia. Ma nel Decameron la prospettiva è totalmente laica e rispecchia non più esclusivamente una concezione trascendente della vita, ma più punti di vista. Un’ottica nuova, che deriva da una società in transizione, in cui appaiono nuovi valori, propri della classe borghese e mercantile emergente. La prosa di Boccaccio ha fatto scuola per l’eleganza e la varietà dei registri stilistici, adattati ai temi e ai diversi contesti sociali. Uno stile che sa rappresentare la tragedia e la comicità, le situazioni dolorose e quelle licenziose, senza mai scadere nella volgarità.

1 ritratto d'autore 2 Il Decameron 3 IlnelDecameron tempo 389 389


1 Ritratto d’autore 1 Un mercante mancato VIDEOLEZIONE

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

La formazione Giovanni Boccaccio nasce nel 1313 forse a Certaldo, un borgo della Val d’Elsa, oppure a Firenze, da una relazione del padre con una donna di cui nulla si sa: è un figlio illegittimo, ma il padre lo riconosce, così che il bambino può trascorrere l’infanzia nella casa fiorentina di famiglia. Il padre era un agente di grado elevato dei Bardi, potente casata fiorentina di mercanti e banchieri, e viaggiava spesso per affari. Dalla professione del padre deriva l’esperienza fondamentale della vita di Boccaccio, che nel suo insieme è povera di avvenimenti rilevanti: appena quattordicenne Giovanni, che il padre vuole avviare alla mercatura, viene mandato a far pratica a Napoli presso una succursale della banca dei Bardi, situata in una zona non lontana da quella nella quale si svolgono le avventure di Andreuccio, protagonista di una celebre novella del Decameron (➜ T9b ). Come gli altri apprendisti, anche Giovanni impara sul campo l’arte del cambio, ha rapporti con i clienti, sbriga la corrispondenza e può così conoscere da vicino quel mondo mercantile che poi ritrarrà nel Decameron. Più che dalla mercatura è attratto dalla vita mondana e culturale della corte angioina: grazie alla posizione del padre, Boccaccio può frequentare la nobiltà locale e conoscere un mondo raffinato e colto, anche per l’impulso diretto impresso da Roberto d’Angiò, il sovrano che esaminò e “laureò” solennemente il poeta Francesco Petrarca. Constatata la scarsa inclinazione di Giovanni per la carriera mercantile e bancaria, il padre tenta di avviarlo agli studi giuridici, ma anche in questo caso senza successo. Boccaccio avverte infatti dentro di sé una prepotente vocazione letteraria.

Cronologia interattiva 1313

1321

Fallisce la missione in Italia di Arrigo VII.

1300

Muore Dante.

1310

1320

1330

1313

Giovanni Boccaccio nasce a Certaldo (o forse a Firenze), figlio naturale di Boccaccino di Cellino, un ricco uomo d’affari.

1327

Si trasferisce a Napoli con il padre, agente finanziario della banca dei Bardi e inizia a fare pratica bancaria e mercantile.

1327-1340 Periodo napoletano. Partecipa alla vita mondana e culturale della corte di Roberto d’Angiò. Scrive il Filocolo, il Teseida e il Filostrato.

390 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


I felici anni napoletani: studi e amori Durante la sua permanenza a Napoli (1327-1340 ca.) Boccaccio legge e studia, sostanzialmente da autodidatta, sia gli autori classici sia la letteratura romanza (la poesia amorosa provenzale e italiana, ma soprattutto i romanzi cortesi). Frequenta importanti intellettuali, che hanno grande peso nella sua formazione: fra questi lo stilnovista Cino da Pistoia, che per un paio d’anni insegnò diritto a Napoli, e il teologo agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro, che gli fa conoscere l’opera di Petrarca. Nel periodo napoletano Boccaccio vive anche delle esperienze amorose, trasfigurate letterariamente nell’Elegia di Madonna Fiammetta: nulla si sa della donna di cui Giovanni si innamora, ma è ormai considerata del tutto romanzesca la sua identificazione con Maria d’Aquino, figlia illegittima del re Roberto d’Angiò. Il ritorno a Firenze Attorno al 1340 la compagnia bancaria dei Bardi fallisce, travolgendo anche la famiglia di Boccaccio. Giovanni deve abbandonare la vita gaudente di Napoli e tornare con il padre a Firenze, dove lo attendono anni di difficoltà e ristrettezze economiche. Il dissidio fra il vecchio mercante e il figlio, ormai consacrato al culto delle lettere, si approfondisce, come testimoniano vari accenni delle lettere e passi scopertamente autobiografici delle opere minori (➜ T2 OL). Il duro contatto con la realtà – la pragmatica società fiorentina, dominata da valori borghesi e da una disincantata visione della vita – contribuisce d’altra parte alla maturazione umana dello scrittore, amplia i suoi orizzonti mentali e letterari, come è testimoniato anche dalla varia produzione letteraria di quegli anni. Ma certo rimase sempre in lui il rimpianto per il mondo cortese e aristocratico che era stato costretto ad abbandonare, come è evidente in varie pagine dell’Elegia di Madonna Fiammetta del 1343-1344, ma anche in molte novelle del Decameron ispirate ai valori cortesi. La composizione del Decameron, un libro di successo Nel 1348 sopraggiunge il flagello della peste, a causa della quale Boccaccio perde il padre e molti amici. Il drammatico contesto della pestilenza fa da sfondo al capolavoro di Boccaccio, il Decameron, composto dal 1349 al 1351, approdo creativo del processo di 1337

Scoppia la guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra.

1348

Dilaga la peste a Firenze.

1365 1360

Prende gli ordini minori e diviene chierico.

1340

1350

1360

1377

È inviato ad Avignone per appoggiare il ritorno del papa a Roma.

La sede papale ritorna a Roma.

1370

1380

1361 1350 1340

In seguito al fallimento della banca dei Bardi segue il padre a Firenze e va a vivere nella sua casa.

Conosce Petrarca: ne diventa amico e corrispondente epistolare. 1349-1351 Compone il Decameron.

1341-1346 Intensa attività letteraria: compone l’Amorosa visione, l’Elegia di Madonna Fiammetta, la Commedia delle ninfe e il Ninfale fiesolano.

Si ritira a Certaldo.

1351-1354 Conduce varie missioni diplomatiche affidategli dal comune di Firenze grazie alla fama acquisita come letterato di spicco (presso Ludovico di Baviera, in Romagna, ad Avignone presso il papa).

1375

Il 21 dicembre muore a Certaldo. 1374

Muore Francesco Petrarca.

1373

Benché già molto malato, inizia nella chiesa di Santo Stefano di Badia le pubbliche letture della Commedia di Dante.

Ritratto d’autore

1 391


maturazione cui si è accennato: alla dimensione lirico-sentimentale e al gusto romanzesco Boccaccio sostituisce nel suo capolavoro la disincantata osservazione della realtà, o meglio riserva al passato e al mondo delle corti la dimensione ideale, mentre il reale si incarna nel mondo presente e borghese. Boccaccio sceglie di farsi testimone del suo tempo, e in particolare di quella civiltà comunale che raggiungeva nei primi decenni del Trecento la sua acme e che già mostrava, al contempo, i segni della crisi che l’avrebbe travolta. Lo straordinario successo dell’opera, soprattutto presso i ceti mercantili, rende celebre il Boccaccio tra i suoi concittadini. Ne deriveranno incarichi pubblici prestigiosi, ambascerie per conto del comune di Firenze in Romagna, a Napoli, ad Avignone. L’amicizia con Petrarca La terza fase della vita e dell’attività intellettuale di Boccaccio è contraddistinta da un ripiegamento riflessivo che lo induce a interrogarsi sul significato e sul valore della letteratura, riflessione stimolata dall’amicizia con Petrarca, l’altro grande scrittore del tardo Medioevo. Boccaccio incontra Petrarca nell’ottobre del 1350, in occasione del pellegrinaggio che il poeta del Canzoniere stava compiendo verso Roma per il Giubileo. Il 2 novembre in una delle Familiares (XI, 1) Petrarca ringrazia dell’accoglienza ricevuta con la prima delle numerose lettere che indirizzerà al Boccaccio nei ventiquattro anni successivi. È l’inizio di una lunga e intensa amicizia, interrotta solo dalla morte di Petrarca.

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Per approfondire Boccaccio bibliofilo, filologo e copista

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Per approfondire Giovanni Boccaccio Una ritrattazione del Decameron Epistola XXI a Mainardo Cavalcante

Gli interessi preumanistici Petrarca eserciterà su Boccaccio un’indubbia influenza (➜ PER APPROFONDIRE Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda, PAG. 393), a cominciare dal culto per la cultura classica. In sintonia con gli interessi preumanistici che erano propri anche di Petrarca, infatti, in questo periodo Boccaccio si allontana dalla letteratura in volgare e si mostra sempre più interessato ai classici, nei quali ricerca un perenne insegnamento letterario e di vita. Boccaccio compone repertori eruditi in latino relativi al mondo classico, come il De genealogiis deorum gentilium (Le genealogie degli dei pagani) sui miti classici o il De claris mulieribus (Donne famose); e, come l’amico Petrarca, anche lui va personalmente alla ricerca di testi antichi nelle biblioteche dei monasteri e mette a segno importanti scoperte: nel 1353, nell’abbazia di Montecassino, ritrova codici che contengono opere di Varrone, di Cicerone, gli Annali di Tacito e le Metamorfosi di Apuleio. A partire dal 1360 la casa dello scrittore diventa il primo cenacolo preumanistico, nel quale si formano al culto della lingua e della letteratura latina figure di primo piano dell’umanesimo fiorentino come Coluccio Salutati. Boccaccio stesso compone in latino tutte le sue opere tarde (a eccezione del Corbaccio e della Vita di Dante) ed è tra i primi letterati a intraprendere lo studio della lingua greca, che allora era quasi del tutto sconosciuta, ospitando il maestro Leonzio Pilato, grazie al quale vive l’emozionante esperienza di leggere in greco l’Iliade di Omero. Gli ultimi anni. Scrupoli morali L’ultimo periodo della vita di Boccaccio è segnato da una crisi interiore (ne parla Petrarca nelle Senili, 1, 5) che lo induce a isolarsi nella casa di famiglia a Certaldo, lontano da ogni impegno e da ogni contatto pubblico. Di certo la frequentazione con Petrarca non è estranea a questa crisi. Sopraggiungono in lui scrupoli morali sempre più assillanti, che investono anche il Decameron: in una lettera del 1373 (➜ D1 OL) arriverà a sconsigliare apertamente a un amico di far leggere il “Centonovelle” alle donne di casa per i pericoli morali che la licenziosità dei contenuti avrebbe comportato.

392 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


PER APPROFONDIRE

Già da parecchi anni, del resto, aveva composto un cupo libello antifemminista, il Corbaccio: proprio lui che aveva dedicato il Decameron alle donne e che aveva in molte novelle difeso il loro naturale diritto all’amore. Trascorre l’ultimo decennio di vita tra difficoltà economiche e gravi problemi di salute. Nel 1373 il comune di Firenze gli affida il compito di leggere e commentare pubblicamente la Commedia nella Chiesa di Santo Stefano della Badia. Boccaccio accetta il compito e inizia la lettura e l’esposizione dell’opera che più di tutte ammirava. L’aggravarsi delle sue condizioni di salute, ma anche le molteplici critiche di quanti ritenevano sbagliato divulgare la Commedia attraverso pubbliche letture, gli impediscono però di portare avanti il compito: la lettura si interrompe al canto XVII dell’Inferno. Boccaccio muore a Certaldo nel 1375, a un anno solo di distanza dalla scomparsa di Petrarca.

Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda Ammirazione e dissenso L’amicizia tra Boccaccio e Petrarca inizia nel 1350, quando entrambi gli scrittori sono già celebri, e durerà fino alla loro morte (tra l’altro, assai vicina nel tempo). Ne recano testimonianza le lettere che si scambiarono (ce ne restano 5 di Boccaccio e 30 di Petrarca): in esse il primo mostra una vera e propria venerazione per colui che considerava il suo magister. Questo atteggiamento non esclude momenti di dissenso, sia in campo letterario (all’indubbia freddezza di Petrarca verso Dante si contrappone il vero e proprio culto che Boccaccio aveva per il grande poeta della Commedia), sia in ambito etico-politico: Boccaccio si mostra indignato di fronte alla decisione dell’amico di andare a vivere alla corte dei Visconti a Milano, scelta che considerava un vero e proprio tradimento. Influenze reciproche Nel tempo, l’amicizia con Petrarca segna una svolta nella vita di Boccaccio: l’autorevole amico non solo spinge Boccaccio a meditare sul ruolo della letteratura e stimola in lui gli interessi preumanistici, ma diventa anche un vero e proprio maestro di vita, inducendolo a una riflessione morale che finisce per modificarne i parametri ideologici. Su questa amicizia Lucia Battaglia Ricci, una delle maggiori studiose di Boccaccio, scrive: «In questa singolarissima amicizia crediti e debiti si mescolano in modo confuso, a comporre un rapporto culturale che si sta rivelando ben più complesso di quel che le dichiarazioni esplicite di Boccaccio e i silenzi di Petrarca potrebbero (o vorrebbero) far credere. Non solo il Petrarca dell’Epistola posteritati ha utilizzato il De vita et moribus domini Francisci Petracchi de Florentia (Vita e costumi del signor Francesco Petrarca fiorentino) di Boccaccio per costruire il ritratto ideale di sé stesso, ma anche il Petrarca lirico ha contratto più di un debito con il Boccaccio volgare». Di fatto l’Amorosa visione ispira i Trionfi, l’esaltazione della poesia presente nella Genealogia ispira le Invectivae, entrambi sperimentano il genere epico, entrambi il poemetto allegorico, entrambi il genere della biografia di uomini illustri. Più in generale, scorrendo la produzione dei due amici, si può dire che emergano molte coincidenze e sovrapposizioni che andrebbero ulteriormente indagate per definire gli apporti dell’uno e dell’altro nelle rispettive produzioni.

Petrarca e il Decameron: un rapporto imbarazzato e reticente Particolarmente problematico appare il rapporto tra Petrarca e il capolavoro di Boccaccio, nei confronti del quale il poeta del Canzoniere mostra imbarazzi e reticenze analoghe al rapporto difficile (e sostanzialmente ambiguo) che intrattenne con la Commedia di Dante. In una lettera del 1373 (Senili XVII, 3) che accompagnava la sua traduzione della novella di Griselda in latino, l’autore del Canzoniere sostiene che una copia del Decameron gli fu recapitata casualmente («non so da dove né in che modo» tiene a precisare con apparente nonchalance). Aggiunge di averlo solo scorso «come fa il viaggiatore frettoloso», data la mole del libro, per altro «destinato al volgo e in prosa». Il seguito della lettera è oltremodo significativo. Ne riproduciamo un passo centrale: «Mi sono divertito nello scorrerlo; e se mi sono imbattuto in qualche eccesso di licenziosità, ti scusavo per l’età che avevi allora, per lo stile, per la lingua, per l’inconsistenza dell’argomento e dei futuri lettori. Ha grande importanza il pubblico per il quale si scrive, e la diversità dello stile è giustificata dalla diversa mentalità di chi legge. Tra le molte novelle ridicole e leggere ne ho trovata qualcuna solenne e composta, sulle quali però non ho elementi di giudizio definitivo dal momento che non mi sono affatto applicato a un’attenta lettura.» Petrarca formula poi un giudizio positivo sullo stile “alto” che caratterizza l’introduzione del Decameron, e sull’ultima novella, la storia di Griselda, collocata secondo lui giustamente alla fine «dove le norme retoriche impongono di collocare le cose migliori». Nonostante impegni e pensieri, Petrarca “si degna” di tradurre in latino la novella di Griselda, così da consegnarla alla lettura dei dotti, che avrebbero rifiutato il volgare e i contenuti del Decameron. Ed effettivamente l’operazione ebbe un clamoroso successo tra gli intellettuali non solo italiani ma europei. Ma davvero Petrarca aveva letto solo allora il Decameron? È difficile pensare che Boccaccio non abbia offerto a Petrarca quel libro cui dedica cure amorevoli, anche come editore: proprio attorno al 1370 risale infatti la solenne edizione ultima del capolavoro; il filologo Vittore Branca nel 1962 identifica nel codice Hamilton 90 un preziosissimo autografo del Decameron, scritto di pugno dal Boccaccio.

Ritratto d’autore

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2 La produzione minore: all’insegna dello sperimentalismo

Lessico intertestualità Indica la rete di relazioni che un testo intrattiene con altri testi dello stesso autore (intertestualità interna) o con modelli letterari di altri autori, coevi o storicamente precedenti (intertestualità esterna).

Lessico metatestuale Tutto ciò che riguarda il metatesto, ossia un testo che contiene altri testi o che a essi allude.

La sperimentazione entro il sistema letterario del tempo Nel complesso della produzione di Boccaccio domina un accentuato sperimentalismo, ovvero il desiderio di percorrere tutti gli itinerari possibili nel sistema letterario del tempo, mettendo alla prova le sue capacità di scrittura in generi letterari diversi (dal poema al romanzo). Inoltre, è tipica di Boccaccio la tendenza a contaminare nelle sue opere le suggestioni più varie creando una complessa rete di rapporti intertestuali . È difficile tracciare in modo schematico, come è invece possibile per altri scrittori, le tappe e la storia intera della sua attività di scrittore: «L’impressione è che sul suo scrittoio, dove peraltro molte opere devono essere restate a lungo, ed essere fatte oggetto di continue […] correzioni e integrazioni, le carte si siano mescolate e abbiano liberamente interagito tra loro, assumendo corpo e individualità anche grazie a un ininterrotto dialogo tra opera e opera, pagina e pagina» (Battaglia Ricci). Il Filostrato dialoga con il Filocolo, il Teseida con il Filostrato, oltre che con l’epica classica e così via. La sperimentazione di Boccaccio è sostenuta da una grande consapevolezza teorica, testimoniata dai molteplici interventi metatestuali , innanzitutto nel Decameron, ma anche sparsi nelle altre opere. Di fatto Boccaccio fonda o rinnova dalle fondamenta numerosi generi letterari: • il Filocolo è il primo romanzo in prosa della nostra letteratura; • il Filostrato è il primo poemetto in ottave in Italia; • il Teseida è il primo testo epico in volgare; • la Commedia delle Ninfe introduce nella letteratura italiana il genere della favola

pastorale; • l’Elegia di Madonna Fiammetta è il primo romanzo psicologico; • il Decameron è il primo libro organico di novelle. Dimensione autobiografica e suggestioni letterarie Pur nella varietà dei temi e delle scelte stilistiche, queste opere sono accomunate dalla commistione di componenti autobiografiche e suggestioni letterarie: sia nelle opere appartenenti al periodo napoletano (Filostrato e Filocolo fra le altre) sia in quelle composte dopo il trasferimento a Firenze (Teseida, Commedia delle Ninfe, Amorosa visione, Elegia di Madonna Fiammetta), si possono riconoscere sia i gusti letterari del giovane Boccaccio, gli echi delle sue molteplici letture (rivolte agli autori latini e alla produzione narrativa francese), sia le tracce delle sue esperienze di vita. Ad esempio, la centralità del tema amoroso nella produzione di Boccaccio deriva sia dalla radice autobiografica sia dall’indubbia suggestione esercitata sul giovane scrittore dalla letteratura amorosa (dalla produzione lirica e romanzesca francese alla Vita nuova fino a Petrarca).

Illustrazione dal Teseida: Emilia è nel giardino delle rose, mentre Arcita e Palemone, imprigionati da Teseo, la osservano dalla grata, miniatura francese, prima metà XV secolo.

394 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


Le opere del periodo napoletano La cronologia delle opere giovanili di Boccaccio è estremamente incerta, anche per l’abitudine di Boccaccio di tornare sulle opere con interventi e riscritture successive. Probabilmente il Filocolo è anteriore al Filostrato ed entrambi hanno legami con il Teseida, evidenziati da riferimenti intertestuali che le collegano. Le tre opere sono databili intorno alla fine degli anni Trenta. Il Filocolo: un romanzo d’amore Con il Filocolo Boccaccio sperimenta per primo nella letteratura italiana il romanzo in prosa. Il titolo, grecizzante (ma si tratta di un’errata etimologia), nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto significare “fatica d’amore”. Il soggetto dell’opera, scritta per soddisfare un’esplicita richiesta dell’amata Fiammetta, riprende una celebre vicenda, quella di Florio e Biancifiore, diffusa nella tradizione orale e in una redazione omonima francese del XII secolo, oltre che in un cantare in volgare italiano. Tra Florio e Biancifiore, educati assieme fin da bambini a corte, nasce l’amore, stimolato dalla lettura di un libro “galeotto”, l’Ars amandi di Ovidio. I due amanti sono però costretti a separarsi, e solo dopo aver affrontato numerose avventure potranno coronare il loro sogno d’amore con il matrimonio. Nei sentimenti e nelle situazioni vissuti dai personaggi (ritratti con una spiccata capacità d’introspezione psicologica) l’autore proietta spesso la sua stessa situazione sentimentale. La trama del testo originario è variata e complicata da numerose digressioni, in cui Boccaccio rielabora vari materiali provenienti dalla sua vasta cultura, sia classica sia romanza. In generale si può dire che il romanzo, che ebbe notevole successo, riecheggia modelli comportamentali e culturali cortesi, dando spazio a luoghi topici dell’immaginario medievale quali tornei, castelli, giardini, in cui ben poteva rispecchiarsi la raffinata corte napoletana.

Napoli nel tardo Medioevo rappresentata nella Tavola Strozzi (particolare), dipinto anonimo, 1472-1473 (Napoli, Museo Nazionale di San Martino).

L’archetipo della lieta brigata All’interno del romanzo è particolarmente significativo un passo (IV, 31) che descrive una brigata di giovani, la cui regina è Fiammetta (la donna amata da Boccaccio), e che discute intorno a tredici questioni d’amore poste a turno da essi: una situazione che prelude all’ideazione della “cornice” del Decameron (tra l’altro due di tali questioni forniranno l’argomento per due novelle: la 13a per X, 4 e la 4a per X, 5). Un poemetto in ottave: il Filostrato Il Filostrato (“vinto d’amore”, secondo un’approssimativa etimologia) è un poemetto in 9 canti, scritto attorno al 1335. In esso Boccaccio introduce per la prima volta nella letteratura italiana l’ottava, il metro che sarà usato per la produzione epico-cavalleresca posteriore, da Ariosto a Tasso. La trama rimanda a un poema francese della seconda metà del sec. XIII, il Roman de Troie, e svolge l’infelice storia di Troiolo, figlio del re di Troia Priamo, che, abbandonato e tradito da Criseide, viene alla fine ucciso da Achille. Anche se lo sfondo della vicenda è la guerra di Troia che volge alla fine, l’ispirazione fondamentale del poema non è epica ma piuttosto lirico-elegiaca. All’autore non interessano infatti le vicende di guerra, ma esclusivamente quelle amorose, di cui analizza la varia fenomenologia.

Ritratto d’autore

1 395


Il tentativo epico del Teseida Tra il 1339 e il 1341 Boccaccio scrive un poema epico, il Teseida (in 12 canti in ottave), composto proprio negli stessi anni in cui anche Petrarca si cimentava nel genere epico con il poema in latino Africa. Anche in questo caso lo sfondo dell’opera è guerresco (la guerra di Teseo contro Tebe) e si avverte la diretta influenza della Tebaide di Stazio (poeta epico latino del I secolo d.C. che Boccaccio aveva appena scoperto); ma ancora una volta la tematica dominante è quella amorosa, evidentemente più congeniale a Boccaccio. Più che il modello dell’epica classica, nell’opera si fa sentire il clima culturale tardo-gotico: gli eroi e le eroine si atteggiano infatti secondo i modelli della tradizione lirica e cortese e preparano «Le donne, i cavallier...» che saranno immortalati da Ariosto.

Le principali opere minori Le opere del periodo napoletano (1327-1340)

Filocolo

Filostrato

Genere

romanzo in prosa

Titolo

“fatica d’amore” ( errata etimologia)

Contenuto

avventure e amori di due giovani, Florio e Biancifiore

Genere

poema lirico-elegiaco

Titolo

“vinto d’amore”

Metro

ottava rima

Contenuto l’infelice storia di Troilo, figlio di Priamo, che tradito da Criseide, viene ucciso da Achille

Teseida

Struttura

9 canti

Genere

poema epico

Metro

ottava

Contenuto sfondo guerresco, guerra di Teseo contro Tebe, ma tematica dominante è l’amore Struttura

12 canti

Paolo di Visso, cassone dipinto con tre scene da Teseida di Boccaccio, 1440 (Parigi, Galleria Sarti).

396 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


Le opere del periodo fiorentino La suggestione dell’allegorismo dantesco Ai modelli letterari fino a quel momento presenti – dalla narrativa francese ai cantari, da Ovidio a Stazio – nel periodo fiorentino si aggiunge il modello di Dante, come se «il ritorno nella città lo spingesse a “fare i conti” con colui che egli riteneva suo primo Maestro» (Battaglia Ricci). La diretta influenza di Dante è evidente nell’impianto dottrinale-allegorico comune a due opere: la Commedia delle Ninfe e l’Amorosa visione. Il Ninfale d’Ameto La Commedia (o anche Comedia o Comedìa) delle Ninfe fiorentine (più conosciuta col titolo di Ameto o Ninfale d’Ameto) fu scritta nel 1341-1342, parte in prosa e parte in terzine dantesche (si tratta dunque di un prosimetro come la Vita nuova): il tema è la trasformazione prodotta sul rozzo animo del pastore Ameto dall’amore per una ninfa (Lia) e grazie ai racconti amorosi narrati a turno da un gruppo di ninfe di cui Lia sembra essere la guida. Ritorna anche in quest’opera lo stereotipo, centrale nell’immaginario di Boccaccio, della narrazione collettiva in un paesaggio idillico. Oltre che nella scelta metrica della terzina l’influenza di Dante è avvertibile nello schema allegorico dietro il quale si può leggere la concezione dantesca dell’amore come esperienza sublimante e tale da condurre l’individuo dal dominio delle passioni alla purificazione: l’opera si chiude infatti con l’immersione catartica di Ameto in una fonte, dalle cui acque esce purificato e consapevole del suo rinnovamento interiore. L’importanza della Commedia delle Ninfe fiorentine nella storia della nostra letteratura è indubbia: introduce infatti quel filone arcadico-pastorale che avrà grande successo tra Quattrocento e Cinquecento (e a cui si rifarà anche Sannazaro per la sua Arcadia ➜ C10). L’Amorosa visione L’influenza della Commedia dantesca è ancor più evidente nella struttura dell’Amorosa visione, scritta nel 1342, un poema in terzine dantesche di 50 canti. Protagonista è il poeta stesso, che, dopo l’apparizione in sogno di una “donna gentile”, intraprende un viaggio dietro la sua guida alla ricerca della felicità. Il tentativo di riprendere lo schema allegorico della visione medievale e dantesca non produce risultati convincenti, ma è interessante il fatto che il modello dantesco sia ripensato in chiave prettamente laica e, secondo alcuni critici, addirittura parodica (è questa la tesi di Lucia Battaglia Ricci): il “viaggio” del protagonista è infatti volto alla conquista di una donna tutta terrena e sensuale e inizia con la consapevole scelta del protagonista della via che conduce ai beni mondani (la porta larga nella finzione narrativa). «Il maestro Dante è qui al contempo estesamente citato e sostanzialmente rifiutato» (Battaglia Ricci). L’Elegia di Madonna Fiammetta: un romanzo psicologico “al femminile” Per comune giudizio critico le due opere più riuscite della produzione giovanile di Boccaccio sono l’Elegia di Madonna Fiammetta e il Ninfale fiesolano. La prima (scritta probabilmente tra il 1344 e il 1345) è l’appassionata testimonianza – in forma di una lunga lettera in 9 capitoli – di una donna, Fiammetta, che narra la sua infelice storia d’amore per Panfilo. Fiammetta è figura chiave nell’immaginario artistico di Boccaccio e la sua presenza ricorre in più opere: è la regina della brigata nel Filocolo, le è dedicata l’Amorosa visione e ricompare quindi come narratrice nel Decameron. Rivolgendosi alle donne innamorate (➜ T3 OL), che sole possono comprenderla, la protagonista-narratrice rievoca le alterne vicende del suo amore e confessa alle lettrici, in un rapporto di forte identificazione, i suoi contraddittori stati d’animo. Ritratto d’autore

1 397


L’impressione di chi legge è quella di una trascrizione immediata dei sentimenti della donna, una sorta di confessione. In realtà, come sempre accade in Boccaccio, si fanno sentire, contaminate tra di loro, molteplici suggestioni letterarie sia classiche (dalle Heroides di Ovidio alla Fedra e all’Hercules furens di Seneca) sia romanze (il richiamo a modelli autorevoli della prosa autobiografica, dalle Confessioni di Agostino alla Vita nuova). Al centro dell’Elegia vi è una dolorosa vicenda sentimentale (nella quale si rispecchia qualche esperienza amorosa dell’autore stesso), analizzata con lucido distacco. Nuovo è certamente nel romanzo il ruolo della donna, non più oggetto del canto dei poeti e di una rappresentazione filtrata da schematismi culturali, ma soggetto del primo romanzo psicologico della nostra letteratura. La scelta di affidare la narrazione a una donna, che cerca conforto nella scrittura, è una scelta “forte”, che anticipa il ruolo delle sette giovani narratrici del Decameron. Il Ninfale fiesolano Il Ninfale fiesolano è un poemetto mitologico in ottave, scritto nel 1345-46 circa, ispirato alle Metamorfosi di Ovidio: anche nel poemetto di Boccaccio, infatti, al centro della vicenda a sfondo pastorale c’è una metamorfosi. Un pastore (Africo) e una ninfa (Mensola) dopo un tormentato amore sono trasformati dagli dei in due torrenti che, nei pressi di Fiesole, si incontrano realizzando così in un’eterna unione il loro amore. Anche questo testo fonda un modello poetico che avrà larga fortuna nell’età umanistica, in particolare nella Firenze di Lorenzo de’ Medici. Sul piano stilistico Boccaccio sperimenta in questo caso un tono popolaresco e realistico, utilizzando prevalentemente un lessico piano e una sintassi colloquiale: una maniera attinta soprattutto dai cantari toscani.

Le principali opere minori Le opere del periodo fiorentino (1341-1346) Genere Commedia delle Ninfe fiorentine

Amorosa visione

Elegia di Madonna Fiammetta

Ninfale fiesolano

romanzo pastorale

Struttura prosimetro (alternanza di terzine dantesche e racconti in prosa) Contenuto la trasformazione del pastore Ameto grazie all’amore per la ninfa Lia e grazie ai racconti d’amore di un gruppo di ninfe Genere

poema allegorico-dottrinale

Metro

terzine dantesche

Contenuto il viaggio del poeta, guidato da una donna gentile, alla ricerca della vera felicità Struttura

50 canti

Genere

romanzo in prosa

Struttura

nove capitoli preceduti da un Prologo

Contenuto la protagonista, Fiammetta, narra l’infelice amore per il giovane Panfilo Genere

poemetto mitologico ispirato alle Metamorfosi di Ovidio

Metro

ottave

Contenuto l’amore infelice tra il pastore Africo e la ninfa Mensola

398 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


Dopo il Decameron Nel ventennio che segue la composizione del Decameron Boccaccio scrive pochissimo: la Vita di Dante e probabilmente il Corbaccio. Il Corbaccio: un’opera misogina La datazione di quest’ultima opera – un’aspra satira contro «l’esecrando sesso femminile», antitetica al Decameron – non è sicura. La consonanza di alcuni passi con testi degli anni Sessanta ha indotto la critica a collocarne la fase principale di composizione verso il 1365. Secondo Giulio Natali sono inoltre dimostrabili connessioni con i testi di Petrarca di quegli anni, in particolare l’Epistola posteritati in cui dichiara di aver respinto, verso i quarant’anni, ogni seduzione della sessualità. Il che dimostrerebbe ancora una volta la stretta interdipendenza della produzione petrarchesca e boccacciana a partire dagli anni in questione. Viene oggi in genere respinta la possibilità che l’opera nasca da un’esperienza biografica reale, mentre si sottolinea la matrice tutta letteraria del testo, che rovescia parodicamente modelli autorevoli come la Vita nuova e più in generale i topoi della letteratura amorosa in una prospettiva che ricorda la poesia giocosa medievale e che attinge al filone della letteratura misogina. La vicenda mette in scena l’autore stesso, tormentato dall’amore non corrisposto per una vedova. Egli sogna di perdersi in una valle paurosa, ma viene soccorso dall’ombra del marito della donna, che gli rivela vizi e turpitudini delle donne, dimostrandogli che l’amore non si addice all’età matura né alla professione di letterato, che viene esaltata. Sul titolo dell’opera diverse sono state le interpretazioni, volte a intendere il titolo come allusivo: ora messo in relazione allo spagnolo corbacho (“scudiscio” dato che l’opera sferza i costumi delle donne), ora rapportato a corvo (riferito alla donna di cui si parla, simile al corvo nelle sue nere vesti di vedova o in relazione alle qualità negative attribuite al corvo nei bestiari medievali). Ma le interpretazioni sono numerosissime.

Pietro Guindaleri, Florio si prepara alla caccia, miniatura dell’apparato decorativo del Filocolo nel manoscritto Canon Ital. 85, f. 67r, 1463-1464 (Oxford, Bodleian Library).

Ritratto d’autore

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Boccaccio dantista Per tutto il Trecento Boccaccio fu il maggior conoscitore delle opere dantesche. Il culto di Dante lo accompagnò sempre e si tradusse nel desiderio di farne conoscere l’opera e in un Trattatello in laude di Dante, composto probabilmente tra il 1351 e il 1355, che si può considerare la prima biografia completa del grande fiorentino. Nonostante il carattere celebrativo del testo, i critici tendono ad attribuirvi sempre più credito. Essa, come scrive Padoan, è il frutto di una «ricerca entusiastica e non episodica, che lo spinse ad avvicinare persone che avevano conosciuto […] il poeta e a recarsi talvolta persino nei luoghi stessi accennati nel divino poema, raccogliendo dicerie, voci, notizie, testi, documenti». Il trattatello fu rivisto e parzialmente riscritto (ne abbiamo altre due redazioni), anche in relazione alle discussioni con Petrarca (che non era certo un ammiratore di Dante), soprattutto per le sue scelte stilistico-linguistiche. È significativo che nel nome di Dante si chiuda l’esistenza di Boccaccio: le ultime cose che egli scrive riguardano la Commedia.

Le principali opere minori Dopo il Decameron Corbaccio

Genere prosa comico-realistica Contenuto invettiva contro le donne e l’amore

Trattatello in laude di Dante

Genere biografia Contenuto ammirata celebrazione di Dante

online T1 Giovanni Boccaccio

Un libro galeotto: l’innamoramento di Florio e Biancifiore Filocolo, II, 4

Giovanni di Francesco Toscani, scena cortese nel Filocolo tempera e oro su legno, 1425, (Madison, Chazen Museum of Art).

online T2 Giovanni Boccaccio

Una confessione autobiografica: la tristezza del ritorno a Firenze Commedia delle Ninfe fiorentine, XLIX, 64-84

400 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

online T3 Giovanni Boccaccio

Una richiesta di solidarietà femminile Elegia di Madonna Fiammetta, Prologo


2

Il Decameron 1 La composizione del Decameron. I modelli di riferimento

VIDEOLEZIONE

La fondazione della novella A Boccaccio si deve la fondazione della novella: la codificazione, in una sorta di “enciclopedia narrativa”, di modelli di riferimento per la narrazione in prosa che rimarranno operanti per secoli. Grazie all’eccellenza artistica del Decameron, il genere della narrativa breve in prosa assume per la prima volta piena dignità letteraria nell’ambito dei generi letterari del tempo. Il significato del titolo È la primavera del 1348. Il flagello della peste nera infuria in Firenze, sovvertendo le abitudini di vita, i costumi morali e travolgendo gli stessi rapporti familiari. Dieci giovani (sette donne e tre uomini), per sfuggire al contagio e allo sfacelo che dominano in città, si ritirano in una villa sulle colline vicine. Qui trascorrono le giornate tra onesti passatempi (canti e danze) e raccontano a turno delle novelle, in tutto cento, distribuite nell’arco di dieci giornate (da qui il titolo grecizzante Decameron: “il libro delle dieci giornate”, da deca “dieci” ed emerai “giorni”). È questa l’affascinante finzione narrativa da cui trae origine uno dei capolavori assoluti della letteratura europea.

Il Proemio del Decameron in una pagina miniata (particolare inferiore del foglio) di Taddeo Crivelli, 1467 ca. (Oxford, Bodleian Library).

La datazione L’organizzazione del Decameron come libro organico di novelle avvenne quasi sicuramente tra il 1349 (l’anno successivo alla peste del 1348, da cui l’opera prende spunto) e il 1351. È assai probabile che gruppi di novelle siano nati in occasioni diverse e siano circolati autonomamente prima di essere inseriti nella raccolta e subordinati a un preciso disegno: un’ipotesi che sembra confermata dall’Introduzione alla IV giornata, in cui Boccaccio allude a reazioni negative di parte dei lettori nei confronti di alcune novelle (➜ T4b OL). I modelli Le cento novelle del Decameron traggono molto spesso origine dal ricco materiale narrativo circolante all’epoca. L’operazione che Boccaccio compie nell’opera è quella di sottoporre le varie forme della narrativa breve testimoniate al suo tempo a una riscrittura critica che non esclude la parodia. Ciò vale soprattutto per gli exempla, con i quali il confronto è più diretto e polemico fino, appunto, alla parodizzazione vera e propria. Certamente la novella di Boccaccio si distingue per più di un aspetto dalla narrativa “esemplare”: mentre il fine dei testi esemplari era didattico-morale, il fine della novella boccacciana è edonistico, cioè di piacevole intrattenimento; la narrativa esemplare faceva dei personaggi delle astratte personificazioni di vizi e virtù, mentre la novella boccacciana mostra un’evidente intenzione realistica, conferendo ai personaggi uno spessore storico-sociale e una specifica psicologia; infine l’intreccio non è subordinato alla dimostrazione di una tesi, ma è volto essenzialmente a illustrare la varietà imprevedibile dei casi umani. Il Decameron 2 401


La tradizione della narrativa esemplare e della letteratura edificante (come le Vite dei santi) è frequentemente parodizzata: ne è un esempio eloquente proprio la prima novella del Decameron, in cui ser Ciappelletto, un uomo cinico e immorale, viene alla fine addirittura “santificato”. Boccaccio utilizza anche il ricco materiale narrativo dei fabliaux, soprattutto per costruire situazioni comiche (per lo più in rapporto al tema della beffa) e per alimentare la componente licenziosa, assai presente nel libro. L’autore smorza però con mano ferma la popolaresca grossolanità propria dei fabliaux (➜ C3, PAG. 136) e conferisce così a una materia greve e “bassa” una superiore dignità artistica. Non mancano, poi, nel Decameron spunti e soggetti tratti dalla letteratura cortese: l’inventiva di Boccaccio si manifesta anche in questo caso nel rovesciamento parodico o comunque in uno sviluppo inedito delle situazioni cortesi, che spiazza le attese del lettore. Per le sue trame e per i suoi personaggi Boccaccio si è infine certamente ispirato a racconti orientali e arabi e a fonti classiche, come il romanzo greco di età ellenistica (ne è un esempio la lunga novella che ha per protagonista la bella principessa Alatiel); elementi tipici dello schema narrativo romanzesco vengono però manipolati dall’autore o utilizzati in un diverso contesto, in modo tale da subire profonde metamorfosi. L’antecedente più diretto (e talvolta anche la fonte di qualche novella) è il Novellino, la prima testimonianza di un’antologia novellistica dell’area romanza, allestita verso la fine del Duecento, che già aveva assegnato al racconto prevalentemente un fine di piacevole intrattenimento e che aveva rivelato le potenzialità realistiche del genere.

2 La struttura e la poetica

PER APPROFONDIRE

La struttura Il Decameron si apre con un proemio che presenta l’opera, specificandone le finalità evasive e edonistiche e identificandone i destinatari nelle donne innamorate, bisognose di consolazione e di svago (➜ T4a ). Segue l’introduzione, che descrive ampiamente la situazione di Firenze colpita dalla peste, il degrado fisico e morale prodotto dall’infuriare dell’epidemia, quindi l’incontro nella chiesa di Santa Maria Novella di dieci giovani, cui segue la decisione, su proposta di una di loro (Pampinea), di abbandonare la città e di rifugiarsi in una villa in campagna. I giovani partono un mercoledì mattina, accompagnati dai servitori. Giunti a destinazione (successivamente si trasferiranno in un possedimento più lontano dalla

Il manoscritto autografo del Decameron: la volontà editoriale dell’autore Intorno al 1370, negli ultimi anni della sua vita, quando il Decameron circolava ormai da tempo, Boccaccio trascrive di suo pugno in un codice importante e prezioso la sua opera: volle che il suo Decameron fosse edito come libro “universitario”, proprio come la Commedia, dimostrando in questo modo la fiducia che la scrittura novellistica (un genere allora considerato ancora minore) potesse degnamente confrontarsi con modelli letterari alti. Con tale scelta, inoltre, Boccaccio intendeva probabilmente orientare in una specifica direzione la fruizione stessa del Decameron: il libro di novelle aveva sì incontrato largo

402 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

successo, ma tra un pubblico quasi esclusivamente mercantile, mentre era stato di fatto “snobbato” dagli intellettuali, tra cui Petrarca stesso (➜ PER APPROFONDIRE Boccaccio e Petrarca un’amicizia con qualche punto di domanda, PAG. 393). Il manoscritto autografo (redatto cioè dall’autore in persona e perciò considerato l’originale, oltretutto arricchito di alcuni disegni a matita e acquerello dello stesso Boccaccio), è noto “Come codice berlinese Hamilton 90”. Su di esso si è fondata l’edizione critica dell’opera (1976), curata da Vittore Branca.


città), essi tentano di ripristinare nel microcosmo della villa di campagna il decoro, l’armonia, i vincoli sociali, i valori morali, l’ordinata divisione della giornata che la peste aveva distrutto: al “trionfo della Morte” essi contrappongono il “trionfo della vita” come armonia e piacere. Ogni giorno viene eletto un “re” o una “regina” che decide il tema della giornata, al quale tutti si devono attenere, tranne uno dei giovani, Dioneo, a cui è consentita la scelta di qualsiasi argomento. Inoltre la prima e la nona giornata non sono vincolate a un tema fisso. Il soggiorno dura due settimane, ma le giornate di narrazione sono dieci (da qui il titolo che allude appunto a dieci giornate) perché i giovani decidono di sospendere la narrazione in due giorni, il venerdì e il sabato, dedicandoli a pratiche religiose e alla cura del corpo. Alla narrazione si alternano i commenti collettivi e singoli alle novelle e si aggiungono altre attività ludiche, come la danza, la musica e il canto. Terminato il soggiorno, i giovani rientrano in Firenze e la brigata si congeda proprio dove si era incontrata, nella chiesa di Santa Maria Novella. giornata

re o regina

tema

le parole del Boccaccio

prima (mercoledì)

Pampinea

tema libero

«si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno»

seconda (giovedì)

Filomena

storie sfortunate, ma a lieto fine con l’aiuto della fortuna

«si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine»

terza (domenica)

Neifile

storie di chi riesce a ottenere quanto desidera o a recuperare quanto ha perduto grazie al suo ingegno e alla sua abilità

«si ragiona […] di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse»

quarta (lunedì)

Filostrato

storie d’amore con un finale infausto

«si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine»

quinta (martedì)

Fiammetta

storie d’amore a lieto fine

«si ragiona di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse»

sesta (mercoledì)

Elissa

storie di chi riesce a risolvere una situazione difficile con una risposta pronta, arguta o con un motto di spirito

«si ragiona di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno»

settima (giovedì)

Dioneo

storie di beffe ordite dalle mogli ai danni dei mariti

«si ragiona delle beffe, le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a’ lor mariti, senza essersene avveduti o sì»

ottava (domenica)

Lauretta

storie di beffe di vario tipo

«si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna a uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno»

nona (lunedì)

Emilia

tema libero

«si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli aggrada»

decima (martedì)

Panfilo

storie di chi in una determinata situazione si è comportato con cortesia e nobiltà d’animo

«si ragiona di chi liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa»

Il Decameron 2 403


Gli “interventi d’autore” Nel Proemio che apre l’opera prende la parola l’autore stesso, nelle vesti di narratore di primo grado. Alla sua “voce” appartengono anche alcune altre parti che potremmo definire metaletterarie, poiché contengono fondamentali dichiarazioni di poetica: l’Introduzione alla prima e alla quarta giornata (con la breve novella di Filippo Balducci, nota anche come “apologo delle papere”) e la Conclusione. Sono “interventi d’autore” che invitano i lettori a leggere l’opera nella giusta prospettiva e ne sottolineano la novità e l’importanza nel panorama letterario del tempo. online

Verso il Novecento Libri “galeotti”

MAPPA INTERATTIVA. LA PRESENZA FEMMINILE NEL DECAMERON

Il Proemio. Un’allusione enigmatica Nel Proemio l’autore presenta l’opera, definendone il fine e i destinatari: si rivolge alle donne e in particolare alle donne innamorate, dimostrando così di volersi ricollegare alla più alta tradizione letteraria. Il richiamo più immediato è alla canzone della Vita nuova in cui Dante aveva richiamato le medesime riceventi: Donne ch’avete intelletto d’amore. A Dante, e in particolare al quinto canto dell’Inferno (e al libro “galeotto”) allude anche il titolo-sommario preliminare: «Comincia il libro chiamato Decameron cognominato [soprannominato] prencipe Galeotto. Nel quale si contengono cento novelle...», un titolo che ha suscitato non pochi interrogativi. Il termine galeotto attribuito a un libro rimanda infatti al celebre episodio dantesco di Paolo e Francesca, indotti a cedere alla passione adultera dalla lettura di un romanzo del ciclo bretone. Il Decameron: strumento terapeutico contro la malinconia femminile? Forse Boccaccio vuol semplicemente dire che, come nel Lancelot du lac Galehaut (Galeotto) aiutò Lancillotto a conquistare l’amore di Ginevra, così il Decameron potrà aiutare le donne infelici per amore distraendole o suggerendo loro comportamenti utili. Facile preda della malinconia, infelici per amore, le donne non hanno, come invece gli uomini, occasioni sociali per distrarsi: le cento novelle si propongono, nell’intenzione del Boccaccio, quasi come uno strumento terapeutico che possa assicurare alle lettrici quel benessere psicologico che spesso è a loro precluso, oltre che dai casi della vita, dalle condizioni di costrizione e repressione cui sono soggette dalle regole sociali, uno strumento di liberazione – almeno nell’universo della letteratura – da una vita chiusa e apatica (➜ T4a ). Comunque lo si intenda, tuttavia, il sottotitolo del Decameron rimane ambiguo. I giovani riuniti ad ascoltare Pampinea all’inizio della prima giornata, disegno a inchiostro e acquerello, 1427 (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

404 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


Le donne come simbolo di un nuovo pubblico Di fatto le donne innamorate rappresentano un pubblico ideale, disponibile ad accogliere senza pregiudizi le “novità” enunciate dalle novelle: un destinatario nuovo, che il Decameron si propone di iniziare al gusto di una letteratura divertente e al contempo “alta”, linguisticamente sostenuta, il cui scopo è il piacere della lettura e l’evasione, ma anche la conoscenza dei casi della vita, che comporta l’imparare a comportarsi nelle varie circostanze con saggezza e razionalità. Introduzione alla prima giornata L’autore si rivolge ancora alle donne, scusandosi per l’ambientazione della sua opera, la peste del Trecento a Firenze. Ma, una volta proclamata la necessità di ricordare la terribile pestilenza, le esorta a non allontanarsi dalla lettura perché a questo orrendo inizio faranno seguito racconti piacevoli. L’autore si difende dalle accuse Nell’Introduzione alla quarta giornata Boccaccio fa una vivace e risentita autodifesa dall’accusa di immoralità. Questa presa di posizione sembra dimostrare, come si è detto, la circolazione di singole novelle prima che il “libro” fosse organizzato nella forma definitiva (da qui il tentativo dello scrittore di modificare le reazioni sconcertate e polemiche dei primi lettori). L’autodifesa dell’autore si fonda sulla naturalità dell’istinto amoroso, a cui è inutile e persino dannoso opporsi: il concetto è ribadito dalla breve novella di Filippo Balducci che, attraverso una specie di apologo esemplare, dimostra l’impossibilità di reprimere l’attrazione sensuale appunto perché naturale (➜ T4b OL). Nella Conclusione (➜ T4c OL), che è una sorta di postfazione, lo scrittore aggiunge nuove motivazioni alla sua autodifesa di fronte all’accusa di aver «troppa licenzia usata», esaltando l’importanza preminente della parola rispetto al contenuto: anche la materia più bassa, sostiene Boccaccio, e di per sé immorale può essere riscattata se espressa con «onesti vocaboli» e cioè con una lingua eletta e raffinata, quale appunto è quella del Decameron. Boccaccio sottolinea inoltre la circostanza eccezionale (la peste) in cui ha immaginato la narrazione delle cento novelle e la funzione prettamente evasiva di esse, nate per essere raccontate e ascoltate nell’incantato scenario di un locus amoenus.

Gli interventi di Boccaccio

Proemio e introduzione alla prima giornata

presenta l’opera, definisce il fine e i destinatari (le donne innamorate), si scusa con le donne per l’inizio dell’opera dedicato alla descrizione della peste

Introduzione alla IV giornata

si difende dall’accusa di immoralità: l’amore è un istinto naturale a cui è dannoso opporsi

Conclusione

esalta la lingua raffinata rispetto al contenuto e sottolinea il contesto (la peste) eccezionale in cui ha immaginato la narrazione delle novelle

Il Decameron 2 405


il gioco delle “voci narranti” 3 Lealacornice, dialettica delle interpretazioni

online

Per approfondire La peste tra realtà e letteratura

I dieci giovani narratori del Decameron riuniti ad ascoltare una storia nella seconda giornata, miniatura, sec. XIV.

La cornice Oltre alle dichiarazioni di poetica, di cui abbiamo parlato, e alla voce narrante di primo grado, in cui si rispecchia l’autore stesso, si deve anche tenere conto della vera e propria “cornice” in cui si iscrivono le cento novelle: innanzitutto la descrizione dell’epidemia di peste e delle sue conseguenze (➜ T5a ), che motiva la decisione dei dieci giovani di allontanarsi da Firenze; poi gli intermezzi tra una novella e l’altra, che descrivono le occupazioni raffinate della lieta brigata durante il soggiorno nella villa suburbana. La presenza di una cornice che ingloba i racconti non è un’invenzione originale del Boccaccio: era infatti già presente nella novellistica orientale e nella stessa tradizione romanza (ad esempio nel Libro dei sette savi), ma la complessità strutturale della cornice del Decameron non ha precedenti né termini reali di confronto. Soprattutto, mentre in altri esempi (come nelle celebri Mille e una notte) la cornice si limitava a collegare tra di loro i racconti, nell’opera in esame essa “dialoga” con i testi novellistici e costituisce quindi un livello testuale importante per ricostruire il significato complessivo dell’opera. Inoltre la cornice iscrive i racconti in un preciso contesto situazionale, istituendo con i lettori uno specifico “patto narrativo”: da un lato la narrazione delle novelle, anche delle più “trasgressive”, viene motivata dall’eccezionalità della situazione, dall’altro il clima raffinato e cortese in cui vengono narrate suggerisce ai fruitori una specifica modalità di ricezione delle novelle. Dunque la cornice non è, come un tempo si pensava, semplicemente un elemento “gotico”, un’elegante architettura che corrisponde al gusto medievale dell’ordine, ma è parte integrante della narrazione, cui conferisce un’organicità che fa del Decameron un macrotesto anziché una semplice antologia novellistica (➜ PER APPROFONDIRE Cos’è un macrotesto? C7, PAG. 333). La pluralità delle voci narranti e il carattere pluriprospettico del Decameron I dieci giovani costituiscono i narratori di secondo grado a cui l’autore-narratore di primo grado affida il compito di raccontare le cento novelle. Con la “delega” narrativa a più “voci” Boccaccio (consapevole della portata innovatrice e talvolta trasgressiva delle sue novelle) rinuncia ad assumere la diretta responsabilità di quanto viene narrato e a esprimere un giudizio univoco, dando così vita a una rappresentazione dinamica e problematica, in cui non esiste un unico punto di vista e un unico parametro di giudizio. Il gioco delle varie voci narranti – di primo, secondo e, se si considerano anche le voci dei personaggi, di terzo grado – crea una struttura narrativa “a scatole cinesi” come è stata felicemente definita: a questa scelta narratologica corrisponde una visione aperta e dinamica della realtà. Non è inoltre da trascurare il rapporto dialettico, che forse la critica non ha ancora del tutto indagato, tra le novelle e i preamboli e commenti che le precedono e seguono, ricollegandole alla situazione comunicativa creata dalla cornice: quest’ultima crea dunque con i testi un contrappunto costante, contribuendo in modo determinante al carattere pluriprospettico, non univoco, dell’opera.

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Per approfondire Una comunicazione paritaria: il simbolo del “cerchio”

Come esempio si può citare il conflitto tra la storia dissacrante di ser Ciappelletto (I, 1), narrata da Panfilo e i commenti edificanti della brigata. O ancora si può confrontare il finale della novella di Nastagio (un rovesciamento ironico del modello morale degli exempla) con il commento di Fiammetta che, preparandosi a narrare la novella successiva, invita le donne a tenere una condotta morale e a non prendere a modello il comportamento delle ravennati. L’esemplarità della storia di Griselda (X, 10), che sembra volta a esaltarne la virtù, è dissacrata dal commento sarcastico di Dioneo (cosa che, tra l’altro, mette in dubbio la struttura ascensionale dell’opera ipotizzata da Branca).

I livelli di narrazione nel Decameron Narratore di 1° livello

l’autore stesso: Giovanni Boccaccio

Narratore di 2° livello

i giovani della lieta brigata

Narratore di 3° livello

i personaggi delle novelle che, a loro volta, raccontano una storia

4 L’ideologia di Boccaccio: fra innovazione e tradizione

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Per approfondire Un “disegno ascensionale” o piuttosto un mondo “orizzontale”?

Una visione del mondo problematica e aperta Tra la conclusione della Commedia (1321) e la stesura del Decameron (1349-1351) intercorrono soltanto trent’anni, ma la prospettiva che ispira il capolavoro di Boccaccio è radicalmente mutata rispetto al modello dantesco: mentre nella Commedia eventi e comportamenti umani sono soggetti a un rigoroso e univoco giudizio etico-religioso e si iscrivono in un disegno provvidenziale, nel Decameron la prospettiva del trascendente è di fatto assente. La realtà è rappresentata da Boccaccio in una dimensione esclusivamente terrena, in cui la libera iniziativa dell’uomo può essere favorita o ostacolata dai cambiamenti e rovesciamenti operati dal caso. Non esiste più nel Decameron un criterio assoluto di tipo religioso per valutare l’azione dell’uomo, ma sfaccettate, molteplici, “verità”: il bene può allora coincidere con l’utile o con il soddisfacimento dei propri desideri (anche quelli carnali). Ovviamente, la rinuncia a subordinare la sua opera ai dettami della morale cristiana non implica da parte di Boccaccio una professione di irreligiosità (inconcepibile, del resto, a quel tempo), sebbene egli condanni, per lo più attraverso il registro comico, la corruzione e l’ipocrisia della Chiesa. Un’ideologia sociale di transizione Anche per quanto riguarda l’ottica sociale che emerge dal complesso dell’opera è possibile riconoscere la presenza di una visione che non nega il “nuovo” emergente nella società (identificabile nel ceto borghesemercantile), ma al contempo non rigetta la visione e i modelli di comportamento dell’età appena trascorsa. Un’ottica, dunque, di transizione, sospesa tra innovazione e tradizione. Nel Decameron domina la nuova classe borghese mercantile, di cui Boccaccio apprezza la dinamicità e lo spregiudicato spirito d’iniziativa. Ma questo non implica affatto che lo scrittore si faccia portavoce delle idee e dell’ideologia di questa parte della società in modo incondizionato: non manca infatti di rappresentarne i limiti – quali l’avidità, la grettezza, il cinismo – espressioni di un’“economicità”

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che tende a sostituirsi ai valori morali e ai sentimenti, come nella prima novella o nel ritratto a tinte fosche dei fratelli della sventurata Lisabetta da Messina (➜ T7b ), che non esitano a sacrificare una vita umana alle “ragioni della mercatura”. Più che all’ottica mercantile, Boccaccio mostra piuttosto di aderire ai modelli culturali e di comportamento propri del mondo aristocratico e della civiltà cortese-cavalleresca (un mondo che aveva personalmente frequentato alla corte di Napoli): non a caso il Decameron si conclude, nella decima giornata, con una carrellata di personaggi e di situazioni che si legano proprio a quel passato, quasi a voler indicare ai contemporanei dei modelli ideali. Boccaccio pensa però che i modelli cortesi-aristocratici debbano conciliarsi con una visione più pragmatica, adattandosi così ai bisogni della nuova élite cittadina: della conciliazione tra ideale cortese e ottica borghese è testimonianza paradigmatica la celebre novella di Federigo degli Alberighi (➜ T9c ). Il popolo in genere è guardato con simpatia, ma anche con sorridente ironia da un punto di vista che è comunque a esso superiore. In questo senso la visione di Boccaccio è prettamente conservatrice, perché le distanze sociali non solo non vengono criticate, ma sono accettate come un dato di fatto. Le barriere che dividono le classi si possono superare solo eccezionalmente e temporaneamente, grazie magari a un motto di spirito, frutto di un’intelligenza acuta che può esistere anche tra i membri più umili del popolo, come nel caso di Cisti fornaio (II, 6): la sola democrazia possibile per Boccaccio è dunque quella dell’ingegno.

5 I temi L’amore… le donne Centralità del tema dell’amore e novità nella rappresentazione dei comportamenti amorosi Tra le forze terrene che dominano i comportamenti umani e che Boccaccio rappresenta nel Decameron c’è anzitutto l’amore, che ne costituisce l’area tematica principale: tre intere giornate sono espressamente dedicate all’argomento (la terza, la quarta, la quinta) e ne hanno a che fare ben sessantasei novelle su cento; inoltre è altissima nell’opera la frequenza di termini come donna, amore, femmina, nelle infinite varianti lessicali. L’amore era certamente una materia privilegiata dalla tradizione letteraria medievale, sia in ambito narrativo (nell’area francese) sia lirico (nell’area provenzale e stilnovisticopetrarchesca). In contrasto, però, con tale autorevole tradizione, nel Decameron la rappresentazione dell’amore non è soggetta a censure morali o a preclusioni ideologiche. Nella tradizione medievale, l’attrazione sensuale era stata condannata (come negli exempla dei predicatori) o tutt’al più sublimata (nella linea stilnovistico-dantesca), e ancora nel Petrarca provocava sensi di colpa. Boccaccio considera invece l’amore una naturale forza istintuale (come dimostra esemplarmente la “novelletta delle papere” in IV, 1 ➜ T4b OL), da accettare a prescindere da una sua ipotetica funzione salvifica, una forza «alle cui leggi voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano». La valorizzazione del corpo e il ribaltamento della tradizione misogina Boccaccio rifiuta una concezione sublimante dell’amore: per quanto alto e nobile possa essere, l’amore nelle novelle è sempre legato all’appagamento fisico. Di conseguenza nel Decameron trova posto la valorizzazione antiascetica del corpo, evi-

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dente in alcuni celebri nudi femminili (ad esempio quello di Efigenia nella novella di Cimone [V, 1] e quelli delle novellatrici al bagno alla fine della sesta giornata). La difesa delle pulsioni erotiche contro ogni forma di repressione sociale, e soprattutto di censura letteraria, è strettamente associata nel libro alla valorizzazione delle donne, alle quali l’opera significativamente è dedicata. Boccaccio ribalta di fatto la tradizione misogina del Medioevo (➜ C9), legata al prevalere di una cultura dominata dalla Chiesa, ma mette anche in discussione modelli laici di comportamento femminile, come il Reggimento e costume di donna di Francesco da Barberino (1318-1320): un trattato in cui si dava voce al punto di vista del ceto medio trecentesco municipale sull’educazione femminile. Oltre la donna angelicata La donna nel Decameron non è più evanescente apparizione angelica, come negli stilnovisti e in Dante, ma ha sempre reale consistenza di personaggio: le donne che entrano in scena nell’opera sono donne vere, storicamente identificate, di cui Boccaccio mette in rilievo i concreti condizionamenti psicologici, morali e religiosi. Non è certo un caso che Boccaccio scelga una donna per guidare il gruppo e per convincerlo a lasciare Firenze: le donne nel Decameron sono dunque capaci di iniziativa. Una casistica varia L’amore è rappresentato attraverso un’ampia casistica e una grande varietà stilistica: può legarsi a toni tragici, come nella novella di Lisabetta (➜ T7b ) o di Tancredi e Ghismonda (➜ T7a ), oppure comici, come nella novella della badessa e delle brache (➜ T8a ); può essere istinto sessuale elementare, come nel caso di Peronella (➜ VERSO L’ESAME DI STATO OL), oppure nobile e disinteressato, come nel caso di Federigo degli Alberighi (➜ T9c ) e identificarsi nell’amore cortese, soprattutto nella decima giornata (ad es. re Carlo e la Lisa: X, 6) che testimonia il complesso rapporto esistente nel Decameron fra tradizione e innovazione. Boccaccio supera le discriminazioni proprie della tradizione cortese, che consideravano l’esperienza d’amore sublime come esclusivo privilegio delle classi superiori. Il “grande amore” o l’amore “tragico” può essere vissuto anche dalle classi subalterne («quantunque Amor volentieri le case dei nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo ’mperio di quelle dei poveri»). Questa «democrazia del cuore umano», come è stata efficacemente definita, trova nella vicenda tragica di due umili filatori, Simona e Pasquino, un’esemplare realizzazione (➜ T7c OL).

L’intelligenza: l’industria Una qualità mondana Oltre che dall’amore, l’agire umano è guidato dall’intelligenza (l’industria dell’uomo, che se trova vantaggio dalle situazioni), la cui valorizzazione costituisce una delle novità più rilevanti dell’opera di Boccaccio: una qualità prettamente mondana, che testimonia una visione laica della vita e dell’agire umano. Nell’intelligenza si assommano diverse qualità: dalla capacità di scegliere il comportamento più adatto a una certa situazione, alla prontezza di spirito che permette di risolvere brillantemente una situazione difficile, alla battuta pronta e arguta. Una qualità borghese Si tratta certamente di abilità fondamentali per emergere nella società mercantile nella quale viveva Boccaccio, come nel mondo cortese lo erano stati la liberalità, il coraggio, il valore militare: a testimonianza della radice borghese di questo tema è significativo il fatto che, come sottolinea Mario Baratto, nel Decameron sia attestato molto più il termine ingegno (traduzione di qualità intellettuali nel concreto di una situazione) che non intelletto (qualità intellettuale colta in sé, in astratto). Il Decameron 2 409


Una qualità fiorentina Nel Decameron la rappresentazione dell’ingegno è preferibilmente contestualizzata nell’ambiente fiorentino: è a Firenze infatti che si ritrovano le testimonianze più frequenti e significative di questa qualità (come se fossero quasi un “marchio” locale). Le novelle della VI giornata, dedicate ai «leggiadri motti», sono nella stragrande maggioranza ambientate nella città toscana, così come le novelle legate al tema della beffa, che occupa le giornate VII e VIII. Nuove categorie di giudizio Nella sua opera Boccaccio contrappone agli sciocchi i saggi e gli astuti, ai quali va la sua evidente simpatia. Al criterio di giudizio etico-religioso, che distingueva gli uomini in morali e immorali, buoni e malvagi, nel Decameron tende a sostituirsi un nuovo tipo di classificazione fondato sulla contrapposizione fra sciocchi e savi. Una classificazione che deriva chiaramente dall’emergere di una morale laica e dal prevalere di un’ottica borghese-mercantile. La tipologia umana degli ingenui creduloni, destinati a essere perennemente beffati e derisi, è incarnata nell’opera soprattutto dal personaggio di Calandrino (➜ T10a e ➜ T10d OL), un pittore realmente esistito, protagonista di una sorta di “ciclo narrativo” (VIII, 3 e 6; IX, 3 e 5).

La Fortuna fa girare la ruota, miniatura dal De casibus virorum et mulierum illustrium di Boccaccio, 1467 (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

La casistica dell’intelligenza Come per l’amore, anche la rappresentazione dell’intelligenza si concretizza in una vasta casistica, a seconda dei tipi umani e delle categorie sociali: si va dalla superiorità intellettuale di Cavalcanti (VI, 9) che si manifesta in una battuta “ermetica” che ben pochi possono capire, all’ideazione di beffe (talvolta crudeli) a danno degli sciocchi, alle prove di intelligenza nella sua accezione più elevata. Boccaccio valorizza spesso nella sua opera il binomio intelligenza-dialettica (nel senso di uso accorto della parola), come nel caso della celebre confessione di ser Ciappelletto che apre il Decameron (➜ T6a ), della brillante performance con cui riesce sorprendentemente a cavarsela l’indimenticabile frate Cipolla (➜ T6d ) e anche della furba Peronella (➜ VERSO L’ESAME DI STATO OL), sorpresa dal marito mentre riceve in casa il suo amante.

La fortuna Una forza incontrollabile Anche gli uomini che sono dotati di un’intelligenza pronta devono però misurarsi con un’entità che sfugge al loro controllo: la fortuna. Boccaccio definisce Fortuna e Natura «le due ministre del mondo». Se riconoscere l’esistenza degli istinti naturali permette di poterli dominare, per Boccaccio è altrettanto inequivocabile il dominio della fortuna sulle sorti umane: si dovrebbe riflettere – afferma all’inizio della terza novella della seconda giornata – che «tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei, secondo il suo occulto giudicio, […] senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate». Un tema tradizionale rivisitato in chiave laica e preumanistica Il tema della fortuna rappresenta certamente un’eredità propria della cultura medievale: nella Commedia (If VII, 78) essa viene definita «general ministra e duce (cioè guida)» delle cose umane. Ma Boccaccio prospetta il tema in modo nuovo, anticipando le posizioni della cultura umanistico-rinascimentale: infatti nel Decameron la fortuna non è più strumento di un disegno provvidenziale e non si iscrive in una dimensione sovrannaturale, ma è una forza esclusivamente

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terrena e laica (per lo meno nelle novelle, poiché nei preamboli sopravvive qualche traccia di una visione tomistico-medievale dell’elemento: un’ennesima conferma, questa, del carattere “aperto” e problematico dell’opera). La fortuna nel Decameron può essere un insieme di coincidenze imprevedibili, oppure una forza della natura (la tempesta nella novella di Landolfo Rufolo ➜ T9a OL) o ancora un avvenimento casuale, magari banale e di per sé insignificante, ma capace di mettere in moto una catena di conseguenze (ad esempio, l’asse sconnessa che fa precipitare Andreuccio da Perugia, dando inizio alle sue avventure notturne ➜ T9b ). La fusione dei temi Nel concreto realizzarsi delle novelle, i vari temi che abbiamo presentato si fondono l’uno con l’altro. Nella storia di Andreuccio, ad esempio o in quella di Landolfo Rufolo, il tema della fortuna si fonde alla fine con quello dell’intelligenza; nella strutturazione dell’intreccio di altre novelle è l’amore a fondersi con il tema della sorte (Simona e Pasquino); ancora, l’intelligenza può essere finalizzata all’amore (Nastagio degli Onesti sfrutta astutamente una strana circostanza per realizzare il suo desiderio amoroso ➜ T6c ) e così via.

I temi del Decameron Amore

Intelligenza

• tema naturale • dominante forza istintuale • spesso legato all’appagamento fisico • un’ampia casistica

• l’ingegno • la capacità di trarre vantaggio da una situazione • lo spirito d’iniziativa

Fortuna

• non è strumento della Provvidenza • è considerata da un’ottica laica e terrena

6 La fondazione del realismo: i personaggi, il modello spaziale Una delle etichette critiche tradizionalmente associate al capolavoro di Boccaccio è quella di “realismo”. Cercheremo di chiarire in che senso si possa parlare di “realismo” per il Decameron, ed entro quali limiti. La verosimiglianza psicologica dei personaggi Nella rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano il Decameron, Boccaccio si allontana decisamente dalla narrativa degli exempla: mentre questa tendeva a minimizzare le caratterizzazioni individuali e sociali del soggetto per farne l’astratta personificazione di vizi e virtù, Boccaccio «restituisce la situazione umana all’esperienza sociale, storica, topografica, perfino familiare» (Battaglia), conferendo per la prima volta verosimiglianza psicologica ai suoi personaggi. online

Per approfondire Il concetto di realismo

Il Decameron come ritratto della società trecentesca Questa particolare natura del personaggio, fino ad allora inedita, fa sì che il Decameron possa essere letto anche come il “romanzo” della società trecentesca, e in particolare della realtà cittadina, ritratta nelle sue tipologie umane, nei suoi costumi, mentalità, valori, pregi e difetti. È infatti soprattutto dalla realtà cittadina, in particolare fiorentina, che Boccaccio attinge per creare la maggior parte dei suoi protagonisti: dalla classe dirigente aristocraticoborghese, ai mercanti, ai rappresentanti del mondo delle professioni (medici, uomini di legge), agli artigiani, agli intellettuali, al popolo. Non mancano esponenti del ceto ecclesiastico: dai grandi personaggi come l’abate di Clignì al povero clero di campagna. Il Decameron 2 411


L’epopea dei mercanti La figura più tipica del mondo boccacciano è sicuramente quella del mercante, protagonista di molte novelle (ad es. I, 1; II, 4 e 5: Landolfo e Andreuccio; II, 2; IV, 5; VII, 8; VIII, 10) e figura emergente nella vita sociale del tempo, in particolare fiorentina: un mondo, quello mercantile, conosciuto da Boccaccio in prima persona durante il soggiorno napoletano e così presente nel Decameron da indurre Vittore Branca a definire l’opera come «epopea dei mercanti»; in particolare la seconda giornata, quella dedicata all’avventura e alla fortuna, porta, secondo il critico, un «suggello mercantile». Una nuova rappresentazione spazio-temporale Al realismo del Decameron contribuisce anche la rappresentazione spazio-temporale: Boccaccio precisa sempre queste due tipologie di coordinate di una vicenda, differenziandosi ancora una volta dalla narrativa esemplare e in genere dalle raffigurazioni medievali (ad esempio nella Vita nuova gli spazi sono indeterminati e “incolori”, e la stessa scansione temporale ha carattere più allusivo-simbolico che reale). A proposito dell’inquadramento temporale, è stata sottolineata la “contemporaneizzazione” delle vicende rappresentate, cioè la tendenza dell’autore ad ambientare preferibilmente le novelle nel proprio tempo. Spazi realistici e non più simbolici Le raffigurazioni medievali dello spazio in genere non avevano la funzione di descrivere realisticamente un luogo, ma di alludere a una dimensione spirituale: ad esempio, nelle Vite dei santi i deserti e le foreste dove si svolge l’azione costituiscono delle proiezioni simboliche dell’isolamento dell’asceta. Favolose e non realistiche sono anche le selve in cui si addentrano gli eroi dei romanzi cavallereschi nei loro avventurosi percorsi esistenziali. A questa tipologia di raffigurazione dello spazio contribuiva anche una conoscenza geografica ancora vaga e sommaria; i pellegrinaggi religiosi (tra XI e XIV secolo) e soprattutto l’espansione commerciale offrirono un contributo determinante per una nuova visione del mondo, ben testimoniata dal Decameron: nell’opera del Boccaccio le azioni e le avventure sono quasi sempre calate in luoghi precisi, dislocati in un orizzonte reale, non immaginario né simbolico o indeterminato. Lo spazio dei mercanti Luoghi privilegiati dalla rappresentazione di Boccaccio sono quelli frequentati realmente dai mercanti: dalle città italiane come Napoli, Genova, Palermo a Parigi, Marsiglia, le cittadine della Borgogna e delle Fiandre. Ma teatro delle avventure mercantili è soprattutto il Mediterraneo (numerose sono le novelle “marine”, la più emblematica delle quali è quella di Landolfo Rufolo). Dominante nel Decameron è comunque l’ambiente cittadino, descritto con particolari realistici: in particolare la Firenze contemporanea, ritratta con precisione nelle sue vie, contrade e chiese.

7 Il Decameron come laboratorio narratologico Una nuova “modernità” per il Decameron Del Decameron la critica ha messo in luce ormai da tempo le novità ideologiche rispetto al panorama letterario coevo, la prospettiva eminentemente laica e terrena, così come la rappresentazione realistica delle più varie tipologie umane. Recentemente, però, l’indagine critica si è spostata piuttosto sulle sue modalità narrative. Ci si è resi conto che l’interesse forse principale di Boccaccio è l’esplorazione consapevole delle diverse potenzialità narrativo-espressive del racconto e il gusto di manipolare le più varie fonti in un raffinato gioco combinatorio. È soprattutto

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in questa prospettiva che oggi questo capolavoro appare “moderno” e in grado di competere, quanto a sofisticati procedimenti di riscrittura e parodia, con scrittori come Calvino, Gadda o Borges. L’esplorazione delle potenzialità del raccontare Boccaccio fonda il genere della novella e ne consacra autorevolmente il ruolo nel sistema letterario italiano portandolo subito a livelli artistici che rimarranno ineguagliati nel tempo. All’interno della forma-novella, in realtà, sono presenti nel Decameron – come ha evidenziato Mario Baratto – diverse tipologie, che ne rendono l’universo narrativo estremamente vario. La poetica del “gioco intellettuale” e la manipolazione ironica dei modelli Secondo un’interpretazione critica che condividiamo, il Decameron può essere letto come espressione di una poetica del “divertimento intellettuale” raffinato e colto, che si manifesta particolarmente nella manipolazione ironica dei modelli. Una poetica che, secondo le linee critiche più recenti e accreditate, si adatta a Boccaccio ben più di quella del dissacratore a tutti i costi, portavoce di un’ideologia trasgressiva, quale è stato per lo più definito. In questa prospettiva anche la parodia, assai comune nel Decameron, non implica necessariamente, come si pensava, una volontà ideologica dissacrante da parte dell’autore, ma si deve intendere innanzitutto come divertito rovesciamento di modelli letterari riconosciuti.

Illustrazione per la novella di Tedaldo degli Elisei e monna Ermellina (Decameron, III, 7), miniatura francese del XV secolo (Parigi, Biblioteca dell’Arsenale).

Il lettore ideale del Decameron Un divertimento colto, quello che vuole raggiungere Boccaccio, a cui è invitato a partecipare anche il lettore che, nelle intenzioni dell’autore, deve essere in grado di decifrare l’operazione condotta. Di fatto il “lettore ideale” a cui pensa Boccaccio deve assumere esattamente lo stesso atteggiamento dei dieci novellatori: partecipare al gioco collettivo del raccontare senza frapporre pregiudizi e censure fra sé e la pagina, ma mantenere al contempo, anche di fronte ai racconti più scabrosi, un atteggiamento di signorile e razionale distacco che consente di distinguere tra vita e letteratura (e il Centonovelle, per Boccaccio, è letteratura). La parodia è in primo piano già nelle due novelle che aprono la prima e la seconda giornata, in cui Boccaccio ironizza sulla letteratura agiografica (le popolarissime Vite dei santi) ed esemplare: nella storia di Martellino che si finge miracolato (➜ T6b OL) si può vedere il rovesciamento “carnevalesco” dei miracoli, che sono un riferimento d’obbligo in ogni Vita di un santo. Nella celebre prima novella del Decameron si narra la «santa morte» del malvagio e blasfemo Ciappelletto (➜ T6a ) in seguito a una falsa confessione che persino nel linguaggio imita, parodizzandoli, i modelli di penitenza diffusi ai tempi. Anche nei confronti della letteratura romanzesca e cavalleresca Boccaccio attua procedimenti di riscrittura ironizzante; ad esempio nella novella, già sopra citata, che ha come protagonista la bellissima Alatiel, viene ironizzato un vero topos della letteratura esemplare, ma anche delle narrazioni cavalleresche e fiabesche: la vicenda straordinaria di «vergini […] passate intatte tra i pericoli più aspri e la più lasciva cupidigia degli uomini» (Branca). Anche Alatiel vaga per tutto il Mediterraneo, è concupita da ben nove uomini, ma è del tutto condiscendente, essendo un vero e proprio «animale erotico», come è stata efficacemente definita. Ironica suona, dunque, la finale asserzione della sua intatta “verginità”. Spesso Boccaccio riprende in chiave comica gli espedienti tipici della narrazione romanzesca: ad esempio l’imminenza di gravi pericoli, gli inganni e le circostanze avverse che mettono in grave difficoltà il protagonista sono ripresi nelle mirabolanti avventure

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che vedono coinvolto il giovane mercante Andreuccio da Perugia (➜ T9b ). Alla metamorfosi comica degli schemi romanzeschi contribuisce qui in modo rilevante la riduzione dello “spazio avventuroso”, di solito remoto e favoloso, entro un ambito municipale. Oltre la novella: il Decameron come macrotesto Il Decameron non è un semplice aggregato di novelle, ma un “libro”, di cui l’autore ha voluto sottolineare l’organicità sigillandolo, con una medesima etichetta per l’inizio («Comincia il libro chiamato Decameron») e la chiusura («Qui finisce la decima e ultima giornata del libro chiamato Decameron...»). Così come per il Canzoniere di Petrarca, anche per il capolavoro di Boccaccio è legittimo usare la categoria critica di “macrotesto”, innanzitutto per la funzione della cornice, che collega tra di loro i racconti in una struttura architettonicamente unitaria e conchiusa. Non è un caso, quindi, che il Decameron ci sia giunto integro e compiuto, a differenza di altre raccolte novellistiche. La critica ha inoltre sottolineato le ricorrenze interne all’opera, le corrispondenze e i richiami tra le novelle, che fanno dell’opera non un’antologia slegata di testi, ma un organismo saldamente unitario. Già nell’organizzazione che presiede alle singole giornate si manifesta una coscienza progettuale e macrotestuale: otto su dieci, infatti, prevedono per il novellare un tema che funge da principio organizzativo e “ordinante”; e il “tema” della giornata è un programma narrativo di massima, esplicato poi in modo molto diverso dai novellatori, ma sempre con una salda visione d’insieme. Inoltre, l’ordine delle novelle all’interno della giornata e all’interno dell’opera probabilmente non è casuale, ma corrisponde, almeno in alcuni casi, alla volontà di Boccaccio di istituire determinati collegamenti e percorsi. Ad esempio, le novelle che aprono le prime tre giornate sono accomunate non solo dal tema (in tutti e tre i casi la religione o ambienti e usi legati al clero), ma anche dalla parodia della letteratura agiografica e edificante. La vicinanza tra novelle implica spesso precise analogie, come nel caso del dittico che, nella quinta giornata, ha come protagonisti Nastagio degli Onesti (➜ T6c ) e Federigo degli Alberighi (➜ T9c ): due amori devastanti non corrisposti approdano imprevedibilmente al lieto fine del matrimonio.

8 Lo stile e la lingua Parlare della prosa del Boccaccio è importante innanzitutto in prospettiva storica: il Decameron influenzò infatti per secoli le strutture della prosa e della lingua italiana, grazie alla “consacrazione” del suo autore come modello linguistico da imitare che si verificò nel Cinquecento ad opera di Pietro Bembo. Il Decameron come modello di stile “tragico” Lo stile di Boccaccio che fece scuola fu però esclusivamente quello “tragico”, alto, latineggiante nell’uso di un periodare ampio e sostenuto, ricco di incisi e subordinate, e nei costrutti sintattici (ricorre in particolare la collocazione del verbo in fondo): uno stile “difficile” per il lettore di oggi, ma che corrispondeva perfettamente al gusto classicheggiante e aristocratico del Rinascimento. Questo stile è testimoniato nell’Introduzione, nella cornice che collega le novelle (e in particolare nei preamboli che le introducono), oltre che negli “interventi d’autore” e cioè nelle pagine in cui Boccaccio presenta e difende opera e poetica. Viene inoltre utilizzato nelle novelle della decima giornata (che celebrano

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qualità e personaggi appartenenti al mondo cortese), ma anche in altre occasioni in cui il tema, il personaggio e/o la situazione richiedono uno stile elevato. Ciò rispecchiava l’ambizione di Boccaccio di scrivere un’opera che rispondesse ai precetti retorici delle artes dictandi e che, per eleganza e padronanza degli strumenti espressivi, si collocasse ai vertici della prosa d’arte medievale. La mimesi del parlato e il realismo rappresentativo Esiste però nell’opera anche un registro espressivo completamente diverso, modellato sulla mimesi del parlato nelle scelte lessicali e nella sintassi colloquiale; è impiegato in particolare nei discorsi diretti, nei quali il novellatore di turno dà la parola direttamente al personaggio. A questo proposito si parla spesso di “realismo” espressivo di Boccaccio: bisogna però precisare che il realismo linguistico-stilistico si rifà al principio – classico e medievale – della coerenza tra stile e materia, enunciato anche nel De vulgari eloquentia di Dante. Il principio è ribadito da Boccaccio stesso nella Conclusione, dove asserisce che la «licenza» presente in alcune novelle è stata espressamente richiesta dalla natura delle novelle stesse. Su questa base Boccaccio riproduce le particolarità linguistiche di ambienti sociali diversi (mondo borghese, popolare, campagnolo), mimando persino le inflessioni dialettali locali (come il veneziano, il senese o il napoletano), e anche i linguaggi “settoriali”, come il gergo mercantesco o la lingua della legge o della Chiesa, o ancora le espressioni tipiche dei principali codici culturali del tempo (come la lirica cortese-stilnovistica). Boccaccio stesso riconosce il carattere composito della propria lingua, e nella Conclusione dell’opera lo mette in relazione con il carattere aperto della vita: «Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma sempre essere in mutamento, e così potrebbe della mia lingua essere intervenuto». È un’asserzione che autorizza la varietà e mescolanza degli stili, necessaria a rappresentare la varietà e mobilità della vita. online

Interpretazioni critiche Giuseppe Petronio I confini del realismo decameroniano

La bifrontalità comico/tragico La rappresentazione della ricchezza della vita tende a polarizzarsi in una «potente bifrontalità» (Branca) comico-tragica, esemplarmente testimoniata dalle novelle in apertura (“comiche”) e in chiusura (”tragiche”), ma che talvolta è persino presente in uno stesso testo. Nel Decameron lo stile “comico” e “umile” ha in genere a che fare con la realtà contemporanea, con gli spazi della città o della campagna e le classi sociali più basse o borghesi; invece lo stile “tragico” e “sublime” si lega tendenzialmente all’evocazione di un mondo passato, ad ambienti raffinati e connota in genere un’umanità composta da nobili e intellettuali.

Il Decameron GENERE

raccolta di novelle

COMPOSIZIONE

l’opera viene scritta tra il 1349 e il 1351

STRUTTURA

cento novelle raccontate in dieci giorni da dieci novellatori unite da una cornice narrativa

DESTINATARI

le donne innamorate

TEMI

la fortuna, l’amore, l’industria umana

STILE

varietà dei registri stilistici e linguistici

Il Decameron 2 415


T4

Dichiarazioni di poetica Per comprendere un’opera complessa e innovativa come il Decameron non si può prescindere dalle dichiarazioni di poetica che accompagnano il capolavoro di Boccaccio, collocate in posizioni “strategiche” del testo: in particolare il Proemio dell’opera e la Conclusione. Importante è anche l’autodifesa contenuta nell’Introduzione alla IV giornata.

Giovanni Boccaccio

T4a

Il Proemio e la dedica alle donne Decameron, Proemio

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

Nel Proemio, Boccaccio spiega le motivazioni della propria opera, della quale mette in risalto la funzione dilettevole e consolatoria di fronte alle sofferenze della vita. Egli si rivolge in particolare alle donne, che gli appaiono più bisognose del conforto e della distrazione che può venire da un libro di novelle. Un libro nel quale, secondo la presentazione che ne fa l’autore, il tema dell’amore occuperà un posto decisivo. Riassumiamo la prima e l’ultima parte del testo e ne riproduciamo il nucleo centrale.

PROEMIO Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere1 e hannol2 trovato in alcuni3; fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli4. Per ciò che5, dalla mia 5 prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d’altissimo e nobile amore6, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse7, quantunque appo coloro che discreti erano8 e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire9, certo non per crudeltà della donna amata, ma 10 per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito10: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava contento stare11, più di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea12. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia mor15 to13. Ma sì come a Colui14 piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn’altro

1 e come... mestiere: anche se aver compassione per gli afflitti è cosa doverosa per ogni uomo, lo è in particolare per coloro che hanno bisogno di consolazione. 2 hannol: lo hanno. 3 Umana cosa... alcuni: si tratta di un esordio, in forma di consiglio, molto simile a quello in Elegia di Madonna Fiammetta (➜ T3 OL), in cui si invita ad avere compassione per gli afflitti e portare loro conforto. 4 io... quegli: io (inteso come l’autore) sono uno di questi. È interessante osservare un rovesciamento rispetto al punto di vista del sonetto iniziale (il proemio) del Canzoniere di Petrarca, in cui il poeta chiedeva

aiuto e conforto al lettore trovandosi in una condizione di difficoltà e di «errore», mentre in questo caso Boccaccio si pone come l’autore che con la sua opera può dare consolazione agli «afflitti» ossia le donne. 5 Per ciò che: Poiché. 6 essendo acceso... amore: avendo provato una forte passione amorosa per una donna di condizione sociale superiore alla mia. Boccaccio si riferisce alla nobildonna Maria d’Aquino. 7 alla mia bassa... richiedesse: forse assai più di quanto non sembrerebbe che convenisse (si richiedesse) alla mia umile condizione, essendo io stesso ad ammetterlo (narrandolo).

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8 quantunque... erano: sebbene fossi stimato da coloro che sono equilibrati nel giudicare. 9 sofferire: sopportare. 10 ma per... appetito: ma per un’intensa passione dovuta a un eccessivo desiderio. 11 il quale... stare: l’innamoramento non mi permetteva di contenermi entro nessun limite. 12 più di noia... facea: mi faceva patire più dolore di quanto ci fosse bisogno. 13 Nella qual... morto: non sono morto di dolore solo grazie all’aiuto di qualche sincero amico. 14 Colui: Dio.


fervente15 e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare16, per se medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente 20 m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando17; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso18. Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi 19 20 25 le mie fatiche ; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare21 e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto22 di volere, in quel poco che per me23 si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me aiutarono alli quali per avventura per 30 lo lor senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli almeno a quali fa luogo24, alcuno alleggiamento prestare25. E quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce26 maggiore, sì perché più utilità vi farà e si ancora perché più vi fia caro avuto27. 35 E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare?28 Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate29: e oltre a ciò, ristrette30 da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del 31 40 tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa32: senza che 33 45 elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere ; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare34 o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno35 , udire e veder molte

15 oltre... fervente: appassionato oltre misura. 16 e il quale... piegare: il mio amore non era piegato o controllato da nessun buon proponimento, da nessun consiglio, da nessun senso di vergogna. 17 per se medesimo... navigando: si affievolì col passare del tempo, così che mi è rimasta solo una specie di sensazione di piacere, come un marinaio che scampa a un mare tempestoso. 18 per che... rimaso: ora, superate le ansie, è rimasto un sentimento piacevole. 19 a’ quali... mie fatiche: i quali soffrivano vedendomi star male, per il bene che provavano per me. 20 E per ciò che: Poiché.

21 commendare: approvare. 22 ho meco stesso proposto: ho promesso a me stesso.

23 per me: per quanto mi riguarda. 24 fa luogo: bisogna (luogo), occorre. 25 alleggiamento prestare: offrire conforto. 26 apparisce: appare. 27 più vi fia caro avuto: sarà più gradito. 28 chi negherà… donare?: chi negherà che occorra dare questo aiuto, per quanto piccolo sia, molto più alle donne leggiadre che agli uomini? 29 le quali… provate: le quali (si riferisce alle fiamme amorose che le donne tendono per vergogna nascose “nascoste”) chi le ha provate sa per esperienza quanta maggior forza abbiano rispetto

alle fiamme amorose manifestate apertamente (palesi). 30 ristrette: limitate, costrette. 31 piccolo circuito: spazio angusto. 32 se per quegli… rimossa: se a causa di quelli (i pensieri non sempre allegri) sopravviene nella loro mente qualche tristezza provocata dal desiderio amoroso, necessariamente permane in esse con grande dolore (grave noia), se non è allontanata da altri ragionamenti. 33 senza che… a sostenere: senza contare che le donne sono molto meno forti degli uomini nel sopportare. 34 alleggiare: alleviare. 35 andare a torno: andare in giro.

Il Decameron 2 417


cose, uccellare36, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare37: de’ quali modi 50 ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso38 pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia39 minore. Adunque, acciò che in parte per me40 s’amendi41 il peccato42 della fortuna43, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara 55 fu di sostegno44, in soccorso e rifugio di quelle che amano45, per ciò che all’altre è assai l’ago e ’l fuso e l’arcolaio46, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in dieci giorni da una onesta brigata47 di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta48, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali 60 novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi49; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare50, in quanto potranno cognoscere, quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare51: le quali cose senza passamento di noia 65 non credo che possano intervenire52. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto il potere attendere a’ lor piaceri53.

Raffaello Sorbi, Decamerone, olio su tela, 1876 (collezione privata).

36 uccellare: andare a caccia di uccelli con reti o richiami. 37 giucare o mercatare: giocare o commerciare. 38 noioso: doloroso. 39 la noia: lo scontento, il disagio. 40 per me: attraverso me, grazie a me. 41 s’amendi: si compensi, si ponga rimedio. 42 il peccato: il torto. 43 della fortuna: che la sorte ha fatto alle donne. 44 dove… di sostegno: dove la natura umana si dimostra più fragile e debole

(cioè nelle dilicate donne) la sorte è più avara nell’elargire il suo sostegno. 45 di… amano: le donne che hanno «intelletto d’amore» secondo lo stilnovismo. 46 all’altre... arcolaio: le donne per le quali sono sufficienti i lavori domestici. 47 onesta brigata: gruppo di persone d’intelletto e ben educate. 48 fatta: appena terminata (marzo-luglio 1348). 49 casi… antichi: si racconteranno dolorose vicende amorose o altri eventi fortunati, avvenuti sia nei tempi moderni sia negli antichi.

418 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

50 parimente… pigliare: le donne potranno ricevere, dalle cose piacevoli che in queste novelle si raccontano, o un prezioso insegnamento o un diletto. 51 seguitare: perseguire. 52 le quali... intervenire: non credo che queste cose (ossia trarre prezioso insegnamento o diletto, vedi nota 50) possano accadere, senza che si superino anche le loro pene. 53 m’ha… piaceri: mi ha concesso di potermi dedicare ai loro intrattenimenti.


Analisi del testo La legittimazione di una letteratura che arrechi piacere Il Proemio del Decameron contiene alcune importanti affermazioni che riguardano la fondazione di una nuova tipologia letteraria, la ricerca di un nuovo genere di lettore e di una nuova destinazione dell’opera narrativa. In contrapposizione alla prevalente finalità didattica della letteratura medievale, Boccaccio rivendica la possibilità e la dignità letteraria di un’opera che mira a consolare dalle sofferenze (in particolare dalle sofferenze amorose che l’autore stesso ha ben conosciuto) e a produrre diletto. Il diletto d’altra parte non esclude l’utilità (secondo il principio della poetica oraziana del miscere utile dulci, dell’“unire l’utile al dilettevole”): ma di certo non si tratta più dell’utilità propria della letteratura didattica religiosa. L’utile consiglio che le donne potranno trarre dalla lettura del Decameron e che le porterà a «cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare», come scrive Boccaccio nell’ultima parte del Proemio, non riguarda la morale religiosa, ma i comportamenti mondani, una saggezza di vita che può persino essere in contrasto con l’etica cristiana in nome della libertà e della gioia di vivere.

Il significato della dedica alle donne Assai significativa è la dedica dell’opera alle donne, molto simile all’originale posizione che aveva assunto l’autore nel Prologo all’Elegia di Madonna Fiammetta, dove ci si poneva in un’ottica di consolazione e «compassione» verso gli «afflitti», coloro che sono deboli e sofferenti, appunto le donne. La motivazione di questo particolare interesse dell’autore al sesso femminile è di tipo sociologico: le donne sofferenti per amore, chiuse in casa, prive di passatempi e di un’attività economica, sono facile preda della malinconia e vanno quindi consolate e distratte. È sorprendentemente moderno il ritratto che Boccaccio fa della donna dei suoi tempi (ma forse non solo dei suoi tempi) preda di diversi pensieri, oscillante tra contraddittorie pulsioni (oggi diremmo condannata alla depressione e alla nevrosi dall’inattività e dalla chiusura sociale). Boccaccio rivolge dunque la sua opera alle donne che amano come antidoto alla tristezza e al male di vivere. Non è però solo questo che Boccaccio vuol dire: dietro la destinazione del Decameron alle donne, e in particolare alle donne innamorate, si profila anche il pubblico ideale immaginato dall’autore: un pubblico non ristretto agli intellettuali, ma capace di farsi coinvolgere nel piacevole intrattenimento delle novelle e privo di pregiudizi estetici, letterari e moralistici. In tal senso, si delinea una funzione del tutto nuova della letteratura, non indirizzata a valori pedagogici, educativi, didascalici, ma a un ruolo di intrattenimento, di evasione, di svago, e non per questo meno utile e fondamentale rispetto a una letteratura didattica, perché l’intento evasivo di Boccaccio produce l’effetto di consolare coloro che soffrono, di salvarli dalla condizione di patimento e dolore. Dunque, in questa prospettiva, il diletto della letteratura ha uno scopo altamente etico e morale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A chi è destinata l’opera di Boccaccio? 2. Quale funzione assegna Boccaccio al Decameron? ANALISI 3. Quali sono le caratteristiche che Boccaccio attribuisce alle donne?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Confronta questo proemio con il sonetto proemiale del Canzoniere petrarchesco: evidenzia le possibili analogie e le differenze riguardo all’esperienza dell’autore e al pubblico scelto.

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T4b Giovanni Boccaccio Introduzione alla quarta giornata: la naturalità dell’istinto amoroso e l’apologo delle papere Decameron, IV, Introduzione

T4c Giovanni Boccaccio La Conclusione: l’autodifesa dall’accusa di immoralità Decameron, Conclusione dell’autore T4d Giovanni Boccaccio Una novella sull’arte di raccontare: Madonna Oretta Decameron, VI, 1

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T5

La cornice In questo percorso vengono messi a confronto l’orrido cominciamento, ossia la descrizione della città di Firenze sconvolta dalla peste, dalla morte, dal venir meno dei vincoli di affetto, amicizia, parentela e l’immagine idillica del giardino, in cui regna la bellezza e l’armonia e che si contrappone in modo marcato allo spettacolo di dolore e degrado proprio dello spazio cittadino devastato dal morbo.

Giovanni Boccaccio

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Il divampare della peste in Firenze Decameron, I, Introduzione

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

Nella lunga Introduzione al Decameron, Boccaccio costruisce la cornice storica entro la quale iscrive il racconto delle cento novelle. La premessa è il dilagare, nella Firenze nel 1348, della peste, che provoca non solo il decesso di moltissime persone, ma anche la disgregazione dei rapporti sociali e la perdita di ogni freno morale. Proprio per fuggire alla pestilenza e al tragico spettacolo di morte, i dieci giovani, che saranno i narratori delle novelle del Decameron, abbandonano la città e si rifugiano in una villa di campagna.

Quantunque volte1, graziosissime donne, meco pensando2 riguardo quanto voi naturalmente tutte siete pietose3, tante conosco che la presente opera4 al vostro iudicio5 avrà grave e noioso principio6, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe 5 dannosa7, la quale essa porta nella fronte8. Ma non voglio per ciò che questo di più avanti leggere vi spaventi9, quasi10 sempre sospiri e tralle lagrime leggendo dobbiate trapassare11. Questo orrido cominciamento vi fia12 non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra e erta13, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto14, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e 10 dello smontare la gravezza15. E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente letizia sono terminate16. A questa brieve noia17 (dico brieve in quanto poche lettere sì contiene18) seguita prestamente la dolcezza e il piacere quale io v’ho davanti promesso e che forse non sarebbe da così fatto inizio, se non si dicesse, aspettato. E nel vero19, se io potuto avessi onestamente per 15 altra parte menarvi20 a quello che io desidero che per così aspro sentiero come fia questo21, io l’avrei volentier fatto22: ma ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che appresso sì leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion23 dimostrare, quasi da necessità constretto24 a scriverle mi conduco25. 1 2 3

Quantunque volte: Ogni volta che. meco pensando: riflettendo fra me e me. riguardo… pietose: su quanto voi siate per natura tutte disposte alla compassione. 4 la presente opera: quest’opera. 5 iudicio: parere, opinione, punto di vista. 6 grave… principio: sarà caratterizzata da un inizio drammatico e doloroso. 7 universalmente… dannosa: la quale (pestilenza) fu dannosa per tutti, sia per chi ne fece esperienza sia per chi in altro modo la conobbe (ne sentì parlare). 8 nella fronte: all’inizio. 9 spaventi: vi dissuada da continuare la lettura. 10 quasi: come se.

11 sospiri... trapassare: doveste trascorrere con la lettura momenti di pianto e di sospiri. 12 Questo... vi fia: questo inizio così drammatico sia per voi (prendetelo come). 13 non altramenti … erta: non troppo diversamente dal salire una montagna aspra e ripida. 14 presso… reposto: sopra la quale (montagna) sia posta una pianura amena e dilettevole. 15 il quale… gravezza: la quale (pianura) risulta tanto più piacevole quanto maggiore è stata la fatica del salire. 16 E sì... terminate: E allo stesso modo di come al momento culminante dell’allegria consegue un momento di dolore, anche le

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vicende tristi si concludono con un momento di gioia. 17 noia: dolore. 18 contiene: è raccontato. 19 E nel vero: E in verità. 20 se io... menarvi: se io avessi potuto accompagnarvi in modo opportuno. 21 a quello... questo: alla meta che io desidero, attraverso una strada diversa, piuttosto che attraverso un sentiero così aspro. 22 io... fatto: lo avrei fatto volentieri. 23 ramemorazion: ricordo, ricostruzione di un episodio. 24 quasi… constretto: mi vedo costretto necessariamente. 25 conduco: mi accingo.


Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto26, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali27, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata,28 quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo 25 private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi29, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella30 non valendo alcuno senno né umano provedimento31, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati32 e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte 30 e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare33. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella 35 anguinaia o sotto le ditella34 certe enfiature35, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari36 nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire37: e da questo appresso38 s’incominciò la qualità della 40 predetta infermità a permutare39 in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui40 grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù41 di medicina alcuna 45 pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse42 o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse43, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi 50 tutti infra ’l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente44, morivano. [...] Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e imaginazioni45 in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano46 assai crudele, ciò era di schifare47 e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così 20

26 già erano… milletrecentoquarantotto: già erano passati 1348 anni dalla salvifica incarnazione di Cristo. 27 la quale… i mortali: la quale, o per influssi degli astri (corpi superiori) o per il nostro malvagio operare, mandata tra gli uomini dalla giusta ira di Dio per correggerci. 28 alquanti anni… incominciata: essendo scoppiata parecchi anni prima nelle regioni dell’Asia. 29 senza… continuandosi: senza sosta diffondendosi da un luogo all’altro. 30 in quella: contro di essa. 31 non valendo… provedimento: non

avendo efficacia alcun razionale provvedimento. 32 per lo quale… ordinati: per il quale la città fu ripulita dalle molte immondizie da incaricati a questo compito. 33 cominciò… a dimostrare: cominciò a manifestare i suoi dolorosi effetti in modo straordinario. 34 anguinaia… ditella: inguine… ascelle. 35 enfiature: rigonfiamenti, bubboni. 36 i volgari: la gente del popolo. 37 venire: crescere. 38 da questo appresso: dopo questo primo sintomo. 39 permutare: trasformarsi.

40 a cui: a chi. 41 virtù: potere. 42 natura… nol patisse: la particolare natura della malattia non lo permettesse. 43 la ignoranza... non vi prendesse: l’ignoranza di quelli che curavano non conoscesse l’origine del male e di conseguenza non fosse in grado di indicare un rimedio adatto. 44 accidente: sintomo o complicazione. 45 imaginazioni: supposizioni errate. 46 quasi… tiravano: quasi tendevano a uno stesso fine. 47 schifare: evitare.

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faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. E erano alcuni, li quali avvisavano48 che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere49: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria50 fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi, alcuna novella51 sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano. Altri, in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando52 e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse53 e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere54, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere55. E ciò potevan far di leggiere56, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abandono57: di che58 le più delle case erano divenute comuni, e così l’usava lo straniere, pure che a esse s’avvenisse59, come l’avrebbe il propio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale60 sempre gl’infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda auttorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta61 tutta per li ministri e essecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famiglie rimasi stremi62, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d’adoperare63. [...] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse64 e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. La peste bubbonica in una miniatura dalla Bibbia di Toggenburg, 1411 ca. (Berlino, Kupferstichkabinett).

48 avvisavano: pensavano. 49 avesse molto… resistere: servisse molto a fronteggiare siffatto male.

50 lussuria: stravizio. 51 novella: notizia. 52 sollazzando: divertendosi. 53 il sodisfare… che si potesse: il soddisfare il desiderio di ogni cosa che si potesse.

54 a lor potere: secondo le loro possibilità.

55 solamente… in piacere: se solo sentivano che ivi c’erano cose che potessero loro piacere. 56 di leggiere: facilmente. 57 messe in abbandono: abbandonate. 58 di che: ragione per cui. 59 pure... s’avvenisse: solo che vi capitasse. 60 con tutto… bestiale: e nonostante

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questo bestiale comportamento (ossia gli stravizi). 61 dissoluta: dissolta. È un latinismo. 62 di famiglie rimasti stremi: rimasti privi di servitù, di domestici (famiglie). 63 era a ciascun … adoperare: a ognuno era lecito quanto gli piaceva fare. 64 schifasse: evitasse (anche più sotto schifavano).


Analisi del testo La descrizione della peste e la sua funzione Le tragiche pagine che aprono il Decameron (e che sono in forte contrasto con lo spirito che pervade il capolavoro di Boccaccio) potrebbero sembrare troppo dettagliate. In realtà esse costituiscono la necessaria ouverture dell’opera, ne fondano la necessità insieme etica ed estetica: infatti proprio dallo sfacelo e dal degrado morale che imperversano in Firenze scaturisce la decisione dei dieci giovani di lasciare la città (ma soprattutto il progetto stesso che ispira l’opera). Non a caso, quindi, lo scrittore insiste nella rappresentazione analitica dell’infuriare del contagio: esso non solo provoca una morte orribile, ma è responsabile del degrado della vita collettiva. Nella Firenze sconvolta dalla peste dominano la sregolatezza e l’irrazionalità, come nello scenario narrato da Manzoni nei Promessi sposi. Poiché si ignorano la causa della pestilenza e i possibili rimedi ad essa, si moltiplicano i medici improvvisati, si ipotizzano le più assurde soluzioni, si scelgono condotte contraddittorie: c’è chi pratica una vita di totale isolamento da ogni contatto e chi, invece, cerca la fuga dal contagio e dalla morte nei piaceri sfrenati. Ma quel che è peggio è che il morbo disgrega la rete dei rapporti sociali: il terrore crea la diffidenza non solo verso il prossimo o gli amici, ma persino verso i propri congiunti. In questa triste situazione – di cui Boccaccio fu testimone diretto – nasce il progetto del Decameron: un lavoro volto innanzitutto a ripristinare armonici rapporti fra simili (i giovani eletti della lieta brigata), e quindi consuetudini civili di vita, ispirate al culto della bellezza e della gioia di vivere in un contesto (la villa in campagna, il giardino) che l’autore presenta come alternativo all’orrore della vita in città sconvolta dal flagello del male.

L’inizio luttuoso: Decameron e Commedia Nel dare largo spazio, all’inizio dell’opera, alla luttuosa situazione creata dalla peste, può anche aver agito la suggestione della Commedia, che prende le mosse dal buio angoscioso della «selva oscura» e dall’orrore dell’Inferno. Come Dante asserisce nell’Epistola a Cangrande della Scala, il poema si può definire comedìa perché «all’inizio è paurosa e fetida [...] ma ha una fine buona, desiderabile e gradita...». Anche il Decameron si apre con una sorta di “inferno”, che qui coincide con lo sconvolgimento creato dal morbo: anche il Decameron, come la Commedia, sceglie di rappresentare, pur con ovvie differenze, la plurale realtà del mondo, adottando di conseguenza molteplici registri stilistico-linguistici (e non solo quello strettamente comico).

Una prosa “alta” L’Introduzione alla prima giornata offre un esempio eloquente di uno stile “alto”, già presente nel Proemio: è proprio questo tipo di prosa che farà scuola nel tempo e che diventerà modello per tanti scrittori. Dominano decisamente l’ipotassi, con periodi spesso molto ampi, e l’uso di costruzioni latineggianti (cioè con il posizionamento del verbo alla fine della frase).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il brano proposto in max 10 righe. ANALISI 2. Nel tentativo di scampare al morbo, le persone mettono in atto comportamenti irrazionali, seppur molto diversi gli uni dagli altri: descrivili. STILE 3. La prosa che Boccaccio usa per descrivere la peste è alta e sostenuta, e costituisce un esempio di stile “tragico”: quali aspetti ti sembra lo documentino sul piano della costruzione sintattica e delle scelte lessicali? Esemplifica con qualche citazione dal testo.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. Individua le due possibili cause a cui, all’inizio dell’Introduzione, Boccaccio attribuisce la genesi della pestilenza. Quindi in un intervento orale di max 5 minuti spiega le ragioni per cui la posizione dell’autore appare ancora riconducibile alla mentalità medievale.

online T5b Giovanni Boccaccio Il giardino del piacere Decameron, III giornata, Introduzione

online Sguardo sull'arte In polemica con la cultura della penitenza

Il Decameron 2 423


T6

La riscrittura ironizzante e parodica dei modelli Nelle novelle di seguito antologizzate vediamo come Boccaccio attui un divertito rovesciamento dei modelli letterari riconosciuti (vedasi il paragrafo La poetica del “gioco intellettuale” e la manipolazione ironica dei modelli, ➜ PAG. 413). L’autore, infatti, parodizza chiaramente la letteratura agiografica ed esemplare: la «santa morte» di Ciappelletto in seguito a una falsa confessione; il falso miracolo di Martellino; il sovvertimento della “morale della storia” per Nastagio, infine la parodia della predica di Frate Cipolla.

Giovanni Boccaccio

T6a

La confessione di ser Ciappelletto Decameron I, 1

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

La celebre novella che apre il Decameron presenta molti degli elementi tipici della narrativa di Boccaccio: il pragmatismo tipico della classe mercantile, la capacità di escogitare soluzioni “intelligenti” nelle situazioni più difficili, la spregiudicatezza, qualità impersonate al massimo grado dal protagonista, l’indimenticabile ser Ciappelletto, un cinico notaio e uomo d’affari, che, in punto di morte, si conquista la fama di sant’uomo grazie a una menzognera confessione.

SER CEPPARELLO CON UNA FALSA CONFESSIONE INGANNA UN SANTO FRATE E MUORSI1; E, ESSENDO STATO UN PESSIMO UOMO IN VITA, È MORTO REPUTATO PER SANTO E CHIAMATO SAN CIAPPELLETTO. Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l’uomo fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui, il quale di tutte fu facitore, le déa principio2. Per che, dovendo io al vostro novellare, sí come primo, dare cominciamento3, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra 5 speranza in Lui sì come in cosa impermutabile, si fermi, e sempre sia da noi il suo nome lodato. Manifesta cosa è4 che, sí come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, cosí in sé e fuor di sé esser piene di noia, d’angoscia e di fatica, e a infiniti pericoli sogiacere5; alle quali senza niuno fallo6 né potremmo noi, che viviamo mescolati in 10 esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci7, se spezial grazia di Dio forza ed avvedimento non ci prestasse. La quale a noi ed in noi non è da credere che per alcun nostro merito discenda, ma dalla sua propria benignitá mossa e da’ prieghi di coloro impetrata che, sí come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre furono

1 Ser Cepparello… muorsi: ser Cepparello (o Ciappelletto) fa una falsa confessione, inganna un frate in odore di santità e muore. Il protagonista è un personaggio realmente esistito: un Cepperello o Ciapperello Dietaiuti da Prato appare in alcuni documenti della fine del Duecento, dove lo si indica come ricevitore di decime e di taglie per conto di Filippo il Bello, re di Francia, e di Bonifacio VIII. Il suo libro dei conti, uno dei più antichi documenti in

lingua volgare, dà testimonianza dei suoi traffici proprio in Francia, con i “fratelli Franzesi” che nella storiografia fiorentina costituivano il prototipo del mercante disonesto. 2 Convenevole cosa è… principio: è opportuno, carissime donne, che tutto ciò che l’uomo fa abbia inizio dal mirabile e santo nome di Colui (Dio) che fu il creatore di tutte le cose. 3 Per che... cominciamento: a parlare è

424 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

Panfilo, a cui è affidata la narrazione della prima novella della prima giornata. 4 Manifesta cosa è: è chiaro che. 5 sì come… sogiacere: così come le cose soggette al tempo sono transitorie e destinate a perire, così in sé e fuori di sé sono piene di dolore, angoscia e fatica e sono esposte a infiniti pericoli. 6 senza niuno fallo: senza alcun dubbio. 7 durare né ripararci: resistere né evitarle.


in vita seguendo, ora con lui eterni son divenuti e beati8; alli quali noi medesimi, sí 15 come a procuratori informati per esperienza della nostra fragilitá, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo oportune gli porgiamo9. E ancor piú in Lui, verso noi di pietosa liberalitá pieno, discerniamo10, che, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo, avvien forse tal volta che, da oppinione11 ingannati, 20 tale dinanzi alla sua maestá facciamo procuratore che da quella con eterno essilio è iscacciato12: e nondimeno Esso, al quale niuna cosa è occulta, piú alla puritá del pregator riguardando che alla sua ignoranza o all’essilio del pregato13, cosí come se quegli fosse nel suo cospetto beato essaudisce coloro che ’l priegano. Il che manifestamente potrá apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, 25 dico, non il giudicio di Dio ma quel degli uomini seguitando14. Ragionasi15 adunque che essendo Musciatto Franzesi16 di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra17, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso18, sentendo egli li fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, 30 molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare19, pensò quegli commettere20 a più persone e a tutti trovò modo21: fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni22 uomini riottosi e di mala condizione e misleali23; e a lui non andava per la memoria24 chi tanto 35 malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza25 avere, che opporre alla loro malvagità si potesse. E sopra questa essaminazione pensando lungamente stato26, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato, il quale molto alla sua casa in Parigi si riparava27; il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo28, non sappiendo li franceschi che si volesse dir Cepparello, credendo che ‘cappello’, 40 cioè ‘ghirlanda’ secondo il lor volgare a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello ma Ciappelletto il chiamavano29: e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno. 8 da’ prieghi… e beati: e ottenuta grazie alle preghiere di coloro (i santi), che furono mortali come siamo noi e, avendo seguito la volontà di Dio (i suoi piaceri) mentre erano in vita, ora sono divenuti eterni e beati insieme a Lui. 9 alli quali… porgiamo: ai quali noi stessi, come a intermediari che conoscono per esperienza la nostra fragilità umana, forse timorosi di rivolgere direttamente le nostre preghiere a un giudice così alto (ossia a Dio), porgiamo tali preghiere sulle cose che noi riteniamo necessarie (ai santi). 10 discerniamo: scorgiamo. 11 oppinione: falsa idea. 12 tale… iscacciato: scegliamo come mediatore della Grazia qualcuno che in realtà è stato per sempre scacciato dal cospetto di Dio. 13 all’essilio del pregato: al fatto che la persona invocata sia stata cacciata da Dio. 14 non… seguitando: seguendo non il giudizio di Dio ma quello degli uomini. 15 Ragionasi: si racconta. 16 Musciatto Franzesi: Musciatto (da

“moscia”, forma francese di mosca) di Messer Guido Franzesi, soprannome per Giampaolo Guidi, arricchitosi in Francia come mercante e tesoriere di Filippo il Bello. Se ne trovano notizie nella Cronica dello storico fiorentino Dino Compagni e in altri documenti della fine del Duecento. 17 Carlo Senzaterra: Carlo di Valois, chiamato in Italia dal papa Bonifacio VIII. Con il pretesto di fare da paciere tra le fazioni, consegnerà Firenze alla parte dei Neri. 18 addomandato… promosso: chiamato e sollecitato a venire. 19 sentendo… stralciare: avvertendo (si rifà al valore etimologico del verbo latino sentio) che i suoi affari, come per lo più sono quelli dei mercanti, erano molto ingarbugliati in vari luoghi, e che non si potevano sbrogliare facilmente (di leggiere) né rapidamente (subitamente). 20 quegli commettere: di affidarli (quegli è complemento oggetto). 21 e a tutti trovò modo: e riuscì (a farlo) per tutti. 22 fuor solamente… li borgognoni: ri-

mase (fuor “fu”) solamente in dubbio su chi (cui) potesse lasciare in grado (sofficiente) di riscuotere dei crediti che aveva fatto ad alcuni abitanti della Borgogna (regione della Francia). 23 uomini riottosi… e misleali: uomini litigiosi, di indole malvagia e disonesti. 24 a lui non… memoria: non gli veniva in mente. 25 fidanza: fiducia. 26 sopra… stato: e dopo essere stato a lungo a riflettere su questa ricerca. 27 si riparava: era ospite, albergava. 28 molto assettatuzzo: elegante in maniera affettata. 29 non sappiendo… il chiamavano: non sapendo i francesi che cosa volesse dire Cepparello, credendo che nella loro lingua Cepparello significasse “cappello”, ossia “ghirlanda”, dato che, come abbiamo detto, era piccolo (in francese chapel aveva come diminutivo chapelet, termine che veniva appunto usato per indicare anche le ghirlande) non lo chiamavano Ciappello ma Ciappelletto.

Il Decameron 2 425


Era questo Ciappelletto di questa vita30: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che 45 falso trovato31; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richesto, e quegli più volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato32.Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti33 grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. 50 Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava34, in commettere35 tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava, e più volte a fedire36 e a uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmia55 tore di Dio e de’ Santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo. A chiesa non usava37 giammai, e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni38; del contrario più che alcuno altro tristo uomo 60 si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato39 con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe40. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giucatore e mettitore di malvagi dadi era solenne41. Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte 65 e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva iniuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato42. Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere esser tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, 70 gli disse così: «Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui: e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te43. E perciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte44 e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai 75 che convenevole sia».

30 Era… di questa vita: questo Ciappelletto seguiva questa condotta di vita. Segue il ritratto del protagonista. 31 quando uno… falso trovato: quando uno dei suoi atti notarili (strumenti), anche se (come che) ne faceva pochi, non fosse trovato falso. 32 salariato: compensato. Insomma, Ciappelletto preferiva redigere gratuitamente atti notarili disonesti, piuttosto che farne di onesti dietro alto compenso. 33 saramenti: giuramenti. 34 forte vi studiava: vi si impegnava con passione. 35 commettere: insinuare. 36 fedire: ferire.

37 non usava: non era solito andare. 38 Delle femine… bastoni: amava le donne come i cani amano i bastoni, ovvero le odiava: era dunque un omosessuale. Boccaccio usa un’espressione che può essere considerata proverbiale; formulazioni analoghe si trovano anche in Sacchetti e negli altri novellatori. 39 Imbolato… rubato: “imbolare” e “rubare” indicano due tipi di furti diversi: il primo significa sottrarre con l’astuzia, il secondo strappare via con la violenza. 40 che un santo uomo offerrebbe: con cui un santo avrebbe fatto un’elemosina. 41 mettitore… solenne: oltre che giocatore accanito, Ciappelletto era un grande baro; malvagi sta per “truccati”.

426 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

42 La cui… fu riguardato: la potenza e la condizione di prestigio di messer Musciatto per lungo tempo protesse la sua malvagità (la cui malizia è complemento oggetto), per cui molte volte fu protetto sia da privati, ai quali spesso aveva arrecato danni o fatto offese, sia dalla giustizia, a cui continuamente (tuttavia) ne faceva. 43 non so cui… convenevole di te: non so (nel senso di “non conosco”) a chi io mi possa affidare per riscuotere da loro il mio (che sia) più adatto di te. 44 perciò… corte: poiché al momento non stai facendo nulla, se sei disposto a occuparti di questo affare, io voglio farti avere l’autorizzazione della corte reale (cioè, a riscuotere le imposte per conto mio).


Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agiato delle cose del mondo45 e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato46, senza niuno indugio e quasi da necessità costretto si diliberò47, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme48, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favo80 revoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea49: e quivi fuori di sua natura50 benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo51. E così facendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi a usura 85 prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò. Al quale i due fratelli fecero prestamente venir medici e fanti52 che il servissero e ogni cosa oportuna alla sua santà53 racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che il buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio come colui che 90 aveva il male della morte54; di che li due fratelli si dolevan forte. E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimo cominciarono a ragionare. «Che farem noi» diceva l’uno all’altro «di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani55: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno ma95 nifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacer ci debbia, così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sì malvagio uomo, che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sagramento della Chiesa; e, morendo senza 100 confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane56. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili, che il simigliante n’averrà57, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere: per che, non assoluto58, anche sarà gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro59, il quale loro pare ini105 quissimo e tutto il giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò si leverà a romore60 e griderà: ‘Questi lombardi61 cani,’ li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si voglion più sostenere62’; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno ma forse ci torranno oltre a ciò le persone63: di che noi in ogni guisa stiam male64 se costui muore».

45 scioperato… mondo: senza occupazione e in cattive condizioni economiche. 46 lui ne… lungamente stato: vedeva andarsene colui che per lungo tempo era stato il suo appoggio e la sua protezione. 47 si diliberò: si decise. 48 convenutisi insieme: accordatisi. 49 dove quasi niuno il conoscea: dove quasi nessuno lo conosceva. La precisazione è fondamentale per il seguito della vicenda. 50 fuori di sua natura: contrariamente alla sua indole. 51 al da sezzo: per ultimo. Latinismo da setius, più tardi. 52 fanti: servitori.

53 santà: salute. 54 il male della morte: Ciappelletto ha una malattia mortale. 55 Noi abbiamo… alle mani: per colpa delle sue faccende, noi ci troviamo a pessimo partito. 56 sarà gittato… cane: sarà gettato in un fossato come un cane. Suicidi, scomunicati e anche usurai non potevano essere sepolti in terra consacrata ed erano gettati nei fossati che circondavano le mura delle città. 57 il simigliante n’averrà: ne conseguirà lo stesso risultato. 58 assoluto: assolto.

59 lo mestier nostro: i fratelli che ospitavano ser Ciappelletto erano appunto usurai. 60 si leverà a romore: sorgerà a protestare. 61 lombardi: così erano detti, in Francia e non solo, tutti coloro che provenivano dall’Italia del Nord; “lombardo” era poi divenuto sinonimo di prestatore a usura. 62 non ci si voglion più sostenere: non dobbiamo sopportarli più. È una costruzione impersonale. 63 le persone: la vita. Ossia: ci uccideranno. 64 di che noi in ogni guisa stiamo male: per cui noi in ogni caso ci troviamo a mal partito.

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110 Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragio-

navano, avendo l’udire sottile, sì come le più volte veggiamo aver gl’infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare e disse loro: «Io non voglio che voi d’alcuna cosa di me dubitiate65 né abbiate paura di ricevere per me66 alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così 115 n’averrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate67: ma ella andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà68; e per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più69 che aver potete, se alcun ce n’è; e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e’ miei in maniera che 120 starà bene e che dovrete esser contenti». I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo70, nondimeno se n’andarono a una religione71 di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura72 e molto vene125 rabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale divozione aveano, e lui menarono73. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: «Padre mio, la 130 mia usanza suole essere di confessarsi ogni settimana almeno una volta, senza che assai sono di quelle che io mi confesso più74; è il vero che poi che io infermai, che son passati da otto dì, io non mi confessai tanta è stata la noia75 che la infermità m’ha data». Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e così si vuol fare per innanzi76; e veggio che, poi77 sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o 135 di dimandare». Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate, non dite così: io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente78 di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì che io nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntualmente d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi; e 140 non mi riguardate79 perché io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro80, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue». Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente81: e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato82 questa sua usanza, 145 il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse83.

65 di me dubitiate: temiate per causa mia. 66 per me: a causa mia. 67 dove così… come avvisate: se la faccenda (la bisogna) andasse così come voi pensate. 68 né più né meno ne farà: non farà nessuna differenza. 69 il più: sottinteso, il più santo e valente. 70 come che… di questo: anche se non riponevano in questo molta speranza. 71 religione: convento. 72 un frate… in Iscrittura: un frate anziano (ma l’aggettivo antico implica un

senso di rispetto) dalla vita santa e buona e gran conoscitore delle Sacre Scritture. 73 lui menarono: lo condussero (da Ciappelletto). 74 senza che… più: senza contare le volte che sono frequenti le settimane in cui mi confesso più di una volta. 75 la noia: la sofferenza. 76 per innanzi: d’ora in poi. 77 poi: poiché. 78 confessare generalmente: è la cosiddetta “confessione generale”, cioè la confessione dei peccati dell’intera vita.

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79 non mi riguardate: non abbiate riguardo.

80 faccendo agio loro: assecondando i loro piaceri.

81 parvongli… mente: gli sembrarono indizio di una mente ben disposta.

82 commendato: lodato. 83 il cominciò… peccato avesse: iniziò a chiedergli se avesse mai commesso peccato di lussuria con qualche donna. Ciò che seguirà si ispira al modello della confessione, seguendo l’ordine tradizionale dei peccati più gravi. Il primo è la lussuria.


Al quale ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero temendo di non peccare84 in vanagloria». Al quale il santo frate disse: «Dì sicuramente85, ché il vero dicendo né in confessione né in altro atto si peccò giammai». 150 Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e86 io il vi dirò: io son così vergine come io usci’ dal corpo della mamma mia». «Oh, benedetto sie tu da Dio!» disse il frate «come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto, volendo, avevi più d’albitrio di fare il contrario che non abbiam noi87 e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola88 son constretti». 155 E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto. Al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose di sì e molte volte; per ciò che, con ciò fosse cosa che89 egli, oltre alli digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva, e spezial160 mente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che90 fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa, e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli91. 165 Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la coscienza tua che bisogni. A ogni uomo avviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare92 e dopo la fatica il bere». «Oh!» disse ser Ciappelletto «padre mio, non mi dite questo per confortarmi: ben 170 sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine93 d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca». Il frate contentissimo disse: «E94 io son contento che così ti cappia nell’animo95 e piacemi forte la tua pura e buona conscienza in ciò. Ma dimmi: in avarizia hai tu peccato disiderando più che il convenevole o tenendo quello che tu tener non dovesti?» 175 Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi guardasti96 perché io sia in casa di questi usurieri97: io non ci ho a far nulla, anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Idio non m’avesse così visitato98. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior 180 parte per Dio99; e poi, per sostentar la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie100 e in quelle ho disiderato di guadagnare. E sempre co’ poveri di Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per mezzo101, la mia metà 84 temendo di non peccare: i verbi che esprimono timore sono costruiti alla latina, e reggono quindi frasi negative. Il senso diventa “temendo di peccare”. 85 sicuramente: senza timore. 86 e: allora. 87 più d’albitrio… abbiam noi: avevi più libertà di fare il contrario (cioè di indulgere alla lussuria) di quella che abbiamo noi (frati). 88 alcuna regola: il frate si riferisce al voto di castità delle regole monastiche.

89 con ciò fosse cosa che: sebbene. 90 che: è correlato a «con quello diletto e con quello appetito».

91 alcuna volta… come digiunava egli: talvolta il cibo gli era parso migliore di quanto egli riteneva dovesse parere a chi digiuna per devozione, come era il suo caso. 92 manicare: mangiare. 93 ruggine: macchia. 94 E: enfatico, analogo all’etiam latino. 95 che… nell’animo: che tu la pensi così.

96 guardasti: guardiate con sospetto. 97 usurieri: francesismo per “usurai”. 98 se Idio… visitato: se Dio non m’avesse sottoposto a questa prova della malattia. Visitare è termine tipico del linguaggio devoto per indicare le tribolazioni venute dal cielo. 99 per Dio: ossia, in beneficenza ed elemosine. 100 mercatantie: affari. 101 ho partito per mezzo: ho diviso a metà.

Il Decameron 2 429


convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metà dando loro: e di ciò m’ha sì bene il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei». 185 «Bene hai fatto:» disse il frate «ma come ti se’ tu spesso adirato102?» «Oh!» disse ser Ciappelletto «cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto; e chi se ne potrebbe tenere103, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudicii? Egli104 sono state assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani 190 andar dietro alle vanità e udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio». Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenza imporre; ma per alcun caso avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcuna altra ingiuria?» 195 A cui ser Ciappelletto rispose: «Oimè, messere, o105 voi mi parete uomo di Dio: come dite voi coteste parole? o106 s’io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è l’una delle cose107 che voi dite, credete voi che io creda che Idio m’avesse108 tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani109 e i rei uomini, de’ quali qualunque ora110 io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: ‘Va, che Idio ti converta’». 200 Allora disse il frate: «Or mi dì, figliuol mio, che benedetto sie tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contra alcuno111 o detto male d’altrui o tolte dell’altrui cose senza piacere di colui di cui sono?» «Mai messer sì112,» rispose ser Ciappelletto «che io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro 205 che batter la moglie, sì che io dissi una volta male di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella113, la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica114». Disse allora il frate: «Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?» 210 «Gnaffé115,» disse ser Ciappelletto «messer sì, ma io non so chi egli si fu: se non che, uno avendomi recati denari che egli mi doveva dare di panno che io gli avea venduto e io messigli in una mia cassa senza annoverare116, ivi bene a un mese117 trovai ch’egli erano quatro piccioli118 più che esser non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele119, io gli diedi per 215 l’amor di Dio120». Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa, e facesti bene a farne quello che ne facesti». E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo; e volendo egli già procedere alla absoluzione, disse ser Ciappelletto: «Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto».

102 come… adirato: quante volte ti sei adirato. 103 tenere: astenere. 104 Egli: soggetto pleonastico, tipico dell’uso toscano. 105 o: eppure. 106 o: forma toscana per introdurre la proposizione dubitativa. 107 qualunque s’è l’una delle cose: una qualsiasi delle cose. 108 m’avesse: m’avrebbe. 109 scherani: delinquenti.

110 qualunque ora: ogni volta che. 111 hai tu… contra alcuno: hai tu pro-

117 ivi bene a un mese: dopo un mese

nunciato mai falsa testimonianza contro qualcuno? 112 Mai messer sì: senza dubbio, signore. 113 cattivella: poverina. 114 come Dio vel dica: come solo Dio potrebbe dirvi. 115 Gnaffé: in fede mia (interiezione tipica del parlato fiorentino). 116 senza annoverare: senza contarli.

118 piccioli: nel sistema monetario in

430 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

buono. vigore in Francia nel XIV secolo, il picciolo era l’unità di valore più bassa; dodici piccioli formavano un soldo, venti soldi una lira. 119 rendergliele: renderglieli; gliele è forma indeclinabile. 120 per l’amor di Dio: in elemosina.


Il frate il domandò quale; e egli disse: «Io mi ricordo che io feci al fante121 mio, un sabato dopo nona122, spazzare la casa e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea». «Oh!» disse il frate «figliuol mio, cotesta è leggier cosa». «Non123,» disse ser Ciappelletto «non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da 225 onorare, però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore». Disse allora il frate: «O, altro hai tu fatto?» «Messer sì,» rispose ser Ciappelletto «ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio». Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: 230 noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo». Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio». E in brieve de’ così fatti ne gli disse molti; e ultimamente cominciò a sospirare e appreso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea. 235 Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai tu?» Rispose ser Ciappelletto: «Oimè, messere, ché un peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta che io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi esser molto certo che Idio mai non avrà misericordia di me per questo peccato». 240 Allora il santo frate disse: «Va via124, figliuolo, che è ciò che tu di’? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che125 il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, e egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, sì è tanta la benignità e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli126, gliele perdonerebbe liberamente127: e per ciò dillo sicuramente». 245 Disse allora ser Ciappelletto sempre piagnendo forte: «Oimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato». A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Idio per te». Ser Ciappelletto pur piagnea128 e nol dicea, e il frate pure il confortava a dire; ma 250 poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, e egli gittò un gran sospiro e disse: «Padre mio, poscia che129 voi mi promettete di pregare Idio per me, e io il vi dirò: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai130 una volta la mamma mia». E così detto rincominciò a piagner forte. Disse il frate: «O figliuol mio, or parti questo così gran peccato? o gli uomini be255 stemmiano tutto il giorno Idio, e sì131 perdona Egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che Egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione che io ti veggio, sì ti perdonerebbe Egli». Disse allora ser Ciappelletto: «Oimè, padre mio, che dite voi? la mamma mia dolce, 260 che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Idio per me, egli non mi serà perdonato». 220

121 fante: domestico. 122 dopo nona: dopo le tre del pomeriggio; secondo il salterio, è l’ora che precede il vespro, dopo il quale si considera iniziato il riposo domenicale.

123 Non: no. Uso toscano. 124 Va via: suvvia, andiamo. 125 mentre che: finché. 126 confessandogli egli: se egli li confessasse.

127 liberamente: di buon grado. 128 pur piagnea: continuava a piangere. 129 poscia che: poiché. 130 bestemmiai: ingiuriai, maledissi. 131 e sì: eppure.

Il Decameron 2 431


Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’absoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per132 santissimo uomo, sì come colui 265 che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso133 di morte dir così? E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Idio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, piacevi egli134 che ’l vostro corpo sia seppellito al nostro luogo135?» 270 Al quale ser Ciappelletto rispose: «Messer sì, anzi non vorrei io esser altrove, poscia che voi m’avete promesso di pregare Idio per me: senza che136 io ho avuta sempre spezial divozione al vostro Ordine. E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo il quale voi la mattina sopra l’altare consecrate; per ciò che, come che137 io degno non ne sia, io 275 intendo con la vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione138, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano». Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli diceva bene, e farebbe che di presente139 gli sarebbe apportato; e così fu. Li due fratelli, li quali dubitavan forte non140 ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’erano 280 posti appresso a un tavolato141, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva dividea da un’altra, e ascoltando leggiermente142 udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano: e fra sé talora dicevano: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual 285 si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al guidicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far che egli così non voglia morire come egli è vivuto?» Ma pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso143 si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò: e peggiorando senza modo ebbe l’ul290 tima unzione e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo144 come egli fosse onorevolemente sepellito e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia145 secondo l’usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò oportuna dispuosero. 300 Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme146 col priore del luogo; e fatto sonare a capitolo147, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea148; e sperando per lui Domenedio dovere molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere. 305 Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s’acordarono: e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e solenne 132 avendolo per: ritenendolo, conside-

138 la santa e ultima unzione: l’estrema

randolo (latinismo). 133 in caso: in punto. 134 piacevi egli: vi farebbe piacere (egli è pleonastico). 135 luogo: convento. 136 senza che: oltre al fatto che. 137 come che: sebbene.

unzione impartita agli infermi. 139 di presente: subito. 140 dubitavan forte non: dubitavano fortemente che (costrutto latineggiante). 141 tavolato: pannello. 142 leggiermente: senza difficoltà. 143 del rimaso: del resto.

432 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

144 ordinato… medesimo: utilizzando i suoi stessi soldi. 145 vigilia: veglia funebre. 146 fu insieme: ebbe un colloquio. 147 a capitolo: per riunire il capitolo, ossia l’assemblea dei frati. 148 secondo… conceputo avea: sulla base di quanto aveva dedotto dalla sua confessione.


vigilia; e la mattina, tutti vestiti co’ camisci e co’ pieviali149, con li libri in mano e con le croci innanzi cantando andaron per questo corpo150 e con grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, 310 uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate, che confessato l’avea, salito in sul pergamo151 di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piangendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto metter nel capo che Idio 315 gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maladetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Idio e la Madre e tutta la corte di Paradiso». E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità: e in brieve con le sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il 320 mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano, che, poi che fornito152 fu l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato153 a basciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere154: e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto155, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in una arca di 325 marmo sepellito fu onorevolemente in una cappella: e a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti a andare e a accender lumi e a adorarlo, e per conseguente a botarsi156 e a appicarvi le immagini della cera157, secondo la promession fatta. E in tanto158 crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversità fosse, che a altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo 330 e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Idio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno159 a chi divotamente si raccomanda a lui. Così adunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli poté in su 335 lo stremo aver sì fatta contrizione, che per avventura Idio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n’è occulto160, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso. E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla purità della fé 340 riguardando, così faccendo noi nostro mezzano161 un suo nemico, amico credendolo, ci essaudisce, come se a uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversità162 e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, Lui in reverenza avendo, ne’ nostri bisogni gli ci 345 raccomanderemo sicurissimi d’essere uditi. – E qui si tacque. 149 pieviali: il pieviale (forma arcaica, oggi piviale) è un paramento sacro usato per cerimonie di particolare solennità. 150 andaron per questo corpo: si recarono a prendere questo corpo. 151 pergamo: piccolo pulpito a lato dell’altare maggiore. 152 fornito: terminato. 153 da tutti fu andato: tutti andarono.

154 tenendosi beato… avere: ritenendosi felice chi anche una piccola parte di quegli abiti potesse avere. 155 convenne… tenuto: si ritenne opportuno che rimanesse esposto così tutto il giorno. 156 botarsi: fare voti per ottenere delle grazie. 157 appicarvi… cera: attaccarvi immagini in cera, cioè degli ex-voto.

158 E in tanto: e tanto. 159 tutto giorno: in continuazione. 160 per ciò che questo n’è occulto: dato che ci rimane ignoto questo (ovvero un pentimento in extremis). 161 mezzano: intermediario. 162 nelle presenti avversità: cioè, durante la peste.

Il Decameron 2 433


Analisi del testo Sapienza di Dio e non-sapienza degli uomini: il preambolo e la conclusione La narrazione si presenta racchiusa tra due momenti meditativi (il preambolo e la conclusione del narratore), nei quali viene messa in luce la differenza tra il piano divino e quello umano: l’infinito discernimento di Dio è in grado di leggere la sincerità delle buone intenzioni, mentre l’uomo (persino l’esperto e sapiente confessore) rimane ingannato dalle apparenze e magari elegge a intermediario presso Dio una persona indegna, come ser Ciappelletto. Ma Dio, nella sua infinita bontà, esaudisce ugualmente quelli che lo pregano, anche attraverso chi santo non è. Le due parti commentative dovrebbero gettare, nelle intenzioni dell’autore, una luce diversa sul contenuto della novella, invitando il lettore a una valutazione non superficiale. Di fatto però la novella sta abbastanza “scomoda” tra i due momenti edificanti: la sua natura irriverente non risulta scalfita dalle riflessioni del narratore, che sembrano quasi volerne prudentemente attenuare la trasgressività, visto che proprio con essa si apre l’intera opera. Rimane comunque al lettore, per lo meno al lettore di oggi, l’impressione che il preambolo e la conclusione della novella siano una sorta di tributo doveroso all’etica religiosa e alla tradizione degli exempla. Nel caso della novella di Boccaccio però, la finalità morale dell’exemplum risulta quanto meno ambigua, così come del resto la posizione dell’autore nei confronti di quello che è il suo primo, indimenticabile, personaggio.

La struttura Lo sviluppo narrativo si articola in cinque momenti fondamentali: a. Presentazione degli antefatti: Musciatto Franzesi, dovendo abbandonare la Francia dove ha degli affari in sospeso, cerca qualcuno in grado di riscuotere i suoi crediti. Gli viene in mente ser Ciappelletto da Prato. L’apertura della novella apre uno squarcio sul mondo della mercatura: del mercante viene qui sottolineata l’avidità (Musciatto Franzesi che vuole a ogni costo riscuotere i propri crediti) e più avanti l’ipocrisia, nelle figure dei due usurai fiorentini, preoccupati solo di salvare le apparenze. b. Ritratto di ser Ciappelletto: è inusuale per Boccaccio soffermarsi così a lungo sulla descrizione di un singolo personaggio. Ma la malvagità innata di ser Ciappelletto non è un semplice elemento descrittivo, ma costituisce l’elemento fondante dell’intera novella. Solo conoscendola in dettaglio il lettore potrà capire appieno il significato del gesto che l’uomo sta per compiere. c. Infermità di ser Ciappelletto e preoccupazione dei due usurai che lo ospitano. d. La confessione: è il cuore dell’intera novella. e. Morte e santificazione di ser Ciappelletto: il finale vede il completo trionfo dell’inganno di ser Ciappelletto. Non solo è stato raggiunto l’obiettivo di farlo seppellire in chiesa con i dovuti riti e sacramenti, ma addirittura la sua confessione esemplare viene riportata dal frate come segno evidente di santità. Dopo di lui, anche la folla di fedeli cade nel tranello. Sul finale Boccaccio non manca di fare riferimento ai «molti miracoli» ottenuti per intercessione di «san Ciappelletto». È una critica implicita alla superstizione religiosa, anche se l’autore si premura di precisare che la misericordia e l’amore di Dio non badano alla pochezza dei santi, o presunti tali, che gli stolti uomini scelgono come intermediari.

Le forme della novella Il testo appare, quanto alle modalità narrative, molto articolato: è aperto e chiuso da due parti commentative; al preambolo segue un antefatto di carattere narrativo e quindi il vivace inserto descrittivo relativo alla figura di Ciappelletto. La narrazione riprende quindi fino a costruire le premesse della confessione. Quest’ultima occupa la parte principale del testo ed è fondata sul serrato dialogo tra Ciappelletto e il frate. Si tratta di una parte che presenta tratti di spiccata scenicità, che la avvicinano a un copione teatrale. Presupporrebbe la presenza di un pubblico, rappresentato qui dai due usurai: essi non vedono la magistrale recita di Ciappelletto, ma la ascoltano tutta e, degno pubblico del perfido notaio, si divertono alla sua performance.

Il rovesciamento della confessione-biografia di Ciappelletto La parte centrale della novella è occupata dalla confessione, assai dettagliata, resa da Ciappelletto al santo frate: in essa Boccaccio opera un vero e proprio rovesciamento di una forma codificata, ben nota al pubblico dell’epoca. Il rito penitenziale nella novella segue infatti il modello dei manuali di devozione: non solo è riprodotta la sequenza prevista dalla confessione

434 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


nelle puntuali domande del frate relative ai peccati (capitali e “secondari”), ma del rito penitenziale spesso è ripreso fedelmente anche il linguaggio: ad esempio, nell’espressione «visitato da Dio» per indicare la malattia, oppure nel sintagma «pura e buona conscienza», di origine paolina, come fa notare il critico e filologo Gianfranco Contini. Attraverso le scaltre risposte di Ciappelletto, Boccaccio rovescia, parodizzandolo, il modello della confessione e opera una inversione dei ruoli in gioco: il confessato, il peccatore, diventa gradualmente modello di virtù, mentre il confessore si mostra sempre più turbato dalle sue parole (che lo inducono a un’autocritica) e arriva a riconoscersi, insieme ai suoi confratelli, peccatore («noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo»), meritandosi il duro rimprovero del confessato. L’inversione dei ruoli è segnalata dal passaggio dal “tu”, con cui il frate si rivolge a lungo a Ciappelletto, al “voi”, dopo l’assoluzione («con l’aiuto di Dio voi sarete tosto sano»): Ciappelletto non è più un peccatore, ma un modello di moralità. Man mano che la confessione si svolge, si attua anche in parallelo il completo rovesciamento della biografia di Ciappelletto: Ciappelletto “smonta” il ritratto che di lui è stato dato in precedenza e lo ricompone invertendone i termini; se all’inizio è presentato come il peggiore degli uomini, la confessione trasforma, in modo iperbolico, i vizi di Ciappelletto in virtù. Solo i due usurai, nascosti dietro la porta – insieme al lettore, complice della beffa – possiedono le conoscenze indispensabili per accorgersi del castello di menzogne costruito dal moribondo e riescono a cogliere il carattere antifrastico delle sue affermazioni.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta sinteticamente la novella (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Quali sono i personaggi principali? Descrivili ognuno con “un’etichetta”. 3. Quali circostanze motivano la confessione di ser Ciappelletto? Il risultato che si ripropone di ottenere attraverso di essa riguarda lui stesso o altri? Quali effetti, certo inimmaginabili dal protagonista, produce la sua confessione dopo la sua morte? ANALISI 4. Individua il tema centrale della novella. 5. Boccaccio presenta il ritratto fisico e comportamentale di Ciappelletto in modo particolarmente analitico. Rintraccia nel testo i termini e le espressioni che descrivono il protagonista e spiega per quale ragione lo scrittore insiste su questi particolari. LESSICO 6. Individua nel testo esempi del lessico religioso.

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 7. Ser Ciappelletto presenta una profonda ambiguità: da un lato è innegabilmente un uomo malvagio e corrotto, dall’altro la sua abilità nell’imbrogliare il frate non può non suscitare ammirazione. Un’ambiguità che forse caratterizza anche il rapporto tra l’autore e questo personaggio, e che ha dato vita a interpretazioni discordanti sulle finalità stesse che Boccaccio si proponeva: in particolare Vittore Branca, all’interno della sua interpretazione “ascensionale” dell’opera (da un inizio negativo fino all’esempio virtuoso dell’ultima novella), propende per leggere la prima come un exemplum di irreligiosità e perversione che l’uomo deve fuggire. Al contrario, Carlo Muscetta sottolinea il carattere comico di questa novella, concepita per far divertire il lettore e la ritiene una sorta di «exemplum alla rovescia». Rileggi quanto asserito nel profilo a proposito dei procedimenti di ironizzazione e riscrittura parodica in primo piano nel “gioco intellettuale” del Decameron e argomenta con un breve testo a favore di una delle due posizioni critiche.

online T6b Giovanni Boccaccio

La “miracolosa” guarigione di Martellino Decameron II, 1

Il Decameron 2 435


Giovanni Boccaccio

T6c

La strana storia di Nastagio degli Onesti Decameron V, 8

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

AUDIOLETTURA

Nella celebre novella di Nastagio degli Onesti Boccaccio mostra di conoscere molto bene la letteratura esemplare di carattere penitenziale e ascetico e alcuni motivi topici di essa, come quello della “caccia infernale”. In particolare la novella boccacciana mostra un’evidente parentela con il racconto esemplare di Jacopo Passavanti, anche se quest’ultimo non costituì la fonte diretta del racconto di Boccaccio, essendo lo Specchio di vera penitenza del Passavanti posteriore al Decameron. La fonte di Boccaccio per la “caccia infernale” fu probabilmente lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais (XII-XIII sec.). Il confronto tra i due testi, proprio per l’analogia di alcune situazioni, si mostra particolarmente utile per evidenziare le novità della narrativa di Boccaccio rispetto agli exempla medievali: in particolare la rinuncia al fine edificante e addirittura l’ironico sovvertimento della “morale della storia”.

NASTAGIO DEGLI ONESTI, AMANDO UNA DE’ TRAVERSARI1, SPENDE LE SUE RICCHEZZE SENZA ESSERE AMATO; VASSENE PREGATO DA’ SUOI A CHIASSI2; QUIVI VEDE CACCIARE A UN CAVALIERE UNA GIOVANE E UCCIDERLA E DIVORARLA DA DUE CANI; INVITA I PARENTI SUOI E QUELLA DONNA AMATA DA LUI A UN DESINARE, LA QUALE3 VEDE QUESTA MEDESIMA GIOVANE SBRANARE E TEMENDO DI SIMILE AVVENIMENTO4 PRENDE PER MARITO NASTAGIO. […] In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già5 assai nobili e gentili uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti6, per la morte del padre di lui e d’un suo zio, senza stima rimase ricchissimo7. Il quale, sí come de’ giovani avviene, essendo senza moglie s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo 5 Traversaro8, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre a amar lui. Le quali9, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica10 gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sí altiera e disdegnosa divenuta, che né 10 egli né cosa che gli piacesse le piaceva. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare11, che per dolore più volte dopo essersi doluto gli venne in disidero d’uccidersi; poi, pur tenendosene12, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o se potesse d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, 15 tanto più multiplicasse il suo amore.

1 Onesti…Traversari: famiglie aristocratiche di Ravenna. 2 Chiassi: Classe, località a sud di Ravenna, dove si trovava la pineta. 3 la quale: Bianca Traversari, la donna amata da Nastagio. 4 temendo…avvenimento: temendo che accada anche a lei la stessa cosa. 5 furon già: vissero un tempo.

6 Nastagio degli Onesti: la famiglia degli Onesti esistette davvero e fu nobile e ricca come il Boccaccio ci dice. 7 senza stima rimase ricchissimo: restò incredibilmente ricco. 8 Paolo Traversaro: della famiglia dei Traversaro Dante ricorda il padre di Paolo, Pietro (Pg XIV, 98), come esempio di virtù cortesi, in un canto in cui esprime

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accorata nostalgia dei valori antichi ormai estinti nella gretta e corrotta società del suo tempo. 9 Le quali: si riferisce a opere. 10 salvatica: scontrosa, scostante. 11 gravosa a comportare: pesante da sopportare. 12 pur tenendosene: pur astenendosi (da un gesto estremo come il suicidio).


Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ’l suo avere parimente fosse per consumare13; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse 20 di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare, per ciò che, cosí faccendo, scemerebbe l’amore e le spese14. Di questo consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollecitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo15; e fatto fare un grande apparecchiamento16, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo 25 e da’ suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscí e andossen a un luogo fuor di Ravenna forse tre miglia, che si chiama Chiassi; e quivi fatti venir padiglioni e trabacche17, disse a color che accompagnato l’aveano che starsi18 volea e che essi a Ravenna se ne tornassono. Attendatosi adunque quivi Nastagio cominciò a fare la più bella vita e la piú magnifica che mai si facesse, or questi e or quegli altri 30 invitando a cena e a desinare, come usato s’era. Ora avvenne che, venendo quasi all’entrata di maggio, essendo un bellissimo tempo e egli entrato in pensiero della sua crudel donna, comandato a tutta la sua famiglia che solo il lasciassero per più poter pensare a suo piacere, piede innanzi piè se medesimo trasportò pensando infino nella pigneta19. E essendo già passata 35 presso che la quinta ora del giorno20 e esso bene un mezzo miglio per la pigneta entrato, non ricordandosi di mangiare né d’altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi21 da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per veder che fosse e maravigliossi nella pigneta veggendosi. E oltre a ciò, davanti guardandosi, vide venire per un boschetto assai folto 40 d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da’ pruni, piagnendo e gridando forte mercé22; e oltre a questo le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole spesse volte crudelmente dove la giugnevano23 la mordevano; e dietro a lei vide venire sopra un corsier nero un cavalier bruno, forte 45 nel viso crucciato, con uno stocco24 in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando. Questa cosa a un’ora25 maraviglia e spavento gli mise nell’animo e ultimamente compassione della sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sí fatta angoscia e morte, se el potesse. Ma senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo d’albero in luogo di bastone26 e cominciò a farsi incontro 50 a’ cani e contro al cavaliere. Ma il cavaliere che questo vide gli gridò di lontano: «Nastagio, non t’impacciare, lascia fare a’ cani e a me quello che questa malvagia femina ha meritato». E cosí dicendo, i cani, presa forte la giovane ne’ fianchi, la fermarono, e il cavaliere sopragiunto smontò da cavallo; al quale Nastagio avvicinatosi disse: «Io non so chi

13 parve… consumare: sembrò a certi amici e parenti che stesse per consumare sé stesso e al contempo il suo patrimonio. 14 per ciò… spese: poiché, facendo in questo modo, sarebbero calati l’amore e anche le spese. 15 disse di farlo: disse che lo avrebbe fatto. 16 apparecchiamento: preparativi. 17 padiglioni e trabacche: tipi di tende, le

prime più ampie e le seconde più piccole. 18 starsi: fermarsi. 19 piede innanzi… pigneta: preso nelle sue malinconie d’amore, Nastagio giunge senza accorgersene alla pineta. 20 la quinta ora del giorno: le undici di mattina. 21 guai altissimi messi: lamenti altissimi emessi.

22 gridando forte mercé: invocando pietà a voce alta.

23 dove la giugnevano: nel punto del corpo che raggiungevano.

24 stocco: spada. 25 a un’ora: al contempo. 26 in luogo di bastone: per servirsene come di un bastone.

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tu ti se’ che me cosí cognosci, ma tanto27 ti dico che gran viltà è d’un cavaliere armato volere uccidere una femina ignuda e averle i cani alle coste messi come se ella fosse una fiera salvatica: io per certo la difenderò quant’io potrò». Il cavaliere allora disse: «Nastagio, io fui d’una medesima terra teco, e eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi28, era 60 troppo più innamorato di costei che tu ora non se’ di quella de’ Traversari; e per la sua fierezza e crudeltà andò sí la mia sciagura, che io un dí con questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m’uccisi, e sono alle pene eternali dannato. Né stette poi guari tempo29 che costei, la qual della mia morte fu lieta oltre misura, morí, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta de’ miei 65 tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato ma meritato, similmente fu e è dannata alle pene del Ninferno30. Nel quale come ella discese, cosí ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi davanti e a me, che già cotanto l’amai, di seguitarla come mortal nemica, non come amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco, col quale io uccisi me, uccido 70 lei e aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo, nel qual mai né amor né pietà poterono entrare, con l’altre interiora insieme, sí come tu vedrai incontanente, le caccio di corpo e dolle31 mangiare a questi cani. Né sta poi grande spazio32 che ella, sí come la giustizia e la potenzia di Dio vuole, come se morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga, e i cani e io a seguitarla. E avviene 75 che ogni venerdí in su questa ora io la giungo qui e qui ne fo lo strazio che vederai; e gli altri dí non credere che noi riposiamo, ma giungola33 in altri luoghi ne’ quali ella crudelmente contro a me pensò e operò; e essendole d’amante divenuto nemico, come tu vedi, me la conviene in questa guisa tanti anni seguitar quanti mesi ella fu contro a me crudele. Adunque lasciami la divina giustizia mandare a essecuzione34, 80 né ti volere opporre a quello a che tu non potresti contrastare». 55

[Dopo aver visto l’orrida scena, Nastagio rimane a lungo pensieroso, ma poi riflette sull’utilità che potrebbe derivargli da questo spettacolo ultraterreno che, come gli ha detto il cavaliere, si ripete ogni venerdì. Decide di invitare per un pranzo all’aperto, proprio nel punto dove si è verificata l’apparizione, la famiglia dei Traversari e i loro parenti e amici. Il pranzo sta per terminare quando…] Essendo adunque già venuta l’ultima vivanda, e35 il romor disperato della cacciata giovane da tutti fu cominciato a udire. Di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che ciò fosse e niuno sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando che ciò potesse essere, videro la dolente giovane e ’l cavaliere e’ cani; né guari stette 85 che essi tutti furon quivi tra loro. Il romore fu fatto grande e a’ cani e al cavaliere36, e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi; ma il cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece indietro tirare ma tutti gli spaventò

27 tanto: soltanto. 28 Guido degli Anastagi: anche la famiglia degli Anastagi è ricordata nel passo dantesco del Purgatorio sopra citato (nota 8). 29 Né stette poi guari tempo: e non passò molto tempo.

30 Ninferno: inferno. 31 dolle: le do. 32 Né sta poi grande spazio: e non passa poi molto tempo. 33 giungola: la raggiungo.

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34 Adunque… essecuzione: dunque lasciami eseguire la volontà divina. 35 e: ecco che. 36 Il romore… al cavaliere: dai presenti si levano grida rivolte ai cani e al cavaliere.


e riempié di maraviglia; e faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v’aveva (ché ve ne aveva assai che parenti erano state e della dolente giovane e del 90 cavaliere e che si ricordavano dell’amore e della morte di lui) tutte cosí miseramente piagnevano come se a se medesime quello avesser veduto fare. La qual cosa al suo termine fornita37, e andata via la donna e ’l cavaliere, mise costoro che ciò veduto aveano in molti e varii ragionamenti. Ma tra gli altri che più di spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa distintamente veduta 95 avea e udita e conosciuto che a sé più che a altra persona che vi fosse queste cose toccavano38, ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggire dinanzi da lui adirato e avere i mastini a’ fianchi. E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide, il quale quella medesima sera prestato le fu, che ella, avendo 100 l’odio in amor tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacere, d’andare a lei, per ciò che ella era presta39 di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a grado molto, ma che, dove le piacesse, con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie. La giovane, la qual sapeva che da altrui 105 che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse40, gli fece risponder che le piacea41. Per che42, essendo ella medesima la messaggera, al padre e alla madre disse che era contenta d’essere sposa di Nastagio, di che essi furon contenti molto. E la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze, con lei più tempo lietamente visse. E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sí 110 tutte le ravignane44 donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano. 37 al suo termine fornita: giunta al termine. 38 toccavano: si rivolgevano, si riferivano. La giovane ha colto la lezione personale che la terribile scena le indirizzava.

39 presta: pronta, disposta. 40 la qual… non fosse: la quale sapeva che non era dipeso da altri che da lei il non sposare Nastagio.

41 le piacea: acconsentiva. 42 Per che: per cui. 43 ravignane: ravennati.

Analisi del testo Nastagio come prototipo della nobiltà “cortese” La figura del protagonista della vicenda, Nastagio degli Onesti, non è certo lasciata indefinita e generica: come sempre, Boccaccio connota il personaggio attraverso precisi dettagli e un’accurata caratterizzazione anche sociale. Nastagio è il rappresentante (non troppo diverso da un altro celebre personaggio, ovvero Federigo degli Alberighi ➜ T9c ) di una nobiltà pericolosamente incline a consumare i propri beni in nome degli ideali cortesi della liberalità e della raffinatezza di vita. Proprio come Federigo, anche Nastagio spende smisuratamente per conquistare l’amore di una donna. Una volta convinto a lasciare Ravenna, si trasferisce a Classe con lo sfarzo di un sovrano accompagnato dalla sua corte («fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da’ suoi molti amici accompagnato, di Ravenna uscì») e conduce, una volta alloggiato nella località scelta, una vita splendida e signorile.

Il mito cortese dell’amore-malattia… Nastagio è esponente oltremodo rappresentativo di una civiltà, quella cortese, che ha fatto dell’amore assoluto il proprio centro ideale e il cardine dei modelli di comportamento. Il giovane ama di un amore senza speranza una donna dura e inaccessibile: nella situazione che mette in moto la macchina narrativa è facile riconoscere il mito cortese dell’amore infelice, non corrisposto e inappagato, per una figura femminile superiore e irraggiungibile.

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Nastagio è preda di un distruttivo incantesimo, è evidente vittima della “malattia d’amore” (➜C4, PER APPROFONDIRE La malattia d’amore come topos letterario, PAG. 186): immerso nella sua fantasticheria amorosa, perde persino la cognizione del tempo e dello spazio e si ritrova nel cuore della pineta, dove avverrà la scena della “caccia infernale”. Di fronte a essa, Nastagio si comporta da perfetto emblema del cavaliere cortese: il codice cavalleresco lo obbliga ad accorrere prontamente in aiuto dei deboli e delle donne indifese e lo induce ad apostrofare il persecutore della donna accusandolo di viltà.

… e il suo rovesciamento pragmatico Nella seconda parte della novella l’astrattezza del codice amoroso cortese è rovesciata in nome di una visione prettamente pragmatica e addirittura utilitaristica: messe da parte le esibizioni di liberalità e grandezza, dimostratesi inutili, Nastagio comprende l’utilità che la terribile scena può avere per lui quando si ripresenterà e decide, con una punta di cinismo calcolatore, di sfruttare la situazione per il suo personale vantaggio, ovvero la conquista della donna disperatamente amata.

La rilettura ironica dell’exemplum La vicenda rappresentata nella novella costituisce una lettura critica del mito dell’amore cortese, ma il vero obiettivo del racconto è il rovesciamento, se non addirittura la parodizzazione, degli exempla medievali e più in generale della narrativa finalizzata all’edificazione dei lettori. Spesso tale forma narrativa, frequentemente utilizzata dai predicatori durante le omelie ai fedeli, utilizzava l’ingrediente della paura, con lo scopo dichiarato di spaventare i fedeli, inducendoli così a rispettare le leggi di Dio e a condurre una vita ispirata ai valori cristiani. Di una vera e propria “pedagogia del terrore” si può parlare in particolare a proposito di Jacopo Passavanti a cui si deve l’exemplum del conte di Niversa che abbiamo riportato per l’evidente analogia (ma anche le significative differenze) con la novella boccacciana. Boccaccio assume consapevolmente un materiale quasi topico e riconoscibilissimo dai lettori del tempo, ovvero il tema della “caccia infernale” e lo schema della visione soprannaturale per rovesciare il significato esemplare di essi in nome di una morale aperta e spregiudicata, propria dell’autore e fatta propria anche da Nastagio, una volta che la visione gli ha “aperto gli occhi”.

Un contro-exemplum Della scena soprannaturale Nastagio coglie, come già si è detto, la possibile strumentalizzazione per i suoi fini (terrorizzare la donna amata e renderla più arrendevole). Effettivamente Nastagio non sbaglia: vedendo la scena, la superba fanciulla si immedesima a tal punto nella situazione che viene a più miti consigli, immaginando di fare la stessa fine della donna straziata dal cavaliere e dai cani. Addirittura il contro-exemplum estende la sua valenza dimostrativa alle altre donne ravennati: tutte quante da quel momento, grazie alla paura (non a caso citata da Boccaccio alla fine della novella) diventano più compiacenti verso i desideri maschili. La morale della storia ribalta maliziosamente l’invito alla purezza rivolto dal pulpito e dalle pagine dai predicatori.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Dividi la novella in sequenze dando a ognuna di esse un titolo. SINTESI 2. Riassumi la vicenda narrata (max 10 righe). COMPRENSIONE 3. Quali tratti in comune hanno Nastagio e il cavaliere condannato? ANALISI 4. In quali punti del testo compare la figura della donna amata da Nastagio? 5. Il personaggio di Nastagio ti sembra statico o dinamico? Motiva la tua risposta.

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Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Dopo aver letto il testo completa la tabella confrontando la novella di Boccaccio con l’exemplum di Passavanti, tratto da Lo specchio di vera penitenza: qui il narratore-predicatore si propone, attraverso il racconto esemplare del conte di Niversa, un preciso obiettivo: invitare i fedeli, attraverso una storia terrificante, a cercare di evitare con la buona condotta in vita le terribili pene che l’espiazione dei peccati prevede nel purgatorio. Lo leggiamo in una versione in italiano corrente. Infine evidenzia analogie e differenze in un breve testo (max 20 righe) che sviluppi i dati raccolti.

Si legge in Elinando1, che nel contado di Niversa c’era un pover’uomo, buono e timorato di Dio, che faceva il mestiere di carbonaio, e di quello viveva. Una volta, avendo accesa la fossa nella quale si arde la legna per produrre il carbone, e passando la notte in una capanna a guardia della fossa, verso mezzanotte sentì grandi strida. Uscì fuori per vedere che cosa fosse, e vide venire di corsa verso la fossa, gridando, una donna nuda e scapigliata, inseguita da un cavaliere su un cavallo nero al galoppo, con uno coltello sguainato in mano; dalla bocca, dagli occhi, dal naso del cavaliere e del cavallo uscivano fiamme di fuoco. Giunta alla fossa, la donna non proseguì oltre, e senza osare gettarsi dentro, prese a correre intorno alla fossa, finché fu raggiunta dal cavaliere, che la prese per i capelli svolazzanti e crudelmente la ferì in mezzo al petto con il coltello che brandiva. La donna cadde a terra, in un lago di sangue, il cavaliere la riacciuffò per i capelli insanguinati, e la gettò nella fossa de’ carboni ardenti; dopo averla lasciata per un po’ di tempo, la riprese tutta bruciacchiata, se la caricò davanti, sul collo del cavallo, e di corsa se ne andò per dove era venuto. La seconda e la terza notte il carbonaio ebbe la stessa visione. Allora, avendo familiarità con il conte di Niversa sia per il mestiere che faceva sia per il suo buon carattere che il nobile, uomo sensibile, apprezzava; andò dal conte e gli riferì la visione che aveva avuto per tre notti. Il conte si recò col carbonaio sul luogo della fossa e vegliando insieme nella capanna, nell’ora consueta arrivò la donna urlando, e il cavaliere dietro, e fecero tutto ciò che il carbonaio aveva visto. Sebbene fosse molto spaventato per l’orribile fatto a cui aveva assistito, il conte si fece coraggio. E al cavaliere spietato che si stava allontanando con la donna arsa sul cavallo nero, gridò scongiurandolo, che si fermasse e desse una spiegazione. Voltato il cavallo, il cavaliere in lagrime, gli disse: “Poiché, conte, tu vuoi sapere della mia sciagura, che Dio t’ha voluto mostrare, sappi ch’io fui Giuffredi, un tuo cavaliere, nutrito alla tua corte. Questa donna, verso cui sono tanto crudele e feroce, è dama Beatrice, moglie del tuo caro cavaliere Berlinghieri. Presi dal piacere della nostra illecita passione, noi cedemmo a tal punto al peccato, che per poter più liberamente peccare lei uccise suo marito. Perseverammo nel peccato fin quasi a morirne, ma prima lei, poi io riuscimmo a pentirci; e confessando la nostra colpa, ricevemmo misericordia da Dio, il quale mutò la pena eterna in una pena temporanea in purgatorio. Onde sappi che noi non siamo dannati, ma ci comportiamo come hai veduto per scontare in tal modo la nostra pena purgatoriale, e quando sarà avranno fine i nostri tormenti”. 1 Elinando: erudito francese (XII-XIII secolo), autore di opere morali e religiose, e di una cronaca universale (di cui ci restano solo gli ultimi libri).

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Allora il conte gli chiese di spiegare più specificamente le loro pene; al che rispose fra lagrime e sospiri: “Poiché per amor mio questa donna uccise suo marito, le è stata data questa pena: ogni notte, secondo quanto ha stabilito la giustizia divina, patisce dalle mie mani lo strazio della morte con il coltello. E dato che ella provò nei miei confronti un ardente amore ispirato dal desiderio carnale, ogni notte, dalle mie mani è gettata ad ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come un tempo ci siamo guardati con concupiscenza per darci piacere reciproco, così ora ci guardiamo con odio e ci perseguitiamo con grande sdegno. E come l’uno accese nell’altro un amore disonesto, così l’uno dà all’altro un crudele tormento; e ogni pena che io infliggo a lei, anch’io la sopporto, perché il coltello con cui la ferisco è tutto un fuoco, che non si spegne mai; e gettandola nel fuoco, e di lì traendola e trasportandola, ardo tutto anch’io. Il cavallo è un demonio, al quale siamo affidati, che ci tormenta. E molte altre ancora sono le nostre pene. Pregate Iddio per noi: fate le elemosine e fate celebrare le messe, perché si alleggeriscano i nostri martiri”. E questo detto, sparì veloce come un fulmine. Non ci dispiaccia dunque, miei dilettissimi2, soffrire in vita per poter scampare dalle orribili pene e dai dolorosi tormenti dell’altra vita, a cui, volenti o nolenti, dobbiamo pur andare. 2

Non ci… dilettissimi: il Passavanti riprende il discorso rivolto al suo pubblico. J. Passavanti, in Scrittori di religione del Trecento, a cura di G. De Luca, Ricciardi, Milano-Napoli 1954

Nastagio degli Onesti chi assiste alla visione

i protagonisti della scena soprannaturale

la posizione ideologica dell’autore

motivo della pena

la finalità della narrazione

la tipologia dei lettori

descrizione dell’ambiente e dei personaggi

descrizione dei particolari della “visione infernale”

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Il carbonaio di Niversa


Sguardo sull’arte La novella di Nastagio degli Onesti illustrata da Sandro Botticelli Nel 1483 il pittore Sandro Botticelli decide di illustrare la novella di Boccaccio con quattro opere. Il lavoro gli fu commissionato da Lorenzo il Magnifico in occasione di un matrimonio come dono di nozze. Nel primo pannello qui riprodotto si raffigura Nastagio mentre entra nella pineta e vede la donna rincorsa dai mastini del cavaliere Anche la

scena del terzo episodio qui riprodotta è ambientata nella pineta in cui Nastagio ha organizzato un banchetto per mostrare ai convenuti la punizione ciclica delle due anime. In questi dipinti riusciamo a vedere i tratti peculiari della pittura di Botticelli: il minuzioso realismo descrittivo e la vivacità narrativa. Le figure presentano colori brillanti e nitidi.

Sandro Botticelli, Nastagio degli Onesti, primo e terzo episodio, 1483 (Madrid, Museo del Prado).

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Giovanni Boccaccio

T6d

La predica magistrale di frate Cipolla Decameron VI, 10

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

La novella, narrata da Dioneo, è l’ultima della sesta giornata, dedicata a chi riesce a cavarsi d’impaccio con la prontezza della parola. È quanto fa frate Cipolla, uno dei personaggi più noti del Decameron: con la sua predica farsesca riesce a superare un’imbarazzante situazione e ad abbindolare una folla di ingenui contadini. Ambientata in un piccolo borgo toscano, la novella mette in scena uno dei momenti tipici della dimensione religiosa medievale: la predica ai fedeli, strumento principale di orientamento dei comportamenti soprattutto delle masse illetterate e, insieme, di aggregazione sociale. In questa novella assistiamo alla parodizzazione del genere testuale della predica che Boccaccio si diverte a realizzare.

FRATE CIPOLLA PROMETTE A CERTI CONTADINI DI MOSTRAR LORO LA PENNA DELL’AGNOLO1 GABRIELLO; IN LUOGO DELLA QUALE TROVANDO CARBONI, QUEGLI DICE ESSER DI QUEGLI CHE ARROSTIRONO SAN LORENZO. […] Certaldo2, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Valdelsa posto nel nostro contado3, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura4 vi trovava, usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi5 un de’ frati 5 di santo Antonio6, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che7 quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana. Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante8 del mondo: e oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, 10 non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano9: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benvogliente10. Il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto tra l’altre v’andò una volta; e una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine11 delle ville da torno12 15 venuti alla messa nella calonica13, quando tempo gli parve, fattosi innanzi disse: «Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno a’ poveri

1 2

agnolo: angelo. Certaldo: il paese d’origine di Boccaccio, tra Firenze e Siena. 3 un castel… contado: un borgo in Val d’Elsa (provincia di Siena), nel nostro territorio. 4 buona pastura: letteralmente “buona erba da pascolo”. La metafora allude alle laute offerte dei certaldesi. 5 ricoglier… dagli sciocchi: raccogliere l’elemosina fatta dagli sciocchi, i certaldesi. Il narratore esprime un aperto giudizio sulla loro ingenuità.

6 un de’ frati di santo Antonio: uno dei frati dell’ordine fondato da sant’Antonio. Documenti del tempo alludono effettivamente all’abitudine dei frati antoniani di chiedere denaro al popolino sfruttandone l’ignoranza e la credulità. 7 con ciò sia cosa che: dato che. 8 brigante: compagnone, membro di una brigata. 9 Tulio… Quintiliano: Boccaccio intende Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) e Quintiliano (ca. 35-95 d.C.) che rappresentavano i modelli per eccellenza di arte oratoria.

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10 compare… benvogliente: compare è tuttora nel Sud d’Italia chi è particolarmente legato a una famiglia, perché è stato testimone di nozze o padrino di cresima o battesimo; benvogliente significa “benevolente, ben disposto”. I tre aggettivi (compare, amico, benvogliente) sono disposti in ordine decrescente. 11 femine: donne. 12 delle ville da torno: delle case coloniche dei dintorni. 13 calonica: canonica, ossia chiesa parrocchiale.


del baron14 messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò che il beato santo Antonio vi sia guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre15; e oltre a ciò 20 solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia16 scritti sono, quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer l’abate, stato mandato17; e per ciò con la benedizion di Dio, dopo nona18, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bascerete la croce; e oltre 25 a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia19 vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una delle penne dell’agnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne a annunziare in Nazarette20». E questo detto si tacque e ritornossi21 alla messa. 30 Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini22, li quali, poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che23 molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa penna alcuna beffa24. E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel ca35 stello25 con un suo amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero alla strada, e all’albergo dove il frate era smontato se n’andarono con questo proponimento, che Biagio dovesse tenere a parole il fante26 di frate Cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse27, e torgliele28, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire. 40 Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco29; il quale era tanto cattivo30, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto31. Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata32 e di dire: «Il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque è l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o 45 in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno, ogni lor santità. Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna è, avendone nove!»; e essendo alcuna volta domandato quali fossero queste nove cose e egli, avendole in rima messe, rispondeva: «Dirolvi33: egli è tardo, su-

14 baron: titolo onorifico che veniva premesso nel Medioevo anche ai nomi dei santi. 15 santo Antonio… pecore vostre: sant’Antonio abate è il protettore di tutte le bestie d’allevamento e da cortile. 16 compagnia: confraternita. 17 Alle quali… mandato: a riscuotere le quali (offerte) io sono stato mandato dal mio superiore, cioè messer l’abate. 18 nona: circa le tre del pomeriggio. 19 di spezial grazia: come grazia speciale. 20 Nazarette: Nazareth. 21 si tacque e ritornossi: tacque e tornò. 22 Giovanni del Bragoniera… Biagio

Pizzini: sono famiglie realmente esistite a Certaldo ai tempi di Boccaccio, che probabilmente ebbero rapporti con suo padre. 23 ancora che: sebbene. 24 seco… beffa: si riproposero di fargli una beffa con questa penna. 25 nel castello: nella parte più alta del paese. 26 tenere… il fante: trattenere con delle chiacchiere il servitore. 27 chente che ella si fosse: quale mai essa fosse. 28 torgliele: sottrargliela. 29 Guccio… Porco: Boccaccio si ispira a un personaggio probabilmente esistito

davvero e qui identificato con dei soprannomi che alludono, il primo (Balena) alla pesantezza, il secondo (Imbratta) alla sporcizia, il terzo (Porco) alla grossolana sensualità. 30 cattivo: sciocco, inetto. 31 che egli… alcun cotanto: che superava Lippo Topo (personaggio proverbiale, ricordato per le stranezze e lo spirito scherzoso). 32 Di cui… con la sua brigata: sul quale frate Cipolla era solito scherzare con la sua compagnia. 33 Dirolvi: ve lo dirò.

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gliardo34 e bugiardo; negligente, disubidiente e maldicente; trascutato35, smemorato 50 e scostumato; senza che egli ha alcune altre teccherelle36 con queste, che si taccion per lo migliore37. E quel che sommamente è da rider de’ fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione38; e avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli s’avisa39 che quante femine il veggano tutte di lui s’innamorino, e essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro per55 dendo la coreggia40. È il vero che egli m’è d’un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d’alcuna cosa sia domandato, ha sì gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sì e no, come giudica si convenga». A costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse 60 che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in quelle erano le cose sacre. Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago41 di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna42, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso 65 che parea de’ Baronci43, tutta sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò; e ancora che d’agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore44 e che egli aveva de’ fiorini più di millantanove45, 70 senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure unquanche46. E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d’Altopascio47, e a un suo farsetto rotto e ripezzato48 e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume49, con più macchie e di più colori che mai drappi 75 fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato fosse il siri di Ciastiglione50, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese51 e trarla di quella cattività di star con altrui52 e senza gran possession d’avere53 ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre cose assai: le quali quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite54, come le più delle sue 80 imprese facevano, tornarono in niente.

34 tardo, sugliardo: pigro, sporco. 35 trascutato: senza testa, negligente. 36 teccherelle: difettucci. 37 che si taccion per lo migliore: che è meglio tacere. 38 tor casa a pigione: prendere casa in affitto. 39 s’avisa: pensa. 40 e essendo lasciato… coreggia: e se lo si lasciasse fare, correrebbe dietro a tutte anche se stesse perdendo la cintura dei pantaloni. 41 vago: desideroso. 42 massimamente… niuna: soprattutto se si accorgeva della presenza di qualche serva. 43 Baronci: famiglia fiorentina nota per la sua bruttezza.

44 egli era… procuratore: egli era un gentiluomo per procura, per interposta persona (ossia non lo era per nulla). 45 millantanove: indica una quantità indefinitamente spropositata, con una sfumatura ironica; infatti ricorda per assonanza il sostantivo millanteria. Guccio Imbratta sembra aver fatto proprie le etimologie farsesche che il suo padrone fra poco utilizzerà così bene. A suo modo anche lui si serve della parola per sedurre la serva. 46 che… unquanche: che mai saprebbe fare e dire neppure il suo padrone. 47 il calderon d’Altopascio: i monaci d’Altopascio, vicino Lucca, cucinavano in enormi calderoni i pasti per i poveri.

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48 farsetto… ripezzato: una sopravveste sdrucita e rattoppata.

49 sotto le ditella… sucidume: lucido per la sporcizia sotto le ascelle. 50 il siri di Ciastiglione: il signore di Châtillon. L’espressione rinvia genericamente a toponimi francesi: qui sta per “grande feudatario”. 51 in arnese: in sesto. 52 trarla… con altrui: sottrarla a quella schiavitù (cattività) che la costringeva a stare al servizio degli altri. 53 senza… d’avere: senza grandi ricchezze. 54 in vento convertite: trasformate in aria (cioè in vuote parole).


Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per ciò che mezza la lor fatica era cessata55, non contradicendolo alcuno56 nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna; la quale aperta, 85 trovarono in un gran viluppo di zendado fasciata57 una piccola cassettina; la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda d’un pappagallo, la quale avvisarono58 dovere esser quella che egli promessa avea di mostrare a’ certaldesi. E certo egli il poteva a quei tempi leggiermente59 far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze d’Egitto60, se non in piccola quantità, trapassate in Toscana, come 90 poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate61: e dove che elle poco conosciute fossero62, in quella contrada quasi in niente erano dagli abitanti sapute63; anzi, durandovi ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte mai uditi non gli avea ricordare64. Contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare 95 la cassetta vota, vedendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia65 come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono a aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni, dovesse dire. Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano 100 la penna dell’agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare all’altra, come desinato ebbero ogni uomo66, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano67, con disidero aspettando di veder questa penna. Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande 105 esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò a Guccio Imbratta che là sù con le campanelle68 venisse e recasse le sue bisacce. Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto69, con le cose addimandate con fatica lassù n’andò: dove ansando giunto, per ciò che il ber dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in su la porta della 110 chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare. Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato70, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica e in acconcio de’ fatti suoi71 disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell’agnol Gabriello, fatta prima con gran solennità la confessione72, fece accender due torchi73

55 cessata: evitata. 56 non contradicendolo alcuno: senza che nessuno lo impedisse. 57 gran viluppo… fasciata: avvolta in un grande drappo di seta. 58 avvisarono: pensarono. 59 leggiermente: facilmente. 60 le morbidezze d’Egitto: le eleganze dell’Egitto. Il paese rappresenta in generale tutto l’Oriente, a cui l’immaginario medievale associava l’idea di favolose ricchezze e di lusso sfarzoso. 61 come poi… trapassate: come poi in abbondanza (copia è latinismo) si sono diffuse in tutta Italia, con effetti di corruzione.

62 e dove… fossero: e se altrove erano

67 tanti… vi capeano: accorsero così tan-

poco conosciute (sempre le morbidezze). 63 in niente.. sapute: non erano note (sapute) per niente. 64 non che… avea ricordare: non solo non avevano mai visto dei pappagalli, ma la maggior parte non li aveva mai sentiti nominare. È proprio su questa base che frate Cipolla può spacciare la penna di pappagallo per una delle penne dell’angelo Gabriele. 65 racconcia: rimessa a posto. 66 come… ogni uomo: dopo che tutti ebbero pranzato.

ti uomini e tante donne nella parte alta del paese, che appena vi entravano. 68 campanelle: all’atto del mostrare le reliquie, venivano suonate delle campanelle. 69 si fu divelto: si allontanò, si staccò. 70 ragunato: radunato. 71 in acconcio de’ fatti suoi: per perseguire il proprio scopo. 72 fatta… la confessione: recitato il Confiteor, preghiera rituale di confessione collettiva dei peccati. 73 torchi: grossi ceri.

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e soavemente sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse. E dette primieramente alcune parolette a laude e a commendazione74 dell’agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come piena di carboni vide, non sospicò75 che ciò Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva da tanto76, né il maladisse del male aver guardato che altri 120 ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa77, conoscendol, come faceva, negligente, disubidiente, trascutato e smemorato. Ma non per tanto, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito: «O Idio, lodata sia sempre la tua potenzia!». Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse: «Signori e donne, voi dovete sapere 125 che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole78, e fummi commesso con espresso comandamento79 che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana80, li quali, ancora che a bollar81 niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi. Per la qual cosa messom’io in cammino, di Vinegia82 partendomi e andandomene per lo Borgo de’ 130 Greci e di quindi83 per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto pervenni in Sardigna. Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi84 da me divisando85? Io capitai, passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia86, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni87 trovai 135 assai, li quali tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi dove la loro utilità vedessero seguitare88, nulla altra moneta spendendo che senza conio89 per quei paesi: e quindi passai in terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti90, rivestendo i porci delle lor busecchie91 medesime; e poco più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e 140 ’l vin nelle sacca92: da’ quali alle montagne de’ bachi93 pervenni, dove tutte l’acque corrono alla ’ngiù. E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei infino in 115

74 a laude e a commendazione: in lode e in onore. 75 sospicò: sospettò. 76 da tanto: capace di tanto. 77 bestemmiò… aveva commessa: maledisse in silenzio sé stesso, che aveva affidata a lui la tutela delle sue cose. 78 in quelle… il sole: cioè ovunque; ma l’equivoco sta nell’intendere apparisce come “sorge”, il che starebbe a significare l’Oriente. Inizia con queste parole la lunga orazione di frate Cipolla, costituita da una serie di frasi e locuzioni prive di senso, commiste a modi di dire locali, citazioni di luoghi esotici o immaginari. Lo scopo è stordire e sbalordire gli ignari e ignoranti popolani fino a giungere al clamoroso effetto finale. 79 fummi commesso… comandamento: mi fu affidato l’incarico con un ordine esplicito. 80 i privilegi del Porcellana: i documenti che comproverebbero i privilegi del Porcellana, ossia l’ospedale di San Filippo a

Firenze di cui Guccio era custode; ma il nome richiama anche quello del servo del frate. 81 bollar: apporvi una bolla (approvazione ufficiale). 82 Vinegia: si tratta di un’antica contrada fiorentina ma, per equivoco, suggerisce Venezia. Allo stesso modo, tutti i luoghi citati appresso nella predica di Frate Cipolla si riferiscono a vie di Firenze realmente esistenti, posti lungo una direttrice che attraversa la città da est a ovest. Ma lo scaltro oratore vuole che il suo uditorio pensi a un viaggio in terre esotiche e lontane. 83 di quindi: da qui. 84 cerchi: cercati, visitati. 85 divisando: descrivendo. 86 Truffia… Buffia: comincia la serie di toponomastici immaginari con senso satirico. Questi, tanto ricchi di popolazione, sono evidentemente i paesi della truffa e della beffa. Inoltre, il Braccio di San Giorgio è anche il Bosforo.

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87 religioni: ordini religiosi. 88 li quali… seguitare: tutti evitavano ogni disagio per amore di Dio, curandosi poco delle fatiche altrui quando vedessero che ne derivasse un utile. Fra i luoghi immaginari evocati dalla ricca fantasia del frate si insinua una realistica allusione alla negativa condotta degli uomini di chiesa. 89 che senza conio: se non quella priva di valore, o inesistente (non essendo mai stata coniata). 90 vanno… pe’ monti: questa operazione, come le successive, è ovvia e non certo tipica di terre esotiche. Non è escluso che, oltre al significato letterale, nelle varie espressioni ci siano allusioni di carattere sessuale. 91 busecchie: budella; perciò, confezionando salsicce e salami. 92 il pan… nelle sacca: le ciambelle infilate nel bastone e il vino negli otri. 93 bachi: forse deformazione di “baschi”.


India Pastinaca94, là dove io vi giuro per l’abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati95, cosa incredibile a chi non gli96 avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio97, il quale gran mercatante io trovai là, che schiacciava 145 noci e vendeva gusci a ritaglio98. Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, per ciò che da indi in là si va per acqua99, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state vi vale il pan freddo quatro denari e il caldo v’è per niente100. E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace101, degnissimo patriarca di Ierusalem. Il quale, per reverenzia dell’abito che io ho 150 sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi sconsolate102, ve ne dirò alquante. Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san 155 Francesco, e una dell’unghie de’ gherubini, e una delle coste del Verbum-caro-fattialle-finestre103 e de’ vestimenti della santa Fé catolica104, e alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in Oriente, e una ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole105, e la mascella della Morte di san Lazzero106 e altre. E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare 160 e d’alquanti capitoli del Caprezio107, li quali egli lungamente era andati cercando, mi fece egli partefice108 delle sue sante reliquie: e donommi uno de’ denti della santa Croce e in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone e la penna dell’agnol Gabriello, della quale già detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna109 (il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo 165 di Bonsi110, il quale in lui ha grandissima divozione) e diedemi de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito111; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, e holle tutte112. È il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto113 che io l’abbia mostrate infino a tanto che certificato non s’è se desse sono114 o no; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal

94 mei… Pastinaca: nientemeno che fino in India. Pastinaca è il nome di una radice dolce; qui probabilmente il termine è utilizzato per il suono misterioso e per alludere alle spezie orientali, ma pur sempre con una sfumatura ironica. 95 pennati: equivoco tra pennati, specie di roncole per la potatura delle fronde degli alberi, e pennuti, ossia gli uccelli. 96 gli: li. 97 Maso del Saggio: figura proverbiale di burlone, che compare anche in altre novelle (Decameron, VIII, 3). 98 a ritaglio: al dettaglio. 99 per acqua: per mare. L’India, secondo la concezione del tempo, era l’ultima terra, dopo la quale si apriva l’Oceano. 100 di state… per niente: d’estate il pane raffermo costa quattro denari e la calura la si ha per nulla. 101 Nonmiblasmete Sevoipiace: è un nome ricavato da una deformazione del francese antico, Ne me blasmez se vos plait, “non mi biasimate per favore”.

102 sconsolate: deluse. Il femminile veniva spesso usato come forma di cortesia, quando ci si rivolgeva a un uditorio sia maschile sia femminile. Da questo punto il discorso dell’astuto frate Cipolla imbocca la strada del riferimento alle reliquie, in cui dà prova di un’inventività virtuosistica, senza preoccuparsi di utilizzare riferimenti addirittura blasfemi pur di colpire il suo uditorio. 103 una delle… finestre: una delle costole del “Verbo che si fece carne”; storpiatura della frase Verbum caro factum est, tratta dal Vangelo di Giovanni e ripetuta anche nella preghiera dell’Angelus, con l’aggiunta alle finestre per confondere gli ascoltatori. 104 vestimenti… catolica: la fede cattolica qui personificata come se potesse indossare degli abiti. 105 diavole: diavolo. 106 mascella… Lazzero: la morte che colpì san Lazzaro, secondo l’uso medievale viene immaginata come uno scheletro, di cui frate Cipolla avrebbe visto la mascella.

107 per ciò che… Caprezio: poiché liberamente gli procurai la trascrizione delle pendici del Monte Morello in volgare e di molti capitoli del Caprezio. La frase è senza senso (se non la solita allusione in chiave sessuale). 108 partefice: partecipe. 109 Gherardo da Villamagna: uno dei primi seguaci di san Francesco. 110 Gherardo di Bonsi: personaggio fiorentino realmente vissuto nella prima metà del Trecento, membro autorevole dell’Arte della lana. 111 dietemi… arrostito: e mi diede alcuni carboni con i quali fu arso vivo (sulla graticola) san Lorenzo. 112 le quali… tutte: le quali reliquie tutte le portai di qua dal mare, con me, con spirito di devozione, e le ho (holle) tutte. 113 sofferto: permesso. 114 se desse sono: se sono proprio autentiche.

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Patriarca fatto n’è certo, m’ha conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fidarle altrui115, sempre le porto meco. Vera cosa è che io porto la penna dell’agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali son sì simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi vien presa l’una per l’altra, e al presente m’è avvenuto: per ciò che, credendomi 175 io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni. Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de’ carboni ponesse nelle mie mani, ricordandom’io pur testé116 che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì. E per ciò, volendo Idio che io, col mostrarvi i carboni co’ quali esso fu arrostito, 180 raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor117 di quel santissimo corpo mi fé pigliare. E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v’appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco118, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco 185 nol cocerà che non si senta119». E poi che così detto ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano120, che con essi gli dovesse toccare il pre190 gava ciascuno. Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camiscion bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano121, affermando che tanto quanto essi scemavano122 a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva provato. E in cotal guisa, non senza sua grandis195 sima utilità avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire123. Li quali stati alla sua predica e avendo 200 udito il nuovo riparo124 preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse125 e con che parole, avevan tanto riso, che eran creduti smascellare. E poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior 205 festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono126 e appresso gli renderono la sua penna; la quale l’anno seguente Illustrazione di artisti fiamminghi per la novella di Cipolla, miniatura del Decameron 127 gli valse non meno che quel giorno gli nelFrate manoscritto 5070, f. 236r, 1440 ca. fosser valuti i carboni. (Parigi, Biblioteca dell’Arsenale). 170

115 fidarle altrui: affidarle ad altri. 116 pur testé: solo ora. 117 omor: umore, grasso. 118 tocco: toccato. 119 che non si senta: senza che se ne accorga. Si conclude la predica con l’ennesimo equivoco burlesco. 120 che usati non erano: di quanto non fossero soliti.

121 che vi capevano: che potevano starci (latinismo). 122 scemavano: si consumavano, diminuivano. 123 in cotal guisa… creduto schernire: in questo modo, non senza averne ricavato un grande beneficio, avendo segnati con la croce tutti i certaldesi, grazie a un pronto stratagemma, raggirò coloro che,

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togliendogli la penna, avrebbero voluto raggirare lui. 124 riparo: rimedio. 125 quanto… fosse: quanto l’avesse presa alla lontana. 126 discoprirono: svelarono. 127 gli valse: gli rese (valse; e così gli fosser valuti “gli avessero reso”).


Analisi del testo Uno scenario e un personaggio realistici Questa novella si svolge proprio nel paese d’origine della famiglia di Boccaccio, Certaldo, un borgo rurale. Puntuale e precisa è la connotazione sociale fornita dall’autore: il paese è piccolo, ma non manca «di nobili uomini e d’agiati». Il popolino è costituito da contadini, la cui ingenuità li rende una «buona pastura» per l’astuto frate che ogni anno vi andava «a ricoglier le limosine fatte […] dagli sciocchi». I certaldesi appaiono nel complesso portatori di valori e consuetudini propri di un arcaico mondo contadino. Realistica è anche la figura del predicatore itinerante rappresentata da frate Cipolla e l’importanza che il momento della predica aveva nella vita semplice delle comunità del contado. Alla figura del predicatore la Chiesa riconosceva un ruolo determinante nella diffusione dei precetti cristiani. Nello Specchio della vera penitenza (➜ C3), il domenicano Jacopo Passavanti ne aveva definito i compiti e le caratteristiche principali, ritraendo il predicatore come persona colta, in grado di addentrarsi nei misteri delle Scritture e di farne partecipe il popolo illetterato. Non sempre però la realtà corrispondeva a questo modello ideale. Spesso poi i predicatori utilizzavano effettivamente espedienti giullareschi, esasperando la gestualità, pur di conquistare l’uditorio. In particolare, proprio i frati di sant’Antonio usavano spesso ricorrere spregiudicatamente a ostensioni di reliquie. La figura di frate Cipolla e la situazione evocata nella novella, pur esasperata, non è dunque semplicemente il frutto dell’immaginazione di Boccaccio, bensì rispecchia una situazione storica reale.

La parodizzazione della predica Frate Cipolla si rivolge alla folla con un discorso intessuto di ambiguità, paradossi, volute contraddizioni, vere e proprie assurdità, legittimate dall’autorevolezza attribuita allora alla predica: la predica è parola sacra, e come tale è recepita passivamente da «i buoni uomini e le femine» certaldesi. Boccaccio si sofferma sulla loro ingenua credulità, che li fa accorrere alla promessa di vedere la penna dell’angelo Gabriele: «dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare all’altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con disidero aspettando di veder questa penna». È resa con grande vivacità l’atmosfera di trepida aspettativa creata dalle parole del frate, il frenetico passaparola tra vicini e comari, e sembra quasi di percepire la fretta con cui gli impazienti paesani consumano il loro pranzo, per poter poi correre ad affollare il castello di Certaldo, dove si svolgerà la magistrale rappresentazione di frate Cipolla. Crea un comico contrasto con la febbrile aspettativa dei fedeli la placida flemma con cui quest’ultimo si prepara alla propria entrata in scena, «avendo ben desinato e poi alquanto dormito». Il frate appare pienamente padrone della situazione, domina la platea in ogni momento e non si fa mai cogliere alla sprovvista, neppure quando, aperta la cassetta, vi trova i carboni posti lì dai due giovani burloni: egli capisce subito lo scherzo di cui è vittima e la sua reazione è immediata, analoga a quella di un consumato attore di teatro, abituato a fronteggiare qualsiasi imprevisto di palcoscenico: «senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito: “O Idio, lodata sia sempre la tua potenzia!”». La predica è un discorso molto lungo e complesso, con una lunga parte introduttiva di cui non si capisce subito la ragione: sembra quasi che frate Cipolla stia prendendo tempo per meglio architettare la menzogna finale. Vediamo di sintetizzarne le principali strategie utilizzate dall’abilissimo oratore. •  Fin dalle prime battute emerge la profonda differenza tra due livelli di consapevolezza sulla quale è costruita tutta la novella: il frate fa ricorso a una serie di doppi sensi geografici, derivati dall’ambigua denominazione di strade e quartieri di Firenze e dintorni. Solo un ascoltatore cittadino, come «i due giovani astuti molto», sarebbe in grado di capire il contenuto comico di questi giochi di parole; non certo i poveri certaldesi, esperti solo delle viuzze del loro piccolo borgo. Il viaggio esotico descritto da frate Cipolla altro non è che un percorso cittadino attraverso alcuni quartieri di Firenze ben noti sia ai due giovani sia ai lettori del tempo, ma per «gli uomini e le femine semplici» che ascoltano a bocca aperta le storie del frate, essi sono tanto sconosciuti quanto le più lontane regioni d’Oriente. •  La predica poi prosegue con uno dei metodi più comuni per impressionare le platee devote durante il Medioevo: l’interminabile enumerazione di incredibili reliquie.

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•  La predica si chiude con il ricorso alla misericordia divina, che ha voluto porre nelle mani del frate la scatola con i carboni invece di quella con la penna, e con l’ultimo equivoco-beffa: «voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta». Il trucco è quello di dire una cosa del tutto ovvia, in modo tale da farla apparire miracolosa. La chiusa della novella sancisce ulteriormente lo scarto tra il livello dei fedeli di Certaldo, che si accalcano per essere segnati con i carboni e si fanno spillare pingui elemosine, e il livello di frate Cipolla e dei suoi beffatori, uniti nella risata finale, che è anche quella dei lettori.

Due livelli di consapevolezza All’interno della novella vengono a delinearsi chiaramente, come già accennato, due piani distinti: quello di frate Cipolla, scaltro e abile manipolatore, e quello del popolo, «gli uomini e le femine semplici», ingenui e sprovveduti, incapaci di riconoscere gli inganni. Tutto il meccanismo narrativo è fondato sullo scarto tra questi due diversi livelli di consapevolezza, tra il sapere del frate e il non sapere della folla, tra l’arguzia spregiudicata del primo e la candida credulità degli altri: da notare che l’azione si svolge tutta al primo livello, dove vengono prese tutte le iniziative, mentre il popolo funge solo da pubblico passivo e inerte. Sullo stesso piano di frate Cipolla si trovano anche i «due giovani astuti molto» che volevano gabbarlo sostituendo la reliquia, e che diventano virtualmente suoi complici: sono infatti gli unici tra i certaldesi presenti in grado di capire i doppi sensi e la toponomastica burlesca nella predica imbastita in fretta e furia dal frate. Essi costituiscono quindi una sorta di “secondo pubblico”, smaliziato e accorto, analogo ai lettori reali della novella che, al pari loro, recepiscono gli inganni dello scaltro predicatore e si divertono di fronte alla sua mirabolante inventività. E sono forse depositari di un ulteriore livello di lettura, cioè la capacità di gustare la parodizzazione del genere testuale della predica che Boccaccio si diverte a realizzare.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Dividi in sequenze la novella dando a ognuna di esse un titolo, poi organizza i contenuti in una breve sintesi (max 10 righe). 2..Individua i narratori della novella: narratore di 1o grado: .................................................................................................................................................; narratore di 2o grado: ................................................................................................................................................. ANALISI 3. Descrivi il personaggio di Guccio Imbratta, rilevando anche le particolari scelte lessicali di Boccaccio nella rappresentazione che vede in scena Guccio e la Nuta. Sai spiegare perché è stato definito un “doppio” di frate Cipolla? STILE 4. Individua gli stratagemmi retorici utilizzati da frate Cipolla nella sua predica: assonanze, fraseologie volutamente equivoche, frasi involute e confuse che esprimono concetti contraddittori, uso di termini altisonanti e così via.

Interpretare

SCRITTURA 5. In più punti Boccaccio si sofferma sugli aspetti di teatralità che caratterizzano la devozione popolare medievale; prova a ripercorrere la novella soffermandoti in particolare sulla gestualità di frate Cipolla, sul suo rapporto con il pubblico e su tutti gli atteggiamenti che rendono la sua figura simile a quella di un attore. Esponi le riflessioni raccolte in una breve trattazione (max 15 righe). TESTI A CONFRONTO 6. Nel Decameron è già apparsa un’altra predica: nella novella di ser Ciappelletto (➜ T6a ), quando il sant’uomo, che aveva confessato lo scellerato protagonista, ne celebra il funerale e sancisce la sua santificazione. Rileggi il passo e delinea un confronto con la folla che assiste allo “spettacolo” di frate Cipolla. Qual è l’atteggiamento cui Boccaccio dà maggior risalto? Riesci a intuire il giudizio implicito dell’autore?

452 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


T7

Amore e morte

EDUCAZIONE CIVICA

Nelle novelle di seguito antologizzate vediamo un motivo ricorrente della narrativa cortese da Tristano e Isotta a Paolo e Francesca, ossia il binomio “amore-morte”: gli innamorati separati in vita possono ricongiungersi solo nella morte.

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Giovanni Boccaccio

T7a

Tancredi e Ghismonda: una tragedia feudale Decameron IV, 1

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

La potenza invincibile dell’amore, la nobiltà d’animo contrapposta al lignaggio: alcune delle principali tematiche di Boccaccio si incontrano in questa celebre novella, di cui non si conosce alcun preciso antecedente (forse un motivo di ispirazione può riconoscersi nello storico Paolo Diacono, che narra della macabra vicenda della regina longobarda Rosmunda costretta a bere dal cranio di suo padre). Ghismonda (o Ghismunda), diletta figlia di Tancredi, principe di Salerno, ama Guiscardo, un umile valletto nella corte di suo padre e da lui è riamata. Scoperta, la donna rivendica il proprio diritto a vivere appieno le pulsioni amorose che la natura ha posto nel suo giovane cuore e, di fronte ai rimproveri di Tancredi, afferma con decisione che la virtù di un uomo non ha nulla a che vedere con la sua condizione sociale.

TANCREDI, PRENZE DI SALERNO1, UCCIDE L’AMANTE DELLA FIGLIUOLA E MANDALE IL CUORE IN UNA COPPA D’ORO; LA QUALE, MESSA SOPR’ESSO ACQUA AVVELENATA, QUELLA SI BEE E COSÌ MUORE. […] Tancredi, prencipe di Salerno, fu signore assai umano e di benigno ingegno2, se egli nell’amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate3; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente 5 amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai: e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire4, non la maritava: poi alla fine a un figliuolo del duca di Capova5 datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e 6 7 10 giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea . E 8 9 dimorando col tenero padre, sì come gran donna , in molte dilicatezze , e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più10 maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo11, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente12 un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri13, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e’ 1 Tancredi… Salerno: Tancredi, principe di Salerno. Nota Branca che «tutti i nomi e i riferimenti storici di questa novella sono immaginari». 2 ingegno: indole. 3 se egli… bruttate: se egli in tarda età non si fosse sporcato le mani con il sangue di due amanti. 4 non… partire: non sopportando di separarsi da lei. 5 Capova: Capua.

6 gagliarda: ardita, coraggiosa, piena di spirito. 7 savia… richiedea: più saggia di quanto non si richiedesse normalmente a una donna. L’osservazione rispecchia la mentalità medievale, e antica in genere, secondo cui a una donna non si richiedono particolari doti intellettuali, che anzi possono addirittura risultare dannose, poiché rischiano di renderla meno docile.

8 sì come gran donna: come si conviene a una donna di altissimo lignaggio quale era Ghismonda. 9 dilicatezze: agi, lussi. 10 di più: ancora, una seconda volta. 11 né a lei… il richiedernelo: né le sembrava conveniente richiederglielo. 12 occultamente: di nascosto (da tutti). 13 veggendo… altri: frequentando alla corte del padre uomini nobili e non nobili.

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costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile14 ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente15 s’accese, ognora più lodando i modi suoi16. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto17, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni 20 altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa18. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né vogliendosi di questo amore in alcuna persona fidare19, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia20. Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente per esser 25 con lei gli mostrò21; e poi quella messa in un bucciuolo di canna22, sollazzando23 la diede a Guiscardo e dicendo: «Fara’ne questa sera un soffione alla tua servente24, col quale ella raccenda il fuoco». Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato25 e così detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa: e guardando la canna 30 e quella vedendo fessa26, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala e ben compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che fosse già mai e diedesi a dare opera di dovere a lei andare27 secondo il modo da lei dimostratogli. Era allato al palagio28 del prenze una grotta cavata29 nel monte, di lunghissimi tempi davanti30 fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza 35 nel monte31, il quale, per ciò che32 abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato33; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio la quale la donna teneva34, si poteva andare, come che35 da uno fortissimo uscio serrata fosse. E era sì fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che 40 quasi niuno che ella vi fosse si ricordava36: ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata37 alla innamorata donna. La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse38 d’aprir quello uscio: il quale aperto e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per39 quello aveva a Guiscardo man15

14 di nazione assai umile: umile per nascita. 15 fieramente: di un desiderio molto intenso. 16 ognora… i modi suoi: ogni giorno sempre più lodando i suoi atteggiamenti. 17 ancora non era poco avveduto: inoltre, non era uno sprovveduto. 18 aveva… rimossa: si era a tal punto innamorato di lei, che aveva distolto la mente da quasi tutto tranne che da questo amore. 19 né… fidare: né volendo confidare a nessuno questo amore. 20 a dovergli… malizia: pensò a un originale stratagemma (nuova malizia) per comunicargli il modo in cui avrebbero potuto stare insieme.

21 ciò che a fare… gli mostrò: gli spiegò che cosa doveva fare il giorno seguente per stare con lei. 22 in un bucciuolo di canna: nel tratto di canna tra un nodo e l’altro. 23 sollazzando: scherzando, ridendo. 24 Fara’ne… servente: ne farai un soffione (spiega Branca: «canna forata con cui si soffia nel fuoco per ravvivarlo») per la tua serva. 25 avvisando… donato: capendo che costei non senza motivo doveva averglielo dato. 26 fessa: cava. 27 diedesi… andare: cominciò a predisporre ogni cosa per potersi incontrare con lei. 28 allato al palagio: a fianco del palazzo. 29 cavata: scavata. 30 di lunghissimi tempi davanti: molto tempo prima.

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31 dava… monte: dava un po’ di luce una piccola apertura creata artificialmente nella montagna. 32 per ciò che: poiché. 33 riturato: tappato (si riferisce allo spiraglio). 34 la quale… teneva: la quale (una delle camere terrene) era abitata dalla donna. 35 come che: sebbene. 36 era… si ricordava: questa scala era così lontana dal pensiero di tutti, dato che da tantissimo tempo non veniva usata, che quasi nessuno si ricordava che esistesse. 37 tornata: richiamata. 38 molti dì… potesse: per molti giorni (con degli arnesi che si era procurata) aveva armeggiato prima che le riuscisse. 39 per: passando attraverso quello.


dato a dire che di venir s’ingegnasse, avendogli disegnata40 l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire41 Guiscardo prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa e sé vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire a alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, e accomandato42 bene l’uno de’ capi della 50 fune a un forte bronco43 che nella bocca dello spiraglio era nato, per quella si collò44 nella grotta e attese la donna. La quale il seguente dì, faccendo sembianti45 di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio nella grotta discese, dove, trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme 55 venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono46; e dato discreto ordine47 alli loro amori acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo, e ella, serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi la notte vegnente48, sù per la sua fune sagliendo49, per lo spiraglio donde era entrato se n’uscì fuori e tornossi50 a casa; e avendo questo cammino appreso più volte poi 60 in processo di tempo51 vi ritornò. Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia de’ due amanti rivolse52 in tristo pianto. Era usato53 Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto e poi partirsi. Il quale un giorno dietro 65 mangiare54 là giù venutone, essendo la donna, la quale Ghismonda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella senza essere stato da alcuno veduto o sentito entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto55, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute56, a piè di quello in un canto sopra un carello57 si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra 70 sé la cortina, quasi come se studiosamente58 si fosse nascoso, quivi s’adormentò. E così dormendo egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate la sue damigelle nel giardino, pianamente59 se ne entrò nella camera: e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva e andatisene in su il letto, sì come usati60 erano, e 75 insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano. E dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso61, s’egli potesse, per potere più cautamente fare e con minor sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sì come usati erano, 80 senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta e ella s’uscì della camera. Della quale62 Tancredi, ancora che63 45

40 disegnata: indicata. 41 Alla qual cosa fornire: per realizzare questo piano. 42 accomandato: assicurato. 43 bronco: sterpo, arbusto (dantismo: If XIII, 26). 44 collò: calò. 45 faccendo sembianti: fingendo. 46 si dimorarono: si trattennero. 47 dato discreto ordine: imposta una regola giudiziosa, di discrezione.

48 vegnente: seguente. 49 sagliendo: salendo. 50 tornossi: se ne tornò. 51 in processo di tempo: nel corso del tempo.

52 rivolse: trasformò. 53 Era usato: aveva l’abitudine (Tancredi

56 le cortine… abbattute: le tende del baldacchino del letto abbassate.

57 carello: sgabello con cuscino e ruote. 58 studiosamente: a bella posta. 59 pianamente: tranquillamente. 60 usati: abituati. 61 prese partito… nascoso: prese la de-

è soggetto).

cisione di tacere e star nascosto.

54 dietro mangiare: dopo mangiato. 55 non volendo… suo diletto: non vo-

62 Della quale: si riferisce alla camera. 63 ancora che: sebbene.

lendo sottrarla ai suoi svaghi.

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vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino e senza essere da alcun veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò. E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio la seguente notte in sul primo son85 no64 Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato65, fu preso da due e segretamente a Tancredi menato66; il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: «Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai67, sì come io oggi vidi con gli occhi miei». Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: «Amor può troppo più che 90 né voi né io possiamo68». Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse69; e così fu fatto. Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismunda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novità pensate70, appresso mangiare secondo la sua usanza 95 nella camera n’andò della figliuola: dove fattalasi chiamare71 e serratosi dentro con lei, piangendo le cominciò a dire: «Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non l’avessi veduto, che tu di sottoporti a alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato72; di 100 che io, in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba, sempre sarò dolente di ciò ricordandomi. E or volesse Idio che, poi che a tanta disonestà conducer ti dovevi73, avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole74 fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n’usano eleggesti75 Guiscardo, giovane di vilissima76 condizione, nella nostra corte quasi come per Dio77 da piccol fanciullo infino 105 a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare78. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, e hollo79 in prigione, ho io già meco preso partito che farne80; ma di te sallo81 Idio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae82 l’amore il quale io t’ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, 110 e d’altra mi trae giustissimo sdegno preso per la tua gran follia: quegli vuole che io ti perdoni e questi83 vuole che io contro a mia natura in te incrudelisca84: ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dei dire85». E questo detto bassò86 il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto87.

64 in sul primo sonno: nelle prime ore

71 fattalasi chiamare: fattala chiamare

78 non sappiendo… mi pigliare: non sa-

della notte. 65 così come… impacciato: dato che era impacciato nei movimenti dalla veste di cuoio. 66 menato: condotto. 67 la mia benignità… fatta m’hai: la mia benevolenza verso di te non avrebbe meritato l’offesa e la vergogna che mi sono state arrecate nei riguardi dei miei affetti più cari (nelle mie cose). 68 Amor… possiamo: l’Amore ha un potere superiore sia al vostro sia al mio. 69 chetamente… fosse: in segreto fosse rinchiuso e custodito in una camera. 70 avendo seco… pensate: avendo meditato cose insolite e strane tra sé (si allude ai progetti di vendetta del principe nei confronti dei due amanti).

alla sua presenza. 72 mai non mi… pur pensato: mai avrei potuto immaginare (cader nell’animo) se non l’avessi visto coi miei occhi, quand’anche mi fosse stato riferito, che tu avessi non dico fatto ma anche solo pensato di avere rapporti sessuali con alcun uomo che non fosse stato tuo marito. 73 poi che… ti dovevi: poiché dovevi giungere a un comportamento così disonesto. 74 decevole: degno, conveniente. 75 tra tanti… eleggesti: tra tanti che frequentano la mia corte hai scelto. 76 vilissima: molto umile. 77 quasi come per Dio: quasi per carità, come orfano.

pendo io che decisione prendere nei tuoi riguardi, come comportarmi con te. 79 hollo: lo tengo (hollo sta per ”l’ho”). 80 ho io… che farne: io ho dentro di me già deciso che cosa fare di lui. 81 sallo: lo sa. 82 mi trae: mi trattiene. 83 quegli… questi: il primo riferito all’amore come padre; il secondo, contrapposto, allo sdegno come principe. 84 contro a mia natura in te incrudelisca: contro la mia stessa inclinazione, ti punisca con durezza. 85 prima… dire: prima di decidere, desidero ascoltare quello che tu in proposito devi dire. 86 bassò: abbassò. 87 ben battuto: picchiato ben bene.

456 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto ma ancora preso Guiscardo88, dolore inestimabile sentì e a mostrarlo con romore e con lagrime89, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina: ma pur questa viltà vincendo il suo animo altiero90, il viso suo con maravigliosa forza fermò91, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose92, avvisando già esser morto il suo Guiscardo93. 120 Per che94, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa95, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato così al padre disse: «Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia96; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine e ’l tuo amore: ma, il vero confessando, prima con vere ragioni 125 difender la fama97 mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dell’animo mio98. Egli è il vero99 che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò100 d’amarlo: ma a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dové, Tancredi, manifesto101, essendo tu di 130 carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordar ti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, chenti e quali e con che forza vengano102 le leggi della giovanezza: e come che tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi essercitato ti sii103, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozii e le dilicatezze possano ne’ vecchi non che ne’ giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di 135 carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero104, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento105. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi106. E certo in questo 140 opposi ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare107. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna fortuna assai occulta via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disideri perveniva108: e questo, chi che ti se 115

88 conoscendo… Guiscardo: considerando che non solo il suo amore era stato scoperto, ma anche (che) Guiscardo era stato catturato. 89 con romore e con lagrime: con urla e pianti. 90 altiero: altero, orgoglioso e forte. 91 fermò: compose. 92 avanti che… dispose: prima di supplicare per la propria salvezza, decise di rinunciare alla vita, di uccidersi. 93 avvisando… Guiscardo: avendo capito che ormai il suo Guiscardo doveva già essere morto. 94 Per che: per cui. 95 non come dolente… valorosa: non come farebbe una donna prostrata dal dolore e umiliata per essere stata colta in fallo, ma sprezzante e piena di coraggio.

96 per ciò che… vaglia: poiché né l’una

105 al quale… dar compimento: al quale

cosa (il negare) mi servirebbe, né l’altra (il pregare) voglio che mi serva. 97 fama: onore. 98 con fatti… dell’animo mio: agire coerentemente con la mia nobiltà d’animo. 99 Egli è il vero: è vero (egli è pleonastico). 100 non mi rimarrò: non smetterò. 101 Esser… manifesto: ti dovrebbe essere chiaro, evidente. 102 ricordar… vengano: ti dovevi e devi ricordare, malgrado tu ora sia (sie) vecchio, di che natura siano e con quale energia si manifestino. 103 come… ti sii: sebbene tu, poiché sei uomo, abbia speso parte dei tuoi migliori anni nell’esercizio delle armi. 104 e per l’una… disidero: sia perché sono fatta di carne, sia perché sono giovane (sì poco vivuta), ardo di desideri carnali.

(disidero “desiderio”) ha dato forza straordinaria l’aver io conosciuto, essendo stata già sposata, quale piacere si provi nell’appagarlo. 106 a seguir… innamora’mi: mi disposi a seguire quello (l’istinto) verso cui esse (le forze dell’amore) mi spingevano (tiravano) e mi innamorai. 107 in questo… vergogna fare: in questo misi ogni sforzo affinché, per quanto mi era possibile, il peccato naturale cui ero attirata non recasse vergogna né a te né a me. 108 Alla qual cosa… perveniva: per conseguire questo scopo, sia una sensibile disposizione amorosa (pietoso Amore) sia circostanze fortunate avevano trovato e indicato a me una maniera segreta per la quale, senza che nessuno se ne avvedesse, giungevo a soddisfare i miei desideri.

Il Decameron 2 457


l’abbia mostrato o come che tu il sappi109, io nol nego. Guiscardo non per accidente 145 tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi a ogni altro110 e con avveduto pensiero a me lo ’ntrodussi e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio111. Di che egli pare, oltre all’amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare opinione che la verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo, quasi turbato esser non ti dovessi se io nobile uomo 150 avessi a questo eletto, che io con uomo di bassa condizion mi son posta112: in che non t’accorgi che non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni a alto leva, abbasso lasciando i degnissimi113. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principii delle cose114: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere e da uno medesimo Creatore tutte l’anime con iguali 155 forze, con iguali potenze115, con iguali vertù create. La vertù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse116; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano117 nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza118 poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da’ buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente 160 adopera119, apertamente sé mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama commette difetto120. Raguarda121 tra tutti i tuoi nobili uomini e essamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità122 giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valor di Guiscardo 165 io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò mai tanto quanto tu commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato?123 E certo non a torto: ché, se’ miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non poteano esprimere, non vedessi124: e se 170 pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai dunque che io con uomo di bassa condizion mi sia posta? Tu non dirai il vero: ma per avventura se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, ché così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato125; ma la povertà 109 e questo… il sappi: e questo, chiunque sia che te l’abbia mostrato o in qualunque modo tu ne sia venuto a conoscenza, non lo nego. 110 non per accidente… a ogni altro: non per caso (contrapposto a diliberato consiglio) presi (come amante), come fanno molte, ma scelsi (elessi, latinismo) ponderatamente. Ghismonda rivendica con fierezza la piena responsabilità della sua scelta. 111 goduta… disio: ho appagato il mio desiderio. 112 Di che egli… posta: di questo (egli è il solito soggetto pleonastico), oltre al fatto di aver commesso il peccato carnale, sembra che tu mi rimproveri con più amarezza – seguendo (seguitando) di più l’opinione corrente (volgare) che la verità – dicendo che mi sono messa con un uomo di umile condizione, quasi che tu non ti saresti turbato se avessi scelto un nobile per (a) questo fine (cioè per un rapporto erotico).

113 in che non t’accorgi… i degnissimi: in ciò non ti rendi conto che rimproveri non il mio peccato, ma quello della sorte, che assai spesso pone in alto le persone non degne e lascia in basso quelle degnissime. 114 riguarda… principii delle cose: il discorso di Ghismonda, implacabile argomentatrice, invita ora il padre a considerare i princìpi concettuali basilari della questione. 115 potenze: potenzialità. 116 La vertù… ne distinse: ai privilegi del sangue Ghismonda oppone le qualità individuali. 117 adoperavano: mettevano in pratica. 118 contraria usanza: opposta consuetudine. 119 adopera: si comporta. 120 e chi altramenti… commette difetto: con implacabile logica argomentativa, Ghismonda sostiene che quando un uomo si comporta virtuosamente (come il suo Guiscardo) mostra di essere nobile, e

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commette errore (difetto) chi non lo chiama gentile. 121 Raguarda: considera. 122 senza animosità: senza farti influenzare dalla rabbia del momento. 123 Chi il commendò… commendato?: chi lo lodò mai tanto quanto tu lo lodavi in tutte quelle azioni degne di stima per le quali (che) un uomo virtuoso debba essere lodato? 124 niuna laude… non vedessi: nessuna lode gli fu da te concessa che io non gli vedessi messa in atto, e in modo più ammirevole che le tue parole potessero esprimere. 125 per avventura… stato: per caso, se tu dicessi che mi sono messa con una persona povera, si potrebbe concedere con tua vergogna, perché hai portato un tuo valido servitore in una posizione elevata. L’affermazione suona ironica, visto che Tancredi non ha saputo promuovere un uomo che pure diceva di stimare.


non toglie gentilezza a alcuno ma sì avere126. Molti re, molti gran prencipi furon già 175 poveri, e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne127. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi128, caccial del tutto via: se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè a incrudelir, se’ disposto129, usa in me la tua crudeltà, la quale a alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato130, se 180 peccato è; per ciò che io t’acerto131 che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va con le femine a spander le lagrime, e incrudelendo, con un medesimo colpo, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi». Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola ma non credette per 185 ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva132; per che, da lei partitosi e da sé rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire133, pensò con gli altrui danni134 raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano135 che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono; e trattogli il cuore a lui il recassero. Li quali, così 190 come loro era stato comandato, così operarono136. Laonde137, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare138 il mandò alla figliuola e imposegli che quando gliele desse dicesse: «Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato 195 di ciò che egli più amava». Ghismunda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua redusse139, per presta averla140 se quello di che ella temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presento141 e con le parole del prenze, con forte viso142 la coppa prese; e quella 200 scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di Guiscardo; per che, levato il viso verso il famigliar, disse: «Non si convenia sepoltura men degna che d’oro a così fatto cuore chente143 questo è: discretamente144 in ciò ha il mio padre adoperato». E così detto, appressatoselo alla bocca, il basciò, e poi disse: «In ogni cosa sempre 205 e infino a questo stremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che già mai145; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo già mai, di così gran presento, da mia parte gli renderai».

126 ma la povertà… sì avere: la povertà non toglie nobiltà a nessuno, bensì gliela toglie la ricchezza. 127 sonne: sono. 128 che di me far ti dovessi: che cosa dovessi fare di me. 129 se tu… disposto: se tu negli ultimi anni della tua vecchiaia sei disposto a fare ciò che da giovane non usasti fare, cioè comportarti in modo crudele. 130 usa in me… di questo peccato: esercita la tua crudeltà contro di (in) me, che non sono disposta a supplicarti di alcunché, dal momento che proprio tu sei la prima causa del mio peccato.

131 t’acerto: ti assicuro. 132 non credette… diceva: non credette che la sua grandezza d’animo fosse tale da portarla a compiere davvero quello che le sue parole significavano, (così) come le diceva. 133 da sé rimosso… incrudelire: allontanato del tutto il pensiero di voler infierire in alcun modo su di lei. 134 con gli altrui danni: cioè, a danno di un altro, di Guiscardo. 135 guardavano: custodivano. 136 così operarono: così fecero (così è ripetuto pleonasticamente). 137 Laonde: quindi.

138 per… famigliare: per mezzo di un suo servitore estremamente riservato. 139 stillò… redusse: distillò e diluì in acqua. 140 per presta averla: per averla (la pozione velenosa) pronta. 141 presento: dono. 142 forte viso: aspetto fermo, impassibile. 143 chente: quale. 144 discretamente: saggiamente. 145 già mai: (ora più che) mai.

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Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse: «Ahi! dolcissimo albergo146 di tutti i miei piaceri, maladetta sia la crudeltà di colui 210 che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere147! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora148. Tu hai il tuo corso fornito149, e di tale chente la fortuna tel concedette ti se’ spacciato150: venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre: lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava a aver 215 compiute essequie151, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi152, pose Idio nell’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi153; e dateleti154, senza alcun indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già tanto cara 220 guardasti155. E con qual compagnia ne potre’ io andar più contenta o meglio sicura a’ luoghi non conosciuti156 che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro157 e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei e, come colei che ancora son certa che m’ama158, aspetta la mia dalla quale sommamente è amata». E così detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, 225 senza fare alcun feminil romore159, sopra la coppa chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che da torno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson160 dir le parole di lei non intendevano, ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano e 230 molto più, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano161 di confortarla. La qual poi che quanto le parve162 ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttisi gli occhi, disse: «O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito163, né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia164». E questo detto, si fé dare l’orcioletto165 nel quale era l’acqua che il dì davanti aveva 235 fatta, la quale mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato; e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve e bevutala con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente166 seppe compose il corpo suo sopra quello e al suo cuore accostò quello del morto amante: e senza dire alcuna cosa aspettava la morte.

146 albergo: dimora. È il cuore, topica sede d’Amore. 147 colui che… vedere: colui che mi permette di vederti con gli occhi del corpo (quelli reali, posti sotto la fronte), cioè mio padre che mi ha dato la vita; contrapposti a quegli della mente, gli occhi dell’immaginazione. 148 Assai… a ciascuna ora: a me era sufficiente poterti vedere in ogni momento con gli occhi della mente. 149 hai… fornito: hai concluso il corso della tua vita. 150 di tale… spacciato: ti sei liberato di quella vita (di tale) che la fortuna ti concesse.

151 compiute essequie: degne onoranze funebri. 152 acciò che tu l’avessi: affinché tu le potessi avere. 153 come che… avessi: sebbene avessi deciso di morire con gli occhi asciutti e il viso non spaventato da nulla. 154 dateleti: dopo avertele date (le lacrime). 155 farò che… guardasti: farò in modo che la mia anima, con il tuo aiuto (adoperandol tu), si ricongiunga a quell’anima che tu (si rivolge al cuore) custodisti tanto caramente. Si ricordi che, per la scienza medievale, l’anima aveva sede nel sangue, cioè nel cuore.

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156 luoghi non conosciuti: l’aldilà. 157 quincentro: qui, nelle vicinanze. 158 come… m’ama: poiché sono certa che essa (colei è l’anima di Guiscardo) ancora mi ama. 159 feminil romore: singhiozzi e gemiti come sono solite fare le donne. 160 volesson: volessero. 161 s'ingegnavano: si sforzavano. 162 quanto le parve: sottinteso "opportuno”. 163 ogni mio uficio… fornito: ogni mio dovere (verso di te) è compiuto. 164 a fare… compagnia: con la mia anima a far compagnia alla tua. 165 l’orcioletto: la fiaschetta. 166 onestamente: dignitosamente.


Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che167 esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandato a dire; il qual, temendo di quello che sopravenne168, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo ne’ termini ne’ quali 169 245 era , cominciò dolorosamente a piagnere. Al quale la donna disse: «Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa170, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente171 di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi172 che, poi a grado non 173 che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ’l mio corpo col 250 ti fu suo, dove che174 tu te l’abbi fatto gittare, morto palese stea175». L’angoscia del pianto176 non lasciò rispondere al prenze; laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi, strignendosi al petto il morto cuore, disse: «Rimanete con Dio177, ché io mi parto». E velati gli occhi e ogni senso perduto, di questa do255 lente vita si dipartì. Così doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete: li quali Tancredi dopo molto pianto e tardi pentuto178 della sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente ammenduni179 in un medesimo sepolcro gli180 fé sepellire. 240

167 come che: sebbene. 168 temendo… sopravenne: temendo che accadesse quello che poi accadde. 169 veggendo… era: vedendo le condizioni in cui si trovava. 170 serbati… che questa: riserva le tue lacrime per una sorte che sia meno da te desiderata di questa. È chiaro che Ghismonda accusa il padre di essere responsabile della tragedia. 171 niente: alcunché, almeno una piccola parte. 172 per ultimo.. concedi: concedimi come ultimo dono.

173 poi a grado non ti fu: poiché non ti fu gradito. 174 dove che: dovunque. 175 morto palese stea: il mio cadavere sia deposto pubblicamente, davanti a tutti (insieme al suo). 176 L’angoscia del pianto: il pianto angoscioso, cioè i singhiozzi di pianto (è in Dante: VN, XXIII, 19). 177 Rimanete con Dio: formula di saluto estremo. 178 pentuto: pentito. 179 ammenduni: entrambi. 180 gli: li.

Bernardino Mei, Ghismonda con il cuore di Guiscardo, olio su tela, 1650 ca. (Siena, Pinacoteca nazionale).

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Analisi del testo Uno straordinario personaggio femminile Tre sono i personaggi di questa novella: Tancredi, la figlia Ghismonda e l’amante di lei, Guiscardo. Su tutti spicca, per forza e carattere, la donna, dalla cui volontà scaturiscono le iniziative su cui si fonda la vicenda. In più punti Boccaccio sottolinea la personalità d’eccezione della giovane: alle doti canoniche di bellezza, leggiadria e gentilezza, Ghismonda unisce infatti qualità che solitamente non figurano nel normale “corredo” richiesto a una donna, specie se di alto rango. Ghismonda è descritta fin dall’inizio come «gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea», è coraggiosa, decisa, per nulla intimorita di fronte all’autorità paterna e dotata di eccellenti capacità oratorie, come si può vedere nel suo ampio discorso di autodifesa, appassionato ma nello stesso tempo controllatissimo. Allo stesso modo, nelle scelte che compie, Ghismonda associa passione e una spiccata razionalità, che le consente in ogni momento il controllo della situazione: il piano progettato per incontrarsi con l’amante (e descritto nei minimi particolari dal narratore) si rivela un vero capolavoro strategico, ma persino il suicidio appare come una scelta deliberata e consapevole, studiato da Ghismonda in ogni particolare, così da controllare persino la propria postura sul letto, assicurandosi che sia adeguatamente dignitosa: «quanto più onestamente seppe compose in corpo suo». Pur innamorata di Guiscardo, Ghismonda non si lascia trasportare dalla passione tanto da perdere il senso della realtà: sa di essere una persona in vista, è cosciente del proprio ruolo pubblico, si rende conto che una tresca con un uomo di umile condizione quale Guiscardo, se scoperta, nuocerebbe al buon nome del casato e al regno di suo padre. Agisce quindi in modo da salvare le apparenze, pur senza macchiarsi mai di ipocrisia: infatti, una volta scoperta, rifiuta di nascondersi dietro a scuse, bugie o suppliche, si assume anzi serenamente la responsabilità di ogni gesto compiuto e difende le proprie scelte respingendo con valide argomentazioni le accuse del padre.

Guiscardo, un personaggio di secondo piano Il personaggio di Guiscardo esiste solo in quanto amante di Ghismonda, da lei scelto; non prende alcuna iniziativa, limitandosi ad adeguarsi a quanto la donna si aspetta da lui. Anche nella gestione pratica dei loro incontri amorosi, è sempre Ghismonda a risolvere ogni problema: si dà da fare per aprire la porta del passaggio segreto che conduce alla grotta («molti dì con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse d’aprir quello uscio») ed è così precisa da indicare a Guiscardo l’altezza della grotta, in modo tale che l’uomo possa trovare il mezzo più adatto per calarvisi senza rischio di ferirsi. L’unica battuta concessa a Guiscardo («Amor può troppo più che né voi né io possiamo») ha più il valore di una formula astratta che di una reale espressione di volontà.

Un importante capitolo della “dottrina amorosa” di Boccaccio All’eroina tragica di questa novella è affidato il compito di enunciare uno dei capisaldi nell’ideologia del Decameron: l’irrefrenabilità del desiderio erotico, naturale bisogno della giovinezza che sarebbe stolto e assurdo ignorare. La giovane lo fa con placida sicurezza nel discorso che, con una logica stringente, smonta uno dopo l’altro i rimproveri a lei rivolti dal padre. Se ha deciso di concedersi a Guiscardo, afferma Ghismonda, non è per feminile fragilità, bensì per la scarsa sollecitudine del principe nel trovarle un marito e per le eccezionali virtù dell’uomo. Tancredi, uomo di carne, doveva ben sapere di aver generato una figlia anch’essa di carne, così come avrebbe dovuto ricordare quale sia la forza degli impulsi amorosi in un cuore giovane («le leggi della giovanezza»); è dunque per la sua miope noncuranza se Ghismonda si è trovata costretta a procurarsi con la propria intelligenza quello che le spettava. La giovane non è una ribelle, non rigetta le consuetudini del proprio rango e la morale che ne informa i comportamenti; al contrario, è pronta ad accettare il fatto che debba essere il padre a sceglierle un marito e, come lei stessa si premura di sottolineare, è ben attenta a tenere nascosti i propri incontri amorosi per non causare scandalo (rr. 10-14); inoltre sceglie il proprio amante «con diliberato consiglio» e «con avveduto pensiero», valutandone saggiamente il valore. Ma c’è una forza che travalica ogni imposizione, ogni norma sociale, ogni morale: è la forza del desiderio erotico, che Ghismonda qui afferma con spregiudicata franchezza. Ed è grande colpa di Tancredi quella di non averne tenuto conto, come gli rimprovera schiettamente sua figlia.

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Le ambiguità di Tancredi Antagonista di Ghismonda è il padre Tancredi, che per la sua posizione di principe dovrebbe rappresentare l’integrità dell’etica cortese; in realtà, con il proprio comportamento ne disattende alcuni tra i più importanti valori e sarà proprio la figlia a rimproverargli questo tradimento. Il principe infatti si lascia trasportare dalle passioni e da «signore assai umano e di benigno ingegno» si trasforma in uomo crudele e vendicativo; negli anni della vecchiezza egli cade in un peccato tremendo, macchiandosi le mani «nell’amoroso sangue». Oltre a ciò, contrariamente a Ghismonda, Tancredi si abbandona più volte al pianto, e per giunta davanti agli occhi della sua stessa figlia: una debolezza inaccettabile in un uomo della sua posizione. Se Ghismonda sfoggia sempre un regale autocontrollo, che neppure la morte dell’amato riesce a scalfire, l’atteggiamento del principe invece è paragonato addirittura a quello di «un fanciul ben battuto»: una similitudine davvero umiliante per un uomo di sangue nobile. All’origine di queste debolezze e di questa caduta morale troviamo il morboso attaccamento di Tancredi nei confronti della figlia, verso la quale nutre un amore senza limiti che, come Boccaccio ci lascia intuire, non è del genere che un padre dovrebbe provare verso la prole. Ghismonda «fu dal padre tanto teneramente amata quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai»: l’affermazione, che sembrerebbe un’iperbole scontata, allude a un sentimento pieno di ambiguità, ai limiti di una passione incestuosa, anche se Boccaccio mantiene al proposito una rigorosa reticenza e si limita a vaghissime allusioni. È questo amore “particolare” che impedisce a lungo a Tancredi di maritare la figlia, non «sappiendola da sé partire» e che, una volta vedova, gli impedisce di trovarle un nuovo sposo. Appare alquanto stravagante l’abitudine di Tancredi, «di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto»: nei castelli infatti altri erano i luoghi deputati alle conversazioni, e non è un caso se Boccaccio si sofferma a sottolineare questa singolare intimità; anche l’atteggiamento del principe che si trova a essere spettatore involontario degli amori tra Ghismonda e Guiscardo non sembra quello di un padre, ma ricorda più quello di un innamorato accecato dalla gelosia. L’uomo, «dolente a morte», decide subito che Guiscardo dovrà morire, senza appello, come farebbe un marito tradito che vuole solo eliminare il rivale: «prese partito di tacersi e di starsi nascoso, s’egli potesse, per potere più cautamente fare e con minor sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo di dover fare».

Esercitare le competenze comprendere e analizzare

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

SInTeSI 1. Presenta in sintesi (max 10 righe) il contenuto della novella e individua il tema centrale. coMPrenSIone 2. Quale stratagemma escogita Ghismonda per potersi incontrare con Guiscardo? A che cosa sono dovute tutte le sue precauzioni? AnALISI 3. Chi sono i personaggi principali e quali figure sociali rappresentano? 4. Il discorso di Ghismonda è una risposta lucida, ordinata e razionale alle accuse di Tancredi, riprese e demolite punto per punto. Individua nel testo i nodi attraverso cui si sviluppa questa autodifesa. LeSSIco 5. La figura di Tancredi è segnata costantemente dal pianto, mentre Ghismonda spicca per la dignità e il supremo controllo delle proprie reazioni. La differenza tra i due antagonisti traspare anche dal lessico utilizzato per descriverne i gesti e gli stati d’animo. Fornisci qualche esempio di questa differenza. ScrITTurA ArGoMenTATIVA 6. Ghismonda è considerata, oltre che una delle figure femminili più riuscite del Decameron, anche una delle più moderne. Condividi questo giudizio? Argomenta in un breve testo (10-15 righe). TeSTI A conFronTo 7. Sviluppa un confronto tra l’autodifesa di Ghismonda e le teorie sull’amore e sulla nobiltà (pensa in particolare allo Stilnovo) che erano diffuse nella cultura del tempo. ScrITTurA creATIVA 8. Prova a usare il copione narrativo della novella per scrivere un racconto in cui la tragica vicenda dei tre personaggi sia trasposta ai tempi d’oggi (ad es. i due innamorati potrebbero appartenere a diverse culture e/o diverse religioni).

Il Decameron 2 463


Giovanni Boccaccio

T7b

Lisabetta da Messina: una tragedia borghese

EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

Decameron IV, 5 G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

AUDIOLETTURA

Sempre nella quarta giornata Boccaccio rappresenta un nuovo caso di amore infelice che ha per protagonista una giovane donna: rispetto alla novella di Ghismonda, ci troviamo però qui nell’ambito borghese-mercantile. La protagonista, Lisabetta, sorella di tre ricchi mercanti messinesi (ma di origine toscana), ama il garzone Lorenzo e ne è appassionatamente riamata. I due non si curano di nascondere, come vorrebbero le convenienze, i loro incontri amorosi; i fratelli della ragazza scoprono la tresca e, preoccupati per lo scandalo che ne verrebbe al buon nome della famiglia, decidono di ricorrere a un rimedio drastico: eliminare l’ignaro Lorenzo. Ma la passione di Lisabetta non saprà spegnersi neanche di fronte alla morte dell’amato. Boccaccio mette in scena un vero e proprio dramma familiare, che ai toni del pathos amoroso affianca momenti di alta tensione e particolari macabri, degni di un racconto horror.

I FRATELLI D’ELLISABETTA UCCIDON L’AMANTE DI LEI: EGLI L’APPARISCE IN SOGNO E MOSTRALE DOVE SIA SOTTERATO; ELLA OCCULTAMENTE DISOTTERRA LA TESTA E METTELA IN UN TESTO DI BASSILICO1, E QUIVI SÙ PIAGNENDO OGNI DÌ PER UNA GRANDE ORA2, I FRATELLI GLIELE3 TOLGONO, E ELLA SE NE MUORE DI DOLOR POCO APPRESSO. […] Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il quale fu da San Gimignano4; e avevano una loro sorella chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata5, la quale, che che se ne fosse cagione6, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò questi tre 5 fratelli in un lor fondaco7 un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti8 guidava e faceva; il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte Lisabetta guatato9, avvenne che egli le incominciò stranamente10 a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori11, incominciò a porre l’animo a lei; e sì andò la bisogna12 10 che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi13, fecero di quello che più disiderava ciascuno14. E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare15, che una notte, andando Lisabetta là dove Lorenzo dormiva, che16 il maggior de’ fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse.

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testo di bassilico: vaso di terracotta, con una piantina di basilico. 2 per una grande ora: molto a lungo. 3 gliele: glielo. 4 San Gimignano: cittadina in provincia di Siena. 5 costumata: di nobile portamento e belle maniere. 6 che… cagione: qualunque ne fosse la motivazione.

7 fondaco: magazzino, con annessa bottega per la vendita al dettaglio. 8 fatti: affari. 9 guatato: guardato. 10 stranamente: in modo eccezionale. 11 lasciati… di fuori: messe da parte le sue altre storie d’amore. 12 bisogna: faccenda. 13 assicuratisi: sentendosi sicuri, tanto da abbandonare ogni precauzione.

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14 fecero… ciascuno: perifrasi per alludere al soddisfacimento del desiderio che entrambi provavano. 15 segretamente fare: tenere nascosti i loro incontri amorosi. 16 che… che: la ripetizione del che dopo un inciso è una caratteristica dello stile di Boccaccio.


Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere17, pur mosso da più onesto consiglio18, senza far motto19 o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò20. Poi, venuto il giorno, a’ suoi fratelli ciò che veduto aveva la passata notte d’Elisabetta e di Lorenzo raccontò; e con loro insieme, dopo lungo consiglio21, dili20 berò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o saputa22 infino a tanto che tempo venisse nel quale essi, senza danno o sconcio23 di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso24. E in tal disposizion dimorando25, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati 25 erano26, avvenne che, sembianti faccendo d’andare fuori della città a diletto27 tutti e tre, seco menaron28 Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro29, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva30, uccisono e sotterrarono in guisa che31 niuna persona se n’accorse. E in Messina tornatisi dieder voce d’averlo per loro bisogne mandato in alcun luogo32; il che leggiermente33 30 creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno usati34. Non tornando Lorenzo, e Lisabetta molto spesso e sollecitamente35 i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga gravava36, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente37, che l’uno de’ fratelli disse: «Che vuol dir questo? che hai tu a far di Lorenzo38, che tu ne domandi così spesso? Se tu ne 35 domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene39». Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse; e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e senza punto rallegrarsi sempre aspettando si stava. 40 Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava e essendosi alla fine piagnendo adormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato40 e co’ panni tutti stracciati e fracidi: e parvele che egli dicesse: «O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’atristi e me con le tue lagrime fieramente41 accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci42, per ciò 45 che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono». E disegnatole43 il luogo dove sotterato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve. 15

17 quantunque… ciò sapere: anche se scoprire la relazione della sorella gli aveva causato molta rabbia (il significato trecentesco di noioso era molto più ampio di quello odierno). 18 onesto consiglio: pensiero più cauto, adatto a difendere l’onore della famiglia. 19 far motto: pronunciare parola. 20 varie cose… trapassò: riflettendo sui vari aspetti di questo fatto, lasciò passare la notte. 21 consiglio: discussione. 22 diliberò… veduta o saputa: decise riguardo a questa faccenda, affinché (acciò che) non ne derivasse alcun disonore né a loro né alla sorella (sirocchia) di lasciar cadere la faccenda e di fingere di non aver veduto o saputo alcunché riguardo ad essa. 23 sconcio: scandalo.

24 questa… dal viso: prima che (avanti che) potesse progredire, si potessero togliere (torre) dal viso (cioè non veder più) questa vergogna. 25 in tal disposizion dimorando: fermi in tale proposito. 26 come usati erano: come erano soliti fare. 27 sembianti faccendo… a diletto: facendo finta di andare fuori città a spasso. 28 seco menaron: condussero con sé. 29 veggendosi il destro: presentatasi l’opportunità. 30 di ciò… prendeva: non aveva preso alcuna precauzione (non aspettandosi di potersi trovare in pericolo). 31 in guisa che: in modo che. 32 dieder voce… luogo: misero in giro la voce di averlo mandato per affari in un certo luogo.

33 leggiermente: senza alcuna difficoltà. 34 per ciò… usati: dato che spesso erano abituati a mandarlo in giro. 35 sollecitamente: con premura, manifestando preoccupazione. 36 la dimora lunga gravava: pesava il lungo ritardo. 37 instantemente: con insistenza. 38 che hai… di Lorenzo: che hai tu a che fare con Lorenzo? (cioè: che te ne importa di Lorenzo?). 39 Se tu ne domanderai… conviene: se tu chiederai ancora di lui, ti daremo la risposta che ti meriti. 40 rabbuffato: scarmigliato. 41 fieramente: duramente. 42 ritornarci: ritornare qui. 43 disegnatole: indicatole.

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La giovane, destatasi e dando fede44 alla visione, amaramente pianse. Poi la mattina levata45, non avendo ardire di dire alcuna cosa a’ fratelli, propose46 di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l’era paruto47. E avuta la licenzia d’andare alquanto fuor della terra a diporto48, in compagnia d’una che 50 altra volta con loro era stata49 e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto50 poté là se n’andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò51; né ebbe guari52 cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto53: per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa54, conoscendo che quivi non 55 era da piagnere55, se avesse potuto volentier tutto il corpo n’avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che poté gli spiccò dallo ’mbusto56 la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata, e la terra sopra l’altro corpo57 gittata, messala in grembo alla fante58, senza essere stata da alcun veduta, quindi59 si dipartì e tornossene a casa sua. 60 Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di questi ne’ quali si pianta la persa60 o il basilico, e dentro la vi61 mise fasciata in un bel drappo; e poi messavi sù la terra, sù vi piantò parecchi piedi62 di bellissimo bassilico salernetano, e quegli da niuna altra 65 acqua che o rosata o di fior d’aranci63 o delle sue lagrime non innaffiava giammai. E per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vicina e quello con tutto il suo disidero vagheggiare64, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso65: e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene cominciava a piagnere, e per lungo spazio66, tanto che tutto il basilico bagnava, piagnea. 70 Il basilico, sì per lo lungo e continuo studio67, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v’era, divenne bellissimo e odorifero molto; e servando la giovane questa maniera del continuo68, più volte da’ suoi vicin fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti69, il disser loro: «Noi ci siamo accorti che ella ogni dì tiene 75 la cotal maniera70». Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando71, nascosamente da lei fecero portar via questo testo; il quale non ritrovando ella con grandissima instanzia72 molte volte richiese, e non essendole renduto73, non cessando il pianto e le lagrime, infermò74, né altro che il testo suo nella infermità domandava. I giovani si maravigliavan forte di questo adimandare,

44 dando fede: credendo. 45 levata: alzatasi (è riferito a Lisabetta). 46 propose: decise. 47 paruto: apparso. 48 avuta la licenzia… a diporto: avuto il permesso di andare per un tratto fuori città, per svago, per fare una passeggiata. 49 d’una che… era stata: di una che era già stata al loro servizio. 50 quanto più tosto: quanto più in fretta. 51 cavò: scavò. 52 guari: a lungo. 53 guasto né corrotto: intaccato né decomposto. 54 Di che… dolorosa: Della qual cosa addolorata più di ogni altra donna.

55 conoscendo… da piagnere: rendendosi conto che non era né il luogo né il momento per dilungarsi in pianti. 56 spiccò dallo ’mbusto: staccò dal busto. 57 l’altro corpo: il resto del corpo. 58 messala… fante: datala fra le braccia della sua cameriera. 59 quindi: da quel luogo. 60 persa: maggiorana. 61 la vi: ve la. 62 parecchi piedi: parecchie piantine. 63 o rosata… d’aranci: (acqua) di rose o aromatizzata con fiori d’arancio. 64 vagheggiare: trattare con affetto. 65 nascoso: nascosto. 66 spazio: tempo.

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67 studio: cura. 68 servando… del continuo: sempre mantenendo la giovane questo comportamento. 69 maravigliandosi… fuggiti: poiché i fratelli si stupivano che Lisabetta fosse tanto sciupata e dimagrita (della sua guasta bellezza) e che per questo gli occhi incavati pareva le uscissero dalle orbite. 70 tiene la cotal maniera: si comporta così. 71 avendonela… non giovando: avendola rimproverata alcune volte senza risultato. 72 instanzia: insistenza. 73 renduto: restituito. 74 infermò: si ammalò.


e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancora sì consumata, che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei essere quella di Lorenzo75. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non76 questa cosa si risapesse: e sotterrata quella77, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono78, se n’andarono a Napoli. 85 La giovane non restando79 di piagnere e pure il suo testo adimandando80, piagnendo si morì, e così il suo disaventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo81 divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcun che compuose quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè: Qual esso fu lo malo cristiano, 90 che mi furò la grasta, et cetera82. 80

75 alla capellatura… di Lorenzo: dalla

78 ordinato… ritraessono: disposto ogni

82 Qual esso… et cetera: chi fu l’uomo

capigliatura non riconoscessero che la testa (lei) era quella di Lorenzo. 76 temettero non: temettero che (solito costrutto latineggiante). 77 quella: la testa.

loro affare come chi sta per andarsene dalla città. 79 non restando: non smettendo. 80 pure… adimandando: chiedendo in continuazione il suo vaso. 81 a certo tempo: dopo un certo tempo.

cattivo / che mi rubò il vaso (grasta), e così via (latino et cetera: è il seguito non riportato dei versi). Questo citato da Boccaccio è l’inizio di un antico canto siciliano, diffuso anche in altre zone dell’Italia del Sud.

Analisi del testo Uno scenario borghese per una tragica vicenda d’amore Dopo la quarta novella, che si svolgeva alla corte del re di Sicilia, la narrazione, all’interno della quarta giornata, si sposta verso un’ambientazione più bassa. Filomena, la narratrice, precisa però che non per questo la novella sarà men pietosa agli occhi dei lettori: nella visione di Boccaccio la capacità del sentire non è una conseguenza diretta del livello sociale, ed è possibile che a un animo nobile corrisponda una condizione sociale non elevata e addirittura umile. A questo proposito vale la pena notare che l’altalenare di scenari appartenenti a diversi livelli sociali è caratteristico della quarta giornata: delle nove novelle dedicate agli amori infelici (la decima è raccontata da Dioneo, che si avvale della solita deroga al tema del giorno), la prima, la quarta e la nona si svolgono in ambienti nobili; la settima appartiene al mondo del popolo basso mentre tutte le altre hanno uno scenario di tipo borghese o mercantile. Una scelta non casuale nella giornata dedicata agli amori infelici, tutta dipinta nei toni cupi della tragedia: Boccaccio intende far agire davanti agli occhi dei lettori la forza dirompente del sentimento amoroso e dimostrare che la sua potenza travalica qualsiasi confine sociale.

Il tema del desiderio erotico e dei diritti del corpo Il rapporto tra i due giovani ritratto nella novella è tutto improntato alla fisicità, senza alcun accenno a una più alta comunione di spiriti. Tra Lisabetta e Lorenzo la passione è esclusivamente fisica, vissuta con immediatezza e semplicità. Del resto, come si è già potuto vedere analizzando la novella di Tancredi e Ghismonda, nella visione innovativa del Decameron il corpo, in ogni sua espressione e con tutti i bisogni a esso connaturati, rappresenta un valore pieno e autonomo, da cui l’uomo non può prescindere se vuole raggiungere una piena felicità. La soddisfazione del desiderio erotico si inserisce come naturale conseguenza in questo nuovo sistema di valori.

Lisabetta: un’eroina romantica Lisabetta, che muore consumandosi in lacrime per l’amato perduto, precorre in qualche modo le eroine dell’età romantica: il suo personaggio è tutto improntato alla realtà del sentimento, la donna esiste solo perché ama ed è riamata. Non a caso, Lisabetta non pronuncia una sola parola nel corso dell’intera novella: conosciamo il suo carattere solo attraverso i gesti e le azioni, che sono quelli di una donna prima innamorata, poi dubbiosa e infine disperata. A rendere più marcato l’alone di romanticismo che circonda questo personaggio è anche il motivo del vaso di basilico, un elemento quasi favolistico che stempera con una pennellata patetica il tono cupo e macabro della novella.

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La fiduciosa vitalità della passione amorosa Nella novella si delineano due campi d’azione ben distinti, legati a due diversi sistemi di valori: il primo è quello di Lisabetta e di Lorenzo, dominato dalla passione, il secondo appartiene invece ai fratelli della ragazza, che conformano il proprio agire al calcolo delle convenienze. I giovani amanti vivono il proprio amore con spontaneità e gioioso trasporto; anche la sintassi del passo in cui si descrive l’innamoramento dei due, costruito attraverso una significativa giustapposizione di proposizioni causali e consecutive, rispecchia la stringente ineluttabilità che porta l’una nelle braccia dell’altro: Lisabetta nota la singolare bellezza di Lorenzo, poi se ne invaghisce; Lorenzo se ne accorge, quindi mette da parte tutti gli altri suoi amori e decide di dedicarsi unicamente a Lisabetta, e infine i ragazzi «fecero di quello che più disiderava ciascuno», splendida perifrasi per il nascere della relazione amorosa. Lisabetta e Lorenzo agiscono senza sotterfugi, in piena fiducia: basta quel semplice e velocissimo participio passato, assicuratisi, a indicare la loro sicurezza carica di ottimismo, che poi sarà crudelmente smentita dai fatti. Quando Lorenzo parte con i fratelli di Lisabetta, il suo assassinio può consumarsi con facilità proprio perché lui «di ciò niuna guardia prendeva».

L’etica disumana dell’interesse e delle convenzioni sociali Al contrario, il comportamento dei fratelli è tutto all’insegna del calcolo e della dissimulazione. Il maggiore, quando si accorge della tresca, ragiona con freddezza decidendo alla fine di non intervenire subito e di tenere nascosto quanto ha scoperto; questa risoluzione viene presentata con un periodo lungo e composito, quasi faticoso nel suo procedere, che rende bene lo stato d’animo agitato e dubbioso del fratello, assai diverso dalla spontaneità di Lisabetta: «per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò»; anche il conciliabolo tenuto con i fratelli per decidere il da farsi appare altrettanto complicato, tutto volto a far sì che «questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso». Allo stesso modo, quando essi scoprono il macabro segreto nascosto nel vaso di basilico, la loro prima preoccupazione non è dettata dall’affetto e dalla compassione per la sorella malata d’amore; essi «temettero non questa cosa si risapesse» e quindi fuggirono a Napoli, non senza aver prima provveduto a trasferirvi tutti i loro affari. Anche nel momento della tragedia, il loro atteggiamento appare dunque misurato e avveduto, proteso a tutelare gli interessi della famiglia e salvare le apparenze. È il lato più freddo e disumano di quell’etica mercantile che altrove Boccaccio sottoscrive, ma di cui non vuole nascondere limiti e difetti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Dividi in sequenze la novella e dai a ognuna di esse un titolo. COMPRENSIONE 2. Che cosa decidono di fare i fratelli di Lisabetta quando scoprono l’amore tra i due giovani? Perché? 3. In che modo Lisabetta viene a sapere della morte di Lorenzo? ANALISI 4. Perché, quando scoprono ciò che è nascosto nel vaso di basilico, i fratelli di Lisabetta decidono di fuggire? LESSICO 5. Analizza la novella dal punto di vista lessicale e individua i vocaboli e le espressioni appartenenti al campo semantico della sofferenza e del pianto. Spiega le motivazioni di questa scelta lessicale. Quale concezione dell’amore puoi rilevare dalla novella?

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 6. Svolgi una ricerca in Internet riguardo alla celebre coppia di Abelardo ed Eloisa (max 3 righe).

468 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


TeSTI A conFronTo 7. Si possono riscontrare numerose analogie tra il personaggio di Lisabetta e quello di Ghismonda: entrambe scelgono liberamente di dare libero corso al proprio amore per un uomo, entrambe sono violentemente contrastate dalla famiglia, entrambe vedono concludersi tragicamente la propria relazione. Eppure, sono anche molto diverse tra loro: prova a costruire un profilo comparativo delle due donne. Poi sintetizza i dati raccolti in una doppia presentazione dei due personaggi femminili (max 20 righe). ScrITTurA creATIVA 8. Riscrivi la novella provando a raccontarla dal punto di vista di Lisabetta. ScrITTurA EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Costituzione

competenza 3

9. Lisabetta nel corso della novella non prende mai la parola: questo espediente fa comprendere lo stato di soggezione di Lisabetta nei confronti dei fratelli. Emerge con forza però che, nonostante sia sottoposta al volere dei suoi fratelli, è dotata di grande forza d’animo e lo dimostra con i suoi gesti. Esamina nel testo i passaggi che dimostrano la ribellione di Lisabetta allo stato delle cose, una ribellione condotta in silenzio ma che fa sì che alla fine della novella i fratelli risultino i perdenti.

Studiare con l'immagine 10. L’immagine riprodotta sintetizza i momenti più significativi della novella di Lisabetta da Messina. Rispondi alle domande e poi fai una sintesi della vicenda (max 10 righe), sulla base anche della miniatura. a. Individua le scene raffigurate: quante sono? Scrivi una breve didascalia all’immagine. b. Esamina i personaggi raffigurati, gli oggetti, le azioni che svolgono: di chi si tratta? c. Quali luoghi è possibile distinguere? Sono realistici?

Miniatura del XV secolo (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

online T7c Giovanni Boccaccio Simona e Pasquino: una tragedia popolana Decameron IV, 7

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T8

Eros e comicità Tra i temi presenti nel Decameron c’è sicuramente l’amore, rappresentato senza censure morali. L’autore considera questo sentimento come una forza naturale, peraltro sempre legata all’appagamento fisico. Nelle due novelle che seguono, esso è abbinato anche ad aspetti comici. Molto spesso Boccaccio, più che essere interessato alla materia erotica in sé e per sé, è attratto piuttosto dal tema della beffa e dalla possibilità di sperimentare con lucida razionalità complessi meccanismi narrativi, che rendono piacevole la lettura dell’opera.

Giovanni Boccaccio

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La badessa e le brache Decameron IX, 2

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

La breve novella, narrata da Elissa, appartiene alla nona giornata, in cui i narratori possono scegliere un tema libero. Grazie a una risposta arguta e con l’aiuto della buona sorte, una giovane e bellissima monaca riesce a volgere in suo favore una situazione per lei molto difficile. Alla badessa, sorpresa nel medesimo peccato in cui era caduta la giovane suora, non rimane che fare buon viso a cattivo gioco, affermando la potenza invincibile dei richiami della carne ed esortando le converse a goderne tutti i piaceri, come del resto «infino a quel dì fatto s’era». La novella mette alla berlina l’ipocrisia delle regole monastiche, rispettate solo nelle apparenze.

LEVASI UNA BADESSA IN FRETTA E AL BUIO PER TROVARE UNA SUA MONACA, A LEI ACCUSATA1, COL SUO AMANTE NEL LETTO; E ESSENDO CON LEI UN PRETE, CREDENDOSI2 IL SALTERO DE’ VELI3 AVER POSTO IN CAPO, LE BRACHE DEL PRETE VI SI POSE; LE QUALI VEDENDO L’ACCUSATA E FATTALANE ACCORGERE4, FU DILIBERATA5, E EBBE AGIO DI STARSI COL SUO AMANTE. [...] Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione6, nel quale, tra l’altre donne monache che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dì a un suo parente alla grata venuta7, d’un bel giovane che con 5 lui era s’innamorò; e esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto8, similmente di lei s’accese: e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto9 sostennero. Ultimamente10, essendone ciascuno sollecito11, venne al giovane veduta una via12 da potere alla sua monaca occultissimamente13 andare; di che ella contentandosi14, 10 non una volta ma molte con gran piacer di ciascuno la visitò.

1 2

a lei accusata: a lei denunciata. credendosi: credendo. Il soggetto è la badessa. 3 saltero de’ veli: veli delle suore disposti in modo da formare un triangolo, simile per forma al salterio, un antico strumento musicale. 4 fattalane accorgere: fatta accorgere la badessa della cosa. 5 fu diliberata: fu sciolta dall’accusa.

6 di santità e di religione: (pieno) di santità e di devozione religiosa. Premessa dichiaratamente ironica, tenuto conto della vicenda alquanto scabrosa narrata nella novella. 7 essendo... venuta: essendo venuta un giorno alla grata per salutare un suo parente giunto a visitarla. La grata è l’inferriata che nei monasteri separa le stanze della clausura dallo spazio esterno.

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8 concetto: concepito. 9 senza frutto: senza poterlo consumare. 10 Ultimamente: infine. 11 sollecito: desideroso. 12 venne al giovane veduta una via: al giovane capitò di vedere una via. 13 occultissimamente: in gran segreto. 14 contentandosi: essendo contenta.


Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne di là15 entro fu veduto, senza avvedersene e egli o ella, dall’Isabetta partirsi e andarsene. Il che costei con alquante altre comunicò16; e prima ebber consiglio17 d’accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna se15 condo la oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo18, di volerla far cogliere col giovane alla badessa; e così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono19 per incoglier20 costei. Or, non guardandosi l’Isabetta da questo21 né alcuna cosa sappiendone, avvenne che 20 ella una notte vel fece venire22, il che tantosto23 sepper quelle che a ciò badavano; le quali, quando a lor parve tempo, essendo già buona pezza di notte24, in due si divisero, e una parte se ne mise a guardia dell’uscio della cella dell’Isabetta e un’altra n’andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l’uscio, a lei che già rispondeva dissero: «Sù, madonna25, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato che 25 l’Isabetta ha un giovane nella cella». Era quella notte la badessa accompagnata d’un prete il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire. La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose tanto l’uscio sospignessero, che egli s’aprisse26, spacciatamente27 si levò suso e come il meglio seppe si vestì al buio; e credendosi 30 torre certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamangli il saltero, le venner tolte28 le brache del prete; e tanta fu la fretta, che senza avvedersene in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì fuori e prestamente l’uscio si riserrò dietro dicendo: «Dove è questa maladetta da Dio?» E con l’altre, che sì focose e sì attente erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non 35 s’avvedieno29, giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in terra30: e entrate dentro nel letto trovarono i due amanti abbracciati. Li quali, da così subito sopraprendimento31 storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi. La giovane fu incontanente dall’altre monache presa e per comandamento della badessa menata in capitolo32. Il giovane s’era rimaso; e vestitosi aspettava di veder che fine la cosa 40 avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco33. La badessa, postasi a sedere in capitolo in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania34 che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità, l’onestà, la buona 45 fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere35, se di fuor si sapesse, contaminate avea: e dietro alla villania aggiugnea gravissime minacce. 15 una delle donne di là: una delle monache. 16 Il che... comunicò: il che riferì ad alquante altre monache. 17 ebber consiglio: presero la decisione. 18 acciò... luogo: perché non fosse possibile a Isabetta negare le accuse. 19 tra sé le vigilie... partirono: si suddivisero i turni di veglia e di guardia. 20 incoglier: cogliere sul fatto. 21 non guardandosi l’Isabetta da questo: poiché Isabetta non prestava alcuna attenzione a questo pericolo, non aspettandoselo.

22 vel fece venire: ve (cioè nel monastero) lo (ossia il suo amante) fece venire. 23 tantosto: subito. 24 essendo... notte: essendo già notte avanzata. 25 madonna: formula deferente. 26 temendo... s’aprisse: temendo forse che la porta, picchiata con troppa foga dalle volonterose monache, finisse per aprirsi. temendo non è un costrutto latineggiante. 27 spacciatamente: in fretta e furia. 28 le venner tolte: le vennero alla mano, le capitò di prendere.

29 non s’avvedieno: non si accorsero. 30 pinse in terra: abbatté. 31 sopraprendimento: sorpresa. 32 menata in capitolo: condotta nella sala consiliare. Questo era il luogo dove si riuniva solitamente la comunità di religiose. 33 con intenzione... con seco: deciso a difendere in ogni modo la sua amata, nel caso che le venisse fatto del male, ed eventualmente a portarla via con sé. 34 villania: offesa. 35 opere: azioni.

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La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole non sapeva che si rispondere, ma tacendo di sé metteva compassion nell’altre: e, multiplicando pur la badessa in novelle36, venne alla giovane alzato il viso37 e veduto ciò che la badessa aveva in 50 capo e gli usulieri38 che di qua e di là pendevano: di che ella, avvisando39 ciò che era, tutta rassicurata40 disse: «Madonna, se Dio v’aiuti, annodatevi la cuffia e poscia41 mi dite ciò che voi volete». La badessa, che non la ’ntendeva, disse: «Che cuffia, rea femina? ora hai tu viso42 da motteggiare43? parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo?44» 55 Allora la giovane un’altra volta disse: «Madonna, io vi priego che voi v’annodiate la cuffia; poi dite a me ciò che vi piace»; laonde45 molte delle monache levarono il viso al capo della badessa e, ella similmente ponendovisi le mani, s’accorsero perché l’Isabetta così diceva. Di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto 60 era né aveva ricoperta46, mutò sermone47 e in tutta altra guisa che fatto non aveva cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere48; e per ciò chetamente49, come infino a quel dì fatto s’era, disse che ciascuna si desse buon tempo50 65 quando potesse; e liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l’Isabetta col suo amante. Il quale poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fé venire; l’altre che senza 70 amante erano, come seppero il meglio51, Un frame del film Meraviglioso Boccaccio (2015) dei segretamente procacciaron lor ventura52. registi Paolo e Vittorio Taviani, ispirato a cinque novelle del Decameron, fra cui la seconda della nona giornata.

36 multiplicando... in novelle: mentre la badessa si diffondeva sempre più in chiacchiere. 37 venne alla giovane alzato il viso: la giovane per caso alzò lo sguardo. 38 usulieri: legacci. 39 avvisando: capendo. 40 tutta rassicurata: riacquistata la fiducia in sé stessa. 41 poscia: poi.

42 viso: coraggio, faccia tosta. 43 motteggiare: scherzare, fare battute. 44 parti... ci abbian luogo?: ti pare di aver fatto una cosa tale che siano opportuni gli scherzi? 45 laonde: quindi. 46 ricoperta: modo di nascondere la cosa. 47 mutò sermone: cambiò il suo discorso. 48 e conchiudendo... difendere: e venne

concludendo che era impossibile potersi difendere dagli stimoli della carne. 49 chetamente: con discrezione, senza dare scandalo. 50 si desse buon tempo: si divertisse. 51 come seppero il meglio: quando appresero una vita migliore (di quella che facevano). 52 segretamente... ventura: segretamente procurarono il loro piacere.

Analisi del testo Un’irriverente parabola La breve novella, raccontata da Elissa, si presenta come una versione laica – e alquanto irriverente – della parabola evangelica della pagliuzza e della trave nell’occhio (Luca 6, 41-42 e 45). Proprio questo, infatti, afferma Elissa, la narratrice, nell’introduzione al racconto (qui non riportata): alcuni, pur essendo stoltissimi, pretendono di insegnare al prossimo, e di farsene addirittura gastigatori. Ma nell’etica immanente e tutta materiale di Boccaccio la fortuna interviene a rimettere le cose a posto, colpendo con la vergogna l’ipocrisia di costoro, rappresentati dalla figura della badessa. La novella ha l’immediatezza e la brevità folgorante di una parabola: si svolge tutta nel medesimo luogo, un «famosissimo monistero di santità e religione» situato in Lombardia, del quale veniamo a conoscere tre ambienti: il parlatorio (dove è la grata attraverso cui Isabetta scorge il bel giovane e se ne innamora), le celle delle monache e il capitolo, cioè la sala di riunioni della comunità. Anche il sistema dei personaggi è abbastanza semplice: Isabetta e la badessa occupano quasi tutta la scena, sullo sfondo si muovono le altre suore, mentre l’amante di Isabetta, e soprattutto il prete che si trovava in compagnia della badessa la notte dello svelamento, sono semplici comparse.

472 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


Un sistema di valori inedito Isabetta e la badessa si macchiano del medesimo peccato di lussuria, ma nulla viene detto per condannare la loro condotta: nella visione di Boccaccio il desiderio carnale è un istinto insopprimibile della natura umana, e sarebbe follia il cercare di soffocarlo. Avvertiamo invece una sottile velatura ironica nella presentazione della badessa Usimbalda, descritta come «buona e santa donna secondo la oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea»; il lettore scoprirà ben presto che l’effettiva condotta della religiosa non corrisponde all’opinione comune. Per altro, alla fine, la badessa appare come un personaggio positivo, per l’intelligenza dimostrata nel reagire con fulminea versatilità a una situazione difficile e imbarazzante: «avvedutasi del suo medesimo fallo [e qui il narratore non si riferisce al peccato della carne, ma alla distrazione che le ha fatto prendere le brache al posto del velo] e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone e in tutta altra guisa che fatto non aveva cominciò a parlare». La capacità di adattare parole e atteggiamenti alle varie situazioni, e di farlo senza indugi o tentennamenti, è apprezzata da Boccaccio come segno evidente dell’ingegno, che occupa un posto prioritario nel suo sistema di valori. In parte questo vale anche per la coraggiosa autodifesa della giovane Isabetta. Quella che invece viene condannata senza possibilità di appello è l’invidia che anima le altre monache nelle loro laboriose indagini ai danni di Isabetta. In nessun punto della novella si insinua il dubbio che le donne possano aver agito mosse da una preoccupazione sincera per la reputazione del convento; in realtà nulla viene detto apertamente sulla reale natura delle loro intenzioni, se non nelle ultime righe («in dispetto di quelle che di lei avevano invidia»); acquista però un sapore comico, quasi da farsa, il loro affannarsi frenetico per “incastrare” Isabetta, organizzando turni e veglie con piglio quasi militaresco. E alla luce di quanto viene detto alla fine della novella, non è da escludere un certo gusto voyeuristico in questo volere a tutti i costi cogliere la consorella in flagrante con l’amante.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la novella in meno di cinquanta parole. COMPRENSIONE 2. Indica il tema principale della novella. 3. In quale modo è scoperta Isabetta? TECNICA NARRATIVA 4. Chi sono i personaggi principali? Chi è il protagonista? E l’antagonista? 5. In quali luoghi si svolge la vicenda? LESSICO 6. Trova, per ciascuno dei seguenti termini, almeno due sinonimi che riprendano il significato con cui essi sono utilizzati nella novella: noia – leggiadramente – sollecito – incogliere – focose – sermone.

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 7. Dopo aver letto con attenzione l’approfondimento Boccaccio, la materia erotica e il “boccaccesco” scrivi se condividi o meno il giudizio espresso da Moravia nel passo che segue e perché.

«È errato, a parere nostro, definire il Boccaccio uno scrittore erotico. Invero l’amore non interessa gran che il Boccaccio, sebbene la maggioranza delle novelle del Decameron passi per novelle d’amore. L’amore vi figura soltanto, qual è in realtà, come una delle molle più importanti dell’azione umana; ma, scattata la molla, l’attenzione del Boccaccio si volge esclusivamente all’azione. Insomma l’amore non è visto che come una sottospecie dell’azione, vagheggiabile non più di tante altre. A riprova si veda come il Boccaccio non conosca l’amore normale, sentimentale, psicologico; l’amore per lui non ha sapore se non è avventuroso, difficile, pieno di peripezie e di equivoci». A. Moravia, L’uomo come fine, Bompiani, Milano 1964

online T8b Giovanni Boccaccio La notte degli equivoci Decameron IX, 6

online

Verso l'esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giovanni Boccaccio Peronella (Decameron VII, 2)

Il Decameron 2 473


PER APPROFONDIRE

Boccaccio, la materia erotica e il “boccaccesco” La presenza di un cospicuo numero di novelle apertamente licenziose (circa un quarto sul totale) contribuì senza dubbio all’immediata fortuna del Decameron presso il ceto mercantile, ma nel tempo non giovò sicuramente a un corretto giudizio sull’opera del grande scrittore, che finì per essere riduttivamente considerato “lo scrittore erotico” per antonomasia: l’aggettivo “boccaccesco” è tuttora usato come sinonimo di storia erotica o addirittura espressamente oscena. Nel periodo della Controriforma (➜Il Decameron nel tempo, PAG. 505) fu proprio la componente licenziosa dell’opera (oltre naturalmente ai molteplici spunti anticlericali in essa presenti) a indurre i censori prima a inserire il Decameron nell’Indice dei libri proibiti e poi a procedere a edizioni “purgate” dell’opera, che ne snaturavano completamente il senso. Del resto fu lo stesso Boccaccio, colto da scrupoli morali e religiosi, a divenire “censore” di sé stesso, rinnegando di fatto il suo capolavoro e ritrattando in un’opera arcigna e misogina, il Corbaccio, la libera espressione dell’eros presente nel Decameron. Certamente l’autore non dimostra alcun imbarazzo di fronte alla materia erotica e la rappresenta con piena naturalezza; ma è bene precisare che il suo atteggiamento è sempre di elegante distacco, di sorridente superiorità, per cui non risulta mai veramente coinvolto nella materia rappresentata, né tanto meno indulge a un atteggiamento di volgare compiacimento.

Inoltre lo scrittore attenua le punte estreme dello stile comico e rifiuta la “comicità” grassa che era stata propria dei fabliaux: se, infatti, in queste opere organi e atti sessuali erano nominati senza perifrasi, Boccaccio usa nelle scene di sesso (ma anche negli argomenti “basso-corporei”, ovvero scatologici) forme di «parlar coperto» (Bruni): utilizza cioè una ricca produzione di metafore maliziose, di doppi sensi che gli consentono di evitare in genere il termine triviale anche quando il soggetto lo richiederebbe. L’eleganza dello stile riscatta dunque a una superiore dignità artistica anche gli argomenti più bassi. Al proposito è stato giustamente osservato che Boccaccio «oltre che un codice di rappresentazione mimetico, onnicomprensivo della realtà» fonda anche «il codice etico del comico, la sua moralità letteraria» (Borsellino). Non bisogna inoltre dimenticare che molto spesso il novelliere si serve della materia erotica solo strumentalmente: più che all’eros in sé e per sé, egli è interessato piuttosto ai temi della beffa e del rovesciamento dei ruoli sociali o, ancor più, a sperimentare con lucida razionalità complessi meccanismi narrativi, che procurano al lettore colto un piacere di tipo prettamente intellettuale. È il caso di una novella che solo arbitrariamente può essere considerata erotica: quella della bella Alatiel (II, 7), la principessa che conosce una serie incredibile di avventure amorose per giungere infine “vergine” al matrimonio con il re del Garbo.

Maestro dei cassoni Jarves, Storie di Alatiel, tempera su tavola, sec. XV (Venezia, Museo Correr).

Illustrazioni di miniatore fiorentino nell’apparato decorativo del Decameron, manoscritto Italien 63, fogli 249 e 267, sec. XV (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

474 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


T9

Mondo borghese-mercantile e mondo cavalleresco

Nel Decameron di Boccaccio sono rappresentanti sia il mondo borghese-mercantile, che lui aveva conosciuto bene grazie all’esperienza napoletana con il padre, sia il mondo cavalleresco, con cui era venuto in contatto presso la corte di Roberto d’Angiò a Napoli. Del mondo mercantile l’autore apprezza l’industria e online l’operosità, ma riesce a vedere anche i limiti della “ragion di T9a Giovanni Boccaccio mercatura”, come raccontato nella novella Lisabetta da Messina Il ritmo della fortuna/il ritmo del mare: Landolfo Rufolo (➜ T7b ); del mondo cavalleresco ama, invece, la cortesia; ma ciò a Decameron II, 4 cui Boccaccio realmente aspira è una fusione fra le due culture.

Analisi passo dopo passo

T9b

Giovanni Boccaccio

La formazione di un mercante: Andreuccio da Perugia

LEGGERE LE EMOZIONI

Decameron II, 5 G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

Andreuccio, giovane inesperto e provinciale, si reca a Napoli per comprare dei cavalli: ma nella grande città sarà vittima di svariate disavventure. La fortuna lo sottopone infatti a molte prove, attraverso le quali si compirà la sua maturazione. Così, da uomo «rozzo e poco cauto» che era, Andreuccio potrà tornare a Perugia come mercante avveduto e scaltro, avendo realizzato i propri interessi, anche se non nella maniera prevista.

ANDREUCCIO DA PERUGIA, VENUTO A NAPOLI A COMPERAR CAVALLI, IN UNA NOTTE DA TRE GRAVI ACCIDENTI SOPRAPRESO1, DA TUTTI SCAMPATO CON UN RUBINO SI TORNA A CASA SUA. – Le pietre da Landolfo trovate2 – cominciò la Fiammetta, alla quale del novellare la volta toccava – m’hanno alla memoria tornata una novella non guari meno3 di pericoli in sé contenente che la narrata dalla Lauretta, ma in tanto differente da 5 essa, in quanto quegli forse in più anni e questi nello spazio d’una sola notte addivennero, come udirete. Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone4 di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in 10 borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai più5 fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò: dove giunto una domenica sera in sul vespro, dall’oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato6, e molti ne vide e assai ne

1 2

soprapreso: sorpreso. Le pietre da Landolfo trovate: il riferimento è alla novella precedente, che ha per protagonista lo scaltro Landolfo Rufolo il quale, divenuto corsaro per recu-

perare le ricchezze perdute, fa naufragio e si salva aggrappandosi a una cassa che si scoprirà essere colma di pietre preziose. 3 non guari meno: niente affatto meno. 4 cozzone: sensale.

1. Il protagonista è tratteggiato in modo molto sintetico, esclusivamente funzionale alla vicenda narrata: se ne individua solo la giovane età, la provenienza (Perugia) e il mestiere (sensale di cavalli). Molto importanti, ai fini dello svolgimento dell’avventura, sono l’inesperienza («non essendo mai più fuori casa stato») e l’ingenuità («rozzo, poco cauto»), che inducono il giovane a esibire sconsideratamente la borsa di fiorini. È da questa colpevole mossa che prenderà le mosse l’intreccio avventuroso della novella.

5 mai più: mai. Il più è pleonastico. 6 Mercato: Boccaccio si riferisce alla piazza che porta questo nome, dove nel 1268 ebbe luogo l’esecuzione di Corradino di Svevia.

Il Decameron 2 475


gli piacquero e di più e più mercato tenne7, né di niuno poten15 dosi accordare8, per mostrare che per comperar fosse9, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva. E in questi trattati10 stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana11 bellissima, ma disposta 20 per piccol pregio12 a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: «Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?» e passò oltre. Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre 25 la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a attendere. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala13, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all’albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone14, si 30 partì: e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente comperò la mattina. La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza15 della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o 35 donde16 e che quivi facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa così particularmente17 de’ fatti d’Andreuccio le disse come avrebbe per poco18 detto egli stesso, sì come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse19 e perché venuto fosse. 40 La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi, al suo appetito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione20; e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda21 per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa 45 assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all’albergo dove Andreuccio tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò. Alla quale dicendole egli che era desso22, essa, tiratolo da parte, disse: «Messere, una 50 gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria23 volentieri». Il quale vedendola, tutto postosi mente e parendo-

7 e di più... tenne: e su molti cavalli intavolò delle trattative. 8 né di niuno potendosi accordare: non riuscendo a trovare un accordo su nessuno di loro. 9 mostrare... fosse: manifestare che era intenzionato a comprare. 10 trattati: trattative. 11 ciciliana: siciliana. Forma assai diffusa

nel Trecento.

12 pregio: prezzo. 13 conosciutala: riconosciutala. 14 senza... sermone: senza soffermarsi troppo a parlare in quel luogo.

15 contezza: familiarità. 16 donde: da dove venisse. 17 particularmente: dettagliatamente. 18 per poco: quasi, pressappoco.

476 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

2. Ad Andreuccio si contrappone la ciciliana: giovane, bellissima e di malaffare, che individua con prontezza in Andreuccio una possibile vittima. La sorte favorisce i suoi desideri: la vecchia che è con lei, per caso (prima occorrenza del tema della fortuna, centrale nel testo) conosce Andreuccio e le fornisce tutte le informazioni necessarie per architettare un piano geniale. Ingegno e spirito di iniziativa fanno della ciciliana un tipico personaggio “positivo” boccacciano: portatore di una visione etica laica, Boccaccio infatti subordina il giudizio morale alla valorizzazione delle qualità individuali.

19 dove tornasse: dove albergasse. 20 al suo appetito... intenzione: basandosi su queste informazioni costruì con sottile astuzia un piano per raggiungere i propri scopi. 21 mise la vecchia in faccenda: tenne occupata la vecchia. 22 desso: proprio lui. 23 vi parleria: vi incontrerebbe.


gli essere un bel fante24 della persona, s’avvisò25 questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era 55 apparecchiato26 e domandolla dove e quando questa donna parlar gli volesse. A cui la fanticella rispose: «Messere, quando di venir vi piaccia, ella v’attende in casa sua». Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell’albergo, disse: 60 «Or via mettiti avanti, io ti verrò appresso». Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio27, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando28, credendosi in uno onestissi65 mo luogo andare e a una cara29 donna, liberamente30, andata la fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già la sua donna31 chiamata e detto «Ecco Andreuccio», la vide in capo della scala farsi a aspettarlo. Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellis70 simo viso, vestita e ornata assai orrevolemente32; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese33 con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia34 tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò35 la fronte e con voce al75 quanto rotta36 disse: «O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto!» Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose: «Madonna, voi siate la ben trovata!» Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò37 e di quella, senza alcuna altra cosa parlare, con lui nella sua 80 camera se n’entrò, la quale di rose, di fiori d’aranci e d’altri odori tutta oliva38, là dove egli un bellissimo letto incortinato39 e molte robe su per le stanghe40, secondo il costume di là, e altri assai belli e ricchi arnesi41 vide; per le quali cose, sì come nuovo42, fermamente credette lei dovere essere non men che 85 gran donna. E postisi a sedere insieme sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare: «Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo

24 tutto... fante: guardatosi da capo a

28 suspicando: sospettando. Dal latino

piedi e sembrandogli di essere un bel giovanotto. 25 s’avisò: pensò. 26 apparecchiato: pronto. 27 Malpertugio: era un quartiere di Napoli che, mediante un viottolo attraverso le mura, conduceva direttamente al mare. Era conosciuto per i loschi traffici e per la malavita che, come rileva anche Boccaccio, riecheggiano nel suo stesso nome.

suspicere. 29 cara: per bene. 30 liberamente: spontaneamente. 31 donna: padrona. 32 orrevolemente: con decoro. 33 incontrogli... discese: gli scese incontro da tre gradini. 34 soperchia: troppo forte. 35 basciò: baciò. 36 rotta: commossa.

3. I due commenti ironici della narratrice, dietro cui si intravede l’autore stesso «quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli”» «la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra» creano con il lettore una sorta di complicità. La visione critica condivisa da autorenarratore-lettore si contrappone nettamente all’ingenua valutazione di Andreuccio.

4. Il racconto della siciliana, oltre che un capolavoro di astuzia, è una sorta di mini-romanzo: contiene infatti, condensati in poche righe, gli espedienti canonici e gli schemi narrativi avventurosi tipici del “romanzesco”, come la storia d’amore, l’abbandono, l’intreccio tra macrostoria (i riferimenti alla storia politica del tempo) e microstoria, in una sapiente commistione di pathos e avventura.

37 il menò: lo condusse. 38 oliva: profumava. 39 incortinato: chiuso da tendaggi, da cortine.

40 stanghe: pertiche di legno sulle quali, in assenza di armadi, si appendevano gli abiti. 41 arnesi: suppellettili. 42 sì come nuovo: ingenuo, inesperto com’era.

Il Decameron 2 477


e delle mie lagrime, sì come colui43 che non mi conosci e per 90 avventura mai ricordar non m’udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì come è44 che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m’ha fatta tanta grazia che io anzi la mia morte45 ho veduto alcuno de’ miei fratelli, come che46 io disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che 95 io consolata non muoia. E se tu forse questo mai più non udisti, io tel vo’ dire. Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza47, vi fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai. Ma tra gli altri che molto l’amarono, 100 mia madre, che gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l’amò, tanto che, posta giù la paura del padre e de’ fratelli e il suo onore48, in tal guisa con lui si dimesticò49, che io ne nacqui e sonne50 qual tu mi vedi. Poi, sopravenuta cagione51 a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la 105 mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei52 avendo riguardo53 alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata (lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliuola non nata d’una 110 fante54 né di vil femina dovea portare), la quale le sue cose a sé parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani. Ma che è?55 Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che a emendare56: la cosa andò pur così. Egli mi 115 lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti57, gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò a stare in Palermo; e quivi, come colui che è molto guelfo58, cominciò a avere alcuno trat120 tato59 col nostro re Carlo60. Il quale61, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior cavalleressa62 che mai in quella isola fosse: donde, prese quelle poche cose che prender potemmo (poche dico per rispetto alle63 molte le 125 quali avavamo), lasciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sì grato

43 sì come colui: dato che. 44 sì come è: cioè. 45 anzi la mia morte: prima di morire. 46 come che: sebbene. 47 piacevolezza: amabilità. 48 posta giù... e il suo onore: messo da parte il timore del padre e dei fratelli e il suo onore. 49 in tal guisa... si dimesticò: prese a tal punto confidenza con lui.

50 sonne: ne sono. 51 cagione: motivo. 52 forte il riprenderei: fortemente lo rimprovererei. 53 avendo riguardo: considerando. 54 fante: serva. 55 che è?: a che serve (lamentarsi)? 56 Le cose... emendare: è più facile biasimare che correggere le cose mal condotte e lontane nel tempo.

478 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

La novella di Andreuccio da Perugia, xilografia da un’edizione a stampa del Decameron (Venezia 1504).

57 Gergenti: l’attuale Agrigento. 58 come colui... guelfo: essendo un guelfo convintissimo. 59 trattato: trattativa. 60 re Carlo: Carlo II d’Angiò, che combatté contro gli aragonesi e fu infine costretto a cedere il governo della Sicilia. 61 Il quale: si riferisce a trattato. 62 cavalleressa: gran dama. 63 per rispetto alle: rispetto alle.


che, ristoratici64 in parte li danni li quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni65 e case ci ha date, e dà continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione66, sì come 130 tu potrai ancor vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua, fratel mio dolce, ti veggio». E così detto, da capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte. Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così 135 compostamente67 detta da costei, alla quale in niuno atto68 moriva la parola tra’ denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo69 de’ giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari 140 e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva più che per vero70: e poscia che ella tacque, le rispose: «Madonna, egli non vi dee parer gran cosa71 se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o che, se egli ne ragionò, a mia 145 notizia venuto non sia, io per me niuna conscienza aveva di voi se non come se non foste72; e emmi73 tanto più caro l’avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci74 sono più solo e meno questo sperava. E nel vero io non conosco uomo di sì alto affare75 al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un picciolo 150 mercatante sono. Ma d’una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?» Al quale ella rispose: «Questa mattina mel fé sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene76, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in Palermo e 155 in Perugia stette; e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua77 che io a te nell’altrui, egli ha gran pezza che io a te venuta sarei78». Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente79, alla quale di tutti 160 Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli bisognava80.

64 ristoratici: dopo averci risarcito. 65 possessioni: possedimenti terrieri. 66 provisione: sussidio. 67 compostamente: coerentemente, ma anche scaltramente. La storia imbastita dalla bella siciliana aveva una sua verosimiglianza: non erano infrequenti le discendenze illegittime nella classe mercantile. Si ricordi che lo stesso Boccaccio era figlio illegittimo di un mercante. 68 in niuno atto: in nessuna maniera, né nelle parole né nei gesti. 69 per se medesimo: per esperienza personale.

5. Il comportamento di Andreuccio, nella prima parte della novella, è contraddistinto dalla ripetizione del verbo «credere» o forme similari, che alludono insistentemente alla sua credulità e ingenuità: «credendosi in uno onestissimo luogo andare» «fermamente credette lei dover essere». E, ancora, dopo il sapiente discorso della siciliana, «ebbe ciò che ella diceva più che per vero». E più avanti, quando la donna lo convincerà a rimanere a dormire da lei con motivazioni apparentemente razionali: «Egli, questo credendo...» «da falsa credenza ingannato….»

70 ebbe... per vero: considerò ciò che ella

75 di sì alto affare: di così elevata condi-

diceva più che vero. 71 egli... gran cosa: non vi dovete stupire. egli è pleonastico. 72 per ciò che... non foste: perché in verità, o perché mio padre, per qualsiasi ragione lo facesse, non parlava mai di vostra madre o di voi, o perché, se egli ne parlò, io non sia venuto a saperlo, da parte mia (per me) non sapevo nulla di voi (niuna conscienza aveva), come se non esisteste. 73 emmi: mi è. 74 ci: qui (a Napoli).

zione sociale. 76 la qual... si ritiene: che trascorre molto tempo con me. 77 in casa tua: tua in quanto appartiene alla “sorella” di Andreuccio, e quindi è proprietà di famiglia. 78 egli ha... sarei: sarei venuta da te da molto tempo. 79 nominatamente: chiamandoli per nome. 80 ancora più credendo... bisognava: convincendosi ancora di più di quello che avrebbe fatto meglio a non credere.

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Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti81 e fé dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in 165 niuna guisa il sostenne82, ma sembiante fatto di forte turbarsi83 abbracciandol disse: «Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii84 con una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo, smontato85 esser dovresti, e vogli di quella uscire per 170 andare a cenare all’albergo? Di vero tu cenerai con esso meco86: e perché87 mio marito non ci sia, di che forte mi grava88, io ti saprò bene secondo donna89 fare un poco d’onore». Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: «Io v’ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non 175 ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò villania90». E ella allora disse: «Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui91 mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a’ tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te 180 ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata92». Andreuccio rispose che de’ suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l’era, di lui facesse il piacer suo93. Ella allora fé vista94 di mandare a dire all’albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi 185 a cena e splendidamente di più vivande serviti, astutamente quella menò per lunga95 infino alla notte obscura; e essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe96, per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro97 di notte, e massimamente un forestiere; 190 e che come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il somigliante98. Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d’esser con costei, stette99. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione100 tenuti; e essendo della notte 195 una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla101, con le sue femine102 in un’altra camera se n’andò.

81 greco e confetti: vino bianco e dolciumi. 82 il sostenne: glielo permise. 83 sembiante... turbarsi: facendo finta di turbarsi molto. 84 Che... sii: come si può pensare che tu sia. 85 smontato: alloggiato. 86 con esso meco: proprio con me. 87 perché: sebbene. 88 mi grava: mi dispiace. 89 secondo donna: per quanto una donna è capace di fare.

90 farò villania: mi comporterò in modo scortese. 91 Lodato... per cui: grazie a Dio, io ho in casa qualcuno attraverso il quale. 92 di brigata: in compagnia. 93 poi che pure... il piacer suo: poiché le faceva piacere, disponesse di lui come voleva. 94 fé vista: fece finta. 95 menò per lunga: tirò la cena per le lunghe.

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6. L’avventura è inquadrata realisticamente in uno spazio (Napoli, di cui vengono citati con precisione strade e quartieri) e in un tempo (l’azione si svolge dalla sera di domenica all’alba di lunedì) precisi. La novella nasce probabilmente dalle memorie napoletane dell’autore, che in essa rievoca luoghi, personaggi, aneddoti conosciuti al tempo del suo felice soggiorno nella città partenopea.

96 in niuna guisa sofferrebbe: non l’avrebbe permesso in alcun modo. 97 da andarvi per entro: da girarvi. 98 il somigliante: la stessa cosa. 99 dilettandogli... stette: avendo piacere di restare con lei, ingannato da un’impressione sbagliata, si fermò (a casa sua). 100 non senza cagione: non senza un secondo fine da parte della donna. 101 che... nulla: che si mettesse a sua disposizione per qualsiasi suo bisogno. 102 femine: domestiche.


Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subitamente si spogliò in farsetto103 e trassesi i 104 105 200 panni di gamba e al capo del letto gli si pose ; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre106, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo107, il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò uno uscio e disse: «Andate là entro». Andreuccio dentro sicuramente108 passato, gli venne 109 posto il piè sopra una tavola, la quale dalla con205 per ventura traposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era110, per la qual cosa capolevando111 questa tavola con lui insieme se n’andò quindi giuso112: e di tanto l’amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma 113 210 tutto della bruttura , della quale il luogo era pieno, s’imbrattò. Il quale luogo, acciò che114 meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto115 stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l’una casa e l’altra posti, alcune tavole eran 116 e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella 215 confitte che con lui cadde era l’una. Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso117, cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna. La 220 quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente118 sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d’un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo119, più di lui non curandosi prestamente 225 andò a chiuder l’uscio del quale egli era uscito quando cadde. Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente120. Per che egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere, salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via 230 disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n’andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò121 e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disaventura, cominciò a dire: «Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!» 235 E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l’uscio

103 farsetto: corpetto che andava indossato sopra la camicia. 104 panni di gamba: brache, mutande e calze. 105 gli si pose: se li pose. 106 richiedendo... ventre: poiché il bisogno naturale richiedeva di svuotare il peso del ventre. 107 domandò quel fanciullo: chiese a quel ragazzo.

108 sicuramente: senza sospettare nulla. 109 per ventura: per caso. 110 la quale... era: che dalla parte opposta era schiodata dalla trave su cui poggiava. 111 capolevando: capovolgendosi. 112 giuso: giù, verso il basso. 113 bruttura: sporcizia, escrementi. 114 acciò che: affinché. 115 chiassetto: vicoletto.

7. Irrompe nella novella il caso, la “fortuna”, che si presenta all’inizio come accadimento del tutto banale: Andreuccio mette il piede per ventura su un’asse sconnessa e precipita nel chiassetto. Si tratta della prima “caduta” (ne seguiranno altre) a cui corrispondono altrettante “risalite”. Alcuni critici hanno letto nella ricorrente dinamica alto/basso e basso/alto che caratterizza la storia di Andreuccio un riflesso degli antichi riti iniziatici, che comportano la iniziale degradazione dell’individuo e una serie di prove perché possa poi giungere alla rigenerazione finale (uno schema riconoscibile nella stessa Commedia dantesca). Questo modello è però in Boccaccio rivisitato e ironizzato: il giovane ignaro protagonista cade innanzitutto nel chiassetto colmo di sterco, una “discesa” grave e umiliante, che allude alla condizione di stoltezza in cui si trovava non appena giunto a Napoli e da cui si dovrà riscattare. 8. Cambia il ritmo narrativo e la stessa sintassi: agli ampi periodi, ricchi di incisi, del racconto della siciliana succedono frasi coordinate, verbi di azione in rapida successione («così corse», «corsa alla sua camera»,«prestamente cercò») con cui il narratore mima la fretta dei malviventi per impadronirsi del denaro.

9. L’inizio della formazione di Andreuccio è segnalato alla fine della prima sequenza da espressioni che designano prima il dubbio, quindi la comprensione e la chiarezza: «già sospettando» «cominciandosi a accorgere» e più esplicitamente «come colui che chiara vedea la sua disaventura»; questi si sostituiscono ai verbi legati all’area semantica del “credere”, dominanti nella prima parte della novella; a ciò segue la sintetica e amara riflessione sulla perdita simultanea di una sorella e dei cinquecento fiorini.

116 confitte: inchiodate. 117 del caso: per quanto gli era accaduto. 118 mattamente: stupidamente. 119 avendo... lacciuolo: avendo ottenuto ciò (il denaro) per cui lei, di Palermo, diventando sorella (sirocchia) di un perugino, aveva teso la trappola (il lacciuolo). 120 niente: inutile. 121 il dimenò: lo scosse.

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e a gridare; e tanto fece così, che molti de’ circunstanti vicini, desti, non potendo la noia122 sofferire, si levarono; e una delle servigiali123 della donna, in vista124 tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra proverbiosamente125 disse: «Chi picchia là giù?» 240 «Oh!» disse Andreuccio «o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso». Al quale ella rispose: «Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi126 e tornerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance127 son quelle che tu di’; va in buona ora128 e lasciaci 245 dormir, se ti piace». «Come» disse Andreuccio «non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine129 si dimentichino, rendimi almeno i panni miei, li quali lasciati v’ho, e io m’andrò volentier con Dio». 250 Al quale ella quasi ridendo disse: «Buono uomo, è mi par che tu sogni», e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de’ suoi danni, quasi per doglia130 fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira131, e 255 per ingiuria132 propose di rivolere quello che per parole133 riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominciò a percuoter la porta. La qual cosa134 molti de’ vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole135 il quale queste parole 260 fingesse per noiare quella buona femina136, recatosi a noia137 il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire: «Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le138 buone femine e dire queste ciance; 265 deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far con lei139, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine140 stanotte». Dalle quali parole forse assicurato141 uno che dentro dalla casa era, ruffiano142 della buona femina, il quale egli né veduto né 270 sentito avea, si fece alle finestre e con una boce143 grossa, orribile e fiera disse: «Chi è laggiù?» Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender poté, mostrava di dovere essere un 122 la noia: il fastidio arrecato da quel baccano. 123 servigiali: domestiche. 124 in vista: all’apparenza. 125 proverbiosamente: rimproverandolo aspramente. 126 va dormi: va’ a dormire. 127 ciance: chiacchiere, frottole. 128 in buona ora: di grazia, per favore. 129 in sì piccol termine: in così poco tempo.

130 per doglia: per il dolore. 131 fu presso... ira: fu vicino a trasformare la collera in furore. 132 per ingiuria: con la violenza. 133 per parole: attraverso le parole. 134 La qual cosa: per questo motivo. 135 spiacevole: importuno. 136 buona femina: è ironico. 137 recatosi a noia: seccatosi. 138 a casa le: presso le (con soppressione della preposizione di: “a casa delle”).

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Espressione corrispondente al chez francese. 139 e se tu... con lei: e se tu hai qualcosa da risolvere con lei. 140 seccaggine: seccatura, fastidio. 141 Dalle quali... assicurato: sentendosi forse più sicuro di sé per via delle parole del vicinato. 142 ruffiano: protettore. 143 boce: voce. Termine dialettale che qui acquista una sfumatura caricaturale.


gran bacalare144, con una barba nera e folta al volto, e come 275 se del letto o da alto145 sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose: «Io sono un fratello della donna di là entro». Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido146 assai che prima disse: «Io non so a che io mi te280 gno147 che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere148, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona»; e tornatosi dentro serrò la finestra. Alcuni de’ vicini, che meglio conoscieno la condizion149 di 285 colui, umilmente150 parlando a Andreuccio dissero: «Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì: vattene per lo tuo migliore151». Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da’ conforti di coloro li quali gli pareva che da 290 carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato152, verso quella parte onde il dì aveva la fanticella seguita, senza saper dove s’andasse, prese la via per tornarsi all’albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per 295 lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga Catalana153 si mise. E verso l’alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno, li quali temendo non fosser della famiglia della corte154 o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in 300 un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò155. Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n’entrarono; e quivi l’un di loro, scaricati certi ferramenti156 che in collo avea, con l’altro insieme gl’incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando. 310 E mentre parlavano, disse l’uno: «Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire»; e questo detto, alzata alquanto la lanterna, ebber veduto il cattivel157 d’Andreuccio, e stupefatti domandar: «Chi è là?» Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il doman315 darono che quivi così brutto158 facesse: alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro, imaginando

144 bacalare: baccelliere, cioè colui che nelle università medievali aveva raggiunto il primo grado di studi, prima della laurea. Qui designa una persona molto autorevole, ma è fortemente ironico. 145 alto: profondo. 146 rigido: severo, aspro. 147 a che... tegno: perché mi trattengo. 148 quante... muovere: finché ti vedo muovere.

149 la condizion: cioè chi fosse e che ruolo avesse in quella casa (era appunto il protettore di Fiordaliso). 150 umilmente: «a bassa voce» (Branca); «con bontà» (Segre);«in tono di consiglio o di pietà» (Sapegno). 151 per lo tuo migliore: per il tuo bene. 152 de’... disperato: avendo perse tutte le speranze di recuperare i suoi denari.

10. Ha inizio la seconda avventura di Andreuccio; in essa, ancora più che nella prima, si fa sentire l’intervento del caso: Andreuccio sbaglia strada, non conoscendo la città, e si imbatte per ventura in due malavitosi, i quali entrano proprio nel casolare dove si nasconde impaurito Andreuccio. Altrettanto fortuito sarà l’arrivo al pozzo, al fondo del quale è stato calato il protagonista perché si potesse lavare, dei due gendarmi e il successivo incontro, mentre Andreuccio andava senza saper dove nella città ostile e labirintica con i due malviventi.

153 Ruga Catalana: strada che dal porto conduce nella parte alta della città. 154 della famiglia della corte: delle guardie, della polizia. 155 pianamente ricoverò: silenziosamente si rifugiò. 156 ferramenti: attrezzi di ferro. 157 cattivel: misero, sfortunato, poveretto. 158 brutto: sporco.

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dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sé: «Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo159». E a lui rivolti, disse l’uno: «Buono uomo, come che160 tu abbi 320 perduti i tuoi denari, tu hai molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare161: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima162 adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co’ denari avresti la persona163 perduta. Ma che giova oggimai164 di piagnere? Tu 325 ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo165: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui166 sente che tu mai ne facci parola». E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero: «Vedi, a noi è presa compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere 330 a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai167». Andreuccio, sì come disperato, rispuose ch’era presto168. Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato 335 messer Filippo Minutolo169, e era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con un rubino in dito il quale valeva oltre a cinquecento fiorin d’oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer veduto170. Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato171, con loro si 340 mise in via; e andando verso la chiesa maggiore172, e Andreuccio putendo173 forte, disse l’uno: «Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse così fieramente174?» Disse l’altro: «Sì, noi siam qui presso a un pozzo al quale suole 345 sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo spacciatamente175». Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v’era ma il secchione n’era stato levato: per che insieme deliberarono di legarlo alla fune e di collarlo176 nel pozzo, e egli là giù si lavasse e, 350 come lavato fosse, crollasse177 la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero.

159 in casa... fia stato questo: sarà successo ciò in casa del delinquente Buttafuoco. Il termine scarabone è dialettale e indicava i capi di bande di malviventi. Il personaggio di Buttafuoco è ispirato dalla figura di un malavitoso siciliano realmente esistito, di nome appunto Buttafuoco, che viveva a Napoli nel periodo in cui è ambientata la novella. 160 come che: sebbene. 161 quel caso... rientrare: ti capitò la sorte di cadere e non poter più rientrare in casa. 162 come prima: non appena.

163 la persona: la vita. 164 oggimai: ormai. 165 Tu... del cielo: hai le stesse possibilità di recuperare anche solo una piccolissima parte dei tuoi soldi, quante di ottenere le stelle del cielo. 166 colui: cioè Buttafuoco. 167 ti toccherà... non hai: ti toccherà una parte molto più preziosa di quanto hai perduto. 168 presto: pronto. 169 Filippo Minutolo: arcivescovo di Napoli dal 1288 al 1301.

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170 fecer veduto: comunicarono. 171 più cupido che consigliato: più avido che prudente. 172 la chiesa maggiore: il Duomo di Napoli. 173 putendo: puzzando. Dal latino pūtĕo, putēre. 174 fieramente: fortemente. 175 laverenlo spacciatamente: lo laveremo in fretta. 176 collarlo: calarlo. 177 crollasse: scuotesse.


Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria178, li quali179 e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: 180 cominciarono a 355 li quali come quegli due videro, incontanente 181 fuggire, li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti. Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle182, cominciarono la fune a tirare credendo a 360 quella il secchion pien d’acqua essere appicato. Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino, così, lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella. La qual cosa costor vedendo, da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio 183 365 si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto , egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più s’incominciò a maravigliare. 184 370 Ma dubitando e non sappiendo che , della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza saper dove. Così andando si venne scontrato185 in que’ due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del 375 pozzo l’avesse tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi come stato era, ridendo gli contarono perché s’eran fuggiti e chi stati eran coloro che sù l’avean tirato. E senza più parole fare, essendo 380 già mezzanotte, n’andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente186 entrarono e furono all’arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il coperchio, ch’era gravissimo187, sollevaron tanto quanto un uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo. 385 E fatto questo, cominciò l’uno a dire: «Chi entrerà dentro?» A cui l’altro rispose: «Non io». «Né io» disse colui «ma entrivi Andreuccio». «Questo non farò io» disse Andreuccio. Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero: «Come non 390 v’enterrai? In fé di Dio, se tu non v’entri, noi ti darem tante d’uno di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto».

178 famiglia della signoria: guardie. 179 li quali: è complemento oggetto di videro; il soggetto è quegli.

180 incontanente: subito. 181 li famigliari: le guardie.

182 gonnelle: sopraveste da uomo con cappuccio e cintura. 183 attenuto: tenuto. 184 Ma... che: ma avendo paura e senza sapere di che cosa.

185 si venne scontrato: gli capitò di incontrare. 186 leggiermente: facilmente. 187 gravissimo: pesantissimo.

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Andreuccio temendo v’entrò, e entrandovi pensò seco: «Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò 395 loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna». E per ciò s’avisò di farsi innanzi tratto la parte sua188; e ricordatosi del caro189 anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all’arcivescovo e miselo a sé; e poi dato il 400 pasturale e la mitra e’ guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v’avea. Costoro, affermando che esser vi doveva l’anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso, rispondendo che nol trovava e sembiante faccendo di cercarne, alquanto gli tenne in aspettare. 410 Costoro che d’altra parte eran sì come lui maliziosi, dicendo pur190 che ben cercasse, preso tempo191, tiraron via il puntello che il coperchio dell’arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall’arca lasciaron racchiuso. La qual cosa sentendo Andreuccio, quale egli allor divenisse ciascun sel può pensare. 415 Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell’arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente192 avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l’arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu ri420 tornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all’un de’ due fini dover pervenire193: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra’ vermini del morto corpo convenirlo194 morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere appiccato195. 425 E così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali, sì come egli avvisava, quello andavano a fare che esso co’ suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero l’arca aperta e puntellata, in quistion caddero196 chi vi 430 dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione197 un prete disse: «Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi198? Li morti non mangian gli uomini: io v’entrerò dentro io». E così detto, posto il petto sopra l’orlo dell’arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi 435 giuso calare. Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l’una delle gambe e fé sembiante di volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli 188 per ciò... la parte sua: pensò innanzitutto di ritagliarsi via la propria parte. 189 caro: prezioso. 190 dicendo pur: continuando a dire. 191 preso tempo: colto il momento opportuno.

11. Nella terza e ultima avventura c’è la maturazione psicologica di Andreuccio, che coincide di fatto con la formazione di una coscienza pragmatica, idonea alla sua attività mercantile: l’uomo capisce al volo ormai cosa accadrà e, ragionando in termini strettamente economici, pensa:«io rimarrò senza cosa alcuna». Decide allora rapidamente di ingannare i due malviventi per poter trarre a sua volta un guadagno dalla rischiosa impresa («E per ciò s’avisò di farsi innanzi tratto la parte sua»). Da passiva vittima della fortuna Andreuccio diventa soggetto attivo nel provvedere a sé stesso e acquisisce la capacità di sfruttare le circostanze a proprio vantaggio. L’evoluzione del personaggio, che ne fa un elemento “dinamico”, non riguarda il piano spirituale-morale, ma esclusivamente la capacità di operare in modo vantaggioso per la propria condizione. Il caso farà il resto, restituendo ad Andreuccio quanto aveva perso.

192 malagevolmente: difficilmente. 193 veggendosi... pervenire: vedendo

196 in quistion caddero: si misero a di-

che sicuramente sarebbe giunto a uno di due esiti finali. 194 convenirlo: essere costretto a. 195 appiccato: impiccato.

197 tencione: discussione. 198 manuchi: mangi.

486 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

scutere.


altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia199 diavoli fosser perseguitati. La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì della chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando all’avventura, pervenne alla marina e quindi al suo 445 albergo si abbatté200; dove li suoi compagni e l’albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine de’ fatti suoi201. A’ quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell’oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo202 inve450 stito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato203. – 440

199 centomilia: centomila. Forma alla latina. 200 si abbatté: si imbatté.

201 in sollecitudine de’ fatti suoi: preoccupati per quanto poteva essergli successo.

12. La chiusa della novella ne sottolinea in modo marcato la struttura circolare: il valore dell’anello compensa la perdita dei fiorini, e anche sul piano spaziale Andreuccio si ritrova di nuovo all’albergo da cui ha preso le mosse la sua avventura. Nulla di cambiato dunque? L’avventura non ha portato nessun progresso? Non a livello economico (l’anello ha più o meno il valore della borsa), ma certamente a livello sapienziale: attraverso pericoli e peripezie che lo hanno messo a dura prova, Andreuccio ha acquisito la saggezza e la prudenza che gli saranno molto utili nella sua professione di mercante. 202 il suo: il suo avere. 203 dove... andato: mentre era partito per comperare dei cavalli.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Suddividi la novella in sequenze e sintetizza il contenuto di ciascuna sequenza. COMPRENSIONE 2. Per quale motivo Andreuccio lascia la sua città per avventurarsi negli infidi vicoli di Napoli? 3. Che cos’è che attira l’attenzione di madonna Fiordaliso, quando adocchia l’ingenuo Andreuccio al mercato? 4. Perché, una volta conclusasi felicemente la disavventura, Andreuccio ritiene opportuno allontanarsi da Napoli in tutta fretta? ANALISI 5. Il primo episodio della novella mette a confronto l’astuzia di madonna Fiordaliso con l’ingenuità di Andreuccio: rintraccia nel testo gli indizi e gli elementi del lessico che concorrono a rappresentare questi due opposti atteggiamenti verso il mondo. 6. Come viene rappresentata la fortuna in questa novella? Ti sembra una forza amica o nemica del protagonista? Oppure il suo valore è, per così dire, neutro e dipende dalle reazioni del protagonista stesso? Motiva la tua risposta con riferimenti al testo. LESSICO 7. Trova, per ciascuno dei seguenti termini, almeno due sinonimi che riprendano il significato con cui essi sono utilizzati nella novella: pregio – contezza – fanticella – ventura – apparecchiato – riprendere – chiassetto – noia.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 8. Abbiamo dato alla novella il sottotitolo “La formazione di un mercante”. Individua le tappe salienti del percorso di formazione di Andreuccio e analizza azioni e comportamenti attraverso cui esso si svolge. 9. Molto spesso le novelle di Boccaccio celebrano, come in questo caso, l’iniziativa umana. Gli esempi, come quello di Andreuccio, possono stimolarci a credere nelle nostre forze e ad affrontare periodi di crisi. Ti è mai capitato, come Andreuccio, di trovarti di fronte ad avversità e ostacoli? Come hai reagito? Ti sei abbattuto o hai cercato di risolverli con intelligenza ed energia? COMPETENZA DIGITALE 10. La novella di Andreuccio è considerata uno dei migliori esempi del realismo boccacciano, data la ricchezza di dettagli e la ricostruzione storico-ambientale particolarmente accurata. Attraverso ricerche in Internet e alcune fonti e documenti ricostruisci e dimostra come Boccaccio abbia fatto rivivere nelle sue pagine quello che veramente doveva essere il quartiere napoletano del Malpertugio agli inizi del XIV secolo.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

Esaltazione o visione critica del mondo mercantile? Proponiamo il confronto tra due testi critici riguardanti il rapporto tra Boccaccio e il mondo mercantile. Il primo è dovuto al maggior studioso di Boccaccio, Vittore Branca, che ha coniato per il Decameron la fortunata formula di «epopea dei mercatanti»; il secondo si deve a Giorgio Padoan, allievo del primo e illustre italianista, che sottolinea invece la presenza nel Decameron di una visione critica della mercatura, frutto di un momento storico in cui cominciava a declinarsi un certo modello sociale ed economico.

V. Branca, Boccaccio medievale [1956], Rizzoli, Milano 2010

Vittore Branca L’epopea dei mercanti La rievocazione della civiltà italiana nell’autunno del Medioevo, che si è rivelata nel Decameron grandiosa e suggestiva, trova uno dei suoi centri più vivi e più affascinanti nella serie di avventurosi e mossi affreschi in cui si riflette la ricchissima vita mercantile fra il Duecento e il Trecento. Per la prima volta nella letteratura europea riceve alta consacrazione questo movimento decisivo per la nostra storia, promosso e diretto da quei veri eroi dell’intraprendenza e della tenacia umana, da quel pugno d’uomini lanciati alla conquista dell’Europa e dell’Oriente, che […] siamo venuti sempre meglio scoprendo nella loro statura di uomini d’eccezione. Isolata ancora nell’opera di Dante in un cerchio di aristocratico disprezzo per «la gente nova e i subiti guadagni», ignorata come inferiore o estranea dalla raffinata esperienza del Petrarca, restata ai margini persino nelle opere storiche di un Compagni o nello stilizzato narrare del Novellino, questa società irrompe nella «commedia umana» del Decameron e la domina con la sua esuberante vitalità. Non ci riferiamo solo alla folla di temi, di ambienti, di personaggi, di usi, di riferimenti vari che colora più della metà delle novelle con le tinte vivaci e sanguigne proprie a questo mondo. È la centralità nello stesso disegno ideale dell’opera, nel suo significato esemplare in senso umano e artistico, a configurare la presenza di questo ceto nella fantasia narrativa del Boccaccio come caratteristica, e si vorrebbe dire insostituibile, allo svolgersi del Decameron. Perché il grandioso tema di questa «commedia umana del Medioevo», cioè la rappresentazione della misura che l’uomo dà delle sue doti e delle sue capacità al confronto delle grandi forze che sembrano dominare l’umanità (Fortuna, Amore, Ingegno), non poteva trovare in quella età esempi di più potente e prepotente eloquenza rappresentativa. Dopo le dorate sequenze dei cavalieri della spada, accarezzate ormai solo dalla memoria e da una sottile nostalgia, è proprio il mondo dei Mercanti nel Medioevo, particolare di una nostri mercanti che, fra il Duecento e il Tre- miniatura francese dall’apparato decorativo del Livre régime des princes di Gilles de Rome, manoscritto cento, offre i campioni più vivi e aggressivi du FranÇais 126, f. 7r, primo quarto del sec. XV nell’agone con quelle forze sovrumane. (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

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G. Padoan, Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia e nell’arte di Giovanni Boccaccio, in Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, Olschki, Firenze 1976

Giorgio Padoan Una visione critica del mondo mercantile Nella glorificazione dell’intelligenza umana il Boccaccio mostra [...] aperta adesione alla nuova visione del mondo e della società maturata nell’ambiente borghese e mercantile; non solo, ma frequenti riflessioni di personaggi decameroniani sono chiaramente rapportabili alla «mentalità economica», al concetto economico dell’utile [...]. Questa adesione del Boccaccio è però limitata in parte dalle sue vive simpatie per il mondo aristocratico e cortese e, ancor più, dal fatto che, quando egli scrive, assistiamo al tramonto della grande età dei mercanti fiorentini: alla ricerca appassionata di nuovi mercati da aggiungere al grande impero economico già conquistato subentrava ormai la pigra cautela, il momento della conservazione e quindi dell’ineluttabile declino, economico, politico, ideologico. [...] Da questa precisa situazione e dalla sua particolare sensibilità morale deriva al Boccaccio il ripensamento sulle tragiche conseguenze della ferrea obbedienza alla «ragion di mercatura», cui tutto, moralità ed affetti, doveva essere, nel caso, sacrificato: da ser Ciappelletto ai fratelli della Lisabetta l’autore disegna freddamente questa vittoria del disumano. Il Boccaccio, che sente in pieno – anche se non con chiara consapevolezza critica – e in gran parte accoglie la nuova elaborazione ideologica che la struttura della società comunale ha imposto e il soffio di potente modernità che si sprigiona da quella nuova classe dirigente fiorentina, non si lascia però andare ad adesioni incondizionate [...]: egli assume come personaggi questi mercanti che viaggiano da un punto all’altro della terra, ne descrive avventure, mentalità, e mostra anche come la «ragion di mercatura» spinta alle estreme conseguenze finisca con il riconoscere tra uomo e uomo un solo rapporto, quello del nudo interesse, dal momento che il calcolo egoistico spegne i timori della religiosità, soffoca l’entusiasmo cavalleresco, la liberalità e persino i sacri vincoli degli affetti familiari.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Analisi e Comprensione

Produzione

1. Individua e sintetizza la tesi avanzata rispettivamente da ciascuno dei due critici. 2. Individua e presenta gli argomenti prodotti da Padoan a sostegno della propria tesi. 3. I due brani critici riportati propongono qualche affinità nell’interpretazione della rappresentazione del mondo mercantile nelle novelle di Boccaccio? Con quali eventuali differenze? 4. Quale dei due giudizi, a tuo parere, è argomentato in modo più efficace? Perché? 5. La società mercantile, con i suoi costumi, i suoi valori, le sue qualità – positive o negative – è senza dubbio tra i protagonisti di maggior spicco del Decameron, che le riconosce una centralità nuova nel panorama della letteratura medievale. Discuti sulle caratteristiche e sul significato della presenza di tale ceto sociale nelle opere artistiche – letterarie ma anche figurative – del Medioevo. Sviluppa le tue considerazioni al riguardo in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Il Decameron 2 489


Collabora all’analisi

T9c

Giovanni Boccaccio

Come il nobile Federigo degli Alberighi divenne miglior massaio Decameron V, 9

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

ANALISI INTERATTIVA

Come la celebre novella di Nastagio degli Onesti (➜ T6c ) che immediatamente la precede (V, 8), la novella di Federigo degli Alberighi appartiene alla quinta giornata, dedicata agli amori felici, ossia con lieto fine. Federigo degli Alberighi, un giovane nobiluomo fiorentino, rappresenta quell’ideale di cortesia nobile e disinteressata che nel mondo di Boccaccio ancora convive con la nuova, pragmatica etica borghese. Innamorato di una «delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero», Federigo spende per lei tutti i suoi averi, riducendosi quasi alla povertà. Attraverso la sua storia Boccaccio rappresenta la crisi della nobiltà feudale, i cui ideali devono cedere il passo ai nuovi valori della borghesia.

FEDERIGO DEGLI ALBERIGHI1 AMA E NON È AMATO, E IN CORTESIA SPENDENDO SI CONSUMA E RIMANGLI UN SOL FALCONE, IL QUALE, NON AVENDO ALTRO, DÀ A MANGIARE ALLA SUA DONNA VENUTAGLI A CASA; LA QUAL, CIÒ SAPPIENDO, MUTATA D’ANIMO, IL PRENDE PER MARITO E FALLO RICCO. Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi2, il quale fu nella nostra città, e forse ancora è3, uomo di grande e di reverenda auttorità ne’ dì nostri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo4 e degno d’eterna fama, essendo già d’anni pieno5, spesse volte delle cose passate co’ suoi 5 vicini e con altri si dilettava di ragionare: la qual cosa egli meglio e con più ordine e con maggior memoria e ornato parlare6 che altro uom seppe fare. Era usato di dire, tra l’altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d’arme7 e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel8 di Toscana. Il quale, sì come il più de’ gentili uomini avviene9, d’una gentil 10 10 donna chiamata monna Giovanna s’innamorò, ne’ suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava11, faceva feste e donava12, e il suo13 senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva. 14 15 Spendendo adunque Federigo oltre a ogni suo potere molto e niente acquistando , sì come di leggiere adiviene15, le ricchezze mancarono e esso rimase povero, senza

1 Alberighi: la nobile famiglia fiorentina degli Alberighi è ricordata anche da Dante nel Paradiso; Cacciaguida parla della sua decadenza mentre il Villani nella sua cronaca la dà per estinta. 2 Coppo di Borghese Domenichi: è un personaggio realmente esistito, protagonista di una novella del Sacchetti. Ricoprì importanti cariche nel comune fiorentino e morì intorno al 1353. 3 e forse ancora è: è un velato riferimento al dramma della peste, sempre presente sullo sfondo, che forse ha ucciso tra gli altri

anche Coppo di Borghese Domenichi. 4 chiarissimo: illustrissimo. 5 d’anni pieno: di età avanzata. 6 con più ordine... parlare: vengono sintetizzate le qualità proprie di chi sa ben parlare. 7 in opera d’arme: negli esercizi cavallereschi. 8 donzel: giovane nobile (dal provenzale donsel). 9 sì come… avviene: così come accade di solito (il più) fra gentiluomini. 10 tenuta: considerata.

490 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

11 giostrava, armeggiava: partecipava a tornei e maneggiava le armi.

12 donava: nell’etica feudale la liberalità, la generosità nel donare era considerata una delle qualità del cavaliere. 13 il suo: i suoi averi. 14 e niente acquistando: senza ricavarne alcun vantaggio (poiché la donna continuava a ignorarlo). Ma la frase può acquistare anche un senso più letterale e pragmatico: spendendo più di quanto non guadagnasse. 15 di leggiere adiviene: facilmente avviene.


altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite del quale strettissimamente16 vivea, e oltre a questo un suo falcone17 de’ miglior del mondo. Per che, amando più che mai né parendogli più potere essere cittadino come disi20 derava18, a Campi19, là dove il suo poderetto era, se n’andò a stare. Quivi, quando poteva uccellando20 e senza alcuna persona richiedere21, pazientemente la sua povertà comportava22. Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo stremo23, che24 il marito di monna Giovanna infermò25, e veggendosi alla morte venire fece testamento; e 25 essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo26, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituì27, e morissi. Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l’anno di state28 con questo suo figliuolo se n’andava in contado29 a una sua posses30 sione assai vicina a quella di Federigo. Per che30 avvenne che questo garzoncello31 s’incominciò a dimesticare32 con Federigo e a dilettarsi d’uccelli e di cani; e avendo veduto molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente33 piacendogli, forte34 disiderava d’averlo ma pure non s’attentava35 di domandarlo, veggendolo a lui esser cotanto caro. E così stando la cosa, avvenne che il garzoncello infermò; di che la 35 madre dolorosa36 molto, come colei che più no’ n’avea37 e lui amava quanto più si poteva, tutto il dì standogli dintorno non restava38 di confortarlo e spesse volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, ché per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come l’avesse39. Il giovanetto, udite molte volte queste proferte40, disse: «Madre mia, se voi fate che 40 io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente41 guerire». La donna, udendo questo, alquanto sopra sé stette42 e cominciò a pensar quello che far dovesse. Ella sapeva che Federigo lungamente l’aveva amata, né mai da lei una sola guatatura43 aveva avuta, per che ella diceva: «Come manderò io o andrò a domandargli questo falcone, che è, per quel che io oda, il migliore che mai volasse 45 e oltre a ciò il mantien nel mondo44? E come sarò io sì sconoscente45, che a un gentile uomo al quale niuno altro diletto è più rimaso, io questo gli voglia torre46?» E in così fatto pensiero impacciata, come che47 ella fosse certissima d’averlo se ’l domandasse, senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava48.

16 strettissimamente: molto poveramente. 17 falcone: uccello predatore che, ammaestrato, era usato per la caccia. È qui quasi il simbolo della condizione nobiliare di Federigo. 18 né parendogli... come disiderava: e non sembrandogli più possibile vivere in città in modo conforme ai suoi desideri, cioè con decoro e signorilità. 19 Campi: Campi Bisenzio è un paese tra Prato e Peretola, non lontano da Firenze. 20 uccellando: cacciando con il falcone. 21 senza... richiedere: senza chiedere aiuto o prestiti a nessuno. 22 comportava: sopportava. 23 divenuto allo stremo: ridotto in povertà estrema. 24 che: ripetizione del che dichiarativo

dopo un’incidentale, procedimento sintattico tipico della prosa boccacciana. 25 infermò: si ammalò. 26 appresso questo: dopo di lui. 27 lei... substituì: stabilì monna Giovanna come sua erede nel caso che il figlio morisse senza legittimi eredi. Boccaccio utilizza qui i termini tecnici del linguaggio legale. 28 l’anno di state: ogni anno in estate. 29 in contado: in campagna. 30 Per che: per cui. 31 garzoncello: ragazzino. 32 dimesticare: frequentare, stabilire un rapporto di amicizia. 33 stranamente: straordinariamente. 34 forte: moltissimo. 35 non s’attentava: non osava. 36 dolorosa: addolorata.

37 come colei... n’avea: poiché non aveva altri figli.

38 non restava: non smetteva mai. 39 procaccerebbe come l’avesse: avrebbe trovato il modo di procurargliela.

40 proferte: richieste. 41 prestamente: velocemente. 42 sopra sé stette: rimase soprappensiero. 43 guatatura: sguardo. 44 il mantien nel mondo: lo mantiene in vita, ossia è la sua unica ragione di vita, e anche un importante mezzo di sostentamento, essendo impiegato da Federigo per la caccia. 45 sconoscente: insensibile, priva di convenienza e discrezione. 46 torre: togliere. 47 come che: sebbene. 48 si stava: rimaneva nell’indecisione.

Il Decameron 2 491


Ultimamente49 tanto la vinse l’amor del figliuolo, che ella seco dispose, per conten50 tarlo, che che esser ne dovesse50, di non mandare ma d’andare ella medesima per esso e di recargliele51, e risposegli: «Figliuol mio, confortati e pensa di guerire di forza52, ché io ti prometto che la prima cosa che io farò domattina, io andrò per esso e sì il ti recherò». Di che il fanciullo lieto il dì medesimo mostrò alcun miglioramento. La donna la mattina seguente, presa un’altra donna in compagnia, per modo di di55 porto53 se n’andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare54. Egli, per ciò che non era tempo, né era stato a quei dì, d’uccellare, era in un suo orto e faceva certi suoi lavorietti acconciare55; il quale, udendo che monna Giovanna il domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto là corse. La quale vedendol venire, con una donnesca piacevolezza56 levataglisi incontro, 60 avendola già Federigo reverentemente salutata, disse: «Bene stea Federigo!» e seguitò: «Io son venuta a ristorarti57 de’ danni li quali tu hai già avuti per me amandomi più che stato non ti sarebbe bisogno: e il ristoro è cotale, che io intendo con questa mia compagna insieme desinar teco dimesticamente58 stamane». Alla qual Federigo umilmente rispose: «Madonna, niun danno mi ricorda mai avere 65 ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vostro valore e per l’amore che portato v’ho adivenne59. E per certo questa vostra liberale venuta60 m’è troppo più cara che non sarebbe se da capo mi fosse dato da spendere quanto per adietro ho già speso, come che a povero oste61 siate venuta»; e così detto, vergognosamente62 dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo giardino la 70 condusse, e quivi non avendo a cui farle tener compagnia a altrui63, disse: «Madonna, poi che altri non c’è, questa buona donna moglie di questo lavoratore vi terrà compagnia tanto che io vada a far metter la tavola». Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s’era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d’ordine spese le sue richezze64; ma 75 questa mattina niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor della quale egli già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere65. E oltre modo angoscioso, seco stesso maledicendo la sua fortuna66, come uomo che fuor di sé fosse or qua e or là trascorrendo67, né denari né pegno68 trovandosi, essendo l’ora tarda e il disidero grande di pure onorar d’alcuna cosa la gentil donna e non volendo, non che 80 altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere69, gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga; per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna.

49 Ultimamente: alla fine. 50 che... dovesse: qualunque cosa ne do-

57 ristorarti: risarcirti. 58 dimesticamente: con familiarità, alla

vesse derivare. 51 di non mandare...recargliele: di non mandare un servitore, ma di andare lei stessa a chiedere il falcone e di portarglielo. 52 di forza: con tutte le tue forze. 53 per modo di diporto: come per una passeggiata di piacere. 54 fecelo adimandare: mandò a chiedere di lui. 55 faceva... acconciare: faceva eseguire certi suoi lavoretti. 56 con una donnesca piacevolezza: con grazia femminile.

buona. 59 niun danno... adivenne: non ricordo di aver mai ricevuto alcun danno da voi ma, se io ho mai avuto dei meriti, è stato (adivenne) per le vostre qualità e l’amore che vi ho portato. La risposta di Federigo è strutturata secondo il modello cortese, per cui l’amore esalta e nobilita chi ama. 60 liberale venuta: generosa visita. 61 oste: ospite. 62 vergognosamente: timidamente. 63 non avendo... altrui: non avendo altri a cui affidarla per tenerle compagnia.

492 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

64 non s’era... le sue ricchezze: non si era ancora reso bene conto di quanti problemi gli creava l’aver speso sconsideratamente tutti i propri averi. 65 il fé ravedere: lo rese consapevole. 66 fortuna: sorte. 67 trascorrendo: vagando qua e là in preda all’agitazione. 68 pegno: oggetto da impegnare. 69 non volendo... richiedere: non volendo chiedere aiuto a nessuno e tanto meno al suo lavoratore.


E però, senza più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella70 il fé prestamente, pelato e acconcio71, mettere in uno schedone72 e arrostir diligentemente; e messa 85 la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far si potea73, disse essere apparecchiato. Laonde la donna con la sua compagna levatasi andarono a tavola e, senza saper che si mangiassero, insieme con Federigo, il quale con somma fede74 le serviva, mangiarono il buon falcone. 90 E levate da tavola e alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate75, parendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, così benignamente verso Federigo cominciò a parlare: «Federigo, ricordandoti tu della tua preterita76 vita e della mia onestà, la quale per avventura77 tu hai reputata durezza e crudeltà, io non dubito punto che tu non ti debbi maravigliare della mia presunzione78 sentendo quello per 95 che principalmente qui venuta sono; ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l’amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa che in parte m’avresti per iscusata79. Ma come che tu no’ n’abbia80, io che n’ho uno, non posso però le leggi comuni dell’altre madri fuggire; le cui forze seguir convenendomi, mi conviene, oltre81 al piacer mio e oltre a ogni convenevolezza e 100 dovere, chiederti un dono il quale io so che sommamente t’è caro: e è ragione82, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro diporto83, niuna consolazione lasciata t’ha la tua strema fortuna84; e questo dono è il falcon tuo, del quale il fanciul mio è sì forte invaghito, che, se io non gliele porto, io temo che egli non aggravi tanto nella infermità la quale ha, che poi ne segua cosa per la quale io il perda. E per ciò ti 105 priego, non per l’amore che tu mi porti, al quale tu di niente se’ tenuto85, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s’è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi, acciò che io per questo dono possa dire d’avere ritenuto86 in vita il mio figliuolo e per quello averloti sempre obligato87». Federigo, udendo ciò che la donna adomandava e sentendo che servir non ne la 110 potea per ciò che mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola risponder potesse. Il qual pianto la donna prima credette che da dolore di dover da sé dipartire il buon falcon divenisse88 più che da altro, e quasi fu per dire che nol volesse89; ma pur sostenutasi90, aspettò dopo il pianto la risposta di Federigo, il qual così disse: «Madonna, poscia che a Dio piacque che 115 io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m’ho reputata la fortuna contraria e sonmi di lei doluto91; ma tutte sono state leggieri a rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver non debbo, pensando che voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre che ricca fu, venir non degnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella abbia sì fatto, che io donar nol vi possa: e 70 fanticella: servetta. 71 pelato e acconcio: spennato e opportunamente preparato con spezie e aromi. 72 schedone: spiedo. 73 che... potea: che lui si poteva permettere. 74 fede: riverenza, devozione. 75 dimorate: dopo aver trascorso. 76 preterita: passata. 77 per avventura: forse. 78 presunzione: audacia.

79 m’avresti per iscusata: mi avresti scusata. 80 come che tu no’ n’abbia: dato che non ne hai. 81 oltre: contro. 82 ragione: giusto. 83 diporto: svago. 84 la tua strema fortuna: la tua fortuna ridotta allo stremo. 85 al quale... tenuto: rispetto al quale non hai alcun dovere. 86 ritenuto: trattenuto.

87 e per quello... obligato: e perché (mio figlio) grazie a esso ti sia sempre riconoscente. 88 divenisse: provenisse. 89 che nol volesse: che non lo voleva più. Secondo Contini l’uso del congiuntivo vuole esprimere un’azione solo immaginata. Corrisponde al congiuntivo dell’eventualità latino. 90 pur sostenutasi: tuttavia trattenutasi. 91 sonmi di lei doluto: mi sono lamentato di essa (la fortuna).

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perché questo esser non possa vi dirò brievemente. Come io udi’ che voi, la vostra mercé92, meco desinar volavate93, avendo riguardo alla vostra eccellenzia e al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con più cara94 vivanda secondo la mia possibilità io vi dovessi onorare, che con quelle che generalmente per l’altre persone s’usano: per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e della sua 125 bontà, degno cibo da voi il reputai, e questa mattina arrostito l’avete avuto in sul tagliere, il quale io per ottimamente allogato avea95; ma vedendo ora che in altra maniera il disideravate, m’è sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare». E questo detto, le penne e’ piedi e ’l becco le fé in testimonianza di ciò gittare 130 avanti. La qual cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d’aver per dar mangiare a una femina ucciso un tal falcone, e poi la grandezza dell’animo suo, la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare96, molto seco medesima commendò97. Poi, rimasa fuori della speranza d’avere il falcone e per quello della salute del figliuolo entrata in forse98, tutta malinconosa si dipartì e tornossi al figliuolo. Il 135 quale, o per malinconia che il falcone aver non potea o per la ’nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto99, non trapassar molti giorni che egli con grandissimo dolor della madre di questa vita passò100. La quale, poi che piena di lagrime e d’amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa ricchissima e ancora giovane, più volte fu da’ fratelli costretta101 a rimaritarsi. La 140 quale, come che voluto non avesse102, pur veggendosi infestare103, ricordatasi del valore di Federigo e della sua magnificenzia104 ultima, cioè d’avere ucciso un così fatto falcone per onorarla, disse a’ fratelli: «Io volentieri, quando vi piacesse, mi starei105; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi». 145 Alla quale i fratelli, faccendosi beffe di lei, dissero: «Sciocca, che è ciò che tu di’? come vuoi tu lui che non ha cosa del mondo?» A’ quali ella rispose: «Fratelli miei, io so bene che così è come voi dite, ma io voglio avanti106 uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo». 150 Li fratelli, udendo l’animo di lei e conoscendo Federigo da molto107, quantunque povero fosse, sì come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono. Il quale così fatta donna e cui108 egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissimo, in letizia con lei, miglior massaio109 fatto, terminò gli anni suoi. – 120

92 la vostra mercé: per vostra bontà. 93 volavate: volevate. Forma allora corrente per analogia con i verbi della prima coniugazione. 94 cara: preziosa. 95 il quale... avea: il quale io ritenevo di avere utilizzato nel modo migliore, servendovelo imbandito. 96 rintuzzare: diminuire.

97 commendò: lodò. 98 della salute... in forse: divenuta incerta riguardo alla salute del figlio.

99 che pure... condotto: che l’avrebbe in ogni modo condotto a questo punto. 100 di questa vita passò: morì. 101 costretta: sollecitata, spinta. 102 come che... non avesse: sebbene non avesse voluto (risposarsi).

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Interpretazioni critiche Luigi Surdich La novella di Federigo come documento sociologico

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103 infestare: tormentare. 104 magnificenzia: generosità. 105 mi starei: me ne asterrei. 106 avanti: piuttosto. 107 da molto: come uomo di grande valore, anche se povero. 108 cui: che. 109 massaio: amministratore.


Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Attraverso le notazioni presenti innanzitutto nella prima parte della novella e poi nel corso della vicenda narrata, come è solito fare, Boccaccio inquadra la storia di Federigo degli Alberighi in un contesto spaziale e temporale. 1. Dove si svolge la vicenda? L’andamento narrativo della novella non è particolarmente complesso: la vicenda si sviluppa attraverso passaggi ben scanditi che consentono agevolmente di individuare le sezioni costitutive del testo, che qui di seguito indichiamo. Esse hanno diversa ampiezza e svolgono funzioni diverse nell’economia complessiva della novella: I sezione: da in Firenze fu fino a comportava. (rr. 7-22) II sezione: da Ora avvenne un dì a alcun miglioramento. (rr. 23-53) III sezione: da La donna la mattina a di questa vita passò. (rr. 54-137) IV sezione: da La quale a terminò gli anni suoi. (rr. 138-153) 2. Dai a ogni sezione un titolo e per ognuna individua e trascrivi sinteticamente le informazioni fondamentali per la comprensione della vicenda narrata. I personaggi della novella non sono molti. I tratti socio-psicologici che li connotano, così come le relazioni che li legano tra di loro, appaiono delineati dall’autore con chiarezza. È interessante notare che al centro della vicenda sta il nobile falcone di Federigo: esso non solo svolge un ruolo chiave nella dinamica narrativa, ma, come meglio si vedrà in seguito, è assai importante anche per la ricostruzione del significato complessivo della vicenda. 3. Indica le principali caratteristiche dei protagonisti, i legami che intrattengono con gli altri personaggi, il ruolo che hanno nella vicenda: Federigo ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� monna Giovanna ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� il figlio di monna Giovanna ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� il falcone ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� i fratelli di monna Giovanna ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� La vicenda di Federigo, disperatamente innamorato ma non corrisposto da monna Giovanna, ha un lieto fine: in modo per lui del tutto inaspettato, proprio quando non può non aver perso ogni speranza, riesce addirittura a sposare la donna amata. 4. Per quale motivo monna Giovanna decide di sposare Federigo? ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� Un personaggio simbolo della civiltà cortese Non è casuale che questa novella giunga all’allegra brigata per bocca di Fiammetta, che l’ha sentita raccontare da Coppo di Borghese Domenichi, personaggio illustre del comune di Firenze. Un certo tono di autorevolezza si addice infatti a una narrazione incentrata su un personaggio emblema dei valori e delle raffinate consuetudini di vita della antica nobiltà. Con Federigo Boccaccio ci dà il ritratto paradigmatico di quella gioventù cavalleresca e cortese che al suo tempo era ormai tramontata, rimpiazzata dalla borghesia intraprendente e produttiva rappresentata dai fratelli di monna Giovanna. Il contrasto tra questi due mondi è ben reso dal brutale pragmatismo con cui i due ricchi giovani si riferiscono a Federigo («non ha cosa del mondo») quando Giovanna dichiara di volerlo per sposo. Secondo l’ideale di “gentilezza” e nobiltà codificato dalla letteratura cortese-stilnovista, in un uomo delle qualità di Federigo non può mancare un amore sublime: egli si innamora infatti di una bellissima donna e per conquistarne l’amore dilapida i suoi beni, già modesti. Federigo è una figura in sé positiva, a cui l’autore guarda con simpatia: non esprime alcun giudizio esplicito sulla sua eccessiva prodigalità, ma si limita a enunciarne le conseguenze: la povertà estrema, a cui rimane soltanto, e non solo per eletto divertimento, ma per sostentamento, la caccia col falcone, simbolo ultimo della condizione nobiliare.

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5. Quali aspetti del modello cortese di comportamento ritrovi nella descrizione di Federigo e del suo innamoramento per monna Giovanna? 6. Trascrivi i termini che si iscrivono nel codice cortese cavalleresco. Anche il linguaggio di questa novella si adegua alla rappresentazione di un mondo regolato dai codici della cavalleria, dell’onore e dell’amor cortese. In particolare il dialogo con monna Giovanna, momento cruciale della novella, è intriso di formule e locuzioni che appartengono alla trattatistica amorosa medievale, incentrata sul “servizio d’amore”. 7. Dopo averne fatto la parafrasi, analizza le due risposte di Federigo a Giovanna: osserva la costruzione del periodo e l’uso del lessico cortese. (da «Madonna, niun danno «a» siate venuta» a «Madonna, poscia che «a» ne credo dare»). La sconfitta dell’ideale feudale Boccaccio non rifiuta certo l’eredità morale e culturale della civiltà cortese, ma intende dimostrare come il mondo che in essa si rispecchia, quello feudale, sia ormai giunto al tramonto e che i princìpi di vita di quell’universo ormai non siano più compatibili con la realtà moderna, ben più pragmatica e legata a valori concreti e pratici, come l’ingegno, l’“industria”, la capacità di ben amministrare un patrimonio. La rovina si verifica molto facilmente (di leggiere) quando uno spende «oltre a ogni suo potere [...] niente acquistando»; quest’ultima è una formula tipica del linguaggio stilnovista, che si incontra anche in Guinizzelli. Di per sé si riferisce all’amore non corrisposto che il cavaliere prova per la dama; ma in questo caso, nella situazione di Federigo, che sta sconsideratamente dilapidando tutti i suoi averi, la frase acquista un altro senso, strettamente legato alla materiale realtà economica: non si può spendere più di quanto non si acquisti o, in altre parole, le uscite non devono mai superare le entrate. Senza pronunciare un’aperta condanna del mondo cortese, Boccaccio utilizza il suo stesso linguaggio, caricandolo di un significato nuovo, per decretarne l’inesorabile sconfitta. In questo senso anche il sacrificio del falcone assume un valore simbolico: da fiero emblema della nobiltà feudale l’animale si vede improvvisamente trasformato in pietanza succulenta, e le scelte lessicali del narratore sottolineano opportunamente (e anche, si potrebbe dire, con una certa spietata ironia...) questa metamorfosi radicale. 8. Evidenzia la trasformazione rapida che avviene, nello sguardo stesso di Federigo rivolto al falcone, uccello «de’ miglior del mondo», nobile e fidato compagno, quando questi si trova nella necessità di imbandire un pranzo adeguato a monna Giovanna; e il modo in cui l’autore, attraverso le scelte espressive esprime la “degradazione” dell’animale a cibo. Una doppia “morale della storia” D’altra parte la capacità di amare in modo disinteressato e la generosità d’animo dimostrata da Federigo sono per Boccaccio valori che possono e devono sopravvivere al declino del mondo feudale e nella novella vengono alla fine premiati, a patto però che l’uomo capisca i propri errori e si dimostri in grado di adattarsi alle mutate condizioni storiche e sociali. Una volta ottenuto, se non l’amore, almeno il matrimonio con la dama desiderata, Federigo dovrà imparare a gestire meglio la riconquistata ricchezza, e da donzel che era, si trasformerà in miglior massaio. Al tempo stesso la ricca monna Giovanna sceglie il nobile d’animo ma povero Federigo e controbatte alla critica dei fratelli con la frase: «Io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo». 9. Come puoi notare anche dal passo critico proposto, Boccaccio sembra auspicare un felice compromesso tra i valori della nobiltà feudale e la moderna etica borghese: quale ti sembra il suo atteggiamento rispetto a queste diverse visioni del mondo? Che cosa giudica positivo del viver cortese, e che cosa invece andrebbe scartato, o per lo meno cambiato? E nella realtà borghese? 10. Per quali ragioni Federigo si può considerare un personaggio “dinamico”? A chiusa della novella si trova un termine chiave che si riverbera sull’intera novella, in un certo senso sintetizzando il significato di parabola della vicenda di Federigo: massaio, termine che certamente si contrappone al lessico cortese (donzel ecc.) che lo connota all’inizio. 11. Rifletti, utilizzando il dizionario, sui termini masserizia, massaia, massaio. Nastagio degli Onesti (➜ T6c ) e Federigo degli Alberighi: entrambi i giovani sono di nobile condizione, entrambi sono segnati da un amore non corrisposto, entrambi mettono a repentaglio il proprio patrimonio per tentare di conquistare la dama desiderata. 12. Quali sono le analogie e quali le differenze tra questi due personaggi? E in che cosa differiscono le due donne oggetto del loro amore?

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T10

La beffa e la dimensione comica Nel Decameron la beffa e la dimensione comica sono incarnate da Calandrino, personaggio realmente esistito, protagonista di un “ciclo narrativo” (VIII, 3-6; IX, 3 e 5) e famoso per l’ingenuità e la presunzione, caratteristiche con le quali lo descrivono anche Sacchetti e Giorgio Vasari.

Giovanni Boccaccio

T10a

Calandrino e l’elitropia Decameron VIII, 3

G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

AUDIOLETTURA

Protagonista di questa novella è Calandrino, soprannome del pittore Giannozzo di Perino. Boccaccio rese celebre Calandrino facendolo comparire in varie novelle del Decameron sempre nelle vesti di vittima dei suoi presunti amici, Bruno e Buffalmacco, che si divertono alle sue spalle. Qui essi, con la complicità di Maso del Saggio, lo convincono dell’esistenza di una pietra magica, l’elitropia, in grado di donare l’invisibilità a chi ne entri in possesso.

CALANDRINO, BRUNO E BUFFALMACCO GIÙ PER LO MUGNONE1 VANNO CERCANDO DI TROVAR L’ELITROPIA2, E CALANDRINO SE LA CREDE AVER TROVATA; TORNASI A CASA CARICO DI PIETRE; LA MOGLIE IL PROVERBIA3, E EGLI TURBATO4 LA BATTE, E A’ SUOI COMPAGNI RACCONTA CIÒ CHE ESSI SANNO MEGLIO DI LUI. [...] Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole5, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi6. Il quale il più del tempo con due altri dipintori usava7, chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco8, uomini sollazzevoli molto ma per altro 5 avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano9. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza in ciascuna cosa che far voleva, astuto e avvenevole10, chiamato Maso del Saggio11; il quale, udendo alcune cose della semplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi12 col fargli alcuna beffa 10 o fargli credere alcuna nuova cosa13. E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni14 e vedendolo stare attento a riguardare le dipinture e gl’intagli15 del tabernaculo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione. E informato un suo compagno di ciò che fare intendeva,

1 Mugnone: torrentello che si butta nell’Arno, a valle di Firenze. 2 elitropia: minerale cui nel Medioevo si attribuivano virtù magiche. 3 il proverbia: lo rimprovera. 4 turbato: alterato. 5 la qual... abondevole: che è sempre stata ricca di usanze diverse e gente strana. 6 nuovi costumi: comportamenti strani. 7 usava: trascorreva. 8 l’un Bruno e l’altro Buffalmacco:

come Calandrino, sono entrambi pittori realmente esistiti. Il primo è Bruno di Giovanni; il vero nome del secondo è Buonamico e gli si attribuiscono gli affreschi del Duomo di Arezzo e il Trionfo della morte nel camposanto di Pisa. 9 li quali... prendevano: i quali frequentavano Calandrino perché spesso traevano gran motivo di divertimento dai suoi modi e dalla sua ingenuità. 10 avvenevole: abile, a cui tutto riusciva bene.

11 Maso del Saggio: anch’egli è personaggio reale. Noto per la sua abilità nelle burle (compare anche nelle novelle del Sacchetti), svolgeva l’attività di sensale. 12 prender... suoi: divertirsi alle sue spalle. 13 nuova cosa: cosa strana, sciocchezza. 14 San Giovanni: il Battistero di Firenze. 15 gl’intagli: i bassorilievi. Poiché risulta dalle cronache cittadine che l’opera era stata commissionata nel 1313 a Lippo di Benivieni, è possibile datare la novella con relativa precisione.

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insieme s’accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo insieme incominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario16. A’ quali ragionamenti Calandrino posta orecchie17, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro, il che forte piacque a Maso18; 20 il quale, seguendo le sue parole19, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose20 si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone21, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi22, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un’oca a denaio e un papero giunta23; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti 25 che niuna altra cosa facevano che far maccheroni24 e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi25 giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia26, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua. «Oh» disse Calandrino «cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che 30 cuocon coloro27?» Rispose Maso: «Mangiansegli i baschi tutti». Disse allora Calandrino: «Fostivi tu mai?». A cui Maso rispose: «Di’ tu se io vi fu’ mai? Sì vi sono stato così una volta come mille28». 35 Disse allora Calandrino: «E quante miglia ci ha?». Maso rispose: «Haccene più di millanta, che tutta notte canta29». Disse Calandrino: «Dunque dee egli essere più là che Abruzzi30». «Sì bene,» rispose Maso «sì è cavelle31». Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo32 e senza 40 ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità è più manifesta, e così l’aveva per vere; e disse: «Troppo ci è di lungi a’ fatti miei33: ma se più presso ci fosse34, ben ti dico che io vi verrei una volta con esso teco pur per veder fare il tomo35 a quei maccheroni e tormene una satolla36. Ma dimmi, che lieto sie tu37, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre così virtuose?». 45 A cui Maso rispose: «Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù. 15

16 un solenne... lapidario: un grande esperto di pietre preziose. 17 A’ quali… orecchie: ai quali ragionamenti prestando Calandrino. posta: uso del participio in forma invariata, non concordato con il sostantivo femminile plurale che segue. 18 sentendo… Maso: sentendo che non era una conversazione segreta, si unì a loro, cosa che piacque molto (forte) a Maso. 19 seguendo le sue parole: proseguendo con il suo discorso. 20 virtuose: piene di straordinarie virtù. 21 Berlinzone: comincia la geografia burlesca di Maso, che utilizza nomi favolosi e assurdi simili a quelli della predica di frate Cipolla. 22 Bengodi: toponimo inventato, dal significato trasparente, indica un paese

favoloso dove si mangia e si beve a piacimento. 23 avevavisi... giunta: per un solo denaro vi si poteva acquistare un’oca e un papero, per giunta. 24 maccheroni: gnocchi. 25 quindi: di qui. 26 vernaccia: vino bianco secco. 27 capponi che cuocon coloro: si noti l’effetto di consonanza e allitterazione prodotto dall’accostamento di questi tre termini, che enfatizza burlescamente l’ingordigia insita nella domanda di Calandrino. 28 così una volta come mille: frase ambigua, tipica del linguaggio burlesco, in cui si nega fingendo di affermare. 29 Haccene... canta: frase senza senso reale, così come il numerale millanta, che serve semplicemente a colpire l’immagi-

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nazione dell’ingenuo Calandrino, utilizzando anche l’effetto della rima contenuto nella filastrocca. 30 più là che Abruzzi: gli Abruzzi erano spesso citati come proverbiale terra remota; compaiono anche nella predica di frate Cipolla, a cui può essere avvicinato il fantasioso discorso di Maso. 31 cavelle: un nonnulla. Si tratta di un’altra contraddizione burlesca. 32 fermo: impassibile. 33 Troppo... miei: è troppo lontano per le mie possibilità. 34 ma se... fosse: ma se fosse più vicino. 35 tomo: ruzzolone, capitombolo. 36 tormene una satolla: farmene una scorpacciata. 37 che lieto sie tu: che tu possa essere felice, per le informazioni che mi dai.


L’una sono i macigni da Settignano e da Montisci38, per vertù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina39, e per ciò si dice egli in que’ paesi di là, che da Dio vengono le grazie e da Montisci le macine; ma ècci40 di questi macigni sì gran quantità, che appo noi è poco prezzata41, come appo loro gli smeraldi, de’ quali 50 v’ha maggior montagne che Monte Morello42, che rilucon di mezzanotte vatti con Dio43; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella prima che elle si forassero44 e portassele al soldano45, n’avrebbe ciò che volesse. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidarii appelliamo46 elitropia, pietra di troppo gran vertù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna 55 altra persona veduto dove non è47». Allora Calandrin disse: «Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si truova?» A cui Maso rispose che nel Mugnone se ne solevan trovare. Disse Calandrino: «Di che grossezza è questa pietra? o che colore è il suo?» Rispose Maso: «Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è più e alcuna meno, ma 60 tutte son di colore quasi come nero». Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembianti d’avere altro a fare, si partì da Maso e seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa48 di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente49 amava. Diessi50 adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che 65 alcuno altro n’andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli. Ultimamente51, essendo già l’ora della nona passata52, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza53, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n’andò a costoro e chiamatigli così disse loro: «Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo 70 divenire i più ricchi uomini di Firenze: per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra54 non è veduto da niuna altra persona; per che a me parrebbe55 che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andasse, v’andassimo a cercar. Noi la troverem per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro 75 se non mettercela nella scarsella56 e andare alle tavole de’ cambiatori57, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi58 e di fiorini, e torcene59 quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare60 le mura a modo che fa la lumaca». 38 Settignano... Montisci: località presso Firenze, con importanti cave di pietra. 39 per vertù... farina: le macine sono grosse mole di pietra che, sovrapposte, sono utilizzate per polverizzare i cereali. In realtà non c’è nulla di miracoloso in quanto sta dicendo Maso, ma le frasi equivoche vogliono proprio indurre quest’impressione nell’animo di Calandrino. 40 ècci: c’è. 41 appo… prezzata: presso di noi è poco apprezzata. 42 Monte Morello: anche questa è una località nei paraggi di Firenze. 43 vatti con Dio: «non mi far dire altro» (Branca). Proverbiale forma di commiato. 44 chi facesse... forassero: chi volesse inanellare le macine infilandole senza

prima scavarci il foro al centro. È un’assurdità. 45 soldano: sultano d’Egitto. Ai riferimenti municipali si alternano località esotiche, con l’intento di frastornare il povero Calandrino. 46 appelliamo: chiamiamo. 47 non è... dove non è: non viene visto da nessuno dove non è. Calandrino interpreta la frase, in sé del tutto ovvia, attribuendo alla pietra il potere di rendere invisibili. 48 senza saputa: senza aver avvertito. 49 spezialissimamente: in maniera molto speciale, moltissimo. 50 Diessi: iniziò, si diede. 51 Ultimamente: alla fine.

52 essendo... passata: erano dunque da poco passate le tre pomeridiane. 53 monistero delle donne di Faenza: convento femminile posto fuori porta Faenza, all’incirca dove poi sorse la Fortezza da Basso. Il pittore Buffalmacco, secondo il Vasari, vi lavorò veramente. 54 sopra: addosso. 55 a me parrebbe: mi sembrerebbe bene, conveniente. 56 scarsella: borsetta di cuoio che si portava appesa alla cintura. 57 cambiatori: cambiavalute. 58 grossi: monete d’argento. 59 torcene: prendercene. 60 schiccherare: imbrattare. Calandrino allude in modo svalutativo al loro lavoro di pittori.

Il Decameron 2 499


Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra se medesimi cominciarono a ridere, e guatando l’un verso l’altro fecer sembianti di maravigliarsi forte e lodarono il consiglio61 di Calandrino; ma domandò Buffalmacco come questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di grossa pasta62, era già il nome uscito di mente; per che egli rispose: «Che abbiam noi a far del nome poi che noi sappiamo la vertù63? A me parrebbe che noi andassomo64 a cercare senza star più». 85 «Or ben» disse Bruno «come è ella fatta?» Calandrin disse: «Egli ne son d’ogni fatta65 ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo a essa66; e per ciò non perdiamo tempo, andiamo». 80

[Bruno suggerisce di recarsi al Mugnone domenica mattina per andare alla ricerca della pietra magica. Di buon mattino i tre amici giungono nella zona designata. Calandrino, pieno di zelo, raccoglie ogni pietra nera che trova, finché si ritrova ogni punto delle vesti che sia possibile caricare pieno di pietre. È il momento atteso dai due per inscenare la beffa ai suoi danni.] [...] veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del mangiare s’avicinava, secondo l’ordine da sé posto67 disse Bruno a Buffalmacco: «Calandrino dove è?» Buffalmacco, che ivi presso sel vedea, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose: «Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi». Disse Bruno: «Ben che fa poco!68 a me par egli esser certo che egli è ora a casa a 95 desinare e noi ha lasciati nel farnetico69 d’andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone». «Deh come egli ha ben fatto» disse allora Buffalmacco «d’averci beffati e lasciati qui, poscia che70 noi fummo sì sciocchi, che noi gli credemmo. Sappi!71 chi sarebbe stato sì stolto, che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa 100 pietra, altri che noi?». Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù d’essa coloro, ancor che loro fosse presente72, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura73, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro se ne cominciò a venire. 105 Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: «Noi che faremo? ché non ce ne andiam noi?» A cui Bruno rispose: «Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli fossi presso come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto74 nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa»; e il dir le parole e l’aprirsi75 e ’l dar del ciotto nel calcagno a Calandrino fu 110 tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare ma pur si tacque e andò oltre. 90

61 consiglio: progetto. 62 di grossa pasta: sempliciotto. 63 la vertù: la proprietà. 64 andassomo: andassimo. Si tratta di una forma dialettale. 65 d’ogni fatta: di ogni forma. 66 tanto che... a essa: fino a che non ci imbattiamo in essa.

67 secondo... posto: secondo il piano architettato in precedenza tra loro. 68 Ben che fa poco!: altro che poco! 69 nel farnetico: nella follia. 70 poscia che: dal momento che. 71 Sappi!: guarda, vedi un po’! 72 ancor che loro fosse presente: sebbene fosse davanti a loro.

500 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

73 ventura: fortuna. 74 gli darei... ciotto: lo colpirei con questo ciottolo con tale violenza.

75 l’aprirsi: l’aprire le braccia per scagliare il ciottolo.


Buffalmacco, recatosi in mano uno de’ codoli76 che raccolti avea, disse a Bruno: «Deh vedi bel codolo: così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino!» e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa; e in brieve in cotal guisa, or 115 con una parola e or con una altra, su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri77 si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo. Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla 120 Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole78 alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse79 per ciò che quasi80 a desinare era ciascuno. Entrossene adunque Calandrino così carico in casa sua. Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente81 donna, in capo della scala: 125 e alquanto turbata della sua lunga dimora82, veggendol venire cominciò proverbiando83 a dire: «Mai, frate, il diavol ti ci reca84! Ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare». Il che udendo Calandrino e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: «Oimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m’hai diserto85, ma in 130 fé di Dio io te ne pagherò!» e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso86 corse verso la moglie e presala per le trecce la si gittò a’ piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e’ piedi, tanto le diè per tutta la persona: pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso adosso che macero87 non fosse le diede, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce88. 135 Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell’uscio89 di lui sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure90 allora il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso, e affannato si fece alla finestra e pregogli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi 140 alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre e nell’un de’ canti91 la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso, dolorosamente piagnere; e d’altra parte Calandrino, scinto e ansando a guisa d’uom lasso92, sedersi. Dove, come alquanto ebbero riguardato, dissero: «Che è questo, Calandrino? vuoi tu murare93, ché noi veggiamo qui tante pietre?» e oltre a questo sogiunsero: «E monna 145 Tessa che ha? E’ par che tu l’abbi battuta: che novelle94 son queste?» Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta e del dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccoglier lo spirito95a formare intera la parola alla risposta; per che soprastando96, Buffalmacco ricominciò: «Calandrino, se tu aveva altra ira97, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; 76 codoli: ciottoli. 77 guardie de’ gabellieri: guardie che riscuotevano il dazio alle porte della città. 78 piacevole: propizia. 79 come che... ne scontrasse: avendone peraltro incontrati pochi. 80 quasi: è da riferire a ciascuno. 81 valente: saggia. 82 lunga dimora: assenza, ritardo. 83 proverbiando: rimproverandolo.

84 Mai... reca: finalmente, fratello, il diavolo ti porta a casa. 85 diserto: rovinato. 86 niquitoso: furibondo. 87 macero: pesto. Ma in una novella successiva (IX, 5) i ruoli si invertiranno, e sarà monna Tessa a suonarle al marito. 88 niuna cosa... in croce: non servendole a nulla chiedere pietà con le mani in croce (in gesto di supplica). 89 a piè dell’uscio: sotto l’uscio. Quest’ul-

timo era solitamente sollevato di qualche gradino rispetto alla strada. 90 pure: solamente. 91 canti: angoli. 92 lasso: distrutto. 93 murare: fabbricare un muro. 94 novelle: novità. 95 raccogliere lo spirito: tirare il fiato. 96 per che soprastando: poiché indugiava. 97 altra ira: un altro motivo di rabbia.

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ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo98, a guisa di due becconi99 nel Mugnon ci lasciasti e venistitene100, il che noi abbiamo forte per male101; ma per certo questa fia la sezzaia102 che tu ci farai mai». A queste parole Calandrino sforzandosi rispose: «Compagni, non vi turbate, l’opera103 sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato!, aveva quella pietra trovata; 155 e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l’un l’altro104, io v’era presso a men di diece braccia105 e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v’entrai innanzi106, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto». E cominciandosi dall’un de’ capi infin la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’a160 vessero; e poi seguitò: «E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que’ guardiani107 a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto108 e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sì come quegli che 165 non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi e ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la vertù a ogni cosa109: di che io, che mi poteva dire il più avventurato110 uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e per questo l’ho tanto battuta quanto io ho potuto menar le mani e non so a quello che io mi tengo che io non le 170 sego le veni111, che maladetta sia l’ora che io prima la vidi e quando ella mai venne in questa casa!» E raccesosi nell’ira si voleva levare per tornare a batterla da capo. Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano112 quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ridere, che quasi scoppiavano; ma vedendolo furioso levare113 per battere un’altra 175 volta la moglie, levatiglisi alla ’ncontro il ritennero114, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna ma egli, che sapeva che le femine facevano perdere la vertù alle cose e non l’aveva detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento115 Idio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua o perché egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come 180 s’avedeva averla trovata, il dovea palesare116. E dopo molte parole, non senza gran fatica la dolente donna riconciliata con essolui e lasciandol malinconoso con la casa piena di pietre, si partirono.

98 poi... a diavolo: dopo che ci hai indotti con l’inganno (sodotti) a cercare con te la pietra preziosa, senza salutarci. 99 becconi: bestioni stupidi. 100 venistitene: te ne sei tornato a casa. 101 il che... per male: del che noi ci siamo molto risentiti. 102 sezzaia: ultima. 103 l’opera: la faccenda. 104 Quando voi... l’un l’altro: quando cominciaste a chiedervi l’un l’altro dove fossi.

105 diece braccia: cinque metri circa. Un braccio corrisponde a più di mezzo metro. 106 v’entrai innanzi: vi passai davanti. 107 que’ guardiani: le guardie del dazio nominate prima. 108 far motto: rivolgermi la parola. 109 le femine... a ogni cosa: antico pregiudizio popolare, secondo cui le donne hanno il nefasto potere di annullare le virtù magiche presenti in una certa sostanza, o in un oggetto.

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110 avventurato: fortunato. 111 non so... le veni: non so che cosa mi trattenga dal tagliarle le vene. 112 affermavano: confermavano. 113 levare: alzarsi. 114 levatiglisi... il ritennero: mossi contro di lui, lo trattennero. 115 avvedimento: precauzione. 116 a’ quali... palesare: ai quali, come si fosse accorto di averla trovata (la pietra magica) doveva rivelarlo.


Analisi del testo I luoghi La novella ha una struttura molto articolata, con vari cambi di scena e movimenti di personaggi. Dopo una breve parte introduttiva comincia l’azione, che si svolge in tre ambienti diversi: •  la chiesa di San Giovanni, dove Maso del Saggio prepara il terreno per la beffa, raccontando a Calandrino del paese di Bengodi e della fantomatica elitropia che dona l’invisibilità; •  il greto del Mugnone, dove Calandrino si reca insieme a Bruno e Buffalmacco alla ricerca della pietra magica e, credendo di averla trovata, subisce in silenzio le sassate e le percosse dei due burloni; •  la casa di Calandrino, dove ovviamente la moglie lo vede, provocando la sua furibonda reazione.

Beffati e beffatori Calandrino rappresenta il tipo dell’ingenuo ottuso (uom semplice) e anche un po’ stravagante (di nuovi costumi), pronto a credere alle più assurde fandonie e incapace di comprendere la verità anche quando se la ritrova sotto gli occhi. Occorre sottolineare come la sua stoltezza sia una caratteristica del tutto personale, che non deriva dall’appartenenza a un particolare ambiente o ceto; così come, al contrario, il seme dell’ingegno, secondo la concezione di Boccaccio, può germogliare ovunque, indipendentemente dall’estrazione sociale: tant’è vero che, fin dalle prime battute, il personaggio di Calandrino è posto in netta contrapposizione con quelli di Bruno, Buffalmacco e Maso del Saggio, che come lui provengono dall’ambiente della piccola borghesia e svolgono addirittura lo stesso mestiere. Si definiscono quindi due livelli d’azione, quello dei “beffatori” e quello del beffato, che rimangono invariati nel corso della narrazione. Neppure alla fine quest’ultimo capisce di essere stato vittima di uno scherzo; anzi, Bruno e Buffalmacco possono persino argomentare che solo sua è la colpa di quanto è successo, dal momento che intendeva ingannare i suoi compari. La sciocchezza, colpa imperdonabile nell’etica borghese di Boccaccio, in Calandrino è aggravata dall’avidità, che lo spinge a fantasticare sui possibili usi disonesti dell’elitropia, e dalla tendenza alla millanteria che emerge più volte nei suoi discorsi. Il ristretto orizzonte mentale del personaggio si rivela già nella sua prima reazione ai racconti di Maso sul paese di Bengodi: «“Oh!” disse Calandrino “cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro?”»; lo stimolo principale dell’interesse di Calandrino per i favolosi luoghi di cui sente narrare non è la curiosità, che forse potrebbe in qualche modo riscattare il suo peccato di ingenuità, bensì l’ingordigia, caratteristica più bestiale che umana, che il virtuosismo linguistico di Boccaccio sottolinea attraverso l’allitterazione della consonante c: l’accavallarsi di suoni dà quasi il senso dell’acquolina in bocca con cui l’uomo doveva pensare a quei favolosi capponi.

Il gusto della beffa fine a sé stessa Per Bruno, Buffalmacco e Maso, che condividono lo stesso livello di conoscenza e di consapevolezza dell’autore e dei lettori, Calandrino è l’oggetto ideale per le loro beffe: beffe che, è importante notare, sono perpetrate non per ottenere qualcosa, bensì per puro divertimento, per il piacere di vedere la propria astuzia vincere sulla dabbenaggine altrui. Boccaccio non lascia alcun dubbio a questo proposito, quando espone le intenzioni di Maso del Saggio: «udendo alcune cose della semplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa o fargli credere alcuna nuova cosa». Infatti, nella concezione boccacciana l’ingegno è di per sé un valore, indipendentemente dalla finalità per la quale viene utilizzato, fosse anche la truffa o il furto. Tra la stupidità di Calandrino e il proposito di prendersi gioco di lui s’instaura un rapporto quasi causale: è destino degli ingenui di essere vittima degli astuti e diritto di questi ultimi avvalersi della propria superiorità intellettuale. Calandrino subirà entrambi i propositi burleschi di Maso (fare alcuna beffa e far credere alcuna nuova cosa): prima infatti gli verrà propinata da Maso la fola del paese di Bengodi, quindi Bruno e Buffalmacco gli tenderanno lo scherzo dell’elitropia.

Il Decameron 2 503


La tradizione burlesca medievale Nella novella troviamo molti elementi tipici della tradizione burlesca medievale, qui rivisitati e utilizzati con una consapevolezza del tutto nuova, nonché spogliati della loro originale ingenuità per trasformarsi in armi feroci con cui Maso del Saggio, Bruno e Buffalmacco, veri campioni di scaltrezza, possono ordire la loro beffa ai danni del misero Calandrino. Vediamoli in breve: •  il mito popolare del paese di Bengodi, dove non occorre lavorare perché ogni ben di Dio è a libera disposizione di chiunque: questo è un vero e proprio topos della cultura medievale, diffuso a tutti i livelli, il che rende la credulità dello stolto Calandrino ancora più marchiana; •  l’uso di filastrocche e giochi di parole («Haccene più di millanta, che tutta notte canta»); •  il ricorso a circonlocuzioni e modi di dire atti a confondere le idee dell’interlocutore ingenuo, per esprimere il contrario di ciò che sembra o far passare come eccezionali cose del tutto comuni («i macigni da Settignano e da Montisci, per vertù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina»; « pietra di troppo gran vertù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la novella in 10 righe. COMPRENSIONE 2. Quali aspetti dell’ideologia di Boccaccio sono rispecchiati nella novella? ANALISI 3. La novella appartiene al gruppo di testi comici del Decameron: su che cosa si fonda la comicità di questa novella? Quali momenti di essa ti sembrano più divertenti? 4. Commenta l’atteggiamento del narratore nei confronti del protagonista.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Le parole di Maso del Saggio presentano molte analogie con la predica di frate Cipolla. Anche se quello era un contesto collettivo, che metteva in scena il rapporto predica-pubblico, la situazione è per molti versi simile. Metti a confronto i due brani e analizza le strategie utilizzate dal frate e da Maso per ingannare la folla di fedeli il primo, e Calandrino il secondo. SCRITTURA CREATIVA 6. Costruisci un racconto fondato su una beffa che abbia come protagonista e comprimari personaggi analoghi a quelli presenti nel racconto di Boccaccio.

online T10b Giovanni Boccaccio

Calandrino aspetta un figlio Decameron IX, 3

504 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

online

Per approfondire Una scena della novella di Calandrino e l’elitropia nelle versioni di Piero Chiara e di Aldo Busi


3 Il Decameron nel tempo 1 La fortuna del Decameron nella cultura europea La ricezione del Decameron Per quanto riguarda le culture straniere, la conoscenza, per lo meno indiretta, di Boccaccio è testimoniata in Inghilterra già verso la fine del Trecento: rimandano al modello decameroniano i Canterbury Tales (1387 ca.) di Geoffrey Chaucer (➜ SGUARDO SULLA LETTERATURA INGLESE, PAG. 507), una raccolta di novelle in versi che costituisce un vivace ritratto della società inglese del periodo. In seguito è soprattutto il teatro shakespeariano a testimoniare l’assimilazione della lezione, più che altro attraverso la mediazione dei novellieri post-boccacciani come Matteo Bandello: le commedie che mostrano debiti più diretti con il Decameron sono Cimbelino e Tutto è bene quel che finisce bene. Anche nella cultura spagnola l’autore, tradotto già a partire dalla metà del Quattrocento, trasmette argomenti e situazioni alla narrativa (echi boccacciani si ritrovano nelle Novelle esemplari, ma anche nel Don Chisciotte di Cervantes) e soprattutto al teatro del Seicento. In Francia la fortuna di Boccaccio inizia con l’Eptameron di Margherita di Navarra, che rimanda, fin dal titolo, al Decameron, per proseguire con Rabelais e arrivare fino al Molière de La scuola dei mariti (1661).

Miniatura per la novella di Guiglielmo Rossiglione (Decameron, IV, 9): «Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da un’alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita».

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Geoffrey Chaucer

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Il ritratto del venditore di indulgenze I racconti di Canterbury

G. Chaucer, I racconti di Canterbury, a cura di E. Barisone, Mondadori, Milano 2003

Per dare almeno un’idea del vivace realismo rappresentativo di Chaucer, leggiamo, tratto dal prologo, il ritratto di uno dei pellegrini-narratori, l’Indulgenziere (ovvero colui che, per incarico della Curia romana, cercava di vendere le indulgenze). L’ironico riferimento alle false reliquie ricorda da vicino la celebre novella boccacciana di frate Cipolla (➜ T6d ).

Cavalcava con lui1 un mite Indulgenziere di Roncisvalle2, suo degno amico e compare, ch’era appena tornato dalla corte di Roma. Costui cantava a squarciagola: «Vieni, vieni, amor, da me!». E il Cursore gli faceva da accompagnamento, con una voce due volte più bassa e forte del suono d’un trombone. Quest’Indulgenziere aveva i capelli gialli come la cera, che ricadevano giù molli come una matassa di lino; i riccioli che aveva, a once3, gli si allungavano fin sulle spalle e penzolavano radi, uno per uno, come straccetti. Eppure per civetteria non portava il cappuccio, tenendolo ben chiuso nella bisaccia. Credeva d’andare all’ultima moda, coi capelli sciolti e la testa coperta solo da un berrettino. Aveva gli occhi sporgenti come quelli d’una lepre. Sul berretto s’era cucita una veronica4. E teneva davanti in grembo una bisaccia piena zeppa d’indulgenze, giunte calde calde da Roma. La sua voce era belante come quella d’una capra. Ma barba non ne aveva e non ne avrebbe mai avuta, perché era pulito e liscio come uno appena raso. Credo che fosse un castrone o una cavalla5. Ma quanto al suo lavoro, non c’era mercante d’indulgenze pari a lui, neanche a cercarlo da Berwick fino a Ware6. Teneva nella sua sacca una federa7 e sosteneva ch’era il manto della Madonna; diceva anche di avere un brandello della vela di san Pietro quando ancora andava per mare8, prima che lo prendesse con sé Gesù Cristo. Aveva una croce d’ottone ornata di sassetti e, dentro un vetro, alcune ossa di porco. Con queste reliquie, appena trovava qualche povero parroco di campagna, faceva in un giorno più soldi lui che il parroco in due mesi. E così, con false lusinghe e trucchi, gabbava parroco e fedeli. Però bisogna dire la verità: in chiesa alla fin fine era un egregio ministro del culto. Al mattutino9 sapeva leggere magnificamente l’epistola o la leggenda d’un santo, ma meglio d’ogni altra cosa cantava l’offertorio, perché sapeva che dopo quel canto c’era la predica, e bisognava sciogliere bene la lingua per poi spillar quattrini, cosa in cui riusciva perfettamente. Ecco perché cantava allegramente con quanto fiato aveva in gola. [...]

1 con lui: si riferisce al personaggio del Cursore, nominato più sotto. È un altro dei narratori, un messo del tribunale ecclesiastico. 2 Indulgenziere di Roncisvalle: un venditore di indulgenze, proveniente dall’istituto di Santa Maria di Roncisvalle a Londra. Il personaggio in questione è un imbroglione che cerca, ricorrendo a espedienti come l’esibizione di false reliquie, di conquistare i fedeli, a cui poi vendere le indulgenze, ovvero la possi-

bilità di comprare l’assoluzione dei peccati. Uno scandalo diffuso, contro cui si scaglierà Martin Lutero. 3 a once: in quantità minima. 4 una veronica: una raffigurazione di Cristo. Il termine veronica propriamente si riferisce al panno di lino con cui una donna (che poi prese il nome di Veronica) deterse il volto di Cristo durante la salita al Calvario, e sul quale sarebbe rimasto impresso il volto di Gesù.

506 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

5 un castrone o una cavalla: allusione all’aspetto femmineo dell’Indulgenziere. 6 da Berwick fino a Ware: località dell’Inghilterra. 7 una federa: fodera con cui si coprono cuscini e guanciali. 8 quando... per mare: Pietro era pescatore. 9 mattutino: la prima delle ore canoniche previste dalla liturgia.


Concetti chiave Il ritratto dell’Indulgenziere

Nel brano è presente il ritratto di un personaggio incaricato dalla Curia romana di vendere indulgenze. Dapprima il narratore si sofferma sulle caratteristiche fisiche: l’aspetto femmineo, i riccioli radi, la voce belante; poi sul suo compito, ovvero quello di commerciare assoluzioni «giunte calde calde da Roma», un ruolo simboleggiato dalla bisaccia tenuta davanti al grembo zeppa di indulgenze. Infine si fa riferimento alle reliquie possedute dall’Indulgenziere: una federa ritenuta il manto della Madonna, un brandello di una vela di san Pietro pescatore, una croce d’ottone; implicito e quasi scontato per un lettore colto diviene il confronto con Frate Cipolla, celebre protagonista di una novella del Decameron di Boccaccio.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché l’Indulgenziere non portava il cappuccio? STILE 2. Nel brano ritorna più di una volta una medesima figura retorica: quale?

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 3. Fai una ricerca in Internet sull’utilizzo delle reliquie nel periodo medievale; realizza poi un prodotto multimediale attraverso il quale rendicontare ai tuoi compagni di classe e all’insegnante i risultati del tuo lavoro. TESTI A CONFRONTO 4. Confronta la figura dell’Indulgenziere presente nel testo di Chaucer con Frate Cipolla, il protagonista di una novella di Boccaccio (➜ T6d ).

Sguardo sulla letteratura inglese Uno sguardo all’Europa: Chaucer e i Canterbury Tales Una raccolta incompiuta

Anche Chaucer inserisce i racconti all’interno di una sorta di cornice: nel prologo, da cui abbiamo tratto un passo

(➜ D2 ), egli immagina che un gruppo di ventinove pellegrini si diriga da un sobborgo di Londra all’abbazia di Canterbury e che durante una sosta presso la “Taverna del tabarro” (Tabard Inn) raccontino a turno delle storie. Rispetto alla “brigata” dei giovani narratori del Decameron, i narratori dei Racconti di Canterbury appaiono tra loro assai diversificati socialmente e psicologicamente; sono veri e propri personaggi, tratteggiati con grande realismo e corrispondenti a precise tipologie sociali dell’Inghilterra del tempo: il mugnaio, il mercante, la madre priora, il cavaliere, il monaco, lo studente di Oxford e così via. Le novelle narrate riflettono da vicino la personalità di chi le narra e offrono nel loro complesso uno spaccato estremamente realistico della società inglese del tempo, ritratta con grande varietà di registri stilistici ed espressivi, che vanno dal tragico al comico, dal patetico al grottesco, dall’edificante al licenzioso. Con la propria opera Chaucer immette la letteratura inglese nel grande circuito europeo fino a quel tempo dominato dalla letteratura provenzale, francese e italiana.

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Verso la fine del Trecento (probabilmente nel 1387) in Inghilterra viene composta una raccolta di racconti in versi che presenta evidenti analogie con il Decameron: si tratta dei celebri The Canterbury Tales (I racconti di Canterbury) di cui è autore Geoffrey Chaucer (ca. 1340-1400), uomo d’affari, diplomatico e scrittore di vasta e multiforme cultura. La raccolta è incompiuta: ci rimangono ventiquattro racconti, di cui alcuni frammentari. Non è possibile accertare con sicurezza la diretta influenza del capolavoro di Boccaccio su Chaucer, ma è molto probabile che lo scrittore inglese abbia letto il Decameron o per lo meno ne abbia sentito parlare, tenuto conto tra l’altro del fatto che compì due viaggi diplomatici in Italia nel 1372 e 1378 e che anche altre sue opere si ispirano alla produzione di Boccaccio.

La cornice e i narratori

D3 Geoffrey Chaucer Il racconto delle comari di Bath I racconti di Canterbury

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Per approfondire La “sfortuna” del Decameron: da libro censurato a libro incompreso

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T11 Esempi di censura sul Decameron nell’età della Controriforma T11a Monache, preti e monasteri T11b La rivisitazione della conclusione

Per approfondire Le tre edizioni del Decameron «rassettate» dai censori controriformistici

Il Decameron nel tempo 3 507


Sguardo sul cinema Boccaccio e il cinema. Il Decameron di Pasolini Nel 1971 lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini (19221975) gira il primo di tre film ispirati a capolavori della narrativa occidentale: il Decameron, cui seguiranno a breve I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974), che nel loro insieme compongono la Trilogia della vita. Un anno dopo l’uscita dell’ultimo film della trilogia, nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, Pasolini viene assassinato. «I presupposti poetici e politici su cui si fonda la Trilogia – scrive il critico cinematografico Gianni Canova nella sua prefazione all’edizione delle sceneggiature – sono ormai universalmente noti. Pasolini intende contrapporre alla dilagante omologazione del presente consumistico l’utopia di una alterità – arcaica ma autentica – che trovi nella gioia dei corpi e del sesso la sua prima e unica ragione di vita. Nelle numerose interviste che accompagnano la lavorazione e l’uscita dei tre film, Pasolini ribadisce a più riprese la sua volontà di realizzare finalmente un cinema gaio e vitalistico, allegro e solare, capace di “esprimere l’esistenza senza decifrarla”. Rispetto allo scenario mass-mediale dominato dall’omologazione più ferrea, i film della Trilogia rappresentano il tentativo [...] di proiettare in un altrove spazio temporale (il Trecento di Chaucer e Boccaccio, il tempo mitico di Le mille e una notte) il “rigoglio di un’esistenza” che appartiene interamente al passato e che Pasolini spera di poter far rivivere ancora una volta – forse per l’ultima volta – nella dimensione “neo-popolare” dello spettacolo filmico». Il significato polemico e poetico della proposta pasoliniana – «esorcizzare l’universo orrendo del presente attraverso la ricreazione visiva di un passato utopico e innocente» (Ca-

nova) – non venne assolutamente compreso. Da un lato i tre film incorsero più volte nella censura, dall’altro riempirono i cinematografi di pubblico, fecero “cassetta”, finendo per originare poi, certo contro le intenzioni del regista, il filone “boccaccesco” della cinematografia; in questa direzione furono soggetti alle stroncature dei giornali benpensanti, che li considerarono paradossalmente una resa del regista al filone commerciale. online

Per approfondire Pasolini e il Decameron

Fissare i concetti Giovanni Boccaccio Ritratto d’autore 1. Quali sono le due esperienze più importanti che Boccaccio visse a Napoli e che influenzarono le sue opere? 2. Perché l’amicizia con Petrarca fu determinante nel pensiero e nell’ultima produzione di Boccaccio? 3. Quali sono i generi letterari sperimentati nella produzione napoletana? 4. Quale concezione dell’amore emerge nella Commedia delle ninfe e nell’Amorosa visione? 5. Quali novità si rintracciano nell’Elegia di Madonna Fiammetta? Il Decameron 6. Com’è strutturato il Decameron? 7. Qual è la novità che Boccaccio introduce nell’opera? 8. A chi è dedicato il Decameron e perché? 9. Quali sono i temi dell’opera? 10. Come è concepita la fortuna da Boccaccio? Opera un confronto con la concezione della fortuna di Dante. 11. Quanti tipi di narratori ci sono nel Decameron? 12. Quali caratteristiche presenta lo stile dell’autore? 13. Quante volte e dove interviene l’autore all’interno della propria opera? Il Decameron nel tempo 14. Quale fu la fortuna del Decameron nella cultura europea?

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Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Un mercante mancato Giovanni Boccaccio nasce nel 1313 a Certaldo o a Firenze, figlio illegittimo ma riconosciuto di un agente finanziario della Banca dei Bardi. Nella speranza che intraprenda la stessa carriera del padre, nel 1327 viene mandato a Napoli come apprendista; ma il suo interesse è rivolto alla vita culturale di corte e alla letteratura: fino al 1340 studia la letteratura latina e romanza e frequenta numerosi intellettuali. Nel 1340 la banca fallisce e lo scrittore deve tornare a Firenze: sono anni di difficoltà che fanno rimpiangere l’ambiente partenopeo, ma nella città toscana Boccaccio, sempre più in rotta con la figura paterna, può ampliare i propri orizzonti personali e letterari. Il 1348 vede l’arrivo della peste, che si porta via il genitore e molti amici ma gli consente la maturazione necessaria a scrivere il suo capolavoro: il Decameron, opera il cui grande successo apre all’autore le porte di numerosi incarichi per il comune. La fase successiva della sua vita si distingue per un ripiegamento interiore in senso riflessivo e per l’amicizia con Francesco Petrarca: grazie a questa influenza, Boccaccio sviluppa interessi eruditi e pre-umanistici, che si traducono nell’uso del latino per una serie di opere compilative, nella ricerca in prima persona di testi antichi, ma anche nella pionieristica creazione di un cenacolo culturale e nello studio del greco antico. Durante la vecchiaia, Boccaccio è colpito da numerosi acciacchi fisici e assillato da problemi economici, cui si aggiunge una profonda crisi interiore che lo spinge all’autocritica verso le proprie creazioni – specialmente verso il Decameron – e all’isolamento; egli si concede solo per alcune letture pubbliche dell’ammirata Commedia, che però non conclude per l’aggravarsi delle condizioni di salute. Muore a Certaldo nel 1375. La produzione minore: all’insegna dello sperimentalismo Nella produzione minore dell’autore si manifesta un’incessante volontà sperimentale che non manca di influenzare il Decameron stesso. Vista nel suo insieme, la produzione minore testimonia: l’interesse preminente del Boccaccio per l’esplorazione del tema amoroso; la volontà e la capacità di mettersi alla prova in generi diversi; i molteplici interessi letterari, che spaziano dalla letteratura classica alla narrativa cortese, ai cantari, ai grandi modelli di Dante e Petrarca; la commistione di motivi letterari e istanze autobiografiche. Tre sono le opere principali composte verso la fine degli anni Trenta durante il soggiorno a Napoli e stimolate dalla frequentazione della raffinata corte angioina. Il Filocolo (“Fatica d’amore”) è il primo romanzo in prosa della letteratura italiana. Narra le avventurose vicende di una coppia di innamorati, Fiorio e Biancifiore, che alla fine riescono a sposarsi. Il Filostrato (“Vinto d’amore”) è un poema lirico-elegiaco in ottave, incentrato sull’infelice amore di Troiolo, figlio di Priamo, per Criseida. Il Teseida, poema epico in ottave; intreccia in una cornice guerresca (la guerra dell’eroe mitico Teseo contro Tebe) una vicenda amorosa. Tra il 1341 e il 1346 vengono composti, dopo il trasferimento a Firenze, anche altri lavori. La Commedia delle Ninfe fiorentine (o Ninfale d’Ameto) è un prosimetro d’impianto allegorico, che inaugura nella nostra letteratura il fortunato genere pastorale. In questa e nell’opera seguente è evidente l’influsso del modello di Dante, nello schema allegorico ma anche per la scelta metrica della terzina. L’Amorosa visione è un poema allegorico incentrato sul tema dantesco del viaggio edificante ripensato in chiave laica. Sintesi

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L’Elegia di Madonna Fiammetta è un romanzo psicologico (il primo della letteratura italiana) nel quale, tra molteplici influssi letterari, la protagonista Fiammetta confessa le proprie pene d’amore. Il Ninfale fiesolano è un poemetto mitologico in ottave ispirato alle Metamorfosi di Ovidio e caratterizzato da uno stile popolaresco e realistico. Negli ultimi anni di vita, Boccaccio scrive in latino opere compilative. Oltre a queste, spicca il Corbaccio (del 1365, ma la datazione è controversa), un’opera aspramente misogina, critica verso la letteratura cortese. Tiene anche alcune letture pubbliche della Commedia (Esposizioni sopra la Comedìa) e rivede la biografia di Dante (Trattatello in laude di Dante), composta dopo la stesura del Decameron.

2 Il Decameron

La composizione del Decameron. I modelli di riferimento Tra il 1348 e il 1351 o 1353 Boccaccio si dedica al Decameron, una raccolta di cento novelle (come i canti della Commedia) che probabilmente ebbero circolazione autonoma prima di questi anni. Esse non sono narrate direttamente dall’autore ma sono raccontate a turno da dieci giovani narratori (sette donne e tre uomini) che si sono ritirati in una villa di campagna per sfuggire alla peste che imperversa a Firenze. Il ritiro dura quattordici giorni, dieci sono quelli in cui si sceglie di raccontare e dieci sono le novelle narrate ogni giorno (da qui il titolo grecizzante Decameron, che allude appunto a “dieci giornate”). Ogni giornata (tranne la I e la IX) ha un tema che orienta la narrazione. Le fonti di ispirazione sono varie: i fabliaux, la letteratura cortese, i racconti orientali ma anche quelli classici. La struttura e la poetica L’opera è aperta da un Proemio, che ne spiega le finalità e i destinatari; segue un’Introduzione, che presenta lo scenario della peste e la scelta dei giovani di abbandonare la città, costruendo così una specifica cornice in cui Boccaccio iscrive il “Centonovelle”. Questa non si esaurisce però con l’Introduzione: le novelle sono infatti collegate tra di loro dalla narrazione, sempre ad opera del narratore-autore, della vita onesta e dedita agli svaghi piacevoli e raffinati dei giovani nel loro ritiro. La voce dello scrittore ritorna anche nella Conclusione, in cui egli si difende dalle accuse di licenziosità esaltando l’importanza del contesto, delle parole e dello stile per una valutazione complessiva del proprio lavoro; una dichiarazione similare è presente anche in precedenza, nell’Introduzione alla IV giornata, allo scopo di controbattere alle accuse di immoralità rimarcando la naturalità dell’istinto amoroso. La cornice, il gioco delle “voci narranti” e la dialettica delle interpretazioni Boccaccio, come detto, rappresenta la voce narrante di primo grado. Egli elabora, poi, una complessa “cornice” che ingloba le cento novelle, le inserisce in un preciso contesto e “dialoga” con loro, permettendo al fruitore di ricostruire il significato dell’opera e trasformando quest’ultima in un macrotesto: tale strumento è costituito dalla narrazione dell’epidemia e degli intermezzi tra i racconti. I racconti sono narrati da dieci novellatori; questi giovani non hanno un’identità realistica, ma costruita su allusioni letterarie: forse un mezzo per chiarire che i contenuti riportati appartengono solo alla letteratura e devono quindi essere e con spirito leggero. Essi rappresentano il secondo, polifonico, grado di narrazione che, insieme al terzo (quello dei personaggi delle novelle), instaura con il primo un elaborato e costante rapporto dialettico. L’ideologia di Boccaccio: fra innovazione e tradizione La prospettiva che ispira Boccaccio è radicalmente diversa da quella della Commedia: il trascendente è assente e il caso domina il mondo. Esistono più “verità”, non il bene assoluto: questo può allora coincidere con l’utile

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o con il soddisfacimento dei propri desideri, poiché la morale cristiana non subordina più tutto. Forte è anche la condanna, per lo più attraverso il registro comico, della corruzione e dell’ipocrisia della Chiesa. L’autore riconosce il potere della nuova classe borghese mercantile, di cui apprezza dinamismo e spirito d’iniziativa, e guarda con simpatia i ceti popolari; ma al contempo non manca di rappresentarne i limiti (avidità e cinismo) e non rigetta i modelli cortesi-cavallereschi che ritiene, tuttavia, bisognosi di maggiore pragmatismo. Un’ottica, dunque, di transizione e di natura conservatrice, perché le distanze sociali vengono accettate come un dato di fatto insuperabile. I temi I temi trattati sono molteplici, ma centrali sono: l’amore, rappresentato in tutte le sue varianti, fino alla più schietta sensualità, senza censure morali e in stretta connessione con la valorizzazione del corpo umano in senso fisico e della figura femminile; la fortuna, che Boccaccio rappresenta in forma totalmente laica e terrena, come imprevedibilità capricciosa del caso o insieme di coincidenze imprevedibili; l’industria, ovvero la libera iniziativa, fondatrice di una morale laica, che altro non è che la capacità di sfruttare le circostanze a proprio favore (una qualità che caratterizza soprattutto il mondo dei mercanti, ma senza escludere le altre classi sociali) e di utilizzare il potere della parola arguta e intelligente. La fondazione del realismo: i personaggi, il modello spaziale Prerogativa dell’opera è il realismo rappresentativo: Boccaccio inserisce vicende e personaggi psicologicamente determinati in contesti storico-sociali precisi, non immaginari o simbolici, svincolandoli dall’astrattezza indeterminata degli exempla. Il mondo dell’autore è soprattutto quello cittadino coevo: le figure che lo abitano appartengono a tutte le classi sociali e il mercante è quella più tipica e meglio delineata; ma non manca la nostalgica rievocazione (e idealizzazione) delle qualità e dei modelli di comportamento propri della società cortesecavalleresca, ormai tramontati ma considerati dallo scrittore un prezioso lascito per i tempi nuovi. Il Decameron come laboratorio narratologico Il Decameron è un lavoro innovativo anche sotto il profilo delle modalità narrative. Boccaccio fonda e conferisce valore letterario al genere della novella; ne utilizza, poi, diversi sottogeneri (la novella-racconto, la novellaromanzo e la novella vera e propria), ognuno focalizzato su un preciso aspetto narratologico; la arricchisce, inoltre, di componenti teatrali. Ma oltre a tutto ciò, egli esplora anche consapevolmente – in modalità quasi novecentesche – le potenzialità narrativo-espressive del racconto e della manipolazione delle fonti: non in senso banalmente dissacrante, quanto al fine di creare un raffinato gioco ironico e combinatorio inserito in un’opera unitaria, organica e ricca di richiami interni, ossia un macrotesto. Lo stile e la lingua Nel tempo hanno esercitato grande influenza soprattutto le pagine stilisticamente “tragiche” del Decameron, dunque lo stile elevato proprio della cornice, degli interventi d’autore e di alcune novelle, come quella di Griselda, che chiude l’opera e che fu apprezzata particolarmente da Petrarca. La ricercatezza formale è stata attentamente ricercata dallo scrittore e poi consacrata come modello linguistico nel Cinquecento. Boccaccio, però, utilizza anche un registro espressivo completamente diverso, modellato sulla mimesi del parlato sia nel lessico sia nella sintassi e impiegato soprattutto nei discorsi diretti: anche a questo proposito si parla spesso di “realismo” espressivo di Boccaccio. Questo plurilinguismo e la varietà dello stile avvicinano la forza espressiva del Decameron a quella della Commedia. I critici moderni hanno evidenziato, inoltre, una costante opposizione comico-tragica, che si ritrova in generale e anche in alcune singole novelle e che è associata all’opposizione mondo contemporaneo-mondo del passato.

Sintesi

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3 Il Decameron nel tempo

La fortuna del Decameron nella cultura europea In Europa il Decameron è conosciuto già dalla fine del Trecento in Inghilterra, dalla metà del Quattrocento in Spagna e in Francia dai tempi di Margherita di Navarra, per proseguire con Rabelais e Molière.

I dieci giovani si incontrano nella chiesa di Santa Maria Novella, a Firenze, prima di allontanarsi dalla città, miniatura di Taddeo Crivelli dal manoscritto Holkham Misc. 49, f. 5r, 1467 (Oxford, Bodleian Library).

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Immagina di dover rappresentare una novella di Boccaccio a teatro: sceglila e stendine il copione. 2. Prova a usare il copione narrativo di una novella del Decameron a tua scelta per scrivere un racconto in cui la vicenda dei personaggi sia trasposta ai tempi d’oggi. 3. Costruisci un racconto fondato su una beffa che abbia come protagonista e comprimari personaggi analoghi a quelli presenti in una novella boccacciana a tua scelta.

Riscrittura

4. Prendendo come modello due riscritture in lingua moderna del Decameron, quella di Piero Chiara (Il Decameron raccontato in 10 novelle, Mondadori, Milano 1984) e quella di Aldo Busi (Decamerone da un italiano all’altro, Rizzoli, Milano 1993), prova a riscrivere in italiano corrente una novella a tua scelta, cercando ovviamente di rispettare lo spirito e il tono del testo di Boccaccio.

Recensione

5. Scrivi la recensione di una novella di Boccaccio a tua scelta: immagina che chi scrive, avendo una disposizione critica nei confronti dello scrittore e di alcuni dei suoi temi prediletti, voglia sconsigliarne al pubblico la lettura.

Discussione guidata

6. Dopo aver analizzato a piccoli gruppi un’intera giornata del Decameron, ogni gruppo relazioni sulle novelle esaminate mettendo in rilievo: a. le tematiche; b. i procedimenti narrativi (tempo, spazio, tipologia dei personaggi ecc.); c. le scelte stilistiche e linguistiche; d. altri aspetti significativi. Sintetizzate le osservazioni emerse nel corso della discussione in una relazione conclusiva di taglio saggistico che proponga delle piste interpretative della giornata prescelta.

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano MADONNA FILIPPA DAL MARITO CON UN SUO AMANTE TROVATA, CHIAMATA IN GIUDICIO, CON UNA PRONTA E PIACEVOL RISPOSTA SÉ LIBERA E FA LO STATUTO1 MODIFICARE.

Giovanni Boccaccio, Madonna Filippa, Decameron VI, 7, a cura di V. Branca, Mondadori, Milano 1985

[...] Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole che aspro, il quale senza niuna distinzion far comandava che così fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcun suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse. E durante questo statuto2 avvenne che una gentil donna e bella e oltre a ogni altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de’ Pugliesi3 suo marito nelle braccia di Lazzarino de’ Guazzagliotri4, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto se medesima amava. La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e d’uccidergli si ritenne5: e, se non fosse che di se medesimo dubitava6, seguitando l’impeto della sua ira, l’avrebbe fatto. Rattemperatosi7 adunque da questo, non si poté temperare da voler quello dello statuto pratese che a lui non era licito di fare, cioè la morte della sua donna. E per ciò, avendo al fallo della donna provare assai convenevole testimonianza8, come il dì fu venuto, senza altro consiglio prendere, accusata la donna, la fece richiedere9. La donna, che di gran cuore era10, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del tutto dispose di comparire11 e di voler più tosto, la verità confessando, con forte animo morire, che, vilmente fuggendo, per contumacia in essilio vivere e negarsi degna di così fatto amante come colui era nelle cui braccia era stata la notte passata. E assai bene accompagnata di donne e d’uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestà venuta, domandò con fermo viso12 e con salda voce quello che egli a lei domandasse. Il podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto e, secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di lei a aver compassione, dubitando non13 ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse14, volendo il suo onor servare, farla morire.

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statuto: la disposizione di legge. 2 durante questo statuto: nel periodo in cui fu vigente questa disposizione. 3 Rinaldo de’ Pugliesi: i Pugliesi erano una famiglia nota nella cittadina di Prato. 4 Guazzagliotri: della potenza della famiglia Guazzagliotri è testimonianza il sontuoso palazzo in Prato.

5 si ritenne: si trattenne. 6 e, se non fosse… dubitava: e se non avesse temuto di nuocere a sé stesso (probabilmente per le conseguenze giudiziarie). 7 Rattemperatosi: trattenutosi. 8 E per ciò… testimonianza: e perciò, avendo adeguate testimonianze per provare la colpa della moglie. 9 richiedere: citare in tribunale.

10 di gran cuore era: era assai coraggiosa. 11 comparire: presentarsi in giudizio. 12 fermo viso: sguardo impassibile. 13 dubitando non: temendo che (costrutto latineggiante). 14 cosa... convenisse: cosa a causa della quale il giudice fosse obbligato a (il giudice teme un’aperta confessione di adulterio).

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Ma pur, non potendo cessare di domandarla di quello che opposto l’era15, le disse: «Madonna, come voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito e duolsi16 di voi, la quale egli dice che ha con altro uomo trovata in adulterio; e per ciò domanda che io, secondo che uno statuto che ci è17 vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca; ma ciò far non posso se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v’accusa». La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose: «Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata, né questo negherei mai; ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano18. Le quali cose di questa19 non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare; e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata20: per le quali cose meritamente malvagia si può chiamare. E se voi volete, in pregiudicio21 del mio corpo e della vostra anima, esser di quella essecutore, a voi sta; ma, avanti che a alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia22 o no». A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio la donna a ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto. «Adunque» seguì prestamente la donna «domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? debbolo io gittare a’ cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m’ama, che lasciarlo perdere o guastare23?» Eran quivi a così fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna quasi tutti i pratesi concorsi24, li quali, udendo così piacevol domanda, subitamente, dopo molte risa, quasi a una voce tutti gridarono la donna aver ragione e dir bene: e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli25 il podestà, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli s’intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a’ lor mariti facesser fallo. Per la qual cosa Rinaldo, rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa. 15 Ma pur… l’era: ma tuttavia, non potendo evitare di interrogarla su ciò che le era imputato. 16 duolsi: si lamenta. 17 ci è: è qui vigente. 18 le leggi... toccano: le leggi devono essere uguali per tutti e fatte con il consenso (consentimento) di coloro cui esse si rivolgono.

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19 di questa: a proposito di questa (legge). 20 niuna... chiamata: nessuna fu mai invitata (ad approvarla). 21 in pregiudicio: con danno. 22 gli concedeva intera copia: gli concedevo interamente (copia significa letteralmente “abbondanza” ed è un latinismo).

23 guastare: rovinare (a causa del passare del tempo). 24 Eran… concorsi: erano accorsi in tribunale per assistere all’interrogatorio (essaminazione) di una donna così importante e famosa quasi tutti gli abitanti di Prato. 25 a ciò confortandogli: essendo d’accordo con loro su ciò.


Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza la trama della novella. 2. A quale ambiente sociale appartengono la protagonista, il marito e l’amante? 3. Qual è l’antefatto della vicenda? 4. Delinea l’atteggiamento del giudice nei confronti di Madonna Filippa. 5. Quali personaggi rivestono i seguenti ruoli: protagonista/antagonista/aiutante? 6. Descrivi la struttura narrativa della breve novella: quale sequenza occupa più spazio e riveste anche maggiore importanza? 7. Individua i punti salienti su cui poggia l’autodifesa di Filippa. 8. Sviluppa un’analisi dello stile di questa novella, facendo attenzione alle scelte sintattiche e lessicali, all’uso di figure retoriche. C’è un rapporto, secondo te, tra lo status sociale dei personaggi e le scelte espressive?

Interpretazione

La novella è inserita nella sesta giornata, incentrata sulla capacità di usare la parola per cavarsi d’impaccio. Il tema più generale è quindi quello dell’intelligenza, qui associato a quello dell’amore. Quali aspetti della visione boccacciana dell’una e dell’altro ti sembra traspaiano dalla novella? Filippa può essere associata ad altre figure femminili del Decameron: sia per la prontezza di spirito e la capacità di cavarsela, sia per la difesa (Filippa fa da avvocato difensore di se stessa) del diritto delle donne all’eros. Fai confronti con altri testi presenti in questa antologia o da te conosciuti.

Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da Armando Sapori, Lezioni di storia economica, La Goliardica, Milano 1960

Che il mercante italiano sia stato un modello di virtù non sostengo di certo. Sia un astigiano, o un piacentino, o un senese alle fiere di Sciampagna; sia un Riccardi lucchese, o un Frescobaldi, o un Bardi o un Peruzzi alla corte del re d’Inghilterra o del re di Francia, tutti ebbero talmente di mira il guadagno da sacrificare non poco i valori morali al conseguimento della ricchezza; da commettere non pochi peccati di fronte e Dio e non poche frodi di fronte alla legge terrestre. Ma quegli uomini, bene o male operando, operarono sempre con grandezza. E sempre furono agitati da passioni che alla loro vita dettero il carattere continuo del dramma. Bramosi di ricchezza, sì, ma anche tormentati dall’idea del peccato, che li spingeva ad opere di pietà fino alla costruzione, durante la loro vita, di templi che sono rimasti specchio perenne di bellezza. In lotta fra di loro sì, ma appassionati della cosa pubblica, che dirigevano contemporaneamente alle aziende, alternando il lavoro nel fondaco e le sedute nei palazzi comunali. Pronti a decidere una guerra per lo sbocco delle loro mercanzie, sì, ma anche decisi a vuotare i forzieri per quella guerra, e cadere con la fronte al nemico. Avveduti nel trattare i minuti affari; ma audaci fino a sovvenzionare un Edoardo III nelle prime campagne della guerra dei Cento Anni. Ripeto: è questo cozzare, ed è questo alternarsi di sentimenti ognuno dei quali li impegnava senza riserva, che dà il senso eroico della loro vita. La quale si forgiava e si consumava in un gran fuoco di odio e amore, di cupidigia e di generosità, di azzardo e di temerarietà. Quelle figure, d’altronde, si stagliano appropriatamente sullo sfondo del tempo loro: delle Crociate che furono slancio di fede e imprese commerciali; della Chiesa che condannava l’interesse del denaro e riceveva e pagava interessi usurari, dando il via, attraverso le compagnie italiane alle quali affidava la gestione delle decime pontificie, al vero e proprio capitalismo; dei Comuni, che si avviavano alla fase culminante della loro fortuna per scendere la china che avrebbe

Il Decameron 3 515


portato generalmente alle Signorie; dei grandi Stati europei, nei quali, mentre si consolidavano le organizzazioni finanziarie e militari, si rafforzava la posizione dei sovrani, premessa a una politica sempre più consapevole e decisa nel senso nazionale. Alla fine del Trecento tante di queste cose erano modificate, e tante altre stavano venendo a maturazione. Il periodo epico, se così vogliamo dire, era superato. I protagonisti del tempo nuovo non potevano avere il volto e l’anima di quelli dell’antico. [...] La follia per la ricchezza è divenuta avarizia nel senso gretto della parola. Il calcolo avveduto è diventato piccola ricerca dell’opportunità. L’ambizione dell’intimità con i potenti del mondo non porta più ad essere ricevuti nel palazzo reale da un re che stende la mano a «carissimi amici», o a ricevere in casa propria un sovrano con cui si conclude un trattato politico e militare. Tutt’al più si accoglie un principe di passaggio, che domanda un po’ di soldi per proseguire il cammino e lascia un vano diploma di benservito. La partecipazione alla cosa pubblica non è più intesa alla direzione delle città per assumere responsabilità, ma consiste nell’avvicinare gli uomini di governo per ottenere riduzioni di prestanze. La fede non è più un dramma. È una commediola che si recita tutti i giorni, scrivendo di pentimenti agli amici senza provare mai interna rivolta al proprio peccato. E potrei continuare. Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è la tesi dello storico? Con quali argomenti la sostiene? 2. Con quale procedimento stilistico viene delineato il ritratto dei mercanti italiani nella fase della loro ascesa? 3. Qual è il significato dei riferimenti alla Crociate, ai comportamenti della Chiesa nei confronti del denaro, ai Comuni eccetera? 4. La trasformazione dei mercanti alla fine del Trecento è costruita sul piano formale ed espressa attraverso un procedimento simmetrico. Illustralo.

Produzione

Testimonianze artistiche, testi letterari, studi storici concorrono a documentare il ruolo centrale che il ceto mercantile ebbe nell’edificazione della civiltà medievale, sul piano non solo economico, ma anche sociale, politico, culturale, proponendo nuovi modelli – non privi di contraddizioni – ma dinamici e innovativi. Discuti la questione in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso. Puoi confrontarti con le tesi espresse nel testo sulla base delle tue conoscenze e delle tue letture.

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Nel corso della storia, l’umanità è sempre stata minacciata da epidemie che hanno segnato profondamente certe epoche storiche con effetti sconvolgenti non solo sulla vita materiale della società del tempo, ma anche sulla psicologia delle persone che furono testimoni di quelle catastrofi. Lo stesso Boccaccio, nell’Introduzione al Decameron, racconta sia dei terribili effetti della malattia sui corpi, sia di come la sciagura colpisca e muti in peggio l’animo umano e la mente degli uomini. Secondo te, è ancora possibile che le epidemie sconvolgano la nostra società? Rifletti articolando in modo motivato le tue considerazioni e convinzioni al riguardo, tenendo conto anche della recente pandemia che ha colpito il mondo.

516 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio


CAPITOLO

9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale

Nella società medievale la cultura e l’educazione sono gestite esclusivamente dagli uomini, per lungo tempo chierici, ma poi anche laici, che mirano a modellare secondo rigidi parametri eticocomportamentali gli stili di vita delle donne.

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Duecento e Trecento

Nella cultura delle origini la voce delle donne si esprime raramente, alcune testimonianze sono legate all’ambito religioso: spiccano per la loro originalità, anche stilistico-linguistica, gli scritti delle mistiche, come Angela da Foligno e Caterina da Siena (1347-1380). In compenso sia la cultura dei chierici sia la letteratura laica fanno costantemente riferimento alla figura femminile. Mentre la prima collega la figura della donna alla sfera del peccaminoso, se non addirittura del demoniaco, la letteratura laica, invece, dà spazio a un’esaltazione e idealizzazione delle donne, ma in sostanza eludendo un reale confronto con il “femminile”. Fa eccezione Boccaccio, precursore anche in questo caso di una visione aperta e moderna dei comportamenti e dell’etica.

sulle donne/parole 1 Parole alle donne

2 Parole delle donne 517


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9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale 1 Parole sulle donne/parole alle donne 1 «Tu sei la porta del demonio» Stefano di Borbone D1 Contro gli ornamenti sontuosi delle donne: un esempio misogino

2 Le prediche alle donne e la pedagogia “al femminile” TESTI IN DIALOGO • Sull’educazione delle ragazze

Umberto da Romans D2a Un modello di predica per le adolescenti Paolo da Certaldo secondo le NUOVE CIVICA D2b Come si devono educare le ragazze EDUCAZIONE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

3 La letteratura laica delle origini e le donne

2 Parole delle donne 1 Le voci delle mistiche 2 «Una donna in lotta con la sua voce»: Caterina da Siena T1 Le parole del discorso mistico femminile Angela da Foligno T1a La mia anima fu rapita in estasi Caterina da Siena T1b «Annegatevi nel sangue di Cristo»

3 La voce di Eloisa Pietro Abelardo secondo le NUOVE D3 Eloisa scrive ad Abelardo EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Sintesi con audiolettura secondo le NUOVE Zona Competenze EDUCAZIONE CIVICA Linee guida VERSO L'ESAME DI STATO

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Johan Huizinga L’autunno del Medioevo

518 DUECENTO E TRECENTO 9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale


Quattrocento e Cinquecento

519


520


Quattrocento e Cinquecento

Scenari socio-culturali Umanesimo e Rinascimento

LEZIONE IN POWERPOINT

La civiltà umanistico-rinascimentale, nata nell’ambiente della corte, è laica, antropocentrica, edonistica. Privilegia infatti l’attenzione alla realtà terrena rispetto alla dimensione trascendente, valorizza la capacità dell’uomo di realizzare il proprio destino e di essere protagonista della storia. Un uomo fatto di anima e di corpo che, in contrapposizione al rigorismo ascetico del Medioevo, ha diritto al piacere e alla contemplazione della bellezza della natura. A essa l’Umanesimo-Rinascimento guarda con un occhio nuovo, abbandonando la prospettiva allegorico-trascendente e creando così le premesse per la rivoluzione scientifica. Centrale nel modello culturale umanistico è il legame con il mondo antico, di cui gli umanisti si considerano eredi. I testi classici sono riscoperti e studiati con il metodo filologico e gli studia humanitatis (letteratura, storia, filosofia morale) diventano la base della formazione. La filosofia abbandona l’ossequio al principio di autorità e il culto di Aristotele propri della Scolastica medievale, mentre si afferma, nella Firenze dei Medici, il neoplatonismo: Marsilio Ficino è il prototipo di un nuovo filosofo, fautore di un modo antidogmatico di filosofare. Nel 1525 Pietro Bembo pubblica il trattato Prose della volgar lingua nel quale sostiene la necessità di utilizzare come modello linguistico per la poesia Petrarca e per la prosa Boccaccio. L’invenzione della stampa rivoluziona la produzione dei libri e i modi stessi di leggere rispetto a quanto accadeva al tempo del libro manoscritto.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche e forme della letteratura nel Quattrocento 3 Caratteri e nel primo Cinquecento 4 L’evoluzione della lingua 521


Quattrocento e Cinquecento Sguardo sulla storia Le monarchie europee e il policentrismo italiano Affermazione degli Stati nazionali in Europa vs parcellizzazione politica dell’Italia Nel Quattrocento in Europa si costituiscono dei potenti e moderni Stati nazionali (Francia, Inghilterra, Spagna, Austria sono i principali). La penisola italiana è caratterizzata, al contrario, da una forte parcellizzazione che condizionerà negativamente la storia del nostro Paese nei secoli a venire e che sopravviverà fino all’Unità (1861). I potentati italiani In Italia si afferma un modello politico-istituzionale che non ha confronti in Europa: le signorie, che iniziano a costituirsi alla fine del Trecento dalla dissoluzione delle strutture comunali, già nel corso del Quattrocento e poi nel primo Cinquecento, diventano vere e proprie monarchie locali, in alcuni casi a dimensione regionale, rette da potenti famiglie: da Ferrara con gli Estensi, a Mantova con i Gonzaga, a Firenze, divenuta signoria con i Medici dal 1435, a Milano, in mano prima ai Visconti e poi agli Sforza. Anche lo Stato della Chiesa è uno Stato signorile a tutti gli effetti, se pure con elementi distintivi, dato il ruolo insieme religioso e politico del papato a livello internazionale. Mantiene invece una struttura repubblicana, su basi però strettamente oligarchiche, Venezia. Nella geografia politica italiana ha infine un ruolo importante il regno di Napoli, che ingloba la parte meridionale del Paese.

Cronologia interattiva 1434-1464

Signoria di Cosimo de’ Medici. 1454

Pace di Lodi.

1400 1453

I Turchi conquistano Costantinopoli. Fine dell’Impero romano d’Oriente.

522 QUattRoCento e CinQUeCento Scenari socio-culturali

1469

Lorenzo de’ Medici diventa signore di Firenze.


Splendori e debolezze delle corti rinascimentali La realtà italiana è segnata da una drammatica contraddizione: da un lato le corti danno vita, tra Quattrocento e Cinquecento, a una civiltà raffinata e a una splendida produzione culturale, favorita dalla competizione fra i diversi potentati, che si contendono la presenza dei maggiori artisti e letterati. Dall’altro lato, sul piano politico, nessuno degli Stati signorili è abbastanza forte da imporsi sugli altri e da guidare un processo di unificazione dell’Italia. Le continue lotte tra i diversi centri politici costituiscono un grave elemento di debolezza che rende l’Italia soggetta alle ingerenze straniere, aprendo ben presto la strada alle vere e proprie invasioni che determineranno la perdita della sua indipendenza politica. Un ulteriore elemento di debolezza è costituito dal forte distacco tra classi dirigenti (principi, nobiltà, alta borghesia) e classi popolari, che restringe pericolosamente la base del consenso politico dei principi.

Dall’equilibrio alla crisi La politica dell’equilibrio e la sua rottura Nel 1454 con la Pace di Lodi si stabilisce un accordo tra i principali potentati italiani che assicurerà al Paese per circa quarant’anni una situazione di relativa tranquillità e prosperità, garantita soprattutto dall’abilità politico-diplomatica di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, signore di Firenze. Alla sua morte (1492) segue ben presto la fine di quella precaria condizione di pace. Approfittando del riaprirsi della conflittualità in Italia, nel 1494 le armate di Carlo VIII, re di Francia, dirette al regno di Napoli, entrano in Italia e la attraversano senza incontrare alcuna resistenza. Le invasioni straniere e la decadenza politica dell’Italia Si apre da quel momento un lungo periodo di guerre sanguinose fra le potenze europee (in particolare Francia e Spagna) per il primato in Europa, delle quali principale teatro fu l’Italia, destinata a una progressiva emarginazione politica nello scacchiere europeo.

1494-1498 1492

Muore Lorenzo de’ Medici. Cristoforo Colombo raggiunge il continente americano.

A Firenze, repubblica popolare guidata da Savonarola.

1500 1494

Il re di Francia Carlo VIII scende in Italia.

1512

A Firenze rientrano i Medici.

Sguardo sulla storia 523


L’evento forse più drammatico, destinato a imprimersi nell’immaginario dell’epoca, fu il “Sacco di Roma” (1527), cioè il selvaggio saccheggio della Città Eterna da parte delle truppe dei lanzichenecchi, soldati tedeschi al soldo di Carlo V. Dopo la sconfitta della Francia da parte della Spagna, la Pace di Cateau-Cambrésis (1559) sancisce la fine della libertà italiana: la Spagna afferma il suo predominio su Napoli, la Sicilia e il ducato di Milano, ma la maggior parte degli Stati italiani è ormai privata di una reale autonomia.

i nuovi mondi. il trauma della Riforma

Philippe de Mazerolles, L’assedio di Costantinopoli, dalla Chronique de Charles VII, 1470 ca. (Parigi, Biblioteca nazionale di Francia).

Le scoperte geografiche Alla marginalizzazione politica dell’Italia si unisce la crisi economica derivante dalla perdita di centralità del Mediterraneo nei traffici commerciali, che erano controllati eminentemente dall’Italia. Già la conquista di Costantinopoli (1453) da parte dei Turchi e l’estensione della loro egemonia sulla Dalmazia e vari porti dell’Egeo avevano messo in difficoltà Venezia, la principale potenza marittima in Italia, e il suo ruolo di mediatrice delle rotte commerciali verso l’Oriente. La “scoperta dell’America” a opera di Cristoforo Colombo (1492) e le successive imprese di Vasco de Gama, Ferdinando Magellano e altri aprono poi nuove vie ai commerci marittimi.

Cronologia interattiva 1527

I lanzichenecchi saccheggiano Roma. 1517

Lutero affigge le 95 tesi. Inizio della riforma protestante.

1500 1525

Battaglia di Pavia: Francesco I è sconfitto da Carlo V; a Milano tornano gli Sforza.

524 QUattRoCento e CinQUeCento Scenari socio-culturali

1530

Carlo V è incoronato imperatore.


Le nuove rotte commerciali sono monopolizzate da grandi potenze come Portogallo, Spagna, Olanda e Inghilterra, più competitive rispetto all’Italia, che conosce quindi anche in ambito commerciale, una lenta decadenza. Lessico mondanizzazione/secolarizzazione In questo contesto i due termini possono considerarsi sinonimi e fanno riferimento al progressivo allontanarsi della Chiesa dai principi del Vangelo e alla conseguente sua perdita di sacralità, resi manifesti con l’adesione a stili e concezioni di vita laici ed esclusivamente materiali.

Sebastiano Ricci, Papa Paolo III ha la visione del concilio di Trento, olio su tela, 1687-1688 (Piacenza, Musei Civici).

1559

Pace di Cateau-Cambrésis.

La riforma protestante e il concilio di Trento Nel corso del Quattrocento erano continuate all’interno della cristianità le critiche alla corruzione e mondanizzazione della Chiesa in nome della fedeltà alla parola evangelica, ma l’istituzione non aveva saputo (o voluto) accoglierle. Nel 1517 il monaco agostiniano tedesco Martin Lutero affigge sulla porta della chiesa di Wittemberg 95 tesi, che prendevano spunto dalla prassi scandalosa della vendita delle indulgenze per la critica alla secolarizzazione della Chiesa e per la contestazione di alcuni fondamentali presupposti dottrinali e teologici. La diffusione delle idee di Lutero, anche grazie alle potenzialità della stampa (ideata a metà del Quattrocento), determinò una frattura interna al mondo cristiano di proporzioni enormi, che si tradusse nella formazione di Chiese riformate in vari Paesi europei. Nel 1545 ha inizio il concilio di Trento (15451563) con cui la Chiesa cattolica cerca di contrastare l’avanzare del protestantesimo attraverso una ridefinizione rigida dell’apparato dogmatico del cattolicesimo e una riorganizzazione dell’istituzione ecclesiastica. Si apre l’età della Controriforma.

1563

Si chiude il concilio di Trento.

1600 1564

Muore a Ginevra Calvino.

Sguardo sulla storia 525


1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 Umanesimo/Rinascimento Due categorie culturali Per designare l’epoca che va all’incirca dall’inizio del Quattrocento alla metà del Cinquecento si fa ancora oggi riferimento ai termini “Umanesimo” e “Rinascimento”, entrati in uso a metà dell’Ottocento. Si tratta di categorie culturali, non storiche, impiegate in passato anche in senso cronologico: l’Umanesimo coinciderebbe all’incirca con il Quattrocento, mentre il Rinascimento caratterizzerebbe propriamente la prima metà del Cinquecento. Con il termine Umanesimo ci si riferisce a una tendenza che emerge già con Petrarca nel tardo Trecento e a un modello culturale fondato sulla riscoperta del mondo antico, sulla rinnovata centralità delle humanae litterae, un insieme di discipline (la poesia, la retorica, la storia, la filosofia) che secondo gli umanisti valorizzano l’uomo nella sua completezza, come già avveniva nella cultura latina. Il termine Rinascimento mette invece l’accento sul rinnovamento radicale, la “rinascita” appunto, che caratterizza i primi decenni del Cinquecento, concretizzandosi in una splendida stagione artistica e letteraria di cui l’Italia è indiscussa protagonista, ponendosi all’avanguardia rispetto agli altri Paesi europei. Esso implica di per sé l’idea che il periodo precedente – e cioè l’età medievale – sia stato un periodo oscuro, dominato dall’irrazionalità e dal dogmatismo. Un’idea oggi nettamente superata, anche se si continua a utilizzare, per la sua indubbia suggestione, l’espressione “Rinascimento”.

IMMAGINE INTERATTIVA

Celeberrimo è il disegno, noto come L’uomo vitruviano, in cui Leonardo da Vinci rappresenta le perfette proporzioni della figura umana, che consentono di iscriverla sia in un quadrato sia in un cerchio: il corpo umano è concepito dagli umanisti come microcosmo perfetto che rispecchia la perfezione del macrocosmo, 1492 ca. (Venezia, Gallerie dell’Accademia).

526 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

La civiltà umanistico-rinascimentale Da decenni ormai si preferisce impiegare le due denominazioni in associazione, definendo umanistico-rinascimentale, senza ulteriori distinzioni, l’età che prende le mosse dalla fine del Trecento e si protrae oltre la metà del Cinquecento. L’inizio del concilio di Trento (1545), convocato per fronteggiare la riforma di Lutero, si può però considerare, a livello anche simbolico, un vero e proprio spartiacque: apre infatti il periodo controriformistico, antitetico – sia nei presupposti ideologici sia nell’ottica culturale – rispetto allo spirito rinascimentale.


la centralità dell’uomo 2 L’Umanesimo: e la rivalutazione della dimensione terrena Una visione antropocentrica Con l’Umanesimo si afferma una visione del mondo antropocentrica (dal greco ánthropos, “uomo”) in contrapposizione al teocentrismo della cultura medievale (dal greco theós “divinità”): la civiltà dell’Umanesimo-Rinascimento è fondata sulla valorizzazione delle qualità dell’uomo. Le radici di questa concezione vanno ricercate nella cultura classica, che gli umanisti riscoprono: già nei testi più antichi sono infatti presenti la fiducia nella razionalità dell’uomo, la celebrazione dell’agire umano nella società e nella storia per lasciare di sé qualcosa che rimanga per sempre. Valori che gli umanisti riprendono e che influenzano marcatamente il loro pensiero, la loro produzione letteraria, le manifestazioni artistiche: la stessa rivoluzione della prospettiva si può considerare come esito dell’adozione del “punto di vista umano” come centrale.

Lessico sublimazione

Parola chiave

La trasformazione spesso inconscia di pulsioni e/o istinti, soprattutto sessuali, in pensieri o atti ritenuti più elevati e socialmente accettabili.

Il riscatto del corpo e la legittimazione del piacere Gli umanisti esaltano la dignità e nobiltà dell’uomo, che essi considerano superiore a tutte le creature e che concepiscono, sulla scia del pensiero antico, come armonica completezza di anima e corpo. Contrapponendosi nettamente alle posizioni più rigoristiche e ascetiche del pensiero medievale, gli umanisti non disprezzano più la dimensione fisica, ma anzi esaltano la bellezza del corpo, che può essere rappresentato anche nudo senza più alcuna censura moralistica. Dopo secoli di repressione e/o di sublimazione viene nuovamente legittimato il piacere dei sensi, anche se l’imperante tendenza filosofica del neoplatonismo, di cui si parlerà più avanti (➜ PAG. 550), tende a riproporre il modello di un amore esclusivamente spirituale. Più in generale viene esaltata una visione edonistica della vita (➜ D1 ). Nell’Orlando furioso, il poema-simbolo del Rinascimento, Ariosto esplora con naturalezza l’intera fenomenologia dell’amore e fa della bella Angelica il simbolo della seduzione sensuale (➜ C5). Il piacere dei sensi è spesso celebrato in relazione dialettica con il motivo di derivazione classica (già in Catullo, Orazio e altri) della fugacità della bellezza e della giovinezza, spesso simboleggiata dalla rosa che presto sfiorisce. In campo filosofico l’espressione più significativa di questo nuovo atteggiamento si ritrova nel dialogo De voluptate (Il piacere, 1431) del grande umanista Lorenzo Valla: egli realizza un’ardita sintesi della visione cristiana e di spunti tratti dalla filosofia di Epicuro, emarginata dai pensatori cristiani del primo Medioevo a favore del pensiero stoico, che meglio poteva accordarsi con la propria visione della vita.

edonismo L’edonismo (dal greco hedoné, “piacere”) è una concezione della vita che valorizza il diritto al piacere e in senso più lato invita a godere della bellezza, anche della natura. Una visione che trova ampio spazio nella cultura umanisticorinascimentale, in rapporto alla più generale rivalutazione della dimensione terrena e alla tendenza a riscoprire temi e motivi già presenti nella cultura e letteratura classiche.

Alimenta l’edonismo rinascimentale l’interesse per il pensiero del filosofo greco Epicuro, in cui è centrale proprio la ricerca del piacere: un percorso non finalizzato a raggiungere in modo concreto e immediato il godimento fisico, ma a realizzare l’armonia, l’assenza di turbamento (atarassia) e a godere della bellezza della vita, aspetti che caratterizzano l’esistenza del saggio.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 527


La polemica contro l’ascetismo medievale Nella cultura umanistico-rinascimentale la vita terrena non è più concepita come preparazione alla vita eterna, ma ha un suo autonomo, positivo, valore: ne è celebrata, soprattutto nei primi trattati, la dimensione mondana, mentre è criticato come improduttivo l’isolamento dell’asceta e del monaco. Nel suo De dignitate et excellentia hominis (La dignità e l’eccellenza dell’uomo) l’umanista Giannozzo Manetti loda l’operosità umana e l’eccellenza dei suoi risultati, dalla mitica impresa degli Argonauti alle straordinarie costruzioni moderne di Filippo Brunelleschi. Nella loro polemica contro l’ascetismo medievale, gli umanisti arrivano a riabilitare il desiderio dei beni materiali: mentre la cultura medievale aveva demonizzato l’avidità (rappresentata da Dante nella figura allegorica della lupa, una delle tre fiere), l’umanista Poggio Bracciolini nel De avaritia (L’avidità) difende come naturale l’inclinazione dell’uomo a ricercare la ricchezza (➜ D2 OL). Gli umanisti: sono una categoria umana eterogenea, che è unita dagli stessi ideali culturali Non è facile dare una precisa identità sociale agli umanisti, intellettuali che, nei primi decenni del Quattrocento promuovono l’affermazione del modello culturale noto come Umanesimo. Essi appartengono infatti ad ambienti e realtà sociali diversi: sono umanisti un poeta-filologo come Poliziano, un architetto-scrittore come Leon Battista Alberti, un educatore come Vittorino da Feltre, un editore di successo come Aldo Manuzio, un brillante funzionario della repubblica fiorentina come Poggio Bracciolini e così via. Di fatto gli umanisti sono persone accomunate esclusivamente dall’entusiasmo per il mondo antico, dalla passione per i libri, dalla padronanza della cultura classica. Umanista è innanzitutto chi eccelle negli studia humanitatis, cioè la storia, la poesia, la filosofia morale secondo la lezione degli antichi. Un nuovo paganesimo? Se è indubbio che i pensatori umanisti esaltano i valori umani e terreni, non intendono affatto rifiutare la visione religiosa, fondando addirittura un nuovo paganesimo, come talvolta si è detto. Certamente l’interesse metafisico non è centrale nella loro riflessione, ma non per questo l’UmanesimoRinascimento è un modello culturale irreligioso: l’uomo è infatti visto dagli umanisti come sintesi di un universo creato da Dio e animato dalla sua amorosa presenza.

Sandro Botticelli, Adorazione dei Magi, 1475 (Firenze, Gallerie degli Uffizi). Tra i personaggi che popolano la scena, l’artista ritrae numerosi esponenti della corte medicea: i tre re sapienti sono tre membri della famiglia dei Medici (Cosimo ai piedi della Vergine;

528 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

Piero in ginocchio e con il manto rosso; Giovanni alla sua destra), Lorenzo è in piedi sulla destra con il manto nero, Pico della Mirandola e Poliziano sulla sinistra in primo piano. Botticelli stesso si è ritratto nell’uomo sulla destra avvolto in un mantello giallo.


Grazie all’Umanesimo, però, umano e divino, sacro e profano non sono più contrapposti e distanti: da un lato il divino viene umanizzato, dall’altro l’umano viene sacralizzato. Non sono poche le opere pittoriche che lo testimoniano: certamente nella cultura medievale non sarebbe stato immaginabile un dipinto come l’Adorazione dei magi di Botticelli, in cui il grande pittore ritrae in una scena di carattere religioso personaggi della corte medicea. La laicizzazione della storia Sulla base della visione antropocentrica, con gli umanisti vengono gettate le basi della moderna storiografia: nel Medioevo la storia è considerata come realizzazione di un progetto scritto ab aeterno, “dall’eternità”, nella mente di Dio, di cui gli uomini sono semplici pedine, mentre per i nuovi intellettuali l’uomo è faber fortunae suae, “artefice della propria sorte”. Di conseguenza anche la lettura della storia si laicizza, assumendo una prospettiva propriamente umana ed escludendo programmaticamente l’intervento del soprannaturale. Inoltre la storiografia umanistica si fonda su un maggiore spirito critico e sulla ricerca, nella successione degli eventi storici, delle costanti dell’agire politico, nell’intento di ricavare dalla storia modelli esemplari da seguire. Una visione, questa, presente in particolare in Machiavelli (➜ C8). Dalla centralità dell’uomo nella società alla centralità dell’uomo nel cosmo La celebrazione dell’uomo, vera costante del pensiero umanistico, è testimoniata soprattutto nella cultura fiorentina. Nel periodo del cosiddetto “Umanesimo civile” (prima metà del Quattrocento) tale esaltazione si associa a un attivo impegno politico da parte dei primi umanisti ed è calata nella concretezza della vita sociale e nella dimensione civile. Alcuni di loro esercitano il ruolo di cancellieri della Repubblica fiorentina: Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini. Quello di cancelliere è un ruolo prestigioso, che richiede solida preparazione culturale e capacità oratorie, qualità che gli umanisti possiedono: i cancellieri devono infatti gestire i rapporti con i governi stranieri, redigere documenti ufficiali, scrivere lettere diplomatiche. A partire dalla seconda metà del Quattrocento, anche in rapporto alla progressiva affermazione della signoria dei Medici e al tramonto delle istituzioni repubblicane in Firenze, la celebrazione dell’uomo è proiettata in una direzione esclusivamente filosofica e si collega all’emergente tendenza neoplatonica; Marsilio Ficino, ispiratore del movimento, celebra la posizione privilegiata dell’uomo nel cosmo, la sua assoluta superiorità su tutte le altre creature (➜ D4 OL).

Medioevo vs Umanesimo Il centro del pensiero

La visione del mondo

La concezione della storia

cultura medievale

teocentrismo (centralità di Dio)

•  distacco dal mondo •  disprezzo del corpo e repressione del piacere

realizzazione di un progetto divino “dall’eternità”

civiltà umanistica

antropocentrismo (centralità dell’uomo)

uomo al centro del mondo ed esaltazione della corporeità

risultato dell’agire umano (l’uomo è “artefice della propria sorte”)

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 529


Giannozzo Manetti

D1

Il piacere, non il dolore, caratterizza la vita umana De dignitate et excellentia hominis, IV

G. Manetti, De dignitate et excellentia hominis, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Ricciardi, Milano-Roma 1952

Nel passo che segue (in latino nell’originale) l’umanista Giannozzo Manetti contesta la visione ascetica propria di alcuni settori rigoristici del pensiero medievale, il lugubre pessimismo riguardo alla condizione umana espresso in trattati come il De contemptu mundi di Innocenzo III (➜ SCENARI, PAG. 13) e riscopre e rivaluta, al contrario, la presenza del piacere nell’esistenza dell’uomo.

Se non fossimo troppo queruli1 e troppo ingrati e ostinati e delicati, dovremmo riconoscere e dichiarare che in questa nostra vita quotidiana possediamo molti più piaceri che non molestie. Non c’è infatti atto umano, ed è mirabile cosa, sol che ne consideriamo con cura e attenzione la natura, dal quale l’uomo non tragga almeno 5 un piacere non trascurabile: così attraverso i vari sensi esterni, come il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, l’uomo gode sempre piaceri così grandi e forti, che taluni paiono a volte superflui ed eccessivi e soverchi2. Sarebbe infatti difficile a dirsi, o meglio impossibile, quali godimenti l’uomo ottenga dalla visione chiara ed aperta dei bei corpi, dall’audizione di suoni e sinfonie e armonie varie, dal profumo 10 dei fiori e di simili cose odorate, dal gustare cibi dolci e soavi, e infine dal toccare cose estremamente molli. […] Perciò se gli uomini nella vita gustassero quei piaceri e quei diletti, piuttosto che tormentarsi per le molestie e gli affanni, dovrebbero rallegrarsi e consolarsi invece di piangere e di lamentarsi, soprattutto poi avendo la natura fornito con larghezza 15 copiosa3 numerosi rimedi del freddo, del caldo, della fatica, dei dolori, delle malattie; rimedi che sono come sicuri antidoti di quei malanni, e non aspri, o molesti, o amari, come spesso suole accadere con i farmaci, ma piuttosto molli, grati4, dolci, piacevoli. A quel modo infatti che quando mangiamo e beviamo, mirabilmente godiamo nel soddisfare la fame e la sete, così ugualmente ci allietiamo nel riscaldarci, 20 nel rinfrescarci, nel riposarci. Ancorché le percezioni del gusto appaiano in certo qual modo molto più dilettose di tutte le altre percezioni tattili, fatta eccezione per quelle del sesso; e ciò la natura, che è guida sommamente solerte5 ed abile e senza dubbio unica6, non ha fatto a caso, ma – come dicono i filosofi – per ragioni chiare e cause evidenti, onde7 si traesse un godimento di gran lunga maggiore nel coito 25 che non nel mangiare e nel bere, intendendo essa innanzitutto conservare la specie piuttosto che gl’individui; e la specie si conserva con l’unione del maschio e della femmina, l’individuo invece con l’assorbimento del cibo che, per dir così, recupera ciò che si perde. In tal modo tutte le opinioni e le sentenze sulla fragilità, il freddo, il caldo, la fatica, la fame, la sete, i cattivi odori, i cattivi sapori, visioni, contatti, 30 mancanze, veglie, sogni, cibi, bevande, e simili malanni umani8; tutte, insomma, tali argomentazioni appariranno frivole, vane, inconsistenti a quanti considereranno con un po’ più di diligenza e di accuratezza la natura delle cose. 1 2 3

queruli: lamentosi. soverchi: sovrabbondanti. con larghezza copiosa: con generosa abbondanza. 4 grati: gradevoli.

5 solerte: attiva, sollecita. 6 unica: la natura è guida insostituibile nell’indicare la giusta via da seguire. 7 onde: affinché.

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8 le sentenze... umani: l’autore riassume, contestandole, le argomentazioni del De contemptu mundi di Innocenzo III, rivolte a dimostrare la miseria della condizione umana.


Concetti chiave La rivalutazione del piacere

Il passo di Giannozzo Manetti testimonia in modo emblematico la nuova prospettiva dell’Umanesimo sull’uomo e sulla natura. Polemizzando con il rigorismo ascetico medievale, l’umanista rivaluta il piacere che deriva dai sensi, e in particolare quello sessuale, voluto dalla natura perché si possa perpetuare la specie. La visione edonistica degli umanisti deriva dall’influenza della filosofia di Epicuro (➜ PAROLA CHIAVE Edonismo, PAG. 527), trasmessa alla cultura latina soprattutto attraverso il poema De rerum natura di Lucrezio, riscoperto nel Quattrocento. Per gli epicurei il piacere è il fine della vita, e la natura è la guida per raggiungerlo: essi rifiutano perciò i piaceri che non muovono dall’istinto (ad esempio quelli legati a un lusso smodato). Tuttavia Manetti – come Lorenzo Valla nel De voluptate (Il piacere) – tende a conciliare la ricerca edonistica (cioè del piacere) di matrice epicurea con la fede cristiana, arrivando a queste conclusioni: essendo stata creata da Dio, la natura è necessariamente buona; perciò, se la natura ci indirizza al piacere, anch’esso deve essere un bene. La polemica di Giannozzo Manetti e di altri umanisti di certo è rivolta non contro la fede cristiana, ma contro l’interpretazione medievale della religione, che contrapponeva anima e corpo, mondo terreno e divino, e metteva in ombra i lati piacevoli della vita umana che invece, secondo gli umanisti, è da rivalutare in tutta la sua positività.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in max 10 righe il contenuto del testo. COMPRENSIONE 2. Nel testo si manifesta una decisa rivalutazione del corpo: quali elementi legati alla natura fisica dell’uomo sono maggiormente sottolineati? ANALISI 3. Sottolinea nel testo la tesi e le argomentazioni a favore della tesi.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Metti a confronto l’argomentazione di Manetti con il passo tratto da De contemptu mundi di Lotario da Segni (➜ SCENARI, PAG. 13) e sintetizza le tue osservazioni in un testo di 10 righe.

online D2 Poggio Bracciolini Il desiderio di arricchirsi non è una colpa perché è naturale De avaritia D3 Leon Battista Alberti Lode dell’operosità Libri della famiglia

Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538 ca. (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

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3 Il mito della rinascita. La riscoperta dei classici Una nuova “età dell’oro”? La civiltà umanistica ha il suo fondamento nel mito della “rinascita”, che caratterizza in particolare i primi decenni del Quattrocento: per gli intellettuali del tempo, dopo secoli di decadenza, si è aperta una nuova “età dell’oro” a cui sono orgogliosi di appartenere (➜ D4 OL). Nella visione degli umanisti una vera e propria “frontiera” separa il presente dal passato medievale, condannato senza appello (il mito negativo del Medioevo come “età buia” nasce proprio nell’Umanesimo). Al contrario, gli umanisti stabiliscono un rapporto di stretta continuità tra l’età classica e l’età umanistica e ne ripropongono i valori spirituali e culturali, oltre che la lingua stessa: nella prima metà del Quattrocento infatti, come vedremo più avanti, la lingua della cultura è il latino, che ogni letterato si sente in dovere di padroneggiare, perché considerata espressione della più alta civiltà.

PER APPROFONDIRE

La ricerca e riscoperta dei testi antichi Il mito della rinascita è alimentato dalla riscoperta dei testi antichi che erano andati ormai perduti. I protagonisti dell’Umanesimo, come già Petrarca, vanno appassionatamente a “caccia”, nelle biblioteche dei monasteri, dei manoscritti antichi; i più fortunati di loro riescono a riportare alla luce importantissime opere dell’età classica: basti solo pensare al ritrovamento, da parte di Poggio Bracciolini, avvenuto nel 1416 nell’abbazia di San Gallo, dell’Institutio oratoria di Quintiliano (➜ D5 OL) e, l’anno successivo, del De rerum natura di Lucrezio, uno dei grandi capolavori della cultura latina. La ricerca e riscoperta dei classici non riguarda solo le opere letterarie e filosofiche, ma anche i testi scientifici e artistici. Particolarmente importante ad esempio fu il ritrovamento, sempre ad opera di Poggio Bracciolini, del De architectura di Vitruvio (I secolo a.C.) nell’abbazia di Montecassino, un testo destinato a influenzare profondamente gli architetti rinascimentali. Da parte degli artisti si diffonde l’abitudionline ne del viaggio a Roma per studiare dal vero i monumenti D4 Marsilio Ficino dell’antichità. Il fascino dell’antico condiziona fortemente Una nuova età aurea l’immaginario artistico, ancora più che l’ambito letterario: Epistole, IX personaggi mitologici, elementi figurativi e architettonici D5 Poggio Bracciolini Ho trovato Quintiliano ancor salvo e incolume tratti dal mondo classico entrano massicciamente nella pitEpistole tura rinascimentale e ne costituiscono l’elemento distintivo.

La nascita del collezionismo Risalgono al XV-XVI secolo le prime collezioni, iniziativa di privati cittadini, nobili e ricchi borghesi, con preziosi reperti dell’antichità classica, considerati segno tangibile di prestigio sociale ed economico. Alcuni palazzi aristocratici, come il Medici Riccardi a Firenze, diventano veri e propri musei, visitati e ammirati. Principi, ecclesiastici, nobili, ricchi borghesi fanno a gara nel collezionare nelle loro dimore statue, medaglie, monete, oggetti antichi.

Lorenzo Lotto, Ritratto di Andrea Odoni, 1527 (Castello di Windsor, Royal Collection).

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4 La fondazione del metodo filologico online

Per approfondire La filologia all’opera Lorenzo Valla demolisce la veridicità storica della Donazione di Costantino

Una importante eredità dell’Umanesimo Una delle più importanti eredità che gli umanisti hanno lasciato alla civiltà moderna è senza dubbio la filologia (dal greco philologhía: phílo da philêin, “amare” e lógos, “parola”, “discorso”). L’iniziatore del metodo filologico si può considerare Lorenzo Valla (1407-1457), che per primo sostiene la necessità di opporre a ogni forma di dogmatismo il vaglio critico e per primo sottolinea l’importanza dei dati linguistici di un testo come inoppugnabile documento dell’epoca di appartenenza. In aperta contrapposizione con l’ottica medievale, che sovrapponeva ai testi una quantità di interpretazioni volte a dimostrare verità estrinseche al testo stesso, Valla sostiene la necessità che ogni problema (non solo letterario, ma anche filosofico, giuridico, teologico o storico) sia discusso tenendo conto prima di tutto dei dati linguistici. Proprio su questa base Valla riesce a confutare la veridicità storica della cosiddetta Donazione di Costantino, il documento su cui tradizionalmente si fondava il dominio temporale del papato sull’Occidente cristiano. Il documento riportava un editto del 315 d.C. con cui l’imperatore Costantino avrebbe concesso al papa, Silvestro I, la sovranità su Roma, l’Italia e l’Impero romano d’Occidente. Nel saggio De falso credita et ementita donatione Constantini (Sulla donazione di Costantino contraffatta e falsamente ritenuta vera), Valla evidenzia incongruenze storiche e geografiche del testo, ma soprattutto dimostra che il linguaggio utilizzato nel documento appartiene a un periodo molto più tardo e che quindi il documento è sicuramente un falso. Un nuovo modo di leggere i classici Proprio grazie alla filologia, gli umanisti iscrivono i classici latini nel loro tempo e ne riscoprono gli autentici valori ideologici, morali e artistici, contrapponendosi anche in questo alla cultura precedente. Come dimostra la stessa Commedia, il Medioevo aveva spesso filtrato le opere classiche attraverso un’interpretazione allegorica, finalizzata a ricondurre i testi pagani alla dimensione morale e religiosa del cristianesimo, alterando così i significati originari dei testi antichi. Lettura filologica e metodo critico Ma la filologia è qualcosa di ancor più importante. Alla base della ricerca filologica sta un’idea della conoscenza concepita non come sistema definito e indiscutibile, ma come ricerca antidogmatica, soggetta a modificazioni continue in quanto sottoposta al vaglio della ragione: gli umanisti raccoglievano dati, li confrontavano, formulavano ipotesi, quindi cercavano nuovi dati per sostenerle. L’adozione del metodo filologico implica perciò di per sé l’opposizione al principio di autorità (➜ SCENARI, PAG. 9 e 549), e dunque ha contribuito all’affermarsi, in ogni campo del sapere, di un metodo scientifico, seppur inteso in senso lato.

Il legame con il mondo classico Riscoperta dei testi antichi

cognizione del distacco tra passato e presente

abbandono dell’interpretazione allegorica

metodo filologico

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PER APPROFONDIRE

Il metodo filologico e la ricostruzione dei testi originari Soprattutto nell’età precedente alla stampa, quando la trascrizione (e la trasmissione) dei testi era opera degli amanuensi, la fisionomia originaria del testo poteva essere alterata da errori di trascrizione, rimaneggiamenti, interpolazioni più o meno volontarie. I filologi umanisti cercano di eliminare ogni errore (emendatio), confrontando criticamente (in un’operazione definita collazione) le diverse versioni del testo che ci sono pervenute (dette testimoni) alla ricerca della migliore lezione, ovvero la versione del

testo che appare verosimilmente la più vicina all’originale. La filologia utilizza l’apporto di discipline collaterali (come l’archeologia, l’epigrafia, la linguistica ecc.). Per procedere alla ricostituzione del testo originario, infatti, il filologo deve conoscere le particolarità della lingua usata in una determinata epoca, le modalità stilistiche proprie di un determinato autore, le occasioni e il fine per i quali il testo fu scritto, la biografia dell’autore, i valori e i modelli conoscitivi del suo tempo.

5 La concezione del tempo e dello spazio Il tempo degli umanisti La laicizzazione e l’individualizzazione del tempo Nella civiltà umanistica il tempo è considerato un bene prezioso, ma l’uso riguarda unicamente l’uomo, non Dio: il tempo si laicizza, non è più un’entità metafisica nelle mani di Dio, né il simbolo angoscioso della precarietà e brevità della vita di fronte all’eterno (come in tanti scritti di Petrarca). Il tempo va utilizzato saggiamente non per pregare ma per fare, per realizzare su questa terra, in questa vita le proprie potenzialità. Nel terzo libro della Famiglia dell’umanista Leon Battista Alberti, da cui è tratto il passo proposto, emerge come modello un uomo che ormai programma ogni ora e che riflette sull’opportunità e l’inopportunità dei compiti prefissati (➜ D6 ). Questa cura quasi maniacale del tempo potrebbe richiamare il “tempo dei mercanti” di cui si è parlato a proposito della civiltà comunale: mentre i mercanti, però, dedicano il tempo essenzialmente agli affari, per gli umanisti l’unico suo uso davvero nobile – e vantaggioso – è quello dedicato allo studio. L’otium: il tempo della vocazione Gli umanisti associano la dedizione agli studia humanitatis all’otium, concetto e ideale di vita derivato dall’amata cultura classica, in particolare da Cicerone. L’otium (che i latini contrapponevano al negotium, cioè il tempo degli affari, delle occupazioni) è assimilabile in parte a ciò che noi moderni online chiamiamo “tempo libero”: non significa quindi “inattività” (come nella comune accezione del termine “ozio”) ma è piuttosto il tempo non D6 Leon Battista Alberti Il valore del tempo soggetto a doveri prefissati e destinato alla cura di sé, in cui si riesce Libri della famiglia, III a coltivare i propri interessi, a esprimere le proprie qualità interiori.

Lo spazio L’invenzione della prospettiva Nel Quattrocento si afferma la visione prospettica dello spazio, che rivoluzionerà non solo le arti figurative, ma anche l’architettura e l’urbanistica, oltre che la scenografia teatrale. L’invenzione è attribuita al grande artista Filippo Brunelleschi (1377-1446) che la applica per la prima volta in due tavole lignee raffiguranti il Battistero di San Giovanni e Piazza della Signoria. Le intuizioni di Brunelleschi vengono sviluppate e rigorosamente codificate da Alberti che nel suo De pictura (1436) espone le regole fondamentali della figurazione prospettica, contribuendo in modo determinante alla loro divulgazione: già alla metà del secolo il metodo della figurazione prospettica è divenuto patrimonio comune in Italia e si diffonde in gran parte d’Europa.

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La prospettiva (dal latino tardo perspectivus, “che permette la vista”) è fondata su precise regole geometrico-matematiche e sullo studio scientifico dei punti di fuga: dunque il dipinto diventa una porzione di spazio nel quale tutti gli elementi trovano posto in una relazione spaziale coerente che rispecchia il punto di vista, assunto come dominante, di un osservatore che guarda la scena rappresentata. In un suo celebre saggio, lo storico dell’arte Erwin Panofsky (1892-1968) ha parlato della prospettiva non come “tecnica”, ma come nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà: la prospettiva nasce dalla concezione umanistica che privilegia la centralità dell’uomo e della sua visione. La “filosofia dello spazio” nella città del Rinascimento La riflessione sullo spazio e l’adozione della prospettiva incidono in modo rilevante anche nell’architettura e nella progettazione urbanistica. Nascono progetti volti a modificare l’assetto delle città (e a progettarne di nuove) secondo i criteri estetici del tempo, razionalistici e classicistici: l’adozione delle leggi della prospettiva, l’ordine, la misura, l’equilibrio delle forme ispirano la realizzazione di piazze (che assumono forme regolari, in genere quadrangolari), chiese, palazzi. Questi ultimi, arricchiti da colonne e lesene classicheggianti che ornano la facciata, divengono per la loro eleganza un evidente status symbol per le famiglie più ricche e importanti. In seguito alla ristrutturazione rinascimentale, l’intera città diventa come un “teatro” in cui la società signorile esibisce la propria magnificenza e il proprio potere.

PER APPROFONDIRE

Lo spazio del mondo: un universo dai contorni ancora incerti Alla fine del Quattrocento gli studiosi ormai hanno raggiunto la certezza che la terra sia sferica, anche se non sono ancora in grado di dimostrarlo. Agli inizi del Cinquecento, nonostante sia iniziata l’era delle esplorazioni geografiche, la quasi totalità delle persone non ha una percezione chiara dello spazio geografico e non ha mai visto una carta geografica (persino i sovrani ignorano la reale conformazione geografica e l’estensione dei loro possedimenti). Peraltro, anche parecchio online tempo dopo la “scoperta” dell’America, nonostante la diffusioD7 Cristoforo Colombo ne della celebre lettera in cui Cristoforo Colombo riferisce del La scoperta del nuovo mondo Lettera a Luís de Santángel e a Gabriel suo primo viaggio (➜ D7 OL), i testi geografici per lo più non Sánchez recano traccia della scoperta dei nuovi mondi.

Le città ideali Celebre esempio dell’ideale umanistico è la tavola denominata comunemente Città ideale. La regolarità assoluta del progetto si basa sul reticolo in prospettiva delle strutture urbane. Vi aleggia un’atmosfera quasi metafisica: domina la scena una costruzione classicheggiante a pianta circolare, la cui cupola richiama il Pantheon. Ai lati una fuga di edifici classicheggianti con porticati e logge suggerisce una dimensione di ordine e armonia. Le facciate delle case hanno un

carattere di rappresentanza, cosicché il progetto può essere considerato come una riproduzione schematica delle strutture socio-politiche. Una città ideale fu nella realtà parzialmente realizzata: l’architetto Rossellino, sulla base di un borgo rurale sulle colline a sud di Siena (l’antica Corsignano) realizza in onore del papa Pio II (l’umanista Enea Silvio Piccolomini, che vi era nato) la cittadina di Pienza, che da lui prende il nome.

IMMAGINE INTERATTIVA

Il dipinto Città ideale di autore ignoto (nel 2006 attribuito, seppur non concordemente, a Leon Battista Alberti, dopo attribuzioni a vari artisti, fra cui il Laurana e Piero della Francesca) è rappresentativo dell’interesse quattrocentesco sia per l’urbanistica sia per gli studi prospettici (Urbino, Galleria nazionale delle Marche).

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Solo dopo la metà del secolo si inizierà a prendere coscienza della nuova geografia: anche grazie alle relazioni dettagliate sulle nuove terre dei missionari, inviati per evangelizzarle, si accetta che esistano altri mondi oltre i territori conosciuti fino ad allora.

online

Verso il Novecento Achille Campanile Un rovesciamento umoristico del­ l’eurocentrismo: “La scoperta dell’Europa”

La scoperta della “diversità” e la visione eurocentrica L’importanza storica ed economica delle scoperte geografiche è grandissima. Ci interessa qui sottolineare come, di conseguenza, inizi molto presto a delinearsi una nuova visione “geoantropologica” che sottolinea la diversità costituzionale delle nuove realtà sia riguardo al paesaggio naturale sia (soprattutto) in relazione ai suoi abitatori. Se la “diversità” del paesaggio suscita la stupita ammirazione degli esploratori per una natura vergine e lussureggiante senza uguali in Europa, degli indigeni si dà rilievo quasi sempre all’“inferiorità” (soprattutto in rapporto alla nudità e alle abitudini sessuali totalmente libere). L’inferiorità degli autoctoni si misura nel rapporto obbligato con la civilizzata Europa, secondo una prospettiva che oggi definiremmo eurocentrica e che era storicamente spiegabile a quei tempi: un’ottica che giustificherà in modo implicito, da un lato, lo sfruttamento e a volte l’annientamento di intere popolazioni praticato dalle potenze europee nelle nuove terre (vengono distrutte antichissime civiltà come quella azteca e quella degli Incas) e dall’altro il sistematico assoggettamento ideologico e religioso degli abitanti, considerato dagli europei come un compito doveroso, una specie di missione. L’accettazione del “diverso” Appare di sorprendente modernità la posizione del grande scrittore francese Michel de Montaigne (1533-1592) che, nel capitolo XXI del primo libro dei suoi Essais (Saggi), fa riferimento ai nuovi popoli che le esplorazioni geografiche avevano scoperto. Alla generale preclusione di fronte a popoli considerati costituzionalmente inferiori, Montaigne contrappone una posizione relativistica e la saggia accettazione di chi appare “diverso” agli occhi di una civiltà che si è molto allontanata dalla felice condizione naturale. Scrive Montaigne: «[…] Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto». Lo spazio del cosmo: Copernico e la teoria eliocentrica Nuovi orizzonti si aprono anche in campo astronomico e nell’immagine del cosmo grazie alle intuizioni di Niccolò Copernico (1473-1543). Nel suo De revolutionibus orbium coelestium (Le rivoluzioni dei mondi celesti, 1543) lo scienziato polacco formula l’ipotesi, a quel tempo incredibilmente audace, dell’eliocentrismo, contestando il geocentrismo tolemaico, secondo cui la terra si trovava immobile al centro dell’universo. Alla tesi di Copernico seguiranno ben presto le intuizioni di Tycho Brahe, Keplero e soprattutto di Galileo, destinate a sconvolgere gli orizzonti conoscitivi nella seconda metà del Cinquecento e all’inizio del Seicento.

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6 I valori e i modelli di comportamento La centralità della cultura e il culto dell’amicizia In un suo scritto Lorenzo Valla enuncia alcune condizioni che considera imprescindibili nella vita dell’umanista: la frequentazione di persone istruite, l’abbondanza di libri, la necessità di un luogo adatto, il tempo libero e, infine, la serenità d’animo che predispone alla conquista della saggezza. Forse l’aspetto più significativo di questo elenco è il primo. L’amicizia era un valore molto importante per gli umanisti, certo anche per suggestione della cultura classica: Epicuro, il circolo degli Scipioni e Cicerone (autore di un trattato Sull’amicizia) erano in questa prospettiva dei modelli autorevoli. Per gli umanisti il rapporto di amicizia coincideva con il sodalizio intellettuale, la online comunanza di interessi: non si poteva infatti essere amici se D8 Cristoforo Landino non si condivideva l’amore per le lettere e il culto della cultura Un incontro tra spiriti affini classica (➜ D8 OL) che questi intellettuali identificavano con la Disputationes camaldulenses cultura in assoluto. Uno strumento di coesione dell’identità umanistica: le lettere Uno strumento fondamentale per rinsaldare l’identità comune degli umanisti è sicuramente la lettera. Le lettere degli umanisti non servivano per comunicarsi notizie, informazioni, ma per fare riflessioni generali e per esercizi di eloquenza secondo il modello ciceroniano. Spesso la lettera era inviata, oltre che al destinatario, anche agli amici; questi, facendone a loro volta delle copie, ne moltiplicavano considerevolmente la diffusione all’interno della respublica litteratorum, la “società dei letterati”. Per noi moderni, abituati a una comunicazione asciutta, referenziale e funzionale allo scopo, le lettere degli umanisti possono apparire fastidiosamente libresche (si fa spesso sfoggio di erudizione) e ostentatamente retoriche (nel senso negativo che si associa comunemente al termine). Occorre però ricordare che gli umanisti – seguendo il modello dei latini (e quello di Petrarca che scriveva le sue lettere pensando alla loro pubblicazione) – non avevano il mito moderno della sincerità e della spontaneità, ma inseguivano la perfezione stilistica: la lettera era appunto un banco di prova della loro capacità di scrittura.

Parola chiave

Il disprezzo del “volgo” L’ideale dell’humanitas , che accomuna gli umanisti, è imprescindibile dal possesso di una ricca cultura e in particolare di quegli studia humanitatis che soli possono formare un uomo completo. Nella visione elitaria dell’Umanesimo, solo le persone di cultura sono propriamente degne di essere chiamate “uomini”; di conseguenza sono esclusi dal consesso dei “veri uomini” tutti coloro che non sono dotti, definiti in latino vulgus.

humanitas “Umanesimo” e “umanista” sono termini che rimandano al termine latino humanitas, che allude a un insieme di valori e di qualità che rendono nobile un uomo. L’ideale dell’humanitas fu elaborato a Roma, nella seconda metà del II secolo a.C., all’interno del cosiddetto circolo degli Scipioni, di cui facevano parte anche importanti figure della cultura greca, come lo storico Polibio e il filosofo stoico Panezio.

Sarà soprattutto Cicerone (106-43 a.C.) ad approfondire l’ideale dell’humanitas – da lui intesa come saggezza, equilibrio – e ad assegnare all’interno di essa un posto fondamentale alla cultura. Ma in Cicerone il termine diventa anche sinonimo di mitezza, comprensione per la debolezza altrui, amore per gli uomini. In questa accezione è nell’humanitas antica (fatta propria dagli umanisti) che vanno ritrovate le radici dei termini “umanitario”, “umanitarismo” e del relativo concetto.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 537


Il termine non identifica una specifica classe sociale: il volgo non è solo il popolo, ma tutti coloro che non conoscono e non apprezzano gli studia humanitatis e che hanno a che fare con le incombenze del quotidiano. Il modello umano nei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti Tra la metà del XIII e la metà del XIV secolo il sistema familiare patriarcale progressivamente si incrina, mentre si avvia la transizione al nucleo familiare coniugale. La famiglia come nucleo essenziale della società, e al contempo rifugio e difesa dagli imprevisti della fortuna, è al centro della riflessione di Leon Battista Alberti nei quattro Libri della famiglia (1434-1441), un trattato scritto in lingua volgare (una scelta inconsueta nel primo Umanesimo). Si tratta di un’opera dialogica, in cui gli interlocutori (tre membri della famiglia Alberti più un personaggio immaginario, Battista, in cui l’autore ritrae sé stesso da giovane) si scambiano opinioni sugli indirizzi da dare all’educazione (I libro), sul ruolo della donna e sul matrimonio (II libro), sul modo di gestire e valorizzare il patrimonio familiare, sul tempo (➜ D6 OL), sul ruolo della fortuna, sulle qualità umane (III libro) e, infine, sull’amicizia e, in genere, sulle relazioni umane (IV libro). L’ideale umano che emerge dal complesso dell’opera è ispirato alla moderazione e alla prudenza: valori prettamente borghesi, che Alberti lega a una dimensione, quella della villa in campagna, contrapposta, nella sua rassicurante solidità, ai pericoli e alle incertezze della vita in città. La famiglia è presentata nell’opera come fonte di equilibrio e di sicurezze, al riparo dalle tensioni associate alla politica. L’ottica con cui Alberti guarda alla famiglia e ai comportamenti umani è comunque sempre pragmatica, prettamente laica; l’autore esclude deliberatamente ogni riferimento alla dimensione trascendente. Protagonista delle sue riflessioni e della sua visione del mondo è sempre la virtù dell’uomo, intesa come capacità di costruirsi il proprio destino fronteggiando la «fortuna iniqua e strana», i casi avversi della vita. Sul tema della fortuna si veda il passo di Alberti nel percorso dedicato alla Fortuna (➜ PER APPROFONDIRE, La Fortuna tra letteratura e arte OL). Il nuovo significato della virtù Nel nuovo sistema valoriale che si viene a formare muta profondamente il concetto stesso di virtù: richiamandosi alla latinità, gli umanisti utilizzano il termine virtù non più per indicare una qualità morale-religiosa, ma essenzialmente come sinonimo di “valore”. La virtù non coincide più con una condotta morale esemplare, ma indica la capacità di agire in modo ponderato, così da fronteggiare i vari casi della fortuna: una qualità che si consegue in una vita attiva, vissuta insieme agli altri esseri umani (➜ D3 OL). “Virtù” è una parola chiave nel Principe, il trattato politico di Machiavelli: nell’opera dello scrittore fiorentino la virtù ha soprattutto a che fare con l’intuito politico del signore, con la sua capacità di affrontare gli imprevisti e di raggiungere il successo politico, sfruttando – anche con comportamenti spregiudicati – le occasioni favorevoli. Dalla relazione uomo-Dio alla relazione uomo-uomo Già nel Medioevo esistevano trattati che regolavano il comportamento, ma l’attenzione era rivolta quasi esclusivamente alla condotta morale. Con l’Umanesimo non esiste più solo la condotta morale, condizionata da una schematica contrapposizione tra bene e male, ma il comportamento tende a modellarsi secondo esigenze soprattutto sociali. Sulla relazione uomo-Dio, che improntava l’atteggiamento dell’uomo medievale, ora tendono a prevalere le relazioni umane che l’individuo vive all’interno della società, e in particolare all’interno della corte.

538 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Il tramonto del modello umano del mercante e la riproposizione dell’ideale cavalleresco Nel generale processo di “rifeudalizzazione” che caratterizza la società italiana già dal primo Cinquecento, tramonta nell’immaginario collettivo e letterario la figura del mercante, mentre incontra nuova fortuna l’ideale cavalleresco, soprattutto in corti come quella ferrarese. Le qualità del gentiluomo – versione rinnovata del cavaliere medievale – non si misurano più però nell’avventura cavalleresca, ma nella capacità di sapersi inserire nei rituali raffinati della vita di corte, come evidenzia il più celebre trattato sul comportamento: il Cortegiano di Baldesar Castiglione (➜ C1).

7 Luoghi, centri e figure della produzione culturale La corte: luogo-simbolo della cultura umanistico-rinascimentale Le corti italiane: una realtà policentrica Tra XV e XVI secolo in Italia le sedi in cui circola e si produce la cultura coincidono con le principali corti. I centri più importanti sono nel Nord Italia: Milano, Mantova, Ferrara (un caso a parte è Venezia), quindi Firenze e infine Roma e Napoli. Mentre in altri paesi europei la presenza di una capitale, sede di un governo centrale, favorisce l’accentramento della produzione culturale, l’Italia, a causa della divisione politica, è caratterizzata da un marcato policentrismo culturale. Nella variegata realtà italiana ogni centro ha una propria fisionomia e presenta specifiche tendenze culturali: ad esempio Firenze è la sede dell’Umanesimo civile nella prima metà del Quattrocento e in seguito del platonismo, a Ferrara fiorisce il poema cavalleresco (Boiardo, Ariosto, Tasso), mentre dalla Venezia del Bembo, centro dell’editoria, si diffonde la lirica petrarchista e così via. Un microcosmo elitario, chiuso al mondo esterno In ambito più propriamente culturale, la corte è il centro dove convergono le personalità di spicco dell’epoDanzar, ca, il luogo dove vengono principalmente elaborati, nell’età umanistico-rinascifesteggiar, cantar e giocare… Il ruolo mentale, i modelli di comportamento e i modelli culturali. Non a caso la corte fa della festa nella società signorile spesso da sfondo alle invenzioni letterarie del periodo umanistico e rinascimentale, come negli Asolani di Pietro Bembo o nel Cortegiano di Castiglione, nel quale l’ambiente che l’autore evoca con nostalgia è la corte d’Urbino (➜ D11a OL). Si tratta di un mondo elitario, che esclude le altre classi sociali: tra «palazzo» e «piazza» c’è una «nebbia folta» – come scrive con una celebre metafora Francesco Guicciardini in uno dei suoi Ricordi (➜ C9 T6 ) – cioè una grande distanza, che impedisce al popolo non solo di partecipare a quanto avviene nel palazzo ma perIl Palazzo Ducale di Urbino: scorcio del cortile d’onore, architetti Luciano sino di venirne a conoscenza. Laurana e Francesco di Giorgio Martini, 1468-1476. online

Per approfondire

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 539


Personalità dell’età umanistico-rinascimentale Centri culturali

Corte

Milano

Visconti, in seguito Sforza

• Francesco Filelfo (1398-1481; scrittore) • Filarete (1400-1469; scultore e architetto) • Donato Bramante (1444-1514; pittore e architetto) • Leonardo da Vinci (1452-1519; artista e scienziato)

Gonzaga

•  Vittorino da Feltre (1373/78-1446; intellettuale ed educatore) • Leon Battista Alberti (1404-1472; architetto, scrittore, filosofo e intellettuale) •  Andrea Mantegna (1431-1506; pittore) • Poliziano (1454-1494, scrittore e intellettuale) •  Baldesar Castiglione (1478-1529; scrittore e intellettuale) • Tiziano (1488/90-1576; pittore) •  Giulio Romano (1492/99-1546; pittore e architetto)

Serenissima Repubblica

•  Vittorino da Feltre (1373/78-1446; intellettuale ed educatore) •  Guarino Veronese (1374-1460; poeta ed educatore) •  Giovanni Bellini (1427/30-1516; pittore) •  Aldo Manuzio (1450-1515; editore e intellettuale) •  Pietro Bembo (1470-1547; poeta, scrittore e intellettuale) • Giorgione (1478-1510; pittore) • Tiziano (1488/90-1576; pittore) • Pietro Aretino (1492-1556; poeta e scrittore) • Ruzante (1496-1542; scrittore)

Este

• Guarino Veronese (1374-1460; poeta ed educatore) • Cosmè Tura (1433-1495; pittore) • Matteo Maria Boiardo (1441-1494; poeta e scrittore) • Ludovico Ariosto (1474-1533; poeta, scrittore e funzionario) • Tiziano (1488/90-1576; pittore) • Torquato Tasso (1544-1595; poeta, scrittore e filosofo)

Mantova

Venezia

Ferrara

Personalità principali

540 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Centri culturali

Firenze

Roma

Napoli

Corte

Personalità principali

Repubblica fiorentina / Medici

• Coluccio Salutati (1331-1406; scrittore e filosofo) • Niccolò Niccoli (1364-1437; scrittore) •  Leonardo Bruni (1370-1444; scrittore) • Guarino Veronese (1374-1460; poeta ed educatore) • Filippo Brunelleschi (1377-1446; ingegnere e architetto) • Poggio Bracciolini (1380-1459; scrittore e storico) • Donatello (1386-1466; pittore, scultore e architetto) • Francesco Filelfo (1398-1481; scrittore) • Filarete (1400-1469; scultore e architetto) • Masaccio (1401-1428; pittore) • Leon Battista Alberti (1404-1472; architetto, scrittore, filosofo e intellettuale) • Cristoforo Landino (1424-1498; poeta, filosofo e intellettuale) • Luigi Pulci (1432-1484; poeta) • Marsilio Ficino (1433-1499, filosofo e intellettuale) • Sandro Botticelli (1445-1510; pittore) • Leonardo da Vinci (1452-1519; artista e scienziato) • Poliziano (1454-1494, scrittore e intellettuale) • Pico della Mirandola (1463-1494, filosofo e intellettuale) • Niccolò Machiavelli (1469-1527; scrittore, storico, filosofo e intellettuale) • Michelangelo Buonarroti (1475-1564; scultore, pittore, architetto e poeta) • Raffaello Sanzio (1483-1520; pittore e architetto) • Francesco Guicciardini (1483-1540; scrittore e storico) • Benvenuto Cellini (1500-1571; scultore e scrittore) • Giorgio Vasari (1511-1574; architetto, pittore e storico)

Papato

• Poggio Bracciolini (1380-1459; scrittore) • Flavio Biondo (1392-1463; storico) • Filarete (1400-1469; scultore e architetto) • Leon Battista Alberti (1404-1472; architetto, scrittore, filosofo e intellettuale) • Enea Silvio Piccolomini (1405-1464; intellettuale e papa) • Lorenzo Valla (1407-1457; scrittore, filosofo e intellettuale) • Giulio Pomponio Leto (1428-1498; scrittore e intellettuale) • Donato Bramante (1444-1514; pittore e architetto) • Pietro Bembo (1470-1547; poeta, scrittore e intellettuale) • Michelangelo Buonarroti (1475-1564; scultore, pittore, architetto e poeta) • Raffaello Sanzio (1483-1520; pittore e architetto) • Baldesar Castiglione (1478-1529; scrittore e intellettuale) • Giulio Romano (1492/99-1546; pittore e architetto) • Pietro Aretino (1492-1556; poeta e scrittore) • Benvenuto Cellini (1500-1571; scultore e scrittore) • Giorgio Vasari (1511-1574; architetto, pittore e storico)

Aragonesi

• Panormita (1394-1471; scrittore e poeta) • Lorenzo Valla (1407-1457; scrittore, filosofo e intellettuale) • Giovanni Pontano (1429-1503; poeta e scrittore) • Iacopo Sannazaro (1457-1530; poeta e scrittore)

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 541


I LUOGHI DELLA CULTURA

La corte Quando si parla di “corte”, in questo periodo si allude sia a uno spazio (il palazzo signorile) sia all’insieme di persone che gravitavano attorno a un principe o a un personaggio particolarmente potente o influente (ad esempio: a Roma, attorno a famiglie come gli Orsini e i Colonna, esistevano vere e proprie corti). Anche i membri più elevati della gerarchia ecclesiastica, ovvero i cardinali, conducevano una vita fastosa e si comportavano come prìncipi (per altro provenivano per lo più da famiglie principesche) e non comparivano mai in occasioni pubbliche se non con un numeroso seguito di cortigiani e servitori. Una corte poteva ospitare un numero di persone indeterminato, che poteva essere anche molto elevato: ai tempi del Castiglione, la corte di Urbino constava di 350 persone; ai primi del Quattrocento, la corte di Milano era composta da circa 600 persone e nel terzo decennio del Cinquecento quella di Mantova annoverava quasi 800 persone (stando ai dati dello storico inglese Peter Burke). La corte comprendeva innanzitutto i gentiluomini e le dame; quindi i segretari, i letterati (che spesso fungevano anche da consiglieri del principe e educavano i suoi figli), gli artisti, la servitù di tutti i gradi e, infine, tutti coloro che erano impiegati nell’allestimento dei divertimenti e degli spettacoli che animavano la vita della corte: dai musicisti ai buffoni di corte e così via.

Francesco del Cossa, particolare del grande ciclo di affreschi del Salone dei mesi (Aprile, 1468-1470) (Ferrara, Palazzo Schifanoia). L’affresco mostra una scena di vita di corte in cui il duca, circondato da dignitari e paggi, dona una moneta a quello che è stato identificato come un giullare al suo servizio.

Lorenzo Costa, Allegoria della corte di Isabella d’Este, tempera su tavola, 1504-1506 (Parigi, Museo del Louvre).

La corte del Colleoni, particolare del ciclo di affreschi del castello di Malpaga, 1458-1475 (Cavernago, Bergamo).

542 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Nuovi spazi per una “cultura del dialogo”

online

Per approfondire

I LUOGHI DELLA CULTURA

L’Accademia platonica di Careggi

I cenacoli e le accademie Gli umanisti sentono l’esigenza di confrontarsi tra di loro e di stabilire solidi legami umani e intellettuali: si incontrano perciò molto spesso, per conversare e per dibattere qualche importante tema culturale. Gli spazi scelti per questi incontri periodici sono diversi dalle sedi tradizionali e istituzionali di cultura (cioè le università e le scuole annesse alle chiese): i giardini di qualche palazzo o le sale interne alla corte o una casa privata o anche una bottega di libri (dopo l’invenzione della stampa la bottega tipografica di Aldo Manuzio a Venezia diventa sede di vivaci scambi culturali). Il mutamento del luogo in cui si produce cultura rispetto all’età medievale non è casuale, ma testimonia una vera e propria rivoluzione conoscitiva: mentre la cultura filosofica medievale è concepita come “lettura” e “commento” da parte del magister di un testo d’indiscutibile autorità, in uno spazio istituzionale severo e solenne (l’università), nella visione umanistica il sapere è concepito come ricerca razionale e discussione. La frequenza di questi incontri costituisce un fatto nuovo e tipico dell’Umanesimo, che fa dei cenacoli umanistici o accademie – come talvolta vennero denominate, secondo il modello platonico – un’istituzione chiave del tempo. Testimonia in modo esemplare lo spirito delle associazioni umanistiche l’Accademia platonica, fondata da Marsilio Ficino a Firenze verso il 1463 circa e protetta dai Medici. Altre importanti accademie nacquero a Napoli (l’Accademia alfonsina e poi pontaniana); a Roma (l’Accademia di Pomponio Leto, attiva a partire dal 1460) e a Venezia (l’Accademia aldina, che si sviluppa sul finire del secolo attorno al grande stampatore-umanista Aldo Manuzio).

Il cenacolo e l’accademia Nel significato originario il termine “cenacolo” identificava la sala nella quale, nell’antica Roma, si cenava. Il cenacolo per antonomasia è la stanza in cui avvenne l’ultima cena di Gesù con gli apostoli (una scena immortalata dal celeberrimo affresco di Leonardo nella chiesa di S. Maria delle Grazie, a Milano, noto

appunto come Cenacolo). Da luogo in cui si ritrova una comunità di persone, il termine è poi passato a designare un gruppo di intellettuali e artisti che seguono un medesimo indirizzo. Dall’iniziale designazione del luogo presso Atene dove Platone iniziò il suo insegnamento, il termine “accademia” passò presto a indicare la scuola filosofica stessa di Platone. Nell’età umanisticorinascimentale, dopo l’esempio dell’Accademia fondata da Marsilio Ficino a imitazione appunto di quella platonica, il termine designa varie associazioni intellettuali ispirate a diversi indirizzi e a interessi differenti, non solo filosofici. Nel tempo, accademico diventa sinonimo di “professore universitario” e, come aggettivo, accademico è tutto ciò che riguarda la vita universitaria.

Domenico Ghirlandaio, Annuncio dell’Angelo a Zaccaria, affresco, 1486-1490 (Firenze, Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella). In basso a sinistra sono raffigurati gli accademici Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano e Demetrio Calcondila.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 543


L’istituzionalizzazione e specializzazione delle accademie Nel corso del Cinquecento le accademie si moltiplicano, e si trasformano: da incontri informali tra intellettuali, esse tendono a trasformarsi in istituzioni stabili; iniziano così a regolamentare i requisiti che consentono di accedervi e a specializzarsi (le accademie scientifiche da una parte e quelle linguistico-letterarie dall’altra). Le biblioteche pubbliche, luoghi di circolazione della cultura Nel Medioevo il libro era gelosamente conservato nelle biblioteche dei castelli o nelle biblioteche dei monasteri, e non era contemplata la possibilità che dall’esterno si potesse accedere al patrimonio librario. L’Umanesimo trasforma in realtà questo progetto: le biblioteche diventano gradualmente anche luoghi in cui si legge insieme e si discute.

Gli intellettuali: nuovi ruoli, nuove identità

I LUOGHI DELLA CULTURA

Dall’intellettuale comunale al cortigiano Già nel corso del Trecento, in seguito alla crisi della società comunale, tramonta il modello di intellettuale attivamente partecipe della vita politica della sua città e che si dedica alla letteratura nei momenti che l’esercizio della sua professione (per lo più di uomo di legge o docente

La biblioteca Il primo esempio di destinazione pubblica di un patrimonio librario privato è il lascito testamentario (1437) dell’umanista Niccolò Niccoli, bibliotecario di Cosimo de’ Medici, che destina i suoi libri «a tutti i cittadini amanti degli studi». Nel convento di San Marco, Cosimo fa allestire la prima biblioteca pubblica, nella quale sono collocati i preziosi codici (circa ottocento) posseduti dal Niccoli, a disposizione di chi li voglia consultare e persino prendere a prestito. La più ricca biblioteca dell’epoca (non solo in Italia, ma in tutta Europa) è quella Vaticana (1484), anch’essa aperta al pubblico, voluta da papa Niccolò V (Tommaso Petruccelli), umanista e appassionato bibliofilo.

L’accrescimento del patrimonio librario nel Rinascimento, anche grazie alla stampa, renderà necessario adottare precise direttive culturali che regolino l’acquisto di nuovi libri per evitare un accumulo caotico e un accrescimento puramente quantitativo. Da qui l’importanza di una nuova figura, il bibliotecario, responsabile della scelta dei libri da acquisire: nel caso della Laurenziana (la splendida biblioteca voluta da Lorenzo de’ Medici ed edificata da Michelangelo), furono due prestigiosi umanisti della “cerchia medicea” a occuparsi dell’acquisizione di un patrimonio librario vasto e prezioso: Pico della Mirandola e Poliziano.

Cultori delle humanae litterae impegnati nello studio all’interno della Biblioteca Vaticana a Roma (Roma, Arcispedale di Santo Spirito in Saxia). Dall’affresco si può notare come avveniva la consultazione dei volumi nelle biblioteche del tempo: i codici venivano conservati orizzontalmente nei ripiani inferiori dei banchi ed erano consultabili liberamente (anche se assicurati ai banchi tramite catene).

544 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


universitario) lascia liberi. Nel corso del Quattrocento, a questa figura tende a sostituirsi il modello dell’intellettuale cortigiano, anticipato per più aspetti da Petrarca. L’attività letteraria diventa una vera e propria professione al servizio delle istituzioni principali del tempo: la corte e la Chiesa, nell’ambito della politica culturale del mecenatismo. Il mecenatismo Nell’età umanistico-rinascimentale principi e papi adottano verso artisti e intellettuali la particolare politica culturale che viene definita mecenatismo. Il termine deriva dal nome di Mecenate, che nella Roma antica fu il principale artefice della politica culturale dell’imperatore Augusto, volta a proteggere e cooptare letterati e artisti, legandoli al principato. I principi-mecenati, a cominciare da Lorenzo il Magnifico, che governò Firenze dal 1469 al 1492, cercano online di attirare i più importanti esponenti della cultura, a cui Testi in dialogo Il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico nel garantiscono un adeguato tenore di vita, chiedendo in ritratto dei contemporanei: due testimonianze cambio la produzione di opere (architettoniche, figurative D9a Angelo Poliziano e letterarie) che diano prestigio alla corte (➜ D9a-D9b OL). «Uomo nato a cose grandi» Epistola a Jacopo Antiquario La presenza di artisti e famosi scrittori, le opere d’arte D9b Niccolò Machiavelli a tutti visibili, costituivano per i signori un formidabile Amava meravigliosamente qualunque era in una strumento per creare diffuso consenso. Quanto al popolo, arte eccellente Istorie fiorentine VIII, 36 veniva abbagliato dagli spettacoli organizzati in occasione di particolari eventi a cui presiedevano spesso gli stessi online intellettuali. Testi in dialogo Vivere a corte: tra mitizzazione e critica

La condizione cortigiana: luci e ombre Se la corte offre agli intellettuali indipendenza economica, occasioni di La corte felice di Urbino: un mito nostalgico promozione sociale e soprattutto la possibilità di vivere Il libro del Cortegiano I, IV in un ambiente raffinato e culturalmente stimolante, per D10b Erasmo da Rotterdam contro la dipendenza da un signore mecenate può conLa vita vuota dei cortigiani Elogio della follia dizionare l’attività e le scelte ideologiche degli artisti, suscitando la loro insofferenza (il tema della negatività della vita di corte è diffuso) (➜ D10a-D10b OL). A ben vedere però, più che con motivi ideologico-politici, l’insoddisfazione degli artisti ha a che fare con il fatto che il letterato umanista è obbligato, come cortigiano, a svolgere compiti estranei alla sua vocazione letteraria: dalle missioni politico-diplomatiche, a volte anche pericolose (come accade ad Ariosto), all’educazione dei figli del principe, o ancora alla composizione di testi celebrativi, di lettere e discorsi ufficiali, per arrivare a ruoli quasi umilianti (almeno a quanto scrive l’Ariosto nelle Satire). Inoltre, almeno se ci si attiene alle testimonianze degli umanisti, la vita nella corte era viziata dalla competizione, dall’ipocrisia e dall’adulazione. D10a Baldesar Castiglione

La carriera dentro la Chiesa Per i letterati e gli artisti un’alternativa al mecenatismo dei principi è rappresentata dalla carriera ecclesiastica nella condizione di chierici. Per lo più gli intellettuali fanno questa scelta (che ai gradi minori implicava pochissimi obblighi, come il celibato, peraltro spesso del tutto formali) non tanto per vocazione, quanto perché attirati dai benefici connessi alla gestione di abbazie e parrocchie e dal prestigio sociale che allora comportava il raggiungimento dei gradi più elevati nella gerarchia della Chiesa, quelli di vescovo e cardinale. I maggiori intellettuali dell’epoca sono inseriti nelle strutture ecclesiastiche (Bembo è cardinale, Castiglione arriva a diventare nunzio apostolico, Enea Silvio Piccolomini addirittura papa) o aspirano a entrarvi (come Poliziano, Ariosto e persino un intellettuale spregiudicato come Aretino). La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 545


Una figura emergente: l’artista-intellettuale Tra gli intellettuali di corte ha spesso un ruolo di spicco l’artista: proprio agli artisti era affidata la celebrazione, in immagini-simbolo, del potere e della magnificenza dei signori e della famiglia principesca. Nella pittura si diffonde l’uso del ritratto dei signori (celeberrimo è ad esempio quello di Federico di Montefeltro, opera di Piero della Francesca) e la raffigurazione negli affreschi dei palazzi signorili della vita raffinata della corte. Gli intellettuali-artisti sono ritratti a volte insieme alla famiglia principesca per la quale operano e alla cui corte vivono, a sottolineare lo stretto rapporto con essa: nella celebre Camera degli sposi (1465-1474) è lo stesso Andrea Mantegna ad autoritrarsi nel medaglione di un fregio tra i membri della famiglia Gonzaga. Che gli artisti siano considerati degli intellettuali costituisce una rilevante novità: fino al Trecento, infatti, pittori, scultori e architetti erano considerati sostanzialmente degli artigiani (non tanto diversi da falegnami o muratori) proprio perché la loro arte implicava l’attività manuale e quindi venivano ritenuti appartenere a un piano più basso rispetto agli scrittori; sostanzialmente, dunque, non erano visti come intellettuali. Nel nuovo clima culturale dell’Umanesimo gli artisti si trovano invece per la prima volta accomunati ai letterati dagli stessi ideali estetici: in particolare l’ammirazione per l’antichità classica. Le Vite di Vasari e la consacrazione dell’importanza dell’artista Nel 1550 esce la prima edizione delle Vite de’ più eccellenti architettori, pittori e scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, opera del toscano Giorgio Vasari (1511-1574) dedicata a Cosimo I de’ Medici, di cui era al servizio come architetto-pittore. La seconda edizione, ampliata e modificata sotto il profilo stilistico, è del 1568 e comprende molti contemporanei. Le Vite (➜ D11 OL) raccolgono più di duecento biografie di artisti: una mole di documenti enorme, frutto di un appassionato lavoro personale di documentazione, anche aneddotica, sui vari autori e le loro opere e di contatti con eruditi e personalità artistiche e letterarie del tempo. Le Vite sono il primo consuntivo critico sull’arte italiana, ancora oggi considerato fondamentale dagli studiosi; appaiono l’esemplare testimonianza del ruolo sempre più rilevante che gli artisti (pittori, scultori, architetti) erano andati assumendo nella società rinascimentale e della valorizzazione dell’artista come individuo eccezionale, dotato di superiore ingegno e non più solo di competenze tecnico-artigianali come nel Medioevo. La storia dell’arte italiana dal Duecento al Cinquecento è interpretata come continuo progresso, online soprattutto per quanto riguarda il disegno, sempre più perfezionato D11 Giorgio Vasari e in grado di imitare la natura, fino a raggiungere il culmine con Leon Battista Alberti, prototipo dell’artista-intellettuale Michelangelo, dopo il quale iniziano a delinearsi nuove prospettive, Vite per le quali Vasari per primo usa il concetto di “manierismo”.

Fissare i concetti La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1. Che cosa si intende con il termine Umanesimo e che cosa con il termine Rinascimento? 2. Che cosa si intende con antropocentrismo? 3. Che cosa si intende per visione edonistica della vita? 4. Qual è la visione della storia che si diffonde in questo periodo? 5. In che cosa consiste il metodo filologico? Chi fu il suo iniziatore? 6. Quale concezione del tempo e dello spazio domina in questo periodo? 7. Quali sono i luoghi della produzione culturale? 8. Quali caratteristiche presenta la corte? 9. Che cosa si intende per mecenatismo? 10. Quali sono gli aspetti positivi e negativi dell’intellettuale-cortigiano?

546 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Insegnare il “mestiere di uomo”: la pedagogia umanistica Un nuovo modello culturale e educativo, fondato sugli studia humanitatis Il concetto basilare che ispira la linea educativa dell’Umanesimo è la necessità di formare un uomo completo (in cui si armonizzino corpo e anima, sensi e intelletto) e libero (capace di dominare le passioni attraverso il controllo razionale). Per raggiungere questo obiettivo non serve più una cultura enciclopedica, ma occorre privilegiare, nell’insegnamento, gli studia humanitatis (così chiamati «perché perfezionano e adornano l’uomo», come afferma in una lettera l’umanista Leonardo Bruni), considerati per eccellenza formativi: la storia (da cui trarre modelli di vita), la filosofia morale (da cui ricavare princìpi etici) e soprattutto la poesia e la retorica (“l’arte del dire”, cioè), ambiti disciplinari da apprendere leggendo secondo il metodo filologico i classici greci e latini (➜ D12a OL).

online

Per approfondire Le scuole umanistiche di Guarino e di Vittorino da Feltre

La “comunità educante” La visione pedagogica dell’Umanesimo si traduce in reale pratica educativa grazie a Guarino Veronese (Guarino de’ Guarini, 1374-1460) e a Vittorino da Feltre (1373/78-1446). Alla base della concezione pedagogica che ispira le loro scuole c’è una nuova immagine del discente: l’alunno diventa il soggetto del processo educativo e la figura a cui il docente deve rispetto, che deve convincere e non costringere, mettendo in atto ogni strategia che possa favorirne l’apprendimento e stimolarne gli interessi autonomi. Tra docente e allievi nelle scuole umanistiche si creava un rapporto di collaborazione, addirittura un legame di affetto. Viene valorizzata, inoltre, l’amicizia tra gli allievi in quella che oggi potrebbe essere definita una “comunità educante”. Come si può notare anche da queste scarne informazioni, si tratta di una concezione pedagogica molto attuale e lontanissima dall’ottica medievale.

L’eredità della scuola umanistica: luci e ombre Con la pedagogia umanistica si afferma un modello culturale con importanti riflessi sociali: per secoli l’uomo colto sarà identificato essenzialmente in una persona che conosce bene il latino, ha familiarità con le opere dei classici così da saper inserire con disinvoltura una citazione dotta in un argomento di conversazione, è in grado di scrivere con eleganza online Testi in dialogo di stile. Il rischio è quello di privilegiare eccessivamente il La pedagogia umanistica: alcune testimonianze potere formativo delle lettere, a scapito di altri importanti D12a Pier Paolo Vergerio saperi (come quello scientifico) e, soprattutto, di anteporre Centralità degli studia humanitatis la forma ai contenuti, i compiacimenti retorici alla soDei nobili costumi e degli studi liberali dei giovani stanza. Un rischio avvertito dagli umanisti più critici come D12b Leon Battista Alberti Anche l’esercizio fisico è importante Erasmo e poi Montaigne, che non risparmiano critiche Libri della famiglia, I feroci a grammatici e retori (➜ D12b OL).

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 547


2 Un nuovo modello conoscitivo e un nuovo concetto di cultura Un modello conoscitivo antidogmatico Con l’Umanesimo viene meno la secolare identificazione della cultura con il sapere scolastico e universitario (esso nasce fuori dagli ambienti universitari) e si afferma una visione antidogmatica della conoscenza. Il sapere non è più statico possesso di informazioni fissate, ma si fonda sulla libera discussione, attraverso cui si fanno partecipi gli altri del proprio sapere e si promuove una circolazione delle idee che arricchisce tutti (➜ D13 OL). Non è quindi casuale il fatto che nella cultura umanistica si leggano e scrivano moltissimi dialoghi: al trattato medievale finalizzato a trasmettere un sapere codificato una volta per tutte, gli umanisti – secondo il modello di Platone e Cicerone – preferiscono il confronto dialogico, nel quale sono messe a confronto tesi diverse. L’abbattimento dei confini tra le discipline e il riassetto delle gerarchie culturali L’atteggiamento conoscitivo aperto e curioso proprio dell’Umanesimo porta all’abbattimento delle rigide barriere tra i vari campi della conoscenza, a cominciare dalla tradizionale separazione tra arti liberali e arti meccaniche. Di conseguenza i nuovi “miti” umani, i modelli esaltati dall’Umanesimo, sono personaggi come Leon Battista Alberti, che si mette alla prova nei più diversi campi e in tutti riesce a eccellere (➜ D3 OL, D10 OL), o “nuovi filosofi”, come Marsilio Ficino. Al centro del sapere, nella visione dell’Umanesimo, sta la retorica, considerata necessaria non solo per scrivere lettere e discorsi pubblici (assai diffusi in quel periodo), ma per ogni ambito culturale, compreso quello scientifico. La retorica finisce per assorbire anche la dialettica, che però subisce una trasformazione nell’uso: non più considerata strumento di dispute sterilmente cavillose (come spesso nel mondo universitario medievale), per gli umanisti diventa l’arte dell’argomentare in modo giusto e armonico. Nel sistema conoscitivo della nuova età assume nuova importanza la matematica, impiegata non più solo per esigenze pratiche (come ad esempio nella contabilità commerciale), ma anche come strumento concettuale: come si è detto, la mateonline matica contribuisce alla definizione della prospettiva e alla D13 Leonardo Bruni “matematizzazione” dello spazio e incide radicalmente sul Il valore educativo della discussione e del confronto sapere astronomico, consentendo di quantificare i moti dei Dialogo a Pier Paolo Vergerio corpi celesti. IMMAGINE INTERATTIVA

Il mutamento dell’immagine del filosofo è rappresentato in modo emblematico dal dipinto di Giorgione I tre filosofi, 1506-1508 (Vienna, Kunsthistorisches Museum). Nel quadro appaiono tre figure: un giovane studioso curioso della natura (con emblemi del sapere: compasso e squadra), un vecchio venerando e un orientale con turbante. I tre personaggi in piena luce, in un atteggiamento riflessivo, incarnano l’armonia della conoscenza rinascimentale. Secondo alcuni alludono alla filosofia antica, a quella araba e

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a quella rinascimentale; secondo altri, simboleggiano le tre età della vita, oppure impersonano un matematico, un astrologo e un astronomo; o, infine per altri ancora sarebbero i tre magi prima della partenza per la Palestina. Qualunque sia il significato simbolico da attribuire alle tre figure, su cui ancora la critica dibatte, è comunque chiaro che il dipinto rimanda a una diversa concezione del filosofare e a una figura di pensatore ormai abissalmente lontana da quella del maestro medievale, intento a commentare dalla sua cattedra il testo di Aristotele.


Nuovi interessi filosofici. Un modo diverso di filosofare L’Umanesimo modifica profondamente l’insegnamento filosofico, soprattutto in rapporto alla lettura filologica dei testi filosofici antichi, in modo tale da mettere in discussione il cosiddetto “principio di autorità” e sviluppare il metodo critico, sottoponendo al vaglio razionale persino i testi religiosi. La nuova impostazione data alla riflessione filosofica e lo spirito laico che caratterizzano l’Umanesimo comportano l’inevitabile declino dell’interesse nella metafisica, mentre emergono in primo piano la riflessione politica (in particolare nel primo Umanesimo) e soprattutto l’etica: cioè saperi fondamentalmente antropocentrici. Inoltre, soprattutto nel XV secolo, la magia, l’astrologia, l’alchimia, i saperi esoterici interagiscono con la filosofia, trasformandone inevitabilmente l’identità. Il nuovo filosofo Il nuovo filosofo è lontanissimo dal magister medievale, rigido custode di un sapere autorevole: versatile “uomo universale”, aperto ai più diversi stimoli culturali, aspira a diventare maestro di vita oltre che di pensiero, secondo il modello di Socrate. Non si rivolge più solo agli addetti ai lavori, ma a un nuovo pubblico di uomini politici, di uomini d’affari e anche di donne colte: proprio per questo le nuove idee sono diffuse in modo spesso informale tramite lettere, su brevi opuscoli, in conferenze o addirittura in conversazioni estemporanee, come era solito fare Marsilio Ficino, il prototipo del nuovo filosofo.

Dal filosofo medievale al filosofo umanistico-rinascimentale Il filosofo medievale

Il filosofo umanista

Si basa su

il principio di autorità

la lettura filologica dei testi

Studia

la metafisica

l’etica (e anche i saperi esoterici)

Incarna

il magister, rigido custode del sapere

il maestro di pensiero e di vita

Si rivolge a

un pubblico ristretto di sapienti

un nuovo pubblico di persone attive nella politica e negli affari (anche donne colte)

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3 Il “ritorno a Platone” e il movimento neoplatonico fiorentino Dall’Umanesimo “civile” al neoplatonismo Se il culto di Aristotele domina nella cultura medievale, la tendenza filosofica dominante, in particolare nel primo Rinascimento, è sicuramente il platonismo, che ha enorme diffusione nella seconda metà del Quattrocento in Europa a partire da Firenze. Il “ritorno a Platone” è favorito dalla venuta in Italia dei filosofi bizantini, che soggiornano una prima volta a Firenze, in occasione del Concilio del 1439, per poi ritornare stabilmente in Italia dopo la caduta di Costantinopoli per mano dei Turchi (1453). A Firenze l’università non aveva mai avuto un ruolo di punta. Forse per questa ragione la vita culturale è caratterizzata da maggiore apertura e varietà d’impostazioni: nei primi decenni del movimento umanistico, l’iniziativa culturale ha il suo centro nella Cancelleria della Repubblica e i temi del dibattito culturale riguardano l’etica, la vita civile e politica (si parla al proposito di “Umanesimo civile”). In seguito l’iniziativa passa a intellettuali vicini ai Medici e il modello culturale dominante diventa appunto il neoplatonismo, il cui maggiore rappresentante è Marsilio Ficino.

L’opera di Marsilio Ficino, prototipo del “nuovo filosofo” Marsilio Ficino La figura che meglio rappresenta il nuovo volto della filosofia è Marsilio Ficino (1433-1499), che opera fuori dell’università, nel suo circolo di pochi adepti alla villa di Careggi, donatagli da Lorenzo de’ Medici: un gruppo così esclusivo e coeso al suo interno da apparire quasi una setta (del gruppo facevano parte, oltre allo stesso Lorenzo, anche Pico della Mirandola (➜ D14 ), Cristoforo Landino, Poliziano, Botticelli e altri). L’interesse principale di Ficino è la filosofia platonica, che contribuisce a divulgare; ma i suoi interessi spaziano dalla medicina alla teologia, dall’astrologia alla magia (egli stesso è dedito a pratiche magiche). È anche musicista (suonava la lira) e s’interessa di teoria musicale e di poesia.

online

Per approfondire Segrete corrispondenze: l’interesse rinascimentale per la magia

Gli interessi magici di Ficino e della Firenze di Lorenzo Profondo conoscitore della lingua greca, Ficino riceve da Lorenzo de’ Medici l’incarico di tradurre in latino le opere di Platone. Oltre a Platone e ai testi dei continuatori di Platone (i neoplatonici di età ellenistica) traduce e commenta il Corpus hermeticum: si tratta di scritti esoterici, impregnati di elementi magici, attribuiti nell’Umanesimo al leggendario sapiente egiziano Ermete Trismegisto, che allora si pensavano profetici delle idee platoniche e delle stesse verità cristiane (in realtà gli scritti ermetici risalgono solo o prevalentemente al II-III secolo d.C.). Il platonismo e l’interesse esoterico ad esso connesso divengono una vera e propria moda influenzando profondamente gli ambienti intellettuali: la magia, l’astrologia, l’esoterismo in genere sono alla base della cultura rinascimentale, in particolare di quella fiorentina, il che spiega il grande successo, nel repertorio iconografico del tempo, della figura dei re Magi e la diffusa presenza di simbolismi e di immagini ermetiche e astrologiche. Ficino si propone di conciliare questo sapere con la religione cristiana: sia la filosofia platonica sia il Verbo cristiano, infatti, per Ficino fanno parte di un progetto divino di salvezza. Da qui il titolo della sua opera principale, a quei tempi alquanto ardito: Theologia platonica (1482), in cui l’intellettuale cerca appunto di dimostrare l’armonizzazione fra cristianesimo e sistema platonico.

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Il tema dell’amore platonico Centrale nella meditazione di Ficino è l’amore. La riflessione del filosofo su questo tema è esposta nel suo commento a uno dei più famosi dialoghi di Platone, il Simposio, nel quale è già contenuta un’idea del sentimento amoroso come superamento della sensualità, come ricerca che, partendo dalla contemplazione della bellezza delle forme fisiche, accede, attraverso vari gradi di perfezionamento, all’essenza divina. Per Ficino la bellezza terrena, che suscita la pulsione amorosa, è solo un’imperfetta manifestazione rispetto alla Bellezza come Idea, che è possibile contemplare soltanto in Dio. La visione platonizzante dell’amore ispira moltissimi trattati sull’amore (➜ C10, PAG. 598), diventando una vera e propria moda culturale (è stata paragonata alla massiccia divulgazione della psicoanalisi nella pubblicistica di oggi). Parlar d’amore in termini neoplatonici diventa quasi un obbligo per letterati e intellettuali.

Pico della Mirandola

D14

Il posto dell’uomo nell’universo De hominis dignitate

P. della Mirandola, De hominis dignitate, a cura di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942

Questo è un passo famosissimo dell’orazione Sulla dignità dell’uomo, che funge da introduzione alle Conclusiones philosophicae, le novecento tesi che, secondo Pico, giovane e brillante filosofo, rappresentavano una sintesi di tutto il proprio sapere e che egli avrebbe voluto discutere in un convegno di dotti a Roma nel 1486 ispirato proprio alla conciliazione filosofica. Vi si enuncia una visione dell’uomo e della sua missione che di per sé può costituire un “manifesto” del pensiero rinascimentale. Il progetto di Pico fu giudicato eretico dalle autorità ecclesiastiche e alcune delle tesi che avrebbero dovuto essere discusse furono ufficialmente condannate da papa Innocenzo VIII.

Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana1 sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità2. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania3, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi4, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie 5 le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo5, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi6 non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno 10 ve n’era da largire in retaggio7 al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medî, negli infimi gradi. Ma non sarebbe

1

arcana: segreta e misteriosa, accessibile a pochi. 2 tempio... divinità: tempio nobilissimo della divinità. 3 zona iperurania: nella filosofia platonica è il luogo delle idee, superiore al cielo. 4 aveva... globi: (Dio) aveva anima-

to (avvivato) con le menti angeliche le sfere celesti degli astri. Secondo la concezione propria del neoplatonismo e della magia rinascimentale il mondo è suddiviso in tre regioni: terrena, celeste, sovraceleste. 5 Mosè e Timeo: Timeo, filosofo pitagorico e protagonista del dialogo platonico

omonimo di argomento cosmologico, è posto sullo stesso piano di Mosè, ritenuto l’autore della Genesi, il testo biblico sulla creazione. 6 archetipi: secondo la filosofia platonica, modelli ideali di cui le realtà esistenti sarebbero copia. 7 largire... retaggio: offrire in eredità.

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stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente, nell’ultima fattura; non della sua sapienza rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di 15 consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in sé stesso8. Stabilì finalmente l’ottimo artefice9 che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita10 e postolo nel cuore del mondo11 così gli parlò: «non ti ho dato, o 20 Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio12 ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà13 ti consegnai. Ti posi nel mezzo 25 del mondo14 perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto15. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti16; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine». 30 O suprema liberalità di Dio padre! o suprema e mirabile felicità dell’uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere seco recano dal seno materno tutto quello che avranno, come dice Lucilio17. Gli spiriti superni o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli18. Nell’uomo nascente il Padre ripose semi19 d’ogni specie e germi d’ogni vita. E se35 condo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta20; se sensibili, sarà bruto21; se razionali, diventerà animale celeste22; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio23. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità24, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine25 del Padre colui che fu posto sopra tutte 40 le cose starà sopra tutte le cose.

8 non sarebbe… stesso: sarebbe stato indegno del potere divino (paterna potestà) non elargire doni (alla lettera, “fallire, dimostrarsi inadeguato”) all’ultima creazione (fattura), l’uomo, come se Dio ne fosse incapace; (indegno) della sua sapienza, rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di un progetto; non sarebbe stato degno del suo amore benefico che l’uomo, destinato ad ammirare la generosità (liberalità) di Dio verso le altre creature, fosse costretto a lamentarne la mancanza nei suoi riguardi. Potenza, sapienza e amore sono gli attributi tradizionali della divinità. 9 Stabilì... artefice: Alla fine l’ottimo creatore stabilì. 10 di natura indefinita: l’uomo è di natura indefinita perché egli stesso può autodeterminarsi, cioè scegliere a che livello di esistenza vivere, se essere dedito alle realtà materiali o a quelle intellettuali e spirituali: l’uomo, infatti, può essere, secondo Pico, simile a una pianta, a un animale, a un essere ragionante, a un angelo e persino a Dio.

11 postolo... mondo: dopo averlo posto nel centro del mondo. 12 il tuo voto... consiglio: il tuo desiderio e il tuo progetto: l’uomo è affidato al suo libero arbitrio. 13 potestà: potere. 14 nel mezzo del mondo: perché l’uomo ha un’intelligenza che gli permette di afferrare il divino, ma è immerso nella realtà sensibile con il suo corpo. 15 libero... prescelto: nella concezione di Pico l’uomo diviene libero creatore del proprio essere. 16 i bruti: gli esseri privi di razionalità, ossia gli animali irragionevoli, dominati dall’istinto. 17 Lucilio: autore latino di Satire del II sec. a.C. Il senso del passo è che gli animali si comportano secondo istinti già presenti alla nascita. 18 Gli spiriti... secoli: Gli spiriti superiori (gli angeli), dalla creazione o poco dopo (in seguito alla ribellione di Lucifero) furono quello che saranno per l’eternità.

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19 semi: potenzialità che potranno o no essere sviluppate. 20 se saranno... pianta: se l’uomo sarà insensibile e incosciente sarà simile a una pianta. 21 se sensibili, sarà bruto: se l’uomo svilupperà soltanto i sensi e gli istinti sarà come un animale irragionevole. 22 animale celeste: essere dotato di anima (legato quindi al mondo sensibile) ma nello stesso tempo capace di comprendere l’intelligenza della creazione. 23 sarà... di Dio: capace di elevarsi alla sfera intellettuale delle idee eterne. 24 si raccoglierà... unità: si concentrerà in sé, nel suo essere “un uno”, una unità, rendendosi simile a Dio, che secondo la teologia neoplatonica è Uno. 25 caligine: oscurità. Nella teologia neoplatonica l’essenza dell’essere divino è immersa nell’oscurità: di Dio si può dire solo ciò che non è (teologia negativa), perché le qualità positive limiterebbero l’infinita onnipotenza divina.


Concetti chiave La “dignità dell’uomo” e la sua eccellenza

L’Oratio de hominis dignitate (1486), premessa alle novecento tesi che Pico si proponeva di discutere, a ragione può essere considerata il “manifesto” del tardo Umanesimo, in quanto ne esprime perfettamente la visione cosmologica e antropologica. Secondo Pico della Mirandola, l’uomo è un essere unico ed eccezionale, perché posto al centro dell’universo e dotato di una libertà senza limiti: il suo libero arbitrio non si manifesta infatti soltanto nella scelta tra il bene e il male (come era proprio della concezione medievale), ma anche e soprattutto nella possibilità di autodeterminarsi. Al contrario delle altre creature viventi, condizionate dalla loro essenza immodificabile (come, per esempio, l’istinto negli animali), l’uomo può infatti scegliere liberamente ciò che vuole divenire, bestia o essere razionale, perché ha in sé tutte le possibilità: può avvilirsi a livello animale, se agisce secondo l’istinto, e persino di un vegetale, se è insensibile e privo di coscienza o, al contrario, può sviluppare tutte le sue potenzialità, che sono illimitate, elevandosi fino a una vita razionale e spirituale o addirittura, come si asserisce alla fine del passo, fondersi in un’unione mistica con Dio. È significativo nel passo l’accento, riguardo all’eccellenza dell’uomo, posto sulla contemplazione: la grandezza dell’uomo, voluta dal Creatore, consiste nell’«afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali caratteristiche indicate da Pico della Mirandola renderebbero l’uomo superiore a tutti gli altri esseri? SINTESI 2. Secondo il modello platonico, la concezione di Pico della Mirandola è esposta attraverso un racconto mitico: riassumilo brevemente e spiegane il significato.

Interpretare

Studiare con l’immagine SCRITTURA 3. Un’illustrazione cinquecentesca (1512) della Logica del medievale Raimondo Lullo presenta le varie possibilità dell’essere offerte all’uomo attraverso il simbolo della scala, utilizzato anche da Pico nell’Oratio: l’essere umano, grazie al proprio intelletto, può ascendere, elevandosi dal sasso (lapis) alla pianta, a un animale bruto a un angelo e un dio. Indica i punti in comune con lo scritto di Pico della Mirandola.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 553


4 Un modo diverso di guardare alla natura L’interesse per la natura Uno dei caratteri principali della nuova cultura è l’interesse per la natura, considerata degna di autonoma osservazione e non più, come nel Medioevo, realtà imperfetta in cui ricercare e interpretare esclusivamente i “segni” del divino. Un nuovo “sguardo”, dunque, che ha dirette conseguenze anche sulla rappresentazione artistica: l’arte quattrocentesca raffigura il corpo umano in modo sempre più plastico e non lo colloca più su uno sfondo schematico e astrattamente simbolico, ma lo inserisce armonicamente entro paesaggi ricchi di dettagli naturalistici. Verso la nascita della scienza moderna Nell’età umanistico-rinascimentale sono gettate le basi su cui si svilupperà la scienza moderna. Innanzitutto il desiderio di dominare la natura – stimolato dalla fiducia umanistica nelle potenzialità dell’uomo – spezza la tradizionale separazione fra teoria e pratica, propria del pensiero medievale: è una svolta decisiva perché possa nascere la scienza moderna. Importantissima per lo sviluppo della scienza inoltre è la valorizzazione della matematica, che consegue alla traduzione e allo studio filologico delle opere di Archimede: in alcuni casi si ricercano nei numeri nascoste qualità misticomagiche, secondo i principi del neoplatonismo e gli interessi esoterici che furono propri del tempo; ma per lo più la matematica è considerata uno strumento necessario per poter descrivere in modo preciso i fenomeni, il codice che consente di leggere adeguatamente nel grande “libro della natura”. Leonardo, fautore dell’esperienza e “uomo universale” Nell’età dell’Umanesimo la figura più rilevante nel campo delle ricerche naturali è sicuramente Leo­nardo da Vinci (1452-1519), ritenuto il precursore del metodo sperimentale che sta alla base della scienza moderna. Nei suoi Pensieri, infatti, sono anticipati princìpi che Galileo avrebbe formulato solo un secolo dopo: già Leonardo infatti polemizza contro «le scienze che principiano e finiscono nella mente», cioè i sistemi astratti di pensiero che avevano caratterizzato la filosofia medievale, e rifiuta sia le superstiziose credenze di alchimisti e maghi, così seguite al suo tempo, sia le astruse elucubrazioni dei teologi. Secondo Leonardo una vera conoscenza dei fenomeni naturali non può prescindere dal riferimento all’esperienza (➜ D15 ) e deve utilizzare la matematica, strumento necessario a formulare con esattezza le leggi che regolano la natura. L’incredibile varietà degli interessi e dei settori nei quali si è espresso il genio di Leonardo (dalla pittura all’architettura, dall’ingegneria idraulica all’anatomia) fanno di lui l’esempio più alto e più celebre di quel modello di uomo “universale” che era esaltato dalla cultura umanistico-rinascimentale. Nell’ambito della meccanica, Leonardo intuisce l’esistenza del principio di inerzia, del principio della composizione delle forze e di quello del piano inclinato, che assume come base per la spiegazione del volo degli uccelli. In un altro campo della fisica scopre il principio dei vasi comunicanti, nel campo dell’idraulica applicata dimostra una competenza straordinaria ai suoi tempi, che mette a disposizione di un grande principe-mecenate: Ludovico il Moro. Come ingegnere Leonardo progetta strutture difensive, come tecnico idea armi, macchine tessili e così via. Tipico del suo genio è il fatto che ogni sua

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PER APPROFONDIRE

Il genio multiforme di Leonardo

intuizione non è mai lasciata allo stato puramente teorico, ma viene sempre tradotta in progetti tecnici, illustrati attraverso disegni estremamente precisi e dettagliati. Ma il genio di Leonardo si applica con straordinari risultati anche all’astronomia e soprattutto all’anatomia: riesce a descrivere con esattezza la circolazione del sangue, la fisiologia dell’occhio e altri processi. Occorre precisare che gli studi anatomici di Leonardo sono soprattutto finalizzati al miglioramento delle sue capacità nel rappresentare, in qualità di artista, il corpo umano: in Leonardo è dunque impossibile separare non solo il tecnico dallo scienziato, ma anche lo scienziato dall’artista.

Gli studi anatomici e la nascita della medicina moderna Dalla fine del Quattrocento fino a tutto il Cinquecento si verifica un grande rinnovamento degli studi medici. Vengono letti in modo critico, attraverso i sussidi filologici, i testi fondamentali della medicina antica. Anche in questo ambito, come in altri campi del sapere, il progresso delle conoscenze è favorito dalla stampa: nel 1526 viene stampata a Venezia l’opera completa di Ippocrate, la cui conoscenza diretta si diffonde tra i dotti del tempo. Progressivamente, però, ci si allontana dall’autorità dei greci Ippocrate e Galeno e si inizia a osservare direttamente il corpo umano, utilizzando la dissezione anatomica come fondamentale strumento conoscitivo. Fino alla fine del Quattrocento circa, antiche norme vieta-

vano di usare i cadaveri per studiare il corpo umano. Nei primi decenni del XVI secolo è Andrea Vesalio (Andreas van Wesel, 1514-1564), fiammingo, professore di chirurgia a Padova e autore del trattato De corporis humani fabrica (La fabbrica del corpo umano, 1543), a inaugurare la moderna medicina sperimentale: attraverso la pratica della dissezione dei cadaveri, egli dimostra che l’anatomia di Galeno è in molti punti errata. Sovvertendo i metodi tradizionali dell’insegnamento universitario, Vesalio pratica personalmente la dissezione e ne trae osservazioni dirette, eliminando la figura del tecnico incaricato di operare la dissezione, che fungeva da intermediario tra maestro e allievi.

Leonardo da Vinci

D15

Le scienze che non si riferiscono all’esperienza sono vane ed erronee Trattato della pittura

L. da Vinci, Scritti letterari, UTET, Torino 1973

In questo breve passo, il grande scienziato fa asserzioni che anticipano il metodo moderno della ricerca scientifica. In particolare, contro una visione astratta e puramente teorica della scienza, egli sostiene la necessità di un costante riferimento all’esperienza.

Dicono quella cognizione esser meccanica la quale è partorita dall’esperienza1, e quella esser scientifica che nasce e finisce nella mente2, e quella essere semimeccanica che nasce dalla scienza e finisce nella operazione manuale3. Ma a me pare che quelle scienze siano vane e piene di errori le quali non sono nate dall’esperienza, 5 madre d’ogni certezza, e che non terminino in nota esperienza, cioè che la loro origine o mezzo o fine non passa per nessuno de’ cinque sensi. E se noi dubitiamo

1 Dicono... dall’esperienza: Si dice che è tecnica (meccanica) quella conoscenza (cognizione) derivata (partorita) dall’esperienza.

2 e quella... mente: e che è scientifica quella (conoscenza) che è puramente teorica, astratta, mentale.

3 e quella... manuale: e che è semimeccanica quella (conoscenza) che, nata dal pensiero scientifico, viene applicata in un’operazione tecnica.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 555


della certezza di ciascuna cosa che passa per i sensi, quanto maggiormente dobbiamo dubitare delle cose ribelli ad essi sensi4, come dell’essenza di Dio e dell’anima e simili5, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente accade che sempre 6 10 ove manca la ragione suppliscono le grida , la qual cosa non accade nelle cose certe. Per questo diremo che ove si grida7 non è vera scienza, perché la verità ha un sol termine, il quale essendo pubblicato, il litigio resta in eterno distrutto8, e s’esso litigio resurge, ella è bugiarda e confusa scienza e non certezza rinata. 4 ribelli ad essi sensi: non percepibili dai sensi. 5 dell’essenza... simili: Leonardo indica alcune questioni metafisiche, sottratte all’esperienza dei sensi. Il suo scopo è soprattutto distinguere la scienza dalla metafisica, anche se l’affermazione

rivela un certo distacco dai problemi teologici. 6 ove manca... grida: dove manca una dimostrazione certa (quella dell’esperienza dei sensi), provvedono le grida (cioè si cerca di prevalere gridando più forte per affermare le proprie idee).

7 ove si grida: dove si discute animatamente (per far prevalere la propria tesi). 8 la verità... distrutto: la verità (scientifica) ha un solo risultato certo che, quando è reso noto, vanifica per sempre ogni motivo di contesa.

Concetti chiave Leonardo, moderno “filosofo della scienza”

Il tema del brano è lo studio del mondo naturale, che nell’interpretazione di Leonardo assume già i caratteri della scienza moderna. Nel breve passo proposto, Leonardo non soltanto anticipa il metodo di Galileo, teorizzando la necessità di uno stretto collegamento tra la scienza, l’esperienza sensibile e la tecnica, ma con le sue riflessioni metodologiche precorre uno dei temi fondamentali della filosofia novecentesca, la distinzione tra problemi scientifici (che possono essere risolti grazie alla verifica dell’esperienza) e problemi non scientifici, da assegnare al campo della metafisica, perché non esiste un criterio per decidere sulla verità delle affermazioni proposte. Il pensiero del Novecento – da Wittgenstein a Popper – procederà nel solco della distinzione tracciata da Leonardo, che si rivela anche in questo caso geniale innovatore e pensatore originale: le filosofie rinascimentali tendevano invece a unificare la realtà sensibile e la realtà spirituale (si pensi, ad esempio, alla filosofia ficiniana e anche all’arte della magia, non a caso avversata da Leonardo). Il ricorso all’esperienza, secondo il geniale intellettuale, è la condizione necessaria perché un sapere possa essere definito “scienza”. Proprio perché non possono fondarsi sull’evidenza sensibile, invece, le questioni metafisiche non potranno mai trovare una risposta univoca. Sono osservazioni tutt’altro che scontate in quel tempo. Un’altra affermazione importante e molto attuale è il fatto che dove c’è una verità certa non c’è bisogno di discutere animatamente per far prevalere il proprio punto di vista.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale principio cardine del proprio pensiero scientifico afferma qui Leonardo? Il primato di cosa si sottolinea? 2. Contro quale idea della scienza polemizza Leonardo? Che cosa, secondo lui, può essere veramente considerato “scientifico”?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 3. Quali considerazioni presenti nel testo ritieni possano considerarsi ancora attuali? TESTI A CONFRONTO 4. Alla luce del brano proposto, prova a commentare la seguente celebre frase pronunciata dal grande scienziato Galilei più di un secolo dopo: «Mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie».

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Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 1 La letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento Il trattato Nell’età umanistico-rinascimentale emerge nel panorama dei generi il trattato, che gli umanisti utilizzano per definire e diffondere la nuova visione della vita e i temi fondamentali del dibattito ideologico. Nel periodo umanistico i temi principali sono: • la dignità dell’uomo e il suo posto privilegiato nell’universo in rapporto alla visione antropocentrica; • il ruolo e i caratteri dell’educazione secondo i princìpi umanistici; • il tema politico, ovvero il rapporto fra tirannide e libertà in un primo tempo e in seguito la figura e la funzione del principe. Un tema poi ripreso in una prospettiva radicalmente innovativa nel Principe di Machiavelli. Il primo Cinquecento vede invece affermarsi nuove tematiche: • i modelli di comportamento cui deve ispirarsi il cortigiano nelle varie occasioni della vita di corte (Il Cortegiano di Castiglione e il Galateo di Della Casa); • il tema dell’amore secondo la prevalente visione filosofica del neoplatonismo (Gli Asolani di Bembo); • la questione di quale lingua usare in ambito letterario (Le prose della volgar lingua di Bembo). Al tempo i trattati prevedono il dialogo tra più personaggi, non immaginari ma reali protagonisti della cultura del momento, ognuno dei quali assume una determinata posizione riguardo al tema, senza che ne prevalga una in particolare. Una scelta derivante sia dall’imitazione dei classici (da Platone a Cicerone), sia da una visione culturale eclettica e antidogmatica, che valorizza lo scambio di idee come strumento di civiltà. Il teatro Tra Quattro e Cinquecento il teatro si fa espressione della dominante visione laica e della civiltà della corte: gli spettacoli si svolgono dentro questo ambiente e si rivolgono al pubblico ristretto dei cortigiani. Due sono le direzioni. • Il teatro classicistico, nel quale gli umanisti riscoprono i grandi autori del teatro comico latino (Plauto e Terenzio) e si sviluppa una ricca produzione teatrale, soprattutto comica, incentrata sull’imitazione dei modelli antichi per quanto riguarda le situazioni, i personaggi, i meccanismi stessi della comicità. I testi di maggiore interesse e successo al tempo sono la Calandria del Bibbiena, basata sugli scambi di persona e sugli equivoci, espedienti cari al teatro classico latino; poi l’anonima Venieziana, che ritrae con spregiudicato realismo le passioni amorose di due donne; infine La mandragola di Machiavelli, capolavoro del teatro rinascimentale. • Il teatro anticlassicistico, risultato del rifiuto, da parte di alcuni autori, dei modelli imperanti del classicismo, anche sul piano linguistico. Ne sono esempio Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 3 557


La Cortigiana di Pietro Aretino, ferocemente polemica verso la società di corte e le commedie in dialetto pavano (padovano) di Ruzante, che rappresentano in modo realistico un mondo contadino subalterno. Il genere idillico-pastorale Nell’età umanistico-rinascimentale ha grande successo una tipologia letteraria ancora una volta riconducibile all’imitazione dei classici (modello principale sono le Egloghe del poeta latino Virgilio). Fa da sfondo alle varie opere un mondo campestre stilizzato, o spazi comunque alternativi al mondo reale, in cui regna una dimensione “idillica” fuori dal tempo. Comune è l’impiego di raffinati riferimenti alla mitologia classica, graditi al gusto erudito degli umanisti. La letteratura idillico-pastorale è articolata in una variegata produzione: • poemetti idillico-mitologici come le Stanze di Poliziano, uno dei più importanti umanisti; • romanzi come l’Arcadia di Sannazaro; • drammi a sfondo pastorale, il cui primo esempio è la Favola di Orfeo di Poliziano. Il poema cavalleresco Tra Quattrocento e Cinquecento, nell’ambiente di corte, si sviluppa un genere che avrà grande fortuna e che produrrà alcune delle più grandi opere della letteratura italiana. Il poema cavalleresco riprende una materia antica, trasmessa a lungo in forma orale dai canterini e fonde i materiali dell’antica epica carolingia (da cui la figura di Orlando) con quelli della “materia bretone” (dominata dall’avventura, dalla magia, dagli amori). Questi materiali eterogenei sono rielaborati ed elevati a dignità artistica nel poema cavalleresco, per rispondere al gusto raffinato della corte, specie di quella estense a Ferrara, dove sono prodotti dei capolavori del genere: • L’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (seconda metà del Quattrocento) aderisce nostalgicamente ai miti cavallereschi riproponendone il valore al pubblico del tempo.

Thomas Cole, Stato Arcadico o Pastorale, olio su tela, 1834 (New York, New York Historical Society).

558 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


• L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (prima metà del Cinquecento) utilizza in

modo scaltrito e consapevole la materia cavalleresca come “codice” noto al pubblico ferrarese entro cui dare spazio a una moderna, ironica visione del mondo. La lirica petrarchista Anche nella lirica dominano un’ottica classicistica e il principio di imitazione: in questo caso di Petrarca. Pietro Bembo, uno dei più importanti intellettuali del tempo, nelle Prose della volgar lingua (1525) lo consacra come modello linguistico per la poesia italiana e cura nel 1530 l’edizione a stampa delle Rime. Da questa data in poi Petrarca diventa il modello indiscusso della lirica, da tutti emulato (il “petrarchismo” coinvolge anche numerose poetesse). La sua imitazione diventa una vera e propria “moda”, creando un codice comune tra i poeti. La novella cinquecentesca Nel Rinascimento il gusto edonistico della corte riporta in auge il tipico genere narrativo di intrattenimento, la novella. Nelle raccolte del Cinquecento si ripropone il rapporto con l’illustre modello del Decameron, che ogni scrittore risolve in modo personale, a cominciare dalla presenza o no della “cornice”. La maggior raccolta è quella di Bandello (I quattro libri delle novelle) che ha grande fortuna anche in Europa: lo stesso Shakespeare ne ricava alcuni soggetti per le sue opere teatrali. Bandello premette a ogni novella una lettera dedicatoria ai signori del tempo, che è un interessante documento di costume. Biografie e autobiografie di artisti La valorizzazione della “virtù” dell’individuo propria della cultura umanistico-rinascimentale spiega l’emergere nel panorama del genere delle biografie, in particolare di quelle relative agli artisti: • le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori ita-

Giorgio Vasari, San Luca dipinge la Vergine, affresco, 1565 ca. (Firenze, Basilica della Santissima Annunziata).

liani di Giorgio Vasari (1550; 1568) offrono memorabili ritratti, in più di duecento biografie, dei grandi artisti italiani dal Duecento al Rinascimento, considerato il culmine di un processo evolutivo verso l’eccellenza, rappresentata, secondo Vasari, da Michelangelo; • per quanto riguarda l’autobiografia, il riferimento d’obbligo è alla Vita di Cellini, ammirata specie in età romantica. Geniale e versatile artista, interpreta l’autobiografia come orgogliosa celebrazione del proprio talento e del forte temperamento.

Modelli del sapere e forme della letteratura nel Quattrocento Fissare i concetti e nel primo Cinquecento 1. Che cosa si intende con l’espressione studia humanitatis? 2. Quale metodo educativo si adotta nelle scuole umanistiche? 3. Quali sono gli aspetti positivi e negativi della pedagogia umanistica? 4. Quale è il modello conoscitivo in uso nell’Umanesimo? 5. Come mai il genere letterario del dialogo è molto praticato dagli umanisti? 6. In che modo viene modificato l’insegnamento filosofico? 7. Quali sono gli interessi del filosofo Marsilio Ficino? 8. Come è visto l’amore nella riflessione di Ficino? 9. In che modo viene studiata la natura in questo periodo? 10. Perché Leonardo da Vinci è ritenuto il precursore del metodo sperimentale?

Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 3 559


4 L’evoluzione della lingua 1 Dalla ripresa umanistica dell’uso del latino al trionfo del volgare La ripresa umanistica del latino La storia della lingua letteraria in Italia tra Quattrocento e Cinquecento si può dividere in due fasi: nella prima (dall’inizio del secolo al 1480 circa) domina l’uso del latino; nella seconda (dal 1480 alla metà del Cinquecento) si assiste a un nuovo affermarsi del volgare. A conclusione di questo processo, il volgare toscano s’imporrà come lingua nazionale della cultura. Perché gli umanisti ritornano a usare il latino? Per quasi tutto il Quattrocento il latino riconquista una posizione preminente di lingua della cultura, dato che gli umanisti lo utilizzano per quasi tutti i generi letterari (compresa la poesia) e le varie occasioni di comunicazione formale: anche le lettere che si scambiano sono scritte quasi sempre in latino. Come si spiega questo fenomeno? Gli umanisti considerano la lingua latina un modello perfetto, da riprendere e imitare se si vuole riportare in vita (come essi si propongono appunto di fare) i valori civili, morali, intellettuali della cultura classica. Nella prefazione ai suoi Elegantiarum Linguae Latinae libri sex (Sei libri delle eleganze della lingua latina) il grande umanista Lorenzo Valla celebra entusiasticamente la funzione civilizzatrice che fu esercitata dal latino, che va perciò riscoperto e riutilizzato (➜ D16 OL). Bisogna però precisare che il latino umanistico è lontano da quello medievale, contaminato con il volgare. Richiamandosi alla lezione di Petrarca, che già aveva rifiutato nelle sue opere il latino medievale, gli umanisti si sforzano di riportare in vita, attraverso gli strumenti della filologia, la lingua aurea usata dai grandi scrittori del mondo classico.

PER APPROFONDIRE

La ripresa del volgare e il declino del latino Nello stesso tempo, però, già nel corso del Quattrocento, il volgare si va riproponendo come lingua della cultura. È un recupero inevitabile: infatti, il latino umanistico, modellato rigidamente sul latino classico, di per sé era destinato a essere una lingua morta, tagliata fuori dai reali processi comunicativi. Verso il 1480, con le opere di Poliziano, Boiardo, Sannazaro, il volgare arriva a imporsi nuovamente in quasi tutti i generi letterari. Il latino non scompare, tuttavia, ma il suo declino come lingua della letteratura è ormai segnato e sarà irreversibile.

Dante e Petrarca di fronte al rapporto latino-volgare Dante aveva difeso con grande convinzione la dignità del volgare nel De vulgari eloquentia e aveva usato la lingua volgare, compiendo una scelta decisamente innovativa, addirittura per un trattato filosofico enciclopedico (il Convivio), un tipo di testo per cui era rigorosamente prescritto l’uso del latino. In volgare Dante compone inoltre la Vita nuova e soprattutto la Commedia, riservando l’uso del latino soltanto per la comunicazione fra “dotti” (De vulgari eloquentia e Monarchia). Nella Commedia, inoltre, Dante aveva compiuto una scelta linguistica e stilistica ispirata al pluristilismo (dal comico al tragico) e al plurilinguismo, con punte di marcata iperespressività.

560 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

Al contrario, con Petrarca il latino ritorna a essere la lingua principale e più nobile: Petrarca sceglie di utilizzare il latino in ogni suo testo in prosa, limitando l’uso del volgare al Canzoniere e ai Trionfi. D’altra parte il volgare impiegato da Petrarca, in particolare nel Canzoniere, è espressione di un rigoroso monostilismo, è una lingua selettiva che rifiuta (in netta antitesi con la Commedia) ogni espressività e ogni contaminazione con lo stile basso. Saranno le scelte di Petrarca, sicuramente più consone che non quelle di Dante alla visione estetica dell’Umanesimo, a influenzare la cultura umanistico-rinascimentale.


2 La “questione della lingua” nel Cinquecento Un dibattito di grande importanza storico-sociale Nella prima metà del Cinquecento, una volta che il volgare s’impone definitivamente come strumento letterario, si apre un importante dibattito, noto come “questione della lingua”, che si interroga su quale idioma comune debba essere usato come lingua della comunicazione scritta. Tutti gli uomini di cultura, a prescindere dalla specifica posizione che assumono nel dibattito, avvertono la stessa esigenza: normalizzare la lingua scritta e predisporre un codice comune tra i letterati del Paese cui poter affidare la trasmissione dei contenuti culturali. La diffusione della stampa rendeva infatti sempre più urgente l’istituzione di un modello linguistico unitario, perché le diversità fonetiche dei dialetti determinavano quelle diversità nell’uso grafico tra le diverse regioni e aree, accettabili nella circolazione della tradizione manoscritta ma non certo nelle edizioni a stampa.

Le diverse posizioni sul problema della lingua Sono queste le tre tesi linguistiche che si fronteggiano. • La tesi cortigiana: la lingua italiana deve essere quella che si parla nelle corti

Tiziano Vecellio, Ritratto di Pietro Bembo, olio su tela, 1539 (Washington, National Gallery of Art).

Un primo gruppo di intellettuali, tra i quali figura anche Baldesar Castiglione, l’autore del Cortegiano, uno dei più importanti trattati del tempo, sostiene la tesi della lingua cortigiana: il modello di una lingua comune a tutti gli intellettuali poteva essere ritrovato nella lingua parlata nelle corti e in particolare nella corte romana, alla quale afferivano persone colte e politici provenienti da tutti gli Stati italiani. La lingua comune immaginata dai sostenitori della tesi cortigiana avrebbe dovuto dunque derivare dalla fusione dei diversi volgari regionali nelle loro forme più elevate (e cioè parlate dagli intellettuali e dal ceto superiore). • La tesi del fiorentino vivo: la lingua italiana deve essere quella che si parla a Firenze Alla tesi di una lingua italiana strettamente legata agli ambienti di corte si oppongono con vivacità polemica alcuni scrittori fiorentini o toscani (il più celebre è Machiavelli), che rivendicano a Firenze o comunque alla Toscana la superiorità in campo linguistico. La lingua nazionale deve essere il fiorentino (o più in generale il toscano), che si è imposto soprattutto grazie ai grandi scrittori trecenteschi e che è ormai considerato modello dagli autori di tutta Italia. Non si deve però passivamente adeguare al modello linguistico dei grandi scrittori toscani: parlanti e scriventi devono attenersi al modello del fiorentino in uso nella realtà contemporanea. • La tesi di Bembo: la lingua italiana deve essere quella degli autori trecenteschi Pietro Bembo (1470-1547), uno degli intellettuali più importanti della cultura rinascimentale, interviene autorevolmente nel dibattito, assumendo una prospettiva completamente diversa rispetto agli altri contendenti: infatti egli non si pone il problema di una lingua di comunicazione, bensì considera esclusivamente la dimensione letteraria. La lingua per scrivere deve L’evoluzione della lingua 4 561


essere sottratta alle variazioni che l’uso comporta inevitabilmente, deve essere una lingua d’arte, in un certo senso una lingua “artificiale”. Essa dovrà ispirarsi agli autorevoli modelli della tradizione più illustre, ovvero ai grandi trecentisti (Petrarca e Boccaccio in particolare, rispettivamente per la poesia e per la prosa). Perché prevale la proposta del Bembo La proposta del Bembo, consacrata dalle Prose della volgar lingua (1525), avrà grande successo e risulterà vincente. Le ragioni sono molteplici, e innanzitutto di tipo storico: • la crisi delle corti e del sistema politico di equilibrio tra Stati regionali, dovuta all’occupazione di territori italiani da parte di potenze straniere, rendeva di difficile attuazione la tesi cortigiana, che avrebbe comportato intensi scambi tra le corti; • il fiorentino parlato sarebbe prevalso se Firenze fosse riuscita a costituire un forte Stato nell’Italia centrale, capace di aggregarne altri e di fare da baluardo contro le invasioni straniere, come auspicava Machiavelli: ma il corso storico non andò in questa direzione. La proposta bembiana appare dunque l’opzione più razionale per assicurare alla cultura italiana una lingua comune. Uniformarsi a un modello già fissato, come quello dei testi autorevoli di Petrarca e Boccaccio, rappresenta la soluzione più rapida ed efficace del problema, anche in rapporto alle nuove esigenze di uniformità create dalla stampa (non è un caso che Bembo, veneziano, collabori fattivamente con Aldo Manuzio, il più famoso editore di Venezia, che è a sua volta il maggior centro della stampa italiana in questi anni). Anche in ambito più strettamente grammaticale, vedono la luce in questo periodo le prime grammatiche normative e i primi repertori lessicali, cioè i futuri vocabolari. Inoltre la tesi di Bembo è pienamente rispondente al gusto classicistico del tempo e al principio di imitazione seguito dagli scrittori del Cinquecento.

PER APPROFONDIRE

La toscanizzazione della lingua scritta Già nella prima metà del Cinquecento il fiorentino modellato sulla lingua dei trecentisti tende ad affermarsi come lingua nazionale della cultura, imponendosi sugli altri dialetti regionali. Questi ultimi in ambito letterario saranno progressivamente marginalizzati o comunque associati a forme letterarie considerate di fatto “minori” nel sistema dei generi. È significativa la vicenda editoriale di un’opera importante come l’Orlando innamorato del Boiardo, nella seconda metà del Quattrocento (➜ C13): scritto in una lingua con

Aldo Manuzio: un geniale umanista-editore La motivazione principale che fa di Aldo Manuzio (1449-1515) il più importante stampatore italiano è la passione di educatore e di umanista: Manuzio aveva insegnato latino e greco a personaggi come Pico della Mirandola e avverte il pressante bisogno di edizioni curate e insieme maneggevoli di classici greci e latini, un bisogno che la stampa può soddisfare. Nel 1494 avvia a Venezia il suo ambizioso progetto editoriale, decidendo di mettere a frutto l’invenzione di Gutenberg: produce così pregevoli edizioni di classici greci (Sofocle, Platone, Aristotele) e latini (Virgilio, Orazio, Ovidio). In casa di Manuzio o nella sua stamperia cominciano ad affluire dotti e umanisti da tutta Europa, fra cui anche Erasmo da Rotterdam, che discutono sui libri da stampare e dei manoscritti più affidabili da utilizzare perché l’edizione sia il più possibile corretta. Dopo il successo delle prime edizioni Manuzio ha la geniale

562 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

intuizione di pubblicare una collana di libri “tascabili” (di 20-28 cm di altezza) per offrire ai lettori supporti maneggevoli. Inoltre, proprio per risparmiare spazio, Manuzio impiega il corsivo, un nuovo carattere molto gradevole e leggibile, creato dall’incisore bolognese Francesco Griffo. Le edizioni aldine non sono lussuosamente decorate, ma in compenso si segnalano per eleganza e pulizia grafica, per il testo chiaro, per la cura da un punto di vista filologico. Il libro non è più uno status symbol, ma un bene intellettuale individuale, da consultarsi con tutto agio date le sue dimensioni relativamente ridotte. L’iniziativa di Manuzio ha enorme successo e viene imitata in tutta Europa. Tra le edizioni aldine, la più celebre è quella del Canzoniere di Petrarca del 1501, curata da Pietro Bembo, che segna l’inizio della fortuna non solo italiana ma europea della lirica petrarchesca.


forti influssi locali (il dialetto ferrarese), il poema venne presto dimenticato, perché non corrispondeva ai canoni linguistici dominanti nel primo Cinquecento. Al contrario Ariosto, dopo l’affermarsi della tesi bembiana con le Prose della volgar lingua (1525), sottopone a una revisione linguistica l’Orlando furioso, conferendo al poema, nell’edizione definitiva (1532), una veste linguistica toscana: una scelta che risulterà determinante per il successo del suo capolavoro in una Italia letteraria sempre più “toscanizzata”. Pietro Bembo e Prose della volgar lingua Pietro Bembo nasce nel 1470 a Venezia in una nobile e importante famiglia: il padre è uno dei senatori più autorevoli della Repubblica veneziana e, ancora ragazzo, Bembo lo segue in varie missioni diplomatiche presso varie corti italiane (tra cui Firenze). Già in possesso di una vasta cultura umanistica, a poco più di vent’anni si reca a Messina per apprendere il greco dal filologo bizantino Costantino Lascaris. Rientrato a Venezia, nel 1501 pubblica per le edizioni di Aldo Manuzio un’edizione filologica del Canzoniere e nel 1505 gli Asolani. Lasciata Venezia, prende gli ordini minori (allora significava, per gli intellettuali, intraprendere una carriera che, nel caso del Bembo, sarà prestigiosa). Nel 1513 diventa segretario personale di Leone X. Nel 1525, dopo una lunga elaborazione, pubblica le Prose della volgar lingua, un trattato in tre libri che riscuote grande successo in tutta Italia. Del 1530 è la prima edizione delle Rime. Nel 1539 diventa cardinale. Muore a Roma nel 1547. Prose della volgar lingua Le Prose della volgar lingua (1525) sono un trattato dialogico in tre libri composto tra il 1512 e il 1524. L’autore immagina che il dialogo sia avvenuto a Venezia nella casa dei Bembo stesso nel 1502, quindi molti anni prima dell’effettiva stesura del trattato. Gli interlocutori sono Carlo Bembo, fratello dell’autore, che assume nel dialogo il ruolo di suo portavoce; Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico; Federico Fregoso, uno dei personaggi del Cortegiano e l’umanista ferrarese Ercole Strozzi. Nel primo libro è affrontato il problema se si debba scrivere in latino o in volgare. Essendo la maggioranza degli interlocutori concordi nella scelta del volgare, la discussione si sposta su quale volgare debba essere utilizzato. Portavoce dell’autore è Carlo Bembo, che sostiene la necessità che la lingua letteraria si discosti da quella parlata, non segua l’uso e si ispiri invece ai grandi modelli del passato, alla lingua di Petrarca e Boccaccio (➜ D17 OL). Sulla lingua di Dante invece sono espresse notevoli riserve per il suo carattere composito e perché accoglie elementi “bassi” e forme della lingua popolare. Nel secondo libro sono definite le prerogative che la lingua letteraria dovrebbe avere, quali ad esempio la piacevolezza e la gravità. Nel terzo libro è analiticamente definita, sotto il profilo delle strutture morfologiche, sintattiche e del lessico la lingua-modello, secondo esempi tratti appunto da Petrarca (per la poesia) e da Boccaccio (per la prosa). Questo libro si può quindi considerare una sorta di “grammatica” della lingua italiana. Una specificità tutta italiana: la frattura tra lingua scritta e lingua parlata L’affermarsi della tesi linguistica del Bembo provoca conseguenze che incideranno per secoli sulla storia della cultura e della lingua italiane. Il volgare che si afferma, esemplato su Petrarca e Boccaccio, corrisponde a un modello linguistico selettivo ed elitario. Si tratta della lingua della letteratura e delle occasioni formali, distinta dagli usi del parlato delle stesse élites intellettuali e ovviamente ancor più degli strati sociali medi e popolari. L’evoluzione della lingua 4 563


Nella lingua parlata, infatti, a causa della frammentazione politica, non si attiva alcun processo di unificazione. Mentre in altri paesi europei la situazione politica favorisce il consolidarsi di una lingua comune anche per gli usi colti, la situazione italiana rimarrà caratterizzata fino al secondo Ottocento dall’esistenza di diversi dialetti, nei quali la gente comune continua a parlare e che gli stessi intellettuali usano nelle occasioni della vita quotidiana. Per scrivere, invece, nel Cinquecento si utilizza come si è detto una lingua scelta e in un certo senso “artificiale”, che lentamente va uniformandosi. Contro una lingua forzatamente “fiorentina” e insieme lontana dalla realtà si scaglia uno dei polemisti del tempo, Pietro Aretino, la cui produzione si iscrive nell’ambito dell’anticlassicismo.

La questione della lingua nel Cinquecento Tesi cortigiana

Baldesar Castiglione

la lingua italiana deve essere quella parlata nelle corti e deve nascere dalla fusione di diversi volgari (nelle forme più elevate)

Tesi del fiorentino vivo

Niccolò Machiavelli

la lingua italiana deve essere il fiorentino, non quello del passato ma quello realmente parlato

Tesi del fiorentino letterario

Pietro Bembo

la lingua italiana deve essere quella dei modelli autorevoli: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa

online

online

D16 Lorenzo Valla

D17 Pietro Bembo Chi scrive deve imitare i grandi modelli Prose della volgar lingua I, 18 passim

Il latino è la lingua della civiltà Elegantiae linguae latinae

Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. Quali sono le due fasi in cui si può dividere la storia della lingua in Italia tra Quattrocento e Cinquecento? 2. Perché gli umanisti scelgono di usare il latino per le loro opere? 3. Quali sono e da chi sono sostenute le tre tesi linguistiche? 4. Per quali ragioni la proposta di Bembo ha il sopravvento sulle altre?

564 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Un’invenzione che cambia la storia della cultura Verso la metà del Quattrocento viene inventata la stampa a caratteri mobili: un evento di capitale importanza non solo nella storia del libro ma nella più generale storia della cultura. Fondamentale alla sua realizzazione è lo sviluppo delle tecniche di fusione e incisione dei metalli; non a caso Johann Gutenberg, l’orefice di Magonza a cui è attribuita la scoperta, essendo figlio del capo della Zecca, conosce benissimo le tecniche di lavorazione dei metalli che servono per realizzare le monete. Nella diffusione su vasta scala della stampa fu poi determinante la diffusione della carta, il cui uso era stato introdotto dalla Cina in Europa attraverso gli Arabi già nel XII secolo: la carta è meno resistente della pergamena, ma è disponibile in quantità maggiori e a costi inferiori. Dalla Bibbia di Gutenberg al trionfo della stampa Il primo testo a stampa realizzato da Gutenberg è una Bibbia (nota come “Bibbia delle 42 linee”). La tecnica si diffonde rapidamente dalla Germania in tutta Europa. Dopo le prime resistenze, il libro manoscritto cede il passo al libro stampato prodotto da nuovi stampatori-tipografi. Questi ultimi anticipano la figura del moderno editore: infatti non si limitano a curare l’esecuzione tecnica del testo, ma scelgono i manoscritti da pubblicare, stabiliscono il numero di copie da stampare e curano il prodotto dall’inizio alla fine: infatti i libri spesso sono venduti nella bottega stessa dello stampatore, oltre che nei mercati e nelle fiere (tra cui spicca in Germania quella di Francoforte, tuttora sede di un’importante Fiera annuale del libro). L’irrompere della stampa sullo scenario della produzione libraria ha caratteri quasi epici: secondo gli studiosi già alla fine del XV secolo circolano in Europa qualcosa come centocinquanta-duecento milioni di incunaboli . In Italia a lungo il centro principale dell’editoria è Venezia, dove opera Aldo Manuzio, una geniale figura di umanista-stampatore.

Libri, lettori, lettura

La rivoluzione della stampa

Parola chiave

MAPPA INTERATTIVA. LA DIFFUSIONE DELLA STAMPA

incunaboli Con incunaboli s’intendono i primi prodotti della stampa, i primi testi stampati (dall’invenzione del procedimento, a metà del Quattrocento, all’anno 1500 incluso), che hanno quindi il valore di preziose testimonianze dei primi passi di una nuova era. La parola deriva dal latino incunabula, che letteralmente significa “fasce dei neonati” (da cuna, “culla”): è implicita l’allusione alla nascita, alle origini.

Doppia pagina della Bibbia di Gutenberg, conosciuta anche come “Bibbia delle 42 linee”, 1453.

Libri, lettori, lettura 4 565


Libri, lettori, lettura

Effetti della stampa a breve e lungo termine La nuova invenzione produce clamorosi effetti non solo nel campo della produzione libraria ma più in generale nel costume culturale e nella stessa mentalità. Nell’immediato la diffusione della stampa contribuisce in modo determinante all’affermazione della filologia umanistica: una volta stabilito quale sia il testo più corretto di un’opera sotto il profilo filologico, gli studiosi di tutta Europa possono infatti far riferimenonline to – grazie, appunto, alla stampa – a un testo fissato, D18 Tommaso Garzoni diffuso in migliaia di copie uguali. Ma ancora più La stampa produce conoscenza per tutti La piazza universale di tutte le professioni importanti, veramente rivoluzionari, sono gli effetti del mondo della straordinaria invenzione nel tempo (➜ D18 OL).

Effetti nel tempo dell’invenzione della stampa Incremento dell’alfabetizzazione Acculturazione

•  aumento del numero di coloro che possono acquistare libri di lettura e/o di studio (un tempo i codici manoscritti erano una merce rara e preziosa, destinata a pochissimi)

Evoluzione dei metodi di insegnamento

Influenza sui processi cognitivi

•  possesso dei testi da parte degli studenti •  possibilità di leggerli direttamente

•  diffusione dell’abitudine alla lettura individuale e silenziosa

gli studenti sono svicolati dall’indiscussa autorità del maestro

miglioramento dei processi logici di astrazione

Un uso spregiudicato della stampa: Pietro Aretino Solo pochissimi autori riescono veramente a intuire e sfruttare le potenzialità economiche offerte dall’industria editoriale: soprattutto a Venezia, al mondo della nascente editoria si legano figure di intellettuali poligrafi estrosi e spregiudicati che, per sopravvivere e magari per arricchirsi, si prestano a produrre antologie, opere divulgative, testi audacemente erotici o ad adattare repertori di lettere al mercato editoriale. Sono letterati antiaccademici. Tra questi spicca Pietro Aretino (Arezzo 1492 – Venezia 1556), scrittore di talento e dotato, oggi si direbbe, di “fiuto commerciale”, che in un certo momento della sua vita si trova a operare appunto in quella Venezia che era il centro principale dell’editoria in Italia. A partire dagli anni Trenta del XVI secolo, Aretino sfrutta in modo spregiudicato, da vero «avventuriero della penna», come sarà soprannominato, le possibilità offerte dalla nuova diffusione del libro, offrendo al mercato – con indifferente opportunismo – testi scandalosi e testi religiosi, cimentandosi in vari generi letterari, dalla commedia alla tragedia, alle rime (spesso licenziose, come i Sonetti lussuriosi), ai dialoghi. Le lettere di Aretino: un documento di spregiudicata strategia editoriale Ma l’ambito che più gli frutta e che gli vale l’appellativo, ricordato anche da Ariosto nel Furioso, di «flagello dei principi» sono le lettere (il primo dei suoi libri di Lettere, destinati a notevole fortuna editoriale, appare nel 1538).

566 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Dove e come leggono gli umanisti Lo studiolo dell’umanista Lo spazio elettivo della lettura per l’intellettuale nel Quattrocento è lo studiolo, isolato dal resto della casa, nel quale l’umanista si dedica a una lettura individuale e silenziosa degli amati classici. Tra i libri che sono presenti nei dipinti di Antonello da Messina o del Carpaccio o nelle silografie del Quattro-Cinquecento figurano solo libri latini importanti, che corrispondono a una concezione elevata della letteratura. Leggere per studiare e per scrivere L’umanista concepisce la lettura come mezzo di studio e di elevazione, non di svago. La lettura e lo studio sono spesso prolungati nelle ore notturne. Il bisogno di leggere il maggior numero possibile di libri contemporaneamente porta alla creazione di leggii a forma circolare. Molto spesso gli umanisti scrivono nei margini del testo, riempiendoli di informazioni e note personali, anche di tipo filologico (➜ D19b OL). online

Testi in dialogo Leggere nell’età umanisticorinascimentale

D19a Niccolò Machiavelli La “doppia lettura” di Machiavelli Lettera a Francesco Vettori D19b Guarino Veronese Leggere prendendo appunti: i suggerimenti di un grande educatore Epistolario D19c Michel de Montaigne Montaigne e i libri Saggi, II, X

Letture piacevoli, libri tascabili Tuttavia non manca anche la lettura per piacere ed evasione, consentita dalla pluralità delle forme assunte dal libro soprattutto nell’età della stampa (e in particolare dal libro tascabile, ideato da Manuzio) (➜ D19c OL). Ce lo testimonia indirettamente anche un passo dalla celeberrima lettera di Machiavelli (costretto all’“esilio” di San Casciano) al Vettori, che può essere considerata una testimonianza eloquente delle diverse occasioni e modalità di lettura proprie degli uomini colti nell’età umanistico-rinascimentale (➜ D19a OL).

Donne che leggono Dopo l’avvento della stampa il mondo produttivo dei tipografi individua nel pubblico femminile un settore dai potenziali sviluppi. Mentre nell’età medievale la lettura è per le donne soprattutto uno dei momenti collettivi che scandivano i ritmi e i rituali della vita familiare – lettura “con gli altri e per gli altri” (le figlie, la famiglia) – la stampa favorirà invece la pratica della lettura silenziosa e personale, svolta in luoghi appartati. Questa modalità di lettura è ovviamente propria delle donne di buona cultura, che condividono con gli umanisti il culto della cultura classica. Ai vertici di questa tipologia ci sono le principesse e le aristocratiche che, all’interno delle corti, esercitano un ruolo spesso di primo piano, come Isabella d’Este, prototipo della nuova gentildonna colta, che ama ritirarsi a leggere e scrivere nel suo studiolo personale. Interessanti per documentare l’evoluzione del rapporto tra le donne e il libro sono le rappresentazioni di donne che leggono, particolarmente diffuse nell’età rinascimentale. Nel Cinquecento le figure femminili sono ritratte non con libri di scienza e di studio, ma esclusivamente con libri che rimandano a una lettura intima, per sé: libri religiosi ma anche il Canzoniere di Petrarca in piccolo formato.

Piero di Cosimo, Ritratto di donna in veste di Maddalena, 1490-1495 (Roma, Galleria Nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini).

Libri, lettori, lettura 4 567


Arte nel tempo

A Firenze, nei primi anni del Quattrocento, Brunelleschi in architettura, DonaIl Quattrocento tello in scultura e Masaccio in pittura elaborano un linguaggio artistico distante

La concezione di uno spazio matematico e l’artista di corte

dal decorativismo tardo gotico diffuso in quegli anni nelle corti di tutta Europa. L’essenzialità, le composizioni razionali, la ricerca di una resa espressiva e realistica della figura umana, lo studio dei canoni del mondo romano accomunano le loro opere. Questo recupero dell’antico era già stato avviato nel Medioevo, come dimostrano l’interesse verso la pittura naturalistica di Giotto e la ripresa costante degli elementi dell’architettura greco-romana. La prospettiva centrale a punto di fuga unico, “scoperta”, secondo la tradizione, da Brunelleschi e teorizzata nel De Pictura (1435) di Leon Battista Alberti,

1 Trinità di Masaccio Masaccio (1401-1428) realizza tra il 1427 e il 1428 per la chiesa fiorentina di Santa Maria Novella un affresco in cui appare una struttura architettonica rappresentata con una tale esattezza prospettica da far sembrare lo spazio dipinto prolungamento dello spazio reale. Trinità, ultima opera dell'artista, alta quasi sette metri, è una delle fondamentali prime applicazioni della prospettiva centrale. L’opera rappresenta la Trinità cristiana secondo l’impostazione iconografica che voleva Dio Padre reggere Cristo in croce e lo Spirito Santo sotto forma di colomba. Masaccio però inserisce i dolenti Maria e san Giovanni, reinterpretando l’iconografia trinitaria come una crocifissione, e colloca i personaggi sacri all’interno di uno spazio architettonico di memoria classica, un’assoluta novità. Questa monumentale struttura architettonica è costituita da una volta a botte cassettonata introdotta da un arco a tutto sesto che poggia su due colonne ioniche, il tutto incorniciato da una trabeazione sostenuta da paraste corinzie. Ai lati, due personaggi inginocchiati, i committenti, non condividono lo stesso spazio della crocifissione e si collocano al di fuori di esso, nella dimensione finita e mortale dell’uomo, simboleggiata dal sarcofago alla base della composizione: «Io fu’ già quel che voi sete e quel ch’i’ son voi anco sarete» recita infatti il memento mori al di sopra dello scheletro sdraiato. In questo affresco l’architettura traccia i confini dello spazio in cui avviene l’apparizione sacra, uno spazio reso verosimile grazie alla costruzione prospettica. Vasari scriverà: «vi è una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni che diminuiscono e scortano così bene che pare che sia bucato quel muro». Masaccio, Trinità, affresco, 1425-1428 (Firenze, Basilica di Santa Maria Novella).

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A

B

A Impianto della prospettiva centrale. B Nella sezione si distinguono: in

primo piano un sepolcro, quindi la coppia dei committenti, la Vergine e san Giovanni, il Crocifisso e Dio Padre.

Arte nel tempo

diventa uno degli strumenti fondamentali per la rappresentazione verosimile dello spazio su basi matematiche e razionali. La prospettiva centrale permette infatti di creare tridimensionalità su un piano bidimensionale; diventa il codice di rappresentazione che forma simbolicamente, per dirla con Erwin Panofsky, la visione dell’Umanesimo dando assoluta centralità al punto di vista umano. Lo stile che si codifica a Firenze si diffonde poi in tutta Italia anche grazie alle committenze che i diversi signori delle corti italiane affidano agli artisti, i quali, viaggiando e spostandosi da una città all’altra, hanno modo di vedere le opere di altri e di sperimentare linguaggi e tecniche. In questo spazio i corpi sono in proporzione tra di loro, collocati con coerenza. Mentre in molte delle opere medievali l’oro faceva da sfondo a scene in cui il personaggio più importante era più grande degli altri, qui la necessità di rappresentare personaggi razionalmente credibili porta Masaccio a raffigurare il divino in proporzioni umane (Dio è solo leggermente sovradimensionato). La gerarchia è definita dal livello che occupano all’interno della composizione piramidale, che vede Dio al vertice. Ma lo spazio è umano e misurabile, concepito dall’uomo per una divinità che dell’uomo assume la sembianza.

2 L’artista di corte:

la Pala di Brera di Piero della Francesca

Una concezione dello spazio simile a quella espressa da Masaccio caratterizza la pala d’altare che Piero della Francesca (1412-1492) termina nel 1474 per la chiesa di San Bernardino a Urbino e oggi conservata alla Pinacoteca di Brera. Nel dipinto un’ampia abside chiusa da un catino a conchiglia evoca la struttura di una chiesa in cui la Madonna in trono è circondata da santi. Dalla conchiglia pende un uovo di struzzo a far percepire la spazialità prospettica e l’esattezza matematica della composizione, accentuate dal netto taglio di luce e dagli statici volumi dei corpi. Come nella Trinità, i personaggi sacri sono presenze realistiche che occupano uno spazio architettonico concreto. L’uomo in armatura inginocchiato è Federico da Montefeltro, duca di Urbino e committente dell’opera: presso di lui Piero della Francesca risiedette come artista ufficiale di corte. Piero della Francesca, Pala di Brera (Pala di Montefeltro), tempera e olio su tavola, 1472-1474 (Milano, Pinacoteca di Brera).

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Arte nel tempo

di corte: 3 L’artista la Camera Picta

di Andrea Mantegna

Pittore di corte fu anche Andrea Mantegna (1431-1506) a Mantova, alla corte di Ludovico II Gonzaga, per il quale tra il 1465 e il 1474 realizzò il ciclo di affreschi che decorano la camera di rappresentanza nel castello di San Giorgio, detta Camera picta.

Gli affreschi occupano le quattro pareti e il soffitto della stanza con scene di vita di corte tese a celebrare il committente. Queste scene vengono collocate nello spazio da Mantegna come se la stanza fosse un loggiato aperto: il pittore dipinge sulle pareti un finto tendaggio che si apre illusionisticamente sul paesaggio e immagina sulla volta l’apertura sul cielo di un oculo, realizzato in perfetta prospettiva centrale, dal quale si affacciano una serie di personaggi che interagiscono con chi li osserva dal basso. Questa soluzione dilata illusionisticamente lo spazio e crea unità spaziale e coerenza tra i diversi episodi che occupano le pareti, raccordate dalla presenza del tendaggio, che come un sipario incornicia le scene. Mentre sulle pareti est e sud troviamo una più semplice decorazione a tendaggio chiuso, sulle pareti

nord e ovest troviamo la rappresentazione della corte dei Gonzaga e l’incontro, ambientato in un paesaggio collinare denso di riferimenti alla classicità e all’architettura antica, tra Ludovico e il figlio Francesco appena eletto cardinale. In entrambe le scene i personaggi si muovono su una zoccolatura in finto marmo, elemento architettonico che insieme al tendaggio unifica lo spazio scenografico della pittura. I volti sono ritratti in modo fedele, con un segno netto che rende monumentali e distanti le figure. Nel ciclo Ludovico II Gonzaga appare due volte: una prima volta seduto di tre quarti e leggermente più grande degli altri personaggi per sottolinearne l’importanza; una seconda, invece, di profilo, secondo i codici del ritratto di corte tardo gotico che deriva dalla numismatica antica. Il paesaggio che fa da sfondo alla scena dell’incontro è un paesaggio storico denso di riferimenti alla classicità e mostra come la cultura rinascimentale si percepisca erede diretta dell’antichità classica. La solennità della vita di corte viene smorzata da alcune scelte: l’informalità della rappresentazione della famiglia, alcuni gesti dei dignitari che spuntano dal tendaggio, i numerosi animali che abitano gli episodi, alcuni dettagli aneddotici, come lo sguardo enigmatico e dritto verso lo spettatore della donna conosciuta come “la nana”, i putti che reggono il medaglione dedicatorio. E, soprattutto, le divertite espressioni dei personaggi che si affacciano dall’alto, i puttini che si arrampicano sulla finta struttura a cassettoni dell’oculo, il cesto di arance che in bilico sulla finta asta di ferro sembra essere lì a suggerire con spietata ironia la precarietà delle cose e la facilità della vista a essere ingannata.

570 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Corpi, movimento e spazio

Se la pittura del Quattrocento è interessata a definire il rapporto tra figura e spazio, quella del primo Cinquecento si concentra sulla resa anatomica del corpo, sul movimento, sulla resa espressiva. L’applicazione rigida della prospettiva centrale lascia spazio a una diversificazione delle tecniche attraverso le quali ricreare la profondità spaziale: lo spazio del Cinquecento è lo spazio dove trionfa l’azione e l’interazione naturalistica delle figure.

4 Il naturalismo di Leonardo

Sant’Anna, la Vergine, il Bambino e l’agnello è un dipinto di Leonardo da Vinci (1452-1519) oggi conservato su una delle pareti della Grande Galerie del Louvre di Parigi. In questo olio su tavola sono presenti le principali caratteristiche della pittura di Leonardo, la cui opera si allontana dai canoni pittorici quattrocenteschi. All’interno di un paesaggio naturale arso e montagnoso che sembra sgretolarsi sotto i piedi delle sante, Maria siede sulle gambe della madre Sant’Anna, evocando il tradizionale trono gotico delle Maestà, e tende le braccia verso Cristo bambino che sta giocando con un agnello. In questa Sacra Famiglia tre generazioni si saldano l’una all’altra in un intreccio di gesti, sguardi ed espressioni. La naturalezza con cui le figure interagiscono nasconde lo studio e l’estrema progettazione necessari per creare una scena di tale armonia. La composizione piramidale dona unità ai personaggi mentre la costruzione dei movimenti lungo direzioni opposte conferisce una equilibrata e bilanciata variazione alle pose. La naturalezza dei gesti e delle espressioni sono poi in armonia col paesaggio: attraverso la tecnica dello sfumato infatti Leonardo non separa nettamente le forme con contorni netti, ma ne sfuma i confini, alludendo alla continuità tra le cose della natura. Leonardo parte dall’osservazione e dallo studio della realtà, considerando la pittura come processo conoscitivo che metta in relazione la vitalità umana e quella della terra. Questo approccio scientifico emerge

Arte nel tempo

Il primo Cinquecento

Leonardo da Vinci, Sant’Anna, la Vergine, il Bambino e Agnello, olio su tavola, 1510-1513 ca. (Parigi, Museo del Louvre).

dalla volontà di imitare il modo in cui l’occhio vede attraverso la prospettiva aerea. Invece di applicare la stessa definizione geometrica a tutti i dettagli del dipinto come nella prospettiva centrale, Leonardo sfoca i contorni delle

cose a mano a mano che si allontanano dall’occhio e vira il colore verso le tonalità fredde per restituire la presenza dell’aria (che incide sulla nitidezza della visione). Lo stesso approccio guida Leonardo nella rappresentazione

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Arte nel tempo

dell’umano, i cui moti d’animo sono oggetto di indagine da parte del pittore-scienziato interessato alla resa psicologica dei personaggi e delle loro emozioni, rese

con estrema naturalezza grazie allo sfumato che priva lineamenti ed espressioni di qualsiasi rigidità. Come altri artisti rinascimentali Leonardo insegue quell’ideale di

armonia tra uomo e natura di cui la pittura deve essere traduzione, non partendo dai testi antichi ma dal manifestarsi delle cose del mondo.

5 La pittura scenografica di Tiziano

Ritroviamo la centralità del corpo anche nell’opera del veneto Tiziano Vecellio (1490 ca.-1576), il quale si discosta dalle gestualità equilibrate di Leonardo per andare verso una rappresentazione teatrale e coinvolgente. Nella pala d’altare che Tiziano termina nel 1518 per la Basilica dei Frari, il racconto dell’Assunzione in cielo della Vergine diventa il pretesto per rappresentare una scena spettacolare e dinamica. Il miracolo si svolge davanti agli sguardi degli apostoli che osservano dal basso la Madonna rafforzando le espressioni colme di meraviglia con gesti contrapposti e concitati; la Madonna, sospesa su una nuvola in un tripudio di luce e di angeli, tende verso Dio con un dinamismo accentuato dal tessuto che ne amplifica i movimenti; Dio appare sospeso, spalanca le braccia mentre osserva Maria venirgli incontro. La composizione è strutturata su tre registri che muovono dalla dimensione terrena e gerarchicamente salgono verso quella divina, ma senza alcuna rigidità didascalica poiché i personaggi entrano in relazione, occupano lo stesso spazio e lo stesso tempo. La luce irradia da Dio e illumina il cielo alle spalle della Madonna. Il moto circolare disegnato dagli angeli e dalle nuvole interseca l’angolo della composizione piramidale il cui vertice è la Madonna e che prende forma grazie all’uso del colore rosso delle vesti sue e di due apostoli, dimostrando come il colore in Tiziano non solo dà corpo al dipinto ma acquisisce una funzione strutturale e compositiva. Con l’Assunta di Tiziano assistiamo al

Tiziano Vecellio, Assunta, olio su tavola, 1516-1518 (Venezia, Basilica dei Frari).

superamento della visione geometrica del Quattrocento: l’opera non è più uno spazio matematico, ma un caotico accadere che

572 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

suscita emozione attraverso la corporeità dei gesti, il dinamismo dei movimenti, la teatralità della rappresentazione.


Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali. Umanesimo e primo Cinquecento

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

Umanesimo/Rinascimento Il periodo che va dalla fine del Trecento fino al concilio di Trento è designato con l’espressione “età umanistico-rinascimentale”, formata dall’unione dei nomi di due importanti categorie culturali. “Umanesimo” indica una tendenza che emerge con Petrarca ed è fondata sulla riscoperta del mondo antico e sulla rinnovata centralità delle humanae litterae; “Rinascimento” denota il rinnovamento radicale dei primi decenni del XVI secolo, concretizzatosi in una splendida stagione artistica e letteraria, profondamente innovativa a confronto con l’età medievale. L’Umanesimo: la centralità dell’uomo e la rivalutazione della dimensione terrena La cultura umanistico-rinascimentale non è più teocentrica, ma antropocentrica: non irreligiosa ma focalizzata sull’uomo e non più su Dio, in un’esaltazione della dimensione terrena. Si valorizzano le qualità morali e intellettuali dell’uomo, ma si celebra anche, in polemica con l’ascetismo medievale, la bellezza della natura e del corpo. Per influsso epicureo si esalta il piacere, prerogativa a godere delle cose belle della vita, compresa la sessualità (anche se il neoplatonismo tende a riaffermare una visione spirituale dell’amore). Persino l’arricchimento non è più condannato, perché frutto di intraprendenza: essa è considerata foriera di vantaggi per la famiglia e la società, nobilitata attraverso le grandi opere dell’ingegno. La storia è vista non più come prodotto di un disegno divino, ma come opera della virtù dell’uomo: il termine “virtù” allude non a una qualità morale, ma alla capacità di fronteggiare gli eventi e di piegarli a proprio favore. Fino alla metà del Quattrocento e soprattutto a Firenze, gli umanisti cercano di trasmettere i nuovi valori anche al resto della società impegnandosi in ruoli istituzionali.

Il mito della rinascita. La riscoperta dei classici La civiltà umanistica ha il suo fondamento nel mito della “rinascita”, che ne teorizza l’appartenenza a una nuova “età dell’oro” dopo secoli di decadenza, in continuità valoriale e culturale non con il Medioevo ma con l’età classica. Il mito è alimentato dalla riscoperta di numerosi testi antichi che si credevano perduti. Nelle biblioteche dei monasteri, gli umanisti rinvengono manoscritti con opere classiche di argomento letterario, filosofico, scientifico e artistico, destinate a influire grandemente sulla nuova produzione culturale. La fondazione del metodo filologico Un’importante eredità dell’Umanesimo è la filologia, disciplina finalizzata a ricostruire e a interpretare documenti letterari antichi attraverso l’analisi critica dei dati linguistici; il metodo che ne deriva, profondamente antidogmatico, può essere applicato anche alla risoluzione di problemi inerenti a testi di altro tipo (giuridico, teologico o storico). L’adozione del metodo filologico implica l’opposizione al principio di autorità e contribuisce all’affermarsi, in ogni campo del sapere, di un metodo scientifico, seppur in senso lato. La concezione del tempo e dello spazio In questo periodo cambia la concezione del tempo che, laicizzandosi, non viene più pensato come simbolo di umana precarietà nelle Sintesi QUattRoCento e CinQUeCento

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mani divine, ma strumento a disposizione dell’uomo per esprimere appieno le proprie potenzialità: obiettivo, questo, a cui tendere sia svolgendo i propri doveri sia dedicando il tempo libero agli studi. Anche l’immaginario relativo allo spazio subisce rivolgimenti: viene “inventata” la prospettiva, che fonda l’osservazione dello spazio su regole geometriche e matematiche, adottando il punto di vista umano. Cambia il volto degli spazi urbani, rivoluzionati da trasformazioni ispirate a leggi razionali e rispondenti agli ideali del tempo: misura, equilibrio, eleganza. Le scoperte geografiche dilatano i confini del mondo conosciuto e portano gli europei a incontrare genti “diverse”, che mettono in crisi secolari certezze. Ma anche lo spazio del cosmo si trasforma: Copernico formula la teoria eliocentrica che, duramente contestata dalle autorità ecclesiastiche, avrebbe presto scardinato l’universo tolemaico geocentrico. I valori e i modelli di comportamento Su suggestione classica, l’Umanesimo fa propri valori (quali l’amore per la cultura e i libri, la frequentazione di persone istruite e la ricerca della saggezza) che definiscono l’ideale dell’humanitas. Chi li condivide crea un sodalizio intellettuale che non può che sfociare nell’amicizia. Per rinsaldare questo rapporto, gli intellettuali scrivono lettere – spesso diffuse da destinatario e amici – nelle quali si producono in riflessioni sotto forma di forbiti esercizi di eloquenza, secondo il modello ciceroniano. Chi non risponde a tale modello, assai elitario, è parte del volgo, cioè della massa di individui non dotti. Oltre ai rapporti amicali, anche quelli famigliari, considerati come nucleo essenziale della società, vengono celebrati. Dedica loro un trattato Leon Battista Alberti (Libri della famiglia, 1434-1441) che, attraverso lo strumento del dialogo, illustra in modo laico e pragmatico gli aspetti che l’uomo virtuoso e capace deve curare per il bene dei propri cari, contro l’azione iniqua della sorte. Nel Cinquecento, poi, abbondano anche i trattati di buon comportamento, inteso non in senso morale ma prettamente sociale. Si riafferma infatti l’ideale cavalleresco, impersonato dal gentiluomo, ma declinato nella corte invece che all’avventura: è in questo ambiente che l’individuo altolocato può affermare le proprie qualità come descritto, ad esempio, nel celeberrimo Cortegiano di Baldesar Castiglione. Luoghi, centri e figure della produzione culturale Tra XV e XVI secolo la produzione culturale è policentrica ed elitaria poiché localizzata nelle corti, dove convergono le personalità di spicco. Gli umanisti vi si incontrano per dibattere, come fanno peraltro anche in case private o botteghe di libri: qui il sapere è concepito come ricerca razionale e discussione. Queste riunioni, denominate cenacoli o accademie, divengono un fenomeno chiave del tempo e nel corso del Cinquecento si moltiplicano, specializzano e istituzionalizzano. Parallelamente e con le medesime finalità si diffondono le biblioteche. Già dal Quattrocento, però, l’intellettuale non è più politico: si trasforma in cortigiano, colto professionista al servizio dei mecenati, siano essi i signori o la Chiesa. In cambio di sostegno economico, il potente chiede – e spesso influenza – la produzione di opere che gli garantiscano lustro e consenso, ma anche lo svolgimento di difficili compiti amministrativi o diplomatici. Un’alternativa gettonata è rappresentata appunto dalla carriera ecclesiastica come chierico: una condizione che impone pochi obblighi, spesso solo formali, e garantisce prestigio sociale, benefici economici e possibilità di promozioni gerarchiche. Contemporaneamente guadagna importanza la figura dell’artista, non più semplice artigiano ma vero intellettuale; gli esponenti più rilevanti della categoria dal Duecento al Cinquecento sono raccontati nella famosa opera di Giorgio Vasari, le Vite, primo e fondamentale consuntivo critico sull’arte italiana.

574 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

Insegnare il “mestiere di uomo”: la pedagogia umanistica Nell’Umanesimo viene data molta importanza all’educazione: si scrivono trattati e si fondano scuole rette da pedagogisti guidati da una visione in anticipo sui tempi (come Guarino Veronese), con l’obiettivo di formare individui completi, dotati di equilibrio e razionalità. La cultura enciclopedica del Medioevo cede il passo, poi, agli studia humanitatis (la retorica, la poesia, la storia, la filosofia morale); questo modello, tuttavia, trascura eccessivamente il sapere scientifico e rischia di formare personalità che privilegino la forma ai contenuti. Un nuovo modello conoscitivo e un nuovo concetto di cultura Nell’età umanisticorinascimentale si afferma un’idea antidogmatica della conoscenza: il sapere si fonda sulla discussione e sul dialogo, in contrapposizione all’ossequio del principio di autorità imposto nelle università medievali. Si esaltano, dunque, la retorica e la dialettica. La curiosità intellettuale, inoltre, abbatte il confine tra arti liberali e arti meccaniche, esaltando gli eruditi eclettici. Nel sapere filosofico la decadenza dell’interesse verso la metafisica comporta un riassetto delle gerarchie: alla teologia e alla logica subentrano etica e politica, saperi prettamente antropocentrici. Il prototipo del “nuovo” filosofo è Marsilio Ficino: intellettuale versatile, aperto all’interesse per la magia, che si circonda come Socrate di pochi, devoti discepoli, con i quali dialoga costantemente. Il “ritorno a Platone” e il movimento neoplatonico fiorentino Tendenza dominante nel primo Rinascimento, in particolare a Firenze, è il ritorno a Platone, dopo secoli di egemonia del pensiero di Aristotele. Il neoplatonismo, che cerca di conciliare la filosofia platonica con il cristianesimo, influenza l’arte, la letteratura, il dibattito intellettuale: particolarmente importante è la spiritualizzazione dell’amore. Proprio Ficino ne è il principale promotore: dal suo circolo intellettuale, ricco di personalità eccellenti, divulga gli insegnamenti del filosofo greco, tradotto personalmente in latino, ma anche gli scritti esoterici che gli si credevano collegati, trasformandoli in una moda negli ambienti altolocati. Un modo diverso di guardare alla natura Anche il modo di guardare alla natura cambia rispetto al Medioevo, che in essa cercava esclusivamente le tracce del divino: emerge, infatti, il desiderio di comprenderla in sé e dominarla. Ciò, in connessione con la valorizzazione della matematica, che consegue alla traduzione e allo studio filologico delle opere di Archimede, pone le basi per la nascita della scienza moderna. La figura più rilevante in questo campo è Leonardo da Vinci (1452-1519), ritenuto il precursore del metodo sperimentale: genio in campo artistico, scientifico e tecnico, egli polemizza contro i sistemi astratti di pensiero e rifiuta le credenze di alchimisti e maghi, ritenendo invece imprescindibile il riferimento all’esperienza e la matematica per la comprensione delle leggi naturali.

e forme della letteratura nel Quattrocento 3 Caratteri e nel primo Cinquecento Forme e generi della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento Nell’età umanistico-rinascimentale la produzione letteraria viene declinata nei modi più vari. Emerge il trattato, utilizzato per diffondere i temi del dibattito ideologico in forma dialogica; si afferma il teatro, la cui rappresentazione ha luogo nella corte e i cui autori si dividono tra imitatori del modello antico e anticlassicisti; si diffondono le opere di genere idillicopastorale, vicende dal gusto classico ambientate in un mondo campestre fuori dal tempo; si sviluppa il genere cavalleresco, che fonde epica carolingia e bretone per creare veri e Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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propri capolavori; nella poesia domina il principio di imitazione, che vede come protagonista assoluto Petrarca; ritorna in auge la novella; infine si producono anche biografie, conseguenze tangibili dell’esaltazione culturale della virtù individuale.

4 L’evoluzione della lingua

Dalla ripresa umanistica dell’uso del latino al trionfo del volgare La storia della lingua letteraria in quest’epoca si divide in due fasi: nella prima (fino al 1480 circa) domina l’uso del latino; nella seconda (dal 1480 alla metà del Cinquecento) si afferma il volgare. Inizialmente, gli umanisti ritengono il latino classico, ricostruito filologicamente, un mezzo per ricreare una società ispirata ai valori antichi. Ma si tratta di una lingua morta: già nello stesso Quattrocento, infatti, come lingua della cultura si ripropone il volgare, che conquista la scena entro la fine del secolo.

La “questione della lingua” nel Cinquecento Nella prima metà del Cinquecento, anche per influsso dell’invenzione della stampa, si apre un dibattito, noto come “questione della lingua”, che si interroga su quale idioma comune e normalizzato usare per la comunicazione scritta. Si fronteggiano tre tesi, che propugnano rispettivamente il volgare parlato nelle corti, quello parlato a Firenze o in Toscana oppure quello degli autori trecenteschi. Prevale la terza, più pratica, conveniente e rispondente ai gusti del tempo; il suo principale sostenitore è il veneziano Pietro Bembo, autore del trattato Prose della volgar lingua (1525), nel quale esamina dialogicamente la problematica e traccia una sorta di grammatica della lingua-modello. La scelta provoca conseguenze di lunga durata sulla storia culturale e linguistica: anche se si impone lentamente nello scritto, il volgare scelto è formale, elitario e “artificiale”, quindi estremamente lontano dal parlato, ambito che infatti non conosce unificazione neanche tra i più colti e rimane dominato dai dialetti locali.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Illustra sinteticamente, attraverso un PowerPoint, il nuovo modello culturale e educativo promosso dall’Umanesimo, sottolineandone le differenze rispetto a quello medievale (max 3 min).

2. Alla luce del nuovo contesto storico-culturale, in un testo argomentativo di circa Scrittura argomentativa tre colonne di foglio protocollo, delinea il cambiamento della figura e del ruolo dell’intellettuale nell’età umanistica e nel Rinascimento rispetto al Medioevo. Esposizione orale

3. Presenta in un intervento orale (max 5 minuti) il nuovo interesse e il nuovo approccio di intellettuali, artisti e poeti verso la natura, portando alcuni esempi particolarmente significativi tra quelli conosciuti.

Competenza digitale

4. L’invenzione della stampa: una rivoluzione nella cultura e nel costume. Realizza uno schema attraverso il computer in cui inserire le principali novità generate dall’introduzione e dalla diffusione del libro a stampa nell’attività e nel consumo culturale.

Sintesi

5. In una tabella metti a confronto le diverse posizioni emerse nel dibattito cinquecentesco sulla lingua, evidenziando protagonisti, tesi, ragioni del successo o dell’insuccesso.

576 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Quattrocento e cinquecento CAPITOLO

10 Classicismo e anticlassicismo

Nel Rinascimento la letteratura si fonda sull’imitazione dei classici. Ne derivano: la ricerca dell’armonia e della perfezione dello stile, una rappresentazione spesso idealizzante della realtà come nelle Stanze per la giostra dell’umanista Angelo Poliziano, la ripresa di temi e motivi classici come il mito idillico dell’Arcadia riproposto da Jacopo Sannazaro, il ripristino di generi antichi come la commedia e soprattutto il trattato dialogico. I trattati rinascimentali ospitano i principali temi del dibattito culturale: dall’amore platonico (Gli Asolani di Pietro Bembo) ai modelli di comportamento del cortigiano (il Cortegiano di Baldesar Castiglione e il Galateo di Giovanni Della Casa). Ma nella letteratura rinascimentale c’è anche una linea anticlassicistica, alternativa al modello, anche linguistico, dominante: dalla Vita di Cellini alle varie opere dissacranti di Aretino, che contesta la dittatura del fiorentino illustre, alla poesia di Berni, al poema eroicomico Baldus di Folengo.

classicistica 1 Ladellavisione letteratura produzione 2 Laanticlassicista

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1

La visione classicistica della letteratura 1 I principi chiave del classicismo

Lessico topoi

PER APPROFONDIRE

Termine greco (singolare: topos) che indica un tema ricorrente all’interno delle opere di uno o più autori o di un’intera epoca.

Il classicismo del primo Cinquecento Gli umanisti non elaborano una propria concezione della letteratura, perché considerano perfetti i modelli dell’antichità classica e dunque derivano da essi i princìpi estetici fondamentali e la visione della letteratura. Princìpi che nel loro insieme delineano una concezione classicistica della letteratura che perdura per tutto il Rinascimento. Vediamoli. • L’imitazione dei modelli eccellenti del passato Gli umanisti, proprio come gli antichi, danno per scontato che per realizzare opere d’arte degne di questo nome occorra imitare autori considerati eccellenti, cioè i classici, modello indiscutibile di perfezione. Questa prospettiva fondamentale comporta: – la ripresa di generi classici (come ad esempio la commedia, il trattato, il genere idillico-pastorale); – l’immissione massiccia nella letteratura e nell’arte di miti, temi e topoi del mondo antico, che creano un repertorio capace di perdurare, in alcuni casi, fino al Novecento (➜ PER APPROFONDIRE Il repertorio classicistico: alcuni esempi). Il classicismo non consiste però in una sterile e passiva ripresa dei modelli del passato: gli scrittori e gli artisti più grandi si propongono di gareggiare con il modello antico che riprendono e perciò l’imitazione diventa emulazione, in una sfida stimolante per superare i grandi modelli. • La letteratura come eccellenza “tecnica” Dalla cultura classica gli umanisti derivano l’idea che il valore di un’opera non dipenda tanto dall’originale creatività dell’autore, ma sia soprattutto il risultato della sua competenza tecnica, della sua perizia retorica nel perfezionare il prodotto letterario (grazie a quello che i latini chiamavano, con una celebre metafora, limae labor, “il lavoro di lima”).

Il repertorio classicistico: alcuni esempi Il mito dell’età dell’oro Tra le figurazioni più note appartenenti al mondo classico e che hanno avuto maggiore fortuna nel tempo c’è il mito dell’età dell’oro. Nella letteratura latina si può ricordare, tra i molti esempi possibili, la quarta Ecloga di Virgilio o anche le Metamorfosi di Ovidio. L’“età dell’oro” è un’epoca mitica in cui gli uomini vivevano liberi e felici, non conoscevano né pericolo né guerre né fatiche per procurarsi, mediante il lavoro, il necessario per vivere, che invece era offerto spontaneamente alla specie umana da una natura rigogliosa che produceva ogni tipo di frutto; gli animali, sia i feroci sia i mansueti, convivevano in pace e dappertutto regnava l’armonia. Si tratta di un mito sentito ed evocato in periodi storici di forti conflittualità, che spingono a cercare altrove, in dimensioni “altre”, ciò che la realtà storica non può offrire. Il locus amoenus Talvolta connesso al mito dell’età dell’oro è il topos, il motivo, del luogo idilliaco (locus amoenus): come il termine latino fa già capire, si tratta di un particolare modello spaziale (locus), caratterizzato dalla bellezza serena di una natura amica e armoniosa, in cui ricorrono elementi

costanti come la limpidezza delle acque, la brezza leggera, i fiori, il canto degli uccelli. Nei testi, e non solo in quelli della civiltà umanistico-rinascimentale, ne ritroviamo innumerevoli esempi. La fugacità della bellezza Un altro motivo di grande fortuna è quello della fugacità della giovinezza, spesso associato alla metafora della rosa che presto sfiorisce, da cui deriva la necessità di godere dei piaceri dell’amore finché ci è consentito farlo e la vecchiaia e la morte sono ancora lontane. Il motivo ha il suo archetipo in un carme di Orazio (I, XI, 8), in cui il poeta latino invita una giovane donna (evocata con il nome grecizzante di Leuconoe) a “cogliere il giorno” (è questo il significato letterale del celebre motto carpe diem), ossia a vivere gioiosamente il presente. Si tratta di un motivo talmente ricorrente nella poesia umanistica da divenire quasi convenzionale (un topos, appunto); tra i moltissimi esempi ricordiamo almeno il testo composto da Lorenzo il Magnifico per una festa di carnevale: Canzona di Bacco (➜ T1 ) e la celebre lirica di Poliziano I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino (➜ T3 ).

578 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


• La selezione idealizzante dei contenuti artistici e l’ideale estetico dell’armonia Una concezione classicistica della letteratura comporta anche una selezione prevalentemente idealizzante dei contenuti: della realtà e dei comportamenti umani sono privilegiati gli aspetti più nobili, in genere rappresentati attraverso uno stile elegante e armonico. Il Rinascimento riprende dal mondo antico l’ideale estetico dell’armonia e dell’eleganza. • La prevalenza del fine edonistico Mentre durante il Medioevo prevale, nella composizione delle opere letterarie, il fine didattico-morale, nell’età umanisticorinascimentale si privilegia invece una visione edonistica dell’arte che si traduce anche nella predilezione, in particolare in alcuni generi, per forme e temi letterari in grado di ospitare un’evasione dalla realtà verso mondi di bellezza lontani nello spazio e nel tempo (➜ T1-T2 ). L’irrigidimento del classicismo nel secondo Cinquecento Nel Cinquecento si sviluppa anche una riflessione teorica sulla letteratura che si concretizza nel tempo in una rigida classificazione delle forme letterarie all’interno di precisi generi e in regole prescrittive di scrittura, tali da condizionare per secoli gli scrittori. Il ruolo della Poetica di Aristotele Un ruolo fondamentale, in questo processo, è esercitato dalla diffusione della Poetica di Aristotele (secolo IV a.C.). Poco conosciuto nel Quattrocento, il testo del grande filosofo greco, una volta tradotto in volgare e commentato (nel quarto decennio del Cinquecento), ispira una ricca produzione di scritti di poetica, che definiscono rigidamente la tipologia dei vari generi letterari e la loro gerarchia nel “sistema dei generi”. Particolarmente importante è la fissazione delle norme compositive della tragedia (le cosiddette tre “unità”). Un sistema normativo che entrerà in crisi solo nell’età romantica, quando irromperanno nuovi valori e una nuova sensibilità estetica. La tragedia e le tre unità Per quanto riguarda la tragedia, cui è dedicato il primo libro dell’opera di Aristotele – il secondo, riguardante la commedia, è andato perduto – i trattatisti del Cinquecento fissano le tre unità che devono essere rispettate nella rappresentazione tragica, trasformando in norma prescrittiva quella che in Aristotele era puramente una descrizione dei caratteri del grande teatro tragico greco (ed è per questo che sarebbe più corretto parlare di unità “pseudoaristoteliche”). La codificazione delle tre unità prevede: • l’unità di azione: l’argomento del dramma deve essere unitario e non disperdersi in episodi secondari; • l’unità di luogo: l’azione deve svolgersi in un unico luogo; • l’unità di tempo: l’azione deve svilupparsi nell’arco di una giornata. Un “codice” elitario La presenza di un vasto repertorio di immagini, situazioni e anche di un lessico aulico tratti dal mondo antico crea un vero e proprio “codice” di riferimento con cui gli scrittori inevitabilmente devono confrontarsi. Questa patina classicheggiante fa della nostra una delle letterature più alte e raffinate.

Modello dominante Classicismo

generi classici

repertorio mitologico

stile armonico La visione classicistica della letteratura 1 579


2 Lorenzo de’ Medici La biografia Lorenzo de’ Medici nasce a Firenze nel 1449 da Piero de’ Medici e Lucrezia Tornabuoni. Si forma attraverso lo studio dei classici latini e volgari e frequenta il circolo filosofico di Marsilio Ficino. Nel 1469 diviene signore di Firenze. Pratica a corte il mecenatismo circondandosi di artisti, letterati e filosofi. Nel 1478 muore suo fratello Giuliano nella congiura organizzata a Firenze dai fratelli Pazzi, nella quale avrebbe dovuto perdere la vita anche lui. Si fa promotore in Italia della politica dell’equilibrio attraverso la quale riuscì a mantenere in pace gli stati italiani fino al 1492, anno della sua morte. Le opere In Lorenzo de’ Medici convivono due anime: lo scaltro uomo politico e il poeta e cultore d’arte. Questa dualità si riflette nelle sue opere che presentano una varietà di tendenze e toni. Alcune sue opere come le Selve d’amore sono influenzate dalla frequentazione dell’Accademia platonica di Marsilio Ficino. Le Rime nascono dal suo interesse per la lirica italiana del Due-Trecento. Altre invece si rifanno alla tradizione comico-burlesca come il poemetto la Nencia di Barberino. È autore anche di Canti carnascialeschi, di cui fa parte il Trionfo di Bacco e Arianna conosciuto anche come Canzona di Bacco, ossia canti composti in occasione del Carnevale in cui si esprime la concezione edonistica tipica dell’Umanesimo. Da ultimo, compone anche testi di carattere religioso. Questa produzione così ricca e diversa va interpretata come l’espressione del letterato colto che vuole sperimentare tutte le forme.

Opere di Lorenzo de’ Medici Selve d’amore

vicende mitologiche con influssi neoplatonici

Rime / Canti carnascialeschi

componimenti ispirati alla lirica del XII e del XIV secolo, esprimono una concezione edonistica della vita Giorgio Vasari, Ritratto di Lorenzo de’ Medici, 1533-1534 (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

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Lorenzo de’ Medici

T1

Canzona di Bacco Canti carnascialeschi I, vii

L. de’ Medici, Canti carnascialeschi, in Scritti scelti, a cura di E. Bigi, UTET, Torino 1965

AUDIOLETTURA

1

Questo celeberrimo componimento è diventato quasi il simbolo dell’edonismo della cultura umanistico-rinascimentale. È bene precisare, tuttavia, che esso si iscrive in uno specifico genere, quello dei canti carnascialeschi, che venivano cantati con accompagnamento musicale durante le feste del Carnevale dai partecipanti al corteo in maschera che percorreva le vie di Firenze. Il testo, composto probabilmente per il carnevale fiorentino del 1490, descrive proprio il corteo mascherato, con diversi personaggi appartenenti alla mitologia classica che via via sfilano: primo fra tutti Bacco, dio del vino e dell’allegria. La Canzona di Bacco, come questo testo è titolato in alcuni manoscritti, è incentrata sull’invito a godere i piaceri della vita, proprio perché essa è breve e precaria («di doman non c’è certezza»): un motivo, questo, di derivazione classica, in particolare oraziana (il celebre carpe diem, ovvero “cogli il giorno, il momento che stai vivendo”), anche se nel canto non manca una sottesa malinconia causata proprio dal trascorrere veloce del tempo.

Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia1! Chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza2. 5 Quest’è Bacco e Arianna, belli, e l’un dell’altro ardenti: perché ’l tempo fugge e inganna, sempre insieme stan contenti3. Queste ninfe ed altre genti 10 sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Questi lieti satiretti4, delle ninfe innamorati, 15 per caverne e per boschetti han lor posto cento agguati; or da Bacco5 riscaldati, ballon, salton tuttavia6. Chi vuol esser lieto, sia: 20 di doman non c’è certezza. Queste ninfe anche hanno caro da lor esser ingannate7:

si fugge tuttavia: passa sempre, trascorre continuamente. 2 Chi... certezza: invito al carpe diem, perché non si sa se ci sarà un domani; e, se ci sarà, che cosa porterà. 3 Quest’è... contenti: il corteo trionfale è aperto da Bacco e Arianna; i dimostrativi questo e queste evidenziano le sequenze descrittive dei vari carri trionfali carnevaleschi che via via avanzano. Tutti i per-

sonaggi, collegati al mito di Bacco, sono utilizzati per esprimere un invito a godere dei piaceri del presente. Arianna aveva aiutato Teseo a uccidere il Minotauro messo a guardia del Labirinto, ma poi era stata abbandonata dall’amante infedele sull’isola di Nasso, dove Bacco l’aveva vista e, invaghitosi della sua bellezza, l’aveva presa con sé. 4 satiretti: nel mito i satiri accompagna-

no Bacco; sono creature dei boschi, con i piedi caprini, piccole corna e la coda; il resto del corpo è umano. Il diminutivo sottolinea la loro giovinezza e spensieratezza. 5 Bacco: metonimia per indicare il vino. 6 ballon, salton tuttavia: ballano, saltano sempre. 7 Queste... ingannate: Queste ninfe sono contente di cadere negli agguati amorosi dei satiri.

La visione classicistica della letteratura 1 581


non può fare a Amor riparo se non gente rozze e ingrate8 25 ora insieme mescolate suonon, canton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Questa soma9, che vien drieto 30 sopra l’asino, è Sileno: così vecchio è ebbro e lieto, già di carne e d’anni pieno; se non può star ritto, almeno ride e gode tuttavia10. 35 Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Mida vien drieto a costoro: ciò che tocca, oro diventa. E che giova aver tesoro, 40 s’altri poi non si contenta? Che dolcezza vuoi che senta Chi ha sete tuttavia11? Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. 45 Ciascun apra ben gli orecchi, di doman nessun si paschi12; oggi sian giovani e vecchi, lieti ognun, femmine e maschi; ogni tristo pensier caschi: 50 facciam festa tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Donne e giovinetti amanti, viva Bacco e viva Amore! 55 Ciascun suoni, balli e canti! Arda di dolcezza il core! Non fatica, non dolore! Ciò c’ha a esser, convien sia13. Chi vuol esser lieto, sia: 60 di doman non c’è certezza. 8 non può... ingrate: si sottraggono ad Amore le persone rozze e insensibili. Riferimento all’idea stilnovistica che gli animi gentili provino sempre amore e al dantesco If V, 103. 9 soma: corpo pesante. 10 sopra... tuttavia: dietro viene Sileno, precettore di Bacco. È vecchio e grasso, ma raccoglie l’invito al piacere e al godimento; reso allegro dal vino, fa fatica a reggersi sull’asino per l’ubriachezza.

11 Mida... tuttavia: il re Mida, altro personaggio mitologico legato a Bacco, rappresenta l’esempio negativo di chi non sa godere dell’oggi e pensa troppo al domani, allontanandosi così dai piaceri naturali, gli unici da ricercare secondo la filosofia epicurea. Secondo il mito, Bacco avrebbe concesso a Mida di realizzare un desiderio; essendo molto avido, questi aveva chiesto di trasformare in oro tutto ciò che toccasse, ma, poiché anche il

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cibo e l’acqua diventavano oro, prossimo a morire, aveva dovuto rinunciare al suo desiderio. 12 nessun si paschi: nessuno si nutra del pensiero del domani; cioè: si illuda sul domani. Il verbo allude ancora alla vicenda di Mida e invita a non rimandare al domani il godimento dei piaceri. 13 Ciò... sia: Ciò che deve essere, è giusto che accada. Il senso è: “accettiamo la vita così com’è oggi, senza pensare al domani”.


Analisi del testo Il corteo dei personaggi mitologici La ballata rispecchia la cultura umanistica dell’autore: i personaggi via via evocati sono figure mitologiche, legate in particolare al mito di Bacco: lo stesso Bacco, Arianna, le ninfe, i satiri, tutti gioiscono per il piacere amoroso e si abbandonano all’ebbrezza del vino (che rallegra anche il vecchio Sileno). Mida rappresenta un esempio negativo perché non si appaga dei piaceri naturali, ma ricerca la ricchezza e rimanda al domani le gioie che dovrebbero essere invece godute istante per istante.

Il tema del piacere e della fugacità della vita La ballata esprime una visione della vita paganeggiante, vicina a quella del poeta latino Orazio, seguace della filosofia epicurea. Oraziana è l’associazione tra invito al piacere e consapevolezza della fugacità della giovinezza e della vita stessa (il celebre motivo del carpe diem): un’associazione che nella ballata di Lorenzo è affidata al notissimo ritornello «Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza». L’invito a cogliere il piacere della vita è posto in risalto dal ritmo rapido e incalzante della ballata, che diventa alla fine sfrenato e quasi vorticoso a sottolineare il dinamismo, ma anche la fulmineità del tempo dei piaceri nella vita.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il testo in non più di 10 righe. COMPRENSIONE 2. A chi è indirizzata la ballata? ANALISI 3. A parte, in una tabella simile a questa, elenca i personaggi del trionfo, descrivi brevemente le scene che li riguardano e indica il significato che la ballata attribuisce al personaggio. personaggi

scene

significato

4. Rintraccia nel testo le espressioni che indicano i destinatari. STILE 5. Individua nel testo i termini legati al campo semantico: a. del piacere    b. del tempo

Interpretare

Studiare con l'immagine 6. Osserva il dipinto. a. Esamina il paesaggio, i personaggi raffigurati e le azioni che svolgono. Dall’immagine è possibile rintracciare elementi in comune con la ballata di Lorenzo? Argomenta (max 10 righe). b. Scrivi una dettagliata didascalia dell’immagine proposta. Puoi fare ricerche per informarti sui dati non in tuo possesso.

Tiziano Vecellio, Bacco e Arianna, 1520-1523 (Londra, National Gallery).

La visione classicistica della letteratura 1 583


3 Angelo Poliziano e l’ideale neoplatonico della bellezza

Lessico Studio fiorentino Università e centro di cultura fondato nel 1321 dalla Repubblica fiorentina e situato nel capoluogo toscano.

Un umanista all’ombra dei Medici Angelo Poliziano (1454-1494) è uno dei maggiori umanisti e poeti del Quattrocento. Nato a Montepulciano (dal luogo d’origine deriva il nome latino che si scelse come pseudonimo: Politianus), Angelo Ambrogini si trasferisce a Firenze, dove riesce ben presto a ottenere la stima di Lorenzo de’ Medici, che lo accoglie alla propria corte nel 1473 e nel 1475 lo nomina suo segretario personale e precettore del figlio Piero. Come molti altri umanisti può così dedicarsi in tranquillità ai suoi studi e alla sua attività di filologo e letterato. Nel 1479, nel clima politicamente difficile che segue la congiura dei Pazzi, in cui muore Giuliano de’ Medici, lascia Firenze per trasferirsi a Mantova presso il cardinale Francesco Gonzaga, al quale dedica la favola pastorale Orfeo. Nel 1480, dietro sua insistente richiesta, Lorenzo gli concede di tornare a Firenze, gli riaffida l’educazione del figlio e lo fa nominare alla cattedra di eloquenza greca e latina allo Studio fiorentino . Poliziano allaccia rapporti di amicizia con altri illustri intellettuali che gravitano intorno alla corte medicea: Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e lo stesso giovane Bembo. Poliziano filologo La più congeniale attività di Poliziano fu quella filologica, impiegata nello sforzo appassionato di ricostruire il testo originale delle opere antiche appartenenti ai più vari campi del sapere (dalla letteratura alla filosofia, alle discipline giuridiche e scientifiche). Ne sono testimonianza soprattutto i Miscellanea (le Miscellanee), dotte dissertazioni su molteplici argomenti in cui il letterato manifesta non solo una straordinaria cultura e competenza filologica, ma anche il gusto di esplorare gli aspetti, i miti, i temi e i termini stessi più rari con curiosità da erudito. Un poeta dotto La vasta conoscenza della cultura classica sia greca sia latina costituisce il fondamento dell’attività di Poliziano anche come poeta. Egli segue infatti il principio dell’imitazione a cui sopra si è fatto riferimento, ma utilizza sempre molteplici fonti, preferibilmente rare, anche dissonanti tra di loro (antiche e moderne, colte ma anche popolaresche), che vengono composte a mosaico per la creazione di testi nuovi. I lavori di Poliziano sono sempre densi di echi letterari. Poliziano scrive sia in greco (epigrammi), sia in latino (epigrammi, odi, elegie e altro) sia in volgare. A quest’ultima produzione appartengono varie composizioni, tra cui spiccano le canzoni a ballo Ben venga maggio e I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino (➜ T3 ) che appaiono vicine per sensibilità e tematiche alle più celebri Stanze per la giostra.

Le Stanze per la giostra

Angelo Poliziano e Piero de’ Medici da bambino in un particolare dell’affresco di Domenico Ghirlandaio per la Cappella Sassetti, 1482-1485 (Firenze, chiesa di Santa Trinita).

L’opera Le Stanze (cioè “strofe”, in questo caso ottave) per la giostra (giostra = “torneo”), l’opera principale di Poliziano e una delle più significative testimonianze della letteratura umanistica in lingua volgare e del classicismo, sono composte a Firenze tra il 1475 e il 1478. Nate nel mondo della corte di Lorenzo de’ Medici, le Stanze sono un’opera dichiaratamente encomiastica, celebrativa: nel 1475 il Magnifico aveva organizzato un grande torneo (è la giostra del titolo) per celebrare

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un suo successo diplomatico: l’accordo di pace, da lui orchestrato, fra alcune potenze del tempo (Milano, Venezia, Firenze), cui aderirà anche il papa. La vittoria nel torneo arride a Giuliano de’ Medici, fratello minore del Magnifico. Poliziano si propone di celebrare l’evento e inizia a scrivere il poemetto, ma due avvenimenti luttuosi ne interrompono la stesura: prima (1476) la morte di Simonetta Vespucci, la dama per cui Giuliano aveva combattuto nel torneo e che ispira l’ideazione della figura femminile di cui Iulio (a sua volta figura di Giuliano de’ Medici) si innamora nel poemetto; poi (1478) la tragica morte dello stesso Giuliano nella congiura dei Pazzi. Così il poemetto rimane incompiuto. Il contenuto Nel primo libro il giovane Iulio vive dedicandosi alla caccia e alla poesia e disprezza l’amore. Una mattina di primavera, mentre insieme ad alcuni amici sta appunto cacciando, vede una bianca cerva. L’apparizione è “orchestrata” da Cupido, dio dell’amore, che vuole vendicarsi della indifferenza di Iulio verso l’amore. Raggiuntala in una radura, la cerva svanisce come per incanto e Iulio si trova di fronte una bellissima ninfa, Simonetta, che appare al giovane vestita di bianco. Iulio è soggiogato dall’amore e Cupido, lieto del successo ottenuto, vola a Cipro, nel regno della madre Venere. Nel secondo libro Iulio, per volere di Venere, per accendere l’amore di Simonetta dovrà darsi a una nobile impresa, appunto il torneo (la giostra a cui fa riferimento il titolo). Venere perciò fa mandare al giovane un sogno che lo spinga all’impresa; ma, mentre dorme, egli ha la premonizione della morte di Simonetta. Svegliatosi, «d’amore e d’un disio di gloria ardendo», invoca Minerva, dea della sapienza e delle virtù militari, per poter conseguire la gloria. Il poemetto si interrompe a questo punto. Un disegno allegorico neoplatonico? Alcuni critici hanno interpretato la vicenda del poemetto riconducendola a un disegno allegorico, ispirato dalla suggestione della filosofia neoplatonica. Quello di Iulio sarebbe un cammino di progressiva metamorfosi che dalla contemplazione della bellezza terrena di Simonetta (che simboleggerebbe la Venere terrena) dovrebbe portare il giovane alla contemplazione della bellezza celeste (la Venere celeste) attraverso il potenziamento dei suoi sentimenti e delle sue qualità. Se anche esiste, il disegno allegorico non è individuabile con sicurezza, anche perché il poemetto non è stato ultimato. Una raffinata esibizione di classicismo Nelle Stanze si manifestano gli ideali propri del classicismo umanistico: l’esaltazione della virtù, l’ideale della bellezza, la centralità dell’amore come esperienza chiave della vita umana; ma questa celebrazione «è sempre accompagnata dal sentimento della fragilità e della fugacità di questi ideali, della loro natura di “sogni” vagamente e oscuramente insidiati dalle forze inesorabili del Fato, della Fortuna, della Morte» (E. Bigi). Nella costruzione delle vicende e dei personaggi delle Stanze, Poliziano utilizza, sovrapponendoli, modelli diversi: ad esempio il personaggio di Iulio richiama modelli greco-latini (la tragedia Ippolito di Euripide e la Fedra di Seneca) e insieme boccacciani (il Ninfale d’Ameto), Simonetta rimanda alla figura mitologica della ninfa, ma anche al modello femminile stilnovistico-petrarchesco, nella celebre raffigurazione del “giardino di Venere” (➜ T2 ). Poliziano attinge a Virgilio, Ovidio, Dante e Petrarca. Lo scrittore toscano crea così un raffinato intarsio di fonti, il cui riconoscimento costituisce per il pubblico elitario della corte la componente essenziale del piacere della lettura. Lo stesso orientamento agisce anche nella lingua dell’opera, che risulta estremamente variegata, ospitando, magari in una stessa ottava, apporti diversi: latinismi, dantismi, ma anche espressioni realistiche e popolaresche. La visione classicistica della letteratura 1 585


Sguardo sull'arte Poliziano e Botticelli: il mondo della bellezza tra poesia, filosofia e arte Nel contesto culturale del neoplatonismo fiorentino letteratura e arte sono fra di loro collegate come espressione del mondo delle idee, dominato dalla bellezza. Lo stretto legame fra poesia, filosofia e arte nell’ambiente fiorentino fa sì che, come hanno mostrato gli storici dell’arte Aby Warburg (1866-1929) e Edgar Wind (1900-1971), un grande pittore come Sandro Botticelli abbia tratto dalle Stanze lo spunto per i suoi quadri più famosi e ammirati: la Nascita di Venere (1484-1485) e la Primavera (1478-1482). La Nascita di Venere riproduce il soggetto di uno dei bassorilievi immaginati da Poliziano a ornamento del palazzo della dea (➜ T2 ott. 99-102). Molte sono le analogie: Venere giunge su una conchiglia (da cui, secondo il mito, sarebbe nata) sospinta dai venti, ritratti da Botticelli come personificazioni allegoriche (in particolare, Zefiro, personificazione del vento primaverile, è rappresentato come figura alata), ed è accolta e vestita dalle mitologiche Ore (tre nel poema, una, quella primaverile, nel quadro). La scena è animata dagli effetti del vento, che gonfia la veste offerta dall’Ora e solleva i biondi capelli delle due divinità mitologiche: anche questo particolare è già suggerito dalla descrizione polizianesca («l’aura incresparle e crin’ distesi e lenti», ott. 100, v. 6). Il mito della nascita di Venere rappresenta l’origine divina della bellezza: riprendendo uno spunto del Simposio platonico, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola distinguono la Venere celeste, cioè la bellezza ideale e divina e la Venere terrestre, che, unendosi alla materia, rende feconda la natura e le conferisce una bellezza divina. Sia i versi di Poliziano sia il dipinto di Botticelli sono espressione della volontà di «rinascita dell’antico» dell’ambiente mediceo. IMMAGINE INTERATTIVA

La Primavera Evidenti corrispondenze fra le Stanze e la pittura di Botticelli si riscontrano anche nella Primavera. Il quadro è stato variamente interpretato, ma alcuni studiosi lo hanno ricondotto figurativamente alle Stanze, come mostrerebbero numerosi particolari: Venere al centro del suo regno di bellezza; l’eterna primavera, simboleggiata dal gesto di Mercurio (che con il caduceo scaccia le nuvole), e da Zefiro, che con il suo soffio feconda la ninfa Clori. Quest’ultima sparge fiori dalla bocca e si trasforma in Flora, la dea dalla veste fiorita; fiori di vario genere, come descritto nelle Stanze, sono sparsi sul prato. Il quadro rappresenterebbe l’unione neoplatonica tra mondo sovraceleste e mondo terreno: la bellezza discende dal cielo alla terra (Zefiro con Flora) e l’ascesa dell’anima (Mercurio, le tre Grazie). Le Grazie sono solo apparentemente identiche: la Grazia posta al centro, più disadorna delle altre, coi capelli raccolti e senza gioielli, rappresenterebbe la Castità, vinta all’Amore (a lei Cupido indirizza la freccia) dalle altre due Grazie, che rappresentano la Bellezza (a destra), adorna ma composta e raccolta, e la Voluttà, a sinistra, la più energica e sensuale delle tre. La Castità del quadro botticelliano è di schiena, poiché volge le spalle al mondo per elevarsi al divino, e il suo percorso di elevazione, con il passaggio dalla castità all’amore, potrebbe essere paragonato a quello di Iulio, il protagonista delle Stanze. Appare perciò evidente che lo splendore dei quadri di Botticelli va al di là della semplice realizzazione di un programma artistico, e risponde alla nuova concezione del mondo diffusa nell’ambiente letterario e filosofico fiorentino, evidenziando un indissolubile intreccio tra Poliziano, Ficino, Botticelli.

Sandro Botticelli, Nascita di Venere, 1484-1485 (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

Testi di riferimento: A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1966; E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, Milano 1985.

Sandro Botticelli, Primavera, 1482 (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

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La Fabula di Orfeo e la nascita di un teatro umanistico per la corte

Lessico dramma satiresco Dramma incentrato su tematiche derivate dalla mitologia o dalle vicende degli eroi, nel quale tuttavia il coro era formato da satiri, che vi aggiungevano un elemento burlesco (“satirico”, appunto).

Un’opera non tradizionale Al classicismo umanistico va ricollegata anche la Fabula di Orfeo, un testo teatrale (in latino fabula significa “opera teatrale”) composto da Poliziano in brevissimo tempo (addirittura in due giorni) su commissione del cardinale Francesco Gonzaga per una festa di corte. La Fabula di Orfeo è uno dei primissimi esempi in Italia di teatro non religioso, ispirato ai classici (➜ C16): il soggetto è il mito di Orfeo, tramandato dalle Georgiche di Virgilio e dalle Metamorfosi di Ovidio. L’ambientazione della prima parte del testo è il mondo pastorale, a cui appartengono i personaggi di Mopso e Aristeo. Su questo sfondo si innesta poi la parte principale della favola, cioè il dramma del mitico poeta Orfeo. Nel testo di Poliziano si alternano in una serie di scene momenti idillici, pastorali, drammatici, ma anche grotteschi (Poliziano avrebbe cercato secondo alcuni interpreti di riprodurre lo spirito dell’antico dramma satiresco , a cui rimanda anche l’ambientazione pastorale). L’ottica pessimista Il messaggio globale che si può intravedere nella Fabula non corrisponde a una visione positiva, ma sembra anzi ispirato a una sostanziale sfiducia negli stessi ideali umanistici, di cui l’opera rivela la sconfitta: la poesia, mito principale dell’Umanesimo nella sua funzione civilizzatrice (Orfeo è il poeta capace di ammansire le belve col suo canto), non è in grado di vincere il destino e la morte.

PER APPROFONDIRE

Opere di Angelo Poliziano Stanze per la giostra

Fabula di Orfeo

poemetto ricco di rimandi classici ed elementi neoplatonici

favola teatrale di soggetto mitologico

Dal mito di Orfeo alla Fabula di Poliziano Silenzio. Udite. E’ fu già1 un pastore figliuol d’Apollo, chiamato Aristeo. Costui amò con sì sfrenato ardore Euridice, che moglie fu d’Orfeo, 5 che sequendola un giorno per amore fu cagion del suo caso acerbo e reo2: perché, fuggendo lei3 vicina all’acque, una biscia la punse; e morta giacque. Orfeo cantando4 all’Inferno la tolse, 10 ma non poté servar la legge data5, E’ fu già: Ci fu un tempo. che ’l poverel tra via6 drieto si volse7 fu cagion… reo: fu la causa del suo destino crudele e malvagio. sì che di nuovo ella gli fu rubata: fuggendo lei: mentre lei fuggiva. cantando: con la forza del suo canto. però ma’ più amar donna non volse8, non... data: non riuscì a osservare la regola imposta (da Plutone). e dalle donne9 gli fu morte data. tra via: lungo la strada del ritorno.

Euridice, sposa del mitico cantore tracio Orfeo, muore morsa da un serpente mentre tenta di sfuggire alle insidie del pastore Aristeo. Orfeo scende nell’Ade, il regno dei morti, per riscattare la sposa: ottiene da Plutone, il dio dei morti, che essa possa ritornare in vita purché, mentre la riporta sulla terra, non si volti a guardarla. Ma Orfeo non resiste alla tentazione e perde così per sempre la sposa. Disperato, decide di rifiutare per sempre l’amore per le donne, alle quali indirizza parole sprezzanti. Irate, le Baccanti lo uccidono facendone a pezzi il corpo. Così è presentata la vicenda dal dio Mercurio, cui Poliziano affida nel prologo della Fabula di Orfeo la funzione di introdurre per il pubblico la storia. 1 2 3 4 5 6 7 drieto si volse: indietro si voltò. 8 però… volse: perciò non volle mai più amare una donna. 9 dalle donne: dalle Baccanti, dedite ai riti dionisiaci.

A. Poliziano, Stanze. Fabula di Orfeo, a cura di S. Carrai, Mursia, Milano 1988

La visione classicistica della letteratura 1 587


Angelo Poliziano

T2

Il regno di Venere e dell’Amore Stanze per la giostra, ott. 68-72; 99-102

A. Poliziano, Poesie italiane, a cura di S. Orlando, Rizzoli, Milano 1988

Amore torna nel regno di Venere ad annunciare alla madre di aver fatto innamorare Iulio (personaggio dietro cui si cela Giuliano de’ Medici), prima refrattario alla passione amorosa. Il regno di Venere ha i caratteri di un mondo idillico, di pura bellezza, ispirato alla visione neoplatonica ficiniana. Nel passo emerge la visione positiva della natura, caratteristica del Rinascimento.

68 Ma fatta Amor la sua bella vendetta1, mossesi lieto pel negro aere a volo2, e ginne3 al regno di sua madre4 in fretta, ov’è de’ picciol suoi fratei lo stuolo5: al regno ov’ogni Grazia6 si diletta, ove Biltà7 di fiori al crin fa brolo8, ove tutto lascivo, drieto9 a Flora, Zefiro vola e la verde erba infiora10. 69 Or canta meco un po’ del dolce regno, Erato bella11, che ’l nome hai d’amore12; tu sola, benché casta13, puoi nel regno secura entrar di Venere e d’Amore; tu de’ versi amorosi hai sola il regno, teco sovente a cantar viensi Amore14; e, posta giù dagli omer la faretra15, tenta16 le corde di tua bella cetra.

La metrica Ottave di endecasillabi con schema di rime ABABABCC

1 Amor… vendetta: Amore si vendica di Iulio, avverso alla passione amorosa, e lo fa innamorare della bella Simonetta. 2 pel negro… a volo: soddisfatto, si mosse in volo attraverso l’aria scura. 3 ginne: andò. 4 sua madre: Venere. 5 ov’è … lo stuolo: dove c’è lo stuolo dei suoi piccoli fratelli, gli Amorini. 6 Grazia: le tre Grazie sono divinità dispensatrici di bellezza e gioia che accom-

pagnano Venere. 7 Biltà: Beltà, Bellezza. 8 al crin… brolo: fa una ghirlanda ai capelli. 9 drieto: dietro. 10 ove… infiora: secondo il mito, narrato da Ovidio nei Fasti (V, 183-228), Zefiro, vento primaverile, si innamora della ninfa terrestre Clori, dalla bellezza disadorna, e la trasforma nella bellissima Flora («tutto lascivo, drieto a Flora»), adornata di fiori (infiora, “fa fiorire”). Il mito è raffigurato nella Primavera di Botticelli. 11 Erato bella: è la musa della poesia

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amorosa. L’invocazione alla musa sottolinea come la descrizione del regno di Venere costituisca quasi un poemetto a sé, inserito nelle Stanze. 12 che… amore: il nome “Erato” deriva dal sostantivo greco che indica “Amore”, cioè Eros. 13 casta: pura, come tutte le muse. 14 teco… Amore: con te spesso Amore viene a cantare. 15 posta… faretra: deposta dalle spalle la faretra (l’astuccio contenente le frecce). 16 tenta: tocca, per ottenerne il suono.


70 Vagheggia Cipri un dilettoso monte, che del gran Nilo e sette corni vede e ’l primo rosseggiar dell’orizonte, ove poggiar non lice al mortal piede17. Nel giogo18 un verde colle alza la fronte19, sotto esso aprico20 un lieto pratel siede, u’21 scherzando tra’ fior lascive aurette22 fan dolcemente tremolar l’erbette. 71 Corona un muro d’or l’estreme sponde23 con valle ombrosa di schietti24 arbuscelli, ove in su’ rami fra novelle fronde25 cantano i loro amor soavi augelli26. Sentesi un grato27 mormorio dell’onde, che fan duo freschi e lucidi28 ruscelli, versando dolce con amar liquore, ove arma l’oro de’ suoi strali Amore29. 72 Né mai le chiome del giardino eterno tenera brina o fresca neve imbianca; ivi non osa entrar ghiacciato verno30, non vento o l’erbe o li arbuscelli stanca; ivi non volgon gli anni il lor quaderno31, ma lieta Primavera mai non manca, ch’e suoi crin biondi e crespi all’aura spiega32, e mille fiori in ghirlandetta lega. [Nel giardino sono presenti diverse figure allegoriche – come la Speranza, il Desiderio, la Voluttà, l’Errore, il Sospetto e così via – che compongono il corteo di Venere e simboleggiano gioie e tormenti d’amore; poi Zefiro, tiepido e fertile vento primaverile, personificato, ovunque spiri, costella i prati di fiori d’ogni specie e colore. Inizia la descrizione vera e propria delle piante e degli animali del regno di Venere. Sulla cima del colle si trova un meraviglioso palazzo, opera artistica realizzata nell’officina di Vulcano. Sulle mura del palazzo sono raffigurate varie figure e scene mitologiche: l’evirazione di Urano da parte del figlio Saturno, la nascita delle Furie e dei Giganti dal suo sangue e infine la nascita di Venere dalla schiuma del mare.] 17 Vagheggia… mortal piede: Un ameno (dilettoso, “che dà diletto”) monte, su cui non è lecito ai mortali salire, guarda l’isola di Cipro, da cui si vedono i sette rami del delta del grande fiume Nilo e il primo rosseggiare dell’orizzonte (l’aurora). Secondo il mito e la letteratura, Cipro è un’isola sacra a Venere, dove la dea sarebbe nata. 18 Nel giogo: Sulla cima del monte. 19 alza la fronte: si innalza. 20 aprico: soleggiato. 21 u’: dove (derivato dal latino ubi). 22 lascive aurette: dolci venticelli; lascivo significa “sensuale per amore”: nel regno

di Venere, anche i venti, personificati, sono domati dall’amore. 23 Corona… sponde: Un muro d’oro cinge i margini del prato. 24 schietti: lisci, senza nodi. L’aggettivo evidenzia il nitido disegno degli alberi. 25 novelle fronde: fronde appena nate, primaverili. 26 soavi augelli: uccelli dalla voce armoniosa. Gli aggettivi utilizzati in queste ottave sottolineano l’atmosfera di incanto e soavità della scena. 27 grato: gradito, piacevole. 28 lucidi: limpidi e brillanti per il sole.

29 versando… Amore: in cui scorrono acque dolci e amare (come gli effetti dell’amore), nelle quali Amore tempra l’oro delle sue frecce (per renderle più efficaci). 30 ghiacciato verno: l’inverno con i suoi ghiacci. 31 ivi… quaderno: lì non si succedono le quattro stagioni; letteralmente: “gli anni non girano le pagine del loro quaderno”. 32 all’aura spiega: dispiega, sciolti, al vento. La Primavera è personificata nell’immagine di una bella fanciulla dai lunghi capelli, biondi e mossi.

La visione classicistica della letteratura 1 589


99 [...] e drento nata33 in atti vaghi e lieti una donzella non con uman volto34, da zefiri lascivi spinta a proda, gir sovra un nicchio, e par che ’l cel ne goda35. 100 Vera la schiuma e vero il mar diresti, e vero il nicchio e ver soffiar di venti36; la dea negli occhi folgorar vedresti, e ’l cel riderli a torno e gli elementi; l’Ore premer l’arena in bianche vesti, l’aura incresparle e crin distesi e lenti; non una, non diversa esser lor faccia, come par ch’a sorelle ben confaccia37. 101 Giurar potresti che dell’onde uscissi38 la dea premendo colla destra il crino39, coll’altra il dolce pome40 ricoprissi; e, stampata dal piè sacro e divino, d’erbe e di fior l’arena si vestissi41; poi, con sembiante lieto e peregrino42, dalle tre ninfe in grembo fussi accolta, e di stellato vestimento involta43. 102 Questa con ambe man le tien sospesa sopra l’umide trezze una ghirlanda d’oro e di gemme orientali accesa44, questa una perla alli orecchi accomanda45; l’altra al bel petto e’ bianchi omeri intesa, par che ricchi monili intorno spanda, de’ quai solien cerchiar lor proprie gole, quando nel ciel guidavon le carole46. 33 drento nata: nata dalla schiuma (del mare). 34 una donzella … volto: una fanciulla (è Venere) con volto divino. 35 da zefiri… goda: spinta verso la riva da venti di Zefiro innamorati e capricciosi (lascivi) (si vede) andare sopra una conchiglia (nicchio) e sembra che il cielo stesso ne gioisca (perché con Venere è nata la Bellezza). 36 Vera… venti: è sottolineato il perfetto illusionismo dell’opera artistica, anche grazie all’anafora. 37 l’Ore… confaccia: vedresti le Ore camminare sulla sabbia (per accogliere Vene-

re dal mare) con vesti bianche e il vento increspare i loro capelli sciolti e ondulati (lenti); (vedresti) che il loro volto non è identico, ma neppure diverso, come si addice tra sorelle. Le Ore, del corteggio di Venere, sono le dee dell’ordine regolare della natura e dell’avvicendarsi ciclico delle stagioni; il loro numero può variare, a seconda di come viene suddiviso il tempo; spesso sono tre, corrispondenti a una divisione dell’anno in tre stagioni, primavera, estate e inverno. Nel quadro di Botticelli dedicato alla Nascita di Venere, ispirato dai versi di Poliziano, soltanto l’Ora della Primavera accoglie Venere.

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38 uscissi: come i seguenti ricoprissi, si vestissi, fussi accolta è retto da Giurar potresti che… 39 il crino: i capelli. 40 dolce pome: il seno. 41 stampata… vestissi: premuta dal piede sacro e divino, la sabbia (potresti giurare) si rivestisse d’erbe e di fiori. 42 peregrino: nobile e prezioso. 43 di stellato… involta: avvolta da una veste ornata di stelle. 44 Questa… accesa: La prima delle tre Ore tiene sospesa sulle trecce umide una ghirlanda d’oro e gemme orientali. 45 questa… accomanda: quella le appende ai lobi orecchini di perla. 46 l’altra… carole: l’altra, intenta (ad abbellire) il bel petto e le bianche braccia, sembra circondarli di ricchi monili (cioè collane e bracciali), dei quali le Ore erano solite cingere il loro collo quando in cielo guidavano le danze.


Analisi del testo La descrizione di un mondo ideale Il regno di Venere è il regno ideale della natura, permeata dalla bellezza. La descrizione si ispira alla concezione neoplatonica ficiniana, secondo cui Dio si manifesta nel mondo attraverso la bellezza, che ispira l’amore; ma poiché la fonte prima della bellezza è Dio, l’uomo non si appaga dell’amore terreno e si eleva alla neoplatonica sfera delle idee e alla divinità. Il regno di Venere descritto da Poliziano corrisponde al mondo platonico delle idee: è collocato fuori dal mondo materiale, sull’isola di Cipro, racchiuso da un muro dorato che impedisce l’accesso ai mortali; è fuori dal tempo, senza alternanza di stagioni, immerso in un’eterna primavera.

La visione positiva della natura In tale luogo idillico Poliziano pone gli archetipi di fiori, piante e animali che, come nel mito dell’età dell’oro, convivono pacificamente, senza che i più deboli debbano temere i più feroci. La descrizione, condotta secondo la scala ascendente delle realtà naturali, mette in evidenza la bellezza di ciascuna; i riferimenti mitici ad amori fra uomini e dei (Narciso, Giacinto, Clizia, Adone) sottolineano che, come riteneva Ficino, la bellezza e l’amore uniscono il mondo umano e quello divino. Nella visione rinascimentale di Poliziano la natura, che riceve l’impronta della bellezza divina, appare come una forza totalmente positiva.

Sandro Botticelli, Nascita di Venere, 1484-1485, particolare (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto di ogni ottava, poi elabora le sintesi in un breve testo (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Quali particolari caratterizzano il regno di Venere? E quali ne evidenziano la bellezza? ANALISI 3. Che cosa si può dire del tempo nel regno di Venere? A cosa è finalizzata tale rappresentazione?

Interpretare

SCRITTURA 4. Confronta le immagini presenti nelle ottave di Poliziano con la Nascita di Venere e la Primavera di Botticelli (➜ SGUARDO SULL’ARTE, PAG. 586) evidenziando analogie e differenze (max 15 righe).

La visione classicistica della letteratura 1 591


Angelo Poliziano

T3

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino Rime, CII

A. Poliziano, Poesie italiane, a cura di S. Orlando, Rizzoli, Milano 1988

AUDIOLETTURA

Questa ballata (nota anche come “ballata delle rose”), che fa parte delle Rime di Poliziano, è una delle liriche più celebri dell’intera età umanistica. Vi si ritrova l’invito, caro ai classici, a cogliere le gioie dell’amore finché si è giovani. Il motivo è associato all’immagine tradizionale della rosa che presto sfiorisce e che va dunque colta quando è nel suo massimo splendore. L’io lirico, a cui appartiene la voce che descrive la scena, è identificato in una fanciulla che si rivolge alle sue compagne.

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio1 in un verde giardino. Eran d’intorno vïolette e gigli fra l’erba verde, e vaghi fior novelli2 5 azzurri gialli candidi e vermigli: ond’io porsi la mano a côr3 di quelli per adornar e mie’ biondi capelli e cinger di grillanda el vago crino4. I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino. Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo5, vidi le rose, e non pur d’un colore6: io colsi allor per empir tutto el grembo, perch’era sì soave il loro odore che tutto mi senti’ destar el core 15 di dolce voglia7 e d’un piacer divino. 10

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino. I’ posi mente8: quelle rose allora mai non vi potre’ dir quant’eran belle: quale scoppiava della boccia9 ancora; 20 qual’eron un po’ passe e qual novelle10. Amor mi disse allor: «Va’, co’11 di quelle che più vedi fiorire in sullo spino». I’ mi trovai fanciulle, un bel mattino.

La metrica Ballata di endecasillabi secondo lo schema AB AB BX X; ripresa con rime XX 1 2

di mezzo maggio: alla metà di maggio. vaghi fior novelli: bei fiori appena sbocciati.

3 côr: cogliere. 4 cinger... crino: inghirlandare i (miei)

8 I’ posi mente: Io fissai la mia attenzione. 9 scoppiava della boccia: era in piena

bei capelli; grillanda sta per “ghirlanda”. 5 un lembo: della veste. 6 non pur... colore: non di un solo colore. 7 voglia: desiderio amoroso.

fioritura. 10 qual’… novelle: alcune erano un po’ appassite e altre ancora in bocciolo. 11 Va’, co’: Vai, cogli.

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12 foglia: petalo. 13 mentre: fintantoché. 14 cogliàn: cogliamo (esortativo).

Quando la rosa ogni suo’ foglia12 spande, 25 quando è più bella, quando è più gradita, allora è buona a mettere in ghirlande, prima che sua bellezza sia fuggita: sicché, fanciulle, mentre13 è più fiorita, cogliàn14 la bella rosa del giardino. I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino. 30

Analisi del testo Una struttura narrativa L’io lirico a cui è affidata l’enunciazione della ballata (che è una fanciulla) rievoca una particolare situazione di cui è stata protagonista, colta in una sequenza temporale che conferisce al testo un andamento narrativo. Si succedono i seguenti avvenimenti: – un mattino di primavera la fanciulla si è ritrovata in un giardino pieno di fiori, che ella coglie per intessere una ghirlanda con cui adornarsi i capelli; – la sua attenzione è quindi attratta in particolare dalle rose di vari colori, che ella coglie e il cui profumo suscita in lei una disposizione al piacere amoroso; – alla constatazione della multiforme bellezza delle rose (alcune ancora in boccio, altre in piena fioritura, altre ancora già quasi sfiorite) segue l’invito di Amore, personificato come era consueto nella tradizione della poesia amorosa, a cogliere le rose che stanno fiorendo; – chiude la lirica la riflessione della fanciulla sulla fugacità della bellezza (della rosa, ma anche, implicitamente, della giovinezza), alla quale consegue l’esortazione rivolta alle fanciulle a cogliere la rosa quando è più in fiore (e cioè a godere delle gioie amorose fino a che sono giovani).

Il topos del locus amoenus e la dimensione simbolica La strutturazione del messaggio in sequenze temporali sembrerebbe implicare un carattere realistico: in realtà già l’uso del passato remoto e la particolarità del verbo scelto per l’incipit («I’ mi trovai») rimandano a una dimensione favolosa, indeterminata. Il paesaggio naturale evocato, pur denso di particolari coloristici, risponde in realtà al topos letterario, di derivazione classica, del locus amoenus, consueto nella letteratura umanistico-rinascimentale (➜ PER APPROFONDIRE Il repertorio classicistico: alcuni esempi, PAG. 578). In questo contesto idilliaco si inserisce, poi, a incrinare sottilmente l’edonismo (➜ SCENARI, PAG. 527) che pervade la scena, il tema, sempre di derivazione classica, della caducità della giovinezza mediato dall’immagine della rosa che sfiorisce rapidamente. online

Per approfondire Dal “giardino paradiso” dell’età umanistico-rinascimentale al “giardino della sofferenza” di Leopardi

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Individua le parti di cui si compone il testo e sintetizza il contenuto di ognuna di esse. COMPRENSIONE 2. Quale funzione simbolica ha il riferimento alla rosa? LESSICO 3. Rintraccia, nella ballata, gli aggettivi che il poeta utilizza per descrivere il giardino. Poi indica e spiega, in un breve testo, per quali ragioni questa descrizione rimanda al topos del locus amoenus (max 15 righe).

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Svolgi un confronto fra questa ballata e la Canzona di Bacco di Lorenzo il Magnifico (➜ T1 ) sotto l’aspetto tematico e formale: quali analogie e quali differenze rilevi?

La visione classicistica della letteratura 1 593


4 Jacopo Sannazaro e il mito dell’Arcadia La corte aragonese e l’Accademia Pontaniana Con Jacopo Sannazaro, autore di un’opera di risonanza europea, l’Arcadia, ci troviamo in un altro ambiente culturale dell’Italia quattrocentesca, ovvero la corte di Napoli, a cui imprime grande impulso la personalità di Alfonso d’Aragona. Alla sua corte affluiscono grandi personalità dell’Umanesimo, come Lorenzo Valla e Giovanni Pontano. All’attività di quest’ultimo si lega l’Accademia Pontaniana, una delle più vivaci del tempo, della quale entra a far parte anche il Sannazaro. La vita Nato a Napoli nel 1457, Sannazaro vive l’infanzia e l’adolescenza nel feudo materno presso Salerno. Il contatto con una realtà lontana dalla civiltà cittadina e una natura primitiva e selvaggia non mancherà di influenzare il ragazzo, che al patrimonio di immagini e sensazioni assorbite in quegli anni attingerà nell’ideazione della sua Arcadia. Tornato a Napoli, si dedica allo studio del latino e del greco ed è accolto nell’Accademia del Pontano (assume, com’era in uso, un nome fittizio: Actius Syncerus). Quando il re di Francia Luigi XIII conquista il regno di Napoli (1501), Sannazaro segue Federico d’Aragona nell’esilio in Francia. Alla morte del re, rientra a Napoli dove muore (1530). online

Per approfondire Miguel de Cervantes Don Chisciotte e Sancio Panza in Arcadia Parte II, cap. lxvii

online

Interpretazioni critiche Maria Corti Il codice bucolico e l’Arcadia di Sannazaro

Lessico ecloghe Componimenti realizzati in forma di dialogo, tipici della poesia di genere bucolico e con contenuti di carattere allegorico.

L’Arcadia e il genere bucolico Pubblicata nella forma definitiva nel 1504 a Napoli, dopo una stesura durata oltre vent’anni, l’Arcadia ha subito grande successo (si avranno più di sessanta edizioni nel solo Cinquecento), diventando il modello per la letteratura europea d’argomento pastorale. Alla fine del Seicento la più celebre delle Accademie assumerà proprio il nome di Arcadia. L’Arcadia è un “romanzo pastorale”, che si iscrive nel genere bucolico di grande fortuna nel secondo Quattrocento e che, in varie forme e con varie funzioni, percorre la letteratura italiana almeno fino al Settecento. Il genere bucolico, come si deduce dall’etimologia del termine, fa riferimento alla vita dei pastori (bucolico deriva dal latino bucolicus, a sua volta dal greco boukolikós, “pastorale”), rappresentata però in modo non realistico, bensì fortemente stilizzato e idealizzato. Il primo modello di tale rappresentazione si ritrova in Teocrito, poeta siracusano di età ellenistica, autore di trenta idilli; ma fondamentali nella codificazione del “codice bucolico” sono soprattutto le Bucoliche, dieci ecloghe del poeta latino Virgilio (70-19 a.C.). La struttura e l’argomento L’Arcadia di Sannazaro è un prosimetrum (ovvero un’opera in parte in prosa, in parte in poesia): nella versione definitiva, pubblicata nel 1504, il lavoro è costituito da dodici parti narrative e dodici ecloghe. La trama mescola liberamente realtà e finzione su uno sfondo autobiografico, che viene in primo piano a partire dalla settima prosa, quando cioè l’autore esplicita la sua identificazione con Sincero, il pastore che rappresenta la voce narrante in prima persona. Mentre le prime sei prose descrivono il mondo dell’Arcadia (➜ T4 ), per evocare un clima, un’atmosfera, nella settima Sincero-Jacopo narra la propria vicenda personale: se n’è andato in Arcadia per sfuggire alle pene d’amore e lì vive con altri pastori e pastorelle, che guidano gli armenti e si dedicano a gare poetiche. Si intersecano nella principale vicenda, quella di Sincero, racconti minori dove si allude anche a fatti e persone della vita politica e culturale aragonese. Un sogno premonitore sulla morte dell’amata porta Sincero ad abbandonare l’Arcadia per tornare a Napoli attraverso un misterioso viaggio sotterraneo, accompagnato da una ninfa. Giunto a destinazione, udirà il canto di due pastori per la morte della donna amata. Conclude l’opera l’annuncio dell’abbandono della poesia pastorale da parte del poeta (➜ T5 OL).

594 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


Perché la cultura umanistica recupera il mito arcadico? Nella realtà l’Arcadia era una regione del Peloponneso, montuosa e inospitale, ma nella rappresentazione letteraria viene trasformata in un luogo idillico, quasi fuori dal tempo e dallo spazio, nel quale è possibile vivere felici in modo semplice e naturale all’interno di una dimensione alternativa alla durezza della vita, alla sofferenza, alla guerra. La ripresa in età umanistica di questo mito di evasione può essere spiegata con il progressivo distacco dalla realtà degli intellettuali, isolati nel microcosmo della corte: la frattura tra una cultura elitaria, sempre più raffinata e aristocratica, e il gusto della gente comune che caratterizza l’età umanistico-rinascimentale, il progressivo disinteresse per i temi politici, l’abdicazione a una funzione civile della letteratura possono ben spiegare scelte tematiche come quelle della letteratura pastorale. Essa è, evidentemente, destinata per sua natura a un pubblico ristretto, capace di cogliere le sottili allusioni alla vita stessa della corte celate al di sotto del codice bucolico. Un codice in cui il mondo della campagna, come si è detto, è raffigurato in modo idilliaco (al contrario di quanto avviene, ad esempio, nei testi teatrali di Ruzante, che ritraggono la vita dei contadini nella durezza della vita quotidiana ➜ C16).

Jacopo Sannazaro

T4

L’evocazione di un mondo idillico fuori dal tempo Arcadia

J. Sannazaro, Arcadia, in Opere volgari, a cura di A. Mauro, Laterza, Bari 1961

La prima prosa dell’Arcadia, posta dopo un prologo iniziale, è dedicata alla descrizione del luogo in cui Sannazaro ambienta il suo romanzo pastorale. Nell’immaginario letterario, a partire dalle Bucoliche virgiliane, l’Arcadia diviene un luogo idillico e incontaminato, al riparo dai guasti della civiltà, in cui gli uomini vivono come nella mitica età dell’oro.

Giace nella sommità di Partenio, non umile1 monte de la pastorale Arcadia, un dilettevole piano, di ampiezza non molto spazioso però che2 il sito del luogo nol consente, ma di minuta e verdissima erbetta sì ripieno, che se le lascive3 pecorelle con gli avidi morsi non vi pascesseno4, vi si potrebbe di ogni tempo ritrovare ver5 dura5. Ove, se io non mi inganno, son forse dodici o quindici alberi, di tanto strana et eccessiva6 bellezza, che chiunque li vedesse, giudicarebbe che la maestra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in formarli7. Li quali alquanto distanti, et in ordine non artificioso8 disposti, con la loro rarità la naturale bellezza del luogo oltra misura annobiliscono9. Quivi senza nodo veruno10 si vede il drittissimo abete, nato 10 a sustinere i pericoli del mare11; e con più aperti rami la robusta quercia e l’alto 1 2 3 4 5 6

non umile: alto. È una litote. però che: dato che. lascive: sfrenate per l’irrequietezza. pascesseno: pascolassero. verdura: vegetazione. strana et eccessiva: insolita ed eccezionale. 7 giudicarebbe… formarli: riterrebbe che la natura avesse operato con intenzio-

ne artistica per dare loro forma, in modo piacevolissimo. 8 non artificioso: naturale. È una litote. 9 annobiliscono: rendono nobile. Il verbo, posto alla fine del periodo con una costruzione sintattica latineggiante, sottolinea come il luogo sia naturale, ma nobilitato da una bellezza raffinata e quasi artistica.

10 senza nodo veruno: senza nodosità. 11 nato… mare: naturalmente adatto per affrontare (sustinere) i pericoli della navigazione. Cioè adatto per costruire navi; la descrizione dell’abete, come quella degli altri alberi, ricorda da vicino il Regno di Venere e di Amore di Poliziano, I 82,1-2: «Cresce l’abeto schietto e sanza nocchi / da spander l’ale a Borea in mezzo l’onde».

La visione classicistica della letteratura 1 595


frassino e lo amenissimo platano vi si distendono, con le loro ombre non picciola parte del bello e copioso12 prato occupando. Et èvi13 con più breve fronda l’albero, di che Ercule coronar si solea, nel cui pedale le misere figliuole di Climene furono transformate14. Et in un de’ lati si scerne15 il noderoso castagno, il fronzuto bosso e 15 con puntate16 foglie lo eccelso17 pino carico di durissimi frutti; ne l’altro lo ombroso faggio, la incorruttibile tiglia18 e ’l fragile tamarisco19, insieme con la orientale palma, dolce et onorato premio de’ vincitori. Ma fra tutti nel mezzo presso un chiaro fonte sorge verso il cielo un dritto cipresso, veracissimo imitatore de le alte mete20, nel quale non che Ciparisso, ma, se dir conviensi, esso Apollo non si sdegnarebbe 20 essere transfigurato21. Né sono le dette piante sì discortesi22, che del tutto con le lor ombre vieteno i raggi del sole entrare23 nel dilettoso boschetto; anzi per diverse parti sì graziosamente gli riceveno24, che rara è quella erbetta che da quelli non prenda grandissima recreazione25. E come che di ogni tempo piacevole stanza vi sia26, ne la fiorita primavera più che in tutto il restante anno piacevolissima vi si ritruova. 25 In questo così fatto luogo sogliono sovente i pastori con li loro greggi dagli vicini monti convenire27, e quivi in diverse e non leggiere pruove28 esercitarse29; sì come in lanciare il grave palo30, in trare con gli archi al versaglio31, et in addestrarse nei lievi salti e ne le forti lotte, piene di rusticane insidie32; e ’l più de le volte in cantare et in sonare le sampogne a pruova l’un de l’altro, non senza pregio e lode del vincitore33. 12 copioso: ricco d’erba. 13 Et èvi: E vi è. 14 l’albero… transformate: l’albero (il pioppo) di cui Ercole soleva incoronarsi e nel cui tronco (pedale) furono trasformate le infelici figlie di Climene. Le fanciulle furono trasformate dopo aver pianto in modo inconsolabile il fratello Fetonte che, incapace di guidare il carro del Sole, era morto precipitando nel Po (il mito è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio, II, vv. 340-366). 15 si scerne: si distingue. 16 puntate: appuntite, aghiformi. 17 eccelso: altissimo. 18 tiglia: tiglio. È femminile, a imitazione del latino, in cui i nomi delle piante sono femminili; incorruttibile per la durezza del suo legno. 19 tamarisco: altro nome della tamerice.

20 imitatore… mete: simile a cuspidi, guglie, obelischi. 21 nel quale… transfigurato: nel quale non soltanto Ciparisso ma, se è lecito dirlo, lo stesso (esso) Apollo non disprezzerebbe di essere trasformato. Secondo il mito narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (X, vv. 106-142), Ciparisso era un giovane amato da Apollo; avendo per errore ucciso un cervo sacro, se ne disperò fino a morire; Apollo, allora, lo trasformò nella pianta mortuaria, vicina a chi soffre. 22 discortesi: scortesi. 23 vieteno… entrare: impediscano ai raggi del sole di entrare. 24 gli riceveno: li ricevono. 25 da quelli… recreazione: da quelli (i raggi del sole) non riceva grandissimo sollievo (riprendendo vigore per l’ombrosa frescura).

Sandro Botticelli, Venere e le tre Grazie offrono doni a una giovane, affresco, 1486 ca. (Parigi, Museo del Louvre).

596 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo

26 come che… sia: sebbene il soggiorno in quel luogo sia piacevole in ogni tempo.

27 convenire: radunarsi. 28 non leggiere pruove: gare impegnative. È una litote.

29 esercitarse: esercitarsi. 30 il grave palo: il pesante giavellotto. 31 in trare… versaglio: nel tirare al bersaglio (versaglio: consonantismo meridionale) con gli archi. 32 rusticane insidie: attacchi rustici, contadineschi (non perfezionati dalla tecnica). 33 ’l più… vincitore: più spesso (si esercitavano) nel cantare e nel suonare a gara (a pruova, con allusione al canto amebeo delle egloghe, cioè al canto alternato di due pastori) le zampogne, approvando e lodando il vincitore.


Analisi del testo Il mondo idillico dell’Arcadia Il testo, posto all’inizio dell’Arcadia, è prevalentemente descrittivo: presenta le caratteristiche del luogo arcadico e le occupazioni dei pastori che vi soggiornano. Il luogo, chiuso e isolato, è caratterizzato da un’incantata e idillica serenità; è fresco e ombroso, ameno e piacevole. Il catalogo delle piante che vi si trovano, con le loro connotazioni di bellezza e armonia, e con l’evocazione dei miti ad esse legate, ricorda il Regno di Venere e dell’Amore di Poliziano, con una differenza: mentre al regno di Venere i mortali non possono accedere, qui i pastori arcadi si radunano, dedicandosi a varie attività. Come si nota già nella prosa iniziale, nessuna di queste occupazioni è però lavorativa, ma tutte sono intese al piacere e allo svago. L’Arcadia di Sannazaro, che per la prima volta raccoglie in un romanzo gli spunti offerti da una lunga tradizione di poesia bucolica, appare così come un mondo alternativo a quello reale, simile a quello mitico dell’età dell’oro. In Arcadia gli uomini sono semplici e buoni, e vivono senza preoccupazioni pratiche, in armonia con la natura; non vi sono conflitti, né ambizioni e rivalità, né guerre e violenze, ma amicizia, lealtà e gentilezza reciproche. L’Arcadia rappresenta perciò un’“isola” di convivenza armoniosa e pacifica in cui si rifugia chi, come gli innamorati infelici e i poeti, è troppo sensibile per affrontare il mondo reale.

La lingua e lo stile Caratteristica stilistica fondamentale dell’Arcadia è la musicalità, evidente nel ritmo lento, estatico e incantato del brano, in cui, a rallentare la cadenza, predominano gli aggettivi (per lo più anteposti ai nomi e spesso al grado superlativo, con un effetto musicale di rima: verdissima, drittissimo, amenissimo), gli incisi («se io non mi inganno»), le litoti. Le connotazioni idilliche del paesaggio sono sottolineate dai numerosi termini appartenenti ai campi semantici della bellezza e del piacere. Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, olio su tela, 1628 (Parigi, Museo del Louvre).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del brano (max 10 righe). ANALISI 2. Rintraccia, nel brano, i frequenti richiami alla mitologia classica. Quale funzione assolvono nel testo? 3. Con quali caratteristiche è descritto il locus amoenus? Individua nel testo gli schemi convenzionali che fanno del paesaggio un topos letterario.

Interpretare

LETTERATURA E NOI 4. Alla fortuna del mito dell’Arcadia corrisponde il bisogno di evasione da una difficile realtà storica verso una dimensione idillica. Pensi che esistano dei corrispettivi moderni del mito arcadico? E a quali bisogni sociali ti sembrano corrispondere? Dopo aver riflettuto sul tema, svolgi le tue considerazioni in un testo argomentativo.

online T5 Jacopo Sannazaro La morte dell’Arcadia: l’epilogo funereo dell’opera Arcadia

La visione classicistica della letteratura 1 597


5 La civiltà del trattato Il trattato Nell’età umanistico-rinascimentale il genere letterario dominante è il trattato, anch’esso di derivazione classica. Nel periodo umanistico si utilizza il latino e i temi ricorrenti si ricollegano alla visione antropocentrica: la dignità dell’uomo e la sua centralità nell’universo; la formazione culturale e l’educazione; il tema politico. In volgare sono scritti I libri della famiglia di Leon Battista Alberti, composti tra gli anni Trenta e Quaranta del Quattrocento. Argomenti e struttura Nel primo Cinquecento emerge la discussione sui modelli di comportamento riconducibili al posto centrale che nella società e nell’immaginario assume la figura del cortigiano. Si diffondono inoltre trattati sul tema dell’amore o sulla questione della lingua che gli scrittori debbano usare. I trattati prodotti nell’età umanistico-rinascimentale sono in genere strutturati sul dialogo tra più personaggi, reali figure della scena culturale, ognuno dei quali si fa portavoce di una determinata posizione ideologica.

Il trattato Gli Asolani e la divulgazione dell’amor platonico La rappresentazione dell’amore Nella letteratura dell’epoca ha un posto rilevante, anche grazie al fenomeno del petrarchismo (➜ C11), una rappresentazione idealizzante dell’amore, influenzata dalla filosofia neoplatonica. Nel sancire la preminenza di questo modello ha un ruolo di primo piano Pietro Bembo, vero protagonista del dibattito letterario del primo Rinascimento: con il trattato Gli Asolani, l’intellettuale propone una visione spiritualizzata e cristiana dell’amore; con le Rime avvia il fenomeno del petrarchismo nella lirica; con le Prose della volgar lingua, infine, come si è visto, impone per la lingua letteraria il modello del fiorentino (➜ SCENARI, PAGG. 561-564).

Tiziano Vecellio, Amor sacro e Amor profano, olio su tela, 1515-1516 (Roma, Galleria Borghese).

598 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


Gli Asolani Pubblicato nel 1505 da Aldo Manuzio (una seconda edizione, riveduta, si avrà nel 1530), Gli Asolani costituiscono il trattato sull’amore più importante e più noto. Il dialogo, in tre libri, si immagina avvenuto ad Asolo (da qui il titolo) alla corte di Caterina Cornaro, regina di Cipro esule nel territorio veneziano. Vengono messe a confronto diverse tesi riguardo all’amore, affidate a differenti portavoce, senza che l’autore prenda espressamente posizione per una di esse, come è frequente nel trattato umanistico-rinascimentale. Nel primo libro Perottino enuncia la tesi della negatività dell’amore, che provoca sofferenza; nel secondo Gismondo contesta la tesi che l’amore provochi infelicità ed esalta la gioia amorosa; nel terzo Lavinello confuta le tesi precedenti, cercando di distinguere l’amore malvagio (quello sensuale, destinato a provocare sofferenza) dall’amore buono. Riguardo a quest’ultimo, Lavinello si fa portavoce della concezione neoplatonica del sentimento: esso è contemplazione intellettuale della bellezza ideale di cui in vario modo sono partecipi i corpi e le anime delle creature terrene. Nella seconda parte del terzo libro, Lavinello riporta infine la posizione di un eremita, che considera l’amore come desiderio di bellezza, sebbene non di quella terrena, bensì della bellezza divina e trascendente, la sola che può veramente appagare l’anima immortale dell’uomo (➜ T6 ). Anche se l’autore non prende una netta posizione, è indicativa di per sé la particolare collocazione delle diverse tesi nel trattato, che implica la progressione verso una spiritualizzazione sempre più accentuata del sentimento amoroso. Al lettore resta impressa più delle altre l’ultima posizione, cioè la severa visione dell’amore enunciata dall’eremita e il suo ammonimento a Lavinello (ma indirettamente ai lettori) a rivolgersi all’immensità di Dio anziché alle illusorie bellezze terrene.

Pietro Bembo Gli Asolani

pubblicato nel 1505; seconda edizione nel 1530

verso una concezione spiritualizzata dell’amore

opera in tre libri

tre personaggi, tre tesi sull’amore

poemetto ricco di rimandi classici ed elementi neoplatonici

La visione classicistica della letteratura 1 599


Pietro Bembo

T6

L’amore spiritualizzato Gli Asolani III, xvii passim

P. Bembo, Gli Asolani, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, UTET, Torino 1960

Lavinello, uno degli interlocutori, ha appena esposto la teoria platonica dell’amore come desiderio di bellezza ideale. Un eremita, di cui Lavinello riporta le parole, si fa sostenitore di una concezione dell’amore che ne accentua ulteriormente la dimensione spirituale, proiettando l’amore terreno verso l’amore divino. Ecco una parte del discorso dell’eremita.

E per venire, Lavinello, eziandio a’ tuoi amori1, io di certo gli loderei e passerei nella tua opinione in parte, se essi a disiderio di più giovevole obbietto t’invitassero, che quello non è, che essi ti mettono innanzi, e non tanto per sé soli ti piacessero, quanto perciò che essi ci possono a miglior segno fare e meno fallibile intesi2. Perciò 5 che non è il buono amore disio solamente di bellezza, come tu stimi, ma è della vera bellezza disio3; e la vera bellezza non è umana e mortale, che mancar possa4, ma è divina e immortale, alla qual per avventura ci possono queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove elle sieno in quella maniera, che essere debbono, riguardate5. [...] Essi, perciò che sono immortali, di cosa che mortal sia non si possono contentare6. 10 Ma perciò che sì come dal sole prendono tutte le stelle luce, così quanto è di bello oltra lei dalla divina eterna bellezza prende qualità e stato7, quando di queste alcuna ne vien loro innanzi8, bene piacciono esse loro e volentieri le mirano, in quanto di quella sono immagini e lumicini9, ma non se ne contentano né se ne sodisfano tuttavia10, pure della eterna e divina, di cui esse sovengono loro e che a cercar di 15 se medesima sempre con occulto pungimento gli stimola, desiderosi e vaghi11. Perché sì come quando qualcuno, in voglia di mangiare preso dal sonno e di mangiar sognandosi, non si satolla […] così noi, mentre la vera bellezza e il vero piacere cerchiamo, che qui non sono, le loro ombre che in queste bellezze corporali terrene e in questi piaceri ci si dimostrano aggogniando, non pasciamo l’animo ma 20 lo inganniamo12.

1 per venire... a’ tuoi amori: per parlare adesso anche della visione dell’amore da te enunciata. 2 se essi... intesi: se essi (gli amori) t’invitassero a desiderare un oggetto che ti recasse più giovamento (giovevole obbietto) di quello che invece ti prospettano (ti mettono innanzi) e ti piacessero non tanto per sé stessi, quanto perché ci possono far tendere (fare... intesi) a un fine (segno) migliore e meno ingannevole. 3 Perciò che... disio: Poiché l’amore elevato (il buono amore) non è soltanto desiderio di bellezza, come tu credi, ma è desiderio della vera bellezza. La precisazione è fondamentale per definire la posizione dell’eremita riguardo al tema. 4 che mancar possa: tale che possa venir meno.

5 dove elle… riguardate: qualora esse (cioè le bellezze terrene) siano contemplate nella maniera dovuta. 6 Essi, perciò che… contentare: Poiché essi (cioè i nostri animi) sono immortali, non possono essere appagati da una cosa mortale. 7 Ma perciò… qualità e stato: Ma poiché, come tutte le stelle prendono luce dal sole, così quanto esiste di bello al di là di essa (della divina eterna bellezza), da essa prende qualità e stato. 8 quando… innanzi: quando qualcuna di queste bellezze terrene si presenta agli animi. 9 di quella… lumicini: sono immagini e barlumi della bellezza divina. 10 ma non se ne… tuttavia: ma non possono né accontentarsi né appagarsi.

600 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo

11 pure… vaghi: desiderosi e bramosi solo della bellezza eterna e divina, di cui esse (le bellezze terrene) risvegliano il ricordo e che con un invisibile pungolo induce sempre gli animi a ricercarla. 12 Perché sì come... lo inganniamo: Perché, come quando qualcuno, sorpreso dal sonno mentre ha desiderio (in voglia di) di mangiare e sognando di farlo, non si sazia; così, mentre cerchiamo la vera bellezza e il vero piacere, che non si trovano sulla terra, non saziamo l’animo ma lo inganniamo desiderando ardentemente (aggogniando) le parvenze della bellezza vera e del vero piacere (le loro ombre) che in queste bellezze fisiche terrene e in questi piaceri ci si presentano.


Analisi del testo Tra platonismo e ascetismo medievale Nelle parole dell’eremita non manca l’influenza della concezione platonica, ma ad essa si associa la riproposizione della tradizione ascetica medievale. Alla visione dell’amore come desiderio di bellezza ideale, esposta da Lavinello, l’eremita contrappone la precisazione che l’amore è desiderio di vera bellezza, che non appartiene alla dimensione terrena, dove tutto è caduco e instabile, per quanto armoniosa possa essere la bellezza contemplata. Le bellezze terrene sono solo barlumi (immagini e lumicini) dell’eterna bellezza e non possono appagare l’uomo, che deve guardare oltre di esse. L’eremita propone dunque un passaggio ulteriore rispetto al neoplatonismo di Lavinello, riconducendo l’amore alla dimensione cristiano-trascendente.

Uno stile classicheggiante Lo stile è ispirato a un ideale estetico di raffinata armonia: la sintassi, latineggiante, segnata da inversioni che conferiscono un andamento ritmico alla frase, è modellata su quella del Boccaccio, che il Bembo nelle Prose della volgar lingua considererà l’esempio più alto per la prosa volgare; il lessico è scelto e ricercato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Come può essere sintetizzata la tesi dell’eremita sulla concezione dell’amore? LESSICO 2. Trasponi in italiano attuale il passo da «Essi, perciò che» a «desiderosi e vaghi» (rr. 9-15). Quali accorgimenti hai dovuto operare? Come hai proceduto nel tuo lavoro? STILE 3. Individua i paragoni con cui l’eremita, nelle rr. 10-20, sostiene la propria argomentazione. Che cosa vogliono dimostrare?

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 4. L’eremita in parte condivide e in parte critica le posizioni di Lavinello. Quale componente ascetico-medievale persiste nel discorso dell’eremita? Argomenta la tua risposta facendo riferimenti al testo.

Il Cortegiano di Baldesar Castiglione: l’identikit del perfetto gentiluomo di corte La biografia Appartenente a una famiglia della nobiltà feudale padana (come già Boiardo e l’umanista Pico della Mirandola), Baldesar Castiglione (1478-1529) si dedica in modo approfondito agli studi umanistici. Frequenta la corte di Ludovico il Moro a Milano, nello stesso periodo in cui vi opera anche Leonardo come regista di celebrate scenografie per le feste di corte. Entra poi al servizio della corte di Mantova e in seguito di quella di Urbino, che costituisce lo sfondo del trattato del Cortegiano; soprattutto al servizio dei Della Rovere, signori di Urbino, riveste ruoli diplomatici importanti. Nel 1516 torna presso i Gonzaga e lo attendono nuovi difficili incarichi in uno scenario politico sempre più fosco. Decide allora di mettersi al riparo dall’incertezza della situazione politica: intraprende la carriera ecclesiastica e si pone al servizio della diplomazia papale, ricoprendo incarichi prestigiosi e di grande responsabilità. Nel 1524 è nunzio pontificio presso Carlo V. Quando Castiglione muore a Toledo nel 1529, due anni dopo il sacco di Roma (che fu accusato di non aver saputo prevedere), l’imperatore in persona piange la morte di «uno dei migliori cavalieri del mondo». La visione classicistica della letteratura 1 601


Il perfetto cortigiano Il libro del Cortegiano è un trattato che si propone di descrivere la figura del perfetto cortigiano: il modello umano presentato dal Castiglione sintetizza le qualità ritenute importanti in quel tempo e risulta sicuramente idealizzato, ma questo non vuol dire che non abbia effettivi riscontri oggettivi, che l’autore ben conosceva per aver prestato servizio in varie corti italiane e straniere. La scelta dialogica e la figura simbolica del cerchio Il Cortegiano è un trattato dialogico, una tipologia testuale molto praticata nell’età umanistico-rinascimentale e non certo a caso: la cultura di corte amava infatti autorappresentarsi nella consuetudine ad essa più congeniale, ovvero nella “civile conversazione”, garbato scambio di idee tra persone simili per cultura e stile di vita. Quasi a rimarcare la comune identità degli interlocutori (tutti appartenenti alla medesima realtà) e l’armonica coesione del gruppo, Castiglione (e lo stesso fa il Bembo negli Asolani) fa sedere i protagonisti in cerchio, proprio come i giovani della brigata del Decameron: «ognuno si ponea a sedere a piacer suo, o come la sorte portava, in cerchio».

Raffaello, Baldesar Castiglione, olio su tela, 1514-1515, (Lens, LouvreLens).

Il tempo, il luogo, l’occasione, gli interlocutori Il dialogo è ambientato alla corte di Urbino, in cui l’autore aveva vissuto anni felici, in un tempo (1507) ormai lontano da quello in cui scrive: da qui l’affiorare di un tono qua e là malinconico, da qui anche l’immagine idealizzata di quel mondo come luogo perfetto e armonioso che apre l’opera (➜ SCENARI, D11a OL). Il dialogo è iscritto in un contesto situazionale preciso: una sera, alla corte di Urbino, ci si chiede come passare piacevolmente la serata e si decide di accettare la proposta di uno dei cortigiani, Federico Fregoso, di definire la figura del perfetto cortigiano. La conversazione, alleggerita da varie digressioni e motti piacevoli, si svolge sempre di sera (in tutto quattro serate), in una sorta di tempo sospeso, lontano dagli impegni della vita pratica, legandosi strettamente alla dimensione della festa, che segue sempre i dialoghi. Le conversazioni riprodotte nel trattato si svolgono nelle stanze private della duchessa Elisabetta: una scelta che testimonia il ruolo di primo piano che la gentildonna, la donna di palazzo, esercitava all’interno della corte rinascimentale (➜ PER APPROFONDIRE Il libro del Cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei, PAG. 603). Tra gli interlocutori figurano personaggi illustri del tempo come Giuliano de’ Medici, il Bembo e il Bibbiena (non figura invece l’autore, che si trova in Inghilterra nel periodo in cui si immagina avvenuto il dialogo). Le qualità del perfetto cortigiano L’obiettivo ambizioso nel trattato è quello di offrire un modello umano in grado di costituire un punto di riferimento comportamentale per l’aristocrazia. Il cortigiano perfetto (tratteggiato nei primi due libri) unisce le tradizionali competenze del cavaliere (la perizia nelle armi) alle nuove competenze che venivano esaltate dalla pedagogia umanistica: infatti deve possedere una cultura in ambito letterario, artistico e filosofico, ma deve anche saper suonare e danzare (la musica e la danza avevano un ruolo assai rilevante nelle feste della corte). Le prerogative più importanti sono il costante autocontrollo, il senso della misura, l’equilibrio; i difetti peggiori l’esibizionismo e l’affettazione, cui viene

602 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


contrapposta la virtù positiva della sprezzatura (neologismo dell’autore), una disinvoltura che fa sembrare naturale e spontaneo ciò che invece può essere frutto di studio e impegno: una qualità sofisticata, che può forse essere resa dal francese nonchalance (➜ T7a ). Secondo il critico Giorgio Patrizi, il Cortegiano può essere letto come immagine metaforica di un’epoca in cui sono i valori estetici a fondare quelli etici, in cui anche il comportamento diventa “arte”, l’apparire è fondamentale rispetto all’essere e un gesto, un atteggiamento sono valutati sulla base dell’effetto che producono. Il ruolo politico del cortigiano-consigliere del principe Nel quarto libro si parla dei rapporti tra il principe e il cortigiano, che si qualifica in questa parte del trattato come consigliere fidato del principe, con il difficile compito di indirizzare le sue scelte politiche verso il bene, la giustizia, la pace (➜ T7b ). Anche questa parte del trattato rispecchia la realtà del tempo: l’intellettuale di corte era infatti spesso anche un diplomatico (come lo stesso Castiglione). Ai governanti erano richieste particolari abilità nelle relazioni politiche, il che li induceva a ricorrere a persone colte e avvedute, competenti nello scrivere e nel parlare: nella difficile situazione italiana, la diplomazia si qualificava infatti sempre di più come strumento fondamentale per mantenere l’equilibrio tra le diverse potenze. Due importanti digressioni Lo stretto legame che l’opera del Castiglione stabilisce con la cultura rinascimentale si evidenzia attraverso la presenza nell’opera (rispettivamente nel I e IV libro) di due digressioni che riguardano altrettanti nodi fondamentali del dibattito culturale coevo: la questione della lingua e il tema dell’amore platonico. Per quanto riguarda la questione della lingua (➜ SCENARI, PAGG. 561-564), la posizione del Castiglione differisce notevolmente dalla tesi sostenuta dal Bembo (che è a favore di una lingua arcaizzante modellata sui grandi trecentisti toscani): per l’autore del Cortegiano, occorre privilegiare – sia nell’uso letterario sia in quello quotidiano – la lingua che deriva dall’apporto linguistico di tutte le corti d’Italia (è la tesi della cosiddetta lingua “cortigiana”). Per quanto riguarda il tema dell’amore platonico, certamente centrale anche nelle reali conversazioni di corte, proprio a Pietro Bembo (autore dell’opera Gli Asolani) è messa in bocca la difesa dell’amore platonico, mezzo di elevazione per l’uomo che, contemplando la bellezza, può innalzarsi alla conoscenza del sommo Bene.

PER APPROFONDIRE

I trattati sul comportamento delle donne Nel generale processo di raffinamento dei costumi che caratterizza le corti italiane tra Quattrocento e Cinquecento, svolgono un ruolo di primo piano le donne della corte, a cominciare dalle principesse e duchesse, consorti dei signori.

Il libro del Cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei Nel 1528 il tipografo Aldo Manuzio stampa a Venezia, in un’elegante edizione, Il libro del Cortegiano di Baldesar Castiglione, portato a compimento dopo una lunga e laboriosa elaborazione (1513-1524). La diffusione dell’opera in Italia fu vasta e rapida, ma davvero incredibile fu il successo del trattato all’estero: sessanta edizioni tra il 1528 e il 1619 nelle principali lingue del continente, un best seller europeo! Molti peraltro lessero il trattato in italiano: nel Cinquecento il mito della cultura italiana rendeva quasi obbligatorio conoscere la

nostra lingua se si voleva essere considerati persone colte. Lo lesse entusiasta Carlo V, lo lessero Montaigne, Thomas Cromwell, Cervantes e centinaia di diplomatici e umanisti circolanti nelle varie corti europee. Il trattato di Castiglione contribuì così in modo determinante a formare il prototipo del gentiluomo di mondo, fornendo alle aristocrazie europee un codice di comportamento elegante e raffinato e contribuendo a diffondere l’immagine del Rinascimento italiano come modello insuperabile di civiltà.

La visione classicistica della letteratura 1 603


La “civiltà delle buone maniere”, che trasforma il cavaliere in garbato cortigiano, dall’Italia si diffonde in tutta Europa anche grazie alle principesse andate spose a sovrani europei: ad esempio Beatrice d’Aragona, sposa del re d’Ungheria. Della “donna di palazzo” parla espressamente il terzo libro del Cortegiano e, del resto, dalla fine del Quattrocento in avanti sono molto diffusi i trattati che teorizzano le modalità del comportamento femminile, sempre attraverso un processo di marcata idealizzazione. Molto vicino cronologicamente al Cortegiano è il trattato di Galeazzo Flavio Capella, Della eccellenza et dignità delle donne, stampato a Venezia nel 1526, il De la Nobiltà e preccellentia del femminile sesso (forse 1530) di Heinrich Cornelius Agrippa, il Dialogo della bella creanza delle donne (1539) di Alessandro Piccolomini, La nobiltà delle donne (1549) di Ludovico Domenichi e altri ancora. Influenti donne di palazzo La donna di palazzo che più è capace di contrassegnare, con la sua personalità, la vita della corte è la colta Isabella d’Este (➜ EDUCAZIONE CIVICA Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este, PAG. 606); altre influenti figure femminili sono: Beatrice d’Este, sorella di Isabella e sposa di Ludovico il Moro a Milano; Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino (➜ SCENARI, D11a OL) celebrata nel Cortegiano; la celeberrima Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara; Veronica Gambara, una poetessa che, dopo la morte del marito, anima la piccola corte di Correggio. Nell’isolotto di Asolo la veneziana Caterina Cornaro tiene una corte frequentata da letterati prestigiosi come Pietro Bembo, il quale ambienta il suo trattato dialogico sul tema dell’amore, Gli Asolani, proprio qui. L’educazione di queste gentildonne non ha nulla da invidiare a quella degli umanisti, ma occorre ricordare che le donne erudite costituiscono pur sempre un’eccezione. Pontormo, Ritratto di Monsignor Della Casa, olio su tavola, 1540-1543 ca. (Washington, National Gallery of Art).

Giovanni Della Casa e il Galateo: la “civiltà delle buone maniere” La biografia Giovanni Della Casa (1503-1556), di nobile famiglia fiorentina, dopo gli studi giuridici e letterari, nel 1529 si trasferisce a Roma, dove inizia la carriera ecclesiastica; diventa vescovo, poi nunzio apostolico a Venezia e infine segretario di Stato a Roma su nomina di Paolo IV. In ambito ecclesiale svolge importanti ruoli, combattendo aspramente le prime tendenze riformistiche. Muore nel 1556. È autore di rime petrarchesche, ma la sua fama è legata soprattutto al Galateo, pubblicato postumo nel 1558. Un trattato sul comportamento corretto Il Galateo di Giovanni Della Casa è un trattato sul modo corretto di comportarsi in società. Deve il suo nome al personaggio cui l’opera è dedicata: il vescovo Galeazzo (in latino Galatheus) Florimonte. Il Galateo ebbe così ampia fortuna nel tempo che ancora oggi usiamo il termine galateo come sinonimo di “buone maniere”. Nella finzione letteraria l’autore immagina che un vecchio illetterato (cioè poco istruito) insegni a un ragazzo come comportarsi adeguatamente nelle diverse occasioni della vita quotidiana.

604 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


Il tono e gli scopi dell’opera Il tono del discorso è volutamente colloquiale, in rapporto all’obiettivo dell’opera, meno ambizioso rispetto al Cortegiano: il Galateo si rivolge infatti non solo al gentiluomo di corte, ma a un campione sociale più ampio e vario (che non esclude la borghesia). Esso, inoltre, ha una finalità soprattutto pratica: presentare, cioè, un insieme di norme e usanze cui l’individuo deve adeguarsi se vuole essere considerato una persona bene educata ed essere ben accolto in società (➜ T8a-T8b ). Nella civiltà rinascimentale è molto importante l’approvazione del consesso civile: da qui l’esplicito invito del Della Casa al conformismo, necessario per poter raggiungere il successo. Una minuziosa precettistica I dettagliati precetti enunciati nel breve trattato riguardano le più comuni occasioni, come il comportamento a tavola, i modi di conversare, le forme del vestire, le norme igieniche più elementari ma evidentemente non così usuali a quel tempo, se è vero, come osserva lo storico britannico Peter Burke, che furono le corti italiane a diffondere l’uso della forchetta, dello spazzolino da denti e del dentifricio: tutte cose necessarie se si vuole essere accettati e apprezzati in società.

I trattati sul comportamento Baldesar Castiglione (1478-1529)

Giovanni Della Casa (1503-1556)

Il Cortegiano

Galateo

pubblicato nel 1528

pubblicato nel 1558

opera di riferimento per l’aristocrazia

opera di riferimento per aristocrazia e borghesia

trattato sulla figura del perfetto cortigiano, valente cavaliere ma anche uomo elegante e colto

trattato per insegnare le buone maniere

Fissare i concetti La visione classicistica della letteratura 1. Quali sono i principi chiave del classicismo? 2. Quale ruolo ebbe la Poetica di Aristotele? 3. Quali sono e in che cosa consistono le tre unità aristoteliche? 4. Che cosa sono i Canti carnascialeschi? Chi ha scritto il Trionfo di Bacco e Arianna? 5. Quali sono i due avvenimenti che portano Poliziano ad interrompere la stesura delle Stanze? 6. A quale genere appartiene la Fabula di Orfeo? 7. Quali sono la struttura e l’argomento dell’Arcadia di Sannazaro? 8. Come sono strutturati i trattati? 9. Quale visione dell’amore propone Bembo nel trattato Gli Asolani? 10. Qual è lo scopo che si prefigge Castiglione nel redigere il Cortegiano? 11. Quali qualità deve possedere il perfetto cortigiano? 12. Qual è il contenuto del Galateo di Giovanni Della Casa?

La visione classicistica della letteratura 1 605


EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este Nel trattato di Castiglione i pregiudizi misogini che erano radicati nella cultura medievale sono ormai considerati anacronistici e viene valorizzata la “donna di palazzo”, a cui è dedicato il libro III. Mentre nella tradizione medievale clericale l’immagine della donna è prevalentemente collegata al “disordine”, al “turbamento”, nel Cortegiano la figura femminile diventa invece specchio dell’immagine armonica e perfetta della corte; il suo ruolo è quello di rinsaldare e armonizzare, con il carisma, il gruppo. Nel ritratto della gentildonna, l’autore focalizza soprattutto la sua attenzione sulle qualità sociali, relazionali, che ne consacrano il ruolo pubblico entro la corte: la piacevolezza, l’arguzia e l’eleganza nel parlare, il saper «gentilmente intertenere [intrattenere] ogni sorte d’uomo». Vera e propria parola chiave, continuamente ricorrente, è appunto intertenere, ossia intrattenere ad alto livello, con decoro ed eleganza: è questo il compito fondamentale della dama di corte. Isabella d’Este (1479-1539), figlia di Ercole d’Este, andata sposa giovanissima a Francesco II Gonzaga, ebbe un ruolo determinante nell’affermazione della corte di Mantova nel panorama delle corti italiane. Educata da Battista Guarini (figlio

NUClEO Costituzione COMPETENZA 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

del grande pedagogo Guarino Veronese), Isabella conosceva benissimo il latino e il greco, sapeva suonare il liuto, danzare e conversare brillantemente, amava viaggiare per le corti d’Italia e di Provenza. Guidava le feste di corte, proteggeva gli artisti e li attirava alla sua corte, intratteneva rapporti diretti con filosofi, scienziati e poeti (in particolare Ludovico Ariosto). Isabella era una fanatica collezionista di opere d’arte e di oggettistica antica: cercava ovunque pezzi rari e preziosi, e per i suoi dispendiosi acquisti si faceva consigliare da artisti, come Mantegna (che viveva alla corte di Mantova), Leonardo, Niccolò e Giovanni Bellini. La sua passione per il collezionismo trovava frequentemente la possibilità di essere soddisfatta dalle incerte vicende della storia del tempo, che dall’oggi al domani potevano ribaltare le sorti di un ducato, di una signoria. Ad esempio, quando il duca Valentino, Cesare Borgia (il personaggio cui si ispira Il principe di Machiavelli), conquista il ducato di Urbino, Isabella accoglie alla sua corte Guidobaldo di Urbino e sua moglie Elisabetta (cognata di Isabella); ma la pietosa Isabella pensa anche ai tesori della corte di Urbino, che potrebbe far suoi, approfittando, in modo anche un po’ cinico, della situazione. Così una biografia di Isabella descrive quella circostanza:

Accolto Guidubaldo fuggiasco, udita da lui la storia dolorosa della perdita del Ducato, del palazzo saccheggiato, Isabella […] allarga le braccia ai miseri, li conforta; ma Isabella, collezionista, pensa subito ad approfittare dell’occasione. E qui scriviamo la storia com’è. La Marchesa si ricorda di avere ammirato, nell’ammiratissimo palazzo d’Urbino, un bel torso di Venere e un magnifico Amore addormentato, non antico, ma opera pregevolissima di un giovane scultore fiorentino, Michelangelo Buonarroti: due pezzi di museo che essa ha lungamente invidiato e che certo starebbero bene nella sua Grotta. Che cosa fa Isabella? Senza perder tempo, tre giorni dopo l’arrivo di Guidubaldo, scrive a suo fratello Cardinale Ippolito, pregandolo di ottenere dal Borgia i due pezzi desiderati. Cesare Borgia, galante, si affretta ad accontentare la Marchesa, della quale vuol guadagnare il favore, e un bel giorno il ciambellano del duca di Romagna [Cesare Borgia] arriva a Mantova con una mula carica di due marmi, di modo che il duca d’Urbino vede entrare, nel Palazzo offertogli come asilo, quale proprietà di sua cognata, i due marmi che prima erano suoi. da G. Bongiovanni, Isabella d’Este marchesa di Mantova, Edizioni moderne Canesi, Roma 1960 Isabella aveva un gusto artistico raffinato e tendeva a imporre agli artisti in modo abbastanza autoritario il repertorio iconografico da lei scelto (al pittore Perugino, che sembrava non comprendere bene, o non accettare pienamente le sue intenzioni, scrisse ben 53 lettere per spiegargli minuziosamente il soggetto allegorico del quadro commissionatogli!). Prediligeva temi e immagini letterarie, a volte anche complesse allegorie: esperta di astrologia, disegnò personalmente gli schemi allegorici che avrebbero dovuto ornare il celebre studiolo dove si ritirava a leggere e studiare e dove amava ricevere artisti, intellettuali e potenti. Bibliofila appassionata, si fece mandare dall’editore Manuzio per la sua biblioteca personale edizioni a stampa di Virgilio, Orazio, Marziale, Catullo, Properzio, oltre a Petrarca.

Ma Isabella non era solo un’intellettuale umanista: non mancava di interessarsi, come dimostrano le moltissime lettere, all’intricata vita politica e diplomatica del tempo, rivelando sempre grande acutezza di giudizio, non esente da una certa spregiudicatezza, che costituisce un tratto comune del costume del tempo. Durante le frequenti assenze del marito da Mantova, in qualità di reggente Isabella seppe amministrare gli affari pubblici con saggezza e lungimiranza. Alla figura di Isabella è ispirato il romanzo Rinascimento privato (1985) di Maria Bellonci (1902-1986), una ricostruzione non solo del personaggio affascinante della marchesa di Mantova, ma anche del mondo delle corti rinascimentali.

606 Quattrocento e cinQuecento 10 Classicismo e anticlassicismo


T7

Le qualità del “perfetto cortigiano” Nei due testi che proponiamo si analizzano le caratteristiche che deve possedere il cortigiano (➜ T7a ) e il ruolo politico che egli può rivestire all’interno della corte (➜ T7b ).

Baldesar Castiglione

T7a

Grazia e sprezzatura Il libro del Cortegiano, I, xxvi

B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di G. Preti, Einaudi, Torino 1960

Il capitolo XXVI del primo libro del Cortegiano tratteggia un profilo del gentiluomo che vive nella corte ispirato agli ideali etici ed estetici propri della cultura rinascimentale: il gentiluomo deve possedere la grazia, evitando ogni forma di affettazione e di ostentazione. Il suo atteggiamento deve sembrare naturale, mentre è frutto di disciplina ed esercizio: in ciò consiste la sprezzatura.

Ma avendo io già piú volte pensato meco onde nasca questa grazia1, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno2, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano piú che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto piú si po3, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazio5 ne4; e, per dir forse una nova parola5, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi6. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde7 in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia 10 e fa estimar poco ogni cosa8, per grande ch’ella si sia. Però9 si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né piú in altro si ha da poner studio10, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato11. E ricordomi io già aver letto esser stati12 alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie13 sforzavansi14 di far credere ad ognuno sé non aver notizia 15 alcuna di lettere15; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e piú tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che ’l studio e l’arte16; la qual se fosse stata conosciuta, aría dato dubbio negli animi del

1 pensato meco... grazia: pensato dentro di me da dove derivi questo comportamento aggraziato, gradevole. 2 lasciando... l’hanno: tralasciando quelli che lo possiedono per influsso astrale (per un dono naturale). 3 si po: si può. 4 affettazione: comportamento artificioso, privo di naturalezza. 5 per... parola: utilizzando una parola forse mai usata in questo senso. 6 che nasconda... pensarvi: che non riveli l’impegno e faccia apparire ciò che si fa e si dice come realizzato senza fatica e quasi senza pensarci. Castiglione definisce con queste parole la sprezzatura, parola e

concetto chiave del brano, che consiste nell’avere, in ogni attività che si svolge, una tecnica perfetta, acquisita con studio e impegno, ma poi dissimulata, in modo che l’abilità appresa sembri naturale. 7 onde: per cui. 8 per lo contrario... ogni cosa: al contrario, mostrare lo sforzo e, come si dice, “tirar per i capelli” (far vedere che una cosa non è naturale, ma eseguita con sforzo) è molto sgradevole e sminuisce ogni cosa. 9 Però: Perciò. 10 si ha da poner studio: si deve mettere impegno. 11 leva... estimato: toglie tutta l’ammirazione e produce scarsa stima.

12 esser stati: che vi erano stati. L’autore usa una costruzione simile all’infinitiva latina. 13 industrie: accorgimenti. 14 sforzavansi: si sforzavano. 15 notizia… lettere: nessuna conoscenza letteraria e retorica. 16 tra le altre... arte: tra le altre loro tecniche si sforzavano di far credere a tutti che loro non avevano nessuna conoscenza della retorica; dissimulando la loro cultura, facevano sembrare che le loro orazioni fossero state costruite molto facilmente e più seguendo l’ispirazione naturale e la verità del discorso che la tecnica retorica.

La visione classicistica della letteratura 1 607


populo di non dover esser da quella ingannati17. Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un cosí intento studio levi la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida 20 quando il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi18? Qual occhio è cosí cieco, che non vegga in questo la disgrazia19 della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti20, di quella sprezzata desinvoltura21 (ché nei 25 movimenti del corpo molti cosí la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi22, mostrando non estimar e pensar piú ad ogni altra cosa che a quello23, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare24?

17 la qual... ingannati: se questa (la padronanza dell’arte retorica) fosse stata conosciuta avrebbe suscitato (aría dato) nell’animo del popolo il dubbio di esser stato ingannato. Il dubbio in realtà non sembrerebbe del tutto infondato. L’affermazione rivela la concezione dell’autore, incline a valorizzare l’artificio e la tecnica più della spontaneità naturale. 18 Qual di voi... passi: dall’arte del discorso, fondamentale in ogni ambito del vivere sociale, Castiglione passa all’esem-

pio più frivolo della danza, legata alla vita di corte e a un ballerino, tal Pierpaulo, che danza senza scioltezza e appare legnoso nei movimenti. 19 disgrazia: la mala grazia (etimologicamente “dis-grazia”, opposto di grazia). 20 qui presenti: richiamo alla situazione comunicativa immaginata nell’opera del Castiglione, cioè a una discussione tenuta nell’ambiente di corte. 21 sprezzata desinvoltura: disinvoltura apparentemente spontanea.

22 adattarsi: atteggiarsi (come richiede la danza e corrispondere ai gesti degli altri ballerini). 23 mostrando... quello: dando l’impressione di non dare importanza a ciò che si sta facendo (danzare) e di pensare più a ogni altra cosa che a quello (che si sta facendo). 24 di non saper... errare: di non considerare possibile un errore.

Raffaello, L’incendio di Borgo, affresco, 1514 (Città del Vaticano, Palazzo Apostolico).

608 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


Baldesar Castiglione

T7b

Il ruolo del cortigiano Il libro del Cortegiano, IV, v

B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di G. Preti, Einaudi, Torino 1960

Nel quarto e ultimo libro del suo trattato, Castiglione focalizza le sue considerazioni sulla cortegianìa (qui affidate a Ottaviano Fregoso) interrogandosi sul senso che può avere l’acquisizione delle qualità mondane e culturali di cui si è discusso nelle giornate precedenti. È qui delineato il rapporto fra il signore e il cortigiano, e il ruolo, anche politico, che quest’ultimo può rivestire all’interno della complessa realtà delle corti.

Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori1 talmente la benivolenzia e l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso2 convenga 5 sapere, senza timor o periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli3, e con gentil modo valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa4 ed indurlo al camin della virtú; e cosí avendo il cortegiano in sé la bontà, come gli hanno attribuita questi signori, accompagnata con la 10 prontezza d’ingegno e piacevolezza e con la prudenzia e notizia di lettere5 e di tante altre cose, saprà in ogni proposito6 destramente7 far vedere al suo principe quanto onore ed utile nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità8, dalla magnanimità, dalla mansuetudine e dall’altre virtú che si convengono a bon principe; e, per contrario, quanta infamia e danno proceda dai vicii9 oppositi a 15 queste. Però io estimo che come la musica, le feste, i giochi e l’altre condicioni piacevoli son quasi il fiore, cosí lo indurre o aiutare il suo principe al bene e spaventarlo dal male10, sia il vero frutto della cortegiania. E perché la laude del ben far consiste precipuamente11 in due cose, delle quai l’una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia veramente bono12, l’altra il saper 20 ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine desegnato13, certo è che l’animo di colui, che pensa di far che ’l suo principe non sia d’alcuno ingannato14, né ascolti gli adulatori, né i malèdici e bugiardi, e conosca il bene e ’l male ed all’uno porti amore, all’altro odio, tende ad ottimo fine.

1 condicioni… signori: condizioni di vita nella corte. 2 ad esso: cioè al principe. 3 conoscendo... contradirgli: se comprende che quello ha intenzione di compiere un’azione sbagliata, osi porsi in contrasto con lui. 4 rimoverlo... viciosa: distoglierlo da ogni intenzione malvagia.

5 la prudenzia... lettere: la saggezza e la cultura. 6 proposito: occasione. 7 destramente: con abilità. 8 liberalità: generosità. 9 vicii: vizi. 10 lo indurre… dal male: spingere o aiutare il suo principe a fare il bene e distoglierlo dal male.

11 precipuamente: soprattutto. 12 delle quai... bono: una delle quali è scegliere un fine, che sia davvero buono, a cui tendano i nostri sforzi. 13 atti... desegnato: adatti a pervenire a questo buon fine prescelto. 14 non sia... ingannato: non sia ingannato da nessuno.

La visione classicistica della letteratura 1 609


Analisi del testo L’essere e l’apparire del cortigiano I due passi proposti sono fra loro molto differenti. Nel primo vengono analizzati l’apparenza esteriore del cortigiano e il suo comportamento negli intrattenimenti della corte; nel secondo sono discussi gli ideali e i valori che egli dovrebbe perseguire. Nel primo passo dunque è in gioco l’apparire, nel secondo l’essere, o forse meglio, il “dover essere”; nel primo si descrive un ideale estetico, nel secondo etico; nel primo il cortigiano appare sottoposto al giudizio degli altri e deve mostrare di esserne all’altezza, nel secondo assume invece un ruolo attivo, propositivo.

L’ideale estetico del cortigiano: la sprezzatura Parola chiave di (➜ T7a ) è sprezzatura: con questo termine si intende l’abilità che per Castiglione

è la suprema sintesi di tutto il lungo e impegnativo apprendistato del cortigiano. La sprezzatura è un comportamento apparentemente naturale, in realtà acquisito a prezzo di un lungo studio ed esercizio, che consente di compiere le cose più difficili come se fossero facilissime e quasi spontanee. Tale abilità si esplica in vari campi: lo stesso Castiglione presenta due esempi differenti, riferendosi da una parte a un’attività frivola come la danza, dall’altra alla capacità oratoria. La sprezzatura può essere vista come la capacità, propria di chi ha ricevuto una perfetta educazione, di adattarsi in modo perfetto, ma con apparente spontaneità, a ogni situazione e a ogni ambiente, senza ostentare la propria superiorità e senza mai mettere a disagio gli altri. Secondo tale modello di comportamento, che avrebbe in seguito ispirato la “civiltà delle buone maniere” europea, di cui può essere esempio l’ideale del gentleman inglese, nulla è lasciato al caso: il comportamento non è determinato dalla natura, ma dalla cultura. Un comportamento esteriormente impeccabile richiede dunque una grande disciplina interiore, un lavoro su di sé, per giungere a un perfetto autocontrollo.

L’ideale etico del buon consigliere In (➜ T7b ) (tratto dal IV libro del Cortegiano, dedicato alla politica e ai rapporti con il principe),

Castiglione ipotizza che, grazie alle sue eccezionali qualità, il cortigiano possa essere considerato come un saggio consigliere e indirizzare il signore sulla via del bene. Il cortigiano ideale immaginato da Castiglione rivela allora di possedere alte doti morali: appare infatti come un uomo buono, sincero (al principe dice sempre la verità), dignitoso (osa contraddire il signore, se è il caso). Ma davvero il principe lo ascolterebbe? Molti lettori dell’opera hanno considerato tale ipotesi utopistica e irreale, e in realtà molto dipende dal signore e dall’ambiente in cui il cortigiano si trova a operare. Castiglione crede che il cortigiano possa persuadere il principe grazie alle sue eccezionali doti, tra le quali ci sono la cultura, la saggezza, la bontà, un’intelligenza ben esercitata e un comportamento piacevole e capace di attirarsi la simpatia e la fiducia degli altri; inoltre il cortigiano è coltissimo e padroneggia perfettamente l’arte oratoria, e può perciò persuadere più facilmente il signore a seguire la via del bene, mostrandogli i vantaggi e l’onore che può ottenerne. Un compito impossibile? Forse non sempre: ciò che Castiglione teorizza, in fondo, non è che l’ideale umanistico, con la sua fiducia nella cultura e nella parola: forse un’utopia, che però coincide con la ragione e la civiltà contro le ragioni della sola forza.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Cos’è la sprezzatura? 2. Qual è il fine principale che dovrebbe proporsi il cortigiano, secondo Baldesar Castiglione? ANALISI 3. Di quali doti si dovrebbe avvalere il cortigiano per convincere il principe a compiere il bene? LESSICO 4. Fai una schedatura dei termini grazia, sprezzatura e affettazione, indicando per ciascuno: occorrenze, significato specifico, eventuali sinonimi. STILE 5. A quali similitudini e metafore Baldesar Castiglione ricorre per definire la natura e il comportamento del cortigiano perfetto? Quale campo semantico prevale?

Interpretare

SCRITTURA 6. Parlando di sprezzatura, quali esempi se ne potrebbero addurre (anche attualizzando il concetto) oltre a quelli proposti da Castiglione?

610 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


T8

Suggerimenti su come comportarsi in società Nei due brani presentati tratti dal Galateo di Della Casa l’autore elenca quali azioni non è bene compiere a tavola (➜ T8a ) e quali sono gli argomenti più adatti alla conversazione (➜ T8b ).

Giovanni Della Casa

T8a

Cattive maniere a tavola Galateo, cap. XIX

G. Della Casa, Galateo, a cura di S. Prandi, Einaudi, Torino 1994

Dal celebre trattato di monsignor Della Casa abbiamo scelto innanzitutto un passo molto noto, tratto dalla prima parte del cap. XIX. Vi appare un concetto di “galateo” inteso semplicemente, secondo l’accezione usuale e ormai tradizionale del termine, come codice di buone maniere alle quali qualunque persona ben educata (diremmo oggi) non può sottrarsi.

Non istà bene grattarsi sedendo a tavola, e vuolsi in quel tempo guardar l’uomo più che e’ può di sputare e, se pure si fa, facciasi per acconcio modo1. Io ho più volte udito che si sono trovate delle nationi così sobrie che non isputavano già mai: ben possiamo noi tenercene per brieve spatio2! Debbiamo etiandio3 guardarci di prendere 5 il cibo sì ingordamente che perciò si generi singhiozzo o altro spiacevole atto, come fa chi s’affretta sì, che convenga che egli ansi e soffi con noia di tutta la brigata4. Non istà medesimamente bene a fregarsi i denti con la tovagliuola e meno col dito, che sono atti difformi5; né risciacquarsi la bocca e sputare il vino sta bene in palese6; né in levandosi da tavola portar lo stecco a guisa d’uccello che faccia suo nido, o 10 sopra l’orecchia come barbieri, è gentil costume7. 1 facciasi... modo: lo si faccia con discrezione, in modo conveniente. 2 tenercene... spatio: astenerci dal farlo per un breve tempo. 3 etiandio: anche.

4 sì, che convenga... brigata: così che succede che egli sbuffi e soffi, con fastidio di tutta la compagnia. 5 atti difformi: atteggiamenti maleducati. 6 in palese: davanti a tutti.

7 né... costume: né è un’azione educata, quando ci si alza da tavola, portarsi lo stuzzicadenti, come un uccello prende uno stecco per fare il nido, o metterlo sull’orecchio come un barbiere.

Giovanni Della Casa

T8b

Argomenti di conversazione. Come parlare in società Galateo, capp. XI e XXIV

G. Della Casa, Galateo, a cura di S. Prandi, Einaudi, Torino 1994

Tratto dai cap. XI e XXIV, il brano documenta l’importanza della “civile conversazione” nel costume sociale del tempo: nel Cinquecento, parlare in modo adeguato, elegante, cortese, scelto, era una componente fondamentale del “saper vivere”.

Nel favellare si pecca1 in molti e varii modi, e primieramente2 nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola né vile, perciò che gli uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti et il ragio1

Nel favellare... pecca: Nel parlare si sbaglia.

2

primieramente: in primo luogo.

La visione classicistica della letteratura 1 611


natore insieme. Non si dèe anco pigliar tema molto sottile né troppo isquisito, perciò che con fatica s’intende dai più3. Vuolsi diligentemente guardare di far la proposta tale che niuno della brigata ne arrossisca o ne riceva onta4. Né di alcuna bruttura si dèe favellare, come che5 piacevole cosa paresse ad udire, perciò che alle oneste persone non istà bene studiar di piacere altrui, se non nelle oneste cose. Né contra Dio né contr’a’ Santi, né dadovero né motteggiando6 si dèe mai dire alcuna cosa, 10 quantunque per altro fosse leggiadra o piacevole: il qual peccato assai sovente commise la nobile brigata del nostro messer Giovan Boccaccio ne’ suoi ragionamenti, sì che ella merita bene di esserne agramente ripresa da ogni intendente persona7. […] Né a festa né a tavola si raccontino istorie maninconose8, né di piaghe né di malattie né di morti o di pestilentie, né di altra dolorosa materia si faccia mentione 15 o ricordo: anzi, se altri in sì fatte rammemorationi fosse caduto9, si dèe per acconcio modo10 e dolce scambiargli quella materia e mettergli per le mani più lieto e più convenevole soggetto11. […] Sono ancora molti che non sanno restar di dire12, e, come nave spinta dalla prima 20 fuga13 per calar vela14 non s’arresta, così costoro trapportati da un certo impeto scorrono15 e, mancata la materia del loro ragionamento, non finiscono per ciò, anzi, o ridicono le cose già dette, o favellano a vòto16. Et alcuni altri tanta ingordigia hanno di favellare che non lasciano dire altrui; e come noi veggiamo talvolta su per l’aie de’ contadini l’uno pollo tòrre la spica di becco all’altro17, così cavano costoro i ra25 gionamenti di bocca a colui che gli cominciò e dicono essi; e sicuramente che eglino fanno venir voglia altrui di azzuffarsi con esso loro, perciò che, se tu guardi bene, niuna cosa muove l’uomo più tosto ad ira, che quando improviso gli è guasto18 la sua voglia et il suo piacere, etiandio19 minimo: sì come quando tu arai20 aperto la bocca per isbadigliare et alcuno te la tura21 con mano, o quando tu hai alzato il braccio 30 per trarre la pietra et egli t’è subitamente tenuto da colui che t’è dietro. Così adunque come questi modi (e molti altri a questi somiglianti) che tendono ad impedir la voglia e l’appetito altrui22 ancora23 per via di scherzo e per ciancia24 sono spiacevoli e debbonsi fuggire, così nel favellare si dèe più tosto agevolare il desiderio altrui che impedirlo. Per la qual cosa, se alcuno sarà tutto in assetto di25 raccontare un fatto, 35 non istà bene di guastargliele26, né di dire che tu lo sai, o, se egli anderà per entro la sua istoria spargendo alcuna bugiuzza27, non si vuole28 rimproverargliele né con le parole né con gli atti, crollando il capo o torcendo gli occhi, sì come molti soglion fare, affermando sé non potere29 in modo alcuno sostener l’amaritudine della bugia; ma egli non è questa la cagione di ciò, anzi è l’agrume e lo aloe della loro rustica 5

3

Non si dèe… dai più: Non si deve però neppure scegliere un tema molto difficile né troppo ricercato, perché viene compreso con difficoltà dalla maggior parte delle persone. 4 onta: offesa. 5 come che: per quanto. 6 né dadovero... motteggiando: né sul serio né scherzando. 7 agramente... persona: duramente criticata da ogni persona che se ne intende. 8 maninconose: malinconiche, tristi. 9 se altri... caduto: se qualcuno fosse

caduto in rievocazioni (rammemorationi) di questo genere. 10 per... modo: in modo gentile. 11 più convenevole soggetto: argomento più adatto. 12 Sono... dire: Ci sono poi molti che non sanno fermarsi nel parlare. 13 dalla prima fuga: dal primo impeto. 14 per calar vela: anche se la vela viene calata. 15 trapportati… scorrono: trasportati dalla forza d’inerzia procedono oltre. 16 favellano a vòto: parlano a vuoto. 17 su per… all’altro: nelle aie dei contadini

612 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo

un pollo togliere la spiga dal becco dell’altro.

18 guasto: impedito. 19 etiandio: anche. 20 arai: avrai. 21 tura: chiude. 22 appetito altrui: desiderio di altri. 23 ancora: sebbene. 24 per ciancia: per gioco. 25 in assetto di: pronto a. 26 guastargliele: rovinarlo. 27 bugiuzza: piccola bugia. 28 non si vuole: non si deve. 29 sé non potere: che loro non possono. Il costrutto è quello dell’infinitiva latina.


40

natura et aspera30, che sì gli rende venenosi et amari nel consortio degli uomini che ciascuno gli rifiuta. Similmente il rompere altrui le parole in bocca è noioso31 costume e spiace, non altrimenti che quando l’uomo è mosso a correre et altri lo ritiene32.

30 ma egli... aspera: ma non è questa la causa di un tale comportamento, al contrario (la causa) è l’asprezza della loro na-

tura rozza e incivile. L’aloe è una pianta medicinale, dalle cui foglie si ricava un succo amaro.

31 noioso: spiacevole. 32 altri lo ritiene: qualcuno lo trattiene.

Analisi del testo Un modello di comportamento per il vivere sociale Il modello di comportamento del gentiluomo educato che si afferma nel Cinquecento prende origine nell’ambiente della corte, che crea molteplici occasioni di scambi sociali. Il Galateo del Della Casa diffonde tale modello di socialità cortigiana a strati più ampi della popolazione, incontrando un’immensa fortuna.

Un modello attuale? La società odierna tende ad assumere una posizione a volte critica di fronte al modello comportamentale espresso nel Galateo, messo in discussione con il successivo affermarsi dell’opposto modello di comportamento romantico, improntato a una totale spontaneità. L’ideale delle “buone maniere” non viene però mai totalmente abbandonato, come dimostra la tradizione ininterrotta di testi di “galateo” ispirati al fortunato prototipo dellacasiano. In realtà l’opera del Della Casa conserva un valore perché non si ispira soltanto a un ideale conformistico, ma è ispirato da un attento studio della psicologia e dei comportamenti sociali.

Il piacere, proprio e altrui, come guida per il comportamento in società Lo studio psicologico è connesso con l’ideale edonistico del Rinascimento, quando si diffonde l’idea che la vita debba essere anche piacevole. Un comportamento corretto e educato rende più godibile la vita in società sia a sé stessi, perché si risulta più graditi e simpatici in compagnia, sia agli altri, perché, avendo a che fare con persone attente al proprio comportamento essi si sentono più compresi e rispettati. Un esempio della finezza psicologica del Della Casa è il suo articolato “galateo del discorso”.

L’efficacia dello stile Il contrasto fra le tendenze istintive e naturali e il perfezionamento raggiunto grazie alla razionalità e alla buona educazione è evidenziato dallo stile del Galateo. Grazie alla finzione che a parlare sia un personaggio illetterato che istruisce un ragazzo, il discorso può spaziare da un registro basso e colloquiale a uno più alto e raffinato. Il livello stilistico basso, realistico e concreto, viene adottato soprattutto per la descrizione dei comportamenti dettati dall’istinto naturale e, con l’efficacia di una caricatura, mette in luce gli aspetti sgradevoli e ridicoli di un comportamento diretto, “naturale”, senza attenzione alla socialità. Ciò si evidenzia in particolar modo nei paragoni, spesso ripresi dal mondo animale: come quello tra gli interlocutori smaniosi di prendere la parola, interrompendo gli altri, e le galline che si strappano l’una all’altra il cibo dalla bocca; una similitudine che mostra efficacemente la volgarità di un comportamento, appunto, “naturale”, ma tale da suscitare negli altri una rabbiosa irritazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Secondo Della Casa, per essere considerati conversatori piacevoli bisogna osservare alcuni accorgimenti, riguardanti gli argomenti di conversazione e il modo di comportarsi: riassumili e commentali brevemente. COMPRENSIONE 2. Quali comportamenti sono da evitare a tavola?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 3. Prova a tratteggiare un sintetico catalogo dei “corretti comportamenti” che sia adeguato alla vita di oggi. Puoi anche restringere il tuo discorso a un ambito specifico: ad esempio la scuola, l’ufficio, i mezzi di trasporto, l’uso dei social...

La visione classicistica della letteratura 1 613


2 La produzione anticlassicista 1 Il classicismo: un modello dominante, ma non esclusivo

Domenico Beccafumi, La caduta degli Angeli ribelli, particolare, 1540 ca. (Siena, Pinacoteca nazionale). L’artista rappresenta figure dalla gestualità esasperata e dalle forme allungate, effetto accentuato dall’uso della luce.

Un Rinascimento diverso La cultura letteraria e artistica del Rinascimento s’ispira, nella maggior parte dei casi, a un ideale di armonia ed equilibrio modellato sui classici – dalla pittura di Raffaello alla lirica petrarchista, dai trattati di Bembo e Castiglione ad alcuni aspetti dell’Orlando furioso – e attinge al repertorio figurativo del mondo antico. Sarebbe però riduttivo (e in sostanza inesatto) identificare l’arte e la letteratura del periodo esclusivamente nelle opere ispirate a canoni di armonia e classicismo, ignorando le numerose manifestazioni “eccentriche” (nel senso etimologico del termine: “fuori dal centro”) e “centrifughe” rispetto al modello estetico dominante, che contribuiscono a delineare la fisionomia della cultura artistica rinascimentale. Antirinascimento o anticlassicismo? Per definire le manifestazioni che in vario modo non corrispondono alla tendenza dominante del gusto, lo storico dell’arte Eugenio Battisti ha parlato, nel suo fondamentale saggio L’Antirinascimento (la prima edizione è del 1962), riferendosi soprattutto alle arti figurative, di “antirinascimento”: un universo artistico alternativo alla cultura ufficiale, in cui si esprime un immaginario inquietante, magico, materialistico, irrazionalistico. Altri, come il critico letterario Nino Borsellino, facendo riferimento in particolare all’ambito letterario, hanno parlato, forse più correttamente, di “anticlassicismo”, per definire alcune manifestazioni, estranee ai princìpi del classicismo rinascimentale, ma che esercitano una funzione dialettica rispetto al modello dominante. Per Borsellino si tratta di manifestazioni in cui si esprime l’insofferenza per le regole, l’esaltazione della creatività dell’artista al di fuori di ogni disciplina, la dissacrazione del sublime (con la conseguente scelta di una materia “bassa”, in contrapposizione a una materia alta e nobile): manifestazioni a cui si accompagnano atteggiamenti spesso provocatori, come nel caso dell’Aretino. Sempre Borsellino osserva che gli anticlassicisti sono scrittori «più del ventre che della mente» e che alcuni di essi, perciò, rientrano a ragione nell’ambito del “carnevalesco” (➜ C5 PAG. 199; C10 PAG. 627). Conseguente è la scelta stilistico-linguistica di questi scrittori – anch’essa polemica verso gli orientamenti ufficiali (➜ T11 ) – orientata verso il plurilinguismo e l’impiego di registri iper-espressivi. L’anticlassicismo per Borsellino è comunque un fenomeno che si iscrive dentro il Rinascimento (e perciò non è tanto corretto parlare di “antirinascimento”), del quale fanno parte a pieno titolo figure un tempo emarginate dalle sistemazioni storiche. Accogliendo questi scrittori nell’ambito del Rinascimento, si ricava di questa stagione importantissima della nostra cultura un’immagine più mobile e varia, e in definitiva più vicina alla realtà.

614 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


Autori e opere polemici verso i canoni egemoni Alcuni scrittori, per i temi proposti e il linguaggio che impiegano, rovesciano esplicitamente attraverso l’ironia e la critica i modelli culturali ufficiali. Berni ad esempio, ricollegandosi alla tradizione della poesia giocosa, parodizza i poeti petrarchisti (➜ C11 T1b ) e contrappone una poesia puramente ludica, giocata sul nonsense, ai contenuti “seri” della lirica cinquecentesca. Aretino contesta la lingua imbalsamata proposta dal Bembo (➜ SCENARI PAG. 562 e ➜ C11) come pure la mitizzazione della corte fatta dal Castiglione (➜ PAG. 602) e contrappone ai nobili argomenti e all’esaltazione dell’amore spirituale, propri della trattatistica rinascimentale, un trattato, volutamente provocatorio, sull’«arte puttanesca» (➜ T10 ); Folengo nel Baldus dissacra la tradizione del poema cavalleresco contaminando nella lingua maccheronica latino e volgari settentrionali (➜ T11 ). Ma altri autori ancora potrebbero essere citati. Come Ruzante, che rifiuta gli schemi classicisti della commedia per ritrarre realisticamente il mondo contadino (➜ C16).

2 La Vita di Benvenuto Cellini online

La biografia Alcuni scrittori trovano modi originali di scrivere, diversi dalla prospettiva classicistica e dai suoi vincoli anche tematico-stilistici, magari perché il Giacomo Battiato (Film, 1989) genere scelto non ha modelli consacrati dalla letteratura antica: è il caso di un’oUna vita pera schietta, impetuosa, lontana dagli schemi del classicismo, come la Vita, cioè scellerata l’autobiografia di Benvenuto Cellini (➜ T9 OL), composta peraltro ormai ai confini del Rinascimento (1558-1566). Benvenuto Cellini (1500-1571), fiorentino, uomo dal temperamento estroso e collerico, ben lontano dall’ideale rinascimentale della “misura”, ha una vita avventurosa, segnata da duelli e casi giudiziari. È un artista poliedrico: orafo, scultore Ritratto di di grande talento, trova protezione a Roma presso il papa Clemente VII e quindi Benvenuto Cellini, il suo successore Paolo III. Accusato di furto, conosce l’esperienza del carcere a metà del XVI secolo. Castel Sant’Angelo, da cui cerca di evadere. Opera poi in varie corti e anche a Parigi. Tornato in Italia, realizza a Firenze il celeberrimo bronzo che raffigura Perseo, esposto nel 1554 alla loggia dei Lanzi. Quattro anni dopo, deluso perché il duca Cosimo I de’ Medici gli preferisce nuovi artisti e lo trascura, inizia a scrivere la sua autobiografia. Muore povero e dimenticato nel 1571. Video e Audio

La Vita Nella Vita, Cellini fa di sé stesso un mito umano: l’autobiografia è infatti concepita dall’autore come un’autocelebrazione, fondata sulla convinzione della propria eccezionalità umana e artistica (notissima è la descrizione, con toni quasi epici, della creazione della statua del Perseo ➜ SGUARDO SULL’ARTE, PAG. 616). Cellini si autorappresenta come un individuo dotato di straordinaria virtù, nel senso laico che questo termine acquista nel Rinascimento. Una virtù che si scontra ora con le avversità dei tempi, ora con la sorte, ora con singoli uomini che la contrastano: ostacoli che sono enfatizzati per far meglio risaltare la statura “eroica” del protagonista. La produzione anticlassicista 2 615


Oltre che il ritratto umano dell’autore, la Vita del Cellini fornisce un quadro affascinante della vita del tempo e di alcuni suoi personaggi, spregiudicato sul piano morale e comunque ben lontano dalle idealizzanti rappresentazioni diffuse nel tempo. Anche la prosa usata nella Vita è lontana dalla prospettiva classicheggiante: ha caratteri di immediatezza, a volte quasi giornalistica, e utilizza una sintassi mossa, che alterna discorso diretto e indiretto con modi vicini al parlato, nella volontà di aderire alla vivacità quasi cronachistica della narrazione.

Benvenuto Cellini, Vita GENERE

biografia

CONTENUTO

rappresentazione di sé come un uomo dotato di straordinaria virtù; la vita del tempo

SCOPO

autocelebrazione

STILE

immediato, con carattere giornalistico

SINTASSI

utilizzo di discorso diretto e indiretto

LINGUA

vicina al parlato

online t9 Benvenuto cellini Un omicidio Vita

Sguardo sull'arte La fusione del Perseo Con la creazione del Perseo, Benvenuto Cellini tentò la fusione di una grande statua in un solo getto, un’operazione molto complessa che mise a dura prova l’artista e i suoi assistenti. Nella Vita,, egli racconta di uno sforzo quasi eroico, epico, in cui non mancarono gli imprevisti: la “febbre effimera” che lo coglie per il grande sforzo, il fuoco della fornace che si abbassa a causa di un temporale, l’insufficienza di stagno che lo spinge a fondere tutte le stoviglie di casa ecc. Collocato in piazza della Signoria, il Perseo rappresentò un monito per i nemici dei Medici che nel 1555 conquistarono Siena, riunificando la Toscana sotto la loro egemonia.

616 Quattrocento e cinQuecento 10 Classicismo e anticlassicismo

Benvenuto Cellini, Perseo, 1545-1554 (Loggia dei Lanzi, Firenze).


3 Un “irregolare”: Pietro Aretino La biografia Di origini popolari, Pietro Aretino (1492-1556) prende come cognome la sua provenienza (era infatti di Arezzo). Dopo aver esercitato la carriera di cortigiano a Roma e aver soggiornato in varie corti d’Italia, si sposta a Venezia e qui si dedica a un’intensa attività letteraria, caratterizzata sempre da uno spirito trasgressivo rispetto ai modelli vigenti, che lo rende ricco e famoso. La spregiudicatezza con cui, grazie alla diffusione delle sue opere resa possibile dalla stampa, esercita il suo mestiere di letterato gli vale soprannomi come «avventuriero della penna» e «flagello dei principi». Una condotta che comunque gli procura onori e riconoscimenti persino da sovrani, come il re di Francia Francesco I e l’imperatore Carlo V. Destando spesso scandalo per i contenuti provocatori delle sue opere, Aretino si cimenta in vari generi letterari: dalle rime (spesso licenziose, come i Sonetti lussuriosi), alla commedia (la sua commedia più famosa è la Cortigiana, che rappresenta la corruzione dell’ambiente romano), alla tragedia (Orazia) ai dialoghi dei Ragionamenti (o Sei giornate) in cui, rovesciando l’idealismo tipico di tale genere letterario, dedica la trattazione alle professioni della prostituta e della ruffiana. Per il loro valore di testimonianza storica sono importanti le Lettere, spesso dirette a personaggi famosi dell’epoca. Sei giornate Sotto il titolo Sei giornate sono raggruppati due dialoghi di Pietro Aretino. Nel primo (Ragionamento della Nanna, et della Antonia, fatto in Roma…, pubblicato nel 1534), la Nanna, una prostituta, illustra senza reticenze la vita delle monache, delle maritate e delle prostitute, incerta a quale di queste condizioni avviare la figlia sedicenne. Nel secondo (Dialogo di M. Pietro Aretino, nel quale la Nanna il primo giorno insegna a la Pippa sua figliuola…, del 1536), la Nanna insegna alla figlia l’«arte puttanesca», trasmettendo alla ragazza il proprio “sapere”. I discorsi e i dialoghi delle due opere occupano sei giornate (da qui il titolo vulgato). Lo schema è quello del dialogo morale e pedagogico, assunto con evidente intento parodico dell’autore nei confronti della trattatistica alta sul comportamento (Bembo e Castiglione). Alla marcata idealizzazione, anche linguistica, dei due trattati, Aretino contrappone uno spregiudicato realismo e una lingua antiaccademica, vicina al parlato.

Pietro Aretino, Sei giornate GENERE

dialogo pedagogico

STRUTTURA

due dialoghi che occupano sei giornate

CONTENUTO

nel primo la madre (Nanna) illustra alla figlia le varie condizioni delle donne; nel secondo istruisce la figlia sull’«arte puttanesca»

SCOPO

intento parodico nei confronti dei trattati che presentano una visione idealizzante dell’amore

LINGUA

antiaccademica, ispirata ad un crudo realismo

La produzione anticlassicista 2 617


Pietro Aretino

Una spregiudicata lezione di erotismo

T10

Sei giornate P. Aretino, Sei giornate, a cura di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1975

Il breve passo che segue, tratto dalle Sei giornate, può dare almeno un’idea del dialogo di Pietro Aretino in cui egli immagina che una scaltrita prostituta, la Nanna, erudisca nell’“arte” in cui è maestra la giovanissima figlia Pippa, che si appresta a seguire l’esempio materno. In particolare, qui la Nanna risponde a una domanda della figlia sul comportamento erotico dei veneziani.

Nanna Ti dirò: i Viniziani hanno il gusto fatto a lor modo; e vogliono culo e tette e robbe sode, morbide, e di quindici o sedeci anni e fino in venti, e non de le petrarchescarie1. E perciò, figliuola mia, pon da canto le cortigianie2 e contentagli del proprio3, se vuoi ti gittino dirieto oro di fuoco e non ciance di nebbia4. E io 5 per me, sendo uomo5, vorrei colcarmi6 con una che avesse la lingua melata, e non addottorata7; e piú mi saria caro di tenere in braccio una robba sfoggiata che messer Dante8; e credo che sia altra melodia quella di una mano avventurata che fa le ricercate del liuto pel seno9 [...]; e il suono de la mano che dà de le sculacciatine nel consacrato de le meluzze10 mi par d’altra soavità che la musica che fanno i 10 piferi di Castello quando i cardinali vanno a Palazzo11 in quei cappucci che gli fan parere civette in una buca12. 1 petrarchescarie: è un neologismo introdotto da Aretino, con il quale egli vuole intendere le qualità spirituali (da lui presentate come insignificanti rispetto alle ben più appetibili qualità fisiche). L’autore ironizza sulla concezione d’amore diffusa dalla moda della lirica petrarchista. 2 pon da canto le cortigianie: accantona le finezze d’amore. Allusione alle teorizzazioni sul comportamento raffinato diffuse nella trattatistica contemporanea. 3 contentagli del proprio: accontentali, dando loro quel che cercano.

4 se vuoi... di nebbia: se vuoi che ti diano (letteralmente “ti gettino dietro”) oro (cioè denaro) fiammante e non chiacchiere evanescenti. 5 per me, sendo uomo: per quanto mi riguarda, se fossi un uomo. 6 colcarmi: coricarmi, andare a letto. 7 melata, e non addottorata: di miele, dolce, e non fosse colta. 8 piú mi saria... messer Dante: preferirei tenere tra le braccia una donna bellissima piuttosto che messer Dante. 9 credo... seno: credo che sia ben altra

musica quella prodotta da una mano fortunata (avventurata) che accarezza, come si fa con le corde del liuto, il seno. Aretino ricorre ad un linguaggio metaforico tratto dal campo musicale. 10 meluzze: glutei. 11 Palazzo: si intende il Vaticano. 12 civette in una buca: le civette (a cui sono assimilati i cardinali incappucciati in processione) depongono le uova in buche all’interno di alberi.

Analisi del testo Il rovesciamento parodico della trattatistica “alta” Nei Ragionamenti, come si nota anche solo dal breve passo proposto, Aretino rovescia con piena consapevolezza letteraria temi, modi e stile della trattatistica elevata, di cui fornisce eloquente esempio il passo tratto dagli Asolani del Bembo. Mentre i protagonisti del dialogo rinascimentale appartengono all’ambiente raffinato della corte e sono spesso noti intellettuali del tempo, nel dialogo di Aretino dialogano figure femminili, che appartengono a una realtà “bassa”, popolare e addirittura al mondo della prostituzione. Il trattato rinascimentale propone modelli di comportamento ispirati all’eleganza, al decoro, mentre Nanna insegna alla giovanissima figlia l’“arte” della prostituzione, distinguendo analiticamente le diverse esigenze dei clienti a seconda delle aree geografiche di provenienza (in questo caso i veneziani).

Il tema dell’amore L’amore di cui si parla negli Asolani e nello stesso Cortegiano (in una delle due importanti digressioni) è un amore nobile e spiritualizzato, ispirato alla filosofia neoplatonica; mentre nell’opera di Aretino l’amore è puramente istinto sessuale.

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La lingua Anche il linguaggio è strutturato su una consapevole polemica verso le tesi del Bembo, l’astrazione arcaizzante del fiorentino illustre che Aretino attacca anche in altre sedi, ad esempio nel prologo della Cortigiana. Aretino utilizza un lessico crudamente realistico o addirittura osceno.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

LESSICO 1. Nel breve passo tratto dalle Sei giornate si manifesta un chiaro intento parodico, da parte dell’Aretino, nei confronti della trattatistica rinascimentale sul tema amoroso: rintraccia nel testo le modalità espressive con cui l’autore manifesta questa sua volontà polemica. STILE 2. Quale figura retorica riconosci nell’espressione ciance di nebbia (r. 4)?

Interpretare

SCRITTURA 3. In un testo di max 15 righe delinea un ritratto della Nanna.

4 Un poema anticlassicistico: il Baldus di Teofilo Folengo

Ritratto di Teofilo Folengo, opera attribuita al Romanino, metà del sec. XVI (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

La biografia di Teofilo Folengo Girolamo Folengo nasce da nobile famiglia a Mantova nel 1491. Nel 1509 entra nella comunità monastica benedettina di Sant’Eufemia, presso Brescia, assumendo il nome di Teofilo; si sposta quindi in altri conventi nel mantovano e a Padova. Nel 1517 esce la prima edizione delle Maccheronee, di cui fa parte il Baldus, e probabilmente nello stesso anno riceve l’ordinazione sacerdotale. Per ragioni ancora non chiare (forse per le pagine satiriche contro la corruzione dei religiosi presenti nelle sue opere) è attaccato dalle gerarchie ecclesiastiche e lascia l’ordine nel 1525. Si trasferisce a Venezia, dove collabora con vari stampatori e fa il precettore. Nel 1534 è riammesso nell’ordine e ritorna in monastero. Muore presso Bassano nel 1544. Il Baldus Il poema è diviso in due parti: la prima (I-XI), sicuramente la più riuscita, è ambientata a Cipada, un piccolo borgo del Mantovano. Nella casa del contadino Berto, la principessa Baldovina, figlia del re di Francia e moglie del paladino Guidone, dà alla luce Baldus, che viene allevato dal rozzo e violento contadino. Cipada e i dintorni sono il teatro delle beffe furfantesche che contraddistinguono la fanciullezza e la giovinezza di Baldus, assistito nelle sue imprese dall’astuto Cingar, dal gigante Fracasso (personaggi ispirati a Margutte e Morgante del Pulci) e da Falchetto, mezzo cane e mezzo uomo. Dal libro XII l’azione si sposta in luoghi lontani, la trama si complica e le avventure assumono un tono marcatamente antirealistico e fantastico: sulla scena del poema irrompono incantesimi e figure come diavoli e streghe, una discesa nell’inferno e, alla fine, l’ingresso nella «casa della fantasia», una sorta di mondo surreale, in cui ogni logica è negata e la stessa immaginazione letteraria è forma inconsistente. La produzione anticlassicista 2 619


Un poema eroicomico Il Baldus è una delle opere più significative della tendenza anticlassicistica a cui sopra si è fatto riferimento: è un poema in esametri latini in venticinque canti, caratterizzato dalla commistione della dimensione eroica e di quella grottesco-paradossale. Viene pubblicato per la prima volta nel 1517 (seguiranno altre edizioni fino all’ultima, postuma, del 1552) all’interno di una silloge, un insieme di testi che, oltre al Baldus, comprende la Zanitonella (componimenti in versi di argomento pastorale, ma di tono realistico-giocoso) e la Moscheide. Il nome complessivo della silloge è Maccheronee perché tutte le composizioni che ne fanno parte sono in lingua “maccheronica”. La lingua maccheronica A prima vista il Baldus sembra scritto in latino, ma anche chi ha poca dimestichezza con questo si accorge subito che la lingua del poema di Folengo è diversa dal latino e d’altra parte non corrisponde a nessun volgare. Come spiega lo stesso autore, maccheronico deriva da maccherone, termine che all’epoca indicava un impasto di vari ingredienti. Il termine allude, quindi, metaforicamente a una particolare lingua composita: nel Baldus sono infatti mescolati il latino ed elementi lessicali e sintattici di vari dialetti del Nord Italia (soprattutto mantovano, ma anche bresciano e veneto). Il procedimento usato da Folengo consiste in genere nell’adattare, entro strutture morfologiche e sintattiche latine, il lessico toscano, dialettale, gergale o d’invenzione. Da questa contaminazione linguistica derivano neo-formazioni linguistiche a volte di irresistibile comicità, anche perché stridono col ritmo epico, solenne, dell’esametro. Lo si può notare già in uno dei primi versi del poema: di fronte alla fama altisonante dell’eroe che l’autore si appresta a cantare si legge: «terra tremat, barathrumque metu sibi cagat adossum», “la terra trema e anche il baratro infernale per la paura se la fa sotto”. La scelta anticlassicistica di un umanista Il latino maccheronico di Folengo, frutto di una raffinata competenza letteraria, si richiama all’irriverente poesia goliardica padovana, ma non è certo un innocuo divertimento letterario: dietro l’operazione linguistica sta infatti una precisa volontà polemica nei confronti dei modelli classicisti dominanti. Il latino maccheronico è lo strumento espressivo funzionale a una rappresentazione della vita antitetica alle forme idealizzanti diffuse nella cultura umanisticorinascimentale: nell’universo poetico di Folengo, in particolare nella parte del poema ambientata a Cipada, è infatti dato particolare spazio alla dimensione basso-corporea (il cibo, le funzioni fisiologiche) in contrapposizione alle raffinate astrazioni dei modelli culturali ufficiali.

Pieter Bruegel il Vecchio, Danza di contadini, particolare 1568 ca. (Vienna, Kunsthistorisches Museum).

Un’invocazione alle Muse anticonvenzionale Tale scelta di realismo corposo è indicata espressamente nell’esordio del poema, che ospita la tradizionale invocazione alle Muse, comicamente abbassata: il Folengo rifiuta l’aiuto delle Muse della poesia tradizionale e tutte quante «le

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chiacchiere del Parnaso», e respinge anche Febo-Apollo, rappresentato ironicamente mentre «gratta la sua chitarrina». Rivendica come poeta la propria corporeità, i propri appetiti carnali («se considero le budelle della mia pancia») per i quali sono più idonee le Muse grasse e pancifiche che hanno nomi antiletterari tratti dai dialetti lombardi (come Togna, Gosa, Comina) e che egli invita a «imboccarlo di gnocchi» e di polenta. Esse vivono su un monte lontano dove trionfa l’abbondanza iperbolica del cibo: una sorta di paese di Cuccagna(➜ PER APPROFONDIRE Il mito del paese di Cuccagna), nel quale il poeta dichiara di aver «pescato» l’arte maccheronica. La rappresentazione del mondo contadino Per il Baldus la critica ha parlato di «realismo grottesco» (Ferroni): la tendenza alla deformazione caricaturale e grottesca si associa infatti alla descrizione concreta, assai rara nella nostra letteratura (e di per sé anticlassicistica), di oggetti, occupazioni, ambienti che appartengono alla realtà “bassa” del mondo contadino. Per rappresentarlo, Folengo attinge al patrimonio folklorico e alla sua stessa conoscenza diretta, ma sarebbe fuorviante ipotizzare la presenza, nell’autore, di un atteggiamento di partecipazione e di simpatia per il mondo contadino: al contrario Folengo rimane un intellettuale umanista, che si rivolge a un pubblico elitario e guarda al mondo contadino con distacco ironico, a volte con disprezzo, e un’attitudine fondamentalmente satirica, analoga per certi aspetti alla “satira del villano”, sottogenere diffuso nel Medioevo.

PER APPROFONDIRE

Teofilo Folengo, Baldus GENERE

poema epico in esametri latini

STRUTTURA

venticinque canti

CARATTERISTICHE

elementi dell’epica classica ed eroi della tradizione cavalleresca in chiave parodica

LINGUA

latino maccheronico

Il mito del paese di Cuccagna Un topos letterario assai diffuso è il mito del paese di Bengodi o di Cuccagna. La sua principale caratteristica è l’abbondanza iperbolica di cibo e la sua varietà, con la conseguente possibilità per chiunque di saziarsi. L’immagine ha origine nella cultura popolare ed è evidentemente motivata dalla fame cronica dei contadini. Una descrizione si ritrova già in Boccaccio (Decameron VIII, 3: «una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan

genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua»). Il topos del paese di Cuccagna interessa anche l’ambito delle arti figurative (ad esempio in Pieter Bruegel il Vecchio, 1525 ca.-1569). La descrizione del mitico paese serve al Folengo per alludere al carattere antidealistico della sua poesia, già tratteggiato nei primi versi del poema, dedicati alle Muse.

La produzione anticlassicista 2 621


Teofilo Folengo

T11

Le Muse maccheroniche Baldus I, vv. 1-38, 52-63

T. Folengo, Baldus, a cura di E. Faccioli, Einaudi, Torino 1989

L’autore compie una deformazione parodica del proemio dei poemi epici cavallereschi sia nel linguaggio sia nei contenuti.

Phantasia mihi plus quam phantastica venit historiam Baldi grassis cantare Camoenis. Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum. 5 Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat, o macaroneam Musae quae funditis artem. An poterit passare maris mea gundola scoios, quam recomandatam non vester aiuttus habebit? Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia, 10 non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent; panzae namque meae quando ventralia penso, non facit ad nostram Parnassi chiacchiara pivam. Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae, Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,

VERSIONE IN ITALIANO moderno

Mi ha preso la fantasia, più fantastica che mai, di cantare la storia di Baldo con le mie grasse Camene1. Così altisonante è la sua fama e tanto gagliardo il suo nome che la terra tremando lo ammira e il baratro d’inferno si caga addosso dalla paura. Ma prima conviene che io invochi il vostro soccorso, o Muse che largite2 l’arte maccheronica: come farà la mia gondola3 a passare in mezzo agli scogli del mare se il vostro patrocinio non l’avrà raccomandata? Non detti dunque Melpomene il mio canto, né tanto meno la minchiona Talìa4, e neanche Febo, che sta a grattare la sua chitarrina5, poiché, se considero le budelle della mia pancia, le chiacchiere di Parnaso non si confanno alla mia piva6. Soltanto le Muse pancifiche7, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala8, vengano a imboccare di

1 grasse Camene: le Camene sono propriamente le ninfe delle sorgenti, ma qui identifica le Muse. Definendole grasse (“ben panciute, ma anche grossolane”) Folengo allude al carattere della sua poesia, che rifiuta programmaticamente la stilizzazione e l’idealizzazione. 2 largite: elargite, donate. 3 gondola: qui vale “piccola barca”. Attraverso una metafora consueta nella tradizione letteraria, il poeta si riferisce alla sua poesia.

4 Melpomene… Talìa: rispettivamente la Musa della tragedia e la Musa della commedia, sbeffeggiata dall’aggettivo minchiona. 5 grattare... chitarrina: anche FeboApollo, il dio della poesia, è rappresentato nell’atto di suonare la cetra attraverso un’immagine dissacrante. 6 le chiacchiere… mia piva: le espressioni vane e frivole (chiacchiere) della poesia alta (il Parnaso è il monte della Grecia che nella mitologia classica è sede di

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Apollo e delle Muse) non sono adatte alla mia poesia. Folengo allude metaforicamente alla propria arte, contrapponendo la rustica zampogna (piva), simbolo della poesia pastorale, all’aulica lira. 7 pancifiche: panciute, grasse. 8 Gosa... Pedrala: i nomi delle Muse maccheroniche risalgono all’area popolare del dialetto e dell’onomastica del bresciano, che Folengo conobbe in giovinezza. In particolare Gosa è “la Gozzuta” e Striazza “la strega”.


15 imboccare suum veniant macarone poëtam, dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos. Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes, albergum quarum, regio, propiusque terenus clauditur in quodam mundi cantone remosso, 20 quem spagnolorum nondum garavella catavit. Grandis ibi ad scarpas lunae montagna levatur, quam smisurato si quis paragonat Olympo collinam potius quam montem dicat Olympum. Non ibi caucaseae cornae, non schena Marocchi, 25 non solpharinos spudans mons Aetna brusores, Bergama non petras cavat hinc montagna rodondas, quas pirlare vides blavam masinante molino: at nos de tenero, de duro, deque mezano formaio factas illinc passavimus Alpes. 30 Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam possem, per quantos abscondit terra tesoros: illic ad bassum currunt cava flumina brodae, quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.

gnocchi9 il loro poeta e gli portino cinque e magari otto catini di polenta10. Sono queste le grasse mie dive, le mie Ninfe imbrodolate: la loro dimora, il loro paese e territorio si trovano in un remoto cantone del mondo che la caravella di Spagna non ha ancora scovato11. Una enorme montagna s’innalza laggiù fino alle scarpe12 della Luna: se qualcuno volesse paragonarla all’Olimpo, che è fuori d’ogni misura, direbbe che l’Olimpo è una collina, non un monte. Là non ci sono le corna del Caucaso13 né la schiena del Marocco14 né il monte Etna che sputa bruciori di zolfo, e neanche le montagne della Bergamasca15, dove si cavano quelle pietre rotonde che vedi pirlare16 al mulino quando si macina la biada17: là abbiamo scavalcato giogaie che erano fatte di formaggio, in parte tenero, in parte duro, in parte di mezza stagionatura. Credetemi, ve lo giuro, non saprei dire una sola bugia per tutti i tesori che stanno nascosti sotto la terra: laggiù corrono a valle profondi fiumi di broda che formano un lago di zuppa, un pelago di guazzetto18.

9 gnocchi: ai tempi del Folengo ma-

11 caravella... scovato: Folengo allude al-

15 le montagne della Bergamasca: le

carone era un impasto di farina, burro e formaggio (solo nel Settecento indica un formato di pasta). 10 catini di polenta: taglieri (di legno) o paioli di polenta (allora era fatta non con farina di mais, ancora ignota, ma con miglio e grano saraceno).

la scoperta dell’America, avvenuta, quando compone il poema, da non molti anni. 12 alle scarpe: ai piedi. 13 le corna del Caucaso: le vette aguzze della catena del Caucaso. 14 schiena del Marocco: la catena montuosa dell’Atlante.

Prealpi bergamasche, sul versante di Sarnico, da cui si estraeva un marmo adatto a far macine da mulino. 16 pirlare: girare. 17 la biada: cereali in genere. 18 un pelago di guazzetto: un mare di zuppa alla salsa di pomodoro.

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Hic de materia tortarum mille videntur 35 ire redire rates, barchae, grippique ladini, in quibus exercent lazzos et retia Musae, retia salsizzis, vitulique cusita busecchis, piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas. […] O quantum largas opus est slargare ganassas, quando velis tanto ventronem pascere gnocco! Squarzantes aliae pastam, cinquanta lavezzos 55 pampardis videas, grassisque implere lasagnis. Atque altrae, nimio dum brontolat igne padella, stizzones dabanda tirant, sofiantque dedentrum, namque fogo multo saltat brodus extra pignattam. Tandem quaeque suam tendunt compire menestram, 60 unde videre datur fumantes mille caminos, milleque barbottant caldaria picca cadenis. Hic macaronescam pescavi primior artem, hic me pancificum fecit Mafelina poëtam.

Si vedono andare e venire zattere fatte con pasta di torte, barchette e rapidi brigantini19; sopra ci stanno le Muse e usando reti e laccioli – reti cucite con salsicce e busecche20 di vitello – pescano gnocchi, frittole21 e dorate tomacelle22. […] Quanto giova slargare le ganasce, se di tal gnocco vuoi saziare il tuo ventre! Altre tagliano la pasta e riempiono cinquanta laveggi23 di pappardelle e di grasse lasagne. Altre ancora, se la pentola comincia a brontolare per via del gran fuoco, tirano da parte i tizzoni e vi soffiano dentro, perché il brodo, quando il fuoco è troppo, salta fuori dalla pignatta. Insomma, ciascuna bada a cuocere la propria minestra, per cui vedi mille camini che fumano e mille caldaie che borbottano attaccate alle catene. Qui io, per primo, ho pescato l’arte maccheronica, qui Mafelina24 m’incoronò pancifico poeta25.

19 brigantini: agili imbarcazioni a vela. 20 busecche: trippe. È un termine lombardo.

21 frittole: frittelle. È una voce lombarda

22 tomacelle: polpette speziate di fegato di maiale, uova e spezie (specie zafferano, perciò dorate). 23 laveggi: pentoloni.

e in parte emiliana.

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24 Mafelina: una delle Muse pancifiche nominate in precedenza. 25 pancifico poeta: poeta maccheronico (oltre che “ben pasciuto”).


Analisi del testo La rivisitazione maccheronica della protasi del poema epico-cavalleresco Il Baldus si ispira al genere del poema epico-cavalleresco e si apre quindi con la tradizionale protasi dell’argomento, a cui segue l’invocazione alle Muse: ma la solennità propria dell’epica qui è rovesciata e dissacrata in modo beffardo. Nella presentazione dell’eroe epico Baldus, Folengo offre subito un esempio eloquente dei caratteri della poesia maccheronica: la fama altisonante dell’eroe e il suo nome gagliardo incutono terrore persino al baratro infernale. Il v. 4 è un esempio mirabile della contaminazione, della mescolanza tra latino e volgare che caratterizza la lingua del poema: lo stile letterario dell’autore fa stridere il ritmo dell’esametro virgiliano, enfatizzato dalle allitterazioni, con il sintagma triviale «sibi cagat adossum».

L’invocazione Nel proemio, Folengo non mette in primo piano, come di consueto, la figura e le gesta dell’eroe che si appresta a cantare, ma sé stesso e le sue Muse: gli preme, infatti, connotare agli occhi del lettore la propria poesia come antitetica all’idealizzazione classicistica del primo Cinquecento, i cui modi lirici sono identificati polemicamente come «le chiacchiere di Parnaso». Le Muse della tradizione sono minchione e persino Febo (Apollo) è profanato, essendo rappresentato nell’atto non di suonare in modo sublime la sua lira, ma di strimpellare una chitarrina. Il poeta della poesia maccheronica chiede alle proprie Muse un altro tipo di ispirazione, concretizzata nell’immagine di sé stesso imboccato di maccheroni (da cui la sua poesia deriva il nome). Le Muse maccheroniche sono pancifiche, così come quella di Folengo vuole essere una “poesia di pancia” (lui stesso si autodefinisce «pancificus poëta», v. 63), che non solo non nega, ma anzi esalta la corporeità e i suoi diritti. Anche i nomi popolari attribuiti alle Muse maccheroniche hanno un significato polemico: attingono infatti alla tradizione popolare e ad aree geografiche culturalmente marginali, estranee al processo di fiorentinizzazione della lingua letteraria.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il proemio del Baldus (max 8 righe). COMPRENSIONE 2. Che cosa fanno le Muse di Folengo perché il poeta intoni il proprio canto maccheronico? Che cosa avrebbero fatto, invece, le Muse della tradizione? ANALISI 3. Descrivi con parole tue il luogo dove vivono le pancifiche Muse: che cosa lo caratterizza? STILE 4. Spiega il significato di queste metafore in rapporto al contesto: grasse Camene, le chiacchiere di Parnaso, la mia gondola, maccheronica (arte).

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Quale immagine della propria poesia il poeta vuole dare attraverso la particolare protasi e l’invocazione alle Muse che aprono il poema? Quale obiettivo si propone il colto umanista Folengo? Quale motivazione lo spinge? Argomenta (max 8-10 righe).

online T12 Teofilo Folengo Un contadino… poco bucolico Baldus IV, vv. 180-197

La produzione anticlassicista 2 625


5 Un grande modello europeo: Gargantua e Pantagruele di Rabelais La biografia François Rabelais nasce, probabilmente nel 1494, a Chinon, nella regione della Turenna. Verso il 1520 diventa monaco francescano e vive in conventi presso Angers e Poitou (in seguito passerà all’ordine benedettino). Dotto umanista, conosce perfettamente il greco e il latino e per le sue qualità di letterato è ammirato e protetto da importanti ecclesiastici. Intorno al 1526 intraprende gli studi di medicina a Parigi e si interessa alla medicina greca antica; esercita come medico in varie città di Francia e soggiorna a più riprese in Italia. Nel 1532 con uno pseudonimo pubblica Pantagruele, prima parte del romanzo Gargantua e Pantagruele in cinque libri (l’ultimo dei quali pubblicato postumo); il quarto libro appare nel 1552 a nome dell’autore. Attaccato dalla censura, l’anno dopo il romanzo è condannato per empietà ed eresia dalla facoltà di teologia della Sorbona, ma lo scrittore non ha conseguenze personali perché gode della protezione di alte autorità ecclesiastiche e civili. Rabelais muore a Parigi nel 1553. Un romanzo di successo Il Gargantua e Pantagruele di Rabelais (considerato il maggior esponente del Rinascimento francese) si iscrive nell’area dell’anticlassicismo, pur essendo nutrito profondamente dei valori dell’Umanesimo. Lo spunto fondamentale viene dalla lettura di un romanzo popolaresco, stampato anonimo a Lione, in cui si narravano le gesta del gigante Gargantua. Rabelais decide di continuare la storia e scrive le gesta del figlio di Gargantua, Pantagruele, pubblicandole nel 1532. Lo straordinario successo dell’opera lo induce poi a riscrivere anche la storia di Gargantua preponendola, nella struttura definitiva del romanzo, a quella di Pantagruele. Ne risulta un’opera di massicce proporzioni in cinque libri.

Anonimo, Ritratto di François Rabelais, XVI sec. (Versailles, Musée national du château).

La trama Il primo libro è dedicato alla figura del gigante Gargantua. La sua educazione, prima tradizionale, è poi invece basata sui princìpi educativi propri dell’Umanesimo (e condivisi dall’autore, che ne approfitta per polemizzare contro l’oscurantismo miope della pedagogia e della cultura medievale). Minacciato dal malvagio re Picrocole, Gargantua riesce a respingerne l’aggressione grazie a fra’ Giovanni, in onore del quale fa costruire l’abbazia di Thelème: in essa vigono la pace e l’ordine, grazie alla possibilità per ciascuno di seguire liberamente le proprie inclinazioni naturali. Nel secondo libro entra in scena Pantagruele, anch’egli un gigante, figlio di Gargantua e di Badebec, che muore dandolo alla luce. È inviato da Gargantua a Parigi per essere educato secondo i princìpi della nuova pedagogia umanistica (esposti dal padre in una lettera che costituisce uno dei passi più noti del romanzo). A Parigi Pantagruele incontra Panurge, allegro e astuto truffatore (che ricorda i personaggi di Margutte del Pulci e di Cingar del Baldus di Folengo), il quale lo accompagna nelle sue avventure. Nel terzo libro Panurge, preso dal desiderio di sposarsi, cerca di capire se sia il caso o no di prender moglie. Per scoprirlo consulta la Sibilla, un mago, un medico, un filosofo, ma le risposte rimangono enigmatiche e insufficienti. Decide allora di partire con Pantagruele per consultare l’oracolo della Divina Bottiglia.

626 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


Nel quarto libro i due compagni viaggiando per mare arrivano nei più strani paesi: la descrizione dei loro abitanti in realtà è occasione per Rabelais per introdurre una satira verso le istituzioni e gli ordinamenti religiosi del tempo, dalla critica alla giustizia, alla Chiesa romana, alla Riforma e, più in generale, alla stupidità umana (nell’episodio dei montoni di Panurge). L’unico celebrato è Messer Gaster (il Ventre). Nel quinto libro le peregrinazioni dei due continuano fino a raggiungere la meta: la risposta della Divina Bottiglia al loro quesito, per bocca della sacerdotessa Bacbuc, è semplicemente: «Trink!» (“Bevi!”, in tedesco): un invito ad abbondonarsi all’ebbrezza del vino, rinunciando a complicate elucubrazioni.

online

Interpretazioni critiche Primo Levi Rabelais uomo delle contraddizioni

«Rider soprattutto è cosa umana» Nel breve appello che apre l’opera (➜ T13 OL), Rabelais invita i lettori a liberarsi dalle passioni e ad accogliere il suo romanzo per quello che è, senza scandalizzarsi: un’opera scritta per far ridere, poiché proprio la capacità di ridere è distintiva della specie umana. Nel prologo al IV libro, Rabelais, che era medico oltre che umanista e scrittore, parla delle virtù terapeutiche del riso (oggi pienamente confermate dagli studi scientifici) e si dichiara sano grazie al “pantagruelismo”, una filosofia di vita che associa la lietezza di spirito al disprezzo delle vicende della sorte. Al di là di queste dichiarazioni di principio, Rabelais fa del riso lo strumento per un confronto consapevole e polemico con la cultura e la società del suo tempo. La sua posizione è critica verso ogni dogmatismo e pedanteria in campo culturale, verso ogni posizione ideologica retriva e immobilistica: in particolare, la sua visione del mondo è ispirata al rifiuto dell’ascetismo e dell’idealismo in nome dei diritti della natura. Una visione che ha le sue radici nell’Umanesimo; come Erasmo, anche Rabelais è però ben consapevole del pericolo che la cultura umanistica possa cadere nel culto formalistico della retorica, nell’erudizione fine a sé stessa e non manca nel suo romanzo anche la satira di un certo Umanesimo saccente e pedante. La dimensione “carnevalesca” Rabelais valorizza la dimensione corporea e, più in generale, materiale (Primo Levi ha usato, per definire il romanzo, l’espressione «epica della carne soddisfatta»). L’universo dell’opera è dominato dai bisogni naturali (mangiare, bere, fare sesso, senza escludere le funzioni fisiologiche corporali) e il

Gustave Doré, illustrazione per il Gargantua et Pantagruel, 1854.

La produzione anticlassicista 2 627


codice metaforico privilegiato dall’autore, anche quando parla d’altro (ad esempio quando si riferisce a battaglie) è quello gastronomico (➜ T14 OL). La preminenza del “basso corporeo” nel lavoro di Rabelais è stata messa in luce dal critico russo Michail Bachtin (1895-1975): in un celebre saggio del 1965 (L’opera di Rabelais e la cultura popolare) il critico ricollega il primato della corporeità evidente nel capolavoro francese, come anche il rovesciamento di ogni gerarchia (➜ T15 ) e la parodia irriverente di temi e linguaggi alti, alla dimensione “carnevalesca” presente nella cultura popolare (e che si esprime soprattutto, ma non solo, nel «carnevale, quando tutto è lecito, e regnano la stravaganza e la trasgressione dei canoni e ruoli sociali»). In Rabelais gli aspetti “carnevaleschi”, la ricorrente parodia di temi e personaggi, assumono un significato polemico nei confronti dei modelli della cultura ufficiale. Il plurilinguismo L’inventività dello scrittore si esprime pienamente nel linguaggio: la lingua del libro è forse l’esempio più emblematico di “plurilinguismo”. Vi si leggono (e spesso si intersecano) la lingua colta degli umanisti, il linguaggio popolare, le lingue classiche accanto ai volgari europei (come lo spagnolo o l’italiano), ma non manca l’apporto delle lingue settoriali afferenti ai campi più diversi (dalla medicina all’architettura, alle scienze naturali); senza escludere, poi, i non pochi neologismi, impiegati soprattutto in funzione comica. Una vera e propria “babele linguistica” che corrisponde a un’inventività, come si è detto, irrefrenabile e a una visione del mondo (e della letteratura) contrapposta alla stilizzazione e ricomposizione armonica delle contraddizioni che erano proprie del classicismo rinascimentale.

Gargantua e Pantagruele GENERE

romanzo

STRUTTURA

cinque libri

CONTENUTO

la storia e le gesta di Pantagruele, figlio del gigante Gargantua

SCOPO

far ridere e divertire

LINGUA

plurilinguismo

online

online

T13 François Rabelais

T14 François Rabelais La poetica dell’eccesso Gargantua e Pantagruele II, XXVIII

L’appello ai lettori: la difesa del riso Gargantua e Pantagruele

Fissare i concetti La produzione anticlassicista 1. 2. 3. 4. 5.

Che cosa si intende con anticlassicismo? Come è concepita la Vita di Cellini? Di che cosa parlano i due dialoghi che compongono le Sei giornate di Pietro Aretino? Quale lingua utilizza Folengo nel Baldus? Quale scopo si prefigge Rabelais nel redigere Gargantua e Pantagruele?

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François Rabelais

T15

L’aldilà come luogo del “rovesciamento carnevalesco” Gargantua e Pantagruele, II, xxx

F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, trad. di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 2004

In seguito a una cruenta battaglia, uno dei compagni di Pantagruele, Epistemone, muore. Tutti lo piangono, ma Panurge, un astuto truffatore compagno di avventure di Pantagruele, promette di resuscitarlo ed effettivamente Epistemone torna in vita. Il suo resoconto di quanto ha visto nel regno dei morti offre a Rabelais l’occasione per una serie iperbolica di beffardi “rovesciamenti” attraverso l’evocazione della condizione di personaggi importanti appartenenti a diverse epoche storiche (compresi alcuni personaggi letterari), mescolati dalla mordace fantasia dello scrittore.

Di colpo Epistemone cominciò a respirare, poi ad aprir gli occhi, poi a sbadigliare, poi a sternutire, poi fece un bel peto grosso da famiglia. E Panurge disse: – Ormai è certamente guarito. E gli diè da bere un bicchierone d’uno scellerato vin bianco, con un crostino zuc5 cherato. In tal modo Epistemone fu abilmente guarito, salvo che rimase giù di voce più di tre settimane, ed ebbe una tosse secca, di cui non riuscì a guarire se non a forza di bere. E subito cominciò a parlare, dicendo che aveva visto i diavoli, e parlato con Lucifero a tu per tu, e fatto allegria in inferno, e laggiù pei Campi Elisi1. E assicurava 10 davanti a tutti che i diavoli erano allegri compagni. In quanto ai dannati, disse che gli spiaceva assai che Panurge lo avesse richiamato in vita così svelto: – Perché mi divertivo molto, – aggiunse, – a vederli. – Ma come? – domandò Pantagruele. – Sì, – disse Epistemone. – Non li trattano poi così male come potreste credere. 15 Solo che la loro condizione appare curiosamente mutata. Vidi infatti2 Alessandro il Grande3 obbligato a rammendare un mucchio di vecchie calzette, che si guadagnava così la sua misera vita. E similmente: Serse4 andava in giro a vender la mostarda; Romolo faceva il salaiolo; 20 Numa il ferravecchi; Tarquinio, taccagno5; Pisone6, contadino; Silla7, remaiolo; Ciro era vaccaro; 25 Temistocle8, vetraio;

1 Campi Elisi: nella mitologia classica, la dimora degli uomini buoni dopo la morte. 2 Vidi infatti: inizia qui un lungo, disordinato elenco di personaggi illustri che nell’aldilà sono condannati a ruoli insignificanti o umilissimi. 3 Alessandro il Grande: s’inizia con uno dei più grandi condottieri della storia, il re macedone Alessandro Magno (356-323

a.C.), ridotto a rammendare calzette. 4 Serse: Serse, come Ciro, Artaserse e Dario nominati in seguito, sono grandi re persiani (sec. VI-V a.C.). Nell’aldilà il primo vende mostarda, Ciro custodisce il bestiame (vaccaro), Artaserse fabbrica corde, Dario addirittura vuota le latrine (il vuotacessi). 5 Romolo... taccagno: nell’elenco seguono tre leggendari re di Roma:

il fondatore di Roma vende sale, Numa commercia in rottami di ferro, mentre Tarquinio si segnala per la spilorceria. 6 Pisone: Gaio Calpurnio Pisone (I sec. d.C.), nobile romano che capeggiò la fallita rivolta contro Nerone. 7 Silla: Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.), noto uomo politico e generale romano. 8 Temistocle: generale ateniese (528 ca.-462 ca. a.C.).

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Epaminonda9, faceva specchi; Bruto e Cassio10, erano agrimensori; Demostene, vignaiolo; Cicerone, fuochista11; 30 Fabio12 infilava i grani del rosario; Artaserse faceva il cordaio; Enea, il mugnaio; Achille, il tignoso; Agamennone, il leccapiatti; 35 Ulisse, il falciatore; Nestore, lo sterratore13; Dario, il vuotacessi; [...] Lancialotto del Lago14 scorticava i cavalli morti; e tutti i cavalieri della Tavola Ro40 tonda erano poveracci ridotti a vivere a giornata, penando al remo su e giù per le riviere di Cocito, Flegetonte, Stige, Acheronte e Lete15, al servizio dei signori diavoli quando volevano passarsela sull’acqua, come le battelliere di Lione o i gondolieri di Venezia; ma per ogni traghetto hanno per tutto compenso una sberla e, verso sera, qualche pezzo di pan muffito. 45 [...] «Così, tutti quelli che erano stati gran signori quassù in questo mondo, si guadagnavano una vita da poveri vagabondi in quell’altro. Mentre al contrario, i filosofi, e tutti quelli che avevan dovuto lottare con la miseria quassù, toccava a loro stavolta fare i gran signori. 50 «Ho visto Diogene16 pavoneggiarsi in gran magnificenza, con un gran manto di porpora, e uno scettro in mano; e strapazzava Alessandro il Grande quando non gli aveva rammendato bene le calze, e lo pagava a bastonate. «Ho visto Epitteto17 vestito elegantemente alla francese, sotto una bella pergola, con un bel numero di damigelle intorno, che scherzava, danzava, insomma faceva 55 allegria, e aveva vicino un bel monte di scudi. E a quella pergola stava attaccato un cartello, con su scritta la sua divisa18: Saltare, ballare, e giocare, E bere vin bianco e vermiglio; E non aver altro da fare, 60 Che ridere e scudi contare.

9 Epaminonda: uomo politico e generale tebano (418 ca.-362 ca. a.C.). 10 Bruto e Cassio: i capi della congiura contro Giulio Cesare, qui ridotti al ruolo di misuratori di terreni (agrimensori). 11 Demostene... fuochista: sono nominati, uno di seguito all’altro, i due maggiori oratori dell’antichità classica: il greco Demostene (384-322 a.C.) e il romano Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.). 12 Fabio: non è possibile nessuna ipotesi certa. Potrebbe essere Quinto Fabio Mas-

simo (morto nel 203 a.C.), console cinque volte, detto il Temporeggiatore per aver adottato una tattica di logoramento per contrastare Annibale. 13 Enea… lo sterratore: il protagonista dell’Eneide e vari personaggi dei poemi omerici; il tignoso “malato di rogna”; sterratore “chi scava e spiana la terra” per costruzioni, specie stradali. 14 Lancialotto del Lago: Lancillotto del Lago, uno dei cavalieri della Tavola Rotonda e del ciclo arturiano.

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15 Cocito... Lete: i fiumi infernali su cui i paladini erranti sono costretti a traghettare i diavoli. 16 Diogene: filosofo greco (413-323 ca. a.C.), fondatore della scuola di pensiero cinica. 17 Epitteto: filosofo greco (ca. 50-138 d.C.) seguace della scuola stoica. La sua austera visione viene qui “rovesciata” in una dichiarata adesione ai piaceri della vita. 18 divisa: motto, breve frase.


«Non appena mi vide, mi invitò a bere con lui cortesemente, cosa che io accettai volentieri; e ci mettemmo a sciroppare19 come teologi. Intanto venne Ciro a chiedergli in carità un ventino, per l’amor di Mercurio, per comprarsi un po’ di cipolla da far cena. Ma Epitteto gli disse: “Niente, niente, io non dò mai spiccioli: prendi, 65 straccione, eccoti uno scudo, e cerca di mantenerti onesto”. Ciro era tutto contento d’aver fatto un cosi bel colpo; ma quegli altri furfanti di re, che sono laggiù, come Alessandro, Dario, ecc., lo svaligiarono poi di notte. 19 sciroppare: il verbo (che alla lettera vale “fare o bere bevande

zuccherose”, e anche “conservare frutta in uno sciroppo zuccherato”)

qui allude alla conversazione amabile che si svolge tra i due.

Analisi del testo Un inferno dominato dal riso “carnevalesco” L’episodio della resurrezione di Epistemone e del suo ritorno dall’aldilà costituisce un esempio particolarmente significativo delle più generali caratteristiche dell’opera di Rabelais. Colpisce innanzitutto lo spirito dissacrante e parodico che informa l’episodio, tenuto conto che il modello più immediato è l’episodio evangelico della resurrezione di Lazzaro. Un tale spirito è evidente già nelle prime reazioni del resuscitato, che sono esclusivamente fisiologiche, e anzi basso corporee: dal primo respiro con cui riprende a vivere al gigantesco peto che, a detta di Panurge, ne testimonia inequivocabilmente la ritrovata salute. Tornato dall’aldilà, Epistemone non ha edificanti principi da comunicare, né alcuna informazione da trasmettere ai vivi che abbia a che fare con la dimensione religiosa: l’aldilà, o meglio l’inferno che ha visitato, è un mondo concreto, del tutto laico, in cui domina la dimensione del riso, vero principio organizzatore dell’universo poetico di Rabelais.

L’inferno come “mondo capovolto” L’aspetto dominante nell’inferno rabelaisiano è il rovesciamento della condizione terrena: in una prospettiva dichiaratamente umoristica, i grandi della storia sono costretti a umili occupazioni (l’esempio forse più memorabile è quello del grande re persiano Dario divenuto «vuotacessi»). Lo scrittore enfatizza il principio del “rovesciamento” attraverso la figura retorica, portata all’eccesso, dell’enumerazione: in un lungo elenco compaiono senza alcun ordine, ma anzi in un disordine voluto, figure delle più varie epoche, grandi re e uomini politici, ma non mancano figure leggendarie e personaggi letterari, appartenenti all’epica classica, come Enea e Ulisse, o al romanzo cavalleresco medievale, come Lancillotto e i cavalieri della Tavola Rotonda. Questi ultimi sono costretti a traghettare i diavoli attraverso i fiumi infernali, ricevendone in cambio solo sberle. Se i grandi e gli eroi sono ridotti a una miserrima condizione, i filosofi, al contrario, che hanno sempre dovuto soffrire la miseria e sono stati spesso bistrattati per le loro idee, si trovano nell’inferno in una posizione privilegiata e sono serviti e omaggiati dai grandi: grottesca è l’immagine che vede Alessandro Magno rammendare i calzini all’ex povero filosofo Diogene, o del re persiano Ciro che chiede l’elemosina al filosofo Epitteto, ne riceve uno scudo per essere poi derubato da «quegli altri furfanti di re».

L’inferno come caotico “guazzabuglio” Dalla lettura complessiva del testo proposto si ricava un’immagine dell’inferno come antiordine: all’opposto, quindi, dell’inferno dantesco; se quest’ultimo è strutturato su rigide distinzioni e precise gerarchie in rapporto al nesso colpa-pena (e alla rigorosa visione teologica del poeta), al contrario l’inferno di Rabelais è un caotico guazzabuglio, in cui non esiste alcun principio organizzatore e nessuna divisione e distinzione fra i dannati. Scrive Bachtin a proposito del carnevale nelle culture popolari: «nel carnevale tutti erano considerati uguali, e nella piazza carnevalesca regnava la forma particolare del contatto familiare e libero fra le persone, separate nella vita normale [...] dalle barriere insormontabili della loro condizione, dei loro beni, del loro lavoro, della loro età e della loro situazione familiare. Sullo sfondo dell’eccezionale gerarchizzazione del regime feudale medievale [...] questo contatto libero e familiare era sentito molto acutamente e costituiva una parte essenziale

La produzione anticlassicista 2 631


della percezione carnevalesca del mondo. Era come se l’individuo fosse dotato di una seconda vita che gli permetteva di avere rapporti nuovi, puramente umani, con i suoi simili [...] Questa eliminazione temporanea, ideale e reale, dei rapporti gerarchici fra le persone, creava nella piazza carnevalesca un tipo speciale di comunicazione, impensabile in tempi normali. Si assisteva all’elaborazione di forme specifiche di linguaggio e di gesti della pubblica piazza, aperte e schiette, che abolivano ogni distanza fra gli individui in comunicazione, libere dalle regole correnti (non carnevalesche) dell’etichetta e della decenza». Ed è quanto accade nell’inferno di Rabelais, sorta di “piazza carnevalesca”.

Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra Carnevale e Quaresima, olio su tavola, 1559 (Vienna, Kunsthistorisches Museum).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del racconto di Epistemone precisandone il contesto (max 10 righe). TECNICA NARRATIVA 2. Di chi è la voce che descrive l’inferno? COMPRENSIONE 3. In quale modo si attua il principio del “rovesciamento” per i filosofi? E in particolare per Epitteto, filosofo della scuola stoica? ANALISI 4. Spiega in che modo Rabelais, attraverso la propria opera, critichi i saperi tradizionali e contestualmente anche la società del tempo. STILE 5. Quali espedienti retorici utilizza l’autore per ottenere l’effetto della parodia: enumerazione, climax, ossimoro o anafora?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. Nel brano proposto, come in tutta la propria opera, Rabelais persegue primariamente uno scopo ludico, ma non esclude l’implicita denuncia dei mali del proprio tempo. Individua e presenta oralmente (max 3 min) gli aspetti della cultura tradizionale e della società presi di mira nell’episodio analizzato. SCRITTURA 7. Leggi attentamente il breve passo di Bachtin riportato nell’analisi del testo e cerca di spiegare perché il mondo infernale costruito da Rabelais risponda alla categoria del “carnevalesco” (max 15 righe).

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Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo

Sintesi con audiolettura

1 La visione classicistica della letteratura

I principi chiave del classicismo Per tutto il Rinascimento vige il principio dell’imitazione dei classici, considerati modelli assoluti di umanità e perfezione stilistica. Il riconoscimento di questa eccellenza stimola il desiderio nei più grandi scrittori del Quattro-Cinquecento di emulare gli autori del passato. Il classicismo comporta innanzitutto la ricorrente presenza del repertorio mitologico e di temi e motivi della letteratura classica. Inoltre sono riprese le forme del teatro classico e il genere idillico-pastorale, congeniale al gusto raffinato delle corti e all’edonismo rinascimentale. Si tende poi, in genere, a una rappresentazione idealizzante e nobilitante della realtà e a ricercare, attraverso il labor limae, uno stile armonico e perfetto. L’influsso della Poetica di Aristotele, infine, spinge a una riflessione teorica sulla letteratura e in particolare sulla tragedia, che conduce all’elaborazione di norme prescrittive associate a uno stile elitario. Lorenzo de’ Medici Lorenzo de’ Medici (1449-1492) è un celeberrimo uomo politico ma anche poeta e cultore d’arte, influenzato dal platonismo. Le sue opere, tra le quali si ricordano i Canti carnascialeschi e le Selve d’amore, popolano una produzione assai ricca e diversa, prodotto di un amante della sperimentazione. Angelo Poliziano e l’ideale neoplatonico della bellezza Umanista, filologo, poeta dotto e raffinato, Angelo Poliziano (1454-1494) opera a Firenze, alla corte dei Medici. All’ambiente della corte medicea è rivolto il poemetto encomiastico Stanze per la giostra, ovvero strofe per il torneo: sotto le vesti del protagonista Iulo, Poliziano celebra Giuliano de’ Medici, vincitore di un torneo indetto da Lorenzo il Magnifico nel 1475. Il poemetto, rimasto incompiuto per l’assassinio di Giuliano, è denso di rimandi classicistici e classico è l’ideale della bellezza che anima il testo, rivisto alla luce del neoplatonismo dominante nella cultura fiorentina del tempo e una lingua assai ricca. Con la Fabula di Orfeo, scritta per la corte dei Gonzaga, Poliziano sperimenta anche un teatro laico a soggetto mitologico. Jacopo Sannazaro e il mito dell’Arcadia Con il romanzo pastorale Arcadia (1504) Jacopo Sannazaro (1457-1530), attivo nella Napoli aragonese, scrive un’opera di genere bucolico di risonanza europea, immettendo nella letteratura in volgare il mito classico dell’Arcadia, che avrà grandissima fortuna. L’opera ha in parte carattere autobiografico e mescola realtà e finzione. Il paesaggio dell’Arcadia, un’arida regione della Grecia già trasfigurata nel mondo antico in luogo mitico, in cui l’uomo vive in pace e in armonia con la natura, viene riportato in auge da questo prosimetrum e attraversa la letteratura italiana fino al Settecento, dimostrando un sempre maggiore isolamento degli intellettuali di corte dalla società. La civiltà del trattato L’età umanistico-rinascimentale è il periodo di massimo successo del trattato, che nel Quattrocento è dedicato alle tematiche legate alla visione antropocentrica mentre nel Cinquecento discute di modelli di comportamento. Nello stesso periodo, centrale è anche la rappresentazione idealizzante dell’amore. L’intellettuale più autorevole dell’epoca sull’argomento è il veneziano Pietro Bembo (1470-1547), autore delle Rime alla maniera di Petrarca, di cui aveva curato per Manuzio un’edizione filologica del Canzoniere. Particolare Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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influenza esercita il suo trattato Gli Asolani, dialogo in tre libri in cui si mettono a confronto diverse concezioni dell’amore, propendendo per una sua versione spiritualizzata. Nel Rinascimento abbondano i trattati di buon comportamento, inteso non in senso morale ma sociale, in rapporto ai bisogni relazionali e al ruolo ricoperto dagli individui all’interno della corte. Ha risonanza europea Il libro del Cortegiano (1528) di Baldesar Castiglione (1478-1529), manuale di comportamento che diffonde in Europa l’immagine della corte italiana come modello di civiltà. Ambientato alla corte di Urbino, il Cortegiano si propone di delineare la figura del cortigiano perfetto. Il libro tratta anche temi del dibattito culturale coevo, quali la questione della lingua, il comportamento delle donne e l’amore platonico. Ancor più celebre è il Galateo (1558) di Giovanni Della Casa (1503-1556), che si rivolge a un pubblico più ampio e ha obiettivi più precisi e limitati: insegnare le “buone maniere”.

2 La produzione anticlassicista

Il classicismo: un modello dominante, ma non esclusivo Non mancano, nel Rinascimento, autori che non si riconoscono nel modello estetico dominante, ispirato all’idealizzazione e al classicismo: tali manifestazioni oggi vengono riunite sotto l’etichetta di “antirinascimento” o “anticlassicismo” e sono caratterizzate dal plurilinguismo e da registri iperespressivi. La Vita di Benvenuto Cellini Il fiorentino Benvenuto Cellini (1500-1571), celebre orafo e scultore, nella sua Vita, opera autobiografica e autocelebrativa, sceglie una prosa mossa e vivace con inserti di parlato per creare ritratti e rappresentazioni antidealizzanti della realtà che lo circonda. Un “irregolare”: Pietro Aretino Pietro Aretino (1492-1556), spirito trasgressivo e spregiudicato, sperimenta diversi generi letterari e in uno dei suoi lavori più celebri, Sei giornate, immagina che una prostituta istruisca la figlia sull’“arte puttanesca”, in evidente polemica con i trattati idealizzanti sull’amor platonico. Un poema anticlassicistico: il Baldus di Teofilo Folengo Teofilo Folengo (1491-1544) scrive l’opera più significativa della linea anticlassicistica: il Baldus, poema eroicomico e grottesco in esametri e in lingua maccheronica, che mescola latino ed elementi lessicali e sintattici di dialetti del Nord Italia con effetti spesso esilaranti. Un grande modello europeo: Gargantua e Pantagruele di Rabelais François Rabelais (1494?1553), medico e umanista, scrive il capolavoro dell’anticlassicismo in ambito europeo con il suo monumentale Gargantua e Pantagruele. Il romanzo, mediante un plurilinguismo parodico dei linguaggi alti, attacca e irride la pedanteria, il dogmatismo della cultura ufficiale, l’ascetismo e l’idealismo, rivendicando i diritti del riso e del corpo.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Sintetizza in una presentazione digitale i significati che assume il classicismo umanisticorinascimentale sul piano della visione del mondo e delle scelte artistico-culturali.

Esposizione orale

2. Illustra oralmente (max 2 minuti) le ragioni della fortuna, nell’età umanistico-rinascimentale, del mito dell’età dell’oro.

Scrittura argomentativa

3. Rifletti sulla ricorrente presenza nel Baldus delle tematiche legate al cibo e alla fisicità e, se ne conosci, in altre opere coeve; poi elabora un testo espositivo-argomentativo sulle modalità espressive che le caratterizzano e sulle relazioni con il contesto socio-culturale.

Scrittura creativa

4. Seguendo il modello di Rabelais, prova tu a costruire un inferno con figure dell’attualità o della storia recente che rispecchi i principi del “rovesciamento” e della “carnevalizzazione” propri dell’universo rabelaisiano.

634 Quattrocento e Cinquecento 10 Classicismo e anticlassicismo


Quattrocento e cinquecento CAPITOLO

11 Il petrarchismo e la poesia femminile

Nel corso del Cinquecento si afferma saldamente in Italia un modello poetico ispirato all’imitazione del Canzoniere petrarchesco, che creò un codice lirico comune tra i poeti, destinato a essere esportato anche nella cultura europea. La responsabilità principale nell’imposizione del petrarchismo come indiscutibile modello egemonico nella poesia italiana si deve a Pietro Bembo, nella veste sia di teorico della lingua (con le Prose della volgar lingua, 1525), sia di trattatista dell’amore platonico (con Gli Asolani), sia di poeta lirico (con le sue Rime). Nella massa di poeti che poetarono “alla maniera di Petrarca” si distaccano, per qualche apporto originale, alcune singole voci poetiche: la più interessante è quella di Giovanni Della Casa. Desta non pochi motivi di interesse la presenza, all’interno del petrarchismo, di numerose poetesse che testimonia il ruolo attivo delle scrittrici.

1 Ladelconsacrazione Canzoniere a modello della poesia lirica

2 Le poetesse 635 635


1

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 Il petrarchismo Già fra Trecento e Quattrocento Petrarca rappresenta un modello per i poeti (come Sannazaro e Boiardo); ma è nel Cinquecento che l’imitazione del Canzoniere diventa un vero e proprio fatto di costume, dando vita al fenomeno del petrarchismo. Non solo in tutta Italia (da Venezia alla Toscana, da Roma a Napoli), ma anche in Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo si riprendono in poesia temi e situazioni ricorrenti nel Canzoniere, che entrano così a far parte stabilmente dell’immaginario europeo, costituendo un repertorio poetico comune. Lo stile armonico ed elegante del Canzoniere si accordava al gusto estetico del Rinascimento, ma anche sul piano tematico l’opera di Petrarca rispondeva alle esigenze del tempo: l’inquieta ricerca da parte di Petrarca di superare una dimensione sensuale dell’amore si accordava con la valorizzazione dell’amore spirituale propria del movimento neoplatonico. La fortuna del Canzoniere innesca un’esplosione della lirica, che diventa il genere più di moda nel sistema letterario del Cinquecento: quasi tutti gli intellettuali compongono poesie nelle più diverse occasioni e la lirica diventa una sorta di rito laico che conferisce prestigio e occasioni di promozione sociale a coloro che vi partecipano. Il ruolo chiave di Pietro Bembo Nell’affermazione del culto di Petrarca ha un ruolo primario Pietro Bembo (1470-1547), uno degli intellettuali più importanti della cultura rinascimentale. Dopo aver scoperto il Codice Vaticano 3195 (che contiene l’ultima redazione del Canzoniere), Bembo cura nel 1501 una fondamentale edizione del Canzoniere presso il più importante editore del tempo, il veneziano Aldo Manuzio. Inoltre, con le Prose della volgar lingua (1525), con cui interviene sulla discussa questione della lingua (➜SCENARI, PAG. 563), la lingua del Canzoniere è elevata a modello assoluto per la poesia: una scelta che, data la fama indiscussa del ruolo del Bembo tra i letterati italiani, condizionerà per secoli la poesia italiana, vincolandola all’imitazione più o meno diretta di Petrarca. Infine, con le sue Rime (pubblicate nel 1530) Pietro Bembo offre un esempio concreto, praticabile da tutti i letterati, dell’imitazione di Petrarca (➜ T1a ), gettando così le basi del petrarchismo. Una fortunata scelta editoriale: il Canzoniere in formato tascabile L’editore umanista Manuzio ebbe l’idea di pubblicare l’opera di Petrarca in un volumetto di formato maneggevole (un tascabile, diremmo oggi), una scelta editoriale che incrementò il numero dei lettori e influì sulle modalità stesse di lettura del Canzoniere: infatti, mentre i precedenti formati erano adatti ai leggii delle biblioteche e vincolavano rigidamente la lettura a determinati luoghi, tempi e specifiche condizioni, i “petrarchini”, come furono chiamati, permettevano una lettura privata e

636 Quattrocento e Cinquecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile


personalizzata a seconda delle proprie esigenze. Di fatto i petrarchini consentirono a molti più lettori di accostarsi al Canzoniere, che ben presto divenne una lettura obbligata fra le persone colte. Leggere Petrarca diventa una vera e propria moda, rispecchiata anche dalla pittura del tempo: dame e gentiluomini si fanno ritrarre con il loro inseparabile petrarchino, simbolo tangibile di una condizione al contempo sociale e intellettuale. Luci e ombre del petrarchismo italiano Indubbiamente il petrarchismo contribuì a creare nella poesia italiana un codice lirico comune. D’altra parte, proprio la tendenza, derivata dall’imitazione di Petrarca, a una raffinata astrazione, e l’estromissione dalla poesia “alta” di ogni dato della realtà e di argomenti e stilemi ritenuti “indegni” del codice lirico, allontana inevitabilmente la poesia dalla vita vera, immobilizzandola in forme stereotipate, che tendono a replicarsi nel tempo.

I petrarchisti Nello scenario affollato del petrarchismo italiano non sono molte le personalità poetiche capaci di una loro originalità e autonomia rispetto al modello. Tra le più significative possono essere ricordati Galeazzo di Tàrsia, Michelangelo Buonarroti, e soprattutto Giovanni Della Casa.

IMMAGINE INTERATTIVA

Andrea del Sarto, Dama col petrarchino, olio su tavola, 1528 (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

Agnolo Bronzino, Ritratto di Laura Battiferri, olio su tavola, 1558 ca. (Firenze, Palazzo Vecchio).

La donna, elegantemente vestita e ornata di preziosi gioielli, appoggia il braccio su una poltrona di legno intarsiato: ogni dettaglio esprime la raffinatezza di un’alta dama di corte, e il Canzoniere ne è il necessario complemento. Sullo sfondo scuro, reso brillante dai riflessi dell’ampio panneggio dell’abito blu, spiccano in piena luce il volto, gli avambracci e le mani, che fanno convergere l’attenzione sul libro aperto, in cui si leggono i due sonetti 153 e 154 di Petrarca. Di recente si è ricostruito che si tratta dell’edizione a stampa del Canzoniere edita a Firenze nel 1522.

La gentildonna è vestita in modo assai sobrio e austero, e dipinta in modo da esaltarne il profilo aquilino, indice di una personalità volitiva e di un’attitudine intellettuale (era infatti una donna colta, una poetessa). Laura non guarda verso l’osservatore, ma indica i sonetti del Canzoniere (64 e 240), da cui è possibile ricavare la chiave della sua personalità severa e sdegnosa. Il petrarchino qui raffigurato in realtà è un testo manoscritto (in quanto i due sonetti non sono contigui in nessuna edizione a stampa del Canzoniere).

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 637


Pietro Bembo Le Rime di Pietro Bembo rappresentano il versante “normativo” della lirica che si ispira a Petrarca. Volutamente Bembo non ricerca l’originalità, ma propone un modello rigoroso di imitazione del grande poeta trecentesco (➜ T1a ) rivolto agli altri poeti: un’imitazione che non riguarda solo l’armonia dello stile, o la riproduzione di singoli stilemi ricorrenti in Petrarca, ma che comporta anche l’adesione all’itinerario spirituale tracciato nel Canzoniere.

Pietro Bembo ritratto come priore dei Cavalieri Ospitalieri, 1537 ca. (Madrid, Museo del Prado).

Giovanni Della Casa Particolarmente importanti, anche per la suggestione che eserciteranno nel tempo, sono le rime di Giovanni Della Casa (1503-1556), l’autore del celebre trattato Galateo (➜ C10). Le sue composizioni più personali sono caratterizzate da toni malinconici, dalla consapevolezza dell’avanzare della vecchiaia e della morte (➜ T5 OL). La caratteristica tecnica che distingue i sonetti dellacasiani – e che maggiormente ha fatto scuola, almeno fino a Leopardi – è il frequente e meditato uso dell’enjambement. Un uso già presente nella poesia italiana fin dalle origini, ma che Della Casa utilizza in modo marcato e ricorrente, ottenendo particolari effetti ritmici, per i quali il suo stile poetico fu particolarmente apprezzato. Michelangelo Buonarroti Buonarroti (1475-1564), uno dei più grandi artisti del Rinascimento, ha lasciato circa trecento componimenti poetici, pubblicati postumi nel 1623. Le sue prime composizioni risentono di diversi influssi, legati alla cultura fiorentina (da Dante al Berni); dal 1532 il modello unico diventa Petrarca, mentre, a livello propriamente tematico, domina la concezione neoplatonica dell’amore. Il petrarchismo di Michelangelo però è del tutto particolare, per la ricerca di un lessico non convenzionale e un’attitudine riflessiva che si traduce in forme concettose e spesso oscure. Galeazzo di Tàrsia Nelle liriche del suo canzoniere, Galeazzo di Tàrsia (1520 ca.1553), un nobile calabrese dalla vita breve e avventurosa, in particolare quelle ispirategli dalla prematura morte della moglie, dà voce all’espressione diretta dei sentimenti e a una dimensione drammatica che infrange le convenzioni petrarchiste.

2 La contestazione del modello: gli antipetrarchisti Già nel Quattrocento non erano mancate esperienze poetiche alternative al filone petrarcheggiante: si può ricordare almeno il Burchiello, nome fittizio del fiorentino Domenico di Giovanni (1404-1449), così detto per la tendenza a poetare “alla burchia”, cioè ad ammassare nei suoi testi poetici parole e immagini tratte dalla realtà quotidiana in modo, almeno apparentemente, caotico (la burchia è una barca dal fondo piatto in cui erano ammassate alla rinfusa le merci). Nel primo Cinquecento la figura di maggior spicco nell’ambito della contestazione del modello petrarchista imperante è Francesco Berni (1497-1535). Non è un caso che anch’egli sia toscano: in Toscana infatti era ancora viva la tradizione burlesca e comico-realistica, da cui egli prende le mosse. Tuttavia la sua stessa vita di poeta cortigiano, in particolare alla corte pontificia, gli impedisce atteggiamenti troppo apertamente dissacranti e davvero anticonformistici. Berni rifiuta certamente il gusto idealizzante, in campo sia linguistico sia poetico, ma non arriva all’aperta rivolta, limitandosi a una sorridente parodia dei modi petrarchisti, come nel celebre sonetto che proponiamo (➜ T1b ), e a rappresentare nelle sue rime il mondo prosaico della quotidianità: una scelta comunque di per sé significativa.

638 Quattrocento e Cinquecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile


Petrarchismo e antipetrarchismo PETRARCHISTI imitazione stilistica Pietro Bembo

costituisce il versante normativo della lirica petrarchista

adesione all’itinerario spirituale del Canzoniere

riflessione malinconica sulla vanità dell’amore Giovanni Della Casa

stile musicale e solenne vanità delle illusioni e inquietudine dell’esistere frequente utilizzo dell’enjambement

concezione neoplatonica dell’amore Michelangelo Buonarroti

toni cupi e oscurità riflessione religiosa lessico non convenzionale espressione diretta dei sentimenti

Galeazzo di Tàrsia dimensione drammatica

ANTIPETRARCHISTI parole e immagini tratte dalla realtà quotidiana Burchiello apparente ammasso caotico

tradizione burlesca toscana Francesco Berni parodia non troppo dissacrante dei modi petrarchisti

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 639


T1

Il modello e la contestazione parodica Proponiamo uno dei sonetti di Bembo più celebri, proprio per il suo carattere di esemplare testimonianza della fedeltà al modello di Petrarca. A questo canonico documento del petrarchismo associamo il celeberrimo sonetto di Berni che rovescia, in una dissacrante rilettura parodica, il modello bembiano.

Pietro Bembo

T1a

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura Rime (V)

P. Bembo, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Tea, Milano 1989

La donna di cui si esalta la bellezza è probabilmente Lucrezia Borgia, cui Bembo dedica altre sue rime e Gli Asolani, un trattato sull’amore.

Crin d’oro crespo e d’ambra1 tersa e pura, ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole2, occhi soavi e più chiari che ’l sole, 4 da far giorno seren la notte oscura3, riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura, rubini e perle4, ond’escono parole sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle5, 8 man d’avorio, che i cor distringe e fura6, cantar, che sembra d’armonia divina, senno maturo a la più verde etade7, 11 leggiadria non veduta unqua8 fra noi, giunta a somma beltà somma onestade9, fur l’esca del mio foco10, e sono in voi 14 grazie, ch’a poche il ciel largo destina11. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DEC

1 Crin... d’ambra: inizia un’enumerazione delle qualità (fisiche e intellettuali) della donna che si lega al verbo fur (“furono”) del v. 13. L’ambra è una resina fossile di colore dorato e, come il precedente riferimento all’oro, è una metafora per alludere al biondo dei capelli dell’amata. 2 ch’a l’aura... vole: che ondeggi e voli all’aria sulla neve (l’immagine metaforica

allude al candore del volto della donna). Il senhal petrarchesco l’aura (Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, XC) è un dichiarato omaggio a Petrarca. 3 da far… oscura: capaci di trasformare in un giorno sereno una notte scura (iperbole). 4 rubini e perle: metafore per alludere alle labbra rosse e al candore dei denti. 5 parole... vòle: parole così dolci, che ad altro bene l’anima non ambisce (vòle, “vuole”). 6 i cor... fura: tiene avvinti e ruba (fura, latinismo) i cuori.

7 senno... etade: matura saggezza nella prima giovinezza. 8 unqua: giammai, mai (latinismo, da unquam). 9 giunta... onestade: virtù somma aggiunta a somma bellezza. 10 fur... foco: furono l’esca che accese in me il fuoco (d’amore). 11 sono in voi… destina: racchiudete doni (grazie) che il cielo riserva (destina) a poche con questa generosità (largo).

Analisi del testo Struttura Il sonetto, costituito da un unico periodo sintattico, è strutturato in due parti, corrispondenti, rispettivamente, la prima ai vv. 1-12, la seconda agli ultimi due versi del sonetto. Nella prima parte Bembo enumera le straordinarie qualità della donna: i biondi e mossi capelli, gli occhi chiari, il sorriso, le labbra rosse e i bianchi denti, la mano bianca come l’avorio, il canto armonioso, la saggezza inusitata in una donna così giovane e infine l’associazione tra bellezza e nobiltà d’animo. Nella brevissima seconda parte si trova la conseguenza di tante qualità e cioè il conseguente innamoramento del poeta (fur l’esca del mio foco).

640 Quattrocento e Cinquecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile


Un collage di immagini e termini petrarcheschi La fonte più diretta del sonetto di Bembo è il sonetto CCXIII di Petrarca (Grazie ch’a pochi il ciel largo destina), strutturato a sua volta come una sorta di “catalogo” delle virtù della donna: l’incipit è ripreso letteralmente nella conclusione del sonetto di Bembo. Ma, come ha dimostrato Dionisotti, al di là della fonte principale, il sonetto di Bembo è un vero e proprio collage di immagini, termini, metafore petrarcheschi. Evidentemente non è neppure pensabile che Bembo volesse minimizzare o addirittura nascondere l’imitazione di Petrarca che sta alla base del componimento; al contrario, il sonetto bembiano deve essere considerato un esplicito omaggio al maestro, ma soprattutto un esempio di efficace imitazione che servisse come modello per gli altri poeti.

Francesco Berni

T1b

Chiome d’argento fino, irte e attorte Sonetto alla sua donna (XXIII)

Poesia italiana. Il Cinquecento, a cura di G. Ferroni, Garzanti, Milano 1978

Francesco Berni (1497-1535), toscano, fu poeta cortigiano, prevalentemente al servizio della curia romana. Fu autore di capitoli (componimenti satirico-burleschi in terzine), di un adattamento in toscano letterario dell’Orlando innamorato del Boiardo (pubblicato postumo nel 1542) e di sonetti in stile comico, come quello qui proposto, evidente parodia del petrarchismo bembesco.

Chiome d’argento fino, irte e attorte1 senz’arte intorno ad un bel viso d’oro2; fronte crespa3, u’ mirando4 io mi scoloro5, 4 dove spunta i suoi strali Amor e Morte; occhi di perle vaghi6, luci torte da ogni obietto diseguale a loro7; ciglie di neve, e quelle, ond’io m’accoro, 8 dita e man dolcemente grosse e corte; labra di latte8, bocca ampia celeste9; denti d’ebeno rari e pellegrini10; 11 inaudita ineffabile armonia11; costumi alteri e gravi12: a voi, divini servi d’Amor13, palese fo14 che queste 14 son le bellezze della donna mia. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE

1

d’argento… attorte: canute, ispide e attorcigliate. 2 viso d’oro: viso dal colorito giallastro. 3 crespa: rugosa. 4 u’ mirando: dove (u’ è apocope del termine lat. ubi) guardando. 5 io mi scoloro: impallidisco. 6 occhi di perle vaghi: occhi lacrimosi ed erranti: l’aggettivo petrarchesco per

eccellenza (vago) è parodicamente impiegato per alludere allo strabismo della donna, a cui si fa più esplicito riferimento subito dopo. 7 luci... a loro: occhi (luci) completamente strabici (lo sguardo è distolto da ogni oggetto che non siano gli occhi stessi). 8 labra di latte: labbra pallide (si noti l’allitterazione). 9 ampia celeste: larga e scura (come la volta del cielo). 10 denti d’ebeno rari e pellegrini: denti

neri, scarsi e non ben saldi (pellegrini).

11 inaudita ineffabile armonia: la bellezza della donna (detto ironicamente) è espressione di un’armonia straordinaria (inaudita ineffabile). 12 costumi alteri e gravi: modi superbi e grevi, pesanti (da sopportarsi). 13 divini servi d’Amor: Berni si rivolge ai cultori e cantori dell’amore perfetto (primo tra tutti il Bembo il cui sonetto sopra citato viene parodizzato). 14 palese fo: dichiaro.

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 641


Analisi del testo Una parodia del petrarchismo Il sonetto di Berni rappresenta una donna vecchia e brutta di cui tesse le lodi con i termini e le espressioni che abitualmente nella tradizione lirica e in Petrarca erano usati per lodare la bellezza della donna amata. La fonte diretta a cui Berni attinge è il sonetto di Bembo Crin d’oro crespo di cui fa un’evidente parodia utilizzando in modo ricorrente un procedimento antifrastico, cioè ironico: ad esempio il riferimento metaforico alle “perle”, impiegato dal Bembo per alludere al candore dei denti della donna, è utilizzato dal Berni per alludere invece agli occhi lacrimosi, cisposi, della donna. L’esercizio letterario della parodia si fonda sul pieno possesso, da parte dell’autore, del testo o dei testi che intende rovesciare: la parodia è dunque per sua natura un’operazione colta. La conoscenza del modello peraltro è richiesta anche al lettore, che a sua volta non potrebbe apprezzare altrimenti l’operazione parodica stessa. Un’operazione in questo caso originata da un intento polemico nei confronti dell’imperante moda petrarchista.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è l’intento di Bembo nel comporre il suo sonetto? Quale quello di Berni? ANALISI 2. Completa la tabella, evidenziando nei due testi le differenze tra la poesia petrarchista di Bembo e quella antipetrarchista di Berni. Pietro Bembo, Crin d’oro crespo...

Interpretare

v. 1

Crin d’oro crespo…

v. 3

occhi soavi e più chiari che ’l sole,

v. 5

riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura,

v. 6

rubini e perle…

v. 8

man d’avorio…

v. 9

cantar, che sembra…

v. 11

leggiadria non veduta…

Francesco Berni, Chiome d’argento

Rovesciamento del significato La donna è ritratta da anziana: ha i capelli grigi («d’argento»)

SCRITTURA CREATIVA 3. Seguendo il modello di Berni, prendi a modello un sonetto di Petrarca a tua scelta tra quelli studiati e prova tu a costruire un sonetto che rispecchi i princìpi del rovesciamento berniano.

online T2 Pietro Bembo Piansi e cantai Rime (I)

642 Quattrocento e Cinquecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile


Michelangelo Buonarroti

T3

Giunto è già ’l corso della vita mia Rime (CXLVII)

Poesia italiana. Il Cinquecento, a cura di G. Ferroni, Garzanti, Milano 1978

AUDIOLETTURA

Il grande Michelangelo Buonarroti si dedicò anche alla poesia, oltre che all’arte, scrivendo molte composizioni in versi, nate dalla sua amicizia intellettuale con Vittoria Colonna, in cui dimostra di aver assimilato la lezione del neoplatonismo. Negli ultimi anni di vita la sua poesia si orienta su una meditazione di contenuto essenzialmente religioso, come nel caso della lirica che presentiamo.

Giunto è già ’l corso della vita mia, con tempestoso mar, per1 fragil barca, al comun porto, ov’a render si varca 4 conto e ragion d’ogni opra trista e pia2. Onde l’affettüosa fantasia che l’arte mi fece idol e monarca conosco or ben com’era d’error carca3 8 e quel ch’a mal suo grado ogn’uom desia4. Gli amorosi pensier, già vani e lieti, che fien5 or, s’a duo morte6 m’avvicino? 11 D’una so ’l certo7, e l’altra mi minaccia. Né pinger né scolpir fie più che quieti8 l’anima, volta a quell’amor divino9 14 ch’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia.

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE

1 2

per: su una. ov’a render... pia: dove si passa a rendere conto e ragione di ogni azione colpevole e virtuosa. 3 Onde l’affettüosa... carca: Per cui ora riconosco come fosse carica di errori (d’error carca), cioè erronea, l’appassionata ispirazione artistica (l’affettüosa fantasia) che

mi indusse a considerare (mi fece, “trasformò per me”) l’arte come idolo e sovrano. 4 e quel... desia: e (conosco bene) quello che ognuno desidera (desia) contro il suo stesso bene, a suo danno, cioè i beni caduchi. 5 che fien: che cosa diventeranno. 6 duo morte: due morti. 7 D’una so ’l certo: Di una (di queste due morti) so che è certa (’l certo, sott. “il [suo] sicuro [compiersi]”).

8 Né pinger... quieti: Né dipingere (pinger) né scolpire potrà (fie, “sarà”) più consolare. In effetti, al tempo della stesura del sonetto (fra il 1532 e il 1554) Michelangelo decide di abbandonare la pittura e la scultura in parte per concentrarsi sull’architettura come impegno più progettuale che esecutivo. 9 quell’amor divino: quel Dio d’amore (per metonimia).

Analisi del testo Un amaro bilancio esistenziale Il sonetto è certamente uno dei più suggestivi della produzione lirica che si iscrive nel petrarchismo. Composto negli ultimi anni di vita di Michelangelo, è incentrato sul tema della vanità di tutto ciò che è terreno nella prospettiva della morte, percepita come ormai vicina. Il tema è in sé quasi convenzionale, data la sua diffusione nella lirica in genere, e in particolare nella poesia di Petrarca, da cui Michelangelo riprende qui, come più sotto si osserva, immagini metaforiche, stilemi e singole espressioni. Ma, d’altra parte, il sonetto presenta una indubbia originalità rispetto al codice lirico del tempo, dovuta alla presenza di riferimenti autobiografici e di una sincera ispirazione religiosa.

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 643


Michelangelo, ormai molto vecchio, riflette sul senso della sua esistenza e l’esito di questa riflessione è negativo: l’arte, a cui ha dedicato la sua vita al punto di farne il motivo ispiratore, il centro assoluto («idol e monarca», v. 6) appare all’io lirico «d’error carca» (v. 7), forse perché fondata sull’illusione che l’arte potesse vincere, con la sua eccellenza, la naturale caducità delle cose terrene. Ma soprattutto, come viene asserito nell’ultima terzina, la creazione artistica non si è rivelata in grado di appagare del tutto le inquietudini interiori del grande artista: la sua anima dunque si è ormai rivolta verso la dimensione del trascendente, l’«amor divino» che ha indotto Cristo a sacrificarsi sulla croce. Un ruolo tutto sommato marginale svolge, all’interno del tema chiave della poesia, il riferimento alle passioni amorose («Gli amorosi pensier», v.9), che il poeta condanna di fronte al pericolo della dannazione eterna che potrebbero comportare dopo la morte fisica (le «duo morte», v. 10).

In un particolare del Giudizio universale della Cappella Sistina, 1536-1541, san Bartolomeo è dipinto con la pelle su cui è impresso l’autoritratto anamorfico di Michelangelo scorticato (Città del Vaticano, Musei Vaticani).

La rivisitazione del codice petrarchesco Risulta evidente, anche a una prima lettura del sonetto, l’imitazione di Petrarca, a cominciare dalla contrapposizione tra gli “errori” del passato («fece», v. 6) e l'amara consapevolezza del presente («conosco or ben», v. 7). I riferimenti a Petrarca sono numerosi e “scoperti”, voluti evidentemente: dall’immagine metaforica che domina la prima quartina della vita come viaggio travagliato, che approda al porto della morte, che rimanda in particolare al sonetto CLXXXIX «Passa la nave mia colma d’oblio/per aspro mare», a singole espressioni, come «d’error carca», «Gli amorosi pensier», «conosco or ben» (che riecheggia da vicino l’espressione «ben veggio or sì» del sonetto proemiale del Canzoniere), all’uso della coppia di aggettivi («vani e lieti», v. 9). Ma, come accennato, il vissuto autobiografico e l'autentica contrizione che ispirano il sonetto di Michelangelo si traducono in un tono ben diverso dall’armonia petrarchesca, in particolare nella prima quartina, in cui il ritmo franto, dovuto all’iterazione della punteggiatura, rimanda a una drammatica presa di coscienza.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del sonetto e individuane il tema fondamentale. ANALISI 2. Al v. 10 il poeta parla di due morti a cui sente di avvicinarsi. Sai spiegare a cosa si riferisce? LESSICO 3. Individua nel testo termini e stilemi che appartengono al codice petrarchista. STILE 4. Il testo è tramato di immagini metaforiche: individuale e poi spiegale nel contesto. Quali di esse ti sembrano maggiormente legate al codice petrarchista?

Interpretare

SCRITTURA 5. Dopo aver indicato i versi in cui il poeta allude all’arte e all’amore, rispondi: quale giudizio esprime Michelangelo in questa sua tarda riflessione sull’arte (in cui eccelse come pochi altri) e sull’amore? L’arte, in particolare, ha ancora per l’artista una funzione consolatoria? Scrivi un breve testo (max 10-15 righe) in merito.

online T4 Michelangelo Buonarroti

O notte, o dolce tempo, benché nero Rime (CII)

online T5 Giovanni Della casa

Questa vita mortal, che 'n una o 'n due Rime (LXII)

644 Quattrocento e Cinquecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile


2 Le poetesse Le donne non sono più solo l’oggetto della poesia Un aspetto interessante, anche a livello di costume, è costituito dalla presenza nella prima metà del Cinquecento di un numeroso gruppo di poetesse: un fenomeno nuovo, che però si esaurisce già verso la fine del secolo. Tra le più importanti ricordiamo Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara (leggi Gàmbara), Veronica Franco, Isabella di Morra. Il primo canzoniere di una donna è quello di Vittoria Colonna (Rime, 1538), destinato a largo successo (l’edizione ufficiale delle sue Rime del 1547 avrà 15 ristampe). Nel 1559 viene pubblicata un’antologia poetica “al femminile” (Rime diverse d’alcune nobilissime e virtuosissime donne) che accoglie testi poetici di ben 53 autrici, a testimonianza di un crescente coinvolgimento delle donne nella scrittura lirica e di un consolidato interesse del pubblico per la poesia femminile. D’altra parte non si può dire che le poetesse abbiano ottenuto un effettivo riconoscimento letterario, tranne forse nel caso di personaggi di alto rango sociale come Vittoria Colonna. La numerosa presenza delle donne nella poesia come autrici e non più solo come oggetto della poesia maschile è certo favorita dall’evoluzione dei costumi all’interno della corte rinascimentale, che assegnava alle donne un ruolo determinante nei rituali delle feste e delle conversazioni. Alcune di loro, come Veronica Franco e Gaspara Stampa, possono essere qualificate come “cortigiane oneste”, cioè donne intellettuali dalla vita indipendente e dai costumi liberi.

PER APPROFONDIRE

Le poetesse rinascimentali: una difficile identità Nel complesso non si può dire che le poetesse del Rinascimento siano riuscite a esprimere in poesia la loro identità, soprattutto perché non avevano altra scelta che utilizzare il codice letterario dominante del tempo, ovvero il petrarchismo: un codice prettamente maschile, in cui la figura femminile e il tema stesso dell’amore sono usati dagli autori (a cominciare naturalmente da Petrarca) come strumento privilegiato per parlare di sé. Nel momento in cui si affacciano alla scrittura lirica, le donne si trovano dunque di fronte al problema di tradurre al femminile gli schemi descrittivi di tipo psicologico e il linguaggio stesso propri del modello dominante.

Che cosa significava essere una “cortigiana”? Il termine “cortigiano”, legato a una dominante tipologia sociale ed esaltato dal celebre trattato di Castiglione, non ha nulla a che fare con il corrispettivo femminile “cortigiana”, una figura di donna-intellettuale, dai liberi costumi, che appare testimoniata soprattutto nella società veneziana. Su questa figura la studiosa Marina Zancan osserva: «Gaspara Stampa è in senso pieno una cortigiana, se con questo si allude a quella complessa figura di donna che la società veneziana esprime nel corso del secolo; la cortigiana infatti non è né sposa […] né meretrice, e non è naturalmente monaca. È una figura femminile che sfugge a una definizione

netta perché, negandosi alla gerarchia sessuale, costruisce la propria immagine in funzione di un proprio progetto di vita: la cortigiana è una donna intellettuale che pratica in modo dichiarato una sessualità non normata [anticonvenzionale] e che, dall’essere donna e intellettuale, ricava la possibilità di vivere una vita socialmente non subordinata e intellettualmente organizzata al fine di proiettare, a partire da sé, il proprio sogno di realizzazione». Testo di riferimento: M. Zancan, La donna, in LIE, diretta da A. Asor Rosa, vol. V, Le Questioni, Einaudi, Torino 1986.

Le poetesse 2 645


Osserva in proposito il critico Giulio Ferroni (i corsivi sono nostri): «Se, per la sua stessa costituzione, il linguaggio petrarchistico è in definitiva il più lontano dall’amore e dalla donna, è fin troppo evidente che le poetesse cinquecentesche parlano soltanto attraverso un linguaggio altrui, accettando necessariamente il punto di vista maschile […]. Il dramma della poesia femminile è in questo suo essere la voce dell’altro, di ciò che la donna non è, della violenza storica e materiale che la donna subisce». Alcune poetesse riuscirono a sviluppare una loro originalità, immettendo nel codice la loro soggettività, ma la maggior parte rimase passiva di fronte all’autorità del modello. Per tutte comunque «la lirica d’amore rappresentò il luogo in cui esprimere, più o meno camuffati, altri desideri: di libertà intellettuale, di affermazione sociale, di autonomia spirituale» (F. Erspamer) in una società che guardava comunque con sospetto, con ironia (e, a volte, con vero e proprio disprezzo) la presenza di donne letterate e in genere l’emancipazione intellettuale delle donne. Vittoria Colonna Nata presso Roma da nobile famiglia, Vittoria Colonna (14901547) fu sposa del marchese di Pescara, Ferdinando Francesco d’Avalos, uomo d’armi, abile e valoroso, capo delle armate di Carlo V. Morto in battaglia il marito nel 1525, Vittoria divenne un punto di riferimento per la sua figura di nobildonna austera, la sua ampia cultura, la non comune competenza poetica e le frequentazioni con i maggiori intellettuali e artisti del tempo: Castiglione e Michelangelo. Le sue Rime, “in vita e in morte” dell’amato, secondo lo schema petrarchesco, sono in ampia parte dedicate alla figura del marito, ma nell’ultima parte della sua vita il suo severo itinerario spirituale si rispecchia in componimenti di argomento religioso e più in generale spirituale. Gaspara Stampa Nata a Padova da famiglia milanese, Gaspara Stampa (1523-1554) visse la sua breve vita a Venezia e fu, forse nel ruolo di “cortigiana onesta”, molto conosciuta e ricercata nei circoli intellettuali della città. Le sue rime sono per la maggior parte dedicate alle vicende del suo amore tormentato per il conte Collatino di Collalto. Ma il suo ampio canzoniere fa riferimento anche ad altri amanti: la Stampa visse infatti una vita anticonvenzionale, dai costumi estremamente liberi. Isabella di Morra Isabella di Morra nacque nel 1520 da una antica famiglia baronale, a Favale, nel castello paterno in Basilicata, vicino al confine con la Calabria. Ebbe una vita sventurata: il padre fu costretto per motivi politici all’esilio in Francia e Isabella visse quasi da reclusa nel castello di famiglia. Morì a soli ventisei anni uccisa dai fratelli che sospettavano una sua relazione amorosa con un poeta spagnolo. Nel suo canzoniere, riscoperto nel Novecento da Benedetto Croce, formato da dieci sonetti e tre canzoni, restano tracce evidenti della sua dolorosa vicenda. Isabella lamenta spesso nelle poesie il suo destino di solitudine. Il petrarchismo resta per Isabella un vago punto di riferimento, rivelando invece sensibilità e suggestioni tassiane e leopardiane. Nelle sue poesie avviene la trasfigurazione lirica del paesaggio che partecipa agli stati d’animo della poetessa.

Fissare i concetti Il petrarchismo e la poesia femminile 1. 2. 3. 4.

Che cosa si intende per petrarchismo? Chi sono i petrarchisti? Che cos’è l’antipetrarchismo e chi è il maggiore rappresentante? Chi sono le poetesse rinascimentali?

646 Quattrocento e Cinquecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile


Vittoria Colonna

T6

Qui fece il mio bel sole a noi ritorno

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Rime (VI) Rime del Cinquecento, a cura di L. Baldacci, Longanesi, Milano 1984

Il sonetto, come altri delle Rime di Vittoria Colonna, è dedicato al ricordo del marito, valoroso uomo d’armi, morto in battaglia nel 1525.

Qui fece il mio bel sole a noi ritorno1 di regie spoglie carco e ricche prede2: ahi con quanto dolor l’occhio rivede 4 quei lochi ov’ei mi fea già chiaro il giorno3! Di palme e lauro cinto era d’intorno, d’onor, di gloria, sua sola mercede4: ben potean far del grido sparso fede 8 l’ardito volto, il parlar saggio adorno5. Vinto da’ prieghi6 miei poi ne mostrava le sue belle ferite, e ’l tempo e ’l modo 11 delle vittorie sue tante e sì chiare. Quanta pena or mi dà, gioia mi dava7. E in questo e in quel pensier piangendo godo 14 tra poche dolci e assai lagrime amare. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE

1 Qui... ritorno: la poetessa si ritrova nei luoghi in cui era solita accogliere il marito («il mio bel sole») di ritorno dalle sue imprese.

2 di regie… prede: carico di un ricco bottino di guerra. 3 mi fea… il giorno: mi rendeva un tempo (già) chiaro il giorno (cioè illuminava la mia vita con la sua presenza). 4 mercede: ricompensa, premio. 5 ben potean… adorno: il suo volto fiero

e il suo modo di parlare saggio e pacato davano credibilità (fede) alla fama che circolava delle sue imprese (grido sparso). 6 prieghi: preghiere. 7 Quanta pena… mi dava: Allora mi dava tanta gioia quanta oggi mi dà pena (con la sua scomparsa).

Analisi del testo Il tema dominante Il sonetto si iscrive all’interno della tendenza di Vittoria Colonna a costruire un’immagine altamente celebrativa del marito scomparso. Si tratta di un aspetto centrale nelle sue rime agli occhi dei contemporanei. Alla figura idealizzata dello sposo corrisponde l’auto-rappresentazione di donna fedele e casta, subordinata e insieme complementare all’uomo amato con cui la poetessa volle presentarsi alla società colta del suo tempo. In questo sonetto il marito della poetessa viene evocato nelle sue prerogative di condottiero valoroso e vittorioso, immaginato al suo ritorno da qualche epica impresa militare, mentre narra alla sposa le sue gesta. La seconda parte del sonetto si apre (prima terzina) con una rievocazione di tono più intimo (le ferite di guerra che l’“eroe” mostra alla sua sposa) per poi focalizzare l’acuta pena della poetessa per l’assenza dello sposo, associata alla dolcezza del ricordo.

L’imitazione di Petrarca In particolare nell’ultima terzina, che costituisce il consuntivo, in un certo senso, della rievocazione dello sposo amato da parte di Vittoria Colonna, la poetessa fa evidente ricorso a stilemi petrarcheschi, in particolare l’antitesi, anche in rapporto alla divaricazione temporale tra passato e presente: “pena/gioia; dà/dava; piangendo/godo; poche/assai; “dolci/amare”.

Le poetesse 2 647


Esercitare le competenze comprendere e analizzare

ParaFraSi 1. Svolgi la parafrasi del testo. SinteSi 2. Riesci ad attribuire alle due quartine e alle due terzine un titolo che funga da sintesi? StiLe 3. Analizza nel sonetto: l’aggettivazione, i campi semantici prevalenti, l’uso dell’antitesi.

interpretare EDUCAZIONE CIVICA

Scrittura

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo

#PROGETTOPARITÀ

Costituzione

competenza 3

4. Con Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Gaspara Stampa e Isabella Morra si assiste a una nuova tendenza, legata al fenomeno del petrarchismo: la presenza delle donne nel mondo della letteratura come autrici e non più soltanto come soggetti privilegiati della poesia maschile. Dopo aver letto ➜ t8 oL e ➜ t9 per conoscere anche le altre voci di questa lirica “al femminile”, argomenta le tue riflessioni in un breve testo di 15-20 righe.

Gaspara Stampa

t7

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime Rime (I)

G. Stampa, Rime, a cura di G.R. Ceriello, Rizzoli, Milano 1994

ANALISI INTERATTIVA

Il sonetto che presentiamo apre il canzoniere di Gaspara Stampa, sul modello evidente del Canzoniere di Petrarca. Ma, al di là del voluto riferimento al modello, la Stampa introduce significative variazioni.

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime1, in questi mesti, in questi oscuri accenti2 il suon degli amorosi miei lamenti 4 e de le pene mie tra l’altre prime3, ove fia chi valor apprezzi e stime4, gloria, non che perdon, de’ miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti, 8 poi che la lor cagione è sì sublime5. E spero ancor che debba dir qualcuna6: – Felicissima lei, da che sostenne 11 per sì chiara cagion danno sì chiaro7! Deh, perché tant’amor, tanta fortuna per sì nobil signor8 a me non venne, 14 ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro9?

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE

1 in queste meste rime: in questi dolenti versi. 2 accenti: parole. 3 tra l’altre prime: più tormentose di tutte le altre.

4 ove fia chi… stime: se ci sarà qualcuno che apprezzi e stimi il valore. 5 gloria… è sì sublime: spero di trovare tra le persone di valore (ben nate) gloria e perdono per i miei lamenti, dato che la causa di essi fu così elevata. 6 qualcuna: qualche donna. 7 Felicissima lei… chiaro: Felicissima lei, dal momento che sopportò (sosten-

648 Quattrocento e cinQuecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile

ne) un dolore così memorabile (danno sì chiaro) per una causa così importante (sì chiara cagion). 8 per sì nobil signor: da parte di un signore così nobile. 9 ch’anch’io… a paro: che (consecutiva retta da tanta fortuna) sarei anch’io paragonata a una donna così nobile.


Analisi del testo Un modello illustre significativamente rivisitato Questo è il sonetto posto in apertura delle Rime di Gaspara Stampa, con evidente riferimento al modello del sonetto proemiale del Canzoniere di Petrarca (Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono) a cui la poetessa si richiama esplicitamente. Tuttavia sono assai significativi gli scarti rispetto al modello autorevole. Ecco i più rilevanti. Anche la Stampa apre il sonetto con un’allocuzione ai lettori: nel sonetto petrarchesco questi sono identificati in coloro che hanno conosciuto l’esperienza d’amore (v. 7: «ove sia chi per prova intenda amore»); invece i lettori della poetessa sono idealmente selezionati sulla base della capacità di apprezzare il valore. Inoltre la Stampa conferisce a questo tipo di pubblico anche una connotazione sociale, assente nel modello del Petrarca: i suoi lettori fanno parte delle ben nate genti (v. 7), con allusione al pubblico colto e raffinato delle corti. Ai lettori la poetessa anziché la “pietà” come nel sonetto proemiale del Canzoniere, chiede la “gloria”, con una variazione estremamente significativa. Nelle terzine, Gaspara si allontana dal modello e si rivolge espressamente a un pubblico femminile che possa identificarsi in lei, augurandosi la stessa sofferenza d’amore vissuta da una donna così grande. È evidente l’orgoglio della poetessa per l’eccezionalità della sua esperienza d’amore, ma soprattutto per il suo talento poetico.

Lorenzo Lotto, Ritratto di donna nelle vesti di Lucrezia, 1533 ca. (Londra, National Gallery). Si tratta di un’allegoria (la donna mostra un disegno che ritrae Lucrezia, eroina romana morta per non cedere alla violenza di Tarquinio).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Fai la sintesi del sonetto. ANALISI 2. In questo sonetto proemiale la poetessa rivendica con orgoglio il suo amore. Ci sono nel testo delle “spie” linguistiche da cui emerga l’orgoglio della poetessa? Rintracciale.

Interpretare

SCRITTURA 3. Scheda da una parte le espressioni evidentemente debitrici verso Petrarca, dall’altra gli elementi originali della Stampa. Commenta poi in un breve scritto gli esiti dell’analisi (max 10 righe).

online T8 Veronica Gambara Ombroso colle Rime (XXVII)

Le poetesse 2 649


isabella di Morra

t9

D’un alto monte onde si scorge il mare

EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

Rime (III) Rime, a cura di G. A. Palumbo, Stilo Editrice, Bari 2019

In questo sonetto Isabella si rivolge al padre lontano, nella speranza di ricevere qualche sua notizia che arrivi dal mare.

D’un alto monte1 onde si scorge il mare miro sovente io, tua figlia Isabella2, s’alcun legno spalmato3 in quello appare 4 che di te, padre, a me doni novella4. Ma la mia adversa e dispietata stella5 non vuol ch’alcun conforto possa entrare nel tristo cor, ma, di pietà rubella6, 8 la calda speme in pianto fa mutare. Ch’io non veggo nel mar remo né vela (così deserto è lo infelice lito) 11 che l’onde fenda o che la gonfi il vento. Contra Fortuna alor spargo querela7 ed ho in odio il denigrato sito8, 14 come sola cagion del mio tormento.

La metrica Sonetto a schema ABAB BABA CDE CDE 1 D’un alto monte: probabilmente quello dove sorge il castello di Favale. 2 tua figlia Isabella: il sonetto è dunque indirizzato al padre lontano. 3 legno spalmato: nave (metonimia: le carene delle navi erano spalmate di sego, zolfo e pece per impermeabilizzarle). 4 doni novella: porti notizia. 5 stella: destino. 6 di pietà rubella: avversaria della pietà (si riferisce a «la mia adversa e dispietata stella»). 7 Contra... querela: allora spargo lamenti che accusano la Fortuna. 8 denigrato sito: luogo aborrito (appunto il castello dove la giovine era costretta a vivere reclusa dai fratelli).

Analisi del testo Un’attesa vana Questo sonetto è concepito come un dialogo con il padre lontano, nell'attesa vana che un messaggio sulla sorte del padre arrivi dal mare. Dall'alto del monte in cui si trova il castello, Isabella, sottolineando la sua condizione di figlia, si rivolge al padre. Dalla seconda quartina, introdotta dalla congiunzione “ma” che segna un forte stacco, al dialogo si sostituisce il soliloquio, arrivando alla constatazione della solitudine e dell'assenza fino alla protesta contro l'odiato luogo, causa del tomento di Isabella.

Lo stile A predominare nel testo è il campo semantico del dolore: “la mia adversa e dispietata stella”; “tristo cor”; “la calda speme in pianto fa mutare”; “infelice lito”; “mio tormento”. La poesia risulta ricca di figure retoriche come la metonimia al verso 3 e le allitterazioni che danno forza al messaggio di Isabella ai vv. 2-14.

Esercitare le competenze comprendere e analizzare

SinteSi 1. Sintetizza in una frase il contenuto di ciascuna delle quartine e terzine; poi organizza le sintesi in un testo completo sul sonetto. anaLiSi 2. A chi si rivolge la donna? StiLe 3. Individua: gli enjambements (in quale parte del testo sono più frequenti? Quale effetto stilistico producono?) e alcune figure retoriche presenti nel testo. 4. Quali elementi stilistici tipici del modello petrarchesco puoi ritrovare in questo sonetto?

interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Letteratura e noi 5. Isabella di Morra ha pagato con la vita il tentativo di vivere liberamente la sua esistenza. Rifletti sulla tragica attualità dell’esperienza di vita della giovane poetessa.

650 Quattrocento e cinQuecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile


Quattrocento e Cinquecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile

Sintesi con audiolettura

1 La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica

Il petrarchismo Con l’etichetta di “petrarchismo” si fa riferimento a un fenomeno letterario che caratterizza la prima metà del Cinquecento e che consiste nella diffusa imitazione del Canzoniere di Petrarca da parte di un gran numero di poeti e poetesse. Il petrarchismo si iscrive in un periodo di particolare fortuna dell’opera lirica di Petrarca, iniziato con l’importante edizione del Canzoniere curata nel 1501 da Pietro Bembo, e pubblicata da Aldo Manuzio, il più importante editore italiano. La scelta di Manuzio di pubblicare il Canzoniere in un formato maneggevole (i “petrarchini”) per una lettura personale e privata incise non poco sulla sua fortuna. Fu sempre Pietro Bembo, più avanti nel corso del Cinquecento, a consacrare Petrarca come “classico” della lingua italiana nelle sue Prose della volgar lingua (1525) e a proporre con le sue Rime un modello esemplare di imitazione dei Rerum vulgarium fragmenta. Un’imitazione perseguita da numerosi poeti che crea ben presto un codice lirico comune “nel nome di Petrarca”, non solo in Italia ma anche in Europa. I poeti più originali del petrarchismo e gli esponenti dell’antipetrarchismo Giovanni Della Casa (1503-1556) conferisce un taglio più personale al codice petrarchesco perché al tema amoroso preferisce la riflessione sulla vanità delle ambizioni e delle illusioni e il tema del peccato, ma soprattutto per lo stile grave e solenne e l’uso marcato dell’enjambement. Il grandissimo artista Michelangelo Buonarroti (1475-1564) nelle sue Rime indulge da un lato a un lessico concreto e reale, dall’altro a un concettismo che rende spesso enigmatico, se non addirittura oscuro, il senso dei testi. Nelle rime più tarde Michelangelo dà voce a un’ispirazione religiosa tormentata. Il Burchiello (Domenico di Giovanni, 1404-1449) e Francesco Berni sono i maggiori esponenti del movimento che contesta il petrarchismo, cioè l’antipetrarchismo, che consiste spesso solo in una parodia sorridente dei modi poetici dominanti.

2 Le poetesse

Un aspetto interessante del petrarchismo è il coinvolgimento delle donne nella scrittura lirica. Sono assai numerose nella prima metà del Cinquecento le poetesse, molti i canzonieri al “femminile”, certo anche in relazione all’importanza assunta dalle donne nei cerimoniali della vita di corte. Le poetesse si appropriano per lo più del modello petrarchesco sia riproducendone le situazioni ormai convenzionali, sia mimandone le forme stilistiche, che cercano di adattare, con risultati più o meno felici, all’universo psicologico e sentimentale femminile. Esso rimane però sostanzialmente estraneo al modello. La poetessa più significativa, oltre a Vittoria Colonna (1490-1547), è Gaspara Stampa (1523-1554). Di famiglia milanese, la Stampa visse a Venezia una vita di liberi costumi che ha fatto parlare di lei come di una “cortigiana onesta”.

Zona Competenze Competenza 1. Realizza un Power Point nel quale ripercorri la diffusione del petrarchismo in Italia. digitale Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Francesco Erspamer, in F. Brioschi e C. Di Girolamo, Manuale di letteratura italiana, Storia per generi e problemi, II, Bollati Boringhieri, Torino 1994

Nel campo della lirica la presenza femminile fu particolarmente ampia e costante, estesa ai vari ambiti sociali e ai vari Stati d’Italia e d’Europa. Si trattò di un fenomeno importante e complesso; ma se da una parte è vero che solo, o soprattutto allora, il contributo letterario delle donne fu determinante, e che solo o soprattutto allora esse fecero gruppo, dall’altro [...] forte rimase l’ostilità alla loro attività, e furono derise, ignorate, accusate di plagio, di presunzione, di immoralità, persino di anormalità sessuale. Ancora più diffuso fu nei loro confronti l’atteggiamento paternalistico: che accettandole a pieno titolo nel sistema ne annullava le istanze di emancipazione e di protesta. Varie furono, ovviamente, le ragioni per cui alcune donne divennero scrittrici: per Veronica Gámbara, abile e stimata signora di una piccola ma vivace corte padana, quella di Correggio, la lirica fu soprattutto un elegante strumento di intrattenimento mondano; per Isabella di Morra, reclusa dai fratelli in un remoto castello calabro, fu un disperato bisogno, se non di reagire all’isolamento, almeno di proclamare l’ingiustizia subita. In generale [...] la lirica d’amore rappresentò per esse il luogo in cui esprimere, più o meno camuffati, altri desideri: di libertà intellettuale, di affermazione sociale, di autonomia spirituale.

Nel corso dei secoli la possibilità per le donne di esercitare attività intellettuali e artistiche è sempre stata ostacolata da resistenze di varia natura, e il riconoscimento del loro valore, anche nei casi in cui erano riuscite a praticarle, ha comportato un processo faticoso e spesso contrastato. Molte vicende testimoniano le barriere che la presenza femminile ha incontrato nei diversi ambiti della cultura e della creatività artistica. Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali, di letture e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

652 Quattrocento e Cinquecento 11 Il petrarchismo e la poesia femminile


Quattrocento e cinquecento CAPITOLO

12 La novella nell’età umanisticorinascimentale

La fortuna del genere novellistico, che nel Trecento aveva prodotto il capolavoro del Boccaccio, pur con alterne vicende legate al variare delle coordinate culturali e letterarie, durerà fino alla fine del Cinquecento, quando comincia a emergere una nuova tipologia narrativa, il romanzo, destinato a soppiantare la novella nell’apprezzamento del pubblico. Fino alla metà del Quattrocento circa la Toscana è il centro indiscusso della produzione novellistica; in seguito l’area geografica di diffusione della novella si amplia notevolmente: dalla Napoli aragonese, dove Masuccio Salernitano scrive nella seconda metà del Quattrocento il suo Novellino, all’area padana da cui proviene Matteo Bandello, il maggior novelliere del Cinquecento.

1 il Quattrocento 2 il cinquecento 653 653


1 Il Quattrocento Dal macrotesto alle singole novelle Nel primo Quattrocento, la novella vive un momento di crisi: l’aristocratica ottica culturale propria dell’Umanesimo tende a relegare il genere novellistico alla periferia del sistema letterario, guardando con diffidenza e distacco persino al capolavoro di Boccaccio. In questo periodo i novellieri abbandonano non solo l’espediente boccacciano della cornice, ma anche l’impegno nel costruire un macrotesto (cioè una raccolta organica di testi) e preferiscono scrivere singole novelle (le cosiddette “spicciolate”). Una delle più celebri e apprezzate dalla critica è la Novella del grasso legnaiolo. Vi si racconta una beffa crudele ideata nell’ambiente «ricco di umori corrosivi e d’intelligenza degli artisti fiorentini dotati di spirito bizzarro e un po’ bohémien, fecondi nell’inventar burle sollazzevoli e implacabili nel condurle ad effetto» (Asor Rosa): l’ideatore della beffa è infatti il celebre artista Filippo Brunelleschi, mentre la vittima è Manetto il Grasso, un artigiano del legno, che ha bottega in Firenze. Lo stesso Niccolò Machiavelli (1469-1527), autore del Principe, si cimenterà in una “spicciolata”: Belfagor arcidiavolo (1518), una novella nutrita di uno spirito misogino sorprendentemente ancora superstite in piena civiltà rinascimentale (➜ C8). Tra le spicciolate, particolarmente rilevante è la tragica novella Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti del vicentino Luigi da Porto (1485-1529): rielaborata dal Bandello, la vicenda dei due sfortunati amanti sarà immortalata nel dramma di Shakespeare Romeo e Giulietta (1594-95). All’iter di questo celebre soggetto facciamo riferimento più avanti.

Leonardo da Vinci, due figure caricaturali, penna e inchiostro su carta, seconda metà del sec. XV (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

Gli antenati della barzelletta: facezie e motti arguti Parzialmente autonomo rispetto al complesso modello boccacciano e molto diffuso nella civiltà umanisticorinascimentale fu anche il filone della facezia (il termine identifica un racconto, in genere breve o brevissimo, che si chiude con una battuta spiritosa), che trae origine dal clima sereno e conviviale delle riunioni tra amici: la facezia infatti (oggi la chiameremmo barzelletta) è un sottogenere narrativo che si propone espressamente di suscitare una risata, senza tante complicazioni concettuali ed estetiche. Valorizzata nel Quattrocento da autori importanti come Leonardo da Vinci (Facezie e Favole) e Angelo Poliziano (Detti piacevoli), la facezia continua poi ad avere notevole fortuna nel Cinquecento e la cosa non stupisce: la civiltà di corte, infatti, esaltava particolarmente la finezza di spirito e l’elegante umorismo. Non a caso, dunque, Baldesar Castiglione, uno degli intellettuali di spicco del primo Cinquecento, utilizza un’ampia sezione del secondo libro del celebre trattato Il Cortegiano (1528) per discutere dei motti e delle facezie: la capacità di rasserenare gli animi è valorizzata come un’importante qualità; quindi le battute di spirito sono considerate un indispensabile bagaglio del gentiluomo, da sfruttare nelle diverse occasioni mondane proprie della vita di corte.

654 Quattrocento e Cinquecento 12 La novella nell’età umanistico-rinascimentale


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Per approfondire Sigmund Freud Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio

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Verso il Novecento Dalla facezia umanistica alla barzelletta

Le facezie in latino A un pubblico di intellettuali e umanisti si rivolgevano le facezie in latino, la cui testimonianza più nota è il Liber facetiarum (Facezie) (1438-1452) del grande umanista Poggio Bracciolini (1380-1459); l’occasione da cui scaturirono era comunque la stessa da cui si originavano le facezie in volgare, e cioè le chiacchierate disimpegnate tra amici, che non escludevano, ma anzi prevedevano storielle e battute sconce, addirittura triviali. Un estimatore novecentesco della facezia – ormai definita “barzelletta” – è l’umorista Achille Campanile (1899-1977), raccoglitore di barzellette (Trattato delle barzellette), attentamente divise per argomenti e tipologia. Quello della prontezza di spirito nell’ideare battute spiritose è un gusto tipicamente toscano, testimoniato fin dal Novellino, e non a caso il Boccaccio aveva dedicato un’intera giornata del Decameron (la VI) al motto arguto, cioè all’intelligente battuta di spirito, una variante della facezia. Nei racconti iscrivibili in questa tipologia gli elementi narrativi sono ridotti al minimo, proprio per valorizzare la battuta spiritosa, costruita secondo meccanismi già codificati dalla retorica classica: vi trovano posto espressioni paradossali, doppi sensi, allusioni argute. I meccanismi psicologici implicati nella battuta di spirito sono stati acutamente analizzati dal padre della psicanalisi, Sigmund Freud, in un suo celebre saggio. Se le forme della narrazione breve a cui abbiamo fatto riferimento appartengono tutte all’ambiente toscano, fa eccezione la raccolta novellistica di Masuccio Salernitano (Tommaso Guardati, nato forse a Sorrento nel 1410 e morto a Salerno nel 1475). Nel suo Novellino, una raccolta di cinquanta novelle composta tra il 1450 e il 1470, Masuccio abbandona la cornice, premettendo a ogni novella una lettera dedicatoria in cui si riflette la consuetudine del dialogo e dello scambio epistolare propri della corte (in questo caso si tratta della raffinata corte aragonese); lo stesso farà anni dopo Matteo Bandello. Con il Novellino di Masuccio Salernitano, si delinea una tendenza volta a valorizzare, in rapporto con il tema amoroso (ma non solo), anche la dimensione tragica (che troverà poi piena espressione artistica nel teatro inglese e spagnolo): la passione amorosa in Masuccio è spesso associata alla violenza e all’ingiustizia (➜ T2 OL).

online T1 Poggio Bracciolini

Il prete che invece di paramenti portò al vescovo dei capponi Facezie, XXII

online T2 Masuccio Salernitano

Una novella ispirata al gusto per l’orrido Novellino, XXXI

Tiziano, Donna allo specchio, olio su tela, 1512-1515 (Parigi, Museo del Louvre).

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2 Il Cinquecento Il confronto con Boccaccio: cornice sì o no? Nel corso del Cinquecento continua la produzione novellistica, nella quale è comunque sempre inevitabile il confronto con il grande modello del Decameron, fondamentale punto di riferimento, a cominciare dalla scelta o meno di utilizzare la “cornice”. Quandanche viene utilizzata dai novellieri cinquecenteschi, essa rimane però un elemento poco fuso con le novelle, ben lontano dalla esemplare coerenza strutturale del capolavoro di Boccaccio. Nella raccolta Ragionamenti (1523-1525) di Agnolo Firenzuola (1493-1543), ad esempio, lo spazio della cornice viene dilatato, assumendo quasi le proporzioni di un trattato e accogliendo le questioni più dibattute nel tempo, come l’amore o la lingua. Ma l’equilibrio complessivo ne risulta compromesso e la raccolta si interrompe all’inizio della seconda giornata. Una riedizione del contesto drammatico che caratterizza la cornice del Decameron si ha negli Ecatommiti (termine grecizzante che significa “cento racconti”) di Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573); pubblicati nel secondo Cinquecento (1565), la cornice storica dei racconti è costituita dall’evento del sacco di Roma del 1527, che induce un gruppo di persone a fuggire per mare dalla città per rifugiarsi a Marsiglia, dove si dedica a occupazioni piacevoli e in particolare alla narrazione.

Ritratto di Giovambattista Giraldi Cinzio, 1583 (Londra, British Museum).

I temi Nelle raccolte successive al Decameron, oltre a temi tradizionali come la beffa o (almeno per un certo periodo) la satira anticlericale, mantiene un posto di primo piano l’amore. Per circa un secolo gli scrittori di novelle, soprattutto nell’area toscana, preferiscono trattare il tema attraverso il registro della comicità, declinata in modo molto diretto o addirittura scurrile. Matteo Bandello, invece, all’interno di quello che è il più vasto repertorio narrativo della storia novellistica, mostra particolare propensione a rappresentare l’amore con il registro tragico. «Nei personaggi bandelliani l’amore distrugge e cancella ogni altro sentimento: diviene fissazione, mania, stravolgimento del pensiero» (Battaglia). Non a caso, i drammi d’amore delle sue novelle sfociano spesso nella morte, come nella novella qui antologizzata (➜ T3 ). Il gusto del macabro e dell’orrido Alludiamo qui a una dimensione che, attraverso la mediazione di Masuccio, emerge vistosamente nella novella del Cinquecento prima con Bandello e poi con Giraldi Cinzio. Caratteristica della novella di Masuccio era già la frequente presenza di una dimensione crudele e grottesca, di un compiacimento dell’orrido (come nella sconcertante novella di cui presentiamo uno stralcio ➜ T2 OL). Il maestro della novellistica cinquecentesca, Matteo Bandello (1485-1561), ripropone a sua volta in alcune novelle lunghe un certo gusto per l’orrido, per soggetti addirittura raccapriccianti, che sarà ampiamente utilizzato da Shakespeare e anche, secoli dopo, dal Romanticismo europeo.

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Verso la fine del Cinquecento i temi si incupiranno sempre più: al macabro, al tragico verrà dato sempre più spazio, in rapporto evidentemente alla crisi della civiltà rinascimentale e, successivamente, al clima cupo della Controriforma. Dalla novella al teatro rinascimentale Fra novella e teatro ci sono legami stretti e antichi. Nella novella infatti sono presenti situazioni e temi chiave che erano stati propri del teatro classico: ne è un esempio il tema dello sdoppiamento di persona e dello scambio, molto diffuso nella produzione novellistica e che risale al commediografo latino Plauto (254 ca.-184 a.C.). Quando poi, tra Quattro e Cinquecento, nasce il teatro umanistico-rinascimentale (➜ C16), sarà questo a rivolgersi alla novella come ricco serbatoio di temi e situazioni cui attingere: i racconti più facilmente “sceneggiabili” saranno utilizzati come fonti preziose per trame teatrali. Fra i temi novellistici che più si prestavano alla trasposizione teatrale e che più furono utilizzati dal teatro comico rinascimentale si annovera certamente quello della beffa, e in particolare della beffa erotica, un tema ampiamente testimoniato anche nel Decameron: la situazione più ricorrente prevede che un marito sciocco, e in genere di elevata condizione sociale, sia raggirato o ridicolizzato da un giovane prestante che diventa amante della moglie, a volte anche per raggiungere una migliore posizione sociale. La situazione della beffa erotica è al centro della più celebre commedia rinascimentale: la Mandragola (1518) di Niccolò Machiavelli (➜ C17). Il declino del «narrare novellando»: verso il romanzo Già nel tardo Cinquecento serpeggiano nella produzione novellistica elementi di crisi che emergeranno nel Seicento portando alla decadenza della novella: sarà un nuovo genere, il romanzo, a rispondere meglio alle esigenze proprie dell’età controriformistica e barocca. Le ragioni di questa decadenza si ritrovano innanzitutto nel mutato clima spirituale creato dalla Controriforma (nel 1563 si chiude il concilio di Trento); il rinnovato rigorismo morale proposto dalla Chiesa non poteva che scontrarsi con i contenuti tradizionali della novella: l’oscenità e la satira anticlericale, tematiche entrambe espressamente condannate in questo periodo.

Liberale da Verona, I giocatori di scacchi, tempera su legno, 1475 (New York, Metropolitan Museum of Art).

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Ma al declino della novella concorrono anche ragioni storico-sociali che interessano il nesso tra il «narrare novellando» e la civiltà comunale, in particolare toscana e fiorentina: il modo novellistico era infatti il più adatto a raccontare una società in cui l’ambiente delimitato favoriva certe forme di circolazione delle esperienze umane. Man mano che la società comunale-signorile entra in crisi, è logico che quel modello narrativo, nato in rapporto a un preciso costume sociale, decada, lasciando aperto il campo alla sperimentazione di forme più articolate e complesse di narrazione, che confluiranno appunto nel romanzo, genere emergente nel Seicento. Matteo Bandello Matteo Bandello, nato a Castelnuovo Scrivia, in provincia di Alessandria, nel 1485 da nobile famiglia, fu chierico, uomo di corte e diplomatico, al servizio di vari signori, come gli Sforza a Milano e i Gonzaga a Mantova. Dal 1528 visse a Verona, nel ruolo di segretario del condottiero genovese Cesare Fregoso, luogotenente di Francesco I, re di Francia. Dopo la morte violenta di Fregoso, Bandello si trasferì in Francia. Morì ad Agen, dove era stato ordinato vescovo, nel 1561.

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Interpretazioni critiche Salvatore Battaglia L’imprevedibilità come legge del comportamento umano

Le novelle La fama di Bandello è legata all’ampia raccolta di novelle (Quattro libri delle novelle) per un totale di duecentoquattordici testi. Bandello rifiuta di utilizzare la cornice: seguendo l’esempio di Masuccio Salernitano, premette a ogni novella una lettera dedicatoria indirizzata a eminenti politici, letterati di spicco, gentiluomini e gentildonne in cui si rispecchia il pubblico di corte, una finzione letteraria finalizzata a creare un effetto di verosimiglianza. Nonostante non si possa assegnare valore storico alle lettere, forniscono comunque un vivo ritratto della società del tempo. Le novelle non sono in alcun modo organizzate, presentano trame intricate, argomenti molto vari: si va dal comico-osceno al tragico, all’avventuroso-fiabesco, con una disposizione a indagare temi inusuali nella tradizione. Il gusto di Bandello per l’orroroso, il suo interesse per i “casi strani”, per un mondo di individui dalla psiche malata, che fanno gesti inesplicabili e incoerenti, testimonia l’incipiente crisi dell’equilibrio rinascimentale, degli ideali di armonia e misura tipici della civiltà del tempo. L’opera di Bandello ebbe grande successo anche in Europa: tradotte in inglese e in francese, le novelle ispirarono vari autori stranieri, tra cui Shakespeare.

La novella quattro-cinquecentesca

Tra imitazione e variazione di Boccaccio

Ragionamenti di Agnolo Firenzuola: dilatazione dello spazio della cornice

Ecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio: utilizzo del contesto drammatico (sacco di Roma)

Belfagor arcidiavolo di Machiavelli: novella singola Opere estranee a Boccaccio Novelle di Bandello: novelle prive di cornice

658 Quattrocento e Cinquecento 12 La novella nell’età umanistico-rinascimentale


Matteo Bandello

T3

Bandello e i “casi strani”: Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia e lei e sé stesso uccide Novelle, XX

M. Bandello, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1943

Dalla raccolta di Bandello presentiamo una novella che ha per protagonista un giovane gentiluomo, preda di una passione amorosa struggente e ossessiva che ha tutti i tratti della “malattia d’amore” (➜ C4 PAG. 186). Da qui lo sconcertante epilogo, proprio quando la storia sembra prendere una piega favorevole e far presagire un canonico “lieto fine”.

NOVELLA XX Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia e lei e sé stesso uccide. Fu al tempo del sapientissimo prencipe, quantunque sfortunato, signor Lodovico Sforza1, in una città del ducato un mercadante molto ricco di possessioni e ne la mercanzia di gran credito2. Egli prese per moglie una gentildonna giovane, costumata e d’animo generoso, da la quale ebbe un figliuolo senza piú3. Non era ancora 5 il figliuolo di dieci anni che il padre morí, lasciandolo del tutto erede, sotto cura de la madre. La donna, bramosa che il figliuolo a l’antica nobiltà degli avoli suoi si traesse4, non volle che a cose mercantili mettesse mano, ma con somma diligenza gentilescamente il fece nodrire e a le lettere attendere5 e ad altri essercizii di gentiluomo. Ella poi attese a ritirar piú che puoté le ragioni che il marito ne le cose 10 mercantesche aveva6 per Italia, Fiandra, Francia, Spagna ed anco in Soria7, attendendo a comprar possessioni al figliuolo, che Galeazzo aveva nome. Crebbe egli e divenne molto gentile e magnanimo, e oltra le lettere, si dilettava de la musica, di cavalcare, di giuocar d’arme, di lottare e d’altre simili vertú8. Il che a la madre era di grandissima contentezza, e di panni, di cavalli e di danari provedeva al figliuolo 15 largamente, non gli lasciando mancar cosa che a lui piacesse. Ella in pochi anni sodisfece a tutti i debiti del marito ed anco ricuperò quanto egli da altri mercadanti deveva avere. Restava una ragion sola9 con un gentiluomo veneziano che trafficava in Soria, il quale deveva ritornar a Venezia, essendo già Galeazzo di sedeci in dicesette anni. Onde egli, desideroso, come sono i giovinetti, di veder del paese e 20 massimamente la famosa ed onorata città di Venezia, pregò la madre che lo lasciasse andare. Non dispiacque questo giovenil disio a la donna, anzi l’essortò ad andarvi e volle che egli fosse quello che desse fine ai conti col gentiluomo veneziano, e mandò seco un fattore molto pratico, indirizzandolo anco ad un mercadante in Venezia, che era grande amico de la casa. Andò Galeazzo molto in ordine di vestimenti e di 25 servidori, e giunto a Venezia e fatto capo a l’amico paterno, fu lietamente visto, ed 1 Lodovico Sforza: detto il Moro (14521508), fu duca di Milano dal 1494 fino al 1500, quando venne deposto e imprigionato dai Francesi. Ospitò alla propria corte i migliori artisti dell’epoca (da Leonardo da Vinci a Bramante). 2 un mercadante... credito: un mercante, possessore di molte terre e molto stimato nell’arte del commercio.

3 senza piú: soltanto. 4 a l’antica nobiltà... si traesse: si conformasse all’antica nobiltà dei suoi antenati (avoli). 5 gentilescamente... attendere: lo fece allevare secondo i dettami cavallereschi e dedicarsi agli studi letterari. 6 attese... aveva: si diede da fare per

chiudere gli affari mercantili che il marito aveva in sospeso. 7 Soria: Siria. 8 Crebbe egli... simili vertù: il ritratto della formazione del giovane Galeazzo corrisponde perfettamente al modello del gentiluomo cortese. 9 Restava una ragion sola: Rimaneva un’ultima questione da risolvere.

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andarono di brigata10 a ritrovar il gentiluomo veneziano, al quale si diede Galeazzo a conoscere11 e gli disse la cagione del suo venire. [Il gentiluomo veneziano si dichiara dispostissimo a saldare il suo debito, ma prima dovrà recarsi a Padova dalla sua famiglia. Galeazzo lo accompagna ed è ospitato nella casa del gentiluomo.] Aveva esso veneziano una bella figliuola di quindeci anni, la quale da Galeazzo tutto il dí vista fu cagione che il giovine di lei ardentissimamente s’accese12, non avendo 30 per innanzi13 mai provato che cosa fosse amore. Ella de l’amor di lui avvedutasi14, piacendole il giovine, non ischivò punto il colpo amoroso15; anzi di lui senza fine s’innamorò, e tanto andò la bisogna che, una e due volte avuta la commodità di parlarsi, diedero ordine a quanto intenderete16. Deveva il padre di lei fra tre dí17 dar tutti i danari a Galeazzo e seco a Venezia tornarsene, ove gli conveniva18 star qual35 che tempo. Ella dopo la partita loro, fra dui dí19, doveva fuggir di casa sotto la cura d’un fidato servidore di Galeazzo, il quale egli aveva finto mandar a la madre, e il veneziano medesimo per lui le aveva scritto. Ma il buon servidore stette nascosto in Padova fin al tempo debito. Avuti Galeazzo i danari, insieme col gentiluomo andò a Venezia, e col suo conseglio fece rimetter tutti i danari ricevuti in Milano con 40 lettere di cambio20, e niente faceva né comprava senza lui. Ed ecco venir la nuova21 al veneziano, come Lucrezia sua figliuola era la notte innanzi fuggita e di lei non si trovava vestigio22 alcuno. Il padre, dolente oltra modo, deliberò, lasciata ogn’altra cosa, tornar a Padova23. Galeazzo, mostrandosi di questo caso dolente, s’offerí andar seco, ed in ogni luogo ove egli volesse. Ringraziato Galeazzo, partí il veneziano 45 e nulla mai puoté de la figliuola intendere24. Onde, tornato a Venezia, trovò che Galeazzo ancora v’era, il quale, dopoi in Lombardia a casa tornato, non ardí de la rapita fanciulla far motto a la madre25. Aveva il servidore condotta una convenevol casa e del tutto fornita, secondo l’ordine da Galeazzo dato, e pose a la guardia di lei la nutrice di esso Galeazzo col suo marito26. Il giovine, con meraviglioso piacer 50 de le parti27, colse il fiore e il frutto de la virginità de la sua Lucrezia, che piú che la propria vita amava, dormendo quasi ogni notte seco e largamente a torno a lei spendendo. La madre, ancor che28 sapesse che egli fuor di casa spesso dormisse e cenasse, non diceva altro. Stette circa tre anni Galeazzo con la sua Lucrezia, dandosi il meglior tempo del mondo29. Avvenne dapoi che la madre deliberò dar moglie a 55 Galeazzo, ma egli mai non volse30 consentire di prenderla. Ella dubitando che il figliuolo non fosse innamorato o forse avesse a modo suo presa moglie, tante spie 10 fu… di brigata: fu con piacere accolto, e andarono in gruppo. 11 al quale... a conoscere: al quale Galeazzo disse chi era. 12 la quale... s’accese: accadde che il giovane Galeazzo, che (l’aveva) guardata continuamente, se ne innamorò con grande ardore. 13 per innanzi: fino a quel momento. 14 avvedutasi: accortasi. 15 non ischivò... amoroso: metafora per dire che la giovane non respinse l’amore. 16 tanto andò... intenderete: le cose procedettero al punto che, avuta una o due volte l’opportunità di parlarsi, decisero quanto sentirete.

17 fra tre dí: tre giorni dopo. 18 gli conveniva: doveva. 19 dopo... dí: due giorni dopo la loro partenza. 20 fece... di cambio: diede ordine di mandare a Milano tutto il denaro ricevuto tramite lettere di cambio (specie di titoli di credito al portatore). 21 la nuova: la notizia. 22 vestigio: traccia. 23 Il padre... Padova: Il padre, molto addolorato, accantonato ogni impegno, decise di tornare a Padova. 24 nulla... intendere: non poté mai sapere nulla della figlia.

25 non ardí... la madre: non osò parlare alla madre del rapimento della fanciulla. 26 Aveva il servidore... suo marito: Il servitore, seguendo gli ordini di Galeazzo, aveva disposto una casa adatta e dotata di ogni comodità, e aveva incaricato la nutrice di Galeazzo e il marito di far compagnia alla fanciulla. 27 con meraviglioso... parti: con straordinario piacere di entrambi. 28 ancor che: sebbene. 29 dandosi... mondo: divertendosi e godendosi la vita. 30 volse: volle.

660 Quattrocento e Cinquecento 12 La novella nell’età umanistico-rinascimentale


a torno gli pose, che intese il tutto che a Padova fatto aveva. Del che molto mal contenta ritrovandosi, ebbe modo, una sera che Galeazzo in casa d’un suo cugino cenava, di far da tre uomini mascherati rubar31 Lucrezia e porla in un monastero 60 quella sera stessa. Galeazzo, dopo cena volendo andarsi a dormir con Lucrezia, trovò la nutrice ed il balio32 che amaramente piangevano, dai quali intese come tre mascherati avevano Lucrezia sbadagliata e menata via33. Egli fu per morir di doglia34 e tutta la notte pianse, ed il matino a buon’ora andò a casa e in camera si serrò e stette tutto il dí senza cibarsi. La madre quel dí non ricercò altrimenti ciò che il 65 figliuolo facesse. Veggendo poi il seguente giorno che non voleva desinare, andò a trovarlo in camera. Ma egli sospirando e piangendo pregò la madre che cosí il lasciasse stare. Ella cercava pur d’intender da lui di questo suo dolore la cagione, ma egli altro che con lagrime e sospiri non le rispondeva. Il che ella veggendo e mossa a pietà, al figliuolo cosí disse: – Figliuol mio caro, io m’averei creduto che in 70 cosa del mondo mai da me guardato non ti fossi e che tutti gli affanni tuoi m’avessi scoperto35; ma io mi truovo molto ingannata. Tuttavia, mercé de la mia diligenza36, io ho ritrovato la cagion del tuo male. So che tu ami Lucrezia, che al nostro amico a Padova rubasti. Il che quanto sia stato bell’atto, tu il puoi molto ben pensare. Ma ora è tempo d’aiuto e non di correzione. Or vivi allegramente e confortati e attendi 75 a ristorarti37, ché la tua Lucrezia riaverai, la quale io ho fatta mettere in un monastero, parendomi che, non la ritrovando, tu devessi compiacermi e prender moglie, come saria il debito tuo di fare38. – Galeazzo questo sentendo, parve che da morte a vita risuscitasse, e vergognosamente le confessò come egli amava piú Lucrezia che la propria vita, pregandola affettuosamente che alora gliela facesse venire. Ella 80 lo astrinse39 ad avere per quel giorno pazienza, e che voleva che si cibasse e si confortasse, promettendogli il seguente giorno andarla a pigliare e menarla in casa. Che diremo noi? Galeazzo or ora voleva morire, avendone perduto il sonno e il cibo, e a questa semplice promessa tutto si confortò. Egli desinò e cenò la sera, e la notte, con speranza di riaver la sua Lucrezia, dormí assai bene. Venuto il seguente giorno, egli 85 di letto levato sollecitò la madre che per Lucrezia mandasse40. La quale, per compiacere al figliuolo, montò in carretta e al monastero giunta si fece dar la giovane e a casa la condusse. Come i dui amanti si videro, di dolcezza piangendo si corsero a gettarsi le braccia al collo, e strettissimamente abbracciandosi beveva l’uno de l’altro le calde e salse41 lagrime. Galeazzo, poi che ebbe mille volte la sua Lucrezia 90 amorosamente basciata e ribasciata, tuttavia piagnendo cosí le disse: – Anima mia dolce, come sei stata senza me? Che vita è stata la tua? Non t’è egli42 fieramente rincresciuto non mi aver in questo tempo veduto? Certamente io mi sono pensato di morire, né so bene come io mi viva. Oimè, vita mia, chi m’assicura che altri, in questo tempo che da me sei stata lontana, non abbia godute queste tue bellezze? io 95 mi sento di gelosia morire e il core in corpo mi si schianta. Il perché43, cor del corpo mio, per non morir se non una volta sola ed uscir di questo gravissimo affanno, sará

31 rubar: rapire. 32 il balio: il marito della nutrice. 33 sbadagliata e menata via: imbavagliata e condotta via.

34 di doglia: di dolore. 35 m’averei... scoperto: ero convinta che non ti saresti guardato da me, mai, in nes-

suna cosa, e che mi avresti messo a parte di tutte le tue preoccupazioni. 36 mercé de la mia diligenza: grazie al mio scrupolo. 37 attendi a ristorarti: cerca di rimetterti in salute. 38 come saria... di fare: come sarebbe

tuo dovere fare. 39 astrinse: obbligò. 40 che per Lucrezia mandasse: che mandasse a prendere Lucrezia. 41 salse: salate. 42 egli: pleonastico. 43 Il perché: Perciò.

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assai meglio che moriamo insieme e in un punto diamo fine a questi nostri sospetti. – E dicendo queste parole, prese un pugnale che a lato aveva e percosse la giovane nel petto per iscontro al core, la quale subito cadde boccone in terra morta; poi a sé 100 stesso rivoltato il sanguinolente ferro, se lo cacciò in mezzo il petto e sovra la morta Lucrezia s’abbandonò. Il romore ne la casa si levò grandissimo con uno acerbissimo pianto. La sfortunata madre, come disperata, mandava le strida fin al cielo. Campò Galeazzo tutto quel giorno e nel tramontar del sole morí. La povera madre, senza ascoltar consolazione né conforto da persona44, per lungo spazio il morto figliuolo 105 pianse: caso veramente degno di pietà e compassione, e da far lagrimar le pietre, non che voi tenere e dilicate donne, che già le belle lagrime sugli occhi avete. E a ciò che la cosa non si divolgasse com’era, i fratelli de la madre fecero segretamente i dui amanti seppellire, dando voce che di peste erano morti. La cosa fu facil da credere, perciò che alora in quella città era sospetto di morbo45. [...]. 44 da persona: da nessuno.

45 era sospetto di morbo: c’era il sospetto della presenza del morbo.

Analisi del testo La struttura Antefatto remoto La novella si apre con un ampio antefatto, che ricostruisce l’ambiente sociale da cui proviene il giovane protagonista e la sua formazione raffinata, voluta dalla madre, intenzionata a fare di Galeazzo a tutti gli effetti un vero gentiluomo. Antefatto prossimo L’azione vera e propria è preceduta dal viaggio di Galeazzo dal ducato di Milano prima a Venezia e quindi a Padova, dove il giovane, nella casa dell’amico paterno, dal quale doveva riscuotere un credito, incontra la donna del suo destino: una bellissima fanciulla di nome Lucrezia, che corrisponde immediatamente al suo amore. L’azione principale Tornato a Milano, Galeazzo organizza la fuga dell’amata dalla casa paterna grazie alla complicità di un fedele servitore. Per tre anni il giovane frequenta quasi ogni notte la sua amata Lucrezia con grande piacere di entrambi. L’ostacolo La madre di Galeazzo, vedendo il figlio restìo ad ammogliarsi, compie delle indagini, scopre la ragione delle sue misteriose assenze, fa rapire Lucrezia e la fa condurre in un monastero con la speranza che, non vedendola più, il figlio acconsenta a prendere la moglie che la madre, secondo il costume del tempo, ha deciso per lui. La disperazione di Galeazzo e il colloquio rivelatore tra madre e figlio Disperato, Galeazzo rifiuta di mangiare ed è quasi per morire dal dolore. La madre allora gli svela quanto aveva fatto e l’amore materno la induce a perdonare il figlio e a promettergli che avrebbe riavuto la sua Lucrezia. L’inaspettato epilogo Riavuta la donna tra le sue braccia, Galeazzo non può tollerare il sospetto che qualcun altro abbia potuto godere della sua bellezza. Uccide prima la giovane con un colpo di pugnale e poi sé stesso, lasciando la madre in preda a un cordoglio inconsolabile.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché, secondo te, Galeazzo fa rapire la fanciulla amata? Ti sembra logico questo comportamento? TECNICA NARRATIVA 2. Individua le sequenze in cui si articola la novella e assegna a ognuna di esse un titolo. ANALISI 3. In quali luoghi e ambienti sociali si svolge la novella? 4. Tratteggia un ritratto del protagonista sulla base degli elementi espliciti e degli indizi che il racconto ti fornisce, focalizzando la tua attenzione sul “lato oscuro” di Galeazzo che emerge nel tragico finale, ma forse serpeggia qua e là anche nel corso del racconto.

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Interpretare

SCRITTURA 5. L’amore provato da Galeazzo per Lucrezia si può certamente ricollegare non solo al tema dell’amore-passione proprio della letteratura cortese, ma forse ancor più a quello della vera e propria “malattia d’amore” che sconfina nella psicopatologia (➜ PAG. 186). Sviluppa il tema con riferimento al testo letto, ricostruendo le varie fasi dell’innamoramento di Galeazzo. SCRITTURA CREATIVA 6. Quale sarebbe stato il diverso finale che forse noi tutti lettori ci aspettavamo? Prova a scriverlo tu a partire dal ritrovamento dei due innamorati.

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Testi in dialogo La storia di Romeo e Giulietta

D1a Matteo Bandello La scena del balcone in Bandello Novelle II, IX

D1b William Shakespeare La scena del balcone in Shakespeare Romeo e Giulietta, atto II, scena II

Sguardo sul teatro e sul cinema La storia di Giulietta e Romeo: dalla novella al teatro al cinema Più di una commedia di William Shakespeare (1564-1616) attinge al repertorio novellistico (in particolare quello italiano), spesso contaminando fonti diverse. Celeberrimo è il dramma Romeo e Giulietta, trasposizione teatrale di una vicenda che, prima di essere immortalata dal genio di Shakespeare, conobbe diverse rielaborazioni. La prima fonte letteraria sicura della vicenda è una novella (la XXIII) contenuta nel Novellino di Masuccio Salernitano. Nel costruire la tragica vicenda di due amanti senesi, Giannozza e Mariotto, Masuccio attingeva per altro a un tema diffusissimo, quello dell’amore di due giovani contrastato dalle famiglie. Intorno al 1524 vi pose mano in una novella “spicciolata” il veronese Luigi da Porto: nella Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti ambientò la vicenda a Verona ai tempi di Bartolomeo della Scala e ribattezzò i due giovani Romeo Montecchi e Giulietta Cappelletti, le cui famiglie erano divise da un’antica rivalità. La vicenda fu infine ripresa da Matteo Bandello con il nuovo titolo: La sfortunata morte di due infelicissimi amanti che l’uno di veleno e l’altro di dolore morirono, con vari accidenti. Insieme ad altri testi del narratore italiano, la novella fu tradotta in francese, rimaneggiata dallo scrittore Pierre Boaistuau e inserita tra le Histoires tragiques extraites des oeuvres italiennes de Bandel (Storie tragiche tratte dalle opere italiane di Bandello) (1559); è da quest’ultima fonte che attinse Shakespeare, nella traduzione però in versi inglesi di Arthur Brooke (The tragical history of Romeus and Juliet, 1562). Un itinerario complicato, dunque, quello che porta la tragica vicenda dei due giovanissimi innamorati sul tavolo

di Shakespeare, che ne trasse uno dei suoi più celebri drammi, Romeo and Juliet, pubblicato nel 1599. Shakespeare concentra la vicenda in soli cinque giorni: una scelta felice, perché conferisce un ritmo incalzante agli eventi fatali che conducono i due giovani all’innamoramento e poi alla morte. La suggestione esercitata dall’interpretazione shakespeariana della tragica storia dei due infelici amanti fu nel tempo grandissima e non è certo ancora venuta meno. Anche il cinema ha più volte ripreso la vicenda di Giulietta e Romeo: la versione cinematografica più remota del dramma risale al 1936, con la regia di George Cukor e l’interpretazione, nel ruolo dei due protagonisti, di Norma Shearer e Leslie Howard; in Italia due sono state le versioni del dramma: nel 1954, con la regia di Renato Castellani, e nel 1968 con la regia di Franco Zeffirelli. Più recentemente si possono citare il film di Baz Luhrmann (William Shakespeare’s Romeo + Juliet, 1996), con Leonardo di Caprio nel ruolo di Romeo, che tenta una rilettura “attuale” del dramma, sullo sfondo di una Los Angeles inquinata dal razzismo, dove le due famiglie rivali sono l’una bianca e aristocratica e l’altra latino-americana (la situazione riprende l’idea del musical di grande successo West Side Story del 1957) o il fortunato Shakespeare in love (1998), con la regia di John Madden, protagonisti Gwyneth Paltrow e Joseph Fiennes. Nel film si immagina che uno Shakespeare giovane e quasi sconosciuto drammaturgo trovi nell’amore per un’aristocratica, che si diletta di recitazione, l’ispirazione per terminare proprio il dramma Romeo and Juliet.

Fissare i concetti La novella nell’età umanistico-rinascimentale 1. 2. 3. 4.

Che cosa succede al genere della novella nel primo Quattrocento? E nel Cinquecento? Quali sono gli antenati della barzelletta? Quali caratteristiche presentano? Quali temi sono presenti nelle novelle? Per quale motivo nel tardo Cinquecento si verifica il declino della novella?

Il Cinquecento 2 663


Quattrocento e Cinquecento 12 La novella nell’età umanistico-rinascimentale

Sintesi con audiolettura

1 Il Quattrocento

Nel primo Quattrocento, la novella entra in crisi: l’Umanesimo tende a relegare il genere novellistico (Boccaccio compreso) ai margini della cultura. Vi scompare l’espediente della cornice e il carattere di unitarietà delle opere, a favore della composizione di singole novelle (le “spicciolate”): la più celebre è Belfagor arcidiavolo (1518), di Niccolò Machiavelli. Parzialmente autonomo è il filone della facezia, racconto breve senza velleità filosofiche o estetiche chiuso da una battuta spiritosa. Nel Quattrocento coinvolge autori di alto livello quali Leonardo da Vinci e Poliziano (Detti piacevoli), mentre nel Cinquecento è valorizzata dalla civiltà di corte, amante dell’eleganza ma anche di umorismo e intelligenza. Le facezie possono essere anche in latino: sono particolarmente diffuse, in questo caso, nei circoli culturali umanistici. In genere, comunque, gli elementi narrativi sono ridotti al minimo proprio per evidenziare l’umorismo, costruito mediante paradossi, doppi sensi, allusioni argute. Celebre in tal senso è Masuccio Salernitano con il suo Novellino, una raccolta di testi senza cornice ma con dedica, che racconta l’amore e anche la sua dimensione tragica, violenta.

2 Il Cinquecento

Nel Cinquecento continua la produzione novellistica senza mai, però, riuscire a raggiungere la coerenza del grande modello del genere, il Decameron. L’esempio che più vi si richiama è quello degli Ecatommiti (1565): una raccolta ambientata ai tempi del sacco di Roma. Il tema principale di tutte le raccolte è l’amore, declinato secondo il registro comico. Un’eccezione è rappresentata da Matteo Bandello che, nella sua opera Quattro libri delle novelle, affronta il sentimento servendosi del registro tragico, a cui si accompagna un certo gusto per l’elemento crudele, grottesco e orrido: un sintomo del generale incupimento dei temi legato alla crisi del mondo rinascimentale, che porterà all’affermazione del genere del romanzo. Le ragioni di questa decadenza si ritrovano innanzitutto nel mutato clima spirituale creato dalla Controriforma; ma anche in ragioni storico-sociali, quali la crisi della società comunale-signorile. La novella funge anche da ricco serbatoio di temi e situazioni per il teatro rinascimentale.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Realizza un documento Word o un PowerPoint in cui delinei l’evoluzione del genere della novella dagli inizi del Quattrocento al tardo Cinquecento.

Comprensione 2. La novella si lega alla comicità, ma attinge anche alla sfera del patetico e del tragico. Crea una scheda dei testi proposti nel capitolo, indicando di ciascuno il genere letterario prevalente.

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Quattrocento e cinquecento CAPITOLO

13 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato

Il poema cavalleresco, uno dei generi più prestigiosi e affascinanti della letteratura italiana, nasce nel Quattrocento per intrattenere il pubblico della corte. Alle spalle ha la tradizione medievale dei cicli carolingio e bretone, trasmessi nelle piazze dalla voce dei cantastorie e poi rielaborati in forma ancora rozza dai cantari trecenteschi. Tra Quattrocento e Cinquecento questa ricca materia narrativa assume forma artistica grazie a grandi scrittori che compongono per un pubblico colto e raffinato. Due sono le principali direttive: quella burlesca e parodica, rappresentata dal Morgante di Pulci, e quella “seria”. In quest’ultima si inscrivono, in modi diversi, l’Orlando innamorato di Boiardo, nostalgica riproposizione dei valori cavallereschi, e l’Orlando furioso di Ariosto, in cui le avventure e gli amori dei paladini sono reinterpretati con ironia, frutto della disincantata visione rinascimentale; e infine, ormai al tramonto del Rinascimento, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, che ricrea la dimensione epico-religiosa in rapporto al mutato clima ideologico della Controriforma.

cantari al poema 1 Dai cavalleresco 665 665


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Dai cantari al poema cavalleresco 1 Un genere destinato al successo L’emergere del genere epico-cavalleresco nella società cortigiana La materia epico-cavalleresca conosce una straordinaria fortuna nel Quattrocento, in rapporto all’affermarsi della società cortigiana: le storie degli antichi cavalieri sono particolarmente apprezzate dal raffinato pubblico della corte (in particolare la corte estense a Ferrara) che in esse si identifica e si rispecchia. Non è quindi casuale l’emergere in primo piano, in questo periodo, di un genere, il poema cavalleresco, che nel corso del Cinquecento, con l’Orlando furioso di Ariosto e la Gerusalemme liberata del Tasso, diventerà una delle espressioni universalmente considerate più suggestive e distintive della letteratura italiana. Dalla Francia all’Italia Il materiale narrativo a cui i poemi dell’Umanesimo-Rinascimento attingono ha una storia secolare: nato in Francia in epoca medievale, si trasmette in molte culture europee, tra cui l’Italia, in varie forme e modi. Già nel tardo Medioevo, dalla letteratura epico-cavalleresca francese erano trapassati nella cultura italiana temi, personaggi e immagini; un affascinante patrimonio narrativo, questo, che influenza nel tempo diverse forme letterarie e grandi autori: ad esempio non poche novelle del Decameron rimandano alla materia cavalleresca, che Boccaccio rivisita alla luce di una nuova mentalità. Verso la fine del Duecento, nella zona nord-orientale d’Italia, fiorisce una produzione di poemi: la cosiddetta letteratura franco-veneta; essa rielabora la tradizione cavalleresca francese utilizzando la lingua d’oil. L’opera più significativa di questa produzione è la trecentesca Entrée d’Espagne (Entrata in Spagna) che racconta le vicende di Rolando (Orlando) e di altri paladini nel paese iberico. Nel poema si può constatare la fusione tra la materia carolingia e le componenti avventurose proprie della tradizione narrativa bretone, che sarà mantenuta anche in seguito. Tra la fine del Duecento e primi decenni del Trecento si diffondono inoltre i romanzi in prosa, destinati alla lettura, che attingono sostanzialmente alla materia bretone: i più noti sono la Storia di Merlino, il Tristano Riccardiano e La Tavola Rotonda, che contamina fra loro diverse fonti della leggenda arturiana.

Scena di duello, miniatura veneta di un manoscritto de L’entrée d’Espagne, sec. XIV (Venezia, Biblioteca Marciana).

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2 I cantari

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Per approfondire La fortuna del repertorio cavalleresco presso il pubblico popolare

Una produzione divulgativa destinata all’ascolto Tra il XIV e il XV secolo, in particolare in area toscana, si diffondono i cantari: si tratta di componimenti in ottave di argomento epico-cavalleresco, recitati nelle piazze, a volte con accompagnamento musicale, di fronte a un pubblico mutevole ed eterogeneo. I canterini, cioè gli autori (e spesso anche esecutori) dei cantari, sono persone di modesta o scarsa cultura, che rielaborano in chiave divulgativa i temi epicocavallereschi per un pubblico di ascoltatori, non di lettori. Ne derivano scelte specifiche a livello sia contenutistico sia narrativo e stilistico: i canterini semplificano i temi e i personaggi, privilegiano gli aspetti narrativi di maggiore attrazione (come il magico, l’avventuroso e i colpi di scena), ricorrono costantemente all’iperbole, ma frequentemente “abbassano” (indulgendo, a volte, anche alla comicità vera e propria) una materia un tempo epica e solenne, i cui risvolti etici e religiosi erano ormai andati perdendosi. Nei cantari la materia carolingia e quella bretone sono ormai costantemente fuse: imprese epiche si alternano infatti ad amori e avventure in terre esotiche. Dalla destinazione orale deriva poi la presenza nei cantari delle frequenti allocuzioni al pubblico, di cui si richiama l’attenzione anche attraverso ridondanze, ripetizioni, e di cui si sollecita la curiosità con anticipazioni del seguito della storia narrata. A livello linguistico prevalgono la paratassi e un lessico non elevato; la metrica è poco curata. I cicli di cantari recitati “a puntate” Fra Tre e Quattrocento i cantari si organizzano in cicli narrativi, recitati a puntate in giornate successive così da creare attesa nel pubblico (non diversamente dai serial televisivi di oggi). I più importanti sono La Spagna in rima, in quaranta canti, che rielabora la tradizionale materia carolingia (➜ T1 OL) e il Rinaldo di Montalbano (o i Cantari di Rinaldo), che pone in primo piano la figura di Rinaldo. Da ricordare infine il Cantare d’Orlando, in cui vengono narrate le avventure in terra d’Oriente di Orlando e del gigante Morgante (personaggio che ritroveremo nell’omonima opera di Pulci), attorniati da altri paladini, fra i quali spicca il già ricordato Rinaldo.

online T1 L’infrazione dell’aura mitica: Orlando, affamato, cerca lavoro La Spagna in rima XV, 24-27

Vittore Carpaccio, Ritratto di cavaliere, 1510 (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza).

Dai cantari al poema cavalleresco 1 667


3 Il poema cavalleresco

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Un genere colto, di alta qualità letteraria Gli autori dei poemi cavallereschi prendono le mosse dai cantari: li utilizza Boiardo, ad esempio, oltre a varie fonti francesi, lavorando al suo Orlando innamorato; per i primi 23 canti del suo Morgante, Pulci segue abbastanza fedelmente il Cantare d’Orlando sopra citato. Dalla produzione canterina il poema cavalleresco eredita l’uso dell’ottava e moltissimi spunti tematici e narrativi. Rispetto alla tradizione popolaresca dei cantari, i poemi cavallereschi presentano però rilevanti differenze. Con riguardo alle più importanti, si può iniziare col dire che gli autori dei poemi cavallereschi sono colti, si formano in un ambiente socialmente elevato e si rivolgono essenzialmente al pubblico raffinato della corte signorile. Al contrario, i canterini hanno per lo più una cultura limitata e di conseguenza la qualità letteraria dei loro prodotti è piuttosto modesta. Questi ultimi si rivolgono, inoltre, a un pubblico eterogeneo e mutevole, per lo più di estrazione popolare. I poemi cavallereschi, poi, sono stesi subito in forma scritta e non sono destinati alla circolazione orale, bensì alla lettura personale (o alla lettura pubblica in ambienti, però, socialmente ristretti o esclusivi): proprio per questo presentano un maggior controllo formale; inoltre, proprio perché non devono essere recitati, i singoli canti sono più lunghi e non sempre trattano un argomento in sé compiuto; hanno una metrica molto più accurata; sono disseminati di riferimenti alla tradizione letteraria che solo un pubblico colto può identificare e apprezzare.

Due modelli antitetici: il Morgante di Pulci e l’Orlando innamorato di Boiardo I due maggiori poemi cavallereschi del Quattrocento sono il Morgante di Luigi Pulci e l’Orlando innaT2a Luigi Pulci morato di Matteo Maria Boiardo, testimonianze diverse di un Il proemio del Morgante medesimo processo di derivazione dai cantari: l’Orlando innaMorgante, Proemio morato rappresenta l’esito “serio”, che immette l’epica medievale T2b Matteo Maria Boiardo Il proemio dell’Orlando innamorato e la tradizione canterina nella cultura alta, mentre il Morgante ne Orlando innamorato I, i, 1-3 rappresenta l’esito “giocoso”. La diversissima ispirazione e natura dei due poemi, come già evidenziano i due proemi (➜ T2a OL, T2b OL), ha a che fare non solo con le diverse personalità artistiche dei due scrittori, ma anche con i diversi ambienti socio-culturali in cui essi operano: Boiardo scrive alla corte degli Estensi a Ferrara, centro di raffinata cultura umanistica dove la tradizione cortese era profondamente radicata; Pulci, invece, vive e opera a Firenze, dove esisteva una spiccata tradizione realistico-giocosa e dove le tendenze idealizzanti proprie di alcuni ambiti intellettuali della corte dei Medici (il neoplatonismo ficiniano) non erano riuscite a soffocare lo spirito beffardo, dissacrante, Jacopo Zanguidi detto il Bertoja e Girolamo Mirola, Orlando, Ruggiero, Fiordelisa, parodico che in certo qual modo connotaBrandimante nella foresta incantata, affresco ispirato all’Orlando innamorato, particolare della volta, 1568 ca. (Parma, Palazzo Giardino, Sala del Bacio). va (e forse ancora connota) la “fiorentinità”. Testi in dialogo I proemi del Morgante e dell’Orlando innamorato

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4 Il Morgante di Pulci.

La deformazione comica e grottesca della materia cavalleresca

Luigi Pulci, un “irregolare” alla corte dei Medici La vita Discendente da una nobile famiglia decaduta, Luigi Pulci nasce nel 1432 a Firenze. Nel 1461 entra a far parte della cerchia di Cosimo de’ Medici, quando già si gettano le basi della signoria della potente famiglia. Luigi Pulci è in affettuosi rapporti di amicizia con Lorenzo de’ Medici (che in qualche lettera chiama compagnuzzo e al quale è indirizzata ampia parte del suo epistolario). Quando Lorenzo però assume il potere, Pulci non riesce a inserirsi nel clima culturale raffinato della sua corte: la sua cultura non è di tipo umanistico, ma fondata sulla tradizione volgare, in particolare quella “giocosa”, da Cecco Angiolieri al Burchiello. La sua visione libera e trasgressiva è costituzionalmente contrapposta all’Umanesimo erudito di Poliziano e alla tendenza neoplatonica che ha il proprio principale portavoce in Marsilio Ficino, con il quale Pulci polemizza aspramente. Di fatto rimane emarginato e i suoi rapporti con Lorenzo si raffreddano. Contribuiscono certamente al progressivo distacco tra costui e Luigi Pulci anche i suoi atteggiamenti irriverenti (espressi anche in sonetti dissacranti e parodici) verso la religione. Abbandonata Firenze (anche se vi si recava solo saltuariamente), si lega al capitano di ventura Roberto Sanseverino, per cui compie numerose missioni diplomatiche. Muore a Padova nel 1484 e, per la sua fama di eretico, viene sepolto in terra sconsacrata.

Il Morgante La riscrittura comico-caricaturale del Cantare d’Orlando Pulci è stimolato a comporre il Morgante dalla madre di Lorenzo de’ Medici, Lucrezia Tornabuoni, che gli chiede un poema sulle imprese di Carlo Magno per assecondare gli interessi culturali e politici dei Medici, che in quel periodo cercano buoni rapporti con la Francia. Lo scrittore si mette all’opera assumendo come fonte principale il Cantare d’Orlando, che segue fedelmente quanto all’intreccio basilare, ma che riscrive secondo una prospettiva in sostanza caricaturale: nel Morgante, i materiali cavallereschi sono filtrati da un occhio divertito che li trasforma in spunti comici, capaci di dilettare il pubblico colto e smaliziato della corte medicea, davanti al quale, tra l’altro, il Pulci in persona recita in un’occasione i primi ventitré canti. Una scelta opposta a quella di Boiardo: il rovesciamento parodico dell’eroismo cavalleresco L’influenza della tradizione comica toscana, ma anche i caratteri borghesi e mercantili della pragmatica società fiorentina, inducono Pulci a comporre il poema in una direzione opposta alla nostalgica ricreazione del mondo cavalleresco di Boiardo, a cominciare dalla totale assenza del tema amoroso, che è invece centrale nell’Orlando innamorato. Il Morgante, però, rispecchia soprattutto lo spirito trasgressivo del suo autore, portato a rappresentare – contro ogni mistificante idealizzazione, e forse anche con intento polemico verso orientamenti culturali della corte medicea che non condivide – gli aspetti materiali, la fisicità dell’esistenza, il vitalismo dei gesti e delle azioni. È grazie a questo suo gusto, in cui si fa sentire la tradizione popolare, folklorica, “carnevalesca” (➜ C10, PAG. 627), che Pulci innova il poema cavalleresco, mentre le parti della sua opera in cui si mantiene più fedele alla tradizione epica sono meno originali e interessanti. Dai cantari al poema cavalleresco 1 669


I personaggi: tra invenzione e tradizione I personaggi del Morgante sono in parte ereditati dalla tradizione: tra di essi spicca Rinaldo, molto amato dal pubblico italiano e a cui l’autore dedica molto spazio; è un personaggio dinamico che, a seconda delle situazioni, può essere nobile e dedicarsi alla causa della fede convertendo i pagani, oppure violento, fino addirittura a trasformarsi in un volgare predone. Non manca nell’opera la figura tradizionale del paladino Orlando, che assume tratti diversi nel corso del poema: nella prima parte è preda di pulsioni istintive, negli ultimi cinque canti invece assume il tradizionale ruolo dell’eroe-martire. Ma nel Morgante emergono e restano maggiormente impressi nel lettore soprattutto i due personaggi di Morgante e di Margutte: il primo totalmente rinnovato da Pulci, il secondo da lui stesso creato. Morgante è caratterizzato dalla forza smisurata e dall’insaziabile appetito; non ha sentimenti, né intelligenza, ma è forza bruta, pura energia vitale. Margutte, furbo e spregiudicato, è portatore di una visione materialistica che gli fa pronunciare il famoso e dissacrante “credo” (➜ T4 ), dove i peccati sono trasformati in virtù. Egli rappresenta a tutti gli effetti il rovesciamento parodico dell’eroe e dell’etica cavalleresca. Un altro personaggio ideato da Pulci è il diavolo Astarotte, a cui lo scrittore affida, paradossalmente, la difesa di ideali di tolleranza religiosa che corrispondono alla sua stessa visione anticonformistica. La valorizzazione dell’invenzione linguistica Il vero elemento unificante del poema è il ruolo preminente svolto dall’invenzione linguistica, funzionale alla dimensione parodica e al gusto grottesco che lo caratterizzano. Il Morgante valorizza il carattere edonistico, creativo della lingua, al di là delle sue funzioni logiche: «l’onomatopea, l’accumulazione spesso ordinata in serie anaforiche, l’effetto di nonsense affidato tanto all’invenzione verbale quanto alla tecnica della giustapposizione di elementi incongrui, il ricorso ora a tratti fortemente idiomatici ora a vocaboli rari ed esotici o a rime difficili» (Meneghetti) rendono unica la lingua dell’opera. Il gigante Morgante e il nano Margutte, in un’incisione tratta da un’edizione a stampa del poema di Pulci del primo Cinquecento.

Un impasto linguistico eterogeneo e iper-espressivo La lingua del Morgante ha come base il parlato fiorentino, ma nel suo complesso è caratterizzata da un marcato ibridismo; nell’originale e iper-espressivo impasto linguistico del lavoro entrano, infatti, termini delle più varie provenienze: dialetti, latino, francese, ma anche elementi gergali (come il lessico dei malviventi, che Pulci aveva personalmente studiato con interesse filologico). L’orientamento linguistico del poema, che contribuisce in modo determinante alla sua originalità, è il frutto di una scelta consapevole: nel gusto per la parola corposa,

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vivacemente espressiva, Pulci si riallaccia alla tradizione toscana popolareggiante, contrapponendosi polemicamente agli ambienti umanistici che ricercavano uno stile eletto e raffinato. La vicenda La trama dell’opera è intricatissima, quasi caotica e non è possibile fare una distinzione tra episodi principali e secondari, sostanzialmente autonomi e indipendenti l’uno dall’altro come sono. Tra i tanti fili della vicenda centrale uno è rappresentato dall’abbandono, da parte di Orlando, del campo cristiano, dopo essere stato calunniato da Gano di Maganza. Lasciata la Francia in cerca di avventure, Orlando cattura e converte al cristianesimo il gigante Morgante, che lo accompagna poi in Oriente come scudiero, assistendolo nelle sue imprese. L’episodio più celebre dell’opera (che ebbe anche una circolazione indipendente dal resto del poema) è l’incontro tra Morgante e Margutte (un gigante la cui crescita si è arrestata a metà): Margutte, personaggio ideato da Pulci, è un furfante scaltro e amorale, che dà vita, insieme a Morgante, a una serie di avventure tra l’epico e il carnevalesco. Orlando in seguito farà ritorno in Francia per difendere l’esercito cristiano dall’attacco sferrato dal re saraceno Marsilio, istigato da Gano. Negli ultimi cinque cantari la narrazione si allinea al complesso delle Chansons, trattando la disfatta di Roncisvalle, la morte di Orlando e, alla fine, la terribile punizione di Gano.

5 L’Orlando innamorato di Boiardo

e la nostalgica riproposizione del mondo cavalleresco

Matteo Maria Boiardo alla corte estense La vita L’esistenza di Boiardo, nobile feudatario di Scandiano (presso Reggio Emilia), dove nasce attorno al 1440, è tutta legata alla corte degli Estensi. Matteo Maria partecipa alle feste, alle cacce e ai tornei che scandiscono la vita dell’ambiente cortigiano, svolge importanti incarichi per conto degli Este, ma al contempo si dedica anche agli studi umanistici, traducendo testi classici latini e studiando soprattutto la poesia amorosa (Orazio e Properzio). Nel 1476 si stabilisce definitivamente a Ferrara e conclude gli Amorum libri (Libri degli amori), ispirati dall’amore per Antonia Caprara, una raccolta poetica che guarda al modello del Petrarca, pur con un titolo che richiama gli Amores del poeta latino Ovidio: si tratta di centottanta liriche, in prevalenza sonetti, organizzate in tre libri secondo un preciso disegno. Probabilmente nel 1476, stimolato dalla signoria estense, il Boiardo inizia la stesura dell’Orlando innamorato, un poema cavalleresco in ottave, di cui pubblicherà nel 1483 i primi due libri. Assorbito da impegni di grande responsabilità (dal 1487 è governatore di Reggio), Boiardo interrompe però la stesura del lavoro, che rimarrà incompiuto al nono canto del III libro. Gli ultimi versi, scritti dal Boiardo poco prima di morire (nel dicembre 1494), ci consegnano l’immagine angosciata di un’Italia «tutta a fiama e a foco» per la discesa delle truppe francesi di Carlo VIII. La violenza della storia infrangeva bruscamente i sogni cavallereschi, che si rivelavano incompatibili con il corso drammatico degli eventi. Dai cantari al poema cavalleresco 1 671


L’Orlando innamorato Un’ottica nostalgica Boiardo utilizza il codice cavalleresco per esprimere la nostalgia per il mondo delle belle favole e degli antichi cavalieri, che gli sembravano ormai tramontati. Nel proemio al libro II scrive: «Così nel tempo che virtù fioria / ne li antiqui segnori e cavallieri, / con noi stava allegrezza e cortesia, / e poi fuggirno per strani sentieri» (➜ T3 OL). D’altra parte il raffinato ambiente della corte estense di Ferrara, a cui espressamente l’Orlando innamorato online si rivolge, amava particolarmente le leggende cavalleresche e T3 Matteo Maria Boiardo … E torna il mondo di virtù fiorito ancora si riconosceva nei valori etici e culturali di quel mondo Orlando innamorato II, i, 1-3 cortese ed eroico che il Boiardo cerca di rivitalizzare. Il ruolo centrale della tematica amorosa Nella riproposta del materiale epicocavalleresco, Boiardo opera alcune fondamentali innovazioni: mentre la materia carolingia era tradizionalmente dominata dalle armi, Boiardo riserva invece il ruolo principale alla tematica dell’amore, ispirandosi sia alla tradizionale materia bretone sia alla visione petrarchesca del sentimento che ricorre nella lirica del secondo Quattrocento. Del resto lo stesso Boiardo aveva composto, come si è detto, un canzoniere amoroso, gli Amorum libri, che è considerato il più significativo della poesia amorosa quattrocentesca. La sostanziale continuità tra il poeta lirico e il cantore degli amori cavallereschi è evidente nel poema, a cominciare dall’elogio dell’amore pronunciato all’inizio del canto IV del secondo libro: «Amor primo trovò le rime e’ versi / i suoni, i canti et ogni melodia; / e genti istrane e populi dispersi / congionse Amore in dolce compagnia. […]». La maggior parte delle avventure del poema è legata a questo tema, che costituisce il principale motore dell’azione narrativa: è per amore, in particolare nei confronti della bella Angelica, affascinante personaggio femminile creato da Boiardo e poi ripreso da Ariosto, che gli eroi (da Ranaldo a Sacripante a Orlando stesso) si scontrano tra loro in duelli e si avventurano lontano dal campo di battaglia, affrontando pericolose imprese. Una novità: anche Orlando si innamora Nel poema boiardesco lo stesso Orlando, eroico paladino per tradizione votato alle armi, conosce con struggente intensità l’esperienza amorosa (➜ T6 OL): da qui il titolo, che già prospetta inequivocabilmente la novità dell’opera rispetto alla tradizione epico-cavalleresca, una novità poi apertamente sottolineata nelle prime ottave del poema. Nelle prime tre ottave del canto XVIII del secondo libro (in cui sono enunciate le scelte tematiche del poema) Boiardo rovescia la gerarchia tradizionale tra materia di Francia e di Bretagna, secondo la quale la storicità della prima e i suoi valori ideologici e morali la rendevano indiscutibilmente superiore alle strane avventure dei cavalieri erranti. Al contrario, Boiardo sostiene apertamente l’inferiorità della “corte di Francia” rispetto a quella “di Bretagna” proprio per la sua insensibilità alla tematica amorosa: essa «non fo [fu] di quel valore e quella estima / qual fo quell’altra» (ovvero la Bretagna) «perché tenne ad Amor chiuse le porte / e sol se dette alle battaglie sante» (II, XVIII, 2). La “bretonizzazione” della materia carolingia e l’“abbassamento” della dimensione epica Ciò che caratterizza l’Orlando innamorato, perciò, non è tanto (come a volte si dice) la fusione dei cicli bretone e carolingio, operazione che, come si è detto, già da tempo era stata realizzata nei cantari, quanto piuttosto il sostanziale sbilanciamento dell’intreccio verso le avventure del ciclo bretone e soprattutto verso il tema amoroso, vero centro unificante del poema. Oltre a quella che il critico

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Bruscagli ha definito «bretonizzazione della materia carolingia», la novità del poema è più in generale l’“abbassamento” della materia carolingia, per cui non si può più parlare ormai di poema epico-cavalleresco, ma quasi di un nuovo genere: Orlando stesso, ad esempio, viene mostrato a volte comicamente inadeguato alle situazioni amorose in cui si viene a trovare. Altrettanto importante è la consapevole rivitalizzazione della tradizione cavalleresca alla luce dei nuovi valori dell’Umanesimo: ne è palese esempio il dialogo tra Orlando e Agricane in un celebre episodio del poema, in cui Orlando si mostra paladino della importanza della cultura, facendosi portavoce della visione tipica di tale periodo (➜ t7 ). Gli interventi del narratore Specialmente ad apertura dei singoli canti, il narratore interviene per commentare gli avvenimenti e nel corso della narrazione si rivolge spesso ai propri ipotetici uditori, che immagina accomunati a lui dalla passione per le belle storie e per i valori cavallereschi. Rispetto alla tradizione dei cantari, nell’Orlando innamorato è potenziata la figura del narratore, che ricerca deliberatamente l’adesione del pubblico di corte a cui si rivolge: «Segnori e cavallieri inamorati, / cortese damiselle e grazïose, / venitene davanti et ascoltati / l’alte venture e le guerre amorose...», come vengono ritratti i cortigiani all’inizio del canto XIX del primo libro.

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Verso il novecento Gianni Celati racconta ai lettori di oggi l’Orlando innamorato

Caratteristiche strutturali e stilistico-linguistiche Come si può dedurre anche dal riassunto sintetico sotto riportato (che rende solo in parte l’idea dell’intricato svolgersi delle avventure), l’intreccio del poema è assai complesso. Boiardo sa però gestirlo con polso fermo: anche se ancora non raggiunge la straordinaria capacità registica di Ariosto, egli dimostra una grande abilità nel riannodare i fili degli episodi, mentre nei cantari si assisteva a una semplice giustapposizione dei vari momenti; inoltre usa in modo accorto l’entrelacement (ovvero la tecnica dell’intrecciare varie vicende interrompendole e riprendendole in occasioni diverse, così da farle ora convergere ora divergere). Il linguaggio utilizzato, che ha come base il ferrarese colto, è piuttosto disomogeneo, ben lontano da quella che sarà la straordinaria armonia ariostesca: ai toni popolareggianti, tipici dei cantari, si contrappongono toni aulici e preziosi in alcune descrizioni e soprattutto nella rappresentazione degli effetti dell’amore, che risente direttamente del gusto petrarcheggiante diffuso nella lirica del tempo.

Pisanello, San Giorgio e la principessa, affresco, 1436-1438 ca. (Verona, Basilica di Sant'Anastasia).

Dai cantari al poema cavalleresco 1 673


La trama La bellissima Angelica, figlia del re del Catai, nel lontano Oriente, giunge a Parigi col fratello Argalìa mentre si sta svolgendo un grande torneo alla corte di Carlo Magno. La principessa propone a tutti i cavalieri, cristiani e saraceni, una sfida: si promette in premio a chi riuscirà a sconfiggere Argalìa, mentre i cavalieri sconfitti saranno suoi prigionieri. Argalìa, potendo contare su una lancia fatata, pensa di eliminare i migliori campioni presenti, affinché suo padre Galafrone possa più facilmente invadere l’Occidente. Il progetto però fallisce: Argalìa, a cui è sottratta la lancia magica, è ucciso dal saraceno Ferraguto. Angelica allora fugge dal campo cristiano, inseguita da numerosi cavalieri cristiani, tra cui Orlando e Ranaldo, ammaliati dalla sua bellezza. Nella foresta delle Ardenne, però, Ranaldo beve a una fonte che, per un incantesimo di Merlino, lo fa disamorare e fa sì che cominci a odiare Angelica; la donna a propria volta beve a una fonte che produce l’effetto opposto e insegue, innamorata, Ranaldo. Dopo varie avventure, la scena si sposta ad Albraca, nel Catai, dove Sacripante e Agricane combattono per il possesso di Angelica; Agricane sarà ucciso in duello da Orlando. In questa fase del poema abbondano i duelli, ma irrompe anche la dimensione del fantastico: i personaggi incontrano maghi e fate, affrontano draghi e giganti, entrano in giardini e palazzi incantati. Frattanto, il re pagano Agramante scatena una guerra in Francia, potendo contare su fortissimi guerrieri come Ferraguto, Rodomonte e anche Rugiero, che il potente signore ha sottratto al mago Atlante, il quale lo teneva nascosto. I pagani sbarcano in Francia, mettendo a dura prova l’esercito di Carlo Magno, ma Ranaldo e Orlando, ritornati in Occidente con Angelica, sono pronti a difenderlo. Il rapporto fra Angelica e Ranaldo è nel frattempo nuovamente cambiato perché Ranaldo ha bevuto questa volta alla fonte dell’amore, mentre Angelica ha preso a odiarlo avendo bevuto a quella opposta. Per amore di Angelica, Ranaldo e Orlando si azzuffano; Carlo Magno decide allora di affidarla al duca di Namo, promettendola a colui che combatterà più valorosamente. Alla fine dell’opera si accenna anche al nascente amore tra Rugiero e Bradamante (una fanciulla guerriera, sorella di Ranaldo), destinati a divenire i capostipiti della dinastia estense. Per la prima volta la materia cavalleresca viene utilizzata per fini encomiastici, cioè per elogiare una casata, in questo caso quella degli Este.

Niccolò dell’Abate, Il Boiardo legge il suo poema, lunetta affrescata, 1540, (Modena, Galleria estense, già nel castello Boiardo a Scandiano).

674 Quattrocento e Cinquecento 13 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


PER APPROFONDIRE

Morgante e Orlando innamorato Morgante

Orlando innamorato

ARGOMENTO

avventure cavalleresche

vicende amorose, duelli e avventure cavalleresche

PRINCIPALI PERSONAGGI

Rinaldo, Orlando, Morgante, Margutte

Orlando, Angelica, Argalìa, Ranaldo, Rugiero, Bradamante

MODALITÀ COMUNICATIVE (TRASMISSIONE E RICEZIONE DEL TESTO)

• stesura interrotta e poi ripresa • prima edizione incompleta nel 1478 • nuova edizione con i nuovi cantari nel 1483 (Morgante maggiore)

• poema incompiuto • prima edizione integrale nel 1506 • dimenticato per secoli, è riscoperto nell’Ottocento-Novecento

SCOPO

• fini parodistici • polemizzare contro la corte medicea

• fini encomiastici • dilettare il pubblico colto delle corti

STILE

• lingua basata sul parlato fiorentino • elementi iper-espressivi, ibridi e gergali • linguaggio edonistico e creativo

• ferrarese colto • toni aulici e preziosi • stilemi petrarchisti

PUBBLICO

colto

METRICA

ottave di endecasillabi

La fortuna contrastata dell’Orlando innamorato Dopo la sua pubblicazione, nel 1506, il poema del Boiardo conosce nei primi decenni del Cinquecento un grande successo, testimoniato da circa venti edizioni. Si tratta, però, di un successo effimero: in breve tempo il poema appare superato. Le ragioni sono essenzialmente linguistiche: la forte patina ferrarese, anche se generalmente si tratta di un “emiliano illustre”, non corrisponde alle tendenze linguistiche dominanti all’epoca, ispirate alle tesi del Bembo. L’Orlando innamorato

esce letteralmente di scena, surclassato dalla schiacciante concorrenza dell’Orlando furioso, oltretutto presentato come “gionta” – e cioè continuazione – del poema di Boiardo. Dimenticato per secoli, l’Orlando innamorato è riscoperto e rivalutato tra Ottocento e Novecento. Oggi viene letto in una versione vicina all’originale, ma ripulita dei colori più marcatamente dialettali, contenuta in un manoscritto del primo Cinquecento.

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Luigi Pulci

T4

Il credo blasfemo di Margutte Morgante, XVIII, 112-120

L. Pulci, Morgante, intr. e note di G. Dego, Rizzoli, Milano 1992

Il gigante Morgante è in viaggio per ricongiungersi a Orlando quando s’imbatte in uno strano essere, Margutte, un mezzo gigante che ha interrotto a metà la sua crescita. A Morgante, che gli chiede di dichiarare se è cristiano o pagano, Margutte risponde con una originalissima “professione di fede”... Margutte diventerà compagno di Morgante in mirabolanti imprese che costituiscono le pagine più godibili del poema e che, stampate a sé, avranno un’autonoma diffusione.

112 Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio1, uscito d’una valle in un gran bosco, vide venir di lungi, per ispicchio2, un uom che in volto parea tutto fosco3. Détte del capo del battaglio un picchio in terra4, e disse: «Costui non conosco»; e posesi a sedere in su ’n un sasso, tanto che questo capitò e al passo5. 113 Morgante guata6 le sue membra tutte più e più volte dal capo alle piante, che7 gli pareano strane, orride e brutte: – Dimmi il tuo nome – dicea – vïandante. Colui rispose: – Il mio nome è Margutte8; ed ebbi voglia anco io d’esser gigante9, poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto: vedi che sette braccia10 sono appunto. – 114 Disse Morgante: – Tu sia il ben venuto: ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato11, che da due giorni in qua non ho beuto; e se con meco sarai accompagnato12, io ti farò a camin quel che è dovuto13. Dimmi più oltre14: io non t’ho domandato se se’ cristiano o se se’ saracino, o se tu credi in Cristo o in Apollino15. – La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC

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crocicchio: crocevia. vide… per ispicchio: vide con la coda dell’occhio (cioè intravedendolo solo in parte) venire da lontano. 3 fosco: cupo, torvo. 4 Détte... in terra: Batté per terra un’estremità del battaglio. Il batacchio di una campana era l’arma personale di Morgante. 5 tanto che... al passo: fino a quando l’individuo misterioso non fosse arrivato al punto in cui lui si trovava.

6 guata: fissa, osserva intensamente. 7 che: con il significato di “le quali”, riferito a membra.

8 Margutte: il nome del personaggio deriva dal termine con cui era designato il saracino o la quintana, cioè il fantoccio che rappresentava il guerriero e che nei tornei era il bersaglio per i cavalieri armati di lancia. 9 ebbi... gigante: anch’io avevo desiderio di diventare un gigante (come Morgante). 10 sette braccia: un braccio equivaleva a poco più di mezzo metro; perciò il “mezzo gigante” era alto quasi quattro metri. 11 ecco... allato: ecco che avrò un fia-

schetto a lato. Morgante allude alla statura bassa di Margutte rispetto alla sua, che lo fa sembrare un fiasco piccolo. 12 se con meco… accompagnato: se ti accompagnerai a me. 13 io... dovuto: io ti tratterò lungo la strada come si deve. 14 Dimmi più oltre: Ma ancora dimmi. 15 Apollino: presunta divinità dei musulmani (il nome è derivato dal dio greco Apollo) che costituiva, con Maometto (Macone) e Trivigante, una sorta di antiTrinità opposta a quella cristiana.

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115 Rispose allor Margutte: – A dirtel tosto16, io non credo più al nero ch’a l’azzurro17, ma nel cappone18, o lesso o vuogli19 arrosto; e credo alcuna volta anco nel burro, nella cervogia20, e quando io n’ho, nel mosto, e molto più nell’aspro che il mangurro21; ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi gli crede; 116 e credo nella torta e nel tortello: l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; e ’l vero paternostro è il fegatello, e posson esser tre, due ed un solo, e diriva dal fegato almen quello22. E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo23, se Macometto il mosto vieta e biasima, credo che sia il sogno o la fantasima; 117 ed Apollin debbe essere il farnetico, e Trivigante forse la tregenda24. La fede è fatta come fa il solletico25: per discrezion26 mi credo che tu intenda. Or tu potresti dir ch’io fussi27 eretico: acciò che invan parola non ci spenda28, vedrai che la mia schiatta non traligna e ch’io non son terren da porvi vigna29.

16 A dirtel tosto: Per dirti subito come la penso. 17 io non credo... azzurro: è una dichiarazione di scetticismo, se non addirittura di nichilismo. 18 ma nel cappone: inizia qui la sacrilega e dissacrante parodia del Credo. 19 o vuogli: o se vuoi. 20 cervogia: un tipo di birra. 21 aspro... mangurro: il termine aspro significa sia “vino aspro” che “moneta turca d’argento”; il mangurro è una moneta turca di rame di poco valore. Il significato della frase, fondato su un gioco di parole, è ambiguo.

22 diriva... almen quello: per lo meno è

25 La fede... solletico: Come c’è chi sof-

assodato che il fegatello deriva dal fegato. Il che rappresenta, nell’opinione del personaggio, una realtà lampante e indiscutibile, a differenza dei dogmi teologici sulla Trinità. 23 ghiacciuolo: botticella di legno usata per conservare il ghiaccio. 24 se Macometto... la tregenda: se Maometto vieta e condanna il vino (il mosto) credo sia un sogno o un incubo (la fantasima), quindi non intendo obbedirgli; e Apollino deve essere un delirio, e Trivigante forse la tregenda (è “il sabba, l’adunata di spiriti infernali”).

fre il solletico e chi no, così vi è chi ha la fede e chi non l’ha. 26 per discrezion: per il tuo discernimento. 27 ch’io fussi: che io sia. 28 acciò... ci spenda: affinché tu non ti affatichi inutilmente per cercare di convincermi. 29 vedrai... vigna: vedrai che la gente come me (la mia schiatta) non si travia dal proprio cammino (detto ironicamente) e che io non sono terreno fertile per far fruttare insegnamenti religiosi (a cui allude la metafora evangelica della vigna).

Dai cantari al poema cavalleresco 1 677


118 Questa fede è come l’uom se l’arreca30. Vuoi tu veder che fede sia la mia?, che nato son d’una monaca greca e d’un papasso31 in Bursia32, là in Turchia. E nel principio sonar la ribeca33 mi dilettai, perch’avea fantasia cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille, non una volta già34, ma mille e mille. 119 Poi che m’increbbe il sonar la chitarra, io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso35. Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra36, e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso37, mi posi allato questa scimitarra e cominciai pel mondo andare a spasso; e per compagni ne menai con meco tutti i peccati o di turco o di greco38; 120 anzi quanti ne son giù nello inferno: io n’ho settanta e sette de’ mortali, che non mi lascian mai la state o ’l verno39; pensa quanti io n’ho poi de’ venïali! Non credo, se durassi il mondo etterno, si potessi commetter tanti mali quanti ho commessi io solo alla mia vita; ed ho per alfabeto ogni partita40. 30 se l’arreca: se la porta con sé dalla nascita. 31 papasso: sacerdote musulmano. 32 Bursia: antica città dell’Anatolia. 33 ribeca: strumento simile alla viola. Poi è nominato come chitarra. 34 già: solo. 35 turcasso: custodia delle frecce.

36 sciarra: rissa. 37 il mio vecchio papasso: qui allude al proprio padre. 38 tutti i peccati... di greco: tutti i peccati derivati a me da parte di padre (un turco) e di madre (una greca). 39 io n’ho… o ’l verno: io, di peccati capitali, ne ho settantasette, che non mi ab-

bandonano mai (rafforzato da la state o ’l verno). 40 Non credo... partita: Non penso che, se il mondo durasse in eterno, si potrebbero commettere tanti peccati quanti ne ho commessi solo io nella mia vita, e posso enumerarli tutti in ordine alfabetico.

Analisi del testo La struttura Il passo si divide in due parti: la prima parte (ott. 112-114) vede l’incontro tra i due personaggi, destinati, dopo le reciproche presentazioni, a diventare inseparabili compagni d’avventura. La seconda parte (ott. 115-120) è la risposta di Margutte alla domanda che Morgante gli rivolge, se sia cristiano o saraceno.

La parodia del Credo cristiano Il discorso di Margutte si articola in due momenti: nel primo egli enuncia la sua blasfema “professione di fede”, nel secondo (da noi non riportato) si autoritrae, tracciando un profilo di sé che costituisce una sorta di catalogo di tutti i vizi.

678 Quattrocento e Cinquecento 13 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


La grottesca professione di fede prende le mosse da un’aperta dichiarazione di indifferenza ai valori religiosi (io non credo più al nero ch’a l’azzurro), che svuota totalmente di significato la tradizionale contrapposizione, su cui si fondava l’epica medievale e che motiva la domanda di Morgante, tra cristiani e saraceni (se se’ cristiano o se se’ saracino, / o se tu credi in Cristo o in Apollino). Margutte si dichiara refrattario a ogni fede, impossibile da convertire (non son terren da porvi vigna). Al Credo cristiano egli sostituisce un “credo” materialista e edonista, fondato soprattutto sul culto popolaresco del cibo e del vino, le sole cose in cui il personaggio confida. Il punto più irriverente del discorso è certamente la blasfema parodia della Trinità presente nell’ottava 116, in cui le tre persone della Santissima Trinità (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) diventano la torta, il tortello e il fegatello.

Il “maledettismo” di Pulci e la tradizione La celebre “professione di fede”, a cui segue un altrettanto irriverente autoritratto (nelle ottave successive, qui non riportate) non deve essere considerata una presa di posizione ideologica dell’autore, ma va interpretata piuttosto come una precisa scelta letteraria. I doppi sensi blasfemi, e più in generale gli spunti irreligiosi di cui è disseminato il testo hanno alle spalle, come è stato evidenziato, una precisa tradizione letteraria, che si può far risalire alla poesia goliardica e comico-realistica (Cecco Angiolieri). Un’altra fonte può essere la celebre novella di ser Ciappelletto nel Decameron, in cui Boccaccio parodizza il modello delle Vite dei santi, assai popolare nella cultura medievale, per costruire il ritratto del malvagio personaggio. Anche Margutte, come ser Ciappelletto, è solito giurare il falso, suscitare scandali, bestemmiare e così via.

La parodia dell’eroe cavalleresco L’obiettivo di Pulci è il rovesciamento (che ha tutti i tratti del “carnevalesco”) del codice cavalleresco, nella costruzione deliberata di un “antieroe”: Margutte è caratterizzato, anziché dai valori celebrati dall’epica carolingia (la nobiltà d’animo, la disposizione al sacrificio, la devozione a una causa, la fede religiosa) da una bestiale voracità e da una spiccata materialità. L’operazione del Pulci mira comunque, non bisogna dimenticarlo, al divertimento del pubblico di corte, in grado di cogliere e apprezzare la parodia realizzata dall’autore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in una sintesi la professione di fede di Margutte e spiega in che cosa consiste il rovesciamento di valori attuato dal mezzo gigante. COMPRENSIONE 2. A che proposito Margutte enuncia l’irriverente professione di fede? ANALISI 3. Evidenzia nelle parole di Margutte ciò che realizza la parodia dell’eroe e dell’etica cavallereschi. LESSICO 4. Analizza il testo dal punto di vista lessicale, con particolare attenzione a termini popolari, parole esotiche, espressioni proverbiali, termini d’ambito gastronomico. Sintetizza i dati raccolti in un breve testo (max 15 righe). STILE 5. Rintraccia le metafore e fanne una schedatura, dando per ognuna una spiegazione.

Interpretare

online T5 Luigi Pulci

SCRITTURA 6. Spiega perché la visione della fede enunciata da Margutte, per quanto espressione della deformazione comico-parodica che ispira molte pagine del poema, è comunque frutto di uno spirito ormai moderno e laico (20 righe).

E Runcisvalle pareva un tegame Morgante XXVII, 50-57

online

Analisi passo dopo passo

T6 Matteo Maria Boiardo La bella Angelica propone una sfida cavalleresca Orlando innamorato, I, I; 19-25 e 29-32

Dai cantari al poema cavalleresco 1 679


Matteo Maria Boiardo

T7

Orlando difende i valori della cultura e dell’amore Orlando innamorato I, xviii, 40-48

M. M. Boiardo, Orlando innamorato, a cura di G. Anceschi, Garzanti, Milano 1978

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Tra gli episodi più significativi dell’Orlando innamorato di Boiardo c’è il celebre duello tra Orlando e il pagano Agricane e soprattutto l’intimo colloquio notturno tra i due mentre la sfida è momentaneamente sospesa.

[I personaggi principali del poema si trovano momentaneamente nel lontano Oriente, all’assedio di Albracca, dove Angelica si è rifugiata. Il re tartaro Agricane cerca di espugnare la rocca, mentre Orlando è in prima linea nella sua difesa. Per allontanare Orlando dal campo, il pagano finge di fuggire ed è inseguito dal paladino cristiano, che infine lo raggiunge. I due si affrontano in duello ma, al sopraggiungere della notte, decidono di interrompere la tenzone. Come non fossero acerrimi nemici, i due si riposano fianco a fianco e conducono una civile conversazione.] 40 Così de acordo il partito se prese1. Lega il destrier ciascun come li2 piace, poi sopra a l’erba verde se distese; Come fosse tra loro antica pace, l’uno a l’altro vicino era e palese3. Orlando presso al fonte isteso4 giace, et Agricane al bosco più vicino stassi colcato5, a l’ombra de un gran pino. 41 E ragionando insieme tuttavia di cose degne e condecente a loro6, guardava il conte il celo e poi dicia: – Questo che or vediamo, è un bel lavoro, che fece la divina monarchia7; e la luna de argento, e stelle d’oro, e la luce del giorno, e il sol lucente, Dio tutto ha fatto per la umana gente. – 42 Disse Agricane: – Io comprendo per certo che tu vôi de la fede ragionare; io de nulla scïenzia sono esperto, né mai, sendo fanciul8, volsi9 imparare, e roppi il capo al mastro mio per merto10; poi non si puotè un altro ritrovare che mi mostrasse libro né scrittura, tanto ciascun avea di me paura.

La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC

1 de acordo... se prese: la decisione (il partito) si prese di comune accordo. 2 li: gli. 3 Come fosse... palese: Orlando e Agricane stanno vicini e scoperti (palese “non nascosto”, perciò “senza difesa”) come fossero da sempre amici; mentre, al contrario, sono nemici. 4 isteso: disteso. 5 stassi colcato: se ne sta coricato. 6 cose degne e condecente a loro: argomenti elevati e adeguati alla loro dignità di cavalieri. 7 la divina monarchia: Dio, re del creato. 8 sendo fanciul: quando ero ragazzo. 9 volsi: volli. 10 roppi... per merto: ruppi la testa al mio maestro come ricompensa.

680 Quattrocento e Cinquecento 13 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


43 E così spesi la mia fanciulezza in caccie, in giochi de arme e in cavalcare; né mi par che convenga a gentilezza11 star tutto il giorno ne’ libri a pensare; ma la forza del corpo e la destrezza conviense12 al cavalliero esercitare. Dottrina al prete et al dottor sta bene: io tanto saccio quanto mi conviene13. – 44 Rispose Orlando: – Io tiro teco a un segno14, che l’arme son de l’omo il primo onore; ma non già che il saper faccia men degno, anci lo adorna come un prato il fiore; et è simile a un bove, a un sasso, a un legno, chi non pensa allo eterno Creatore; né ben se può pensar senza dottrina la summa maiestate alta e divina15. – 45 Disse Agricane: – Egli è gran scortesia a voler contrastar con avantaggio16. io te ho scoperto17 la natura mia, e te cognosco che sei dotto e saggio. Se più parlassi, io non risponderia; piacendoti dormir, dòrmite ad aggio18, e se meco parlare hai pur diletto, de arme, o de amore a ragionar t’aspetto19.

11 né mi par... gentilezza: e non mi sembra che sia adeguato a una persona nobile, a un cavaliere. 12 conviense: si conviene, è giusto. 13 Dottrina... mi conviene: la cultura (dottrina) è adatta al prete e a chi insegna (dottor). Io so quel tanto che conviene alla mia condizione di cavaliere. 14 tiro teco a un segno: concordo con te. Letteralmente “miro allo stesso bersaglio”, con metafora militare. 15 ma non già... divina: ma non è vero che (ma non già che) il sapere renda meno degno l’uomo, anzi lo adorna come fa con un prato il fiore, ed è simile a un bue, a un sasso, a un legno chi non rivolge il pensiero a Dio, e non si può senza cultura pensare la somma maestà alta e divina. Alla convinzione di Agricane, che rispecchia la primitiva cavalleria feudale, Orlando contrappone una difesa umanistica della cultura, significativamente as-

sociata, nelle sue parole, alla difesa della religiosità. 16 Egli… avantaggio: È un gesto poco cortese voler dibattere stando in una posizione di vantaggio. Agricane ha infatti appena dichiarato di essere ignorante; Egli è pleonastico. 17 te ho scoperto: ti ho svelato. 18 Se più… aggio: Se tu parlassi di più, io non ti risponderei; se hai voglia di dormire, con comodo (ad aggio) dormi (in dòrmite, il pronome -te è pleonastico). 19 se meco... t’aspetto: se hai ancora piacere di parlare con me, aspetto che tu parli di armi o di amore.

Francesco del Cossa, Un cavaliere particolare dell’Allegoria del mese di Marzo, 1470 (Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone del ciclo dei mesi).

Dai cantari al poema cavalleresco 1 681


46 Ora te prego che a quel ch’io dimando rispondi il vero, a fè de omo pregiato20: se tu sei veramente quello Orlando che vien tanto nel mondo nominato; e perché qua sei gionto, e come, e quando, e se mai fosti ancora inamorato; perché ogni cavallier che è senza amore, se in vista è vivo, vivo è senza core21. – 47 Rispose il conte: – Quello Orlando sono che occise Almonte e il suo fratel Troiano22; amor m’ha posto tutto in abandono, e venir fammi in questo loco strano23. E perché teco più largo ragiono, voglio che sappi che ’l mio core è in mano de la figliola del re Galafrone24 che ad Albraca dimora nel girone25. 48 Tu fai col patre26 guerra a gran furore per prender suo paese e sua castella, et io qua son condotto per amore e per piacere a quella damisella. Molte fiate son stato per onore e per la fede mia sopra alla sella; or sol per acquistar la bella dama faccio battaglia, et altro non ho brama27. –

20 a fè de omo pregiato: in nome della lealtà di un uomo nobile. 21 se tu sei... senza core: Agricane chiede a Orlando se è davvero il personaggio famoso nel mondo e perché, come, quando sia arrivato lì e se sia mai stato innamorato. Poi aggiunge un’esaltazione dell’amore, senza il quale un uomo non è veramente tale perché vive in apparenza, (in vista), ma senza il cuore è solo una parvenza di sé. La conclusione dell’ottava costituisce un’autocitazione di Boiardo

(v. 14 del sonetto proemiale degli Amorum libri). 22 Almonte...Troiano: guerrieri saraceni, la cui uccisione aveva dato fama a Orlando. 23 amor… strano: l’amore mi ha abbandonato completamente a me stesso e mi ha fatto venire in questo paese straniero. 24 la figliola del re Galafrone: Angelica, amata anche da Agricane. 25 dimora nel girone: nella cerchia (delle mura).

26 col patre: appunto Galafrone. 27 Molte fiate... ho brama: si sintetizza in questa dichiarazione la differenza tra l’Orlando della tradizione epica più antica, combattente molte volte (fiate) per onore e per la fede cristiana, e l’Orlando boiardesco che combatte per amore e ad altro non aspira. L’affermazione di Orlando riaccenderà violentissima la rivalità fra i due, fino all’uccisione di Agricane.

682 Quattrocento e Cinquecento 13 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


Analisi del testo Gli ideali di civiltà, lealtà, tolleranza Quello presentato è un episodio che appare ispirato agli ideali di civiltà, di lealtà e di tolleranza propri del codice di comportamento cortese in vigore nella corte ferrarese ai tempi della composizione dell’Orlando innamorato: in nome di questi valori, i due contendenti mettono a tacere, almeno per un certo tempo, le ragioni che li hanno spinti al combattimento.

Umanesimo cortese Nel dialogo emerge la distanza dell’Orlando boiardesco dalla tradizione e la sua nuova caratteristica di portavoce dell’Umanesimo cortese: al duro esercizio delle armi, esaltato come unica vera forma di educazione dal guerriero Agricane, Orlando qui contrappone la lezione della cultura che, a suo parere, pone gli individui su un piano più elevato; una visione che rispecchia gli ideali di civiltà della raffinata corte estense in contrapposizione alla più primitiva cavalleria feudale. Nell’ultima parte, però, la forza irrazionale dell’amore (provato da entrambi i protagonisti per Angelica) travolge i due cavalieri e li spinge a riprendere furiosamente il duello nel quale Agricane perderà la vita.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Descrivi in una breve sintesi: a. i due protagonisti del dialogo e i valori che rappresentano; b. i valori e i comportamenti che accomunano l’infedele Agricane al paladino della fede Orlando; c. il contesto nel quale avviene il colloquio. COMPRENSIONE 2. A che cosa allude Agricane nell’ottava 45, quando giudica scortese discutere da una posizione di vantaggio? ANALISI 3. Il disaccordo tra i due sulla formazione del cavaliere è frutto di un diverso punto di vista o di differenti modelli culturali? Motiva la tua risposta. STILE 4. Lo stile del passo proposto è molto lontano dalla solennità epica della Chanson de Roland: con quale aggettivo si potrebbe definire? Rispondi e riporta qualche esempio che lo giustifichi.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

LETTERATURA E NOI 5. Nell’ottava 44, Orlando fa un elogio della cultura, che insieme al valore guerriero «adorna [l’uomo] come un prato un fiore»; gli si contrappone Agricane, celebratore solo della forza del corpo e della destrezza. Quella di Orlando è una bellissima difesa della cultura e del sapere, in quanto descrive studio e conoscenza come il necessario completamento dell’uomo, mezzi per imparare a pensare nel modo corretto. Si può ancora oggi affermare quanto sostenuto da Orlando in questo passo (max 20 righe)?

Dai cantari al poema cavalleresco 1 683


6 L’evoluzione del tema cavalleresco nel Cinquecento. Dall’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata

L’Orlando furioso Nel Cinquecento, sempre a Ferrara, Ludovico Ariosto (14741533) crea, con l’Orlando furioso, il capolavoro assoluto del genere e insieme il poema simbolo del Rinascimento. Egli prende le mosse dal punto in cui si era interrotto il poema di Boiardo e presenta il proprio lavoro come semplice continuazione di questo. L’autore trasforma ulteriormente, però, la secolare figura del paladino Orlando, facendolo impazzire per amore di Angelica (da qui il titolo). La materia cavalleresca è ormai per Ariosto solo una specie di copione narrativo che usa, con frequenti commenti e smorzature ironiche, per esprimere non più gli antichi valori e ideali cavallereschi, ma una visione laica e moderna della vita. Rispetto all’Orlando innamorato il Furioso evidenzia maggiori capacità registiche nel gestire la complessa materia narrativa e nell’utilizzare l’entrelacement e un uso straordinariamente duttile dell’ottava. Il suo straordinario successo eclissa la fortuna del poema di Boiardo, ancora permeato, sotto il profilo linguistico, di componenti “locali”, mentre la lingua usata nel poema ariostesco, nel passaggio dalla prima all’ultima edizione (1532) si “toscanizza” secondo le prescrizioni del Bembo, superando così i confini ristretti della corte ferrarese (➜ C14). La Gerusalemme liberata Negli ultimi decenni del Cinquecento, sempre a Ferrara, viene prodotto l’ultimo capolavoro del genere, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1544-1595), in un clima storico e culturale ormai diverso. Il dibattito teorico del tempo richiedeva un adeguamento del poema al modello dell’epica classica e d’altra parte lo spirito della Controriforma imponeva che la letteratura tornasse a proporre valori morali e religiosi. La Gerusalemme liberata risponde pienamente a questi bisogni con un poema epico che ha per sfondo la prima crociata e che riprende figure (come Rinaldo) e ingredienti (come la magia) del poema cavalleresco, ma finalizzandoli alla dimostrazione esemplare di tematiche Friedrich Overbeck, Olindo e Sofronia al rogo, un episodio della Gerusaleme morali (➜ C19). liberata, affresco, 1818-20 (Roma, Casino di Villa Massimo).

Fissare i concetti Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Che cosa sono i cantari e quali sono le loro caratteristiche? Come si chiamano gli autori dei cantari e quali particolarità presentano? Quali sono le differenze tra i poemi cavallereschi del Quattrocento e i cantari? Perché Pulci e Boiardo sono considerati due modelli antitetici? Quale lingua caratterizza il Morgante? Quali novità introduce Boiardo con l’Orlando innamorato? Come si trasforma il poema cavalleresco nel Cinquecento?

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Quattrocento e Cinquecento 13 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato

Sintesi con audiolettura

1 Dai cantari al poema cavalleresco

Un genere destinato al successo Nel Quattrocento, con l’affermarsi della società cortigiana, le storie degli antichi cavalieri sono molto apprezzate dal raffinato pubblico della corte (in particolare quella di Ferrara) che in esse si identifica e si rispecchia. Non è quindi casuale l’emergere in primo piano, in questo periodo, di un genere, il poema cavalleresco, che, nel successivo corso del Cinquecento, diventerà una delle espressioni distintive della letteratura italiana. I temi e le leggende, i personaggi e le immagini costitutivi del tessuto narrativo del poema cavalleresco provengono, già da epoca tardomedievale, dalla letteratura epico-cavalleresca francese. Verso la fine del Duecento fiorisce in Italia la cosiddetta letteratura franco-veneta, rielaborazione della tradizione cavalleresca francese in lingua d’oil (Entrata in Spagna). Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento si diffondono i romanzi in prosa: i più noti sono la Storia di Merlino, il Tristano Riccardiano e La Tavola Rotonda. I cantari Importanti per la diffusione a livello popolare (ma non solo) del repertorio cavalleresco sono i cantari, componimenti in ottave (il metro poi consueto nella poesia cavalleresca) composti e recitati da autori poco colti (i canterini) nelle piazze e caratterizzati da scarsa qualità artistica e da espedienti volti a catturare l’attenzione di un pubblico variabile ed eterogeneo (l’organizzazione in cicli narrativi, recitati a puntate in giornate successive). I poemi cavallereschi Gli autori dei poemi cavallereschi si ispirano ai cantari: ne utilizzano l’ottava e traggono molti spunti tematici e narrativi. Ma vi si differenziano anche in modo decisivo: essi sono colti e si rivolgono al pubblico raffinato delle corti, il quale può apprezzare i riferimenti alla tradizione letteraria nei loro lavori, che sono scritti e più curati

Francesco Morandini detto il Poppi, Tavola Doria, olio su tavola, 1563 (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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dal punto di vista metrico e formale, con canti più lunghi e che non sempre trattano un argomento completo. I due maggiori poemi cavallereschi del Quattrocento sono il Morgante di Luigi Pulci e l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo: uno derivazione “giocosa” dai cantari, l’altro “seria”, essi rappresentano i prodotti assai differenti di due ambienti e personalità molto diversi. Il Morgante A Firenze, a opera di Luigi Pulci (1432-1484) è prodotta una sorta di parodia del poema cavalleresco: è il Morgante, sempre in ottave, caratterizzato dal rovesciamento “carnevalesco” degli ideali cavallereschi e della tipologia dell’eroe epico. L’obiettivo è quello di divertire la corte medicea (presso cui Pulci si era trovato a operare), in questo caso attraverso avventure iperboliche e grottesche: soprattutto quelle dei due personaggi di Morgante e Margutte, un gigante e un mezzo-gigante; avventure che ebbero anche una diffusione autonoma rispetto al resto del poema. Componente fondamentale del grottesco universo poetico di Pulci è il linguaggio, in cui l’autore mostra grande virtuosismo nell’associare lingue diverse e termini popolari, sempre con un gusto marcato per l’iper-espressività. L’Orlando innamorato A Ferrara, alla corte degli Estensi, grazie a Matteo Maria Boiardo (1441-1494), umanista e poeta lirico (è autore della raccolta poetica Amorum libri), nasce il poema cavalleresco. Si tratta di un genere di grande fortuna nel tempo, che attinge dai cantari sia i materiali narrativi sia alcuni espedienti tecnici, come l’entrelacement, ma che è caratterizzato da un’elevata qualità letteraria e utilizza la materia cavalleresca per il divertimento di un pubblico competente e raffinato. Boiardo incentra il suo Orlando innamorato, che rimase interrotto, sulla forza invincibile dell’amore, tema tipico della tradizione bretone. L’amore (per Angelica, personaggio ideato dall’autore) colpisce anche Orlando (da qui il titolo), eroe “carolingio”, che lo scrittore reinterpreta alla luce dei valori umanistici e cortesi. D’altra parte quest’ultimo sente ancora il fascino degli antichi valori feudali, che però ripropone in un nuovo contesto. La trama del poema è intricata, con molti episodi secondari, ma Boiardo riesce nel complesso a reggerne le fila. La lingua dell’Orlando innamorato ha come base il ferrarese colto.

Simone Peterzano, Angelica e Medoro, olio su tela, 1560-1596 ca. (Collezione privata).

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Pisanello, Torneo di cavalieri, (totale e particolari), pittura murale strappata, 1430-1433 (Mantova, Palazzo Ducale, Sala del Pisanello, parete sud-est).

Il tema cavalleresco nel Cinquecento: Ariosto e Tasso A Ferrara, nel Cinquecento, Ludovico Ariosto scrive l’Orlando furioso, il capolavoro del genere e poema simbolo del Rinascimento. Egli presenta il proprio lavoro come continuazione del lavoro del Boiardo: in realtà trasforma ulteriormente la figura di Orlando, gestisce meglio la complessità della struttura e della materia, usa l’ottava in maniera più duttile e si serve del tema cavalleresco come copione per esprimere non gli ideali di quel mondo, ma una visione laica della vita. Negli ultimi decenni del secolo, nella stessa città ma in un ambiente culturale molto cambiato, Torquato Tasso crea la Gerusalemme liberata, ultima grande opera del genere. Il poema riprende gli stilemi dell’epica classica e propone, sullo sfondo della prima crociata e secondo lo spirito della Controriforma, valori morali e religiosi.

Zona Competenze Competenza 1. Dividetevi in gruppo e, dopo aver scelto lo strumento di presentazione, realizzate un digitale lavoro che mostri la nascita e l’evoluzione del poema cavalleresco. Esposizione orale

2. Ciascuno di voi dovrà preparare un orale di max 5 minuti dove illustrerete i due poemi di Pulci e Boiardo con riferimento ai testi letti.

Scrittura

3. Analizza in un testo scritto gli elementi pricipali dello stile di Boiardo e Pulci, evidenziando le principali caratteristiche dell’opera dei due artisti.

Sintesi

4. Costruisci una sintesi per punti sul confronto tra il Morgante di Pulci e l’Orlando innamorato di Boiardo riguardo argomenti e personaggi principali delle opere.

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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Quattrocento Quattrocento e cinquecento e cinquecento CAPITOLO

14 Ludovico Ariosto LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Ariosto visto da sé medesimo L’opera che maggiormente ci restituisce la fisionomia dell’uomo Ariosto, la sua equilibrata visione del mondo e della condizione umana, è costituita certamente dalle Satire (1517-1525). Perciò, per fare una prima presentazione del grande scrittore, abbiamo scelto qualche terzina dalla terza Satira (vv. 244-264), in cui il poeta delinea il proprio ideale di vita: accettare saggiamente quanto la vita offre, non nutrire ambizioni smodate, essere (e non solo sembrare) un uomo da ben, “per bene”. [...] se l’uomo è sì ricco che sta ad agio 245 di quel che la natura contentarse dovria, se fren pone al desir malvagio; che non digiuni quando vorria trarse l’ingorda fame, et abbia fuoco e tetto se dal freddo o dal sol vuol ripararse; 250 né gli convenga andare a piè, se astretto è di mutar paese; et abbia in casa chi la mensa apparecchi e acconci il letto, che mi può dare o mezza o tutta rasa la testa più di questo? Ci è misura 255 di quanto puon capir tutte le vasa. Convenevole è ancor che s’abbia cura de l’onor suo; ma tal che non divenga ambizïone e passi ogni misura. Il vero onore è ch’uom da ben te tenga 260 ciascuno, e che tu sia; che, non essendo, forza è che la bugia tosto si spenga. Che cavelliero o conte o reverendo il populo te chiami, io non te onoro, se meglio in te che ’l titol non comprendo. [...] se l’uomo è così ricco da trovare il benessere in ciò di cui la condizione naturale dovrebbe accontentarsi, se frena il desiderio perverso (di avere di più); se è abbastanza ricco da non essere costretto a digiunare quando vorrebbe saziarsi, e abbia il focolare e un tetto se vuole ripararsi dal freddo o dal sole; e non debba andare a piedi, se è obbligato a cambiare paese; abbia in casa chi apparecchi la tavola o prepari il letto, che cosa mi può dare di più aver la testa in parte rasata (come il papa) o del tutto (come il sultano)? C’è un limite di capienza per ogni recipiente (cioè, ogni uomo ha limitate capacità di provare piaceri). Inoltre è giusto che si abbia cura del proprio onore; ma in modo tale che non diventi ambizione smisurata. Il vero onore è che ognuno ti consideri una persona per bene, e che tu lo sia realmente; perché, se non lo sei, la menzogna per forza in fretta si spegne. Che il popolo ti chiami cavaliere, conte o reverendo, io non ti onoro se non percepisco in te qualcosa di più che il titolo.

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Ludovico Ariosto appartiene senza alcun dubbio al canone dei grandi classici italiani ed europei grazie all’Orlando furioso, che rilancia con straordinario successo la fortunata tradizione del poema cavalleresco. Ariosto vive e opera alla corte estense di Ferrara, della quale è un funzionario: nelle sue Satire testimonia la difficoltà di conciliare le incombenze legate alla condizione di cortigiano con l’identità di umanista. La fama di Ariosto è affidata all’Orlando furioso, poema in ottave che ha il suo fulcro nella follia di Orlando, da cui deriva il titolo. La straordinaria novità dell’opera sta nell’aver utilizzato il codice dell’epica cavalleresca per esprimere una moderna, disincantata interpretazione della realtà e dei comportamenti umani. Nel variegato universo narrativo dell’Orlando furioso, in cui convergono tutti i temi dell’umana esperienza, si esprimono i parametri conoscitivi ed estetici della cultura rinascimentale: la sua pienezza ma, al contempo, i sintomi della sua crisi.

1 ritratto d’autore 2 Le opere 3 L’Orlando furioso 689 689


1 Ritratto d’autore 1 Una vita nella corte VIDEOLEZIONE

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Sguardo sulla storia Ferrara al tempo di Ariosto

Ludovico Ariosto ferrarese La vita di Ludovico Ariosto, conformemente a un ideale esistenziale ed etico ispirato all’equilibrio e alla saggezza, è una vita “normale”, priva di eventi eclatanti, per nulla avventurosa e tormentata, che può deludere chi ancora pensa allo scrittore secondo il modello romantico del “genio” irregolare, in preda a drammi ideologici e spirituali. È una vita inserita pienamente nel contesto della corte, nel ruolo, quasi obbligato a quei tempi, di cortigiano, in particolare al servizio degli Estensi. L’intera esistenza di Ariosto si muove nell’atmosfera di Ferrara, città nella quale si forma, vive, scrive, e dalla quale si allontanava malvolentieri. Ferrara è il contesto naturale della produzione poetica dell’Ariosto e al di fuori di essa non si potrebbe adeguatamente comprendere né la sua fisionomia di uomo e di letterato né la sua opera. I primi anni e la formazione Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia l’8 settembre 1474, primo di dieci figli. Il padre Niccolò, ferrarese, era capitano della cittadella per conto di Ercole I d’Este. Nel 1484 la famiglia si trasferisce a Ferrara, destinata a diventare la dimora stabile e amata di Ludovico, che in essa compie i suoi primi studi. Per volontà paterna intraprende gli studi giuridici, ma senza nessun entusiasmo, anzi considerando questi anni come perduti, in quanto sottratti ai prediletti studi delle humanae litterae; «Mio padre mi cacciò con spiedi e lancie, / non che con sproni, a volger testi e chiose, / e me occupò cinque anni in queste ciancie. / Ma poi che vide poco fruttuose / l’opere e il tempo in van gittarsi, dopo / molto contrasto in libertà mi pose»: così l’Ariosto nella Satira VI (vv. 157-162). Della frequentazione assidua dei classici sono frutto i primi componimenti poetici, in lingua latina (Carmina). Nel frattempo, Ariosto frequenta gli ambienti letterari e artistici della corte estense, particolarmente vivace e brillante in quegli anni per la presenza di personaggi illustri, tra cui anche Pietro Bembo, che vi soggiornò tra il 1497 e il 1499.

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1492

Muore Lorenzo il Magnifico. 1492

Cristoforo Colombo approda per la prima volta in America.

1474

Nasce l’8 settembre a Reggio Emilia, primo di dieci figli, dal conte Niccolò, funzionario della corte estense, e da Daria Malaguzzi.

1494

1503-1512

Carlo VIII giunge in Italia.

1494-1500

Dopo cinque anni di studi giuridici, inizia a dedicarsi agli studi letterari e a comporre poesie (Rime e Carmina).

1511

Pontificato di Giulio II.

1500

Muore il padre ed è costretto a cercare una sistemazione per poter provvedere ai fratelli.

690 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

1503

Entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este e prende gli ordini minori.

Erasmo da Rotterdam compone l’Elogio della follia.

1508

Compone La Cassaria, il primo esempio di commedia classicista rinascimentale. 1503-1516

Compie varie missioni delicate per gli Estensi, in particolare a Roma dove si reca varie volte.

1513-1521

Pontificato di Leone X (Giovanni de’ Medici).


Le responsabilità familiari e il ruolo di funzionario di corte Nel 1500 la morte del padre interrompe bruscamente una vita piacevole e dedita agli amati studi; le responsabilità del mantenimento della numerosa famiglia ricade su Ludovico, né egli vi si sottrae. Quella di funzionario di corte diventa allora la sua stabile professione, costringendolo ad abbandonare la quieta vita di studi, condotta fino a quel momento (con suo grande rammarico non potrà imparare il greco). Nel 1503 prende gli ordini minori, una strada pressoché obbligata per poter godere di una rendita: entrando nel numero dei chierici (che erano numerosissimi anche alla corte estense) era possibile infatti ottenere dalla Curia romana i benefici riservati al clero. Nello stesso anno Ariosto entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca di Ferrara, Alfonso I. La qualifica di Ludovico è quella di familiaris continuus commensalis (Zanette): il che significava far parte ufficialmente dei numerosi gentiluomini di corte, con in più lo speciale diritto, certo invidiato da molti, di pranzare quotidianamente con il potente signore. Il familiare non ricopriva un incarico particolare, ma veniva impiegato molto spesso in ambascerie, contatti con altri potentati e negoziazioni varie.

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Gallery Ferrara e gli Estensi

Lessico otium Gli studi in ambito letterario e/o l’attività svolta in questo campo; ma già in epoca romana il termine indicava più generalmente anche il tempo, libero da impegni politici o lavorativi, ad essi dedicato.

Il complesso rapporto con la corte Da Ludovico, Ippolito pretendeva continui e improvvisi viaggi, che venivano subìti senza entusiasmo, anche se poi le missioni affidategli (soprattutto a Mantova, Bologna, Firenze) erano affrontate con scrupoloso zelo. Inizia qui quel rapporto con la corte che anche in seguito sarà caratterizzato dalla accettazione dei compiti assegnati, ma anche da una intima insofferenza nei confronti delle pretese del cardinale, poco propenso ad apprezzare l’attività poetica di Ludovico e a concedere al poeta l’otium umanistico che tanto desiderava: «dal giogo / del Cardinale d’Este oppresso fui; / che […] non mi lasciò fermar molto in un luogo, / e di poeta cavallar mi feo» (Satira VI, vv. 233 e seguenti). Ariosto esprime in particolare nelle Satire il suo disagio personale e la sua critica all’ambiente umano della corte, differenziandosi così dalla tendenza a idealizzarne personaggi e comportamenti (come nel caso di Castiglione). Le difficili missioni a Roma Tra i viaggi diplomatici affrontati da Ludovico spiccano per difficoltà e disavventure quelli a Roma tra il 1509 e il 1510 presso il papa Giulio II, i cui rapporti con la corte estense erano in quel periodo molto difficili. Nel 1513, morto Giulio II e divenuto papa Giovanni de’ Medici col nome di Leone X, fu di nuovo a Roma al seguito di Alfonso e Ippolito, che vi si recavano per rendere omaggio al nuovo pontefice.

1525

1517

Pietro Bembo pubblica le Prose della volgar lingua.

Martin Lutero affigge le 95 tesi.

1516

Esce la prima edizione dell’Orlando furioso. Ne seguiranno altre due: nel 1521 e nel 1532.

1518 1517

Abbandona il servizio del cardinale Ippolito. Inizia la stesura delle sette Satire, che concluderà nel 1525.

Viene assunto al servizio del duca Alfonso d’Este, che lo impegna in varie mansioni.

1527

Sacco di Roma.

1522-1525

Si trasferisce a Castelnuovo in Garfagnana, dove rimarrà circa tre anni come governatore della regione per conto degli Estensi.

1525

Torna a Ferrara dove vive gli ultimi anni in serenità, lavorando alla terza edizione dell’Orlando furioso (1532).

1533

Muore il 6 luglio nella sua casa di Ferrara.

Ritratto d’autore 1 691


Ariosto probabilmente sperava in qualche beneficio da Leone X, interessato alle arti e già conosciuto dal poeta a Firenze, ma queste speranze andarono deluse, come lo stesso autore racconta vivacemente in una lettera e in alcuni versi della Satira III. Ariosto lascia il cardinale Ippolito Nel 1517 Ariosto interrompe il suo rapporto con il cardinale Ippolito, rifiutandosi di seguirlo ad Agria (l’attuale Budapest), dove questi aveva ottenuto una sede vescovile (➜ T2 ). La scelta dovette certo costargli molto, ma seguire Ippolito avrebbe significato allontanarsi da Ferrara, dalla donna amata, Alessandra Benucci, conosciuta nel 1513 e poi amata per tutta la vita, dai familiari e affrontare un mondo diverso e lontano, un’avventura che la sua indole meditativa e tranquilla non poteva accettare. «Più tosto che arricchir voglio quiete», dice il poeta nella Satira I, ispirata appunto alla difficile decisione. Intanto, nel 1516 aveva pubblicato la prima edizione dell’Orlando furioso.

A Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, è attribuito il soffitto della Sala del Tesoro di palazzo Costabili di Ferrara. Il particolare dell’affresco (1503-1506) raffigura una scena di vita rinascimentale animata da musici e putti, affacciati a una balaustra.

Al servizio del duca Alfonso: l’esperienza di governatore in Garfagnana Tra il 1518 e il 1522 rimane alle dipendenze di Alfonso d’Este, fratello del cardinal Ippolito, dividendo il suo tempo tra gli impegni di funzionario di corte e la composizione delle sue opere: lavora infatti alle Satire e al Furioso, di cui nel 1521 esce la seconda edizione. Nel 1522 viene nominato da Alfonso governatore della Garfagnana. Ariosto accetta l’incarico per necessità e senso di responsabilità e riesce a raggiungere apprezzabili risultati nonostante le oggettive difficoltà di amministrare e regolare un territorio “difficile”, ribelle all’autorità degli Estensi e in cui era diffuso il brigantaggio. Sul periodo garfagnino ci informano le moltissime lettere scritte da Ariosto durante quegli anni (ben 156) che offrono il ritratto di un uomo tutt’altro che sognatore, pigro e inetto, come in passato è stato talvolta visto, ma al contrario pragmatico ed efficiente nell’esercitare un ruolo assai impegnativo. Certo, non si può dire che Alfonso sostenesse né finanziariamente né in alcun altro modo l’azione politica di Ludovico, che gli chiede più volte di revocare l’incarico (➜ T1 OL). Il ritorno a Ferrara e gli ultimi anni Nel 1525 avvenne il sospirato rientro nell’amata città, dove continuò a esercitare incarichi amministrativi e fu anche nominato sovrintendente agli spettacoli di corte, il che lo indusse a rielaborare le commedie scritte ormai parecchi anni prima e a realizzarne una nuova. Nel contempo continuava a lavorare intensamente al proprio poema (stava mettendo mano alla terza redazione dell’opera). Intanto aveva acquistato una casa in contrada Mirasole. In questa dimora a lui cara trascorse anni felici, resi sereni dall’amore di Alessandra, che sposa segretamente nel 1528, e dall’affetto del figlio Virginio, avuto da una precedente relazione. Furono anche anni di intenso lavoro, ma finalmente libero e “suo”: si trattava della revisione stilistica, linguistica e strutturale del Furioso, che lo impegnò quasi fino al termine della sua vita. Nel 1532 esce, accresciuto in quarantasei canti, l’ultima edizione del poema, destinato a straordinaria diffusione e fortuna ben oltre i confini di Ferrara. Un anno dopo, a quasi sessant’anni, il 6 luglio 1533, Ludovico Ariosto muore nella sua casa di Ferrara. La notizia della scomparsa si diffuse solo dopo le esequie, forse per una estrema volontà del poeta di difendere la sua identità privata, a cui sempre aveva tenuto maggiormente che a quella di uomo pubblico.

692 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto


2 Le opere

1 Lo sperimentalismo dei generi

Una produzione eclettica Uno dei maggiori interpreti di Ariosto, il critico Lanfranco Caretti, ha osservato che quella dell’Ariosto «è una carriera con un solo libro al centro (il Furioso)». Effettivamente all’Orlando furioso Ariosto dedica l’intera sua esistenza; ma il poema non costituisce l’unica sua opera importante e non è isolato dalla restante produzione. Ariosto si rivolge infatti a una pluralità di generi letterari, a cui corrispondono diverse modalità di approccio al reale da parte dello scrittore: dalle Rime, che costituiscono il suo apprendistato poetico, alle Commedie – la prima delle quali, la Cassaria, inaugura nel 1508 il rinnovato teatro italiano – all’epistolario e alle Satire, in cui esprime una vena polemica. Le opere minori di Ariosto non vanno lette esclusivamente come un banco di prova e di sperimentazione per il poema: al contrario, esse possiedono una loro autonoma dignità e compiutezza, per cui costituiscono, nell’insieme del corpus delle composizioni ariostesche, un polo dialettico con l’armonia perfetta del Furioso. Leggendo le Satire e le Commedie si comprende, infatti, che il poeta dei mondi fantastici, delle avventure sul cavallo alato, della magia e della bellezza, il creatore del romanzesco mondo dei paladini e delle dame, delle armi e degli amori, non ignora affatto la dura realtà del quotidiano, ma anzi entra in rapporto con essa.

2 Le Rime online

Per approfondire Ariosto pensava a un “canzoniere”?

La centralità del tema amoroso Oltre a una cospicua produzione di liriche latine, come era usuale per ogni cultore di studi umanistici, l’Ariosto nei primi anni del secolo inizia la composizione di rime in volgare che, dopo il 1513, in massima parte sono ispirate dalla donna amata, Alessandra Benucci: Alessandra viene cantata con toni di ammirazione contemplativa nella fase dell’innamoramento, poi con un’aperta sensualità, secondo la libera visione dell’amore propria del Rinascimento a cui anche nell’Orlando furioso l’autore mostra di aderire. Le Rime presentano una varietà metrica che ben testimonia lo sperimentalismo letterario del poeta: si tratta di ottantasette componimenti, di cui la maggior parte è costituita da sonetti e madrigali, tipici della poesia amorosa e galante dell’ambiente di corte. Non mancano, tuttavia, canzoni ed egloghe, e sono presenti anche numerosi capitoli in terza rima di argomento più realistico. I modelli Il punto di riferimento fondamentale per chi scrive rime d’amore nel primo Cinquecento non può che essere Petrarca, la cui supremazia nel genere lirico era stata consacrata dal Bembo; tuttavia nelle liriche ariostesche si scorge una pluralità di modelli: dalla lirica del Boiardo, con la sua gioia di vivere e di amare e il suo gusto per la rappresentazione della natura, al recupero di alcuni topoi stilnovistici, peraltro mai scomparsi dalla nostra lirica (l’apparizione della donna, il sospiro, l’amore non ricambiato e simili); a essi si aggiungono gli influssi dei poeti d’amore della letteratura latina, come Catullo, Properzio, Orazio, soprattutto per quanto riguarda la scoperta presenza della nota di sensualità che caratterizza parte delle rime dell’Ariosto. Le opere 2 693


3 Ariosto commediografo La riscoperta del genere della commedia classica per l’intrattenimento della corte Sulla scia della ripresa umanistico-rinascimentale dei modelli classici, negli ambienti di corte nasce un teatro “laico” (ossia non legato ai temi religiosi delle sacre rappresentazioni medievali) che in un primo periodo consiste semplicemente nella rappresentazione delle commedie latine di Plauto e Terenzio (presto tradotte in volgare). Ma un ulteriore passaggio (la creazione, cioè, di nuove commedie) era espressamente stimolato dalle corti (quella estense, come quelle di Mantova, di Urbino, Milano e altre ancora), interessate a favorire lo sviluppo di una qualificata letteratura da intrattenimento che creasse consenso intorno alle signorie. Anche Ariosto, dopo aver tradotto per la corte ferrarese molte commedie plautine e terenziane (traduzioni andate perdute), decise di scrivere in prima persona commedie in volgare, fondate sempre su modelli latini, ma con rilevanti elementi di novità, rispondendo così a una vera e propria “richiesta di mercato”: dopo l’interruzione degli spettacoli di corte dovuta alla discesa di Carlo VIII in Italia e al minaccioso clima politico che ne conseguì, gli splendori della vita di corte ripresero con maggior vigore. Con la Cassaria, rappresentata con grande successo nel palazzo ducale di Ferrara in occasione del Carnevale del 1508, nasce in Italia il teatro laico in lingua volgare, d’ispirazione classicheggiante. «Nova commedia v’appresento»: la creazione di un genere e di un modello La trama della Cassaria (la “commedia della cassa”), così come quella della commedia scritta e rappresentata l’anno successivo, I Suppositi (cioè “gli scambiati”), deriva da modelli latini ed è strutturata sulle situazioni tipiche della commedia classica (scambi di persona, equivoci, amori contrastati, eterno conflitto tra giovani e vecchi e così via). Quanto all’ambientazione, I Suppositi introduce una significativa innovazione: la vicenda si svolge proprio a Ferrara. In questo modo Ariosto «fissa quel legame tra scena, corte e città, che avrà un peso fondamentale per tutta la nuova commedia volgare» (Ferroni). Le prime commedie ariostesche sono scritte in prosa, con un distacco evidente dal modello latino, che si avvaleva invece dei versi: una scelta probabilmente dovuta all’intenzione dell’autore di modernizzare il genere della commedia classica e di renderlo più accessibile. Il prologo della Cassaria è invece in terzine, primo esperimento di linguaggio teatrale in versi: «Nova commedia v’appresento piena / di varii giochi che né mai latine / né greche lingue recitarno in scena». Con questa dichiarazione l’autore si mostra pienamente consapevole della novità della propria impresa, che si manifesta anche nell’invenzione linguistica, con la creazione di un linguaggio ricco di popolarismi e di latinismi del registro basso, che rappresenta il primo tentativo di un linguaggio comico teatrale italiano. Dalla prosa ai versi: la nuova forma della commedia Dopo una lunga interruzione, dovuta alle guerre presenti sul territorio, ai gravosi impegni di funzionario degli Estensi e soprattutto all’imponente fatica della prima stesura del Furioso (completata nel 1516), Ariosto riprende a dedicarsi al teatro, con un’importante novità, ossia la scelta, prima esclusa, del verso. Lo scrittore sente il verso come più congeniale al genere della commedia (derivato comunque dal modello latino) e più adeguato a un’esigenza di “letterarietà”:

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nell’ottica ariostesca la commedia nuova deve realizzare un giusto equilibrio tra le richieste estetiche di un pubblico elevato, come era quello della corte, e le ragioni della comicità. La scelta metrica cade sull’endecasillabo sdrucciolo sciolto, il cui ritmo, da un lato, può richiamare quello del senario giambico della tradizione latina e dall’altro si adatta meglio all’andamento dialogato, rimanendo oltretutto meno lontano di altri versi più lirici dalla conversazione prosastica. In versi egli scrive dunque due nuove commedie, Il Negromante e La Lena, rispettivamente nel 1520 e nel 1528, oltre a I studenti, rimasta però incompiuta. A partire dal 1528, nel periodo in cui si infittisce la sua attività di “regista” teatrale per l’ambiente cortigiano estense, riscrive in versi anche le due prime commedie composte in prosa. Le novità tematiche del Negromante e della Lena Nel Negromante entra in scena un personaggio nuovo rispetto alle fonti latine: si tratta della figura di un falso mago imbroglione, Mastro Iachelino, un personaggio in cui si può forse vedere un’allusione, ironica e addirittura parodica, alle credenze e alle pratiche magiche, assai diffuse nella cultura contemporanea all’Ariosto e nello stesso ambiente ferrarese. Quanto poi alla protagonista dell’ultima commedia, La Lena, è una ruffiana di mezza età, le cui tresche sono tollerate per interesse economico dal marito Pacifico. Lena è un personaggio legato alle implacabili leggi della sopravvivenza, in un mondo e in un ambiente sociale basso e legato agli istinti. Per danaro ha cominciato la sua carriera e per danaro la continua, in un contesto di amori più o meno clandestini, litigi, ricatti, inganni. È evidente che personaggi di questo tipo, pur riprendendo suggestioni dalle commedie classiche, si riallacciano alla realtà contemporanea, mettendone in luce gli aspetti negativi; è significativo a questo proposito anche l’ambiente in cui le vicende si svolgono: non più in luoghi lontani o in città della Grecia, ma in Italia (Il Negromante a Cremona e La Lena a Ferrara). L’“altra” Ferrara nelle vicende del basso mondo della Lena Opportunamente, il critico Guido Davico Bonino fa rilevare che agli spettatori della corte estense, alle dame raffinate, agli aristocratici intellettuali, agli uomini di potere, Ariosto presenta, con La Lena, l’“altra” Ferrara, ben diversa da quella della corte e dei palazzi. Il pubblico colto e raffinato è posto davanti a una realtà diversa dalla nobile facciata del potere estense, quasi a un mondo parallelo, che però molti cavalieri e nobili dovevano conoscere piuttosto bene: è la Ferrara dei sobborghi popolani, dei bordelli malfamati, nei quali la legge dominante è quella della sopraffazione e della frode, in nome del denaro.

4 L’epistolario Un corpus di lettere antiletterario L’epistolario di Ariosto è stato a lungo trascurato dalla critica proprio per la sua “prosaicità”: non ha infatti alcuna pretesa letteraria e rifiuta gli espedienti stilistici che potrebbero nobilitare quanto viene scritto. Le varie lettere (in tutto duecentosedici) non sono organizzate all’interno di una raccolta, né sono rielaborate con finalità artistiche o autocelebrative (come l’Epistolario di Petrarca), e neppure assumono la forma della lettera-saggio diffusa negli ambienti umanistici, ma hanno esclusivamente obiettivi di comunicazione diretta e pratica. Da qui anche l’uso dominante del volgare anziché del latino. Le lettere ariostesche hanno carattere sia ufficiale sia privato e costituiscono un documento prezioso per conoscere l’ambiente in cui visse Ludovico, la sua vita privata Le opere 2 695


e, soprattutto, quella pubblica, così come la sua personalità. Riguardano la seconda parte della sua vita (dal 1509 alla morte), a parte due soli esempi precedenti a questa data. Particolarmente interessanti sono le lettere che documentano l’elaborazione e la storia editoriale del Furioso, la cura attenta del poeta nel seguirne la pubblicazione, nel tentativo di arginare con ogni mezzo la circolazione di copie-pirata non autorizzate. In questo ambito Ariosto si rivela sagace amministratore della propria opera. Molto numerose nel corpus delle lettere sono le testimonianze della carriera pubblica di Ariosto come funzionario della corte estense. La sezione più ampia dell’epistolario è costituita dalle più di centocinquanta lettere (dalla 30 alla 186) relative al commissariato in Garfagnana, in cui sono documentate la coscienza e la rettitudine con cui Ariosto assolve il compito, lottando strenuamente contro i banditi che infestano la zona, ma anche la frustrazione per i pochi mezzi a disposizione e il sostanziale disinteresse del duca Alfonso per le sorti della regione. Le lettere dalla Garfagnana, considerate nel loro complesso, confutano da sole l’immagine vulgata di un Ariosto sognatore e passivo, rivelandone le doti di energico e intraprendente amministratore. Come si è detto, e come risulterà evidente da online vari testi (➜ T1 OL), Ariosto mostra disinteresse per un’eccesT1 Ludovico Ariosto siva ricercatezza levigata della sua prosa: una caratteristica Ariosto chiede ad Alfonso d’Este di esonerarlo dall’incarico di governatore che lo distingue, nell’uso epistolare, dai molti letterati italiani, Lettera 139 (1-2; 11) grandi e minori.

5 Le Satire Tra innovazione e tradizione Nel 1517, in un momento assai difficile, ossia quando decide di abbandonare l’incarico presso il cardinale Ippolito, Ariosto inizia a comporre una serie di satire, che costituiscono la sua opera più importante dopo l’Orlando furioso. Le Satire, in tutto sette, sono ultimate entro il 1525; in quegli stessi anni lo scrittore si dedicava anche ad altre forme letterarie (come il teatro) e lavorava alla rielaborazione del Furioso per la seconda edizione del 1521. La scelta del genere satirico da parte del poeta si iscrive nella più generale tendenza umanistica a riportare in vita generi letterari latini che erano stati nel tempo abbandonati. Il modello è, in questo caso, rappresentato soprattutto dalla produzione satirica del grande poeta latino Orazio, dal quale Ariosto riprende la tendenza a trarre da uno spunto occasionale, legato a esperienze personali di vita, considerazioni più generali di carattere etico e la cui visione esistenziale, ispirata all’equilibrio e alla moderazione, sente particolarmente congeniale. Un altro autore latino presente come modello, anche se in modo meno rilevante, è Giovenale. La struttura epistolare: una scelta “comunicativa” La satira ariostesca fonde il modello di due opere oraziane: da una parte i Sermones, di cui riprende il tono colloquiale nel narrare fatti e misfatti della vita quotidiana, e dall’altro le Epistulae, da cui deriva la struttura epistolare, cioè la narrazione in forma di lettera. Come quelle di Orazio, anche le Satire dell’Ariosto sono indirizzate a un destinatario (che talvolta è una proiezione dell’autore stesso); la struttura dialogica consente allo scrittore di creare una situazione “confidenziale” capace di coinvolgere il lettore e di sviluppare in modo più disinvolto e discorsivo le sue riflessioni sui temi trattati.

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La proposta di un modello di uomo Nelle Satire spicca la presenza di elementi autobiografici, con riferimenti precisi e diretti a situazioni della vita del poeta. Questa dominante caratteristica dell’opera, oltre al ricorso al tu allocutorio, che evoca rapporti di quotidiana familiarità con i destinatari, ha favorito (soprattutto nell’età romantica) una lettura del lavoro come documento per ricostruire la biografia del poeta. La critica più recente si è allontanata ormai da questa impostazione e tende a considerare le Satire non più come una serie di testi fra loro slegati, ma come un vero e proprio “libro”, con una studiata organicità e il senso globale di una proposta etico-comportamentale. La singola occasione (l’incontro con il papa, l’imminente matrimonio del cugino, la ricerca di un precettore per il figlio e così via) serve da punto di partenza per una serie di riflessioni che delineano un ritratto in primo luogo autobiografico, ma che assume al contempo i tratti di un modello umano e di comportamento ispirato ai valori (propri dell’etica classica e umanistica) del razionalismo, dell’equilibrio, della misura.

PER APPROFONDIRE

Un profilo dell’intellettuale ideale Dietro questo modello umano, Ariosto indirettamente tratteggia anche (ed è forse la prospettiva di lettura più significativa dell’opera), un profilo ideale dell’intellettuale del primo Cinquecento, nel quale proietta la propria stessa immagine: un intellettuale che non vuole essere coinvolto nelle grandi faccende della politica, che non desidera emergere a tutti i costi nella vita di corte, ma aspira a una vita schiva, dedita agli amati studi e alla cura delle proprie opere letterarie.

Gli argomenti delle Satire Satira I Destinatari: Il fratello Alessandro e l’amico Ludovico da Bagno. Contenuti: Ariosto spiega le ragioni per cui rifiuta di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria. Il trasferimento in quel paese lontano gli procurerebbe certamente danni alla salute e lo allontanerebbe a lungo da Ferrara e dai suoi affetti. Alla costante disposizione al compromesso e all’adulazione, tipica del mondo della corte, il poeta contrappone il valore della libertà personale, da tenersi cara anche a prezzo della povertà. Satira II Destinatario: Il fratello Galasso. Contenuti: Il poeta chiede al fratello di procurargli un alloggio a Roma. Critica la corruzione della corte pontificia. Elogia una vita sobria e morigerata, in cui si possa anche viaggiare lontano, ma solo con la fantasia e con l’aiuto di manuali, come la Geografia di Tolomeo. Satira III Destinatario: Il cugino Annibale Malaguzzi. Contenuti: La satira sviluppa il tema della difficoltà della vita cortigiana. Il poeta rivendica la propria autonomia di pensiero e di comportamento rispetto alle imposizioni della vita di corte. Al centro della satira è la rievocazione dell’incontro deludente tra Ariosto e papa Leone X, preceduta e seguita da due apologhi, quello della gazza (favola mitologica sulla dipendenza da un padrone) e il famosissimo apologo della montagna della luna, che gli uomini salgono nell’illusione di raggiungere il corpo celeste, mentre naturalmente tale corsa è stolta e vana.

Satira IV Destinatario: Il cugino Sigismondo Malaguzzi. Contenuti: Il poeta rievoca il difficile impatto con la Garfagnana. In contrapposizione con l’attuale situazione, in cui incombono sul poeta gravi responsabilità tra luoghi impervi e gente ostile, egli ritorna con la memoria alla sua giovinezza, alle prime prove poetiche e ai giorni felici trascorsi nella villa dei cugini nella natia Reggio. Satira V Destinatario: Il cugino Annibale Malaguzzi. Contenuti: In occasione delle prossime nozze del cugino, il poeta compone una sorta di trattatello (Debenedetti) sul tema del “prender moglie”, tracciando anche il ritratto della consorte ideale, del tutto in sintonia col suo programma di vita ispirato alla “medietà”. Satira VI Destinatario: Pietro Bembo. Contenuti: Il poeta cerca un precettore di greco per il figlio Virginio, quindicenne, e chiede al grande letterato Pietro Bembo di aiutarlo nella ricerca di un maestro sapiente, che sia anche però di onesti costumi e di saldi principi etici. La satira si conclude col ricordo dei propri studi giovanili e il rimpianto per non aver potuto apprendere la lingua greca. Satira VII Destinatario: L’amico Bonaventura Pistofilo. Contenuti: Il poeta motiva all’amico, cancelliere del duca Alfonso, il suo rifiuto dell’incarico di ambasciatore presso papa Clemente VII. La parte finale si ricollega alla Satira III nell’elogio della vita tranquilla e sedentaria, quella che egli vuole vivere senza allontanarsi dalle vie e dalle piazze di Ferrara.

Le opere 2 697


Un intellettuale a cui va stretto il ruolo di cortigiano (celebrato invece dal Castiglione) e che assume consapevolmente il ruolo di coscienza critica della condizione, ambigua e difficile, del letterato vicino ai potenti (➜ T2 , T3 OL).

Lessico apologo Breve racconto di carattere allegorico avente come fine l’educazione morale del lettore.

online

Per approfondire Scrivere per polemizzare: la satira fra “genere” e “modo”

Gli apologhi: uno spazio narrativo-commentativo Lo spunto autobiografico riesce a elevarsi a tema generale di riflessione anche grazie all’inserimento, all’interno di alcune satire, di favolette che contengono una chiara “morale della storia” e assumono quindi il carattere di apologo (come si può facilmente notare in ➜ T2 ). Queste gradevoli storielle di carattere fantastico, interrompendo il corso della narrazione-riflessione, accrescono il piacere della lettura e conferiscono maggiore evidenza al tema morale, quasi “visualizzandolo” e imprimendolo così più facilmente nella memoria del lettore; la più celebre è quella degli uomini che vogliono raggiungere la luna. Per i suoi apologhi, che erano già presenti nella tradizione satirica classica (notissima ad esempio la favola del topo di campagna e di città narrata da Orazio), Ariosto si rifà a fonti note al lettore del suo tempo, da Esopo a Fedro, ai bestiari medievali, ma anche agli exempla dei predicatori. Il «laboratorio linguistico» delle Satire e la scelta metrica Nel complesso delle Satire prevale un tono volutamente colloquiale (talvolta addirittura dimesso), apparentemente semplice e spontaneo, ma in realtà frutto di un’accurata selezione: il linguaggio delle Satire è espressione di un vero e proprio «laboratorio linguistico», come è stato recentemente definito (Bologna). La scelta stilistica e linguistica dell’autore è congruente al messaggio di vita che vuole comunicarci con la sua opera: la proposta di un’esistenza ispirata all’ideale oraziano della medietas, del giusto mezzo (con la conseguente critica dell’eccessiva ambizione), nella saggia accettazione delle inevitabili frustrazioni che costellano ogni esistenza umana. All’interno di un registro mediamente colloquiale, ci sono sia momenti di accentuato realismo, in cui viene utilizzato il linguaggio quotidiano, sia dotte allusioni a personaggi mitologici ed elementi di ascendenza letteraria; non manca infine qualche imprestito del registro “comico” di Dante: l’eco delle aspre tonalità dell’Inferno dantesco si fa sentire nei momenti in cui l’Ariosto vuole dare particolare forza evocativa al linguaggio. Le Satire sono in terzine dantesche di endecasillabi a rima incatenata (schema ABA BCB). Non molto in auge in quegli anni dominati dal petrarchismo, la terzina dantesca aveva tuttavia una certa tradizione nei cosiddetti capitoli, forma letteraria decisamente minore, di carattere polemico-satirico, che Ariosto stesso pratica.

Le opere minori di Ariosto Rime

Commedie

Satire

Epistolario

• sia in latino sia in volgare • tema centrale è l’amore • modelli: Petrarca, Boiardo e poeti latini (Catullo e Orazio)

• commedie sul modello di Plauto e Terenzio • rispetto delle tre unità aristoteliche • intrattenimento per la corte estense

• sette componimenti in terzine • modello latino: Orazio • elementi autobiografici offrono lo spunto per riflessioni generali

• prezioso documento biografico • senza pretese letterarie

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Ludovico Ariosto

T2

Ariosto e la condizione cortigiana

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 2

Satira I, vv. 85-123 e 247-265 L. Ariosto, Satire, Einaudi, Torino 1987

Presentiamo una parte della prima satira, composta nel 1517 dall’Ariosto: il poeta si era rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito d’Este, presso cui prestava servizio, e costui lo aveva minacciato di privarlo dei benefici e delle rendite che gli aveva assegnato. La dolorosa esperienza personale costituisce lo spunto per un’amara riflessione sulla difficile e ambigua posizione degli intellettuali a corte e una rivendicazione dell’autonomia dell’attività letteraria. La satira si chiude con un apologo, L’apologo dell’asino, che ribadisce il tema generale della composizione.

Io, per la mala servitude mia1, non ho dal Cardinale ancora tanto ch’io possa fare in corte l’osteria2. 85

Apollo, tua mercé, tua mercé, santo collegio de le Muse, io non possiedo 90 tanto per voi, ch’io possa farmi un manto3. – Oh! il signor t’ha dato... – io ve ’l conciedo, tanto che fatto m’ho più d’un mantello; ma che m’abbia per voi dato non credo4. Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello 95 voglio anco, e i versi miei posso a mia posta mandare al Culiseo per lo sugello5. Non vuol che laude sua da me composta per opra degna di mercé si pona; di mercé degno è l’ir correndo in posta6.

La metrica Terzine dantesche a rima incatenata: ABA, BCB, CDC, ecc. 1

la mala servitude mia: il mio servizio, mal compensato, di cortigiano. 2 fare… l’osteria: organizzarmi autonomamente per mangiare a corte. Il poeta, come dice in un altro punto della satira, soffriva di stomaco e necessitava di una dieta apposita. 3 Apollo… un manto: Grazie a te, Apollo (dio della poesia), e grazie a voi, sacre Muse, io non possiedo tanto da potermi permettere un mantello. Ariosto lamen-

ta la scarsa considerazione (con le conseguenze economiche del caso) in cui il cardinale teneva la poesia. 4 Oh!… non credo: Ariosto immagina l’obiezione di qualcuno che gli ricorda quanto gli ha dato il signore, ma a sua volta ribadisce che quanto ha ottenuto non l’ha guadagnato certo per i propri meriti letterari. 5 e i versi miei… per lo sugello: e i miei versi posso a mio piacimento (a mia posta) mandarli al Colosseo (cioè “a quel paese”) per farvi apporre il sigillo. Attraverso il doppio senso giocoso (per paronomasia)

Colosseo-Culiseo Ariosto vuol dire che per il suo signore i suoi versi non valgono alcunché. 6 Non vuol… in posta: (il cardinale: è il signor del v. 91) non vuole che sia considerata un’opera degna di retribuzione (si pona… di mercé) una sua lode composta da me. Degno di uno stipendio è viaggiare (ir = ire, “andare”, latinismo) di gran carriera cambiando i cavalli a ogni stazione di posta. Inizia qui l’elenco di chi svolge un lavoro degno di considerazione per il cardinale.

Le opere 2 699


A chi nel Barco7 e in villa il segue, dona, a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi nel pozzo per la sera in fresco a nona8; 100

vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi se levino a far chiodi, sí che spesso 105 col torchio in mano addormentato caschi9. S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo, dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio; piú grato fòra essergli stato appresso10. E se in cancellaria m’ha fatto socio 110 a Melan del Constabil, sí c’ho il terzo di quel ch’al notaio vien d’ogni negocio11, gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo mutando bestie e guide, e corro in fretta per monti e balze, e con la morte scherzo12. Fa a mio senno, Maron13: tuoi versi getta con la lira in un cesso, e una arte14 impara, se beneficii vuoi, che sia piú accetta. 115

Ma tosto che n’hai15, pensa che la cara tua libertà non meno abbi perduta 120 che se giocata te l’avessi a zara16; e che mai più, se ben alla canuta età vivi e viva egli di Nestorre17, questa condizïon non ti si muta. [...]

7

Barco: parco di caccia degli Estensi, fra le mura di Ferrara e il Po. 8 pona... a nona: ponga all’ora nona (circa le 15) i fiaschi in fresco nel pozzo per la sera. 9 vegghi… caschi: continua l’enumerazione dei lavori “rispettabili” e retribuiti a corte. (A chi..., v. 100) vegli la notte, fino all’alba – quando i fabbri (qui identificati per antonomasia nei carpentieri bergamaschi) si alzano per fare chiodi – così che spesso caschi addormentato con la torcia (torchio) in mano. 10 S’io l’ho… appresso: Se io l’ho inserito nei miei versi lodandolo, dice che l’ho fatto a mio piacere e nel tempo libero;

avrebbe (fòra, “sarebbe stato”) gradito maggiormente (piú grato) che io fossi stato al suo seguito. Ocio, “ozio”, dal lat. otium, ha una coloritura dialettale settentrionale con -ci per -zi; lo stesso per negocio al v. 111. 11 se in cancellaria… d’ogni negocio: allude a un beneficio che il cardinale gli aveva procurato, cioè di dividere a Milano (Melan), con Antonio Constabile, un terzo delle rendite che venivano da ogni affare (ogni negocio) alla cancelleria arcivescovile. 12 con la morte scherzo: il poeta allude ai rischi legati agli incarichi assegnatigli, in particolare quelli presso la corte papale.

700 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

13 Fa a mio senno, Maron: il poeta che qui Ariosto invita a seguire i suoi consigli è il bresciano Andrea Marone che, al contrario dello scrittore, aveva sollecitato l’onore di accompagnare il cardinale Ippolito in Ungheria. 14 una arte: un mestiere. 15 Ma tosto che n’hai: Ma una volta che li hai ottenuti (i benefici). 16 zara: gioco d’azzardo con i dadi ricordato anche da Dante («Quando si parte il gioco de la zara…» Pg VI, 1-9). 17 Nestorre: Nestore, personaggio omerico celebre per la leggendaria longevità.


Uno asino fu già18, ch’ogni osso e nervo mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto del muro19, ove di grano era uno acervo20; e tanto ne mangiò, che l’epa21 sotto si fece piú d’una gran botte grossa, fin che fu sazio, e non però di botto. 250

Temendo poi che gli sien péste l’ossa22, si sforza di tornar dove entrato era, 255 ma par che ’l buco più capir nol possa23. Mentre s’affanna, e uscire indarno24 spera, gli disse un topolino: – Se vuoi quinci uscir, tràtti, compar, quella panciera25: a vomitar bisogna che cominci 260 ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro26, altrimenti quel buco mai non vinci27. – Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro Cardinal comperato avermi stima con li suoi doni, non mi è acerbo et acro28 265

renderli, e tòr la libertà mia prima29.

18 fu già: visse un tempo. Ricalca l’inizio delle favole: “C’era una volta…”. 19 pel rotto del muro: attraverso la breccia nel muro. 20 ove… uno acervo: in un luogo dove c’era un mucchio di grano. 21 l’epa: la pancia. 22 Temendo... l’ossa: Temendo poi di essere picchiato.

23 capir nol possa: non possa contenerlo (capir è latinismo dal lat. capere) più. 24 indarno: invano. 25 Se vuoi… quella panciera: Se vuoi uscire di qui (quinci), compare, elimina (tràtti) quella gran pancia (la panciera è propriamente la parte dell’armatura che protegge addome e ventre).

26 macro: magro. 27 vinci: superi. 28 non mi è acerbo et acro: non mi è doloroso né amaro, difficile (latinismo, da acer). 29 tòr... prima: riprendermi la mia libertà originaria (prima).

Marcello Fogolino, Scena di torneo, affresco, 1520 ca. (Cavernago, Castello di Malpaga).

Le opere 2 701


Analisi del testo Una testimonianza personalmente sofferta della vita di cortigiano Per essere correttamente intesi, questi versi vanno ricondotti a un momento particolarmente difficile della vita di Ariosto, che lo induce a prese di posizione polemiche. D’altra parte le parole del poeta, pur motivate da una personale condizione di risentimento, costituiscono un ritratto abbastanza realistico, e per certi aspetti esemplare, della condizione cortigiana: essa comportava in ogni caso non pochi compromessi, difficili da accettare soprattutto da chi, come appunto l’autore, identificava sé stesso innanzitutto come intellettuale e poeta, mentre, come stipendiato dalla corte, gli competevano impegni del tutto estranei a tale vocazione e (stando almeno a quanto sostiene l’interessato) addirittura umilianti. Ariosto lamenta con amarezza che il suo apprezzamento da parte del cardinale derivi esclusivamente dall’assolvimento dei compiti di cortigiano anziché dall’attività di poeta, che il cardinale Ippolito considerava alla stregua di un passatempo.

L’apologo dell’asino Nell’ultima parte del testo la rivendicazione del valore della libertà personale è affidata a una favoletta che, attraverso una breve narrazione, ribadisce il tema che al poeta sta a cuore. La morale della favola è chiara e del resto il risvolto autobiografico è esplicitato da Ariosto stesso negli ultimi versi della satira. L’asino che si ingozza di cibo avventurandosi fuori dal suo habitat e che poi non riesce più a passare per la fessura del muro, con il pericolo di restare prigioniero, simboleggia la figura del cortigiano: per vivere agiatamente egli accetta di abdicare alla sua libertà. Per poterla recuperare, egli dovrà rinunciare agli agi e ai beni elargiti dal signore, scelta che l’autore è più che disposto a fare.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale significato ha il riferimento ad Apollo e al «santo collegio de le Muse» (vv. 88-89)? SINTESI 2. Sintetizza il consiglio che Ariosto dà al poeta di corte Andrea Marone sulla base della propria esperienza personale. LESSICO 3. Individua l’espressione con cui il poeta definisce sinteticamente (e significativamente) il proprio servizio a corte e commentala. 4. Identifica i punti in cui il lessico accoglie termini del parlato e fanne una dettagliata schedatura. STILE 5. Rintraccia nel testo la presenza degli aspetti dialogici tipici delle Satire e poi indica: a. a chi sono attribuite le voci che intervengono nel testo; b. quale effetto produce questa scelta stilistica; c. perché il poeta ne fa uso.

Interpretare

SCRITTURA 6. Quali aspetti più generali della condizione del poeta a corte sono deducibili dal testo ariostesco? ESPOSIZIONE ORALE

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1, 2

online T3 Ludovico Ariosto

7. Ariosto sa con certezza che il rifiuto di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria comporterà la rottura definitiva con lui, il licenziamento e la perdita di ogni beneficio; tuttavia non esita ad andarsene, in quanto ritiene che agi e privilegi abbiano un prezzo troppo alto da pagare, ossia la perdita della libertà. Cerca in Internet la Dichiarazione universale dei diritti umani e leggi con attenzione l’articolo 23, paragrafi 1-2-3; commentali e rifletti se nella società in cui vivi questi diritti sono assicurati a tutti.

La rivendicazione dell’autonomia dell’intellettuale cortigiano Satira III, vv. 1-72

online

Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

702 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto


3 L’Orlando furioso 1 La genesi, le vicende editoriali, la trama VIDEOLEZIONE

L’Orlando furioso continua l’Orlando innamorato All’inizio del Cinquecento l’eredità del Boiardo viene consapevolmente assunta da Ludovico Ariosto: il suo Orlando furioso inizia proprio da dove si era interrotto l’Orlando innamorato, di cui ben presto eclissa la fama (anche perché adeguato ai nuovi canoni linguistici), imponendosi come il capolavoro assoluto del genere cavalleresco e uno dei grandi classici della letteratura italiana. Quando Ariosto, poeta-cortigiano alla corte estense di Ferrara, inizia la composizione dell’Orlando furioso sa di poter contare sulla presenza di un pubblico già predisposto ad accogliere l’opera con favore. La corte estense aveva infatti già recepito con entusiasmo l’Orlando innamorato di Boiardo, che aveva saputo adattare le antiche vicende cavalleresche al gusto raffinato della corte. Già il titolo di quest’ultimo poema indicava, inoltre, la fusione tra la materia di Francia, legata al tema della guerra santa, sostenuta dai paladini di Carlo Magno, e la materia di Bretagna, caratterizzata dai fascinosi temi della magia, dell’avventura e dell’amore, che anche Ariosto manterrà nella propria opera. La morte di Boiardo (1494) aveva lasciato interrotto il lavoro, aprendo tra i letterati una competizione per raccoglierne l’eredità nei favori del pubblico. Ci furono così vari tentativi di gionte, “aggiunte”, cioè continuazioni, che, come detto sopra, saranno tutte sbaragliate dall’eccellenza indiscutibile del Furioso, inizialmente identificato e letto come una gionta dell’Innamorato. L’Orlando furioso (1516) avrà grande successo, sostituendo la fama del Boiardo nel gusto dello stesso pubblico ferrarese. Un successo che si deve forse alla felice conciliazione tra la ribadita identità cavalleresca del poema, che consentiva ai lettori di ritrovarvi facilmente i personaggi prediletti, il repertorio ben noto di duelli, colpi di scena, magie e, d’altra parte, la prospettiva innovativa con cui Ariosto guarda a quel mondo e consapevolmente lo utilizza, inserendo in un “involucro” ormai inerte i valori della matura e disincantata civiltà rinascimentale. Come osservava Lanfranco Caretti in un celebre saggio, la «vera materia del Furioso non è costituita dalle antiche istituzioni cavalleresche ormai scadute nella coscienza cinquecentesca, ma propriamente da quella moderna concezione della vita e dell’uomo che in ogni pagina del poema è presente». Con la propria opera lo scrittore trasforma il poema cavalleresco in “romanzo contemporaneo”: la materia è soltanto il codice letterario usato per interpretare il proprio tempo, esprimere gli ideali estetici e i modelli ideologici della cultura rinascimentale e al contempo ritrarre la crisi politica e culturale che già investiva la civiltà italiana. Proprio la moderna concezione del mondo che circola in ogni pagina del poema fa dell’Orlando furioso non solo e non più un poema “ferrarese” e “cortigiano”, ma “il poema” del Rinascimento italiano e, ancor più, in quanto specchio della condizione umana di ogni tempo, uno dei grandi classici della cultura europea. L’Orlando furioso 3 703


Il poema di una vita. Le tre edizioni L’elaborazione Ariosto dedicò all’opera la maggior parte della propria esistenza, almeno dal 1505 circa fino alla morte, avvenuta un anno dopo la terza e ultima edizione (1532), quando già egli meditava un’altra edizione rivista e accresciuta. Da alcune lettere, e naturalmente soprattutto dalle tre edizioni ufficiali, possiamo seguire la lunga elaborazione del capolavoro. • Dall’ideazione alla prima edizione (1505?-1516) La prima edizione dell’Orlando furioso si colloca nel 1516, ma almeno da una decina d’anni il poeta vi stava lavorando: da una lettera del 3 febbraio 1507 della marchesa Isabella d’Este, sposa di Francesco II Gonzaga, inviata da Mantova al fratello cardinale Ippolito, veniamo infatti a sapere che la colta gentildonna aveva già potuto ascoltare dalla viva voce del poeta, ospite in città, brani del Furioso e ne aveva tratto gran piacere, dopo essere stata una quindicina d’anni prima tra le ammiratrici del Boiardo. Quindi in quella data il poema era già in fase di elaborazione, configurandosi fin dall’inizio come gionta all’Orlando innamorato: in questi termini ne parla infatti due anni dopo (5 luglio 1509) Alfonso I d’Este, scrivendo al fratello Ippolito («quella gionta [che] fece m. Lud.co Ariosto a lo Innamoramento de Orlando»). Nel settembre del 1515 il poema è concluso e pochi mesi dopo, il 22 aprile, l’Orlando furioso, in quaranta canti, viene stampato. Dopo la prima lettura ai signori Estensi e Gonzaga, il libro di Ludovico Ariosto è immesso sul mercato con gran successo. • La seconda edizione (1521) Dopo la prima fortunata edizione, Ariosto riprende in mano l’opera con l’intenzione di correggerla e forse di ampliarla. In realtà nella seconda edizione il poema rimane inalterato quanto al contenuto (l’aggiunta è di soli centoventuno versi), mentre le correzioni (peraltro non particolarmente rilevanti sotto il profilo quantitativo: interessano il 10% del totale) riguardano l’ambito lessicale e morfologico. Gli interventi mostrano un’inequivocabile linea di tendenza: Ariosto decide di allontanarsi dalla veste linguistica padana che caratterizza la prima versione del poema, avviando una toscanizzazione della lingua, in linea con la più generale tendenza della cultura letteraria italiana di quegli anni. Se il primo Furioso, linguisticamente parlando, è sostanzialmente un libro «municipale e padano» (come, ancor più, lo era stato l’Orlando innamorato), il secondo Furioso tende a diventare un libro «italiano» (Bologna). • La terza edizione (1532) Alla ricerca di un continuo perfezionamento del proprio capolavoro, Ariosto prepara una terza edizione, accresciuta, questa volta, sotto il profilo del materiale: il nuovo Orlando si arricchisce di nuovi episodi, passando da quaranta a quarantasei canti (i nuovi episodi sono quelli di Olimpia, canti IXX; della rocca di Tristano, canti XXXII-XXXIII; di Drusilla e Marganorre, canto XXXII; di Ruggiero e Leone, negli ultimi tre canti). Episodi in cui la critica ha notato un Una pagina autografa dell’Orlando furioso, con cambiamento di clima, più cupo e pessimistico rispetto le correzioni dell’autore, conservata presso la Biblioteca comunale ariostea di Ferrara. Ariosto al complesso dell’opera, con temi maggiormente legati lavorò alla revisione del suo poema per tutta la alla realtà contemporanea, nella quale si profilavano nubi vita.

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minacciose (significativi il tema delle armi da fuoco [➜ T9 OL] e la presenza di personaggi malvagi come Cimosco, entrambi nell’episodio di Olimpia). Ma oltre ad accrescere il poema, Ariosto sottopone l’opera a una minuziosa revisione linguistica secondo la codificazione linguistica bembiana: nel 1525 le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo impongono ai letterati italiani un adeguamento della lingua letteraria al modello dei grandi classici del Trecento. Anche Ariosto, come la maggior parte dei letterati italiani, accoglie la norma, toscanizzando l’idioma del poema, ma riservandosi comunque degli ampi margini di libertà. Forse per questo atteggiamento di non stretta osservanza il Bembo, che pure conosceva di persona il poeta e al cui autorevole giudizio Ariosto chiede umilmente nel 1531 di sottoporre l’opera, non pronunciò mai neppure una parola sul libro di cui tutti, in quegli anni, parlavano. Di certo l’abbandono delle forme linguistiche municipali consentì al poema di varcare i ristretti confini ferraresi per inserirsi in un orizzonte nazionale.

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Per approfondire L’enigma dei Cinque canti: un materiale rifiutato dall’autore

La trama dell’Orlando furioso Un poema dalle «varie fila e varie tele» «All’inizio c’è solo una fanciulla che fugge per il bosco in sella al suo palafreno. Sapere chi sia importa fino a un certo punto: è la protagonista di un poema rimasto incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena incominciato». Con queste suggestive parole Italo Calvino – che con l’Ariosto e l’Orlando furioso ebbe sempre un rapporto speciale, fondato su un’affinità intellettuale e letteraria – ci introduce nella fabula del Furioso, indicandone la continuità rispetto all’Innamorato. Concepito come continuazione diretta di questo, l’Orlando furioso inizia proprio dal punto in cui l’Orlando innamorato si era interrotto, cioè con la fuga della bella Angelica, personaggio ideato da Boiardo, figlia del re del Catai (favolosa regione della Cina) dall’accampamento cristiano. La trama dell’Orlando furioso potrebbe ben essere rappresentata dall’immagine della selva, spazio labirintico onnipresente nel poema come teatro di incontri inaspettati e avventure: entrare nell’Orlando significa infatti per il lettore entrare in un universo narrativo in cui ci si trova davanti a infiniti percorsi, liberamente intersecati, interrotti e ripresi a distanza. La macchina narrativa è così complessa, la struttura così policentrica e “aperta”, che è difficile (e forse inutile) sintetizzare l’opera. Ci limiteremo dunque a presentare i tre filoni principali all’interno dei quali si articola il complicato intreccio del Furioso e in cui è facilmente collocabile il percorso di lettura proposto. La prima ricerca e la follia di Orlando Il principale filone narrativo è costituito dall’“amorosa inchiesta” (la quête della tradizione cavalleresca, la ricerca di un oggetto del desiderio) di Orlando alla ricerca di Angelica, sempre fuggente, che egli ama di un amore puro e assoluto ma non ricambiato e che insegue, dopo aver abbandonato l’esercito cristiano, attraverso molte avventure. La fuga di Angelica, inseguita anche da numerosi altri cavalieri innamorati di lei, sia cristiani (Rinaldo, cugino di Orlando), sia saraceni (Sacripante, Ferraù), apre l’opera (➜ T5 ) e ne costituisce la principale linea narrativa. Sulla ricerca di Angelica si innesta infatti anche il tema centrale della follia di Orlando, che dà il titolo al poema: dopo molte avventure, incontrate nel suo inquieto errare alla ricerca dell’amata, Orlando scopre casualmente gli amori di Angelica e del soldato Medoro, di cui la donna si è innamorata e di cui è divenuta sposa (➜ T13 OL). L’Orlando furioso 3 705


Da qui lo scatenarsi della follia (➜ T14 ), che trasforma l’eroico paladino in un pazzo violento, incapace persino di riconoscere l’oggetto del suo desiderio (Angelica) quando finalmente gli capiterà di rincontrarlo (➜ T16 OL). Cavalcando l’ippogrifo, il magico cavallo alato, il paladino Astolfo salirà nel Paradiso Terrestre, dove incontrerà san Giovanni Evangelista e quindi sulla Luna dove, in una piccola vallata, si trovano tutte le cose perdute sulla Terra (➜ T17 ). Tra di esse, Astolfo riuscirà a recuperare il senno di Orlando, custodito in una grande ampolla. Riacquistata la ragione, Orlando potrà così tornare da par suo tra le armate cristiane, portandole alla vittoria contro i saraceni nella battaglia di Lipadusa.

Lessico motivo encomiastico Elemento contenutistico di un’opera che ha come scopo quello di lodare, elogiare, celebrare un determinato destinatario.

Jean-Honoré Fragonard, Bradamante cerca di catturare l’ippogrifo, illustrazione per Orlando furioso, 1785 ca. (Londra, National Gallery).

La seconda ricerca Bradamante, guerriera cristiana, ricerca tenacemente l’amato Ruggiero, valoroso guerriero saraceno, che il mago Atlante tiene segregato al fine di proteggerlo e impedire il suo fatale destino, letto negli astri dal negromante stesso: la sua morte in battaglia dopo che si sarà fatto cristiano. Una lunga serie di ostacoli, sia voluti dal mago sia fortuiti, si oppone alle nozze dei due, che tuttavia alla fine si realizzeranno dopo la conversione di Ruggiero alla fede cristiana. Un esito necessario, perché dall’unione di Ruggiero e Bradamante trarrà origine la stirpe estense: su questo secondo filone tematico si innesta quindi il motivo encomiastico proprio della poesia legata alla corte. Soprattutto alla seconda “inchiesta” si lega, nell’opera, la presenza della dimensione spiccatamente romanzesca del poema e l’emergere del tema della magia: il mago Atlante (➜ T6a-T6b OL), la maga Melissa, la maga Alcina e l’isola maliosa dove l’ippogrifo conduce Ruggiero (➜ T8 OL), l’ippogrifo stesso, originariamente “di proprietà” del mago Atlante, l’anello magico (messo in bocca rende invisibili, infilato al dito neutralizza gli incantesimi), la straordinaria ideazione del castello e del palazzo di Atlante finalizzata a proteggere e trattenere Ruggiero (➜ T10 ). La guerra tra cristiani e saraceni e la dimensione epica Funge da “contenitore”, e in un certo senso collega le peripezie dei personaggi, la guerra tra le forze cristiane, guidate da Carlo Magno, e l’esercito saraceno, guidato da Agramante, re d’Africa, e da Marsilio, re di Spagna. L’esercito cristiano si trova in grave difficoltà soprattutto quando Rinaldo e, ancor più, Orlando abbandonano il campo irretiti dall’amore; l’esercito saraceno pone l’assedio a Parigi e semina morte e terrore tra gli avversari soprattutto grazie all’incredibile forza di Rodomonte, tanto che Carlo Magno richiede a Dio un intervento celeste (➜ T11 OL). Ma alla fine saranno i cristiani ad avere la meglio e Agramante stesso sarà ucciso da Orlando, una volta rinsavito, mentre Rodomonte a propria volta sarà ucciso da Ruggiero nel duello che chiude il poema. Al filone tematico della guerra si collega la dimensione epica dell’Orlando furioso, emergente soprattutto nell’ultima parte dell’opera (ma quanto si possa davvero parlare di “epica” nel Furioso è oggetto di discussione fra i critici). L’Orlando furioso non è certo riducibile, come già si è accennato, a questi tre essenziali filoni: se in essi effettivamente convergono personaggi e vicende principali dell’opera, d’altra parte molte volte essi se ne distaccano, creando nuclei narrativi indipendenti che fanno germinare in modo apparentemente spontaneo nuovi episodi.

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2 Temi e motivi Le donne… gli amori Un incipit nel nome delle donne Non è certo casuale che l’Orlando furioso si apra proprio con le parole «Le donne» associate, attraverso il celeberrimo chiasmo del primo verso, a gli amori e le cortesie completato dal successivo «l’arme/i cavallier/ l’audaci imprese». Nell’ambiente cortigiano le donne rappresentavano il pubblico emergente, in rapporto al ruolo rilevante da esse esercitato nell’organizzazione della vita raffinata della corte, nella promozione e gestione di spettacoli e feste, ma anche nei rapporti con i maggiori intellettuali, come dimostra la figura di Isabella d’Este, intraprendente animatrice di cultura, donna di molteplici interessi, immortalata dal Castiglione nel Cortegiano come prototipo della «donna di palazzo».

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Sguardo sull’arte La maga Melissa secondo Dossi

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Sguardo sull’arte La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la venere di Tiziano

L’esaltazione della sensuale bellezza femminile Nel poema la bellezza femminile è ritratta senza reticenze o filtri intellettualistici: spesso il corpo femminile è rappresentato senza veli (celeberrimi i due medaglioni speculari dei nudi di Olimpia e Angelica, esposte sullo scoglio all’isola di Ebuda per essere pasto di un’orca marina), con lo stesso atteggiamento di serena ammirazione dei grandi pittori rinascimentali, da Tiziano a Raffaello e a Giorgione, a testimonianza di quella piena accettazione e anzi valorizzazione del corpo che caratterizza ampia parte della cultura del Rinascimento. La dimensione più significativa con cui Ariosto rappresenta l’amore è dunque quella sensuale: degno erede del suo grande predecessore Giovanni Boccaccio, l’autore presenta come naturali l’attrazione dei sensi e l’appagamento fisico. In questo senso lo scrittore si contrappone vistosamente alla tendenza petrarchista-neoplatonica e in genere agli stereotipi letterari dell’amore; anzi, si potrebbe addirittura leggere l’episodio chiave del poema, ovvero la follia di Orlando (➜ T14 ), come critica a un sentimento ossessivamente incentrato su un ideale femminile che non esiste più e che forse non è mai esistito: a dispetto del nome, Angelica non è una Laura-Beatrice ma una giovane scaltra, un po’ calcolatrice, che non accetta di essere passivo oggetto né di adorazione devota (di Orlando), né di concupiscenza (di tutti gli altri). Donerà la propria verginità a un giovane soldato (Medoro) di cui inaspettatamente si innamora e che sposerà, contravvenendo a tutte le regole della tradizione (una donna di nobile lignaggio non può sposare un plebeo). Poi la bella Angelica scompare dal poema, dopo aver a lungo dominato la scena con la propria fuga; come se, svanito il mito dell’irraggiungibilità e trovato l’amore, ella perdesse senso come personaggio. L’ossessione idealizzante di Orlando: una follia “annunciata” Al carattere trasgressivo del personaggio di Angelica si contrappone l’amore di Orlando per lei, la sua fedeltà assoluta non solo alla donna, ma alla tradizione letteraria più illustre della rappresentazione femminile. La sublimazione idealizzante della figura di Angelica, il mito della sua inviolabile verginità di cui Orlando si autoconsacra tutore unico pongono fin dall’inizio il prode paladino in una dimensione psicologica allucinatoria, potenzialmente a rischio di degenerare in follia vera e propria. È lo scarto tra realtà e ideale a scatenare la pazzia, che è in fondo l’esito drammatico del conflitto tra due codici culturali, uno antico e l’altro “moderno”: il codice amoroso delle Laure e delle Beatrici viene L’Orlando furioso 3 707


dissacrato da Medoro, che racconta con linguaggio petrarchesco come Angelica «nuda giacque» tra le sue braccia; Orlando, portavoce del codice amoroso antico, non può che restarne sconvolto. La follia per amore L’ossessione idealizzante di Orlando si rovescia allora nella furia autodevastante della follia e nella violenza: l’episodio, o meglio, il macroepisodio della sua follia occupa la sezione centrale del poema, costituendone per certi versi il fulcro tematico, e identifica la specifica natura del poema ariostesco nella secolare tradizione cavalleresca. Si tratta, come si è visto, di una “follia annunciata”, destinata inesorabilmente a manifestarsi. E non è priva di significato la “punizione” quasi da contrappasso inflitta a Orlando dal suo autore: lui, che ha posto in cima ai desideri un mito femminile purissimo, una volta impazzito non riconosce Angelica quando finalmente la incontra di nuovo e, in preda a un bestiale istinto carnale, vorrebbe possederla, se Ariosto non la facesse uscire rapidamente dalla scena del poema in modo alquanto sconveniente: a gambe all’aria, in un evidente rovesciamento del “sublime” legato tradizionalmente alla rappresentazione della donna. Ma anche la seduzione sensuale può essere pericolosa... Certo, a sua volta anche l’impulso dei sensi può comportare dei pericoli, quando non è soggetto a una misura razionale: è il caso di Ruggiero, continuamente esposto a un’eccessiva “distrazione”, alla leggerezza contrapposta alla fedeltà assoluta della guerriera Bradamante; l’avventura di Ruggiero all’isola di Alcina (➜ T8 OL) dimostra che l’amore carnale può essere anch’esso pericoloso, in quanto seduzione, destinata a illudere e ingannare. Se Orlando alla fine impazzisce grazie a un banale oggetto “rivelatore” (il braccialetto), Ruggiero invece si ravvede grazie al magico anello, “rivelatore” anch’esso, ma di inganni. Ne segue lo sconvolgente “risveglio” di Ruggiero dalla malìa amorosa, quando il giovane scopre inorridito la reale natura della bellissima maga Alcina, una vecchia decrepita che con arti magiche si presenta giovane e seducente. Allo stesso modo il luogo del piacere, l’isola maliosa di Alcina, rivelerà improvvisamente il suo volto mostruoso, rovesciamento del falso idillio creato dalla maga. Amori negativi, amori eroici Nell’ampia fenomenologia degli amori del poema, a cui qui non si può che accennare, non mancano amori volubili e fedifraghi come quello di Doralice e di Bireno; ma esistono anche gli amori veramente esemplari, eroici e patetici, segnati dalla sventura, di fronte ai quali anche l’ironico Ariosto si inchina, riservando a essi un registro più elevato. Amori oltre la morte, come quello di Isabella e Zerbino (morto l’amato, Isabella sceglie a sua volta la morte pur di non soggiacere alle brame di Rodomonte) e di Brandimarte e Fiordiligi: morto Brandimarte nella battaglia finale tra saraceni e cristiani a Lipadusa, Fiordiligi decide di passare la vita in una cella, accanto al sepolcro dell’amato.

I cavallier… l’armi: il tema della guerra Lo smorzamento della dimensione epica La guerra tra cristiani e infedeli, come si è detto, costituisce lo sfondo epico della narrazione. Tuttavia l’ispirazione del Furioso non è mai esclusivamente “epica” (com’è evidente nello stesso celebre episodio di Cloridano e Medoro) a causa della costante tendenza allo smorzamento ironico e alla ricerca del tono medio che caratterizza il poema (➜ T12 ). Persino quando rappresenta la morte, in battaglia o nei duelli, raramente Ariosto indulge al tono tragico, preferendo l’alternanza di registri diversi anche all’interno di una stessa scena.

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Del resto nel Furioso mancano gli elementi costitutivi del genere epico: non c’è assolutamente contrapposizione sul piano assiologico (cioè dei valori) fra i due schieramenti che si affrontano, come ad esempio troviamo nella Chanson de Roland. La guerra “santa” è una memoria remota nel poema laico del Rinascimento e Ariosto si guarda bene dal proporre una prospettiva anacronistica; cristiani e saraceni sono del tutto interscambiabili: i primi non sono affatto connotati come rappresentati della “giusta parte”, come nella Chanson e come avverrà nuovamente nella Gerusalemme liberata (1575), nel clima ideologico della Controriforma. Anzi, nel celebre episodio sopra citato di Cloridano e Medoro i due eroi della storia sono due oscuri soldati saraceni che, sprezzanti del pericolo, con gesto cavalleresco decidono di recuperare il corpo del loro re Dardinello per dargli degna sepoltura. Al contrario, l’accampamento cristiano che i due giovani attraversano è ritratto, impietosamente, immerso nel sonno e nell’ebbrezza, non senza qualche spunto di comicità: una rappresentazione evidentemente “abbassata” e antieroica. A ben vedere però, mancano addirittura nel poema ariostesco gli eroi propri della tradizione epica: quelli che potenzialmente avrebbero tutti i titoli per esserlo, Orlando in primis, si rivelano a loro volta manchevoli, deboli, preda di irrazionali passioni, addirittura capaci di dimenticare i sacri doveri verso la patria e il sovrano per inseguire una donna.

La dimensione del “meraviglioso”

JeanDominique Ingres, Ruggiero che libera Angelica, 1819 (Parigi, Museo del Louvre).

Un tema “bretone” In relazione al “romanzesco”, ereditato dalla materia di Bretagna, anche nell’Orlando furioso è presente il tema della magia, che Ariosto maneggia con grande sapienza narrativa e che concorre non poco al piacere intrigante della lettura. Fin dal primo canto si accenna al motivo delle «fontane dell’amore e del disamore», bevendo alle quali ci si innamora o disamora; ma è nel secondo che, attraverso una presentazione indiretta (il racconto di Pinabello a Bradamante), entra in scena il protagonista “magico” del poema: Atlante con il suo cavallo alato, l’ippogrifo («e ritrovai [...] armato / un che frenava un gran destriero alato» [II 37, 7-8]). Un ingresso che anticipa e prepara la più scenografica apparizione del mago nel canto IV (➜ T6a OL): l’oste della locanda, gli avventori, i servi, tutti accorrono alla finestra per godersi l’inusitato spettacolo del mago che passa, alto nel cielo, in groppa all’ippogrifo, per poi calarsi verso un varco fra alte montagne. Una magia “naturale” Con assoluta naturalezza Ariosto passa dalla dimensione del reale a quella del magico e viceversa: nel mondo del Furioso è “naturale” che un cavallo alato solchi il cielo o che un cavaliere esca tutto armato dall’alveo di un fiume e si metta a rimproverare chi gli ha sottratto l’elmo (I 26-30). Nell’introdurre l’elemento del “meraviglioso”, Ariosto non cambia infatti tono, ma mantiene l’abituale andamento discorsivo, pacato, medio, a volte addirittura dimesso: non c’è nella “voce” del narratore nessun indizio che quanto sta per narrare è insolito, nessuna concessione L’Orlando furioso 3 709


a elementi emozionali per attivare nel lettore il senso inquietante del mistero, del soprannaturale. Che le due fontane dell’amore-disamore producano strani effetti in chi beve alle loro acque è presentato come normalissimo: le loro magiche prerogative sono indicate con realismo, come se si trattasse di «una cartella clinica di due acque minerali» (G. Almansi); che la maga Alcina peschi pesci piccoli e grandi senza ami né reti è presentato con sconcertante disinvoltura: «Alcina i pesci uscir facea dell’acque / con semplici parole e puri incanti» (VI 38, 1-2). Ad Ariosto preme mantenere in ogni caso il ritmo fluido della narrazione, che non intende interrompere neppure per sfruttare la sorpresa. «Il poeta del meraviglioso» per eccellenza, scrive il critico Guido Almansi, «rifiuta una voce meravigliosa», alludendo con questa espressione a particolari scelte narratologiche e stilistiche che avrebbero potuto connotare la narrazione nei momenti in cui, appunto, irrompe il meraviglioso.

I luoghi-simbolo: la selva, il palazzo di Atlante, il valloncello della Luna

Fabrizio Clerici, Orlando contro le genti di Cimosco, litografia (Electa, Milano 1967).

I nuclei fondamentali dell’immaginario poetico del Furioso Nell’Orlando furioso sono evocati alcuni luoghi che, per la forte rilevanza simbolica che assumono, costituiscono dei nuclei fondamentali nell’immaginario poetico dell’opera e sono rappresentativi della visione del mondo ariostesca. Proprio questi luoghi-simbolo ci dimostrano come Ariosto non sia (come è stato a lungo presentato) il poeta dell’evasione fantastica volta a compensare le meschine frustrazioni della sua vita quotidiana, ma uno scrittore che pone, anzi, al centro del proprio lavoro la riflessione pensosa e critica sulla vita e sul suo significato, che traduce in ideazioni fantastiche di grande impatto sul lettore: • La selva-labirinto Fin dal primo canto, e anzi soprattutto in esso, emerge in primo piano la selva come teatro dell’azione narrativa, perché è in essa che i personaggi molto spesso si incontrano e si perdono (➜ T5 ). Uno scenario che non ha nulla di realistico, ma è in un certo senso un fondale “di cartapesta”, edificato su precedenti topoi letterari: il bosco è lo scenario pauroso delle fiabe ma soprattutto è, nei romanzi arturiani, il luogo per eccellenza dell’avventura cavalleresca e si connotava, anche al tempo dell’Ariosto, come il luogo in cui fare incontri inaspettati e smarrirsi. La selva è il luogo-simbolo «ove la via / conviene a forza, a chi va, fallire: / chi su, chi giù, chi qua, chi là travia» [XXIV 2, 3-5]). Ariosto non conferisce, però, alla selva una simbologia morale negativa, come avviene per quella «oscura» in Dante, ma ne accentua il carattere labirintico: nella selva ariostesca la ricerca dell’uomo è pericolosamente soggetta all’arbitrio della Fortuna, che per lo più vanifica i suoi sforzi. • Il castello dei desideri All’immagine della selva rimanda la straordinaria, affascinante ideazione del palazzo di Atlante (➜ T10 ), di cui Ariosto sottolinea inequivocabilmente il ruolo di centrale metafora del poema: ne rimarca infatti il carattere labirintico, il legame con i desideri illusori dell’uomo, sedotto dall’illusione di aver trovato chi

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o che cosa cerca. Orlando crede di riconoscere l’amata Angelica in una donna rapita da un cavaliere, Ruggiero crede di vedere Bradamante e anche quest’ultima, a sua volta alla ricerca incessante di Ruggiero, è attirata nel castello incantato dalla magia di Atlante. Il palazzo svela facilmente la sua natura di specchio simbolico dei vani desideri degli uomini, è immagine anche troppo eloquente del loro aggirarsi confusi e sperduti nel labirinto della vita, facili prede di allettamenti ingannevoli che li portano fuori dalla strada maestra. • Il vallone della Luna Il terzo, fondamentale, luogo simbolico del poema è il piccolo vallone sulla Luna dove Astolfo ritroverà il senno di Orlando (➜ T17 ). Attraverso una lunga enumerazione, Ariosto rappresenta in esso tutto ciò che si perde sulla Terra e che va appunto ad accatastarsi nella piccola valle lunare. Il poeta del Furioso rovescia i temi-cardine dell’antropocentrismo umanistico, di cui rivela la sostanziale vanità, e pronuncia indirettamente anche una dura condanna dell’esperienza cortigiana. Dal lungo elenco è assente solo la follia, che non si trova sulla Luna, ma regna incontrastata sulla Terra: con questa sorta di apologo che è la sequenza lunare del Furioso, l’autore allinea l’opera a un testo importante dell’Umanesimo, ossia l’Elogio della follia di Erasmo (➜ C15 OL, T3 ).

3 Le modalità narrative L’“inchiesta” e la visione ariostesca della vita umana Tra schema narrativo e tema L’Orlando furioso è stato definito da più parti «il poema del movimento»: effettivamente il ritmo dell’azione non ha soste e un forte dinamismo percorre tutto il libro, che raramente indugia in pause descrittive, se non per rilanciare l’azione. Non è un caso, allora, che l’elemento determinante nel promuovere le azioni del Furioso sia l’“inchiesta”, ovvero la ricerca (dal francese quête) di qualcuno, ma anche di qualcosa, come l’elmo o il cavallo Baiardo nel I canto o, in seguito, le armi di Orlando. Come si è visto dalla trama del Furioso, l’“inchiesta” è alla base dei due principali filoni narrativi del poema. Non si tratta certo di un elemento nuovo, di un’invenzione ariostesca. Nuova è, però, la particolare rilevanza che il tema-schema dell’“inchiesta” assume nel Furioso, e soprattutto la reinterpretazione che Ariosto ne fa, come del resto avviene per altri motivi ereditati dal passato: mentre nella tradizione arturiana le diverse quêtes raggiungevano la loro finalità e implicavano, come nel caso di quella del Graal, un cammino di perfezionamento spirituale del personaggio, nell’Orlando furioso per lo più l’attesa connessa all’inchiesta viene delusa e frustrata per l’intervento della Fortuna (sorte) o viene abbandonata per l’inserirsi di altre inchieste che attirano il labile interesse dell’uomo. Tutti i personaggi desiderano e ricercano qualche cosa: una donna, l’uomo amato, un elmo, una spada; ma l’inchiesta, la ricerca, risulta sempre fallimentare: nessuno ottiene mai ciò che cerca. Ancor più distante dall’Orlando furioso appare il modello della ricerca tracciato nella Commedia di Dante: l’inchiesta dantesca raggiunge alla fine l’obiettivo, in un percorso lineare, privo di ripensamenti e deviazioni. L’Orlando furioso 3 711


Dante realizza un difficile cammino di perfezionamento morale e conoscitivo, ponendosi alla fine di esso, nel momento di scrivere il poema, come maestro di sicure verità per il lettore, mentre nel Furioso manca completamente la dimensione trascendente e qualsiasi prospettiva provvidenziale. La Fortuna Nel Furioso non domina il disegno divino, ma l’azione della sorte imprevedibile e capricciosa. L’uomo descritto da Ariosto non combatte il destino, ma ne rimane vittima. A differenza di quanto accade ancora in Machiavelli, manca in Ariosto la fiducia nelle capacità dell’uomo di opporsi alla forza della Fortuna. La ricerca e l’interpretazione ariostesca del mondo L’emergere in primo piano del tema della ricerca e il suo carattere rigorosamente laico sembrano alludere simbolicamente alla moderna inquietudine intellettuale dell’uomo rinascimentale, all’abbandono del sapere e dell’etica tradizionali in favore di una sperimentazione che porterà ben presto anche alla nascita della scienza moderna. La concezione della realtà rispecchiata dal complesso delle vicende del poema è, dunque, sostanzialmente negativa: l’iniziativa individuale e la razionalità umana, così celebrate dalla cultura umanistico-rinascimentale, sono infatti costantemente messe alla prova dall’irrompere del caso, che spesso vanifica i progetti e i desideri degli individui. Per di più l’uomo insegue fantasmi illusori, è soggetto a pulsioni irrazionali che condizionano negativamente le sue azioni, limitandone la razionalità. Questa visione serpeggia in tutto il poema, ma è più evidente in alcuni episodi che assumono particolare rilevanza simbolica: è il caso del celebre episodio del palazzo di Atlante (➜ T10 ), dove tutti i cavalieri, preda di una magica fascinazione, inseguono l’oggetto del proprio desiderio senza mai poterlo raggiungere; ma soprattutto è il caso del macroepisodio della follia d’Orlando (➜ T14 ), che dà il titolo al poema e ne costituisce la principale novità rispetto alla tradizione e rispetto al modello più diretto, ovvero l’Orlando innamorato. La vita umana è dunque segnata dal miraggio di una felicità sempre irraggiungibile, quando addirittura non lo è dalla follia, cui approda la ricerca di Orlando, manifestazione estrema dell’irrazionalità che governa la vita degli individui. Se si considera il carattere elusivo o addirittura distruttivo della ricerca, il poema rovescia le ottimistiche fiducie antropocentriche proprie della cultura fino a quel momento. Un riscatto grazie al distacco ironico e al controllo formale Ma questa visione pessimistica è riscattata dal sorridente distacco ironico che aleggia nel Furioso, frutto di un equilibrio interiore faticosamente conquistato dall’autore, che implica un’accettazione della vita pur nella sua negatività: l’«energia dinamica» (Caretti), che percorre tutta l’opera e coinvolge tutti i personaggi, può allora significare la volontà dell’uomo di agire nonostante tutto, affrontando le inevitabili frustrazioni che lo attendono: una lezione di saggezza ed equilibrio tuttora attuale e che trova il suo corrispettivo formale nella capacità di dominare, secondo i canoni del classicismo, la propria materia, dandole una forma equilibrata e armonica. L’entrelacement. Varietà e simmetrie Con entrelacement (“intreccio” in francese) si intende un espediente narrativo usato nella tradizione cavalleresca che consiste nell’interrompere una vicenda per riprenderne una precedente o per narrarne un’altra, che poi a sua volta viene interrotta per ritornare a concludere un episodio precedente e così via. Legato alla trasmissione orale, serviva a tener desta l’attenzione del pubblico e per questo in genere veniva impiegato nel punto in cui «l’azione aveva una sosta o l’interesse s’era raffreddato» (Rajna).

712 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto


Ariosto eredita il procedimento e ne intensifica vistosamente l’uso rispetto a Boiardo e alla tradizione romanzesca, ma al solito mutandone la funzione all’interno di una più sofisticata tecnica narrativa, come vari studi recenti hanno puntualmente dimostrato. L’entrelacement dovette costituire ai suoi occhi «uno strumento privilegiato per la rappresentazione veridica della molteplicità del reale, della varietà delle azioni e degli accadimenti» (Marco Praloran), uno strumento per creare una dimensione multiprospettica attraverso la conduzione in parallelo di diverse fila narrative. La critica ha provato che al di sotto delle continue interruzioni e riprese che animano la complessa macchina narrativa del Furioso sta una precisa strategia registica, volta a istituire fra interi episodi e singole sequenze calcolate simmetrie, significativi parallelismi e opposizioni. La coesione del poema è assicurata inoltre, a livello microtestuale, dalla presenza, evidenziata da alcuni studi critici (come nel caso di Maria Cristina Cabani), di un fitto tessuto di richiami lessicali, ritmici, fonici a distanza. La varietà di episodi e di storie, in parte intrecciate tra di loro, ha certo a che fare con l’obiettivo di evitare la monotonia, ma soprattutto con il desiderio di dare vita a un poema “totale”, secondo un ambizioso progetto che colloca il Furioso accanto a grandi capolavori come la Commedia o il Decameron.

“Strani viaggi”: il modello spaziale del poema La “poesia dello spazio” La geografia del poema è incredibilmente vasta e leggendo l’Orlando si intuisce che Ariosto amava fantasticare sulle carte geografiche, come dice in una delle satire (➜ T3 OL): si va dalla Francia alle brume dei mari del Nord, dall’Oceano Indiano all’Estremo Oriente; ma lo spazio si dilata ulteriormente (essendo un’entità essenzialmente antirealistica) verso dimensioni fantastiche: l’isola di Alcina oltre le colonne d’Ercole, gli spazi dell’Oltremondo nel viaggio di Astolfo. Lo strumento principe delle più fascinose e vertiginose escursioni ariostesche, come quelle appena indicate, è l’ippogrifo. «La poesia dello spazio», di cui ha parlato il critico Giovanni Getto, nasce in gran parte nel Furioso dai voli di questo animale. Memorabile in particolare la descrizione del volo del cavallo alato verso l’isola di Alcina (nel canto VI): l’ippogrifo si lascia indietro l’Europa e le terre conosciute fino a discendere, dopo aver varcato le colonne d’Ercole, con ampie ruote, nello spazio magico dell’isola (➜ T8 OL). Un modello spaziale policentrico e labirintico Per quanto riguarda il modello spaziale sotteso al poema, si può dire che l’Orlando furioso sia un’opera senza “centro” (non esercita certo questo ruolo simbolico Parigi, dove pure si combatte l’epica guerra tra cristiani e saraceni) o policentrica: i molteplici luoghi evocati sono centri solo temporanei dell’azione, a cui manca ogni principio teleologico, finalistico, nel continuo mutare delle direttrici. L’inchiesta inconcludente si traduce in un movimento circolare che non giunge mai a destinazione e ritorna sempre al punto di partenza. Questo moto è reso, nel testo, mediante formule che Ariosto utilizza spesso: «di su, di giù», «or quinci, or quindi», «di qua, di là» (Carne-Ross). La concezione dello spazio nel Furioso è prevalentemente “orizzontale” e labirintica, del tutto opposta al modello spaziale che si può individuare nella Commedia, il poema del medioevo cristiano, in cui lo spostamento del protagonista, dopo l’iniziale smarrimento nella selva, assume una direzione rigorosamente “verticale” e rettilinea, che non ammette deviazioni. L’Orlando furioso 3 713


Quarant’anni dopo l’Orlando furioso, nel mutato clima ideologico della Controriforma, nella Gerusalemme liberata si ripresenterà una concezione della modellizzazione spaziale fortemente connotata in senso morale: il centro è chiaramente stabilito in Gerusalemme, dove si combatterà nuovamente una vera e propria guerra santa, e ogni deviazione da essa sarà connotata come “errore” e deviazione spirituale.

Ruggiero affronta il servo di Alcina, maiolica, 1550 ca. (Arezzo, Museo d’Arte Medievale Personaggi-funzione e Moderna).

La selva Metafora dello spazio labirintico è sicuramente la selva, che fa da sfondo al primo canto e a molti altri episodi: uno spazio intricato in cui i sentieri si intersecano e si aggrovigliano, e dove i personaggi si muovono alla ricerca del proprio oggetto del desiderio guidati dalla volontà della Fortuna.

I personaggi e il narratore dell’azione Noi lettori moderni tendiamo a cercare nei personaggi risvolti psicologici reali, magari per immedesimarci nelle loro vicende. Nell’Orlando furioso i personaggi mancano di spessore psicologico (ovviamente per precisa scelta e non per incapacità dell’autore) e vivono di una vita di relazione all’interno del complesso scacchiere narrativo: è anche questa la ragione per cui né Orlando, né tanto meno Angelica si possono definire protagonisti del poema. I personaggi sono utilizzati dall’autore esclusivamente in funzione dell’azione e del ritmo narrativo che rispecchia il ritmo della vita, sono mossi a piacimento dal gran “burattinaio” che è il poeta, sono in un certo senso enti “agiti” più che “agenti”. Con essi lo scrittore stabilisce un rapporto che è comunque di distacco ironico e mai di immedesimazione e rispecchiamento, anche quando collega le loro vicende alle proprie. «L’Ariosto», scrive Caretti, «non mirava a figure autonome, alla creazione di caratteri veri e propri, né in senso obiettivamente realistico né come riflesso […] della propria autobiografia. Egli intendeva piuttosto creare delle figure che, di volta in volta, riflettessero soltanto un aspetto tipico della natura umana. [...] Agiva dunque nei confronti dei personaggi con intenti riduttivi e semplificatori». Questa scelta evita che essi si rinchiudano troppo a lungo in sé stessi, bloccando il movimento narrativo e concentrando sul proprio “caso” tutta l’attenzione del lettore: attenzione che Ariosto vuole condurre sempre oltre, verso nuove avventure.

Lessico metanarrativo Tutto ciò che riguarda la metanarrazione, ossia il processo narrativo attraverso il quale l’autore interviene direttamente nel testo che ha realizzato per parlare proprio di quest’ultimo.

Gli interventi del narratore e la presenza straniante dell’ironia Come aveva già fatto Boiardo, anche Ariosto cerca di ricreare, narrando, un’impressione di oralità, come se l’Orlando fosse una sorta di “racconto recitato” davanti a un pubblico, quello della corte, a cui il narratore si rivolge spesso direttamente e che viene immaginato non tanto nell’atto di leggere quanto di ascoltare. Una finzione riconducibile alla tradizione orale della materia cavalleresca; ma naturalmente Ariosto, come autore, è abissalmente distante dall’ingenua posizione dei canterini e dallo stesso Boiardo. Innanzitutto esibisce la sua funzione registica di narratore onnisciente attraverso costanti interventi metanarrativi , che evidenziano l’utilizzazione consapevole dell’entrelacement:

714 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto


«Signor, far mi convien come fa il buono / sonator sopra il suo instrumento arguto (melodioso), / che spesso muta corda, e varia suono, / ricercando ora il grave, ora l’acuto. / Mentre a dir di Rinaldo attento sono, / d’Angelica gentil m’è sovenuto, / di che lasciai ch’era da lui fuggita/ e ch’avea riscontrato (incontrato) uno eremita» (VIII 29). Ma più interessanti, e indice primo della “modernità” del poema, sono i molteplici interventi ironici sulla materia narrata, che infrangono deliberatamente la finzione narrativa, introducendo una nota critico-riflessiva: ad esempio, a proposito della verginità di Angelica, che la giovane sostiene, davanti al guerriero saraceno Sacripante, di aver preservato intatta, il narratore-autore commenta: «Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore» (I 56, 1-2). Il lettore è così guidato ad assumere quello stesso atteggiamento di distanziamento dalla materia, dall’“involucro” cavalleresco, che caratterizza lo scrittore: Ariosto era infatti ben consapevole che una lettura “ingenua” del suo poema, cioè fondata sull’adesione acritica al piacere della lettura, avrebbe impedito di coglierne la ricchezza e soprattutto l’attualità. È quasi superfluo, dato che si tratta di un’acquisizione ormai pluridecennale della critica, sottolineare che l’ironia non si applica affatto al mondo cavalleresco in sé con l’obiettivo di svalutarlo. Per il lettore di oggi è ormai chiaro che quella cavalleresca è solo un’affascinante “veste”.

4 Le scelte stilistico-linguistiche e metriche

PER APPROFONDIRE

Un classico “leggibile” Come si è visto, nel passaggio dalla prima alla terza edizione Ariosto normalizza la fonetica, la morfologia e il lessico, conformandoli al modello del toscano letterario. L’adesione alla proposta di Bembo presumibilmente non è dettata da un’esigenza di purismo classicistico, come avviene per tanti altri scrittori del tempo, ma corrisponde alla volontà di Ariosto di sottrarre il suo poema alla sfera della “letteratura di consumo”, nobilitandone la veste linguistica, e soprattutto di inserirlo nel circuito di una comunicazione nazionale e non più solo municipale; questo va detto anche in rapporto al mutare del quadro politico italiano nello scenario internazionale, che vedeva la progressiva perdita di autonomia politica e di prestigio delle corti. D’altra parte il poeta si riserva ampia libertà di scelta, lavorando «con orecchio di poeta, non con rigore di grammatico» (Segre), e cioè seguendo più le intrinseche esigenze poetiche che quelle normative. La lingua del Furioso che esce dalla terza e ultima redazione è una lingua equilibrata, che rinuncia in genere alle punte eccessivamente auliche e a quelle troppo “basse”, ma all’occorrenza può accogliere latinismi (anche se mai per ragioni erudite)

Gli esordi dei canti: uno spazio commentativo per l’autore In questa stessa prospettiva si collocano gli esordi dei vari canti, anch’essi tradizionalmente presenti nella tradizione cavalleresca e di cui Ariosto rivisita la funzione. Sono infatti spazi testuali spesso deputati proprio all’attualizzazione del poema, in cui lo scrittore riconduce la favola antica ai temi della coscienza moderna. A titolo di esempio si può ricordare l’intervento dell’autore-narratore all’inizio del canto VIII: dopo che Ruggiero, grazie all’anello magico, riesce a vedere le reali fattezze dell’incantatrice Alcina, che l’aveva ammaliato con le sue arti (VII), il poeta fa dell’oggetto una sorta di metafora della ragione che tutti gli uomini dovrebbero impiegare:

«Oh quante sono incantatrici, oh quanti / incantator tra noi, che non si sanno! [...] Chi l’annello d’Angelica, o più tosto / chi avesse quel de la ragion, potria / veder a tutti il viso, che nascosto / da finzione e d’arte non saria» (VIII, 1-2). Ma gli esordi dei canti sono anche spazi in cui Ariosto risalta in primo piano come persona, spazi autobiografici in cui garbatamente, con il tono scherzoso e autoironico che gli è proprio, riconduce la storia del poema alla propria stessa vita, come dopo il recupero del senno di Orlando da parte di Astolfo (XXXV, 1-2): «Chi salirà per me, madonna, in cielo, / a riportarne il mio perduto ingegno?».

L’Orlando furioso 3 715


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Interpretazioni critiche Cesare Segre La ricerca di armonia nel Furioso

così come voci realistiche quali matto, attribuito niente meno che al paladino per eccellenza, Orlando, o calcagna, associato alla bella Angelica, eroina del poema. Una lingua ispirata alla “medietà”, che Ariosto tenacemente ricerca, come ha evidenziato l’analisi di Contini, attraverso il faticoso lavoro correttorio sul suo poema. La medietà linguistica si iscrive nella più generale medietà tonale: Ariosto non si sofferma mai a lungo su un unico tono – sia esso patetico, epico, lirico – ma tende a bilanciarlo attraverso una differente modulazione, così da realizzare quell’equilibrio che ben corrisponde alla sua visione della vita. Nel complesso la lingua del Furioso è una lingua armonica (ed è forse questa la più autentica “armonia” del poema), unico esempio, nella sua scioltezza colloquiale, nella più illustre tradizione letteraria italiana, di un libro che anche uno studente liceale può leggere con piacere, senza continui faticosi rimandi a note esplicative: un libro che si fa capire e amare. L’ottava d’oro Con questa tradizionale definizione si allude alla “magica” ottava del Furioso, che con la sua proverbiale fluidità sostiene il ritmo narrativo che caratterizza il capolavoro ariostesco. Ariosto adotta come metro l’ottava (otto endecasillabi che rimano secondo lo schema ABABABCC) per naturale eredità della tradizione narrativa: l’ottava si era infatti ormai da tempo affermata come forma metrica tipica del narrare lungo in versi, dai cantari popolareggianti ad autori colti, a partire dal Boccaccio del Filostrato fino al Boiardo dell’Orlando innamorato e al Pulci del Morgante. Ma anche nell’ambito metrico, come in quello linguistico, Ariosto reiventa e innova, allontanandosi da ogni schematismo e creando uno strumento perfettamente duttile e funzionale alla propria poetica narrativa: i documenti autografi rivelano, anche in questo campo, un attento lavoro di revisione dalla prima all’ultima edizione del poema. Ariosto utilizza con sorprendente sapienza tecnica, anche se con apparente naturalezza, soprattutto i due ultimi versi dell’ottava, in rima baciata; spesso i due versi che chiudono l’ottava, o l’ultimo dell’ottava, sono impiegati con funzione dinamica: introducono un fatto nuovo e/o rilanciano in avanti il ritmo narrativo. Ecco alcuni esempi (tutti tratti dal I canto):

Di sù di giù, ne l’alta selva fiera tanto girò, che venne a una riviera. (ott. 13) con prieghi invita, ed al fin toglie in groppa, e per l’orme d’Angelica galoppa. (ott. 21) Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo Angelica che fugge. (ott. 32) Talvolta i due ultimi versi sigillano l’ottava con una sentenza spesso ironica. A proposito, ad esempio, dell’accorata attestazione della propria verginità da parte di Angelica e della credulità di Sacripante, Ariosto così chiude l’ottava 56 del I canto: online

Verso l’esame di Stato

Questo creduto fu; che ’l miser suole dar facile credenza a quel che vuole.

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

716 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

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Per approfondire L’Orlando furioso nel tempo


L’Orlando furioso GENERE

poema cavalleresco in ottave

PUBBLICO

• corte di Ferrara • pubblico nazionale (corti rinascimentali)

STRUTTURA/ EDIZIONI

Ariosto pubblica il poema tre volte: 1516 (quaranta canti); 1521 (quaranta canti); 1532 (quarantasei canti)

CONTENUTO

• continuazione dell’Orlando innamorato di Boiardo • i principali nuclei narrativi sono tre: 1) la guerra tra cristiani e saraceni 2) la follia di Orlando 3) la storia di Ruggiero e Bradamante; dall’unione dei due avrà origine la stirpe degli Estensi

TEMI

l’amore, la follia, la guerra, l’avventura, la magia, il viaggio, la sorte

TECNICHE NARRATIVE

• entrelacement: intreccio complesso di più vicende portate avanti in parallelo, che il narratore riconduce a un insieme omogeneo • effetto “suspence” nel lettore • ironia • interventi diretti del narratore con giudizi, chiarimenti ed anticipazioni • motivo dell’inchiesta (quête): continua ricerca di persone od oggetti desiderati • la ricerca è quasi sempre destinata al fallimento

STILE E LINGUA

• stile medio che ha come modello Petrarca • lingua misurata e regolare

SCOPO

• lodare il cardinale Ippolito d’Este • intrattenere piacevolmente il pubblico di corte

Orlando viene rappresentato folle per amore

ELEMENTI DI NOVITÀ

abbassamento della materia cavalleresca: i cavalieri presentano le caratteristiche di persone comuni, anzi a volte vengono ridicolizzati

l’amore non rende migliori i cavalieri, ma può divenire causa di follia

L’Orlando furioso 3 717


Ludovico Ariosto

T4

Un poema nuovo nasce dalla tradizione cavalleresca Orlando furioso, proemio I, 1-4

L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

AUDIOLETTURA

Nelle prime quattro ottave che costituiscono il proemio, l’autore presenta la propria opera, il cui argomento è sintetizzato nel celebre incipit (Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori). Alla proposizione del tema, segue, secondo il cliché dell’epica antica, l’invocazione (in questo caso rivolta alla donna amata) e la dedica (a Ippolito d’Este).

1 Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto1, che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare2, e in Francia nocquer tanto3, seguendo l’ire e i giovenil furori4 d’Agramante lor re, che si diè vanto5 di vendicar la morte di Troiano6 sopra re Carlo imperator romano7. 2 Dirò d’Orlando in un medesmo tratto cosa non detta8 in prosa mai né in rima: che per amor venne in furore e matto9, d’uom che sì saggio era stimato prima; se da colei che tal quasi m’ha fatto, che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso10.

La metrica Strofe di ottave: quattro cop-

4 i giovenil furori: la furia giovanile.

pie di endecasillabi, tre a rima alternata, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC

Ad Agramante, personaggio d’invenzione dell’Innamorato, il Boiardo attribuisce l’età di ventidue anni. 5 si diè vanto: si vantò. 6 Troiano: è il padre di Agramante, ucciso da Orlando. 7 imperator romano: imperatore del Sacro Romano Impero. Carlo Magno era stato incoronato da papa Leone III nell’anno 800. 8 Dirò... detta: Racconterò allo stesso tempo di Orlando cose inaudite (nel sen-

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canto: racconto in versi. che furo… il mare: che avvennero all’epoca in cui i Mori (gli abitanti della Mauritania, per indicare gli arabi di Spagna e Africa) attraversarono il Mar d’Africa, ossia il Mediterraneo. 3 nocquer tanto: arrecarono lutti e distruzioni tanto grandi.

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so di “nuove” ed “eccezionali”) sia in versi sia in prosa. 9 venne... matto: fu preso da pazzia e divenne folle. 10 se da colei… ho promesso: se colei che mi ha quasi fatto impazzire come Orlando, e che di giorno in giorno consuma il mio piccolo ingegno, me ne concede però a sufficienza perché io possa portare a termine l’opera promessa. Il riferimento è all’amata Alessandra Benucci.


3 Piacciavi, generosa Erculea prole11, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole e darvi sol può l’umil servo vostro12. Quel ch’io vi debbo, posso di parole pagare in parte e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono, che quanto io posso dar, tutto vi dono13. 4 Voi sentirete fra i più degni eroi, che nominar con laude m’apparecchio14, ricordar quel Ruggier15, che fu di voi e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio16. L’alto valore e’ chiari gesti suoi vi farò udir, se voi mi date orecchio, e vostri alti pensier cedino un poco, sì che tra lor miei versi abbiano loco17.

11 generosa Erculea prole: nobile figlio

14 nominar... m’apparecchio: mi appre-

17 L’alto valore... abbiano loco: vi farò

di Ercole. Ariosto si sta rivolgendo al cardinale Ippolito d’Este, figlio di Ercole I, duca di Ferrara. 12 aggradir... vostro: gradire questo (poema) che vuole donarvi il vostro umile servo, il quale di più non può (darvi). 13 Quel ch’io… tutto vi dono: Ciò di cui vi sono debitore, posso restituirvelo in parte con le mie parole e i miei scritti (opera d’inchiostro); né mi si può accusare di concedervi poco, poiché tutto quello che posso offrire, io ve lo dono.

sto a menzionare con lode (tessendone le lodi). 15 quel Ruggier: complemento oggetto di ricordar, retto da Voi sentirete. Figlio di Ruggiero di Risa e di Galaciella (figlia del musulmano Agolante), Ruggiero è considerato il capostipite della famiglia d’Este. Ariosto riprende la genealogia dell’Orlando innamorato. 16 il ceppo vecchio: progenitore, capostipite.

udire il suo (di Ruggiero) grande valore e le sue illustri imprese (chiari gesti; al maschile plurale all’uso cinquecentesco), se mi prestate orecchio; e i pensieri sublimi a cui siete abituato (riferimento, forse pure velatamente ironico, agli affari gravosi della politica del cardinale) siano un po’ accantonati, di modo che anche i miei versi possano trovare posto in mezzo a loro.

Analisi del testo Un proemio fra tradizione e innovazione Ariosto introduce l’opera ricorrendo alla formula tramandata dalla tradizione epica classica, che prevedeva la proposizione (ossia l’enunciazione in sintesi dell’argomento), l’invocazione e la dedica. Questa ripresa di un modulo classico costituisce una novità nell’ambito del poema cavalleresco, che in genere sceglieva esordi diversi, ad esempio rivolgendosi direttamente a un pubblico di immaginari uditori come fa Boiardo nell’Orlando innamorato. Come vedremo, più di un elemento differenzia il proemio ariostesco dalla tradizione epica medievale e quattro-cinquecentesca.

La proposizione del tema L’enunciazione dell’argomento, che si sviluppa per circa due ottave, è aperta dal celeberrimo verso chiastico iniziale, in cui è sintetizzata la fusione tra la materia carolingia (esposta nella parte centrale del verso: «i cavallier, l’arme») e la materia bretone (a cui fanno riferimento gli estremi del verso: «Le donne [...] gli amori»), una fusione già presente nell’Orlando innamorato. Il secondo verso riprende, più sinteticamente, il riferimento alla duplice tradizione narrativa che ritroveremo nel poema: «le cortesie, l’audaci imprese».

L’Orlando furioso 3 719


La prima ottava inquadra le vicende che saranno narrate nel contesto – più leggendariofantastico che propriamente storico – delle guerre tra cristiani e saraceni (i Mori); più specificamente fa riferimento alla spedizione militare che condusse le truppe saracene in Francia, capitanate dal giovane re Agramante, intenzionato a vendicare l’uccisione del padre Troiano ad opera di Orlando. Il tono dominante nella prima ottava è epico e solenne. La seconda ottava presenta la novità assoluta («cosa non detta in prosa mai né in rima») che il poema introduce nella tradizione narrativa: la trasformazione del paladino Orlando da saggio a folle per amor.

L’invocazione L’ultima parte della seconda ottava introduce la tradizionale invocazione. In questo caso però essa non è rivolta alle Muse o ad Apollo ma, sulla base del parallelismo tra Orlando e Ludovico in quanto entrambi innamorati, alla donna amata dal poeta, Alessandra Benucci, perché gli dia un po’ di tregua e gli lasci quel poco di ingegno necessario per terminare il poema. È facile notare rispetto alla prima ottava un mutamento di tono, un andamento più colloquiale; in questo abbassamento tonale spicca la scelta di un termine “basso”, d’uso comune, come matto per qualificare la follia di Orlando.

La dedica al cardinale Ippolito e il motivo encomiastico Nelle ultime due ottave del proemio Ariosto riconduce la composizione del poema al contesto della corte e in particolare della corte estense, di cui è evocato un protagonista, il cardinale Ippolito, designato con appellativi di tono aulico e altamente elogiativi («generosa, Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro») che tuttavia suonano forse ironici, come pure il riferimento agli alti pensier del cardinale (ottava 4, vv. 7-8) a cui il poeta contrappone la pochezza dei suoi versi. Nella terza ottava Ariosto offre dunque il poema al potente signore di cui era al servizio (si autodefinisce modestamente umil servo), ribadendo la propria fedeltà al “mestiere di poeta”, l’unico che sentiva veramente suo e in cui poteva eccellere e ricambiare così la protezione e il favore del cardinale. L’ultima ottava riprende il riferimento alla materia del poema, in chiave però propriamente encomiastica: nell’Orlando furioso si parlerà anche di Ruggiero, destinato a essere capostipite della casa d’Este.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto delle ottave (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Indica che cosa accomuna la materia dell’Orlando furioso a quella dell’Orlando innamorato e la novità che il poema di Ariosto introduce rispetto al poema di Boiardo, facendo riferimento ai versi che rispettivamente vi alludono. ANALISI 3. Il proemio del Furioso riprende la tradizionale formula epica classica: individua nel testo la proposizione, l’invocazione e la dedica. 4. Un elemento di novità del proemio è il richiamo a figure che appartengono a vario titolo all’autobiografia ariostesca. Costruisci una tabella in cui siano chiaramente indicati di quali figure si tratta, in quali punti del testo sono evocate e a che proposito. STILE 5. Evidenzia la compresenza nel proemio di modi e di un lessico aulici ed epici, con toni e lessico colloquiali e prosastici.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Nel proemio si può leggere una nota indirettamente polemica da parte di Ariosto sulla propria condizione di poeta-cortigiano che puoi ricollegare a qualche passo delle Satire che conosci. Motiva le tue osservazioni con opportuni riferimenti ai testi.

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Ludovico Ariosto

T5

Il primo canto, compendio dell’universo poetico del Furioso Orlando furioso I, 5-71

L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

AUDIOLETTURA

Il primo canto, che presentiamo quasi interamente, è stato definito non a caso un “microcosmo” dell’intero poema. Vi si condensano in modo esemplare, infatti, i temi del Furioso, in particolare l’amore e l’avventura; compaiono sulla scena alcuni dei personaggi principali come Orlando, Angelica, Rinaldo e sono già pienamente operanti gli schemi narrativi che ricorreranno nell’opera, a cominciare dall’“inchiesta”, la ricerca, principale motore di un’azione che in questo primo canto ha un ritmo particolarmente incalzante. Inoltre si affaccia sulla scena il narratore, in un ruolo che ricorrerà in tutto il lavoro: quello di regista degli eventi e loro ironico commentatore.

5 Orlando, che gran tempo innamorato fu de la bella Angelica, e per lei in India, in Media, in Tartaria1 lasciato avea infiniti ed immortal trofei2, in Ponente3 con essa era tornato, dove sotto i gran monti Pirenei con la gente di Francia e de Lamagna4 re Carlo era attendato alla campagna5,

7 che vi fu tolta la sua donna poi: ecco il giudicio uman come spesso erra! Quella che dagli esperi ai liti eoi9 avea difesa con sì lunga guerra, or tolta gli è fra tanti amici suoi, senza spada adoprar, ne la sua terra. Il savio imperator, ch’estinguer volse un grave incendio, fu che gli la tolse10.

6 per far al re Marsilio e al re Agramante battersi ancor del folle ardir la guancia6, d’aver condotto, l’un, d’Africa quante genti erano atte a portar spada e lancia; l’altro, d’aver spinta la Spagna inante7 a destruzion del bel regno di Francia. E così Orlando arrivò quivi a punto8: ma tosto si pentì d’esservi giunto;

8 Nata pochi dì inanzi era una gara tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo11, che ambi avean per la bellezza rara d’amoroso disio l’animo caldo. Carlo, che non avea tal lite cara, che gli rendea l’aiuto lor men saldo, questa donzella, che la causa n’era, tolse, e diè in mano al duca di Bavera12;

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alternata, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC 1 Media… Tartaria: “Media” era detta la regione dell’Asia a sud del mar Caspio; la Tartaria era invece la regione a nord-ovest della Cina. 2 trofei: testimonianze di valore. 3 Ponente: occidente. 4 Lamagna: Germania.

5 era attendato alla campagna: aveva posto il suo accampamento. 6 per far… la guancia: per far sì che Agramante e Marsilio ancora una volta si pentissero amaramente (battersi… la guancia) della loro folle audacia. Marsilio è il re di Spagna, alleato di Agramante. 7 d’aver... inante: di aver istigato la Spagna. 8 quivi a punto: qui al momento opportuno. 9 dagli esperi ai liti eoi: dai paesi occi-

dentali a quelli orientali. Cioè ovunque. 10 Il savio imperator… la tolse: Fu l’imperatore saggio, Carlo, che (che, “colui che”) gliela tolse (gli la tolse: cioè Angelica ad Orlando), per sedare un grave contrasto (estinguer, “spegnere”, un grave incendio) scatenato dalla bella fanciulla, com’è detto nell’ottava seguente. 11 Rinaldo: celebre paladino, figlio di Amone di Chiaramonte. 12 duca di Bavera: Namo, duca di Baviera, consigliere di Carlo.

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9 in premio promettendola a quel d’essi, ch’in quel conflitto, in quella gran giornata, degli infideli più copia uccidessi e di sua man prestasse opra più grata.13 Contrari ai voti poi furo i successi14; ch’in fuga andò la gente battezzata15, e con molti altri fu ’l duca prigione16, e restò abbandonato il padiglione17.

12 Era costui quel paladin gagliardo, figliuol d’Amon, signor di Montalbano28, a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo per strano caso uscito era di mano. Come alla donna egli drizzò lo sguardo, riconobbe, quantunque di lontano, l’angelico sembiante e quel bel volto ch’all’amorose reti il tenea involto29.

10 Dove18, poi che rimase la donzella ch’esser dovea del vincitor mercede19, inanzi al caso20 era salita in sella, e quando bisognò le spalle diede21, presaga che quel giorno esser rubella dovea Fortuna alla cristiana fede22: entrò in un bosco, e ne la stretta via rincontrò un cavallier ch’a piè venìa.

13 La donna il palafreno a dietro volta, e per la selva a tutta briglia il caccia; né per la rara più che per la folta, la più sicura e miglior via procaccia: ma pallida, tremando, e di sé tolta, lascia cura al destrier che la via faccia30. Di sù di giù, ne l’alta selva fiera31 tanto girò, che venne a una riviera32.

11 Indosso la corazza, l’elmo in testa, la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo23; e più leggier correa per la foresta, ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo24. Timida pastorella mai sì presta25 non volse piede inanzi a serpe crudo26, come Angelica tosto il freno torse27, che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse.

14 Su la riviera Ferraù33 trovosse di sudor pieno e tutto polveroso. Da la battaglia dianzi lo rimosse34 un gran disio di bere e di riposo; e poi, mal grado suo, quivi fermosse, perché, de l’acqua ingordo e frettoloso35, l’elmo nel fiume si lasciò cadere, né l’avea potuto anco riavere.

13 in premio… grata: promettendola in premio a quello fra loro che, durante quello scontro, in quella giornata campale, avesse ucciso il numero più grande (più copia) di saraceni e avesse compiuto le imprese più gradite. 14 Contrari… successi: Gli esiti della battaglia furono poi contrari alle speranze (ai voti, “a quelli desiderati”). 15 la gente battezzata: l’esercito dei cristiani. 16 fu ’l duca prigione: fu fatto prigioniero il duca di Baviera. 17 il padiglione: la tenda di Namo, finito prigioniero dei Mori. 18 Dove: nel padiglione. 19 mercede: premio. 20 inanzi al caso: prima della sconfitta. 21 e quando... diede: e, al momento opportuno, volse le spalle e scappò via.

22 presaga… fede: presagendo che quel giorno la Fortuna doveva essere avversa (rubella, “ribelle”) alla fede (cioè all’armata) cristiana. 23 Indosso… lo scudo: costruisci “aveva indosso la corazza” ecc. 24 più legger… mezzo ignudo: correva per la foresta più agile che il contadino mezzo nudo (dietro) al pallio rosso. Il pallio era il drappo che veniva destinato in premio ai vincitori delle corse a piedi. 25 sì presta: così rapida. 26 non volse… crudo: non ritrasse il piede davanti a un infido serpente. 27 tosto… torse: subito volse il cavallo. 28 Era costui… Montalbano: Rinaldo, alla ricerca del proprio meraviglioso cavallo Baiardo, come Ariosto ricorda nei due versi seguenti. L’episodio è raccontato nell’Innamorato (III, IV, 29).

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29 ch’all’amorose… involto: che lo teneva imprigionato nella rete d’amore.

30 né per la rara… via faccia: e non prende la via più sicura e migliore, là dove la foresta appare meno folta (rara, “rada”), ma pallida, tremante e fuori di sé, lascia che sia il cavallo a prendere la strada che vuole. 31 ne l’alta selva fiera: nella foresta fitta (alta, “profonda”) e selvaggia. 32 a una riviera: sulla riva di un fiumicello. 33 Ferraù: cavaliere saraceno spagnolo, nipote di re Marsilio; aveva ucciso in combattimento il fratello di Angelica, Argalia. 34 rimosse: allontanò, distolse. 35 ingordo e frettoloso: avido e impaziente.


15 Quanto potea più forte, ne veniva gridando la donzella ispaventata. A quella voce salta in su la riva il Saracino, e nel viso la guata36; e la conosce subito ch’arriva37, ben che di timor pallida e turbata, e sien più dì che non n’udì novella38, che senza dubbio ell’è Angelica bella.

18 Poi che s’affaticar gran pezzo47 invano i dui guerrier per por l’un l’altro sotto, quando non meno era con l’arme in mano questo di quel, né quel di questo dotto48; fu primiero il signor di Montalbano, ch’al cavallier di Spagna fece motto49, sì come quel ch’ha nel cuor tanto fuoco, che tutto n’arde e non ritrova loco50.

16 E perché era cortese, e n’avea forse non men dei dui cugini39 il petto caldo40, l’aiuto che potea tutto le porse, pur come avesse l’elmo, ardito e baldo: trasse la spada, e minacciando corse dove poco di lui temea Rinaldo. Più volte s’eran già non pur veduti, m’al paragon de l’arme conosciuti41.

19 Disse al pagan: – Me sol creduto avrai, e pur avrai te meco ancora offeso51: se questo avvien perché i fulgenti rai del nuovo sol52 t’abbino il petto acceso, di farmi qui tardar che guadagno hai? che quando ancor tu m’abbi morto o preso53, non però tua la bella donna fia54; che, mentre noi tardiam, se ne va via.

17 Cominciar quivi una crudel battaglia, come a piè si trovar, coi brandi ignudi42: non che le piastre e la minuta maglia, ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi43. Or, mentre l’un con l’altro si travaglia44, bisogna al palafren che ’l passo studi45; che quanto può menar de le calcagna, colei lo caccia al bosco e alla campagna46.

20 Quanto fia55 meglio, amandola tu ancora56, che tu le venga a traversar la strada, a ritenerla e farle far dimora57, prima che più lontana se ne vada! Come l’avremo in potestate, allora di ch’esser de’ si provi con la spada58: non so altrimenti, dopo un lungo affanno, che possa riuscirci altro che danno. –

36 guata: guarda. 37 la conosce… ch’arriva: la riconosce non appena arriva.

38 e sien… novella: benché (ben che, v. 6) siano molti giorni, non se ne sapeva più nulla. 39 dei dui cugini: Orlando e Rinaldo. 40 il petto caldo: il cuore infiammato (d’amore). 41 Più volte… conosciuti: già più di una volta si erano non solo incontrati, ma si erano anche fronteggiati in combattimento (al paragon de l’arme). 42 coi brandi ignudi: con le spade sguainate. 43 non che le piastre… gl’incudi: ai loro colpi non avrebbero retto non solo le lamine di cui era fatta l’armatura, e la sottile

maglia di filo di ferro (che i cavalieri indossavano sotto), ma addirittura nemmeno le incudini. 44 l’un con l’altro si travaglia: sono impegnati l’un con l’altro. 45 bisogna… studi: occorre che il cavallo affretti il passo. 46 che quanto... alla campagna: perché con tutta la forza che ha per spronarlo (letteralmente “quanto può muovere i calcagni”), Angelica (colei) lo spinge verso la selva e la campagna. 47 gran pezzo: per lungo tempo. 48 quando… dotto: dal momento che l’uno non era meno valente dell’altro nel maneggio delle armi, né meno esperto. 49 fu primiero… motto: fu Rinaldo per primo a rivolgere la parola a Ferraù.

50 non ritrova loco: non trova pace. 51 Me sol… ancora offeso: Tu crederai di aver danneggiato me soltanto, eppure con me hai recato danno anche a te stesso. 52 i fulgenti rai del nuovo sol: la perifrasi indica gli occhi della bella Angelica. 53 quando... preso: anche nel caso che tu mi abbia ucciso o fatto prigioniero. 54 tua... fia: sarà tua Angelica. 55 fia: sarebbe. 56 amandola tu ancora: poiché anche tu l’ami. 57 ritenerla... dimora: trattenerla e farla fermare. 58 Come l’avremo… con la spada: Quando Angelica sarà in mano nostra, senza poter fuggire, allora decideremo di chi di noi debba essere, con un duello.

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21 Al pagan la proposta non dispiacque: così fu differita la tenzone; e tal tregua tra lor subito nacque, sì l’odio e l’ira va in oblivione, che ’l pagano al partir da le fresche acque non lasciò a piedi il buon figliuol d’Amone59: con preghi invita, ed al fin toglie in groppa60, e per l’orme61 d’Angelica galoppa.

24 Pur si ritrova ancor su la rivera, là dove l’elmo gli cascò ne l’onde. Poi che la donna ritrovar non spera, per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde, in quella parte onde caduto gli era discende ne l’estreme umide sponde: ma quello era sì fitto68 ne la sabbia, che molto avrà da far prima che l’abbia.

22 Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui! Eran rivali, eran di fé diversi62, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi63; e pur per selve oscure e calli obliqui64 insieme van senza sospetto65 aversi. Da quattro sproni il destrier punto arriva ove una strada in due si dipartiva.

25 Con un gran ramo d’albero rimondo69, di ch’avea fatto una pertica lunga, tenta il fiume e ricerca sino al fondo, né loco lascia ove non batta e punga. Mentre con la maggior stizza del mondo tanto l’indugio suo quivi prolunga, vede di mezzo il fiume un cavalliero insino al petto uscir, d’aspetto fiero.

23 E come quei che non sapean se l’una o l’altra via facesse la donzella (però che senza differenza alcuna apparia in amendue l’orma novella66), si messero ad arbitrio di fortuna, Rinaldo a questa, il Saracino a quella. Pel bosco Ferraù molto s’avvolse, e ritrovossi al fine onde si tolse67.

26 Era, fuor che la testa, tutto armato, ed avea un elmo ne la destra mano: avea il medesimo elmo che cercato da Ferraù fu lungamente invano. A Ferraù parlò come adirato, e disse: – Ah mancator di fé, marano70! perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi71, che render già gran tempo mi dovevi72?

59 tal tregua… figliuol d’Amone: fu subito stretta una tal tregua, e furono così presto dimenticati odio e rabbia, che Ferraù, allontanandosi dalle fresche acque del fiume, non volle lasciare a piedi Rinaldo. 60 toglie in groppa: fa montare in sella. 61 per l’orme: dietro alle orme, all’inseguimento. 62 eran di fé diversi: erano diversi per fede religiosa. 63 si sentian… anco dolersi: tutto il loro corpo era ancora dolorante per i colpi duri e spietati che si erano inferti l’un l’altro. 64 calli obliqui: sentieri tortuosi.

65 senza sospetto: senza temere l’uno

70 marano: con questa parola, che let-

dell’altro. 66 come… novella: dal momento che non sapevano per quale dei due sentieri fosse fuggita la fanciulla, poiché le orme apparivano ugualmente fresche (orma novella) da una parte come dall’altra. 67 Pel bosco… onde si tolse: Ferraù vagò a lungo nel bosco, finché non si ritrovò allo stesso punto da cui era partito (onde si tolse), cioè al fiume. 68 fitto: conficcato. 69 rimondo: senza foglie (“pulito” dalle foglie).

teralmente significa “porco”, in Spagna si indicavano gli ebrei e i mori convertitisi al cristianesimo per opportunità. In senso lato indica il traditore. 71 t’aggrevi: ti dai pena. 72 mi dovevi: come verrà spiegato nell’ottava successiva, il cavaliere che si sta rivolgendo a Ferraù è Argalia, fratello di Angelica; dopo averlo colpito a morte, Ferraù gli aveva promesso di gettare nel fiume entro quattro giorni l’elmo, ma non era stato di parola.

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27 Ricordati, pagan, quando uccidesti d’Angelica il fratel (che son quell’io), dietro all’altr’arme tu mi promettesti gittar fra pochi dì l’elmo nel rio. Or se Fortuna (quel che non volesti far tu) pone ad effetto73 il voler mio, non ti turbare; e se turbar ti déi, turbati che di fé mancato sei.

31 E servò meglio questo giuramento, che non avea quell’altro fatto prima. Quindi si parte tanto malcontento, che molti giorni poi si rode e lima. Sol di cercare è il paladino intento85 di qua di là, dove trovarlo stima. Altra ventura al buon Rinaldo accade, che da costui tenea diverse strade86.

28 Ma se desir pur hai d’un elmo fino, trovane un altro, ed abbil74 con più onore; un tal ne porta Orlando paladino, un tal Rinaldo, e forse anco migliore: l’un fu d’Almonte75, e l’altro di Mambrino76: acquista un di quei dui col tuo valore; e questo, ch’hai già di lasciarmi detto77, farai bene a lasciarmi con effetto78. –

32 Non molto va Rinaldo, che si vede saltare inanzi il suo destrier feroce87: – Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede! che l’esser senza te troppo mi nuoce. – Per questo88 il destrier sordo, a lui non riede89, anzi più se ne va sempre veloce. Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo Angelica che fugge.

29 All’apparir che fece all’improvviso de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi, e scolorossi al Saracino il viso; la voce, ch’era per uscir, fermossi79. Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso quivi avea già (che l’Argalia nomossi80) la rotta fede così improverarse81, di scorno82 e d’ira dentro e di fuor arse.

33 Fugge tra selve spaventose e scure, per lochi inabitati, ermi90 e selvaggi. Il mover de le frondi e di verzure, che di cerri sentia, d’olmi e di faggi, fatto le avea con subite paure trovar di qua di là strani viaggi91; ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

30 Né tempo avendo a pensar altra scusa, e conoscendo ben che ’l ver gli disse, restò senza risposta a bocca chiusa; ma la vergogna il cor sì gli trafisse, che giurò per la vita di Lanfusa83 non voler mai ch’altro elmo lo coprisse, se non quel buono84 che già in Aspramonte trasse del capo Orlando al fiero Almonte. 73 pone ad effetto: realizza. 74 abbil: abbilo, conservalo. 75 Almonte: fratello del re Troiano, era stato ucciso da Orlando in Aspromonte. 76 Mambrino: re pagano ucciso da Rinaldo. 77 ch’hai già di lasciarmi detto: che hai già promesso di lasciarmi. 78 con effetto: effettivamente. 79 arricciossi... fermossi: si arricciò... impallidì... si fermò. 80 che l’Argalia nomossi: questo, Argalia,

era il suo nome. 81 la rotta... improverarse: rinfacciargli così la promessa non mantenuta. 82 scorno: vergogna. 83 Lanfusa: la madre di Ferraù. 84 buono: prodigioso. 85 Sol di... intento: (Ferraù) è tutto intento a cercare il paladino (Orlando). 86 Altra… strade: Un’altra avventura accade al valente (buon) Rinaldo, che percorreva una strada diversa da quella di costui (cioè Ferraù).

87 feroce: focoso. 88 Per questo: Nonostante queste parole. 89 riede: ritorna. 90 ermi: solitari. 91 Il mover... viaggi: Il movimento (e il rumore) che sentiva delle fronde e della vegetazione (verzure) di cerri, olmi e faggi, generando spaventi improvvisi (subite), le aveva fatto prendere percorsi inusitati (strani viaggi).

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34 Qual pargoletta o damma o capriuola, che tra le fronde del natio boschetto alla madre veduta abbia la gola stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto92, di selva in selva dal crudel s’invola93, e di paura trema e di sospetto: ad ogni sterpo che passando tocca, esser si crede all’empia fera in bocca.

37 Ecco non lungi un bel cespuglio vede di prun fioriti e di vermiglie rose, che de le liquide onde al specchio siede99, chiuso dal sol100 fra l’alte querce ombrose; così voto nel mezzo, che concede fresca stanza fra l’ombre più nascose: e la foglia coi rami in modo è mista, che ’l sol non v’entra, non che minor vista101.

35 Quel dì e la notte a mezzo l’altro giorno s’andò aggirando, e non sapeva dove. Trovossi al fine in un boschetto adorno94, che lievemente la fresca aura muove. Duo chiari rivi, mormorando intorno, sempre l’erbe vi fan tenere e nuove; e rendea ad ascoltar dolce concento, rotto tra picciol sassi, il correr lento95.

38 Dentro letto vi fan tenere erbette, ch’invitano a posar chi s’appresenta102. La bella donna in mezzo a quel si mette, ivi si corca ed ivi s’addormenta. Ma non per lungo spazio così stette, che un calpestio le par che venir senta: cheta103 si leva e appresso alla riviera vede ch’armato un cavallier giunt’era.

36 Quivi parendo a lei d’esser sicura e lontana a96 Rinaldo mille miglia, da la via stanca e da l’estiva arsura, di riposare alquanto si consiglia97: tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura98 andare il palafren senza la briglia; e quel va errando intorno alle chiare onde, che di fresca erba avean piene le sponde.

39 Se gli è amico o nemico non comprende: tema e speranza il dubbio cor le scuote104; e di quella aventura il fine attende, né pur d’un sol sospir l’aria percuote105. Il cavalliero in riva al fiume scende sopra l’un braccio a riposar le gote106; e in un suo gran pensier tanto penètra, che par cangiato in insensibil pietra107.

92 Qual pargoletta… o ’l petto: Come una cucciola o di daino (damma) o di capriolo, che nel boschetto dove è nata abbia visto la madre azzannata alla gola dal ghepardo, o (abbia visto) squarciarle il ventre o il petto. 93 dal crudel s’invola: fugge dalla bestia feroce, cioè il ghepardo. Più sotto empia fera sta per “belva spietata”. 94 adorno: leggiadro, grazioso. 95 rendea… il correr lento: il lento scorrere dei due ruscelli che passavano fra piccole rocce produceva un suono armonioso (dolce concento) per l’orecchio che ascoltava.

96 a: da. 97 da la via... si consiglia: stanca per la strada e per la calura estiva decide (si consiglia) di riposare un poco. 98 pastura: pascolo. 99 de le liquide… siede: si specchia nelle limpide acque del ruscello. 100 chiuso dal sol: coperto dal sole. 101 la foglia… minor vista: le foglie sono talmente intrecciate coi rami che non vi passa il sole, nonché lo sguardo (minor vista, “occhio meno penetrante”). 102 s’appresenta: si avvicini.

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103 cheta: in silenzio. 104 tema... le scuote: il cuore dubbioso è combattuto fra timore e speranza.

105 né pur… percuote: e non si lascia sfuggire un solo respiro, per paura d’essere scoperta. 106 sopra... le gote: a posare la guancia (le gote) a una mano. 107 e in un suo gran pensier… insensibil pietra: ed è talmente assorto in un suo profondo pensiero, che sembra essere trasformato in pietra, incapace di avvertire alcunché.


40 Pensoso più d’un’ora a capo basso stette, Signore108, il cavallier dolente; poi cominciò con suono afflitto e lasso a lamentarsi sì soavemente, ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso, una tigre crudel fatta clemente. Sospirando piangea, tal ch’un ruscello parean le guance, e ’l petto un Mongibello109.

43 Ma non sì tosto dal materno stelo rimossa viene e dal suo ceppo verde, che quanto avea dagli uomini e dal cielo favor, grazia e bellezza, tutto perde. La vergine che ’l fior, di che più zelo che de’ begli occhi e de la vita aver de’, lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti perde nel cor di tutti gli altri amanti114.

41 – Pensier (dicea) che ’l cor m’aggiacci ed ardi, e causi il duol che sempre il rode e lima110, che debbo far, poi ch’io son giunto tardi, e ch’altri a côrre111 il frutto è andato prima? a pena avuto io n’ho parole e sguardi, ed altri n’ha tutta la spoglia opima112. Se non ne tocca a me frutto né fiore, perché affligger per lei mi vuo’ più il core?

44 Sia vile agli altri, e da quel solo amata a cui di sé fece sì larga copia115. Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata! trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia116. Dunque esser può che non mi sia più grata117? dunque io posso lasciar mia vita propia? Ah più tosto oggi manchino i dì miei118, ch’io viva più, s’amar non debbo lei! –

42 La verginella è simile alla rosa, ch’in bel giardin su la nativa spina mentre sola e sicura si riposa, né gregge né pastor se le avicina; l’aura soave e l’alba rugiadosa, l’acqua, la terra al suo favor s’inchina: gioveni vaghi113 e donne inamorate amano averne e seni e tempie ornate.

45 Se mi domanda alcun chi costui sia, che versa sopra il rio lacrime tante, io dirò ch’egli è il re di Circassia, quel d’amor travagliato Sacripante119; io dirò ancor, che di sua pena ria sia prima e sola causa essere amante120, e pur121 un degli amanti di costei: e ben riconosciuto fu da lei.

108 Signore: il poeta si rivolge al dedicatario della sua opera, il cardinale Ippolito d’Este. 109 Mongibello: l’Etna. Il petto del cavaliere scosso dai sospiri è simile a un vulcano. 110 Pensier… e lima: Diceva il cavaliere: «O pensiero che mi agghiacci il cuore e poi lo fai bruciare, e sei causa di quel dolore che lo tormenta e consuma in continuazione». 111 côrre: cogliere. 112 a pena avuto io… spoglia opima: io ne ho avuto a malapena qualche parola e pochi sguardi, mentre qualcun altro ha

potuto goder di tutto quanto il ricco bottino. 113 vaghi: innamorati, presi dal desiderio. 114 La vergine… amanti: è la seconda parte della similitudine, nella quale la vergine, che permette a qualcuno di cogliere quel fiore (la verginità), del quale dovrebbe avere maggior cura anche degli occhi e della propria stessa vita, dinanzi a tutti gli altri che l’amano perde il valore che prima aveva. 115 Sia vile... larga copia: Sia disprezzata dagli altri e amata solo da colui a cui fece dono così generoso di sé.

116 inopia: mancanza, privazione. 117 Dunque… grata?: E così potrebbe mai avvenire che lei non mi piaccia più?

118 manchino i dì miei: finiscano i miei giorni, arrivi la morte. 119 Sacripante: il re di Circassia, una regione del Caucaso; aveva portato aiuto ad Angelica, assediata in Albracca da Agricane, re dei Tartari. Era già comparso come personaggio nell’Orlando innamorato del Boiardo. 120 io dirò… amante: io dirò ancora che prima e sola causa del suo crudele tormento (pena ria) sia l’essere innamorato. 121 pur: soprattutto, in particolar modo.

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46 Appresso ove il sol cade, per suo amore venuto era dal capo d’Oriente122; che seppe in India con suo gran dolore, come ella Orlando sequitò in Ponente123: poi seppe in Francia che l’imperatore124 sequestrata l’avea da l’altra gente, per darla all’un de’ duo che contra il Moro più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro125.

49 Con molta attenzion la bella donna al pianto, alle parole, al modo133 attende134 di colui ch’in amarla non assonna135; né questo è il primo dì ch’ella l’intende: ma dura e fredda più d’una colonna, ad averne pietà non però scende, come colei c’ha tutto il mondo a sdegno, e non le par ch’alcun sia di lei degno.

47 Stato era in campo, e inteso avea di quella rotta crudel126 che dianzi ebbe re Carlo: cercò vestigio127 d’Angelica bella, né potuto avea ancora ritrovarlo. Questa è dunque la trista e ria novella che d’amorosa doglia fa penarlo128, affligger, lamentare e dir parole che di pietà potrian fermare il sole.

50 Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola le fa pensar di tor136 costui per guida; che chi ne l’acqua sta fin alla gola ben è ostinato se mercé137 non grida. Se questa occasione or se l’invola138, non troverà mai più scorta sì fida139; ch’a lunga prova conosciuto inante s’avea quel re fedel sopra ogni amante140.

48 Mentre costui così s’affligge e duole, e fa degli occhi suoi tepida fonte129, e dice queste e molte altre parole, che non mi par bisogno esser racconte130; l’aventurosa sua fortuna vuole ch’alle orecchie d’Angelica sian conte131: e così quel ne viene a un’ora, a un punto, ch’in mille anni o mai più non è raggiunto132.

51 Ma non però disegna de l’affanno che lo distrugge alleggierir chi l’ama141, e ristorar d’ogni passato danno con quel piacer ch’ogni amator più brama: ma alcuna finzione, alcuno inganno di tenerlo in speranza ordisce e trama142; tanto ch’a143 quel bisogno se ne serva, poi torni all’uso suo144 dura e proterva.

122 Appresso… d’Oriente: Dall’Estremo Oriente era venuto, per amore, fino a Occidente (cioè fino alle terre dove il sole tramonta). 123 che seppe… in Ponente: dacché aveva saputo, in India, con gran dolore, che ella aveva seguito (sequitò, “seguì”) Orlando a Ponente (Occidente). 124 l’imperatore: Carlo Magno. 125 i Gigli d’oro: campeggiano nello stemma dei reali di Francia. 126 rotta crudel: grave sconfitta. 127 vestigio: tracce. 128 Questa... penarlo: Questa è la triste e dolorosa notizia che lo fa patire per pene d’amore.

129 fa… tepida fonte: fa scendere calde lacrime dagli occhi. 130 racconte: narrate. 131 sian conte: giungano. 132 così quel... è raggiunto: così accade in un momento quel che non può accadere in mille anni o mai. 133 modo: atteggiamento. 134 attende: presta attenzione. 135 non assonna: non smette, non si stanca. 136 tor: prendere. 137 mercé: aiuto. 138 se l’invola: si lascia scappare.

728 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

139 sì fida: così fidata. 140 ch’a lunga... amante: perché, per averne avuto una serie di prove, aveva sperimentato in precedenza (inante) che quel re era fedele più di ogni altro (suo) innamorato. 141 Ma non peró… chi l’ama: Ma non ha intenzione di sollevare colui che l’ama da quel tormento che lo consuma. 142 alcuna... trama: ordisce e progetta una finzione, un inganno con cui tenere accesa la sua speranza. 143 tanto ch’a: finché per. 144 all’uso suo: come suo solito.


52 E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco fa di sé bella ed improvvisa mostra, come di selva o fuor d’ombroso speco Diana in scena o Citerea si mostra145; e dice all’apparir: – Pace sia teco; teco146 difenda Dio la fama nostra, e non comporti147, contra ogni ragione, ch’abbi di me sì falsa opinione. –

55 Ella gli rende conto pienamente156 dal giorno che mandato fu da lei a domandar soccorso in Oriente al re de’ Sericani e Nabatei157; e come Orlando la guardò158 sovente da morte, da disnor, da casi rei: e che ’l fior virginal così avea salvo, come se lo portò del materno alvo159.

53 Non mai con tanto gaudio o stupor tanto levò gli occhi al figliuolo alcuna madre, ch’avea per morto sospirato e pianto, poi che senza esso udì tornar le squadre148; con quanto gaudio il Saracin, con quanto stupor l’alta presenza149 e le leggiadre maniere, e il vero angelico sembiante150, improviso apparir si vide inante.

56 Forse era ver, ma non però credibile a chi del senso suo fosse signore160; ma parve facilmente a lui possibile, ch’era perduto in via più grave errore. Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile, e l’invisibil fa vedere Amore. Questo creduto fu; che ’l miser suole dar facile credenza a quel che vuole.

54 Pieno di dolce e d’amoroso affetto, alla sua donna, alla sua diva151 corse, che con le braccia al collo il tenne stretto, quel ch’al Catai152 non avria fatto forse. Al patrio regno, al suo natio ricetto153, seco avendo costui, l’animo torse154: subito in lei s’avviva la speranza di tosto riveder sua ricca stanza155.

57 – Se mal si seppe il cavallier d’Anglante pigliar per sua sciocchezza il tempo buono161, il danno se ne avrà; che da qui inante nol chiamerà Fortuna a sì gran dono162 (tra sé tacito parla Sacripante): ma io per imitarlo già non sono, che lasci tanto ben che m’è concesso, e ch’a doler poi m’abbia di me stesso163.

145 come di selva... si mostra: come Diana (dea della caccia) entra in scena o si mostra Citerea (Venere, nata dalla schiuma del mare presso l’isola di Citera) nel bosco o fuori da un antro ombroso (speco, “grotta”). 146 teco: davanti a te. 147 non comporti: non permetta. 148 le squadre: gli eserciti di soldati. 149 l’alta presenza: la nobile figura. 150 sembiante: aspetto. 151 diva: dea. 152 al Catai: in Cina, nella sua patria. Ariosto parla di lei come di una “principessa dell’India”.

153 ricetto: rifugio. 154 l’animo torse: rivolse il pensiero. 155 stanza: dimora. 156 gli rende conto pienamente: gli racconta nei dettagli (ciò che gli è accaduto). 157 Sericani e Nabatei: popoli d’Oriente (della Cina del Nord e arabi), entrambi governati dal re Gradasso. 158 la guardò: la difese. 159 alvo: grembo. 160 a chi... signore: a chi fosse padrone di sé stesso.

161 Se mal si seppe... il tempo buono: Se Orlando (il cavallier d’Anglante) per la sua ingenuità non ha saputo cogliere la buona occasione. 162 da qui inante... gran dono: d’ora in avanti la Fortuna non gli riserverà più un dono tanto prezioso. 163 ma io per... stesso: io non intendo certo fare come lui, da lasciarmi sfuggire un bene così grande come quello che mi è offerto, e poi rimproverare me stesso (di aver perso l’occasione).

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58 Corrò la fresca e matutina rosa, che, tardando, stagion perder potria164. So ben ch’a donna non si può far cosa che più soave e più piacevol sia, ancor che se ne mostri disdegnosa165, e talor mesta e flebil166 se ne stia: non starò per repulsa o finto sdegno, ch’io non adombri e incarni il mio disegno167. –

61 Come è più presso, lo sfida a battaglia; che crede ben fargli votar l’arcione172. Quel che di lui non stimo già che vaglia un grano meno, e ne fa paragone173, l’orgogliose minacce a mezzo taglia174, sprona a un tempo, e la lancia in resta pone. Sacripante ritorna con tempesta175, e corronsi a ferir testa per testa176.

59 Così dice egli; e mentre s’apparecchia al dolce assalto, un gran rumor che suona dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia, sì che mal grado168 l’impresa abbandona: e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia di portar sempre armata la persona), viene al destriero e gli ripon la briglia, rimonta in sella e la sua lancia piglia.

62 Non si vanno i leoni o i tori in salto177 a dar di petto, ad accozzar sì crudi, sì come i duo guerrieri al fiero assalto, che parimente si passar gli scudi178. Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto l’erbose valli insino ai poggi ignudi179; e ben giovò che fur buoni e perfetti gli osberghi180 sì, che lor salvaro i petti.

60 Ecco pel bosco un cavallier venire, il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero: candido come nieve è il suo vestire, un bianco pennoncello169 ha per cimiero. Re Sacripante, che non può patire che quel con l’importuno suo sentiero170 gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea, con vista il guarda disdegnosa e rea171.

63 Già non fero i cavalli un correr torto181, anzi cozzaro a guisa di montoni: quel del guerrier pagan morì di corto182, ch’era vivendo in numero de’ buoni183; quell’altro cadde ancor, ma fu risorto tosto ch’al fianco si sentì gli sproni184. Quel del re saracin restò disteso adosso al suo signor con tutto il peso.

164 Corrò… potria: Coglierò la rosa fre-

171 con vista... rea: lo fissa con sguardo

sca, nata al mattino che, se tardassi (a farlo), potrebbe perdere la sua freschezza. 165 ancor che… disdegnosa: benché si mostri sprezzante. 166 flebil: lamentosa, piagnucolosa. 167 non starò... mio disegno: non mi fermerò, per un rifiuto o uno sdegno simulato, dall’intraprendere e realizzare il mio proposito. 168 mal grado: suo malgrado, contro la sua volontà. 169 pennoncello: pennacchio. 170 sentiero: passaggio.

(vista) sprezzante e ostile. 172 fargli votar l’arcione: farlo cadere da cavallo. 173 Quel che... ne fa paragone: Quello (quell’altro cavaliere) che non credo che valga neppure una briciola meno di lui, e ne dà prova con le armi. 174 a mezzo taglia: interrompe a metà. 175 con tempesta: tempestosamente, con impeto furioso. 176 testa per testa: fronte a fronte, frontalmente. 177 in salto: in amore.

730 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

178 parimente... gli scudi: allo stesso modo si trapassarono l’un l’altro gli scudi. 179 poggi ignudi: colline senza alberi e arbusti. 180 osberghi: corazze. 181 non fero… torto: i cavalli non si schivarono l’un l’altro (letteralmente “non corsero in modo tortuoso”). 182 di corto: sul colpo. 183 in numero de’ buoni: tra i migliori destrieri che ci fossero. 184 ma fu risorto… gli sproni: ma si rialzò subito, non appena avvertì gli sproni pungergli i fianchi.


64 L’incognito campion che restò ritto, e vide l’altro col cavallo in terra, stimando avere assai di quel conflitto185, non si curò di rinovar la guerra186; ma dove per la selva è il camin dritto, correndo a tutta briglia si disserra187; e prima che di briga esca188 il pagano, un miglio o poco meno è già lontano.

67 – Deh! (diss’ella) signor, non vi rincresca! che del cader non è la colpa vostra, ma del cavallo, a cui riposo ed esca meglio si convenia che nuova giostra197. Né perciò quel guerrier sua gloria accresca; che d’esser stato il perditor dimostra: così, per quel ch’io me ne sappia, stimo, quando198 a lasciare il campo è stato primo. –

65 Qual istordito e stupido aratore189, poi ch’è passato il fulmine, si leva di là dove l’altissimo fragore appresso ai morti buoi steso l’aveva; che mira senza fronde e senza onore190 il pin che di lontan veder soleva: tal si levò il pagano a piè rimaso, Angelica presente al duro caso191.

68 Mentre costei conforta il Saracino, ecco col corno e con la tasca199 al fianco, galoppando venir sopra un ronzino200 un messagger che parea afflitto e stanco; che come a Sacripante fu vicino, gli domandò se con un scudo bianco e con un bianco pennoncello in testa vide un guerrier passar per la foresta.

66 Sospira e geme, non perché l’annoi192 che piede o braccio s’abbi rotto o mosso, ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi193 né pria né dopo il viso ebbe sì rosso: e più194, ch’oltre il cader, sua donna poi fu che gli tolse il gran peso d’adosso. Muto restava195, mi cred’io, se quella non gli rendea la voce e la favella196.

69 Rispose Sacripante: – Come vedi, m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora; e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi, fa che per nome io lo conosca ancora201. – Ed egli a lui: – Di quel che tu mi chiedi io ti satisfarò senza dimora202: tu dei saper che ti levò di sella l’alto valor d’una gentil donzella.

185 stimando… conflitto: ritenendo di aver ottenuto abbastanza da quello scontro. 186 rinovar la guerra: rinnovare l’assalto. 187 si disserra: si slancia. 188 di briga esca: si tolga dall’impaccio. 189 Qual... aratore: Come un contadino stordito e sbigottito. 190 senza onore: l’ornamento dei rami e del fogliame (in riferimento al pin al v. 6, che è il complemento oggetto di mira).

191 Angelica... caso: mentre Angelica assiste alla sfortunata vicenda. 192 l’annoi: lo addolori, gli rincresca. 193 a’ dì suoi: in tutta la sua vita. 194 e più: e in più, come se non bastasse. 195 restava: sarebbe restato. 196 favella: parola. 197 a cui... giostra: per cui sarebbe stato meglio riposarsi e mangiare (esca, “cibo”) che affrontare un nuovo duello. 198 quando: dal momento che.

199 tasca: sacca (per i dispacci). 200 ronzino: è un cavallo da trasporto. Il destriero, invece, è da torneo o combattimento e il palafreno da viaggio. 201 ancora: anche. 202 senza dimora: senza indugio.

L’Orlando furioso 3 731


70 Ella è gagliarda ed è più bella molto; né il suo famoso nome anco t’ascondo: fu Bradamante quella che t’ha tolto quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. – Poi ch’ebbe così detto, a freno sciolto il Saracin203 lasciò poco giocondo204, che non sa che si dica o che si faccia, tutto avvampato di vergogna in faccia.

71 Poi che gran pezzo al caso intervenuto205 ebbe pensato invano, e finalmente si trovò da una femina abbattuto, che pensandovi più, più dolor sente; montò l’altro destrier, tacito e muto: e senza far parola, chetamente tolse Angelica in groppa, e differilla a più lieto uso, a stanza più tranquilla206.

203 il Saracin: complemento oggetto di

204 poco giocondo: poco contento. L’e-

lasciò (soggetto è il messaggero).

spressione è ovviamente ironica. 205 intervenuto: che gli era accaduto.

206 tolse... tranquilla: fece salire Angelica in sella e ne rimandò la conquista (differilla) a un momento più felice, in un luogo più tranquillo.

Analisi del testo La struttura Il canto si sviluppa per segmenti, secondo una struttura lineare che permette di distinguerne facilmente le diverse parti: • Antefatto (ott. 5-9): prima di dare il via all’azione, Ariosto presenta velocemente la sequenza di fatti che hanno generato la situazione in cui si trova Angelica, il primo personaggio che vediamo agire sulla scena del poema. • Narrazione (ott. 10-71): si entra nel vivo della vicenda, con l’immagine di Angelica in fuga attraverso un bosco. Da questo primo momento si dipanano tutte le vicende parallele che compongono il tessuto del primo canto, e che proseguiranno poi intrecciandosi variamente nei successivi. Vediamole in particolare. 1. Angelica fugge da Rinaldo e s’imbatte in Ferraù (ott. 11-15). 2. Combattimento e successiva tregua fra Rinaldo e Ferraù (ott. 16-22). 3. Ferraù, incamminatosi per il bosco alla ricerca di Angelica fuggiasca, si ritrova al punto di partenza, sulle rive del ruscello dove aveva perduto l’elmo; lì gli appare il fantasma di Argalia (ott. 23-31). 4. Rinaldo, anch’egli impegnato nell’inseguimento di Angelica, s’imbatte nel suo destriero Baiardo (ott. 31-32). 5. Angelica in fuga trova rifugio in un boschetto adorno, dove sopraggiunge Sacripante; la fanciulla sente, non vista, i lamenti del guerriero e pensa di poter ottenere da lui un aiuto; da parte sua, anche Sacripante ha in mente di approfittare della situazione («Corrò la fresca e matutina rosa») per ottenere quello che brama (ott. 33-59). 6. Arriva un misterioso cavaliere, che affronta Sacripante e lo disarciona, «qual istordito e stupido aratore»; per sua massima vergogna, Angelica lo soccorre e lo consola (ott. 60-67). 7. Arriva a cavallo d’un ronzino lo scudiero dell’incognito campion, il quale rivela che quel misterioso personaggio altri non è che la bella e intrepida Bradamante: Sacripante è stato battuto da una gentil donzella. Il guerriero pagano, mortificato, prende in groppa al suo cavallo Angelica e rimanda ad altro momento la conquista della fanciulla (ott. 68-71).

Un geniale compendio dell’universo del Furioso In questo primo canto del Furioso Ariosto ha voluto presentare ai suoi lettori quello che potremmo definire, con espressione manzoniana, “il sugo” di tutta quanta l’opera, dal punto di vista sia del contenuto sia dello stile e delle tecniche narrative. Leggendo questo canto d’esordio ci troviamo immediatamente immersi in quella particolare atmosfera fantastica e lieve di cui è permeato l’intero poema, oltre che nel rapido ritmo narrativo che ci trasporta da una scena all’altra e ci permette di incontrare alcuni tra i suoi personaggi più importanti, come in una specie di carrellata cinematografica. Vediamo i principali aspetti che emergono in questo felicissimo “compendio”. • L’impiego esasperato dell’entrelacement Nel primo canto Ariosto sembra voler dare una dimostrazione esemplare del procedimento narrativo che dominerà la narrazione del Furioso: l’entrelacement.

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Le avventure di un personaggio a un certo punto si interrompono in modo brusco e inaspettato, per lasciar spazio a quelle di un secondo personaggio, che a loro volta si intersecheranno con quelle di un terzo, per poi interrompersi ed essere sostituite e così via. Le interruzioni possono aver luogo o per un intervento esterno da parte del narratore, che decide di spostare il riflettore da un personaggio a un altro («ma seguitiamo Angelica che fugge…», ott. 32); o per un fattore interno al racconto stesso: incontri casuali, imprevisti, colpi di scena. Il caso, con l’incontrastabile potere che esercita sulla vita dell’uomo, è infatti uno dei motivi più significativi del poema, e in questo primo canto lo si può vedere assai bene: l’azione procede grazie all’energia incontrollabile della sorte, che domina e determina tutti i movimenti dei personaggi, quasi come se fossero pedine su di una scacchiera. • La ricerca e l’attesa delusa Il principale motore di tutto il movimento narrativo, come abbiamo detto, è la ricerca (la quête della narrativa bretone), il cui appagamento viene immancabilmente differito. Tutti, in questo canto così come nell’intero poema, cercano qualcosa: Angelica il ritorno a casa, Ferraù l’elmo caduto nel ruscello, Rinaldo il suo destriero Baiardo... Ma, tranne Angelica, le cui azioni sono tutte mirate con opportunistica tenacia al raggiungimento del primo scopo (ritornare in patria), nessun altro fra i personaggi è costante nel perseguire il proprio oggetto di desiderio: tutti, prima o poi, si fanno distrarre, cambiano idea, ritornano sui propri passi o si scoraggiano. E, dopo tanto movimento, alla fine del canto nessuno sarà riuscito a ottenere quello che cercava. Questo inconcludente affannarsi dei personaggi diventa metafora di una visione della vita velata dal pessimismo, sia pur temperato dall’ironia. L’uomo, sembrerebbe suggerire l’Ariosto fin da questo primo canto, consuma i suoi giorni all’inseguimento di qualcosa che non potrà mai raggiungere e magari perde quel poco che la sorte avara e beffarda sarebbe disposta a concedergli. È proprio quello che accade a Ferraù, che per inseguire l’irraggiungibile Angelica perde di vista il prosaico, ma anche più realistico, obiettivo dell’elmo; o a Rinaldo, che per lo stesso motivo si lascia scappare il destriero Baiardo.

Un ritmo narrativo frenetico

Il ritmo narrativo del canto è improntato a un estremo dinamismo; si potrebbe quasi definire frenetico: cambi di scena frequenti e veloci, netta preponderanza di verbi ed espressioni di movimento. Si tratta, come abbiamo visto, di un movimento quasi a vuoto, privo di una meta vera e propria: un movimento circolare, come nel caso di Ferraù, che si ritrova al punto di partenza; o di Rinaldo, che lascia Baiardo alla sua fuga per inseguire Angelica, ma alcune ottave più avanti torna a imbattersi nell’animale.

Gli interventi del narratore

Il narratore non si trincera dietro l’autorità della propria posizione onnisciente, ma interviene in maniera scoperta, o per sottolineare certi snodi della narrazione o per commentare, spesso in modo ironico, quanto accade ai suoi personaggi. Attraverso i propri interventi Ariosto stabilisce un contatto diretto con i lettori, invitati a loro volta a stabilire un distacco ironico dalla materia narrata. Celeberrimi i versi che accompagnano l’anomala alleanza tra Rinaldo e Ferraù, inopinatamente amici per inseguire Angelica fuggiasca («oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!», ott. 22); o ancora lo smaliziato commento che accompagna l’accorata rivendicazione di verginità da parte della fanciulla («Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore», ott. 56).

L’“abbassamento” ironico della materia cavalleresca

Già da questo primo canto possiamo vedere come Ariosto modelli la materia cavalleresca per trasmettere ai lettori la sua visione del mondo smagata e lontana da qualsiasi idealismo. Lo scrittore considera ormai lontani gli ideali e i valori della cavalleria; i suoi personaggi perdono dunque lo statuto di eroi epici e cavallereschi per acquistare un’umanità inedita attraverso lo sguardo divertito e disincantato del poeta, che ne svela le debolezze e li riporta sul piano di una comune umanità: ecco che allora, alla sua prima apparizione sulla ribalta del poema, il prode Rinaldo in corsa per la foresta viene paragonato al «villan mezzo ignudo» che gareggia per ricevere in premio il pallio rosso; a sua volta il cavaliere saraceno Ferraù viene colto in un momento assolutamente antieroico, quando, «di sudor pieno e tutto polveroso», cerca un po’ di refrigerio nelle acque di un fresco ruscello e, da vero sbadato, vi lascia cadere l’elmo; o ancora Sacripante, guerriero fiero e ardimentoso che, disarcionato da Bradamante, appare come un «istordito e stupido aratore» dopo che è stato colpito dal fulmine.

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Un’ottica antidealistica e pragmatica Oltre al sistematico abbassamento ironico della materia cavalleresca, emerge in più punti di questo canto (e attraverserà l’intero poema) anche un atteggiamento di totale pragmatismo, che incrina i pilastri su cui si fondava l’etica cortese. Il momento in cui con maggior evidenza si manifesta questa posizione del poeta si incontra alle ott. 19 e 20, quando Rinaldo interrompe il combattimento con Ferraù per fargli notare che, quale che sia l’esito del loro duello, Angelica sarebbe comunque perduta per entrambi, dal momento che se ne sta fuggendo indisturbata. Di qui la proposta “sensata” e appunto pragmatica (del tutto incompatibile con l’ottica cavalleresca) di raggiungere una tregua e unire le loro forze per lanciarsi all’inseguimento della fanciulla; e la concretezza prosaica dimostrata da Rinaldo spicca ancora di più, se rapportata all’aulicità del lessico amoroso che lui stesso utilizza per descrivere il sentimento di Ferraù per Angelica («se questo avvien perché i fulgenti rai / del nuovo sol t’abbino il petto acceso»). Giungerà poi a suggellare il raggiunto accordo l’ironico commento del poeta: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!». Analogo pragmatismo caratterizza anche Angelica, la figura femminile-chiave del poema. Angelica è sempre mossa esclusivamente dalla volontà di perseguire il proprio scopo: si veda ad esempio l’ott. 50, che la dipinge mentre valuta attentamente l’opportunità di avvalersi di Sacripante come guida nella selva («Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola / le fa pensar di tor costui per guida; / che chi ne l’acqua sta fino alla gola / ben è ostinato se mercé non grida»); solo in quest’ottica va letta la sollecitudine con cui si affanna a rivendicare il proprio onore intatto davanti al saraceno.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza la scena dello scontro tra Sacripante e il cavaliere misterioso. 2. Rintraccia nel canto gli interventi diretti da parte dell’autore e riassumine il contenuto. Ti sembra di poter individuare in essi un tono comune? COMPRENSIONE 3. La prima azione che vediamo svolgersi sulla scena dell’Orlando furioso è la fuga di Angelica attraverso un bosco: quali vicende costituiscono l’antefatto all’incessante fuga della fanciulla? In particolare, in questo canto, da chi fugge Angelica? 4. In quale punto del canto emerge il tema della magia? ANALISI 5. In quale punto del testo e con quale funzione compare il motivo canonico del locus amoenus, ereditato dalla tradizione classica? 6. Che cosa indica nel mondo poetico ariostesco il tema della quête, che emerge già qui? STILE 7. A chi viene paragonato Rinaldo al suo primo apparire in scena? Rintraccia i versi in questione e fanne la parafrasi; quindi rispondi: come si spiega l’uso di un paragone così prosaico e addirittura irriverente per un paladino?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 8. Il personaggio di Angelica compare da subito accompagnato dal canonico epiteto di bella; la fanciulla è presentata come l’oggetto dello sconfinato amore di Orlando, ma nel corso del canto il suo personaggio si arricchisce di caratteri e connotazioni proprie. Quale idea ti sei fatto di questa donzella in fuga perenne? Tracciane un breve ritratto. TESTI A CONFRONTO 9. Ti proponiamo un brano tratto dalla Presentazione dell’Orlando furioso raccontato da Italo Calvino, che tra l’altro è una lettura molto piacevole per chi voglia tentare un approccio diretto e “amichevole” al poema di Ariosto (naturalmente non può sostituire la lettura diretta dell’opera!). Rifletti sulle acute osservazioni di Calvino, cercando di calarle nella lettura di questo primo canto del Furioso. Dall’inizio l’Orlando Furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag. Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il continuo intersecarsi e divergere di queste linee su una mappa d’Europa e d’Africa, ma già basterebbe a definirlo il primo canto tutti inseguimenti, disguidi, fortuiti incontri, smarrimenti, cambiamenti di programma.

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È con questo zig zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore umano che veniamo introdotti nello spirito del poema; il piacere della rapidità dell’azione si mescola subito a un senso di larghezza nella disponibilità dello spazio e del tempo. Il procedere svagato non è solo degl’inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: si direbbe che il poeta, cominciando la sua narrazione, non conosca ancora il piano dell’intreccio che in seguito lo guiderà con puntuale premeditazione, ma una cosa abbia già perfettamente chiara: questo slancio e insieme quest’agio nel raccontare, cioè quello che potremmo definire – con un termine pregno di significati – il movimento errante della poesia dell’Ariosto.

VERSO IL NOVECENTO

I. Calvino, Orlando Furioso di Lodovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Mondadori, Milano 1995

Ariosto e Calvino: un rapporto privilegiato Il poema dell’Ariosto attraversa anche il Novecento, e in particolare costituisce un punto di riferimento centrale per uno dei più importanti scrittori del secolo, Italo Calvino. Fin dai primi anni della sua attività letteraria, egli avverte una forte affinità con il poeta dell’Orlando furioso, di cui scrive: «Tra tutti i poeti della nostra tradizione, quello che sento più vicino e nello stesso tempo più oscuramente affascinante è Ludovico Ariosto, e non mi stanco di rileggerlo». Calvino si è occupato di Ariosto innanzitutto in sede critica, analizzando in numerosi saggi le caratteristiche della poesia dell’Ariosto. Nel 1968 tiene una serie di trasmissioni radiofoniche, dalle quali nasce in seguito la celebre antologia Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino (1970). Si tratta di una scelta di canti del poema, che vengono introdotti e collegati attraverso affascinanti riassunti-racconti, ispirati a una vera e propria mimesi dello “sguardo” e della “leggerezza” dello stile di Ariosto (Il lamento di Sacripante e la rosa). Nelle ormai celebri Lezioni americane – un ciclo di sei conferenze che lo scrittore era stato invitato a tenere nel 1984 dall’università di Harvard e che furono pubblicate postume per l’improvvisa morte di Calvino l’anno dopo – si fa riferimento all’Ariosto solo nella lezione dedicata appunto alla “leggerezza”, ma l’ispirazione ariostesca traspare anche nelle altre (dedicate a rapidità, esattezza, molteplicità, visibilità).

Italo Calvino Il lamento di Sacripante e la rosa I. Calvino, Orlando Furioso di Lodovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1970

Il brevissimo passo che proponiamo può dare almeno un’idea dell’operazione condotta da Calvino nella sua rilettura e insieme antologizzazione dell’Orlando furioso: il passo si riferisce al momento in cui, nel primo canto del poema, il guerriero saraceno Sacripante – innamorato, come tanti altri, della bella Angelica – si lamenta che la sua verginità (la rosa) possa essere stata colta da altri.

Angelica scruta tra gli arbusti e vede un guerriero enorme, dai lunghi baffi spioventi, armato di tutto punto, che se ne sta sdraiato come lei dall’altra parte del cespuglio, la guancia posata su una mano, e lamentandosi mormora delle frasi senza senso: la verginella... la rosa... Sta parlando di rose, questo pezzo di soldataccio: annusa una rosa appena sbocciata, e dice che sarebbe un peccato coglierla, che una volta spiccata dal suo stelo perde ogni valore; a lui sfortunato capita così ogni volta, che le rose le colgono sempre gli altri; ma sarà proprio vero, che la rosa già colta perde di valore? E perché lui allora non riesce a dimenticarla? online

Entra in scena la magia T6a Ludovico Ariosto Un anello, un mago, un cavallo alato... Orlando furioso IV, 4-8 T6b Ludovico Ariosto Un duello a colpi di magia: Bradamante sfida il mago Atlante Orlando furioso IV, 16-39

L’Orlando furioso 3 735


Ludovico Ariosto

T7

EDUCAZIONE CIVICA

Rinaldo difensore dei “diritti delle donne”

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Orlando furioso IV, 51-67 L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

Nella seconda parte del canto IV, Ariosto dà spazio a un’avventura dall’esibito “colorito bretone”: ne è protagonista Rinaldo, che va a finire nella selva Caledonia, teatro per eccellenza, nella tradizione, delle avventure cavalleresche degli eroi arturiani. Quasi ispirato dalla suggestione del luogo, Rinaldo si sente in dovere di andare in cerca di avventure cortesi. Capita in un convento dove viene amabilmente accolto dai frati, che gli propongono un’impresa veramente degna di un cavaliere: la giovane figlia del re, Ginevra, è ingiustamente accusata di lussuria e, secondo le leggi del luogo, se non trova un cavaliere che la difenda e la scagioni dall’accusa, dovrà morire. Rinaldo, pronto ad assumersi l’onere, fa alcune interessanti riflessioni...

51 Rinaldo l’altro e l’altro giorno scòrse1, spinto dal vento, un gran spazio di mare, quando a ponente e quando contra l’Orse2, che notte e dì non cessa mai soffiare. Sopra la Scozia ultimamente sorse3, dove la selva Calidonia4 appare, che spesso fra gli antiqui ombrosi cerri5 s’ode sonar di bellicosi ferri6.

53 ed altri cavallieri e de la nuova e de la vecchia famosi: restano ancor di più d’una lor pruova li monumenti e li trofei pomposi11. L’arme Rinaldo e il suo Baiardo12 truova, e tosto si fa por nei liti ombrosi13, ed al nochier comanda che si spicche14 e lo vada aspettar a Beroicche15.

52 Vanno per quella i cavallieri erranti, incliti in arme7, di tutta Bretagna, e de’ prossimi luoghi e de’ distanti, di Francia, di Norvegia e de Lamagna8. Chi non ha gran valor, non vada inanti9; che dove cerca onor, morte guadagna. Gran cose in essa già fece Tristano, Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano10,

54 Senza scudiero e senza compagnia va il cavallier per quella selva immensa, facendo or una ed or un’altra via, dove più aver strane aventure pensa16. Capitò il primo giorno a una badia, che buona parte del suo aver dispensa in onorar nel suo cenobio adorno le donne e i cavallier che vanno attorno17.

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alternata, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC 1 2 3 4

scòrse: percorse. contra l’Orse: verso nord. ultimamente sorse: alla fine sbarcò. selva Calidonia: la selva di Darnantes, teatro delle principali imprese dei cavalieri arturiani. 5 cerri: alberi simili alle querce. 6 s’ode… ferri: si sente risuonare dei rumori delle armi. 7 incliti in arme: famosi per le loro imprese militari.

8 Lamagna: Alemagna, cioè la Germania. 9 inanti: innanzi. 10 Vanno per quella... Galvano: in una dimensione spazio-temporale sospesa e magica, Ariosto evoca gli antichi cavalieri erranti della Tavola Rotonda (più avanti cita la vecchia del padre di Artù e la nuova e più celebre: appunto quella di re Artù), ai quali nel tempo ne sono succeduti altri che si aggirano affascinati nello spazio dell’avventura. 11 restano ancor... pomposi: rimangono le splendide testimonianze («li monumenti e li trofei pomposi») di più di una loro impresa (pruova). 12 Baiardo: è il cavallo di Rinaldo.

736 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

13 tosto... ombrosi: subito si fa sbarcare sulle spiagge ombrose. 14 si spicche: se ne vada da lì. 15 Beroicche: Berwick, fra Scozia e Inghilterra. 16 Senza scudiero... pensa: Rinaldo, pienamente investito del ruolo di cavaliere errante, come se il luogo dove è capitato glielo imponesse, si immette consapevolmente nello spazio dell’avventura. 17 Capitò... attorno: una ben strana badìa, questa dove capita Rinaldo: i monaci spendono buona parte dei loro averi per accogliere degnamente e allietare nel bel monastero (cenobio) «le donne e i cavallier». Più che una badìa sembra una corte rinascimentale.


55 Bella accoglienza i monachi e l’abbate fero18 a Rinaldo, il qual domandò loro (non prima già che con vivande grate avesse avuto il ventre amplo ristoro)19 come dai cavallier sien ritrovate spesso aventure per quel tenitoro20, dove si possa in qualche fatto eggregio l’uom dimostrar, se merta biasmo o pregio.

58 Questo Lurcanio al padre l’ha accusata (forse per odio più che per ragione) averla a mezza notte ritrovata trarr’un suo amante a sé sopra un verrone26. Per le leggi del regno condannata al fuoco fia, se non truova campione che fra un mese, oggimai presso a finire, l’iniquo accusator faccia mentire27.

56 Risposongli ch’errando in quelli boschi, trovar potria21 strane aventure e molte: ma come i luoghi, i fatti ancor son foschi22; che non se n’ha notizia le più volte. – Cerca (diceano) andar dove conoschi che l’opre tue non restino sepolte, acciò dietro al periglio e alla fatica segua la fama, e il debito ne dica23.

59 L’aspra legge di Scozia, empia e severa, vuol ch’ogni donna, e di ciascuna sorte28, ch’ad uomo si giunga, e non gli sia mogliera29, s’accusata ne viene, abbia la morte. Né riparar si può ch’ella non pera30, quando per lei non venga un guerrier forte31 che tolga la difesa32, e che sostegna che sia innocente e di morire indegna.

57 E se del tuo valor cerchi far prova, t’è preparata la più degna impresa che ne l’antiqua etade o ne la nova giamai da cavallier sia stata presa24. La figlia del re nostro or se ritrova bisognosa d’aiuto e di difesa contra un baron che Lurcanio si chiama, che tor le cerca e la vita e la fama25.

60 Il re, dolente per Ginevra33 bella (che così nominata è la sua figlia), ha publicato34 per città e castella, che s’alcun la difesa di lei piglia, e che l’estingua la calunnia fella35 (pur che sia nato di nobil famiglia), l’avrà per moglie, ed uno stato, quale fia convenevol dote a donna tale36.

18 fero: fecero. 19 (non prima... ristoro): non prima però che il suo ventre si fosse ben saziato con piacevoli vivande. 20 tenitoro: territorio. 21 trovar potria: avrebbe potuto trovare. 22 come i luoghi... son foschi: come i luoghi sono in ombra, così anche le imprese (come spiegano i frati al verso successivo) sono rimaste sconosciute. Invitano perciò Rinaldo a scegliere un’impresa che possa essere conosciuta, dandogli la fama. 23 acciò... ne dica: affinché al pericolo e alla fatica segua l’onore (la fama) e li celebri debitamente. 24 presa: affrontata.

25 che tor... la fama: che cerca di toglierle

30 Né... pera: E non si può in alcun modo

sia la vita sia l’onore. 26 averla... verrone: di averla scoperta a mezza notte mentre faceva salire su un balcone un suo amante. 27 Per le leggi… faccia mentire: Secondo le leggi del regno sarà (fia) condannata al rogo (al fuoco) se non trova un valoroso cavaliere che entro un mese, termine ormai vicino a finire, smentisca (faccia mentire) il malvagio accusatore. 28 ciascuna sorte: qualsiasi condizione. Quindi anche una principessa, come in questo caso. 29 ch’ad uomo... mogliera: che si unisca a un uomo senza essergli moglie.

evitarle la morte. 31 quando per lei... forte: a meno che non venga in suo soccorso un valente cavaliere. 32 tolga la difesa: ne assuma la difesa. 33 Ginevra: la fanciulla porta dunque un nome importante nella tradizione cavalleresca: nientemeno che quello della sposa di Artù, amata da Lancillotto. 34 ha publicato: ha fatto un editto. 35 e che... fella: e che sappia toglierle di dosso la malvagia calunnia. 36 ed uno stato... tale: e riceverà dal re una condizione che possa costituire una dote adeguata a chi ne sposa la figlia.

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61 Ma se fra un mese alcun per lei37 non viene, o venendo non vince, sarà uccisa. Simile impresa meglio ti conviene, ch’andar pei boschi errando a questa guisa38: oltre ch’onor e fama te n’aviene ch’in eterno da te non fia divisa, guadagni il fior di quante belle donne da l’Indo sono all’Atlantee colonne39;

66 S’un medesimo ardor, s’un disir pare inchina e sforza l’uno e l’altro sesso a quel suave fin d’amor, che pare all’ignorante vulgo un grave eccesso; perché si de’ punir donna o biasmare, che con uno o più d’uno abbia commesso quel che l’uom fa con quante n’ha appetito, e lodato ne va, non che impunito?49

62 e una ricchezza appresso, ed uno stato che sempre far ti può viver contento; e la grazia del re, se suscitato per te gli fia il suo onor, che è quasi spento40. Poi per cavalleria tu se’ ubligato a vendicar di tanto tradimento costei, che per commune opinione, di vera pudicizia è un paragone41. –

67 Son fatti in questa legge disuguale veramente alle donne espressi torti; e spero in Dio mostrar che gli è gran male che tanto lungamente si comporti50. – Rinaldo ebbe il consenso universale, che fur gli antiqui ingiusti e male accorti, che consentiro a così iniqua legge, e mal fa il re, che può, né la corregge.

63 Pensò Rinaldo alquanto, e poi rispose42: – Una donzella dunque de’ morire perché lasciò sfogar ne l’amorose sue braccia al suo amator tanto desire? Sia maladetto chi tal legge pose, e maladetto chi la può patire! Debitamente muore una crudele43, non chi dà vita al suo amator fedele. 64 Sia vero o falso che Ginevra tolto s’abbia44 il suo amante, io non riguardo a questo: d’averlo fatto la loderei molto, quando non fosse stato manifesto. Ho in sua difesa ogni pensier rivolto: datemi pur un chi mi guidi presto, e dove sia l’accusator mi mene; ch’io spero in Dio Ginevra trar di pene45. 65 Non vo’ già dir ch’ella non l’abbia fatto; che nol sappiendo, il falso dir potrei: dirò ben che non de’ per simil atto punizion cadere alcuna in lei46; e dirò che fu ingiusto o che fu matto chi fece prima li statuti rei47; e come iniqui rivocar si denno48, e nuova legge far con miglior senno.

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37 per lei: per aiutare lei. 38 a questa guisa: in questo modo. Cioè attendendo la casuale comparsa di qualche avventura degna. 39 oltre… colonne: oltre al fatto che te ne derivano (dall’impresa di difendere Ginevra) onore e fama, che saranno sempre con te («ch’in eterno da te non fia divisa»), conquisti il fior fiore delle belle donne che abitano le terre fra l’Indo (l’Oriente) e le colonne d’Ercole, (lo stretto di Gibilterra). Cioè tutto il mondo allora conosciuto. 40 la grazia... spento: la gratitudine del re se, grazie a te, gli sarà ripristinato (suscitato) il suo onore, che ora è quasi svanito. 41 paragone: esempio. 42 Pensò... rispose: si aprono qui e si sviluppano per le successive quattro ottave le riflessioni personali di Rinaldo su quanto ha appena udito. 43 Debitamente... crudele: È giusto che muoia una donna che non si concede all’amore. 44 tolto s’abbia: abbia ammesso (alla sua camera). 45 datemi pur… trar di pene: date-

mi pure uno che mi faccia in fretta da guida, e mi conduca (mi mene) dove si trova l’accusatore, perché io spero, con l’aiuto di Dio (in Dio), di poter liberare Ginevra dal tormento. 46 in lei: su di lei. 47 chi... rei: chi stabilì queste leggi assurde. 48 come... si denno: si devono revocare perché inique. 49 S’un medesimo... impunito: Se è vero che uno stesso ardente desiderio inclina e spinge (inchina e sforza) l’uno e l’altro sesso a quella dolce meta dell’amore (il congiungimento carnale) che appare al volgo ignorante un eccesso dannoso, perché si deve punire o biasimare una donna che abbia commesso con uno o più uomini quello che l’uomo fa con quante donne desidera (n’ha appetito) e (addirittura) viene lodato e certo non punito? 50 Son fatti... si comporti: In questa legge diseguale vengono fatti alle donne torti evidenti (espressi) e io spero, nel nome di Dio, di mostrare che è un gran male il fatto che si sopporti (la legge) per così lungo tempo.

online T8 Ludovico Ariosto

Ruggiero all’isola di Alcina Orlando furioso VI, 20-22; 27-44; 47-51

online T9 Ludovico Ariosto

Una terribile invenzione di guerra: l’archibugio Orlando furioso IX, 28-31 e 89-91; XI, 21-27

online

Sguardo sul cinema La guerra nel Cinquecento


Analisi del testo L’impresa di Rinaldo Rinaldo arriva nella selva di Darnantes, teatro delle principali imprese dei cavalieri arturiani, e dopo aver percorso varie vie si imbatte in una strana badìa, che sembra avere le caratteristiche di una corte rinascimentale. Dopo aver ricevuto una buona accoglienza dai monaci, Rinaldo chiede loro in quale impresa possa dimostrare il proprio valore, ma non prima di essersi saziato con piacevoli vivande. Il desiderio di nobili avventure non implica certo in lui la rinuncia a soddisfare i prosaici bisogni del corpo, commenta ironicamente Ariosto. I monaci spiegano a Rinaldo che molte valide imprese sono rimaste nell’ombra e che se vorrà conquistare fama dovrà scegliersi un’impresa che possa essere conosciuta: così gli narrano la storia di Ginevra.

Le riflessioni di Rinaldo A questo punto iniziano le riflessioni di Rinaldo, che occupano ben quattro ottave. L’eroe maledice chi ha redatto le leggi del regno, arrivando ad affermare che dovrebbe invece morire una donna che non si concede all’amore. A Rinaldo non interessa se Ginevra abbia commesso o meno ciò di cui viene accusata, ma considera assurde le norme, che secondo lui dovrebbero essere revocate perché ingiuste. La cosa interessante è che per Rinaldo è ingiusto il fatto che si punisca una donna per aver ceduto all’amore, quando invece non viene punito, ma anzi viene lodato, l’uomo che si congiunge a tutte le donne che più desidera. Attraverso il personaggio di Rinaldo, Ariosto arriva ad affermare che con queste regole, che non contemplano uguaglianza tra i sessi, vengono fatti espressi torti alle donne.

La descrizione dell’amore Molto interessante è la descrizione dell’amore (ott. 66), la cui meta è il congiungimento carnale, giudicato invece dannoso dal volgo ignorante. Dietro questa idea dell’amore sembra di cogliere lo stesso pensiero che Boccaccio esprime in numerose novelle del Decameron.

Esercitare le competenze comprendere e analizzare

tecnica narratiVa 1. Suddividi l’episodio in sequenze. ParaFraSi 2. Fai la parafrasi delle ottave 56-62. SinteSi 3. Sintetizza le considerazioni di Rinaldo sul caso di Ginevra. anaLiSi 4. C’è un punto del testo in cui si comprende chiaramente che Ariosto non crede più che i valori della società cavalleresca possano rivivere nella società a lui contemporanea, e anzi pratica un abbassamento della materia cavalleresca. Rintraccia il passo nel testo da cui si evince un tale cambiamento rispetto allo stesso Boiardo, che guarda con nostalgia a quel mondo. LeSSico 5. Rintraccia, trascrivi e commenta le espressioni riconducibili al codice cortese-cavalleresco.

interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

Letteratura e noi

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

6. Le ottave 66 e 67 fanno comprendere quanto possa essere giudicato moderno il poema di Ariosto: in esse Rinaldo rivendica l’uguaglianza tra il sesso maschile e quello femminile e giudica ingiuste le leggi che prevedono un diverso trattamento tra uomo e donna; tanto più se la punizione deriva dall’aver ceduto all’amore, visto come una forza naturale. Vengono utilizzate espressioni quali «statuti rei e iniqui», e si arriva ad affermare «Son fatti in questa legge disuguale veramente alle donne espressi torti». Grandi passi in avanti sono stati compiuti dal periodo in cui Ariosto pubblica il suo Orlando furioso, ma ancora ne debbono essere fatti se, tra gli Obiettivi dell’Agenda 2030, il n. 5 è dedicato alla parità di genere. Cerca in Internet il contenuto dell’Obiettivo 5 e commenta le parti che ti colpiscono maggiormente e sulle quali secondo te c’è ancora bisogno di porre l’attenzione.

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Collabora all’analisi

T10

Ludovico Ariosto

Il palazzo dei desideri Orlando furioso XII, 4-22

L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

Il prode paladino Orlando ha percorso quasi tutta la Francia sulle tracce dell’amata Angelica, sempre sfuggente; ora la sta cercando in Italia, in Germania, in Spagna, addirittura fino in Libia. All’improvviso una voce supplichevole lo distoglie dai suoi propositi e lo attrae in una dimensione meravigliosa: la voce sembra proprio quella di Angelica, che lo chiama dentro uno strano palazzo, dove tutti cercano qualcosa o qualcuno… È il palazzo di Atlante, una delle invenzioni più suggestive del poema.

4 L’ha cercata per Francia: or s’apparecchia1 per Italia cercarla e per Lamagna2, per la nuova Castiglia e per la vecchia3, e poi passare in Libia il mar di Spagna4. Mentre pensa così, sente all’orecchia una voce venir, che par che piagna: si spinge inanzi; e sopra un gran destriero trottar si vede innanzi un cavalliero,

6 Non dico ch’ella fosse, ma parea Angelica gentil ch’egli tant’ama. Egli, che la sua donna e la sua dea vede portar sì addolorata e grama11, spinto da l’ira e da la furia rea, con voce orrenda il cavallier richiama; richiama il cavalliero e gli12 minaccia, e Brigliadoro a tutta briglia caccia.

5 che porta in braccio e su l’arcion davante per forza5 una mestissima donzella. Piange ella, e si dibatte, e fa sembiante di gran dolore6; ed in soccorso appella7 il valoroso principe d’Anglante8; che come mira alla giovane bella9, gli par colei, per cui la notte e il giorno cercato Francia avea dentro e d’intorno10.

7 Non resta quel fellon13, né gli risponde, all’alta preda, al gran guadagno intento14, e sì ratto ne va per quelle fronde15, che saria tardo a seguitarlo il vento16. L’un fugge, e l’altro caccia17; e le profonde selve s’odon sonar d’alto lamento18. Correndo usciro in un gran prato; e quello avea nel mezzo un grande e ricco ostello19.

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alternata, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC 1 2 3

s’apparecchia: si prepara. Lamagna: Germania. per la nuova... la vecchia: regioni della Spagna. 4 passare... Spagna: passare il mar di Spagna (lo stretto di Gibilterra), per andare in Libia (cioè in Africa).

5 per forza: trattenendola con la forza, contro la sua volontà. 6 fa sembiante di gran dolore: rivela nell’aspetto una grande sofferenza. 7 appella: chiama. 8 il valoroso principe d’Anglante: Orlando. 9 come mira... bella: non appena guarda verso la bella giovane. 10 colei… e d’intorno: la perifrasi indica l’oggetto della sua ricerca, Angelica. 11 grama: infelice. 12 gli: lo.

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13 Non resta quel fellon: Non si ferma quel vigliacco. 14 all’alta... intento: tutto intento a portar via la sua nobile preda, il suo prezioso bottino. 15 fronde: metonimia per indicare il bosco. 16 saria... il vento: il vento sarebbe lento nell’inseguirlo. 17 caccia: insegue. 18 sonar d’alto lamento: risonare di un acuto lamento. 19 ostello: palazzo.


8 Di vari marmi con suttil20 lavoro edificato era il palazzo altiero21. Corse dentro alla porta messa d’oro22 con la donzella in braccio il cavalliero. Dopo non molto giunse Brigliadoro, che porta Orlando disdegnoso e fiero. Orlando, come è dentro, gli occhi gira; né più il guerrier, né la donzella mira.

11 E mentre or quinci or quindi invano il passo movea, pien di travaglio36 e di pensieri, Ferraù, Bradamante e il re Gradasso, re Sacripante ed altri cavallieri vi ritrovò, ch’andavano alto e basso37, né men facean di lui vani sentieri38; e si ramaricavan del malvagio invisibil signor di quel palagio.

9 Subito smonta, e fulminando23 passa dove più dentro il bel tetto s’alloggia24: corre di qua, corre di là, né lassa che non vegga ogni camera, ogni loggia25. Poi che i segreti d’ogni stanza bassa26 ha cerco27 invan, su per le scale poggia28; e non men perde anco a cercar di sopra, che perdessi di sotto, il tempo e l’opra29.

12 Tutti cercando il van39, tutti gli dànno colpa di furto alcun che lor fatt’abbia: del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno40; ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia41; altri d’altro l’accusa: e così stanno, che non si san partir di quella gabbia42; e vi son molti, a questo inganno presi, stati le settimane intiere e i mesi.

10 D’oro e di seta i letti ornati vede: nulla de muri appar né de pareti30; che quelle, e il suolo ove si mette il piede, son da cortine ascose e da tapeti31. Di su di giù va il conte Orlando e riede32; né per questo può far gli occhi mai lieti33 che riveggiano34 Angelica, o quel ladro che n’ha portato35 il bel viso leggiadro.

13 Orlando, poi che quattro volte e sei tutto cercato ebbe il palazzo strano43, disse fra sé: – Qui dimorar potrei, gittare il tempo e la fatica invano: e potria il ladro aver tratta costei da un’altra uscita, e molto esser lontano. – Con tal pensiero uscì nel verde prato, dal qual tutto il palazzo era aggirato.

20 suttil: raffinato. 21 altiero: superbo, splendido. 22 messa d’oro: dorata. 23 fulminando: correndo veloce come un fulmine. 24 dove… s’alloggia: nelle stanze più interne del palazzo. 25 né lassa... ogni loggia: e non tralascia di ispezionare ogni camera, ogni portico. 26 bassa: situata al pianterreno. 27 ha cerco: ha cercato. 28 poggia: sale. 29 non men... il tempo e l’opra: non perde meno tempo e fatica a cercare anche di sopra, di quanto ne abbia persi (che perdessi) di sotto. 30 nulla... de pareti: nulla si vede dei muri e delle pareti. 31 son... tapeti: sono coperte (ascose “nascoste”) da tendaggi e tappeti. 32 riede: ritorna.

33 può... mai lieti: può mai rallegrare gli occhi. 34 riveggiano: riveggano. 35 portato: rapito. 36 travaglio: angoscia. 37 andavano alto e basso: andavano su e giù, salivano e scendevano. 38 né men… sentieri: e non seguivano percorsi meno inutili di (quanti ne facesse) lui. 39 Tutti cercando il van: Tutti lo vanno cercando vanamente. 40 altri è in affanno: uno è preoccupato. 41 ch’abbia... arrabbia: un altro è adirato per aver perduto la propria donna. 42 gabbia: trappola. 43 poi che... strano: dopo che un gran numero di volte (quattro volte e sei) ebbe esplorato (cercato) il palazzo misterioso.

Gustave Doré, Il palazzo di Atlante, incisione da un’edizione ottocentesca dell’Orlando furioso.

L’Orlando furioso 3 741


14 Mentre circonda la casa silvestra44, tenendo pur45 a terra il viso chino, per veder s’orma appare, o da man destra o da sinistra, di nuovo camino46; si sente richiamar da una finestra: e leva gli occhi; e quel parlar divino gli pare udire, e par che miri il viso, che l’ha da quel che fu, tanto diviso47.

17 Ma tornando a Ruggier, ch’io lasciai quando dissi che per sentiero ombroso e fosco il gigante e la donna seguitando, in un gran prato uscito era del bosco54; io dico ch’arrivò qui dove Orlando dianzi55 arrivò, se ’l loco riconosco. Dentro la porta il gran gigante passa: Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa56.

15 Pargli Angelica udir, che supplicando e piangendo gli dica: – Aita48, aita! la mia virginità ti raccomando più che l’anima mia, più che la vita. Dunque in presenza del mio caro Orlando da questo ladro mi sarà rapita? più tosto di tua man dammi la morte, che venir lasci49 a sì infelice sorte. –

18 Tosto che pon dentro alla soglia il piede, per la gran corte e per le logge mira; né più il gigante né la donna vede, e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira. Di su di giù va molte volte e riede57; né gli succede mai quel che desira: né si sa imaginar dove sì tosto con la donna il fellon si sia nascosto.

16 Queste parole una ed un’altra volta fanno Orlando tornar per ogni stanza, con passione50 e con fatica molta, ma temperata pur d’alta speranza51. Talor si ferma, ed una voce ascolta, che di quella d’Angelica ha sembianza (e s’egli è da una parte, suona altronde52), che chieggia aiuto; e non sa trovar donde53.

19 Poi che revisto ha quattro volte e cinque di su di giù camere e logge e sale, pur di nuovo ritorna, e non relinque58 che non ne cerchi fin sotto le scale. Con speme al fin che sian ne le propinque selve, si parte59: ma una voce, quale60 richiamò Orlando, lui chiamò non manco61; e nel palazzo il fe’ ritornar anco.

44 circonda... silvestra: gira attorno all’edificio posto in mezzo al bosco. 45 pur: continuamente. 46 per veder... nuovo camino: per veder se si nota un’orma di (che indichi) un passaggio recente (nuovo camino), a destra o a sinistra. 47 che l’ha… diviso: che l’ha fatto diventare un altro uomo. Perifrasi canonica nel lessico della tradizione lirica per indicare la donna amata o l’Amore. 48 Aita: Aiuto.

49 venir lasci: mi abbandoni. 50 passione: tormento. 51 temperata... speranza: addolcita comunque da una grande speranza.

52 altronde: altrove. 53 donde: da dove. 54 ch’io lasciai… del bosco: a Ruggiero era parso di vedere Bradamante rapita da un gigante violento e malvagio, che il cavaliere stava inseguendo (seguitando) nel tentativo di salvare la donna amata (canto XI, ott. 13-21).

742 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

55 dianzi: prima di lui. 56 non lassa: non smette. 57 riede: ritorna. È un’eco del v. 5, ott. 10. 58 non relinque: non tralascia. È un latinismo. 59 Con speme… si parte: alla fine, Ruggiero esce dal castello (si parte), con la speranza che il gigante e Bradamante possano essere nascosti nei boschi vicini (propinque selve). 60 quale: simile a quella che. 61 non manco: non meno, anche.


20 Una voce medesma, una persona che paruta era Angelica ad Orlando, parve a Ruggier la donna di Dordona62, che lo tenea di sé medesmo in bando63. Se con Gradasso o con alcun64 ragiona di quei ch’andavan nel palazzo errando, a tutti par che quella cosa sia, che più ciascun per sé brama e desia65.

22 Non pur costui, ma tutti gli altri ancora, che di valore in Francia han maggior fama, acciò che di lor man Ruggier non mora, condurre Atlante in questo incanto trama71. E mentre fa lor far quivi dimora, perché di cibo non patischin brama72, sì ben fornito avea tutto il palagio, che donne e cavallier vi stanno ad agio.

21 Questo era un nuovo e disusato incanto66 ch’avea composto Atlante di Carena67, perché Ruggier fosse occupato tanto in quel travaglio68, in quella dolce pena, che ’l mal’influsso n’andasse da canto, l’influsso ch’a morir giovene il mena69. Dopo il castel d’acciar, che nulla giova, e dopo Alcina, Atlante ancor fa pruova70. 62 la donna di Dordona: Bradamante. 63 di sé medesmo in bando: fuori di sé (per amore).

64 alcun: qualcuno. 65 a tutti... desia: a ciascuno pare di ve-

dere nella medesima cosa ciò che desidera ardentemente per sé (brama e desia). 66 disusato incanto: straordinario incantesimo. 67 Atlante di Carena: il mago-indovino

che ha allevato Ruggiero. La fonte è, al solito, Boiardo; la Carena è una catena montuosa della Mauritania. 68 travaglio: affanno. 69 che ’l mal’influsso… mena: così da allontanare (n’andasse da canto) l’influsso funesto del destino (’l mal’influsso), che lo conduce a una morte prematura (ch’a morir giovene il mena). 70 ancor fa pruova: ci prova ancora. 71 Non pur costui... trama: Atlante progetta di condurre in questo luogo incantato non solo Ruggiero, ma anche tutti gli altri cavalieri che in Francia hanno fama maggiore per il loro valore, affinché Ruggiero non muoia ucciso da loro. 72 non patischin brama: non soffrano la mancanza.

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

L’episodio, per la parte qui presentata, si struttura in due sequenze principali: la prima riguarda Orlando (ott. 4-16), la seconda Ruggiero (ott. 17-20), che in questo importante episodio confermano il ruolo primario che Ariosto assegna loro nel poema. 1. Riassumi il contenuto delle due sequenze. Noti delle somiglianze? Nell’episodio torna in scena il mago Atlante, che già abbiamo incontrato in uno dei primi canti del poema. Anche in quel caso c’era un castello incantato dove Atlante recludeva, ma in un soggiorno piacevole, belle dame e cavalieri rapiti sul suo ippogrifo. 2. Indica l’obiettivo che muove il mago Atlante a creare un nuovo castello. In quali versi lo ritrovi enunciato? Ariosto crea precise simmetrie tra le due sequenze di Orlando e Ruggiero, sia a livello dello schema narrativo sia nel tono, ma anche attraverso la ricorrenza, certo non casuale, di termini ed espressioni analoghe. 3. Rintraccia e scheda, in particolare, la presenza, nelle due sequenze, di sintagmi che appartengono all’ambito spaziale e che traducono l’affannoso e vano girovagare dei due cavalieri (e non solo di questi) dentro il palazzo. Il gioco delle apparenze in uno spazio-tempo magico Il castello è una “fabbrica di artifici”, dove niente è quello che sembra e tutto si moltiplica e rifrange in un’infinita girandola di apparenze, come in una grande galleria degli specchi. E a riprova di ciò, questi versi sono un proliferare di verbi ed espressioni appartenenti all’area semantica dell’“apparire”. Il palazzo stregato è uno spazio labirintico in cui ci si ritrova varie volte al punto di partenza, senza aver compiuto un reale

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itinerario; ma anche il tempo non è scandito da un “prima” e da un “dopo”, così che sembra regnare nella magica dimora una dimensione temporale circolare più che lineare, potenzialmente infinita. D’altra parte il palazzo è anche raffigurato dal narratore con dettagli verosimili: a differenza del primo castello, che vediamo solo dall’esterno ed è simile a un’inespugnabile roccaforte medievale, il secondo, descritto in modo più analitico, ricorda le sontuose dimore rinascimentali. 4. Individua e scheda i verbi che alludono all’inganno e all’apparenza. 5. Individua e commenta il punto in cui Ariosto allude a una sorta di tempo potenzialmente infinito, circolare e sempre uguale a sé stesso. 6. Commenta la descrizione che il poeta fa del castello, da quella essenziale della sua ubicazione e del suo aspetto esteriore a quella più dettagliata dei suoi interni. Quale impressione il poeta vuole creare nel lettore?

Interpretare

Le valenze simboliche del secondo castello di Atlante Il secondo castello di Atlante è certo l’ideazione più celebre e affascinante dell’Orlando furioso, vero fulcro simbolico del poema e tema chiave dell’opera. Vi confluiscono le molte “inchieste”, amorose e non, dei personaggi, cristiani e saraceni. Se le ricerche nel corso del poema sono destinate quasi sempre a essere frustrate, a non raggiungere il proprio obiettivo, nell’episodio del castello di Atlante esse si rivelano addirittura illusorie, proiezione fantasmatica creata dalla magia dei vani desideri che conducono i personaggi, senza che ne siano consapevoli, entro una vera e propria prigione, anche se dorata: non a caso il poeta usa per il castello il sinonimo significativo di gabbia («e così stanno, / che non si san partir di quella gabbia»). L’incantesimo del mago ci appare allora innanzitutto una grande metafora dell’esistenza, che condanna gli uomini a rincorrere senza tregua obiettivi instabili e illusori, prigionieri dei propri desideri come i cavalieri di Ariosto. Solo pochi sono in grado di vedere gli inganni, di smascherare il gioco delle illusioni: qui è Angelica che, grazie all’anello che l’assicura da l’incanto, passerà indenne (in una parte successiva di questo stesso episodio) attraverso la labirintica costruzione prendendosi gioco dei propri spasimanti; sarà lei a togliere dai loro occhi il velo che li teneva irretiti. In un altro punto del poema Ariosto assimila significativamente l’anello svelatore alla ragione: «Chi l’anello d’Angelica, o più tosto / chi avesse quello de la ragion, potria / veder a tutti il viso, che nascosto / da finzione e d’arte non saria» (VIII, 2). Se dunque tutti avessimo il prezioso dono della ragione, sembra dirci Ariosto, potremmo vedere la realtà al di sotto delle illusioni che noi stessi, anche senza maghi, ci creiamo. 7. Scrive Calvino (nel suo Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino), introducendo l’episodio del castello: «Nel cuore del poema c’è un trabocchetto, una specie di vortice che inghiotte a uno a uno i principali personaggi [...] in mezzo a un prato non lontano dalle coste della Manica, vediamo sorgere un palazzo che è un vortice di nulla, nel quale si rifrangono tutte le immagini del poema […] il palazzo è deserto di quel che si cerca, e popolato solo di cercatori». Dietro il palazzo di Atlante si può leggere una visione certo non ottimistica della realtà e dei comportamenti umani, che rispecchia l’incipiente crisi della civiltà rinascimentale. Spiega perché. Un secondo significato simbolico attribuibile all’immagine del castello è l’allusione alla corte, presenza continua nel poema. Alla corte rimanda espressamente la dittologia, ricorrente per tutto il Furioso, «donne e cavallier» (ott. 22, v. 8) e, come si è detto, il palazzo incantato è ideato a immagine del palazzo rinascimentale. Se in altri punti del poema (ad es. nell’episodio del vallone lunare ➜ T17 ) i riferimenti alla corte sono espressamente critici e polemici, qui (ma anche nel primo castello) sembra prevalere piuttosto l’idea della corte come luogo seduttivo da cui è difficile uscire, una volta entrati. 8. Riguardo al rapporto tra la corte e il castello di Atlante, prova a commentare le parole del critico Corrado Bologna (La macchina del «Furioso»): «Egli [Ariosto] giunge dove mai Boiardo avrebbe osato spingersi: all’azzeramento, di fatto, della realtà storica della corte (di quella estense, di quella gonzaghesca) e alla sua riproposizione in termini di realtà virtuale, come astratto riferimento onirico, pura categoria spazio-temporale proiettata fuori della storia». 9. Cos’è oggi il castello di Atlante? La Rete, il virtuale in cui tutti siamo immersi, può essere considerato “un nuovo castello di Atlante”? Infine il castello di Atlante può essere interpretato come immagine simbolica del poema stesso, così come il mago Atlante può essere un “doppio” di Ariosto: come il mago, anche il poeta si diverte

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a convocare i suoi eroi ad appuntamenti solo apparentemente casuali; ma in realtà, come un abile burattinaio, egli tiene le fila delle vicende e le fa muovere dove e come vuole secondo direzioni prima centripete, come in questo caso, e poi ancora centrifughe (alla fine dell’episodio i cavalieri escono infatti di nuovo in groppa ai loro cavalli fuori dal castello per inseguire Angelica). Scrive Calvino: «La parte dell’incantatore che vuol ritardare il compiersi del destino e la parte del poeta che ora aggiunge personaggi alla storia, ora ne sottrae, ora li raggruppa, ora li disperde, si sovrappongono fino a identificarsi. La giostra delle illusioni è il palazzo, è il poema, è tutto il mondo». 10. Nel canto II, ott. 30, Ariosto esibisce particolarmente il suo ruolo di narratore-regista di una materia intricata e multiforme che si diverte a interrompere e riannodare: «Ma perché varie fila a varie tele / uopo mi son, che tutte ordire intendo, / lascio Rinaldo e l’agitata prua, / e torno a dire di Bradamante sua». Individua anche in questo episodio la presenza esibita del ruolo registico dell’autore. Quindi spiega con le tue parole, dall’idea che te ne sei fatta leggendo fin qui il poema, in che senso il castello di Atlante possa rappresentare un’immagine del poema stesso dietro cui si profila Ariosto-Atlante.

online T11 Ludovico Ariosto

La preghiera di Carlo Magno e il viaggio dell’angelo Michele: la dimensione religiosa entra nel poema? Orlando furioso XIV, 68-73; 78-82

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Sguardo sull’arte La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano

Sguardo sulla letteratura e il teatro L’Orlando furioso di Ronconi Ideato e messo in scena per la prima volta a Spoleto nel 1969, lo spettacolo teatrale tratto dall’Orlando furioso dell’Ariosto è il risultato della collaborazione tra il regista Luca Ronconi (1933-2015), una delle personalità più innovative della scena teatrale italiana, e il poeta e critico Edoardo Sanguineti (1930-2010), entrambi esponenti, dall’inizio degli anni Sessanta, dello sperimentalismo nella letteratura e nel teatro. La scelta del poema ariostesco è motivata dai due artisti con il suo carattere “drammatico”, nel senso di continuo movimento narrativo, che lo rende particolarmente adatto alla trasposizione scenica. Uno spettacolo non convenzionale Sulla scia di esperienze già in atto, Luca Ronconi progetta uno spettacolo che si svolga non in teatro ma in luoghi nuovi (a Spoleto in una chiesa sconsacrata, successivamente in spazi aperti, come piazze o cortili, o chiusi, ma comunque diversi da quelli convenzionali), che consentano una partecipazione attiva e dinamica del pubblico: il testo (la cui elaborazione è affidata a Edoardo Sanguineti) dovrà essere solo un pre-testo (nel senso letterale del termine) per lo spettacolo nel suo farsi, come indica il sottotitolo L’azione-testo. La caratteristica dominante e rivoluzionaria dello spettacolo teatrale è costituita dalla simultaneità degli episodi, proposti contemporaneamente sulla base dei loro collegamenti. È un procedimento che intende riprodurre una struttura fondamentale del poema, e cioè lo svolgimento in simultanea di molte vicende: ad esempio Bradamante insegue Ruggiero mentre Orlando cerca Angelica e così via. La rappresentazione, infatti, si svolge in uno spazio con due palcoscenici e alcune piattaforme mobili: in questo

modo viene stravolta la concezione convenzionale dello spazio teatrale, facendo sì che lo spettatore si trovi nel centro di una scena costituita da azioni simultanee, a stretto contatto con gli attori (ne sono coinvolti più di quaranta). La particolare messa in scena favorisce il movimento del pubblico verso le scene che gli piacciono di più, inducendolo quindi a una partecipazione dinamica che rivoluziona anche l’abituale fruizione. La realizzazione, che enfatizza le componenti favolose e fantastiche del poema, ne accentua la dimensione magica: coniugando sperimentazione (le macchine da scena in vista, gli elementi scenografici dichiaratamente finti come l’ippogrifo e l’orca, i carrelli che trasportano gli attori in acrobazie aeree) e recupero della grande tradizione figurativa rinascimentale, essa trasforma i personaggi in figure irreali, immersi in una dimensione favolistica. La collaborazione Sanguineti-Ronconi L’Orlando furioso di Sanguineti e Ronconi, valutato positivamente dai settori più innovativi della critica teatrale, sarà rappresentato in molte città italiane ed europee e a New York, con grande partecipazione di pubblico. In occasione del quinto centenario della nascita dell’Ariosto (1975), il regista predispone una versione in cinque puntate per la Rai: trasmessa la domenica in prima serata, suscita più di una perplessità e stupore nel pubblico, abituato a trasmissioni di più facile intrattenimento, ma anche polemiche per quello che viene considerato un tradimento dell’ideazione iniziale, dovuto peraltro alle caratteristiche tecniche del mezzo televisivo. Si deve anche ricordare una versione per il grande schermo, incentrata su due dei cinque episodi televisivi (Ruggiero salva Angelica e la follia di Orlando).

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Il copione predisposto dallo scrittore ligure trascrive le vicende del poema, che nell’originale sono disperse dalla tecnica dell’entrelacement, in alcuni blocchi narrativi, ciascuno a sé stante, in corrispondenza all’interesse, condiviso con Ronconi, per una rappresentazione nello stesso tempo frantumata (cioè senza un continuum narrativo) e simultanea, corrispondente a una sorta di mappa ideale, spaziale e temporale, dell’opera. L’obiettivo dei due autori è infatti quello di evidenziare nell’Orlando furioso – attraverso lo smontaggio della trama e la disposizione, poi, in parallelo nella messa in scena degli episodi con caratteristiche simili – i collegamenti tra storie diverse. L’altra importante modifica apportata al testo dell’Ariosto è rappresentata dal cambiamento della voce narrante dalla terza persona, prevalente nell’opera, alla prima; procedimento che valorizza, insieme all’uso dominante del tempo presente, il ruolo primario dell’attore nell’opera teatrale: in questo modo i personaggi descrivono sé stessi nel momento stesso dell’azione, con un effetto autoironico che riproduce una delle caratteristiche fondamentali del poema. Proponiamo, per esemplificare la rielaborazione testuale attuata da Sanguineti, il passo in cui Ruggiero («Signor che voli»), sorvolando sull’ippogrifo l’isola di Ebuda, vede dall’alto Angelica che, legata a uno scoglio, sta per essere divorata dall’orca, un mostro marino: mentre nel poema la narrazione è in terza persona, con alcuni interventi del narratore che palesa la sua presenza, nella sceneggiatura sono i personaggi (qui Angelica) a raccontare la vicenda.

Una scena dallo spettacolo teatrale di Luca Ronconi tratto dall’Orlando furioso.

Orlando (Massimo Foschi) e il cavallo Baiardo nell’Orlando furioso di Luca Ronconi per la Rai, andato in onda nel 1975.

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Video L’Orlando furioso di Ronconi

Odilon Redon, Ruggero e Angelica (Perseo e Andromeda), 1910 (Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinett).

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Orlando furioso

Al nudo sasso, all’Isola del pianto1; che l’Isola del pianto era nomata quella che da crudele e fiera tanto ed inumana gente era abitata, che (come io vi dicea sopra nel canto2) per vari liti sparsa iva in armata3 tutte le belle donne depredando4, per farne a un mostro poi cibo nefando5. Vi fu legata pur quella matina dove venìa per trangugiarla viva quel smisurato mostro, orca marina, che di aborrevole esca si nutriva. Dissi di sopra, come fu rapina di quei che la trovaro in su la riva dormire al vecchio incantatore a canto, ch’ivi l’avea tirata per incanto6. Canto X, 93-94 1 2 3

Isola del pianto: Ebuda. sopra nel canto: nel canto precedente. iva in armata: se ne andava ordinata in schiere. 4 depredando: rapendo. 5 cibo nefando: pasto scellerato. Nell’ottava seguente (v. 4) aborrevole esca sta per “cibo abominevole”.

6 fu rapina… per incanto: fu preda dei pirati che la trovarono sulla spiaggia accanto a un vecchio mago, l’eremita che l’aveva rapita, attirandola con un incantesimo.

Testo di Sanguineti

Angelica Signor che voli, or guarda tu, qui, a basso, Angelica legata al nudo sasso: al nudo sasso, all’Isola del pianto; ché l’Isola del pianto era nomata questa, che da crudele e fiera tanto et inumana gente è abitata: le belle donne vanno depredando, per farne a un mostro poi cibo nefando. Qui fui legata pur questa mattina, e qui verrà per trangugiarmi viva il smisurato mostro, orca marina, poi che m’hanno trovata in su una riva, dormendo a un vecchio incantatore a canto, che là m’ avea tirata per incanto.

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Analisi passo dopo passo

T12

Ludovico Ariosto

Una storia di amicizia e morte sullo sfondo della guerra: Cloridano e Medoro

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Orlando furioso XVIII, 165-173; 182-192; XIX, 1-15 L. Ariosto, Orlando furioso, Garzanti, Milano 1974

Ci troviamo di nuovo nello scenario della guerra: si è appena conclusa una sanguinosa battaglia tra le due armate, nella quale ha perso la vita il giovanissimo re saraceno Dardinello, figlio di Almonte. Il suo corpo giace chissà dove e due suoi fidi soldati, Cloridano e Medoro, decidono, a costo della propria vita, di cercarlo per dargli degna sepoltura. Il racconto dell’avventurosa uscita notturna dei due amici alla ricerca del loro re e degli eventi che ne conseguono è uno dei segmenti narrativi più noti del poema. È un episodio dal sapore epico, in cui Ariosto gareggia con una fonte illustre: l’Eneide di Virgilio, da cui è ripreso, ma con spirito tutto diverso, l’episodio di Eurialo e Niso.

CANTO XVIII, 165-173 165 Duo Mori ivi1 fra gli altri si trovaro, d’oscura stirpe nati in Tolomitta2; de’ quai l’istoria, per esempio raro di vero amore, è degna esser descritta. Cloridano e Medor si nominaro3, ch’alla fortuna prospera e alla afflitta4 aveano sempre amato Dardinello, ed or passato in Francia il mar con quello. 166 Cloridan, cacciator tutta sua vita, di robusta persona era ed isnella: Medoro avea la guancia colorita e bianca e grata5 ne la età novella6; e fra la gente a quella impresa uscita7 non era faccia più gioconda e bella: occhi avea neri, e chioma crespa d’oro: angel parea di quei del sommo coro8. La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alternata, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC 1 ivi: qui. La scena si svolge ai margini del campo saraceno posto fuori delle mura di Parigi. Le truppe di Carlo Magno,

grazie all’intervento di Rinaldo, hanno avuto la meglio, costringendo i saraceni a battere in ritirata e minacciandoli di un assedio che potrebbe essere risolutorio. 2 Tolomitta: Tolmetta, città della Cirenaica. 3 si nominaro: si chiamavano. 4 ch’alla… afflitta: i quali, nella buona come nella cattiva sorte.

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165 Il narratore presenta i due eroi di una vicenda esemplare che si annuncia espressamente come “epica” (l’istoria... è degna esser descritta). In conformità con questa prospettiva e con la scelta del modello illustre a cui l’episodio si ispira (la vicenda virgiliana di Eurialo e Niso), la narrazione seguirà un andamento lineare, anomalo rispetto alle consuete interruzioni e riprese che caratterizzano il modo ariostesco di raccontare. 166 Il ritratto dei due eroi privilegia il più giovane, Medoro, di cui evidenzia l’adolescenziale bellezza.

5 grata: gradevole. 6 novella: giovane. 7 a quella impresa uscita: venuta a partecipare alla guerra contro i cristiani. 8 sommo coro: la schiera degli angeli del Paradiso più vicini (sommo coro) a Dio, i Serafini.


167 Erano questi duo sopra i ripari9 con molti altri a guardar gli alloggiamenti10, quando la Notte fra distanze pari11 mirava il ciel con gli occhi sonnolenti. Medoro quivi in tutti i suoi parlari12 non può far che ’l signor suo non rammenti, Dardinello d’Almonte, e che non piagna che resti senza onor ne la campagna13. 168 Volto al compagno, disse: – O Cloridano, io non ti posso dir quanto m’incresca del mio signor, che sia rimaso al piano14, per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca15. Pensando come sempre mi fu umano16, mi par che quando ancor questa anima esca in onor di sua fama, io non compensi né sciolga verso lui gli oblighi immensi17.

168-169 Medoro è il rappresentante dell’etica cavalleresca antica, che impone la fedeltà al proprio signore anche a costo della morte (in questo caso è una fedeltà che riguarda addirittura un morto). Cavalleresco (ma anche proprio dell’epica antica) è anche il desiderio di Medoro che la sua impresa sia ricordata. I nobili valori di Medoro sono attribuiti da Ariosto a un saraceno: sarebbe stato possibile al tempo della Chanson de Roland?

169 Io voglio andar, perché non stia insepulto in mezzo alla campagna, a ritrovarlo: e forse Dio vorrà ch’io vada occulto18 là dove tace il campo del re Carlo. Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto19 ch’io vi debba morir, potrai narrarlo: che se Fortuna vieta sì bell’opra, per fama almeno il mio buon cor si scuopra20 –

9 ripari: fortificazioni. 10 a guardar gli alloggiamenti: a far la guardia agli accampamenti.

11 fra distanze pari: a metà strada tra oriente e occidente. Era mezzanotte, dunque. 12 parlari: discorsi. 13 che resti… campagna: che il suo corpo resti insepolto sul campo di battaglia, senza aver ricevuto gli onori che merita. 14 al piano: sul campo.

15 per lupi… esca: cibo troppo nobile per lupi e corvi (corbi). 16 come… umano: come è sempre stato generoso verso di me. 17 mi par che… oblighi immensi: mi sembra che anche quando questa mia anima abbandoni il corpo per rendergli onore, io non avrei ancora compensato quanto gli devo, né sciolto gli obblighi immensi che sento verso di lui. Si noti la rima equivoca tra il sostantivo esca (v. 4) e il verbo esca (v. 6).

18 occulto: di nascosto, senza che nessuno mi veda. 19 sculto: scolpito. Cioè “stabilito” dal cielo. 20 se Fortuna… si scuopra: se la Fortuna non concede che un’impresa tanto onorevole sia portata a termine, che almeno si sappia, attraverso la fama che mi daranno le tue parole, quale sia stato il mio coraggio (buon cor). Lo stesso per core al v. 1 dell’ottava seguente.

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170 Stupisce Cloridan, che tanto core, tanto amor, tanta fede21 abbia un fanciullo: e cerca assai, perché gli porta amore, di fargli quel pensiero irrito e nullo22; ma non gli val23, perch’un sì gran dolore non riceve conforto né trastullo24. Medoro era disposto o di morire, o ne la tomba il suo signor coprire25.

170-171 Cloridano invece è caratterizzato esclusivamente da un sentimento individuale: l’amicizia verso Medoro, che gli rende impossibile immaginare la propria vita senza l’amico. Con questo sentimento si spiega la decisione di accompagnarlo nell’ardua impresa.

171 Veduto che nol piega e che nol muove26, Cloridan gli risponde: – E27 verrò anch’io, anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove28 anch’io famosa morte29 amo e disio. Qual cosa sarà mai che più mi giove30, s’io resto senza te, Medoro mio? Morir teco con l’arme è meglio molto, che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto31. – 172 Così disposti, messero in quel loco le successive guardie32 e se ne vanno. Lascian fosse e steccati, e dopo poco tra’ nostri son, che senza cura stanno33. Il campo dorme, e tutto34 è spento il fuoco, perché dei Saracin poca tema35 hanno. Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi, nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi36.

21 fede: fedeltà. È un latinismo. 22 cerca… nullo: cerca in ogni modo, poiché gli vuole bene, di dissuaderlo dal proposito. Letteralmente: “rendendo quella sua intenzione vana e senza effetti”. 23 non gli val: non gli riesce. 24 trastullo: distrazione. 25 coprire: seppellire. 26 nol... muove: non lo convince (piega) e non lo smuove. 27 E: Allora. 28 vuo’... pruove: voglio sottopormi a una prova così lodevole.

29 famosa morte: una morte gloriosa. 30 Qual cosa... mi giove: che cosa ormai potrebbe piacermi.

31 Morir teco… mi sii tolto: È molto meglio morire insieme a te, con le armi in pugno, che di dolore in seguito, se succede che tu mi sia tolto (perché ucciso). 32 Così disposti... guardie: Avendo così deciso, collocano nella postazione in cui erano le sentinelle del turno successivo. 33 senza cura stanno: se ne stanno tranquilli, senza preoccuparsi di possibili incursioni nemiche.

750 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

34 tutto: del tutto, completamente. 35 tema: paura. 36 Tra l’arme... immersi: Stanno riversi fra le armi e i carri, immersi fino agli occhi nel vino (cioè “ubriachi fradici”) e nel sonno (ossia “profondamente addormentati”).


173 Fermossi alquanto37 Cloridano, e disse: – Non son mai da lasciar l’occasioni. Di questo stuol che ’l mio signor trafisse, non debbo far, Medoro, occisioni38? Tu, perché sopra alcun non ci venisse39, gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni40; ch’io m’offerisco farti con la spada tra gli nimici spaziosa strada41. – […] [Cloridano e Medoro danno inizio alla strage, che sembra non risparmiare nessuno; i due Saraceni si aggirano per il campo cristiano, immerso nel sonno e nei fumi dell’alcol, e come angeli vendicatori sgozzano e squartano quanti soldati incontrano sul loro cammino, finché non giungono nei pressi della tenda di re Carlo…] CANTO XVIII, 182-192 182 E ben che possan gir di preda carchi, salvin pur sé, che fanno assai guadagno42. Ove più creda aver sicuri i varchi43 va Cloridano, e dietro ha il suo compagno. Vengon nel campo, ove fra spade ed archi e scudi e lance in un vermiglio stagno44 giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli, e sozzopra45 con gli uomini i cavalli.

182 Il pragmatico intervento esortativo del narratore («salvin pur sé, che fanno assai guadagno») smorza il tono epico. Anche nelle ottave precedenti non riportate, che descrivono l’uccisione dei cristiani da parte dei due amici, non mancano veri e propri stralci comicogrotteschi.

183 Quivi dei corpi l’orrida mistura, che piena avea la gran campagna intorno, potea far vaneggiar la fedel cura dei duo compagni insino al far del giorno46, se non traea fuor d’una nube oscura, a’ prieghi di Medor, la Luna il corno47. Medoro in ciel divotamente fisse48 verso la Luna gli occhi, e così disse: 37 Fermossi alquanto: Si fermò un momento. 38 occisioni: uccisioni, stragi. 39 perché… venisse: affinché non sopraggiunga nessuno. 40 perché sopra… parte poni: affinché nessuno ci sorprenda, tieni occhi e orecchie ben aperti. 41 m’offerisco… strada: mi offro di aprirti una larga strada tra i nemici, facendone strage con la spada.

42 E ben che… guadagno: E anche se potrebbero andarsene carichi di bottino, è meglio che pensino a salvare sé stessi, che già sarebbe un guadagno sufficiente. 43 Ove… varchi: Laddove pensa che ci siano i passaggi più sicuri. 44 vermiglio stagno: lago rosso (di sangue). 45 sozzopra: sottosopra. 46 Quivi dei corpi… al far del giorno: L’orribile intrico di cadaveri che c’era in quel luogo, avrebbe potuto rendere vana

la sollecitudine fedele (cioè ispirata dalla fedeltà al loro re) dei due giovani finché non fosse giunta la luce del giorno. Tanti sono i corpi lì ammassati, che Cloridano e Medoro nel buio della notte non riescono a individuare quello di Dardinello. 47 se non traea… il corno: se, rispondendo alle preghiere (a’ prieghi) di Medoro, la Luna non avesse fatto uscire la propria falce (il corno) da una nube scura che le copriva. 48 fisse: rivolse.

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184 – O santa dea, che dagli antiqui nostri debitamente sei detta triforme49; ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri l’alta bellezza tua sotto più forme, e ne le selve, di fere50 e di mostri vai cacciatrice seguitando51 l’orme; mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti, che vivendo imitò tuoi studi santi52. – 185 La luna a quel pregar la nube aperse (o fosse caso o pur la tanta fede), bella come fu allor ch’ella s’offerse, e nuda in braccio a Endimion si diede53. Con Parigi a quel lume si scoperse l’un campo e l’altro54; e ’l monte e ’l pian si vede: si videro i duo colli di lontano, Martire a destra, e Lerì all’altra mano55. 186 Rifulse lo splendor molto più chiaro ove d’Almonte giacea morto il figlio. Medoro andò, piangendo, al signor caro; che conobbe il quartier bianco e vermiglio56: e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro pianto, che n’avea un rio57 sotto ogni ciglio, in sì dolci atti, in sì dolci lamenti, che potea ad ascoltar fermare i venti58. 187 Ma con sommessa voce e a pena udita59; non che riguardi a non si far sentire, perch’abbia alcun pensier de la sua vita, più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire60: ma per timor che non gli sia impedita l’opera pia che quivi il fe’ venire61. Fu il morto re sugli omeri sospeso di tramendui62, tra lor partendo63 il peso. 49 triforme: nell’antichità la Luna era designata con nomi diversi, a seconda del luogo in cui si manifestava; precisamente “Cinzia” se in cielo, “Diana” in terra ed “Ecate” agli inferi. 50 fere: fiere. Diana è infatti la dea cacciatrice. 51 seguitando: seguendo.

52 che vivendo… santi: che (riferito a Dardinello, ’l mio re) quando era in vita fu cacciatore anche lui, come te. 53 bella come… si diede: bella come quella volta in cui si offrì nuda tra le braccia di Endimione, unico giovane mai amato dalla Luna. 54 l’un campo e l’altro: quello pagano e quello cristiano.

752 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

184 La preghiera di Medoro alla Luna è ricca di riferimenti mitologici. Ariosto non si preoccupa della scarsa verosimiglianza nel porre in bocca a un giovanissimo guerriero saraceno dotte immagini classicistiche.

185 Il tono lirico e solenne dell’invocazione alla Luna è smorzato ironicamente dall’inciso («o fosse caso o pur la tanta fede») in cui si palesa il rinascimentale scetticismo dell’autore nei confronti di tutto ciò che è trascendente.

186 Riconosci la figura retorica attraverso cui Ariosto enfatizza il dolore di Medoro?

55 Martire… all’altra mano: Montmartre a destra, e Montlhéry dall’altra parte. Sono due colline di Parigi. 56 che conobbe… vermiglio: poiché aveva riconosciuto lo scudo a quartieri bianchi e rossi. 57 rio: rivo. 58 in sì dolci… i venti: con gesti e lamenti tanto dolci, che anche i venti si sarebbero fermati, se l’avessero udito. 59 Ma... udita: sott. “si lamenta”. 60 non che riguardi… vorrebbe uscire: non che non voglia farsi sentire perché nutre qualche preoccupazione per la propria vita, che ora piuttosto la odia, e vorrebbe abbandonarla. 61 ma per timor… fe’ venire: ma per paura che gli venga impedito di compiere la pia opera che l’ha spinto a venire fin qui. per timor che è il solito costrutto alla latina. 62 Fu il morto re... tramendui: Il re morto fu sollevato sulle spalle (omeri) di entrambi. 63 partendo: dividendo.


188 Vanno affrettando i passi quanto ponno64, sotto l’amata soma che gl’ingombra65. E già venìa chi de la luce è donno66 le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra67; quando Zerbino68, a cui del petto il sonno l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra, cacciato avendo tutta notte i Mori, al campo si traea nei primi albori69. 189 E seco alquanti cavallieri avea, che videro da lunge i dui compagni. Ciascuno a quella parte si traea70, sperandovi trovar prede e guadagni. – Frate71, bisogna (Cloridan dicea) gittar la soma, e dare opra ai calcagni72; che sarebbe pensier non troppo accorto, perder duo vivi per salvar un morto. –

188 Il dotto latinismo donno e il riferimento all’alta virtude di Zerbino, capitano cristiano degno di confrontarsi con i due eroi saraceni, nuovamente introduce il tono epico.

189-190 La pragmatica riflessione di Cloridano, a cui segue l’abbandono prudente del corpo del re, abbassa vistosamente l’“aura epica”. Quale termine in particolare è impiegato a questo scopo? Medoro invece rimane fedele al proprio idealismo cavalleresco e si carica il corpo del re sulle spalle.

190 E gittò il carco, perché si pensava che ’l suo Medoro il simil73 far dovesse: ma quel meschin, che ’l suo signor più amava, sopra le spalle sue tutto lo resse. L’altro con molta fretta se n’andava, come l’amico a paro o dietro avesse74: se sapea di lasciarlo a quella sorte, mille aspettate avria, non ch’una morte75. 191 Quei cavallier, con animo disposto che questi a render s’abbino o a morire76, chi qua chi là si spargono, ed han tosto preso ogni passo77 onde si possa uscire. Da loro il capitan poco discosto, più degli altri è sollicito a seguire78; ch’in tal guisa vedendoli temere79, certo è che sian de le nimiche schiere. 64 ponno: possono. 65 amata soma che gl’ingombra: l’amato carico (del loro signore Dardinello) che li impaccia nei movimenti. 66 donno: signore. Si tratta del Sole, signore della luce. 67 le stelle… l’ombra: a togliere le stelle dal cielo e l’ombra da terra.

68 Zerbino: personaggio d’invenzione ariostesca; è un cavaliere cristiano, figlio del re di Scozia. 69 a cui del petto... nei primi albori: Zerbino, al quale il valore, quando ci sia necessità, scaccia il sonno dal petto (cioè “fa passare il sonno”), stava tornando al campo alle prime luci dell’alba, dopo aver fatto strage di Mori per tutta la notte.

70 Ciascuno... si traea: Ciascuno (degli uomini di Zerbino) si dirige da quella parte, sperando di trovarvi prede e bottino. 71 Frate: fratello, qui sta per “amico”. 72 gittar... ai calcagni: abbandonare il corpo (la soma è “il peso”; più sotto il carco) e mettersi a correre. 73 il simil: la stessa cosa. 74 come… avesse: convinto che l’amico fosse insieme a lui, o subito dietro. 75 mille… morte: sarebbe rimasto ad aspettare non una sola, ma mille morti. 76 con animo disposto… o a morire: con animo determinato a far sì che questi (Cloridano e Medoro) debbano arrendersi (render) o morire. 77 preso ogni passo: occupato ogni passaggio. 78 sollicito a seguire: rapido a inseguire. 79 ch’in tal guisa vedendoli temere: che vedendo la loro reazione spaventata.

L’Orlando furioso 3 753


192 Era a quel tempo ivi una selva antica, d’ombrose piante spessa80 e di virgulti, che, come labirinto, entro s’intrica di stretti calli e sol da bestie culti81. Speran d’averla i duo pagan sì amica, ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti82. Ma chi del canto mio piglia diletto, un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.

192 Gli ultimi due versi dell’ottava ospitano il consueto intervento del narratore, finalizzato a rilanciare il movimento del poema.

CANTO XIX, 1-15 1 Alcun non può saper da chi sia amato, quando felice in su la ruota siede83: però c’ha i veri e i finti amici a lato, che mostran tutti una medesma fede84. Se poi si cangia in tristo il lieto stato, volta la turba adulatrice il piede; e quel che di cor ama riman forte, ed ama il suo signor dopo la morte85.

1-2 L’intervento commentativo del narratore, che apre il canto XIX, riconduce la vicenda dei due giovani a una prospettiva più generale, illuminandone il carattere esemplare. La seconda ottava introduce un riferimento puntuale alla corte, come al solito polemico: negli ambienti cortigiani dominano l’adulazione e l’ipocrisia.

2 Se, come il viso, si mostrasse il core, tal ne la corte è grande e gli altri preme, e tal è in poca grazia al suo signore, che la lor sorte muteriano insieme86. Questo umil diverria tosto il maggiore87: staria quel grande infra le turbe estreme88. Ma torniamo a Medor fedele e grato, che ’n vita e in morte ha il suo signore amato.

80 spessa: folta. 81 entro s’intrica... culti: dentro si fa

84 però... fede: perché ha accanto sia i

intricata con sentieri stretti e frequentati (culti) solo dalle fiere. 82 Speran… occulti: I due pagani sperano che la selva si dimostri tanto amica da offrir loro un nascondiglio tra le sue fronde. 83 Alcun... siede: Nessuno può sapere da chi sia veramente amato quando si trova al colmo della fortuna. Letteralmente: “si

veri sia i finti amici, che gli dimostrano tutti la medesima fedeltà. 85 Se poi... la morte: Se poi la condizione felice si muta in triste, la massa degli adulatori si allontana; mentre colui che ama sinceramente (di cor) rimane costante nell’amare il proprio signore anche dopo la morte. 86 Se, come il viso... insieme: Se il cuore

trova sulla ruota della Fortuna”.

754 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

potesse mostrarsi così come il viso, chi (tal) è importante nella corte e umilia (preme) gli altri e chi è poco nelle grazie del signore si scambierebbero le rispettive condizioni. 87 il maggiore: il più importante (nella corte). 88 turbe estreme: le ultime schiere (dei cortigiani).


3 Cercando già nel più intricato calle il giovine infelice di salvarsi89; ma il grave peso ch’avea su le spalle, gli facea uscir tutti i partiti scarsi90. Non conosce il paese, e la via falle91, e torna fra le spine a invilupparsi. Lungi da lui tratto al sicuro s’era l’altro, ch’avea la spalla più leggiera. 4 Cloridan s’è ridutto92 ove non sente di chi segue lo strepito e il rumore: ma quando da Medor si vede assente, gli pare aver lasciato a dietro il core. – Deh, come fui (dicea) sì negligente, deh, come fui sì di me stesso fuore, che senza te, Medor, qui mi ritrassi, né sappia quando o dove io ti lasciassi! – 5 Così dicendo, ne la torta via de l’intricata selva si ricaccia; ed onde era venuto si ravvia, e torna di sua morte in su la traccia93. Ode i cavalli e i gridi tuttavia94, e la nimica voce che minaccia: all’ultimo ode il suo Medoro, e vede che tra molti a cavallo è solo a piede.

4 Nota l’espressione patetica con cui Ariosto allude allo smarrimento di Cloridano quando si accorge di aver perso l’amato Medoro.

5 Domina l’ottava una sequenza affannosa di verbi relativi soprattutto alle impressioni uditive.

6 Cento a cavallo, e gli son tutti intorno: Zerbin commanda e grida che sia preso. L’infelice s’aggira com’un torno95, e quanto può si tien da lor difeso, or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno, né si discosta mai dal caro peso. L’ha riposato al fin su l’erba, quando regger nol puote96, e gli va intorno errando:

89 Cercando... di salvarsi: Il giovine infelice andava (gìa) nei sentieri più intricati cercando di salvarsi. 90 gli facea... scarsi: gli rendeva vani tutti i tentativi.

91 falle: sbaglia. 92 ridutto: rifugiato. 93 torna... la traccia: torna sulle tracce

94 tuttavia: sempre. 95 torno: tornio. 96 nol puote: non lo può.

della propria morte.

L’Orlando furioso 3 755


7 come orsa, che l’alpestre cacciatore ne la pietrosa tana assalita abbia, sta sopra i figli con incerto core97, e freme in suono di pietà e di rabbia: ira la ’nvita e natural furore a spiegar l’ugne e a insanguinar le labbia98; amor la ’ntenerisce, e la ritira a riguardare ai figli in mezzo l’ira.

7 Nota l’efficacia rappresentativa del paragone scelto da Ariosto per descrivere lo stato d’animo di Medoro accerchiato dai cavalieri cristiani.

8 Cloridan, che non sa come l’aiuti, e ch’esser vuole a morir seco ancora, ma non ch’in morte prima il viver muti, che via non truovi ove più d’un ne mora99; mette su l’arco un de’ suoi strali acuti100, e nascoso con quel sì ben lavora, che fora ad uno Scotto101 le cervella, e senza vita il fa cader di sella. 9 Volgonsi tutti gli altri a quella banda ond’era uscito il calamo omicida102. Intanto un altro103 il Saracin ne manda, perché ’l secondo a lato al primo uccida; che mentre in fretta a questo e a quel domanda chi tirato abbia l’arco, e forte grida, lo strale arriva e gli passa la gola, e gli taglia pel mezzo la parola. 10 Or Zerbin, ch’era il capitano loro, non poté a questo104 aver più pazienza. Con ira e con furor venne a Medoro, dicendo: – Ne farai tu penitenza105. – Stese la mano in quella chioma d’oro, e strascinollo a sé con violenza: ma come gli occhi a quel bel volto mise, gli ne venne pietade, e non l’uccise.

97 con incerto core: indecisa (se assalire il cacciatore o difendere i piccoli). 98 ira... le labbia: l’ira e l’istintiva ferocia la inducono a sfoderare le unghie e a insanguinare il muso (cioè ad azzannare). 99 Cloridan… ne mora: Cloridano, che

non sa come aiutarlo (Medoro) e che vuole essere con lui (seco) anche nella morte, ma non trasformare la vita in morte (cioè senza morire) prima di aver trovato modo (via) per uccidere più di un nemico. 100 strali acuti: frecce acuminate. 101 Scotto: scozzese.

756 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

102 a quella... omicida: verso quella parte (banda) da dove era uscita la freccia (calamo) omicida. 103 un altro: un’altra freccia. 104 a questo: a questo punto. 105 Ne farai tu penitenza: Pagherai tu per queste morti.


11 Il giovinetto si rivolse a’ prieghi106, e disse: – Cavallier, per lo tuo Dio, non esser sì crudel, che tu mi nieghi ch’io sepelisca il corpo del re mio. Non vo’ ch’altra pietà per me ti pieghi, né pensi che di vita abbi disio107: ho tanta di mia vita, e non più, cura, quanta ch’al mio signor dia sepultura108.

11-12 La preghiera di Medoro a Zerbino, che risulta molto convincente, è incentrata ancora una volta sul tema della fedeltà al proprio signore che connota il personaggio fino alla fine.

12 E se pur pascer vòi fiere ed augelli, che ’n te il furor sia del teban Creonte109, fa lor convito di miei membri110, e quelli sepelir lascia del figliuol d’Almonte. – Così dicea Medor con modi belli, e con parole atte a voltare un monte111; e sì commosso già Zerbino avea, che d’amor tutto e di pietade ardea. 13 In questo mezzo112 un cavallier villano, avendo al suo signor poco rispetto, ferì con una lancia sopra mano113 al supplicante il delicato petto. Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano114; tanto più, che del115 colpo il giovinetto vide cader sì sbigottito e smorto, che ’n tutto giudicò che fosse morto. 14 E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse, che116 disse: – Invendicato già non fia! – e pien di mal talento117 si rivolse al cavallier che fe’ l’impresa ria118: ma quel prese vantaggio, e se gli119 tolse dinanzi in un momento, e fuggì via. Cloridan, che Medor vede per terra, salta del bosco a discoperta guerra120. 106 si rivolse a’ prieghi: si rivolse alle preghiere. 107 che di vita abbi disio: che abbia desiderio di vivere. 108 ho tanta… sepultura: mi interessa vivere per seppellire il mio signore. Letteralmente: “ho una preoccupazione pari (tanta… quanta) e non superiore (più) a quella di dare sepoltura al mio signore”. 109 E se pur… Creonte: Ma se proprio

vuoi far mangiare belve e uccelli (rapaci), in modo che sia in te la follia del tebano Creonte. Costui era il tiranno di Tebe che aveva stabilito per legge la pena di morte per chi seppellisse i nemici uccisi. 110 fa lor… membri: dai loro come pasto il mio corpo. 111 atte a… monte: capaci di capovolgere una montagna. 112 In questo mezzo: Nel bel mezzo.

113 sopra mano: che era impugnata sopra la spalla. 114 strano: immotivato. 115 del: per il. 116 se ne… dolse, che: se ne sdegnò e addolorò al punto che. 117 mal talento: istinto malvagio. 118 l’impresa ria: il gesto scellerato. 119 se gli: gli si. 120 discoperta guerra: scontro diretto.

L’Orlando furioso 3 757


15 E getta l’arco, e tutto pien di rabbia tra gli nimici il ferro121 intorno gira, più per morir, che per pensier ch’egli abbia di far vendetta che pareggi l’ira. Del proprio sangue rosseggiar la sabbia fra tante spade, e al fin venir si mira122; e tolto che si sente ogni potere, si lascia a canto al suo Medor cadere.

121 il ferro: la spada. 122 Del proprio sangue... si mira: Vede (si mira) la sabbia diventare rossa del proprio sangue e (si vede) giungere alla fine della vita.

Simone Peterzano, Angelica e Medoro, 1560-1596 (Parigi, Galerie Canesso).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Dopo aver analizzato il testo proposto, dividilo in sequenze e sintetizza il contenuto di ogni sequenza. 2. Cloridano e Medoro: due amici, come si è visto, legati da un sentimento profondo, ma assai diversi l’uno dall’altro. Dopo aver riletto attentamente l’episodio, tratteggia un ritratto per ciascuno di loro, a partire dall’aspetto fisico e approfondendo, poi, anche le caratteristiche psicologiche. COMPRENSIONE 3. Quali sono le motivazioni che muovono rispettivamente Medoro e Cloridano all’impresa? Confronta l’ottava 168, vv. 7-8 e l’ottava 171, vv. 2-4 e 7-8. 4. Come termina l’avventura dei due amici? ANALISI 5. Come riescono a riconoscere il corpo di Dardinello? 6. Individua i punti del testo in cui il narratore-autore interviene direttamente con il suo commento: quali ti sembrano le finalità di questi interventi? STILE 7. Individua il punto dell’episodio in cui Ariosto fa ricorso alla figura retorica della prosopopea e spiegane il significato in rapporto al contesto.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

TESTI A CONFRONTO 8. Ariosto e Virgilio: rintraccia l’episodio virgiliano di Eurialo e Niso a cui Ariosto si è ispirato (Eneide IX, v. 176 e sgg.) e approfondisci il confronto tra i due testi, indicando quali siano le differenze che ti sembra di riscontrare nel rapporto fra i due amici. Come si conclude la vicenda, nell’uno e nell’altro caso? 9. Nell’ottava 1 del canto XIX il narratore interviene per affermare che nessuno può sapere da chi sia amato veramente finché siede sulla ruota della Fortuna, ma quando la condizione da lieta diventa negativa, a rimanere sono solo i veri amici. Ti è mai capitato di essere abbandonato da un amico nel momento del bisogno? O, al contrario, ti è capitato di vivere un momento negativo nella tua vita nel quale sei stato confortato da un amico?

online T13 Ludovico Ariosto

Ricompare Angelica… ma è una nuova Angelica Orlando furioso XIX, 20-30; 33

758 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto


Ludovico Ariosto

T14

E cominciò la gran follia sì orrenda Orlando furioso XXIII, 100-121; 126-136; XXIV, 1-7

L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Siamo giunti al momento culminante nella parabola narrativa del Furioso e all’episodio che dà il nome all’intero poema e in cui questo si identifica. Nelle sue peregrinazioni, Orlando giunge per caso proprio sul luogo che è stato teatro degli amori tra Angelica e Medoro (che la giovane aveva soccorso e di cui poi si era innamorata); qui il paladino vede i loro nomi intrecciati scritti ovunque. Inizialmente non vuole arrendersi all’evidenza e cerca di dare spiegazioni del tutto improbabili a quello che vede, ma il progressivo accumularsi di prove, fino a quella definitiva e inequivocabile, lo priva alla fine di ogni possibile illusione su quanto è accaduto. Impazzito, cade preda di una furia violenta che si abbatte sopra ogni cosa, trasformandosi da eroico paladino in una belva feroce.

CANTO XIII, 100-121 100 Lo strano corso che tenne il cavallo del Saracin1 pel bosco senza via, fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo2, né lo trovò, né poté averne spia3. Giunse ad un rivo che parea cristallo, ne le4 cui sponde un bel pratel5 fioria, di nativo color vago e dipinto6, e di molti e belli arbori distinto7.

102 Volgendosi ivi intorno, vide scritti14 molti arbuscelli in su l’ombrosa riva. Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti15, fu certo esser di man de la sua diva16. Questo era un di quei lochi17 già descritti, ove sovente con Medor veniva da casa del pastore indi18 vicina la bella donna del Catai regina19.

101 Il merigge facea grato l’orezzo8 al duro9 armento ed al pastore ignudo; sì che né10 Orlando sentia alcun ribrezzo11, che la corazza avea, l’elmo e lo scudo. Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; e v’ebbe travaglioso albergo e crudo12, e più che dir si possa empio13 soggiorno, quell’infelice e sfortunato giorno.

103 Angelica e Medor20 con cento nodi legati insieme, e in cento lochi vede. Quante lettere son, tanti son chiodi coi quali Amore il cor gli punge e fiede21. Va col pensier cercando in mille modi non creder quel ch’al suo dispetto22 crede: ch’altra Angelica sia, creder si sforza, ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza23.

La metrica Strofe di ottave: quattro cop-

6 di nativo... dipinto: bello e colorato

pie di endecasillabi, tre a rima alternata, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC

per i fiori che vi erano nati. 7 di molti... distinto: adorno di numerosi begli alberi. 8 Il merigge... l’orezzo: il caldo del pomeriggio rendeva gradita la frescura. 9 duro: resistente (alle fatiche). 10 né: neppure. 11 ribrezzo: brivido di freddo. 12 travaglioso albergo e crudo: un riparo angoscioso e crudele. 13 empio: spietato. 14 scritti: incisi. 15 Tosto che... fitti: Non appena vi ebbe posato gli occhi e fissato lo sguardo. 16 de la sua diva: della sua dea, Angelica.

1

Saracin: è Mandricardo, che Orlando stava inseguendo. Il loro duello era stato interrotto dal cavallo di Mandricardo che, imbizzarrito («Lo strano corso… pel bosco senza via»), era scappato via col il suo cavaliere. 2 in fallo: sbagliando strada, girovagando a vuoto. 3 averne spia: averne una traccia, un indizio. 4 ne le: alle. 5 pratel: praticello.

17 lochi: luoghi. È un riferimento al canto precedente.

18 indi: a quel luogo. 19 la bella donna del Catai regina: altra perifrasi (è soggetto di veniva) per indicare Angelica. 20 Angelica e Medor: si intendono i loro nomi, che Orlando vede numerosissimi scritti ovunque (in cento lochi) intrecciati insieme (con cento nodi). 21 Quante lettere… fiede: Ognuna delle lettere che compongono quelle scritte sono chiodi con i quali Amore trafigge e ferisce (fiede) il cuore del misero Orlando. 22 al suo dispetto: suo malgrado. 23 scorza: corteccia.

L’Orlando furioso 3 759


104 Poi dice: – Conosco io pur queste note24: di tal’io n’ho tante vedute e lette. Finger questo Medoro ella si puote25: forse ch’a me questo cognome mette26. – Con tali opinion dal ver remote usando fraude a sé medesmo27, stette ne la speranza il malcontento Orlando, che si seppe a se stesso ir procacciando28.

107 Il mesto conte a piè quivi discese38; e vide in su l’entrata de la grotta parole assai, che di sua man distese Medoro avea39, che parean scritte allotta40. Del gran piacer che ne la grotta prese, questa sentenza in versi avea ridotta41. Che fosse culta in suo linguaggio io penso42; ed era ne la nostra tale il senso43 :

105 Ma sempre più raccende e più rinuova, quanto spenger più cerca, il rio sospetto29: come l’incauto augel30 che si ritrova in ragna o in visco aver dato di petto31, quanto più batte l’ale e più si prova di disbrigar32, più vi si lega stretto. Orlando viene ove s’incurva il monte a guisa d’arco in su la chiara fonte33.

108 – Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelunca opaca e di fredde ombre grata44, dove la bella Angelica che nacque di Galafron, da molti invano45 amata, spesso ne le mie braccia nuda giacque; de la commodità46 che qui m’è data, io povero Medor ricompensarvi d’altro non posso, che d’ognor lodarvi47:

106 Aveano in su l’entrata il luogo adorno coi piedi storti edere e viti erranti34. Quivi soleano al più cocente giorno35 stare abbracciati i duo felici amanti36. V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno, più che in altro dei luoghi circostanti, scritti, qual con carbone e qual con gesso, e qual con punte di coltelli impresso37.

109 e di pregare48 ogni signore amante49, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o viandante50, che qui sua volontà meni o Fortuna51; ch’all’erbe, all’ombre, all’antro52, al rio, alle piante dica: benigno abbiate53 e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia54 che non conduca a voi pastor mai greggia55. –

24 Conosco... note: Eppure io riconosco questi caratteri; cioè la scrittura di Angelica. 25 Finger... si puote: Ella può essersi inventata questo Medoro. 26 forse... mette: forse è a me che mette questo soprannome (cognome). 27 Con tali... medesmo: Con queste idee lontane dalla realtà (dal ver remote), ingannando sé stesso. 28 stette... procacciando: l’infelice (malcontento) Orlando si cullò nella speranza che era riuscito a procurarsi («a se stesso ir procacciando»). 29 sempre più... rio sospetto: quanto più (Orlando) cerca di mettere a tacere (spenger “spegnere”) il terribile (rio) sospetto, tanto più gli dà forza ([lo] raccende) e lo rinnova (rinuova). 30 augel: uccello. 31 che si ritrova… di petto: che si ritrova a sbattere con il petto nella rete (in ragna) o nel vischio (in visco). Sono trappole per catturare gli uccelli, nelle maglie di una rete o in una sostanza appiccicosa. 32 disbrigar: sciogliersi.

33 ove s’incurva… fonte: dove il monte, sopra la limpida fonte, forma un’altura, curva come (a guisa) un arco. Cioè una specie di grotta. 34 Aveano... erranti: Edere e viti rampicanti (erranti) avevano adornato (aveano adorno) il luogo, all’entrata, con i (loro) ceppi (piedi) storti. 35 al più cocente giorno: nel momento più caldo della giornata. 36 i duo felici amanti: Angelica e Medoro. 37 impresso: intagliato. 38 Il mesto conte a piè quivi discese: Orlando (Il mesto [“triste”] conte) scese qui a piedi (da cavallo). 39 distese Medoro avea: Medoro aveva tracciate. 40 allotta: proprio in quel momento. 41 Del gran piacere… ridotta: Medoro aveva messo in versi questo pensiero (sentenza) sul grande piacere di cui aveva goduto in quella grotta. 42 Che fosse culta... io penso: Penso che fosse stato composto (il pensiero) nella sua lingua, ossia in arabo. Medoro proveniva infatti dalla Cirenaica.

760 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

43 era... il senso: tale era il senso nella nostra (lingua).

44 spelunca... grata: grotta buia e gradevole per la fresca ombra che offre. 45 invano: inutilmente, perché non ricambiati. 46 commodità: riparo. 47 ricompensarvi... lodarvi: non posso ricompensarvi in altro modo, che lodandovi sempre (ognor). 48 e di pregare: e (non posso ricompensarvi) che pregando. 49 signore amante: nobile innamorato. 50 o paesana o viandante: o originaria di questo paese o qui solo di passaggio. 51 che qui... Fortuna: che qui (nella grotta, la spelunca dell’ott. 108, v. 2) porti la sua volontà o il caso. Cioè che qui giunga per sua volontà o condotto dal caso. 52 antro: grotta. 53 benigno abbiate: vi siano favorevoli. 54 proveggia: faccia in modo che. 55 non conduca... greggia: nessun pastore porti mai il proprio gregge (a pascolare) tra voi, deturpandovi.


110 Era scritto in arabico56, che ’l conte intendea57 così ben come latino: fra molte lingue e molte ch’avea pronte58, prontissima avea quella il paladino; e gli schivò più volte e danni ed onte59, che60 si trovò tra il popul saracino: ma non si vanti, se già n’ebbe frutto61; ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto62.

113 L’impetuosa doglia71 entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta. Così veggiàn restar l’acqua nel vase, che largo il ventre e la bocca abbia stretta72; che nel voltar che si fa in su la base, l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta, e ne l’angusta via tanto s’intrica, ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica73.

111 Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur63 cercando invano che non vi fosse quel che v’era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano64: ed ogni volta in mezzo il petto afflitto stringersi il cor sentia con fredda mano. Rimase al fin con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente65.

114 Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come possa esser che non sia la cosa vera74: che voglia alcun così infamare il nome de la sua donna e crede e brama e spera75, o gravar lui d’insopportabil some tanto di gelosia, che se ne pèra76; ed abbia quel, sia chi si voglia stato, molto la man di lei bene imitato77.

112 Fu allora per uscir del sentimento sì tutto in preda del dolor si lassa66. Credete a chi n’ha fatto esperimento67, che questo è ’l duol68 che tutti gli altri passa69. Caduto gli era sopra il petto il mento, la fronte priva di baldanza e bassa; né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto) alle querele voce, o umore al pianto70.

115 In così poca, in così debol speme78 sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco79; indi al suo Brigliadoro il dosso preme80, dando già il sole alla sorella loco81. Non molto va, che da le vie supreme dei tetti82 uscir vede il vapor del fuoco, sente cani abbaiar, muggiare83 armento: viene alla villa84, e piglia alloggiamento.

56 arabico: arabo. 57 intendea: capiva. 58 fra molte... pronte: fra le moltissime lingue che il paladino padroneggiava, conosceva benissimo quella. 59 gli schivò... onte: gli evitò danni e ignominia. 60 che: è riferito a più volte del verso precedente, nel senso di “allorché, tutte le volte che”. 61 se già n’ebbe frutto: se un tempo ne ricavò un vantaggio. 62 può scontargli il tutto: può compensare qualsiasi guadagno mai avuto. 63 pur: sempre. 64 piano: semplice, facile da capire. 65 al sasso indifferente: non diverso dal sasso. Cioè Orlando è diventato come un sasso, è come pietrificato. 66 Fu allora per uscir… si lassa: Allora fu sul punto di perdere la ragione, tanto si abbandona in preda al dolore.

67 n’ha fatto esperimento: l’ha provato

75 che voglia... e spera: che qualcuno

di persona. È un riferimento che Ariosto fa alla propria vita. 68 duol: dolore. 69 passa: supera. 70 né poté… al pianto: e dal momento che il dolore si era del tutto impadronito di lui, non riuscì a trovar voce per esprimere i propri lamenti (querele), né lacrime (umore “liquido”) per piangere. 71 L’impetuosa doglia: Il violento dolore. 72 Così veggiàn… stretta: Allo stesso modo vediamo che rimane all’interno il liquido contenuto in un vaso con il corpo largo e l’imboccatura stretta. 73 che nel voltar… a fatica: che quando si capovolge la base verso l’alto, il liquido che vorrebbe uscire va tanto veloce e si ingolfa nel passaggio stretto che ne esce a fatica, goccia a goccia. 74 pensa… la cosa vera: pensa in quale modo ciò che ha visto possa essere non vero.

voglia in questo modo gettare discredito sul nome della sua donna, e lo crede, lo desidera, lo spera. Il soggetto è Orlando. 76 o gravar… che se ne pèra: o far ricadere su di lui il peso (some) di una gelosia tanto grande, da farlo morire (che se ne pèra “che se ne muoia”). 77 ed abbia quel... imitato: e (pensa che) costui, chiunque sia stato, abbia imitato la scrittura di Angelica (la man di lei). 78 speme: speranza. 79 sveglia... poco: ritorna in sé stesso e riacquista un po’ di coraggio. gli vale li (“gli spiriti”). 80 il dosso preme: monta in sella. 81 dando... loco: quando ormai il sole lasciava il posto alla sorella, la Luna. 82 da le vie... tetti: dalle aperture nel punto più alto dei tetti, ossia dai comignoli. 83 muggiare: muggire. 84 villa: fattoria.

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116 Languido smonta85, e lascia Brigliadoro a un discreto86 garzon che n’abbia cura; altri il disarma, altri gli sproni d’oro gli leva, altri87 a forbir va88 l’armatura. Era questa la casa ove Medoro giacque ferito, e v’ebbe alta avventura89. Corcarsi Orlando e non cenar domanda90, di dolor sazio e non d’altra vivanda.

119 come esso a prieghi99 d’Angelica bella portato avea Medoro alla sua villa, ch’era ferito gravemente; e ch’ella curò la piaga, e in pochi dì guarilla100: ma che nel cor d’una maggior di quella lei ferì Amor101; e di poca scintilla l’accese tanto e sì cocente fuoco, che n’ardea tutta, e non trovava loco102:

117 Quanto più cerca ritrovar quiete, tanto ritrova più travaglio91 e pena; che de l’odiato scritto92 ogni parete, ogni uscio, ogni finestra vede piena. Chieder ne vuol: poi tien le labra chete93; che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia cerca offuscar, perché men nuocer debbia94.

120 e sanza aver rispetto103 ch’ella fusse figlia del maggior re ch’abbia il Levante, da troppo amor costretta104 si condusse105 a farsi moglie d’un povero fante. All’ultimo l’istoria si ridusse, che ’l pastor fe’ portar la gemma inante, ch’alla sua dipartenza, per mercede del buono albergo, Angelica gli diede106.

118 Poco gli giova usar fraude a se stesso95; che senza domandarne, è chi ne parla96. Il pastor che lo vede così oppresso da sua tristizia, e che voria levarla97, l’istoria nota a sé, che dicea spesso di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, ch’a molti dilettevole fu a udire, gl’incominciò senza rispetto a dire98:

121 Questa conclusion fu la secure107 che ’l capo a un colpo108 gli levò dal collo, poi che d’innumerabil battiture si vide il manigoldo Amor satollo109. Celar si studia Orlando il duolo110; e pure quel gli fa forza, e male asconder pòllo111: per lacrime e suspir da bocca e d’occhi convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi112.

85 Languido smonta: Spossato, smonta da cavallo. 86 discreto: abile. 87 altri... altri: un altro garzone..., un altro..., un altro ancora. 88 a forbir va: va a lucidare. 89 v’ebbe alta avventura: vi trovò la fortuna grandissima (di ottenere l’amore di Angelica). 90 Corcarsi... domanda: Orlando va a coricarsi e non chiede di cenare. 91 travaglio: tormento. 92 de l’odiato scritto: delle incisioni odiate, con le scritte dei nomi intrecciati di Angelica e Medoro. 93 le labra chete: la bocca chiusa. 94 che teme… nuocer debbia: poiché ha paura che diventi troppo evidente (serena) e troppo chiara la cosa che lui cerca di tenersi nascosta («di nebbia cerca offuscar») perché non lo faccia soffrir troppo.

95 usar fraude a se stesso: ingannare sé stesso. 96 che senza... ne parla: che c’è chi gliene parla senza bisogno che lui faccia domande. 97 levarla: darle sollievo. 98 l’istoria... a dire: incominciò a narrargli, senza riguardo (rispetto), la storia, a lui ben nota, dei due amanti che raccontava spesso a chi la voleva ascoltare, dato che fu un gran diletto per molti l’ascoltarla. 99 a prieghi: per le preghiere. 100 guarilla: la guarì. 101 nel cor... Amor: Amore la colpì al cuore con una ferita maggiore di quella (piaga). 102 loco: pace. 103 sanza aver rispetto: senza preoccuparsi. 104 costretta: vinta. 105 si condusse: giunse.

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106 All’ultimo l’istoria… Angelica gli diede: Il racconto giunse alla fine in questo modo, che il pastore si fece portare il gioiello donatogli da Angelica alla sua partenza, come segno di riconoscenza (per mercede) per la buona ospitalità (albergo) ricevuta. 107 secure: scure. 108 a un colpo: con un sol colpo. 109 poi che… satollo: dopo che quel carnefice di Amore si considerò soddisfatto (satollo “sazio”) per gli innumerevoli colpi inferti (a Orlando). 110 Celar... il duolo: Orlando si sforza di nascondere il dolore. 111 e pure… pòllo: ma il dolore si impone su di lui, ed egli riesce a nasconderlo male. pòllo “lo può”. 112 convien... che scocchi: è inevitabile che alla fine esca fuori, volente o nolente.


[Dopo la terribile rivelazione, Orlando cerca pace invano. Senza riuscire a prender sonno, lascia nottetempo la dimora del pastore e, appena solo, dà libero sfogo al proprio dolore con urla e pianti. Fugge i luoghi abitati, dorme per terra nella foresta e si chiede come possa sopravvivere a tanto strazio.]

CANTO XXIII, 126-136 126 – Queste non son più lacrime, che fuore stillo113 dagli occhi con sì larga vena114. Non suppliron le lacrime al dolore115: finir, ch’a mezzo era il dolore a pena116. Dal fuoco spinto ora il vitale umore fugge per quella via ch’agli occhi mena117; ed è quel che si versa, e trarrà insieme e ’l dolore e la vita all’ore estreme118.

128 Non son, non sono io quel che paio125 in viso: quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra126. Io son lo spirto suo da lui diviso, ch’in questo inferno tormentandosi erra, acciò con l’ombra sia, che sola avanza, esempio a chi in Amor pone speranza127. –

127 Questi ch’indizio fan del mio tormento119, sospir non sono, né i sospir sono tali120. Quelli han triegua talora; io mai non sento che ’l petto mio men la sua pena esali121. Amor che m’arde il cor, fa questo vento122, mentre dibatte intorno al fuoco l’ali123. Amor, con che miracolo lo fai, che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai124?

129 Pel bosco errò tutta la notte il conte; e allo spuntar de la diurna fiamma128 lo tornò129 il suo destin sopra la fonte dove Medoro isculse l’epigramma130. Veder l’ingiuria sua scritta nel monte l’accese sì, ch’in lui non restò dramma131 che non fosse odio, rabbia, ira e furore; né più indugiò, che trasse il brando fuore132.

113 stillo: verso. 114 con sì larga vena: tanto abbondantemente. 115 Non suppliron... al dolore: Le lacrime non furono abbastanza per il dolore. 116 finir... a pena: finirono, quando il dolore non era giunto che a metà. 117 Dal fuoco spinto... mena: Spinto dal fuoco della passione amorosa, ora il liquido della vita esce attraverso quella via che porta (mena) agli occhi. Secondo la medicina antica, la vita e la salute risiedevano negli umori vitali (il vitale umore). Orlando crede che non siano più lacrime quelle che sta versando, perché è impossibile che tante ne escano dagli occhi, ma che sia l’umore vitale che sta abbandonando il suo corpo, fino a farlo morire, come dice subito dopo.

118 trarrà… estreme: condurrà alla fine sia il dolore che la vita. 119 Questi... mio tormento: Questi (sospir) che rendono visibile il mio dolore. 120 né i sospir sono tali: e i sospiri non son come questi. 121 Quelli… esali: Quelli (i sospir) di quando in quando si placano, mentre io non sento mai che il mio dolore si esprima con minor sospirare. 122 fa questo vento: (Amore) produce questi sospiri. 123 mentre dibatte... l’ali: mentre sbatte le ali attorno al fuoco dell’amore, che arde dentro al misero Orlando, per ravvivarlo. 124 Amor, con che... nol consumi mai: Amore, con che portento (lo è pleonasmo) fai che (il cor, v. 5) bruci sempre, senza che mai si consumi?

125 paio: sembro. 126 sì, mancando... fatto guerra: tanto gli è stata nemica, non mantenendo la fedeltà. Cioè tradendolo. 127 acciò… speranza: affinché con la sua ombra, che è l’unica cosa che resta, sia d’esempio a quanti ripongono le proprie speranze in Amore. 128 la diurna fiamma: il Sole. 129 lo tornò: lo ricondusse. Il soggetto è il suo destin. 130 isculse l’epigramma: scolpì l’epigramma (ott. 108-109). 131 dramma: la più piccola quantità. 132 trasse il brando fuore: estrasse la spada.

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130 Tagliò lo scritto e ’l sasso133, e sin al cielo a volo alzar fe’ le minute schegge. Infelice quell’antro, ed ogni stelo134 in cui Medoro e Angelica si legge! Così restar quel dì, ch’ombra né gielo a pastor mai non daran più, né a gregge135: e quella fonte, già si chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura136;

133 Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo: l’arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo146. E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l’ispido147 ventre e tutto ’l petto e ’l tergo148; e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch’intenda149.

131 che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell’onde, fin che da sommo ad imo sì turbolle che non furo mai più chiare né monde137. E stanco al fin, e al fin di sudor molle138, poi che la lena vinta non risponde139 allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira, cade sul prato, e verso il ciel sospira.

134 In tanta rabbia, in tanto furor venne, che rimase offuscato in ogni senso. Di tor la spada in man non gli sovenne150; che fatte avria mirabil cose, penso. Ma né quella, né scure, né bipenne151 era bisogno152 al suo vigore immenso. Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse153, ch’un alto pino al primo crollo svelse154:

132 Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba, e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto140. Senza cibo e dormir così si serba141, che ’l sole esce tre volte e torna sotto142. Di crescer non cessò la pena acerba143, che fuor del senno al fin l’ebbe condotto. Il quarto dì, da gran furor commosso144, e maglie e piastre145 si stracciò di dosso.

135 e svelse dopo il primo altri parecchi, come fosser finocchi, ebuli o aneti155; e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi, di faggi e d’orni e d’illici156 e d’abeti. Quel ch’un ucellator che s’apparecchi il campo mondo, fa, per por le reti, dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche, facea de cerri e d’altre piante antiche157.

133 Tagliò... sasso: Spezzò la roccia e quanto vi era scritto sopra. 134 stelo: tronco d’albero. 135 Così restar… né a gregge: Quel giorno furono ridotti in modo tale che non poterono mai più offrire ombra o frescura né a pastore, né a gregge. 136 da cotanta... sicura: non si salvò da un’ira tanto violenta. 137 da sommo… né monde: le sconvolse tanto dalla superficie al fondo, che non furono mai più limpide né pulite. 138 molle: madido. 139 la lena... risponde: l’energia esaurita non asseconda più. 140 non fa motto: non dice una parola. 141 si serba: rimane. 142 che ’l sole... torna sotto: per tre giorni.

143 acerba: amara. 144 da gran furor commosso: scosso, sconvolto. 145 e maglie e piastre: le maglie e le piastre. Elementi che costituiscono le parti dell’armatura. 146 avean pel bosco differente albergo: erano finite in punti diversi del bosco (albergo “collocazione”). 147 ispido: coperto di peli, irsuto. 148 tergo: schiena. 149 che de la più... ch’intenda: che non vi sarà mai chi sentirà parlare d’una follia più grande di questa. 150 Di tor... gli sovenne: Non gli venne in mente di prendere la spada in mano. 151 bipenne: ascia a due lame. 152 era bisogno: erano necessarie.

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153 Quivi fe’... prove eccelse: Qui diede veramente le sue più straordinarie prove di forza. 154 al primo crollo svelse: sradicò scrollandolo solo una volta. 155 finocchi, ebuli o aneti: piante da orto, molto tenere, con steli sottili. Gli ebuli sono una specie di sambuco, l’aneto è una pianta aromatica affine al finocchio. 156 illici: elci. 157 Quel ch’un ucellator… piante antiche: di cerri (piante ad alto fusto simili alle querce) e di altre piante secolari fa la stessa cosa che un cacciatore di uccelli fa dei giunchi, delle stoppe e delle ortiche, quando ripulisce il campo («s’apparecchi il campo mondo») per sistemarci le sue reti.


136 I pastor che sentito hanno il fracasso, lasciando il gregge sparso alla158 foresta, chi di qua, chi di là, tutti a gran passo vi vengono a veder che cosa è questa. Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo vi potria la mia istoria esser molesta159; ed io la vo’ più tosto diferire, che v’abbia per lunghezza a fastidire.

3 Ben mi si potria dir: – Frate169, tu vai l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo170. – Io vi rispondo che comprendo assai, or che di mente ho lucido intervallo171; ed ho gran cura172 (e spero farlo ormai) di riposarmi e d’uscir fuor di ballo173: ma tosto174 far, come vorrei, nol posso; che ’l male è penetrato infin all’osso.

CANTO XXIV, 1-7 1 Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale160; che non è in somma amor, se non insania, a giudizio de’ savi universale161: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch’altro segnale162. E quale è di pazzia segno più espresso163 che, per altri voler, perder se stesso?

4 Signor, ne l’altro canto io vi dicea che ’l forsennato e furioso Orlando trattesi l’arme e sparse al campo avea175, squarciati i panni, via gittato il brando, svelte le piante, e risonar facea i cavi sassi176 e l’alte177 selve; quando alcun’ pastori al suon trasse in quel lato lor stella, o qualche lor grave peccato178.

2 Vari gli effetti son, ma la pazzia è tutt’una però, che li fa uscire164. Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire165: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia166. Per concludere in somma, io vi vo’dire: a chi in amor s’invecchia167, oltr’ogni pena, si convengono i ceppi e la catena168.

5 Viste del pazzo l’incredibil prove179 poi più d’appresso180 e la possanza181 estrema, si voltan per fuggir, ma non sanno ove, sì come avviene in subitana tema182. Il pazzo dietro lor ratto183 si muove: uno ne piglia, e del capo lo scema184 con la facilità che torria alcuno da l’arbor pome, o vago fior dal pruno185.

158 alla: nella. 159 son giunto... molesta: sono arrivato a quel limite (segno), passato il quale la mia storia potrebbe infastidirvi. 160 Chi mette... l’ale: Chi posa il piede sulla trappola che gli è tesa da Amore (cioè chi si innamora), cerchi di ritrarlo e non si lasci invischiare le ali. La pania è una trappola per uccelli: è una sostanza collosa e adesiva, ottenuta dalle bacche del vischio, con cui si cospargevano i rami. 161 che non è… universale: che alla fin fine, secondo l’universale giudizio dei saggi, amore non è altro che follia. 162 a qualch’altro segnale: in qualche altro modo, con qualche altra manifestazione. 163 espresso: esplicito. 164 li fa uscire: li origina.

165 ove… fallire: dove è inevitabile che colui che vi entra smarrisca la giusta direzione. 166 travia: esce di strada. 167 a chi in amor s’invecchia: per chi insiste a inseguire l’amore. 168 i ceppi e la catena: sono strumenti usati per immobilizzare i pazzi furiosi. 169 Frate: Fratello, amico. 170 fallo: errore. 171 or che... intervallo: ora che sto attraversando un momento di lucidità mentale. 172 ho gran cura: sono fermamente determinato. 173 d’uscir fuor di ballo: di uscire dal ballo. Cioè di non farmi più coinvolgere dall’amore. 174 tosto: velocemente.

175 trattesi... avea: si era tolto le armi e le aveva sparse tutte in giro.

176 i cavi sassi: le grotte. 177 alte: fitte, profonde. 178 quando alcun’... grave peccato: quando un destino infausto, o qualche grave peccato da loro commesso, condusse in quel luogo (lato) alcuni pastori richiamati dal rumore. 179 prove: atti, gesti. 180 più d’appresso: più da vicino. 181 possanza: potenza. 182 subitana tema: improvviso spavento. 183 ratto: veloce. 184 del capo lo scema: gli leva la testa. 185 che torria... pruno: con cui qualcun altro staccherebbe (torria “toglierebbe”) un frutto dall’albero o un bel (vago) fiore dal ramo.

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6 Per una gamba il grave tronco186 prese, e quello usò per mazza adosso al resto187: in terra un paio addormentato stese, ch’al novissimo dì forse fia desto188. Gli altri sgombraro subito il paese, ch’ebbono il piede e il buono aviso presto189. Non saria stato il pazzo al seguir lento, se non ch’era già volto al loro armento190. 186 il grave tronco: il pesante corpo del contadino a cui aveva staccato la testa. 187 al resto: sottinteso “dei contadini”. 188 ch’al... fia desto: che forse si risveglierà (fia, “sarà”, desto) il giorno del giudizio. 189 ch’ebbono... presto: che ebbero pronto (presto) il piede e la saggia deci-

7 Gli agricultori, accorti agli altru’ esempli191, lascian nei campi aratri e marre192 e falci: chi monta su le case e chi sui templi193 (poi che non son sicuri olmi né salci), onde l’orrenda furia si contempli194, ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge; e ben è corridor chi da lui fugge195.

sione. Cioè che decisero subito di darsela a gambe il più velocemente possibile. 190 Non saria… armento: Il pazzo non avrebbe tardato a inseguirli, se non fosse che già la sua attenzione si era spostata sulle loro greggi. 191 accorti agli altru’ esempli: resi accorti

dall’esempio di quanto era capitato agli altri. 192 marre: tipo di zappa. 193 templi: chiese. 194 onde l’orrenda furia si contempli: da dove poter assistere all’orribile pazzia. 195 ben è corridor chi da lui fugge: chi riesce a sfuggirgli è davvero un velocista.

Analisi del testo La struttura Questo celebre episodio rappresenta il progressivo sprofondare del paladino Orlando nell’abisso della pazzia che, da eroe saggio e campione senza macchia della cavalleria, lo ridurrà alla condizione di animale feroce, privo del controllo della razionalità: “furioso”, per l’appunto. L’architettura del poema conferma l’assoluta centralità di questo evento: ci troviamo infatti a metà, in corrispondenza di quello che può essere considerato il culmine narrativo dell’opera. L’approdo di Orlando alla pazzia è costruito da Ariosto con grande sapienza narrativa, attraverso una serie di tappe che corrispondono almeno in parte alle principali sequenze: 1. La prima tappa (ott. 100-105) Condotto da un caso quanto mai beffardo e spietato, Orlando giunge nel luogo che era stato teatro degli amori tra Angelica e Medoro; amori i cui segni sono visibili ovunque, sotto forma dei nomi dei due incisi sulle cortecce degli alberi «con cento nodi legati insieme». Il paladino si arrabatta a cercare scuse e pretesti per allontanare da sé un’evidenza troppo dolorosa: è il primo gradino della sua discesa nell’inferno della pazzia. 2. La seconda tappa (ott. 106-114) Orlando ha la sfortuna di capitare proprio nella grotta che aveva offerto riparo agli amanti, dove i loro nomi si moltiplicano come in una sequenza ossessiva («V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno, / più che in altro dei luoghi circostanti»), e dove è inciso anche un epigramma composto da Medoro per celebrare le proprie fortune amorose. Orlando cerca ancora di negare a sé stesso una realtà ormai inconfutabile, con argomentazioni che appaiono però sempre più stentate. 3. La terza tappa (ott. 115-121) La beffa del destino conduce infine il paladino alla casa del pastore che aveva offerto ospitalità ad Angelica e Medoro. Quello che non era riuscito a fare l’accumulo di “prove indiziarie”, lo ottengono le parole di un testimone oculare e soprattutto un “oggetto rivelatore”: credendo di portare un po’ di sollievo all’animo del triste cavaliere, il buon pastore gli procura invece un profondo dolore, raccontandogli per filo e per segno la storia dei due amanti, da lui accolti proprio in quella fattoria. Come se non bastasse, gli mostra anche la gemma donatagli da Angelica in segno di riconoscenza, oggetto che diventa la materializzazione del peggiore incubo di Orlando («la secure / che ’l capo a un colpo gli levò dal collo»). 4. Il precipitare degli eventi (ott. 122-131) Da qui in avanti assistiamo a un precipitare degli eventi, con un tracollo rovinoso che condurrà il paladino sino alla follia totale: Orlando, ormai vittima di pensieri ossessivi che non lo abbandonano un istante (tutto intorno a lui gli parla dell’amore di Angelica e Medoro), abbandona la casa del pastore in una fuga forsennata, dando sfogo al proprio dolore con pianti, gemiti e lamenti. Mentre vaga fuori di sé, Orlando si ritrova in quei medesimi luoghi dove, solo poche ore prima, aveva fatto di tutto per negare l’evidenza dei segni che rivelavano la passione tra Angelica e il rivale. Il dolore si trasforma allora in rabbia furiosa: il cavaliere distrugge la grotta degli amanti, sradica alberi e frantuma rocce in un eccesso di violenza sovrumana che spazza via ogni traccia di quello che era un perfetto locus amoenus.

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5. L’inizio della follia (ott. 132-136) Sfinito dopo questo sfogo di cieca rabbia, Orlando rimane steso a terra per tre giorni, senza mangiare né dormire, completamente svuotato di ogni energia finché, il quarto giorno, viene ripreso dal furore e compie un gesto altamente simbolico, che sancisce l’abbandono definitivo degli ideali cavallereschi e l’entrata nel labirinto della follia: il paladino si strappa l’armatura di dosso. 6. Orlando “furioso” (canto XXIV, ott. 4-7) A questo punto la narrazione si sospende per riprendere nel canto successivo dove, dopo tre ottave introduttive riservate a un commento dell’autore sul tema della follia amorosa, vediamo la rabbia di Orlando trasformarsi in vera e propria furia omicida ai danni degli ignari e sfortunati pastori accorsi all’udire il fracasso provocato dal cavaliere.

Una fenomenologia della gelosia Come spesso accade in Ariosto, anche qui assistiamo al rimaneggiamento di un tema narrativo preesistente. La pazzia amorosa di Orlando si ispira alle vicende del Tristano arturiano (dal quale riprende in parte anche il “copione” del manifestarsi della follia,➜ C15 OL), convinto – lui a torto, però – di essere tradito dall’amata Isotta. Ma qui l’episodio si arricchisce di risvolti psicologici del tutto assenti nella vicenda bretone, forse anche in rapporto a un’esperienza realmente vissuta dall’autore stesso, come Ariosto sembra confermare, seppur con l’abituale leggera ironia (ott. 112, canto XXIV, ott. 3).

Il meccanismo della rimozione… La progressiva scoperta di indizi sempre più chiari e inequivocabili si alterna in Orlando a una caparbia volontà di negare l’evidenza: le inverosimili spiegazioni mediante le quali il paladino cerca di autoconvincersi che la realtà non sia quella che vede rimandano ai meccanismi della “rimozione”, descritti dalla moderna psicoanalisi come procedimenti mentali attraverso cui un individuo cerca di “rimuovere”, cioè di dimenticare, un evento traumatico o anche solo sgradevole senza rendersene conto completamente: «ch’altra Angelica sia, creder si sforza, / ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza» (ott. 103); «Finger questo Medoro ella si puote: / forse ch’a me questo cognome mette» (ott. 104); «pensa come / possa esser che non sia la cosa vera: / che voglia alcun così infamare il nome / de la sua donna e crede e brama e spera» (ott. 114).

… e la metafora della nebbia Tale atteggiamento trova poi la rappresentazione più significativa nella metafora della nebbia, nella quale il cavaliere vuole tenere avvolta una realtà per lui troppo dolorosa; arrivato alla casa del pastore, Orlando vede incisi ovunque i nomi di Angelica e Medoro (e a questo punto sorge quasi il dubbio che non si tratti di scritte reali ma di una fantasia ossessiva), ma non fa domande, per paura di scoprire qualcosa che non sarebbe in grado di sopportare: «Chieder ne vuol: poi tien le labbra chete; / che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia / cerca offuscar, perché men nuocer debbia».

Il meccanismo del ribaltamento Per Orlando, il tradimento di Angelica (che in realtà, a ben vedere, tradimento non è; ma è indicativo che il paladino lo veda in questo modo…) rappresenta il ribaltamento di un intero sistema di valori sul quale si fonda l’intera sua esistenza: è l’etica cortese stessa, infatti, che si sgretola davanti ai suoi occhi esterrefatti, un’etica di cui faceva parte anche il principio dantesco dell’«amor ch’a nullo amato amar perdona», che autorizzava Orlando a considerare l’amore di Angelica come cosa a lui dovuta. Così non è, e la ferale scoperta si annuncia attraverso alcuni significativi ribaltamenti di topoi e “codici culturali” canonici.

La distruzione del locus amoenus L’episodio si apre con l’arrivo casuale di Orlando in un tipico paradiso pastorale, solito scenario di sentimenti sereni e armoniosi; la descrizione è assai dettagliata e si sofferma su elementi paradigmatici, quasi che Ariosto abbia voluto riprodurre fedelmente un catalogo ben noto al suo pubblico: il «rivo che parea cristallo», il bel pratel adorno di fiori multicolori e ombreggiato da «molti e belli arbori». Questo quadro sembrerebbe introdurre una situazione idilliaca, mentre diventerà il luogo che fornirà a Orlando i primi indizi del tradimento di Angelica e che, non a caso, la furia del paladino distruggerà nel giro di poche ottave.

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La corrosione del “codice petrarchesco” Un altro ribaltamento cui assistiamo è quello del codice petrarchesco, ironicamente riprodotto dall’epigramma amoroso inciso da Medoro sulle pareti della grotta e letto da un sempre più affranto Orlando. La spietata smentita dell’etica cortese e cavalleresca giunge a Orlando proprio attraverso la tradizione letteraria che di quell’etica era espressione; Angelica, nonostante il nome, non è certo la donna angelicata della tradizione cortese a cui pensa Orlando, ma è donna vera, di carne, pronta a vivere fino in fondo il proprio amore, come non nascondono i versi di Medoro: «la bella Angelica che nacque / di Galafron, da molti invano amata, / spesso ne le mie braccia nuda giacque», dove la quanto mai esplicita dichiarazione va a rimare, con feroce e sottile ironia, proprio con il petrarchesco «limpide acque» del primo verso, mettendo quindi in evidente collisione due concezioni dell’amore. La disillusione di Orlando ormai è completa: è la fine di un intero sistema di valori al quale il paladino aveva aderito con convinzione totale. A questo punto la sua caduta nel baratro della follia appare come la conseguenza più logica, non a caso sancita dal gesto, estremo e gravissimo per un cavaliere, di strapparsi di dosso le armi.

Il registro ariostesco della follia: tra tragedia e comicità La rappresentazione della follia generata da una delusione amorosa poteva molto facilmente scadere nel tono comico-realistico della farsa oppure, con una scelta stilistica opposta, subire un’impennata verso il registro tragico-sublime. Conformemente alla propria poetica, Ariosto mantiene invece un abile equilibrio tra i due: la drammaticità è smorzata da tocchi di ironia, così come le situazioni di dolore e di sofferenza psicologica si alternano a momenti quasi comici o comunque grotteschi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi brevemente l’episodio (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Qual è il primo indizio dell’amore tra Medoro e Angelica incontrato da Orlando che lo farà uscire di senno? E quale, poi, lo convincerà definitivamente del “tradimento” di Angelica? ANALISI 3. Quale ruolo nella vicenda svolge il pastore? 4. Individua e sintetizza i sintomi e le manifestazioni del progressivo sprofondare di Orlando nella follia. STILE 5. Individua le similitudini presenti nel brano; poi schedale, spiegandone la funzione. 6. Si è detto che in questo episodio Ariosto è molto attento a mantenere il tono della narrazione su di un livello medio, calibrando sapientemente registro tragico e registro comico-grottesco. Individua i punti del testo in cui, secondo te, la dimensione ironica o quella comica si insinua in un contesto potenzialmente drammatico o addirittura tragico.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

online T15 Ludovico Ariosto

SCRITTURA 7. Nell’esordio del canto XXIV il narratore prende la parola in prima persona, esprimendo un commento sull’amore, che definisce significativamente amorosa pania. Commenta le prime tre ottave del canto. 8. Considera i sintomi della gelosia che esplode nell’animo di Orlando. Ti è capitato di sperimentare questo sentimento? Riconosci nella descrizione stati d’animo e reazioni che hai provato? Esponi in un elaborato la tua esperienza.

Un’avventura fuori dal mondo: Astolfo nel Paradiso Terrestre Orlando furioso XXXIV, 49-60

online T16 Ludovico Ariosto

Il rovesciamento della prodezza cavalleresca nella pazzia Orlando furioso XXIX, 52-61

768 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

online

Sguardo sull’arte La follia di Orlando


Ludovico Ariosto

T17

Il vallone lunare delle cose perdute: Astolfo recupera il senno di Orlando Orlando furioso XXXIV, 70-87

L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

ANALISI INTERATTIVA

Astolfo è giunto nel favoloso regno della Luna, che smentisce subito le false apparenze attraverso cui lo conoscono (o credono di conoscerlo…) gli uomini: ben diversa dal picciol tondo che si vede da quaggiù, la Luna è grandissima, con paesaggi naturali, città e case. Ma il paladino non si attarda a visitare questi luoghi favolosi, non si dimentica di essere qui per un motivo ben preciso: recuperare il senno di Orlando. Per questo, si reca subito nel vallone, dove viene conservato tutto ciò che si perde sulla Terra: ma prima di ritrovare il senno del prode cavaliere (oltre che il proprio), Astolfo avrà modo di vedere molte cose assai interessanti...

70 Tutta la sfera varcano del fuoco1, ed indi2 vanno al regno de la luna. Veggon per la più parte esser quel loco come un acciar3 che non ha macchia alcuna; e lo trovano uguale, o minor poco di ciò ch’in questo globo si raguna4, in questo ultimo globo de la terra5, mettendo6 il mar che la circonda e serra.

72 Altri fiumi, altri laghi, altre12 campagne sono là su, che non son qui tra noi; altri piani, altre valli, altre montagne, c’han le cittadi, hanno i castelli suoi, con case de le quai mai le più magne non vide il paladin prima né poi13: e vi sono ample e solitarie selve, ove le ninfe ognor14 cacciano belve.

71 Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia: che quel paese appresso7 era sì grande, il quale a un picciol tondo rassimiglia8 a noi che lo miriam da queste bande9; e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia, s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande, discerner vuol10; che non avendo luce, l’imagin lor poco alta si conduce11.

73 Non stette il duca15 a ricercar16 il tutto; che là non era asceso a quello effetto17. Da l’apostolo santo18 fu condutto in un vallon fra due montagne istretto19, ove mirabilmente era ridutto20 ciò che si perde o per nostro diffetto21, o per colpa di tempo o di Fortuna: ciò che si perde qui, là si raguna22.

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alternata, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC

1 Tutta... fuoco: (Astolfo e san Giovanni) varcano tutta la sfera del fuoco. Nella cosmografia tolemaica, è la sfera che separa la Terra dal cielo della Luna. Ariosto riprende l’immagine del cosmo tratteggiata da Dante nel Paradiso (I, 49-142). 2 indi: di qui. 3 acciar: acciaio. 4 uguale… si raguna: delle stesse dimensioni o di poco più piccolo di quanto è contenuto in questo globo, ossia la Terra. 5 ultimo globo de la terra: nella con-

cezione tolemaica, la Terra era l’ultimo pianeta, il più lontano dall’Empireo. 6 mettendo: compreso. 7 appresso: da vicino. 8 rassimiglia: sembra. 9 da queste bande: dalla nostra parte, da quaggiù. 10 e ch’aguzzar… discerner vuol: e (si stupisce) di dover aguzzare bene la vista (ambe le ciglia) se vuole distinguere da lì la Terra e il mare che si stende tutt’intorno ad essa. 11 che non avendo… si conduce: perché non emanando luce propria, la loro immagine (della terra e del mare) arriva poco in alto. 12 Altri… altri… altre: Diversi... da quelli che sono qui sulla Terra («che non son qui tra noi», v. 2). L’iterazione del termine sem-

brerebbe enfatizzare la diversità del mondo lunare rispetto a quello terrestre. Ma Ariosto sottolinea soprattutto le dimensioni maggiori di ciò che sta sulla Luna, che alla fine appare molto simile alla Terra. 13 de le quai... prima né poi: più grandi (magne è un latinismo) delle quali il paladino non vide mai né prima né dopo. 14 ognor: sempre. 15 il duca: Astolfo. 16 ricercar: esplorare. 17 a quello effetto: per quello scopo. 18 l’apostolo santo: san Giovanni. 19 istretto: racchiuso. 20 ove... ridutto: dove miracolosamente era raccolto. 21 diffetto: colpa, mancanza. 22 si raguna: si raduna.

L’Orlando furioso 3 769


74 Non pur di regni o di ricchezze parlo, in che la ruota instabile lavora23; ma di quel ch’in poter di tor, di darlo non ha Fortuna, intender voglio ancora24. Molta fama è là su, che, come tarlo, il tempo al lungo andar qua giù divora25: là su infiniti prieghi e voti stanno, che da noi peccatori a Dio si fanno26.

77 Ami d’oro e d’argento appresso vede in una massa, ch’erano quei doni che si fan con speranza di mercede33 ai re, agli avari principi, ai patroni34. Vede in ghirlande ascosi35 lacci; e chiede, ed ode che son tutte adulazioni. Di cicale scoppiate imagine hanno versi ch’in laude dei signor si fanno36.

75 Le lacrime e i sospiri degli amanti, l’inutil tempo che si perde a giuoco, e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco27, i vani desideri sono tanti, che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai.

78 Di nodi d’oro e di gemmati ceppi37 vede c’han forma i mal seguiti amori38. V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi39, l’autorità ch’ai suoi40 danno i signori. I mantici ch’intorno han pieni i greppi, sono i fumi dei principi e i favori che danno un tempo ai ganimedi suoi, che se ne van col fior degli anni poi41.

76 Passando il paladin per quelle biche28, or di questo or di quel chiede alla guida. Vide un monte di tumide vesiche29, che dentro parea aver tumulti e grida; e seppe ch’eran le corone30 antiche e degli Assiri e de la terra lida, e de’ Persi e de’ Greci, che già furo incliti31, ed or n’è quasi il nome oscuro32.

79 Ruine di cittadi e di castella stavan con gran tesor quivi sozzopra42. Domanda, e sa che son trattati, e quella congiura che sì mal par che si cuopra43. Vide serpi con faccia di donzella, di monetieri e di ladroni l’opra44: poi vide bocce rotte di più sorti, ch’era il servir de le misere corti45.

23 Non pur... lavora: Non parlo soltanto dei regni e delle ricchezze su cui si esercita la ruota della Fortuna (la ruota instabile). 24 ma di quel… voglio ancora: ma voglio parlare anche (intender voglio ancora) di ciò che la Fortuna non ha il potere di togliere o di dare. 25 Molta fama... giù divora: Lassù c’è molta fama, che quaggiù il tempo, con il suo scorrere, consuma (divora) come un tarlo. 26 là su... si fanno: lassù stanno le infinite preghiere (prieghi) e le suppliche (voti), che sono rivolte (si fanno) da noi peccatori a Dio. 27 vani... mai loco: progetti inutili che non si realizzano mai. 28 biche: mucchi. 29 tumide vesiche: sacche gonfie. 30 le corone: i regni.

31 già furo incliti: un tempo furono celebri. 32 oscuro: sconosciuto. 33 con speranza di mercede: sperando di riceverne un vantaggio, una ricompensa. 34 patroni: protettori. 35 ascosi: nascosti. 36 Di cicale... si hanno: I poeti cortigiani sono paragonati a cicale scoppiate per le lodi sperticate (le adulazioni del verso precedente) al loro signore. 37 Di nodi... gemmati ceppi: Di nodi ricamati in oro e di gioghi ricoperti di gemme. 38 i mal seguiti amori: gli amori sfortunati, infelici o non corrisposti. 39 seppi: l’inciso, in prima persona, indica che l’autore esprime la sua esperienza. 40 ai suoi: ai loro uomini. 41 I mantici… anni poi: I mantici di cui

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sono pieni i declivi del vallone sono i favori che un tempo i signori elargivano ai propri protetti (ganimedi), e che poi svaniscono insieme alla loro giovinezza. Ganimede, mitico coppiere degli dei, qui indica per antonomasia i giovani favoriti del principe. 42 sozzopra: sottosopra, alla rinfusa. 43 Domanda... si cuopra: Domanda (a san Giovanni), e viene a sapere che sono i trattati non rispettati e le congiure che non si riesce a tenere nascoste. 44 di monetieri... l’opra: (che rappresentano) l’opera di falsari e ladri. Fuor di metafora, sotto una bella apparenza si nascondono le insidie. 45 bocce... le misere corti: recipienti di vetro infranti di varie forme che rappresentano i servigi resi nelle tristi corti (inutili come quelle bocce rotte e inservibili).


80 Di versate minestre una gran massa vede, e domanda al suo dottor46 ch’importe47. – L’elemosina è (dice) che si lassa alcun, che fatta sia dopo la morte48. – Di vari fiori ad un gran monte passa, ch’ebbe già49 buono odore, or putia50 forte. Questo era il dono (se però dir lece51) che Costantino al buon Silvestro fece.

83 Era come un liquor suttile e molle61, atto a esalar62, se non si tien ben chiuso; e si vedea raccolto in varie ampolle, qual più, qual men capace63, atte64 a quell’uso. Quella è maggior di tutte, in che del folle signor d’Anglante era il gran senno infuso65; e fu da l’altre conosciuta, quando66 avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.

81 Vide gran copia di panie con visco52, ch’erano, o donne, le bellezze vostre. Lungo sarà, se tutte in verso ordisco le cose che gli fur quivi dimostre53; che dopo mille e mille io non finisco, e vi son tutte l’occurrenze nostre54: sol la pazzia non v’è poca né assai; che sta qua giù, né se ne parte mai.

84 E così tutte l’altre avean scritto anco il nome di color di chi fu il senno. Del suo gran parte vide il duca franco67; ma molto più maravigliar lo fenno molti ch’egli credea che dramma manco non dovessero averne, e quivi dénno chiara notizia che ne tenean poco68; che molta quantità n’era in quel loco.

82 Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, ch’egli55 già56 avea perduti, si converse57; che se non era interprete con lui, non discernea le forme lor diverse58. Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, che mai per esso a Dio voti non ferse59; io dico il senno: e n’era quivi un monte, solo assai più che l’altre cose conte60.

85 Altri in amar lo perde, altri69 in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de’ signori70, altri dietro alle magiche sciocchezze71; altri in gemme, altri in opre di pittori, ed altri in altro che più d’altro aprezze72. Di sofisti73 e d’astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n’era molto.

46 dottor: maestro, guida. 47 ch’importe: che cosa significhi. 48 L’elemosina… dopo la morte: è, dice

56 già: un tempo. 57 si converse: rivolse l’attenzione. 58 che se non era… lor diverse: che se

san Giovanni, l’elemosina che alcuni lasciano scritto nel testamento che venga fatta dopo la propria morte. Cosa che non avviene, sottintende Ariosto, perché gli eredi tengono tutto il denaro per sé. 49 già: un tempo. 50 putia: puzzava (leggi putìa). 51 se però dir lece: se però è giusto definirlo così. L’inciso si riferisce alla donazione di Costantino (il dono), i cui intenti positivi erano stati stravolti e che si era rivelata un danno per la Chiesa. 52 gran copia... visco: grande quantità di trappole per catturare gli uccelli. 53 Lungo sarà... dimostre: Sarebbe lungo se descrivessi nei miei versi tutte le cose che gli furono (fur) mostrate qui (quivi). 54 l’occurrenze nostre: le cose che ci capitano. 55 ch’egli: Astolfo.

non ci fosse stato con lui chi gliele spiegasse (cioè san Giovanni, interprete) non avrebbe saputo riconoscere le loro forme differenti. 59 quel che par… non ferse: quella cosa che ci (a nui) sembra sempre di possedere, tanto che non la chiediamo mai a Dio. «a Dio voti non ferse» sta per “non si sono fatte (ferse “si fecero”) preghiere a Dio”. 60 solo assai... cose conte: che da solo era molto di più di tutte le altre cose di cui ho raccontato. 61 un liquor suttile e molle: un liquido leggero e volatile. 62 atto a esalar: che tende ad evaporare. 63 capace: capiente. 64 atte: destinate. 65 del folle... infuso: era travasato il grande senno di Orlando impazzito.

66 fu... quando: si distingueva dalle altre, perché. 67 il duca franco: Astolfo. 68 ma molto più maravigliar… ne tenean poco: ma lo fecero (fenno) meravigliare molto di più molti, che credeva non dovessero averne (di senno) nemmeno una briciola in meno (dramma manco), mentre qui si vedeva chiaramente (denno “diedero” chiara notizia) che doveva essergliene rimasto poco (ne tenean poco). 69 Altri… altri: Alcuni… alcuni. Inizia una sequenza di casistiche di vari comportamenti umani. 70 ne le speranze de’ signori: riponendo le loro speranze nei signori da cui dipendevano. 71 magiche sciocchezze: arti magiche, negromanzia, alchimia. 72 ed altri... aprezze: e altri ancora in cose diverse che apprezza più di tutto. 73 sofisti: filosofi.

L’Orlando furioso 3 771


86 Astolfo tolse74 il suo; che gliel concesse lo scrittor de l’oscura Apocalisse75. L’ampolla in ch’era al naso sol si messe, e par che quello al luogo suo ne gisse76: e che Turpin da indi in qua confesse ch’Astolfo lungo tempo saggio visse77; ma ch’uno error che fece poi78, fu quello ch’un’altra volta gli levò il cervello. 74 tolse: prese. Più sotto tolle (87, 3) “prende”. 75 lo scrittor de l’oscura Apocalisse: san Giovanni. L’Apocalisse è definita oscura perché di difficile comprensione. 76 L’ampolla… ne gisse: Si accostò semplicemente l’ampolla al naso, e sembra che il senno se ne andasse al proprio posto, ossia nel cervello.

87 La più capace e piena ampolla, ov’era il senno che solea far savio il conte, Astolfo tolle; e non è sì leggiera, come stimò, con l’altre essendo a monte79. […]

77 e che Turpin… visse: e (pare) che Tur-

78 uno error... poi: sarà un errore amo-

pino riconosca che da questo momento in avanti Astolfo visse a lungo saggiamente. L’arcivescovo Turpino è il presunto autore della Vita di Carlo Magno, alla cui autorità ironicamente si richiama Ariosto (e Pulci e Boiardo prima di lui).

roso. Ariosto lo racconterà nei Cinque canti ( ➜ PER APPROFONDIRE, L’enigma dei Cinque canti: un materiale rifiutato dell’autore OL). 79 non è sì leggiera… a monte: non è così leggera come aveva pensato vedendola ammucchiata insieme alle altre.

Analisi del testo Le fonti della sequenza lunare e la scelta di un “punto di vista” eccentrico Se nel suo complesso il mondo ultraterreno in cui si muove Astolfo si rifà alla tradizione aristotelico-tolemaica (ott. 70: «Tutta la sfera varcano del fuoco, / ed indi vanno al regno de la luna») e richiama ovviamente la Commedia, l’ideazione fantastica della sequenza lunare e del vallone delle cose perdute è ispirata da fonti che la critica recente ha identificato con certezza. Una fonte è classica: lo scrittore greco Luciano di Samosata (sec. II d.C.) con due sue opere, Storia vera e Icaromenippo; l’altra è d’età umanistica: Leon Battista Alberti, di cui Ariosto riecheggia, e in più parti riprende quasi alla lettera, il Somnium (Il sogno), compreso nella raccolta Intercœnales, un testo latino nel quale il grande umanista descrive un immaginario paese dei sogni di caratteristiche assai simili alla Luna ariostesca. Da entrambe le fonti Ariosto deriva la scelta, fondamentale nell’intera sequenza lunare, di un punto di vista eccentrico per osservare la realtà umana, cioè di una prospettiva straniante, “altra” (guardare la Terra e le cose umane da una distanza siderale e da un luogo “diverso”) che di fatto consente di smascherare l’inautenticità dei rapporti umani, la vanità dei desideri, delle ambizioni e delle dinamiche di potere, rivelandone la reale natura. La Luna è in rapporto dialettico con la Terra perché, dice lo scrittore, è il luogo dove si raduna ciò che sulla Terra si perde; ma di fatto, a ben vedere, diventa luogo dello “svelamento”, specchio rivelatore del vano affannarsi dell’uomo: è questo il senso del lungo elenco di oggetti che Astolfo vede nel vallone lunare.

La valle delle cose perdute: un’allegoria della vanità del mondo Dopo una veloce panoramica d’insieme Ariosto, assecondando le precise intenzioni di Astolfo (ott. 73: «Non stette il duca a ricercar il tutto; / che là non era asceso a quello effetto») si concentra su un luogo specifico: il vallone dove si trovano, per mirabile magia, tutte le cose che sono state perdute qui sulla Terra per errore degli uomini o per volontà del Fato, motivo assai caro all’autore dell’Orlando furioso. Comincia così una ricca e variegata rassegna che si protrae per ben otto ottave (74-81), che mostra tutto quello che gli uomini, nella loro vana follia, perdono senza nemmeno rendersene conto. Si parte dalla fama, che logora e divora il tempo come un tarlo implacabile, per poi passare alle preghiere, spesso fasulle e quindi inutili; si incontrano poi le pene amorose, il tempo perso al gioco o inseguendo progetti irrealizzabili.

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Con l’ottava 76 l’orizzonte si allarga, arrivando a includere problematiche d’ordine storico, con le corone antiche chiamate a rappresentare i regni un tempo gloriosi e ora nell’oblio. Cadono poi vittima della vena satirica di Ariosto i doni che si fanno per accattivarsi l’amicizia dei potenti (ott. 77: «Ami d’oro e d’argento»), l’adulazione («in ghirlande ascosi lacci»), la poesia di corte vissuta come mero servilismo («Di cicale scoppiate immagine hanno / versi ch’in laude del signor si fanno»). Seguono gli amori senza esito (ott. 78: «nodi d’oro e gemmati ceppi»), gli incarichi di potere ambiti da tutti i sottoposti, così come i labili favori dei principi («d’aquile artigli gli uni, fumi gli altri»); gli accordi politici e le congiure senza successo (ott. 79: «Ruine di cittadi e di castella»), il lavoro dei ladri e dei falsari («serpi con faccia di donzella»), la vanità della vita di corte («bocce rotte di più sorti»), le elemosine post mortem (ott. 80: versate minestre). Non manca poi una puntata contro il potere temporale della Chiesa e, per finire, la stoccata misogina alla bellezza infida delle donne (ott. 81: «panie con visco»). Solo della pazzia, conclude Ariosto, non vi era traccia, perché quella rimane tutta quanta sulla Terra, e non se ne allontana mai.

Un catalogo fondato sull’analogia Come si può facilmente vedere, la rappresentazione di quanto viene perduto sulla Terra si fonda sul meccanismo dell’analogia, che materializza concetti e realtà astratte in oggetti tangibili, dando una forma concreta a delle metafore verbali. È un procedimento che ricorda un genere figurativo assai in voga nel Cinquecento e che certo Ariosto doveva conoscere molto bene: quello delle “imprese”, ovvero figure dal valore simbolico e allusivo, spesso accompagnate da un motto del quale esse costituirebbero la raffigurazione. Immagini di questo tipo erano spesso riprodotte sui frontespizi delle prime opere a stampa.

Un ritratto “in negativo” della corte Quella che emerge dalla rassegna di immagini contenute nel vallone delle cose perdute non è una realtà generica, ma vi si riconoscono i caratteri di un modello sociale ben preciso: quello della corte, che Ariosto conosceva da vicino e che spesso fu oggetto della sua vena satirica. L’assurdità e il vano affannarsi per cose effimere, la funzione puramente encomiastica della poesia, il desiderio smodato di gloria così come l’imprevedibile mutevolezza dei destini che lo stesso Ariosto aveva dovuto sperimentare sulla propria pelle nel burrascoso rapporto con il cardinale Ippolito, e poi quando il duca Alfonso lo inviò a governare la turbolenta provincia della Garfagnana sono tutti elementi facilmente riconducibili all’ambiente delle corti italiane del Cinquecento.

Il senno perduto… e non solo da Orlando! Tra le cose perdute Astolfo giunge finalmente a trovare ciò che cercava e che costituiva, come gli ha spiegato san Giovanni nel Paradiso Terrestre (➜ T15 OL), il motivo del suo viaggio ultraterreno: ammucchiato in un monte che da solo supera tutte le cose descritte finora, gli si para di fronte quello che gli uomini non pensano mai di chiedere a Dio, perché convinti di possederlo già, ossia il senno. Questa facoltà umana, evidentemente più rara di quanto non sembrerebbe, è presente in grandi quantità nel vallone della Luna in forma di liquido racchiuso in ampolle di varia grandezza, a seconda della quantità di senno perduta in Terra dai proprietari, il cui nome è scritto sull’ampolla stessa. La più grande, manco a dirlo, è proprio quella di Orlando: ma anche Astolfo ha qui una sua ampolla non trascurabile, e molte altre ve ne sono, e di persone insospettabili. Nell’ottava 85 Ariosto fornisce un veloce repertorio dei modi e delle occasioni che possono indurre nell’uomo la perdita di senno, un elenco che riprende le tematiche già espresse nel descrivere la valle delle cose perdute; l’ottava si conclude con una nota autoironica, nella constatazione che ad abbondare era soprattutto il senno dei poeti. Prima di recuperare l’ampolla contenente il senno di Orlando, Astolfo, con il permesso dell’evangelista Giovanni, prende quella che contiene il suo, ma Ariosto, nascondendosi dietro il nome di Turpino, non manca di avvertire i lettori che l’assennatezza non può mai considerarsi un bene acquisito una volta per tutte: Astolfo, infatti, vivrà da savio per molti anni, ma un incontro d’amore lo porterà infine a impazzire di nuovo.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Come appare la Luna all’occhio del visitatore Astolfo? 2. Che cosa Astolfo vede ammucchiati nel vallone lunare? ANALISI 3. Dove viene conservato il senno degli uomini? Sotto quale aspetto si presenta? STILE 4. Individua il chiasmo presente nell’ottava 73. Secondo te, quale aspetto intende sottolineare Ariosto con il ricorso a questa particolare figura retorica?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Fai un confronto tra il viaggio di Astolfo e quello di Dante: quale rapporto istituisce Ariosto con il grande modello? Quali sono le differenze tra il cammino di Dante-personaggio sui sentieri della trascendenza e l’avventura di Astolfo nel mondo della Luna, magica allegoria delle miserie terrene (max 25 righe)?

online T18 Ludovico Ariosto

VERSO IL NOVECENTO

L’Orlando furioso giunge in porto Orlando furioso XLVI, 1-3

L’Orlando furioso come fonte e modello L’Orlando furioso costituisce una fonte di ispirazione fondamentale per i romanzi di Calvino, innanzitutto al livello più evidente, cioè nella ripresa manifesta di temi, personaggi e situazioni, intrecci, in particolare nei romanzi di materia “cavalleresca”: Il cavaliere inesistente e Il castello dei destini incrociati. In quest’ultimo ritornano personaggi ariosteschi (Orlando, Angelica) e sequenze narrative del poema (come il viaggio di Astolfo sulla Luna ➜ T17 ). Ariostesco è il tema stesso del “castello” come «vortice di nulla» (l’espressione è di Calvino) che sottrae i personaggi al reale e alle categorie spazio-temporali per le sue valenze simboliche di protezione, potere, incantesimo. L’influenza di Ariosto si avverte più sottilmente e profondamente nel modo calviniano di leggere e interpretare la realtà: Calvino condivide con l’autore dell’Orlando furioso l’atteggiamento di razionale distacco dall’immediatezza di quest’ultima. In entrambi gli scrittori però, l’adozione di uno sguardo lontano e distaccato non implica il rifiuto dei suoi aspetti negativi e anche tragici, ma piuttosto la loro relativizzazione ironica nel ritmo del divenire universale e la tendenza a trasfigurare, attraverso il filtro di un’affabulazione fiabesca, anche l’elemento più atroce in un’atmosfera di leggerezza e grazia. Ma forse l’aspetto che avvicina maggiormente i due grandi scrittori è rappresentato dalle modalità stesse del narrare, alle quali nel tempo Calvino ha rivolto un’attenzione sempre maggiore, anche sulla scia dei suoi interessi strutturalistici e narratologici. Non a caso nel saggio Ariosto: la struttura dell’«Orlando» (1975; 1991) Calvino dedica alle sofisticate strategie narrative del poema (il montaggio degli episodi, i passaggi narrativi) un’attenta analisi. Gli schemi narrativi del Furioso non sono però oggetto solamente della sua riflessione critica, ma agiscono nella stessa prassi narrativa calviniana: come in Ariosto le aperture dei canti, così in Calvino gli inizi dei capitoli dei romanzi sono spazi testuali spesso dedicati a digressioni di ordine morale e a riflessioni filosofiche suggerite dal racconto, come in Ariosto sono frequenti gli interventi ironici del narratore, e così via. Ma soprattutto Calvino, in particolare nella sua maturità di scrittore, è attratto dal narrare ariostesco come raffinato gioco intellettuale fondato su regole “combinatorie” che l’intellettuale novecentesco, nutrito delle moderne teorie della Gustave Doré, Astolfo verso la Luna, letteratura, estremizza in una scrittura narrativa particolare di un’incisione per l’edizione illustrata dell’Orlando furioso. fortemente intellettualistica.

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Italo Calvino Storia di Astolfo sulla Luna I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Einaudi, Torino 1973

Nel romanzo Il castello dei destini incrociati tutti i personaggi, che si ritrovano in un castello, sono muti. Per loro parlano le carte dei tarocchi, che ognuno sceglie per narrare la propria storia e a cui corrisponde una decifrazione della realtà, pur enigmatica per definizione. Il passo qui proposto rivisita il celebre episodio ariostesco di Astolfo sulla Luna (➜ T17 ), ma si avverte, soprattutto nel desolato finale, una visione più pessimistica rispetto a quella dello scrittore rinascimentale: nel responso delle carte, la Luna rivela non il “senso” delle cose ma, arido deserto, il “vuoto di senso”, rendendo vane le avventure degli uomini-cavalieri erranti nel mondo.

Astolfo il suo Ippogrifo l’aveva e montò in sella. Prese il largo nel cielo. La Luna crescente gli venne incontro. Planò. (Nel tarocco, La Luna era dipinta con piú dolcezza di come le notti di mezza estate rustici attori la rappresentino nel dramma di Piramo e Tisbe1, ma con mezzi altrettanto semplici d’allegoria...) Poi veniva La Ruota della Fortuna, giusto al punto in cui ci aspettavamo una descrizione più particolareggiata del mondo della Luna, che ci lasciasse sbizzarrire nelle vecchie fantasie d’un mondo all’incontrario, dove l’asino è re, l’uomo è quadrupede, i fanciulli governano gli anziani, le sonnambule reggono il timone, i cittadini vorticano come scoiattoli nel mulinello della gabbia, e quanti altri paradossi l’immaginazione può scomporre e ricomporre2. Astolfo era salito a cercare la Ragione nel mondo del gratuito, Cavaliere del Gratuito egli stesso. Quale saggezza trarre per norma della Terra da questa Luna del delirio dei poeti? Il cavaliere provò a porre la domanda al primo abitante che incontrò sulla Luna: il personaggio ritratto nell’arcano numero uno, Il Bagatto, nome e immagine di significato controverso ma che qui pure può intendersi – dal calamo che tiene in mano come se scrivesse – un poeta3. Sui bianchi campi della Luna, Astolfo incontra il poeta, intento a interpolare nel suo ordito le rime delle ottave4, le fila degli intrecci, le ragioni e le sragioni. Se costui abita nel bel mezzo della Luna, – o ne è abitato, come dal suo nucleo più profondo, – ci dirà se è vero che essa contiene il rimario universale delle parole e delle cose, se essa è il mondo pieno di senso, l’opposto della Terra insensata. – No, la Luna è un deserto – questa era la risposta del poeta, a giudicare dall’ultima carta scesa sul tavolo: la calva circonferenza dell’Asso di Denari, – da questa sfera arida parte ogni discorso e ogni poema; e ogni viaggio attraverso foreste battaglie tesori banchetti alcove ci riporta qui, al centro d’un orizzonte vuoto.

1 Piramo e Tisbe: due giovani, personaggi della narrativa dell’antichità, legati da un amore disperato che ricorda quello di Romeo e Giulietta. 2 vecchie fantasie... ricomporre: il narratore allude alle raffigurazioni letterarie che fanno della Luna il rovescio della Terra; da qui le immagini paradossali elencate.

3

Il Bagatto... un poeta: il Bagatto, detto anche il Mago, è la prima carta degli Arcani maggiori dei tarocchi: ha per lo più significato positivo, alludendo all’abilità e all’adattabilità. Dalla canna sottile (calamo) che impugna per scrivere, Calvino fa emergere l’immagine del poeta; un poeta a cui, nelle righe successive, tende a sovrapporsi l’immagine di Ludovico Ariosto.

4 Astolfo… ottave: dalle espressioni usate per designare il poeta è evidente l’allusione a Ludovico Ariosto, che nel suo poema ha usato le ottave, ha dato vita a intricate avventure e ha toccato il rapporto fra ragione e follia.

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online T19 Due opposti giudizi sul confronto

Orlando furioso-Gerusalemme liberata T19a Camillo Pellegrino Il palazzo illusionistico dell’Ariosto e la “fabrica” solida del Tasso Il Carrafa o vero Della epica poesia T19b Galileo Galilei Una galleria regia… lo studietto di qualche ometto curioso Scritti letterari

online T20 Miguel de Cervantes

Un’avventura “cavalleresca” di don Chisciotte Don Chisciotte della Mancia parte I, cap. XXI

online T21 Giacomo Leopardi

Il poema della felice immaginazione Canti, Ad Angelo Mai, vv. 106-120

Fissare i concetti Ludovico Ariosto Ritratto d’autore 1. Perché nel 1517 Ariosto decide di non seguire il cardinale Ippolito in Ungheria? 2. Quali differenze trova Ariosto tra il servizio presso il cardinale Ippolito e quello presso il duca Alfonso? 3. Come svolse Ariosto il suo incarico in Garfagnana? Le opere 4 Quale modello utilizza Ariosto nelle sue Satire e perché? 5. Quale funzione hanno gli apologhi all’interno delle Satire? L'Orlando furioso 6. In che senso l’Orlando furioso è la continuazione dell’Orlando innamorato? 7. Quante e quali sono le edizioni dell’Orlando furioso? Che differenze intercorrono tra esse? 8. Perché è difficile sintetizzare l’Orlando furioso? 9. Quali sono i tre filoni principali del poema? 10. Quali sono i temi presenti nel Furioso? 11. In che cosa consiste il motivo dell’“inchiesta”? 12. Che cos’è il procedimento dell’entrelacement? 13. Qual è il modello spaziale sotteso al poema? 14. Come viene descritta da Ariosto la Fortuna? 15. Quale funzione riveste l’ironia nel poema? 16. Quali scelte stilistico-linguistiche e metriche caratterizzano il Furioso? 17. Quale saggio, di quale critico, ha segnato l’inizio della moderna critica ariostesca?

Benjamin West, La damigella e Orlando, olio su tela, 1793 (Toledo, Museum of Art).

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Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita nella corte Ludovico Ariosto (1474-1533) è il più grande rappresentante del Rinascimento italiano nel mondo delle lettere. L’insieme delle opere e la sua stessa biografia ne fanno un illustre esempio di letterato cortigiano: la figura e la produzione di Ariosto si radicano infatti nella corte di Ferrara, città dove il poeta (nato a Reggio Emilia) si trasferisce nel 1484, nella quale sempre visse e al cui pubblico è idealmente rivolto il suo capolavoro, l’Orlando furioso. I rapporti di Ariosto con la corte, iniziati ufficialmente nel 1500 dopo la morte del padre, sono però difficili, sia per l’ambigua identità della figura del letterato cortigiano sia per la vocazione umanistica di Ludovico: fortemente convinto dell’alto ruolo della letteratura e della autonoma dignità del letterato, Ariosto avrebbe voluto dedicarsi in tranquillità solo a essa e agli amati studi; invece, è spesso obbligato ad assolvere difficili mansioni diplomatiche al servizio del cardinale Ippolito d’Este, cui fornisce i propri servigi fino al 1517, per poi passare alle dipendenze del fratello, Alfonso d’Este, fino al 1522. Non per questo smette di curare per tutta la vita (e soprattutto negli ultimi anni, liberi da impegni ufficiali) il proprio capolavoro, sottoposto a un perfezionistico lavoro di revisione. Muore a Ferrara nel 1533.

2 Le opere

Lo sperimentalismo dei generi Nella propria carriera letteraria, Ariosto si misura con numerosi generi letterari, realizzando opere di elevata dignità artistica; seppur a lungo trascurate, esse non devono venire considerate solo dei banchi di prova per l’Orlando furioso. Le Rime Dopo le liriche in latino, che appartengono al periodo giovanile (1494-1503), dai primi anni del XVI secolo l’autore si cimenta con le rime in volgare, pubblicate postume: ottantasette componimenti in vari metri, la maggior parte dei quali è ispirata dall’amore per Alessandra Benucci. Se le scelte stilistico-linguistiche rimandano al modello autorevole di Petrarca, il modo di rappresentare l’amore è lontano da ogni stilizzazione e idealizzazione ed è influenzato dal modello classico. Ariosto commediografo Tra i compiti che svolge a corte, quello certamente più congeniale ad Ariosto è l’allestimento di spettacoli teatrali per le feste. Egli è anche autore teatrale e svolge un ruolo di primo piano nella nascita del teatro classicistico, di ispirazione laica; a lui si deve, infatti, il primo esempio di commedia in volgare, modellata sui lavori di Plauto, Terenzio e della tradizione classica in generale: La Cassaria. Rappresentata nel 1508, essa è seguita da altre tre commedie: I Suppositi (1508), Il Negromante (1520), La Lena (1528); rimane incompiuta I studenti. Inizialmente Ariosto usa la prosa, ma poi adotta l’endecasillabo sdrucciolo sciolto e versifica anche le prime due commedie. Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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Negli intrecci si avverte l’influenza diretta del modello latino; ma soprattutto negli ultimi due lavori, ambientati a Ferrara, non mancano riferimenti alla realtà contemporanea. L’epistolario A lungo svalutate per la loro prosaicità sono le duecentosedici lettere, in parte ufficiali e in parte private, scritte da Ariosto per scopi pratici, senza pretese letterarie. Datate dal 1509 fino all’anno della morte, esse sono molto utili per conoscere personalità e vita dello scrittore: ne viene illuminato l’ambiente famigliare, la carriera pubblica (specialmente come proattivo governatore della Garfagnana) e il lavoro artistico, specialmente per quanto riguarda l’elaborazione dell’Orlando furioso. Le Satire Le Satire (composte tra il 1517 e il 1525) rappresentano l’opera più nota e apprezzata di Ariosto oltre al Furioso. Sono sette composizioni in terzine dantesche, in forma di lettere rivolte ad amici e conoscenti. Le Satire s’ispirano alle Satire e alle Epistole del poeta latino Orazio, di cui riprendono il tono colloquiale e la struttura dialogica. Prendono spunto da occasioni biografiche e presentano dunque il lato umano e intellettuale dello scrittore, illuminando il suo conflittuale rapporto con la corte e i suoi ideali di vita (equilibrio, misura, riservatezza e razionalità del comportamento). Le note biografiche, arricchite da apologhi, costituiscono l’occasione anche per pacate riflessioni più generali di carattere esistenziale e morale.

3 L’Orlando furioso

La genesi, le vicende editoriali, la trama Il nome di Ariosto è legato soprattutto all’Orlando furioso, capolavoro della letteratura rinascimentale. Si tratta di un poema in ottave, pubblicato in tre diverse edizioni (nel 1516, nel 1521 e infine nel 1532), nell’ultima delle quali si presenta composto da quarantasei canti: qui l’autore ne adegua la lingua quasi del tutto al modello proposto da Pietro Bembo, certo anche pensando a una diffusione in tutta Italia del proprio lavoro. L’Orlando furioso s’iscrive nel fortunato genere del poema cavalleresco, particolarmente apprezzato alla corte ferrarese, riprendendo l’Orlando innamorato del Boiardo al punto in cui era rimasto interrotto; l’atteggiamento di Ariosto verso la materia, tuttavia, non è nostalgico: egli utilizza il mondo feudale dei paladini come affascinante copione narrativo in cui iscrivere una moderna, laica e disincantata visione del mondo. La storia inizia con la fuga di Angelica, personaggio boiardiano, attraverso un bosco. Da qui si diparte una trama estremamente complessa ma riassumibile in tre filoni principali, ognuno formato da diversi episodi: il primo (sul quale si innestano i temi dell’amore e della follia del protagonista) è quello della sfortunata ricerca, da parte del paladino cristiano Orlando, della bella Angelica; il secondo (cui sono legati i temi dell’avventura e della magia e l’aspetto encomiastico) vede la guerriera cristiana Bradamante alla felice ricerca del saraceno Ruggiero; il terzo (che funge da sfondo e lega gli episodi degli altri due) è quello della guerra tra le armate di Carlo Magno e quelle del re saraceno Agramante, che si conclude con la vittoria del primo e il rinsavimento del protagonista. Temi e motivi Uno dei temi principali dell’opera è evidenziato già nella prima ottava: è quello della figura femminile e dell’amore. Ariosto rovescia la tipica concezione letteraria, neoplatonica e petrarchista, di entrambi gli aspetti (la cui interpretazione sublimata provoca di fatto la follia di Orlando) in favore di una rappresentazione senza reticenze dei corpi, della bellezza femminile ma anche dell’amore, raccontato sia come sentimento nobile ed elevato sia dal punto di vista puramente sensuale. Un secondo motivo che corre attraverso il poema è quello della guerra, del quale lo scrittore ribalta l’impostazione “epica”: il tono medio della scrittura e l’alternanza dei

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registri tratteggiano un conflitto tra schieramenti che si equivalgono dal punto di vista valoriale e in cui mancano i veri eroi senza macchia della tradizione carolingia. Grande importanza per la trama e per il piacere della lettura ha la dimensione del “meraviglioso”, legato alla componente “bretone” dell’opera: Ariosto lo introduce e lo tratta con naturalezza mediante il consueto tono discorsivo e pacato, mantenendo il ritmo fluido della narrazione. Nello svolgersi della vicenda vengono evocati alcuni luoghi-simbolo, occasioni di riflessione sul significato della vita, parentesi che attraversano il libro e ne smorzano il carattere di evasione fantastica: ricordiamo la selva, simbolo della componente labirintica della realtà, in cui le vicende umane sono soggette alla sorte imprevedibile; il castello dei desideri, metafora dell’insieme delle vane illusioni della vita; il vallone della Luna, dove viene ritrovato il senno di Orlando e dove si accatasta tutto ciò che viene perduto sulla Terra, che invece abbonda di follia, contrariamente a quanto celebrato dall’Umanesimo. Le modalità narrative L’Orlando furioso è il poema del movimento, per il ritmo intenso che lo anima. Movente dell’azione è sempre la ricerca di qualcuno o di qualcosa; una ricerca priva di moventi etico-religiosi e che è costantemente frustrata: anche per l’intervento capriccioso della Fortuna, l’oggetto del desiderio è sempre irraggiungibile o è addirittura vano, come sembra dirci l’aggirarsi inconcludente dei cavalieri irretiti dentro il magico palazzo di Atlante, l’ideazione forse più simbolica dell’intero poema. La visione della realtà che permea l’opera è quindi negativa, come conseguenza del crollo delle certezze antropocentriche prevalenti fino a quel momento Questa concezione è riscattata, tuttavia, da una dissacrante ironia, che aleggia su tutte le vicende e che il lettore è chiamato a condividere affrontando la vita con saggezza ed equilibrio. La struttura del poema è intricata e caotica, tante sono le fila della narrazione che s’intrecciano, si interrompono e tornano a riannodarsi. Ariosto porta all’eccesso l’uso – già presente nella tradizione cavalleresca – dell’entrelacement, ma in realtà l’autore-narratore è sempre padrone della materia, che governa con mano salda e consapevolezza registica. Anche la geografia del poema risulta complessa e vasta, sia nei richiami a terre reali sia in quelli a luoghi immaginari; i protagonisti vi si muovono in percorsi di ricerca circolari e inconcludenti all’interno di uno spazio concepito orizzontalmente: ben diversamente, dunque, da quanto accade nella Commedia medievale e nella successiva letteratura controriformistica, con la loro concezione lineare e verticale. I personaggi mancano di spessore psicologico e sono definiti solo dalle relazioni che intessono e dalle azioni che compiono. Ariosto, narratore onnisciente, non si identifica con alcuno tra essi e mantiene, anche negli interventi metanarrativi, un distacco ironico (che non significa, però, superficiale) sia con queste figure che con la materia cavalleresca in generale. Le scelte stilistico-linguistiche e metriche Nella terza edizione Ariosto adegua il proprio lavoro al modello del toscano letterario, seppur con qualche licenza poetica, per nobilitarne la veste formale e per portare il Furioso a conoscenza di un più ampio bacino di fruitori. Il risultato è quello di una lingua equilibrata, né troppo bassa né eccessivamente alta ma capace di accogliere esempi dei due registri estremi (latinismi e popolarismi). La medietà viene ottenuta anche nel tono, sempre variabile, organizzato in ottave di endecasillabi i cui ultimi due versi, in rima baciata, introducono nuovi argomenti rilanciando dinamicamente in avanti l’azione. Tutto ciò dà vita a una lingua armonica, vivace e colloquiale. La sua fortuna, però, si interrompe presto: durante la seconda metà del XVI secolo, nel clima austero della Controriforma, il mutare del clima culturale lo trasforma in un’opera

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discutibile sotto il profilo morale e formale, soprattutto a confronto con la Gerusalemme liberata del Tasso, scritta sessant’anni dopo sempre a Ferrara ma più organica e unitaria secondo le regole della poetica aristotelica. Questa incomprensione prosegue anche in epoca barocca, sebbene nel primo Seicento Cervantes riprenda il modello ariostesco nel celeberrimo Don Chisciotte. Il Settecento – con il recupero dell’equilibrio classico nelle arti – e l’Illuminismo – laico, razionale e anticonformista – iniziano una rivalutazione del poema, continuata in parte con il Romanticismo: quest’ultima epoca, pur apprezzandone l’elemento fantastico e lo stile, ne critica tuttavia la mancanza di “serietà” e di impegno civile, il primato dell’arte sulla vita. Una lettura più completa e non pregiudiziale dell’artista e del suo capolavoro si avrà solo negli anni Sessanta del Novecento.

Zona Competenze Scrittura argomentativa

1. Ti proponiamo un brano tratto dalla Presentazione dell’Orlando furioso raccontato da Italo Calvino, lettura molto piacevole per un approccio “amichevole” al poema di Ariosto. Rifletti sulle acute osservazioni di Calvino, confrontandole con le tue letture del Furioso e raccogli le tue considerazioni in un testo di max 20 righe.

Dall’inizio l’Orlando furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag. Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il continuo intersecarsi e il divergere di queste linee su una mappa d’Europa e d’Africa, ma già basterebbe a definire il primo canto tutto inseguimenti, disguidi, fortuiti incontri, smarrimenti, cambiamenti di programma. È con questo zig zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore umano che veniamo introdotti nello spirito del poema; il piacere della rapidità dell’azione si mescola subito a un senso di larghezza nella disponibilità dello spazio e del tempo. Il procedere svagato non è solo degl’inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: si direbbe che il poeta, cominciando la sua narrazione, non conosca ancora il piano dell’intreccio che in seguito lo guiderà con puntuale premeditazione, ma una cosa abbia già perfettamente chiara: questo slancio e insieme quest’agio nel raccontare, cioè quello che potremmo definire – con un termine pregno di significati – il movimento errante della poesia dell’Ariosto. Esposizione orale

Scrittura argomentativa

2. La selva è uno dei luoghi simbolici ricorrenti nel poema di Ariosto. Sintetizza in uno schema gli episodi e le situazioni che si svolgono in questo spazio e il significato che assumono. Quindi prepara la scaletta di un intervento orale sul confronto tra le profonde valenze simboliche della selva in Ariosto e della «selva oscura» della Commedia di Dante. 3. Quali influenze ha esercitato l’ambiente culturale e geografico in cui è nato il Furioso nell’ideazione, nella strutturazione e nello spirito dell’opera?

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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da L. Caretti, Ariosto e Tasso, Einaudi, Torino 1961

Alla varietà dei personaggi corrisponde […] un’altrettanto ricca pluralità di motivi, di cui nessuno preminente. Neppure l’amore, che tuttavia costituisce il tema più frequente del poema. Prima di tutto perché l’amore nel Furioso si manifesta in modi diversi e talvolta addirittura contrastanti (da quelli puri e patetici a quelli sensuali e voluttuosi, da quelli eroici a quelli semplicemente puntigliosi, da quelli tragici a quelli comici e realistici), sì che nessuno saprebbe dire quali dei tanti amori ariosteschi può essere legittimamente considerato motivo fondamentale dell’opera; in secondo luogo perché accanto all’amore ci sono, nel poema, molti altri sentimenti espressi con altrettanta intensità e sincera adesione da parte del poeta: i temi dell’amicizia, della fedeltà, della devozione, della gentilezza, della cortesia, dello spirito d’avventura. E accanto ai temi per così dire ‘virtuosi’ non mancano i temi opposti, non meno schietti dei primi: quelli dell’infedeltà, dell’inganno, del tradimento, della superbia, della violenza, della crudeltà. Non basta. Come la vita dei personaggi, anche quella dei sentimenti è, nell’opera ariostesca, una vita così strettamente correlata che i vari temi dell’opera s’intrecciano tra loro condizionandosi a vicenda e richiamandosi l’uno con l’altro per affinità o per contrasto. L’alternanza perciò, anche contigua, di motivi tra loro opposti (ad esempio: il tragico sublime immediatamente rincalzato dal grottesco), che ha creato tanta perplessità nei lettori del Furioso e ha fatto pensare a una ambiguità sentimentale del poeta [...], in realtà corrispondeva alla disposizione dell’Ariosto a rappresentare con fedeltà il particolare nel molteplice, evitando con cura che ogni particolare di cui la natura è doviziosamente dotata risultasse isolato e brillasse di vita propria e indipendente. Onde le smorzature repentine, l’alzarsi e l’abbassarsi tempestivo dei toni. A un’arte che spaziava così largamente e che mirava a una così complessa rappresentazione della vita, molti pericoli sovrastavano. Primo fra tutti quello di approdare a una meccanica giustapposizione di figure e di temi, a una mera somma di risultati episodici, non a un organismo perfettamente fuso. E invece ogni pericolo di anarchia compositiva appare evitato, e l’opera ariostesca si presenta a noi come un esempio mirabile di unità e di armonia compositiva. La ragione è che l’Ariosto non si rivolgeva alla varietà della natura per il semplice gusto istintivo del romanzesco avventuroso, ma per cogliervi le leggi profonde che la regolano e la governano. Così quella varietà, anziché frantumarglisi nelle mani, veniva rivelando, alla sua coscienza d’uomo moderno, quel segreto ordine dell’universo entro cui si conciliano, senza esclusioni di sorta, anche le opposizioni più irriducibili. Gli era dunque consentito, dopo uno scandaglio così acuto, di assumere lietamente nella sua opera tutta intera la natura, non considerando alcunché di essa meritevole di esserne escluso. L’unità che deriva da tale atteggiamento, e che il Furioso riflette fedelmente in sé, è tutt’altra cosa dall’unità di tipo medievale, immobile e con un centro fisso e prestabilito. È, proprio all’opposto, un’unità dinamica risultante dalla serie infinita dei moti della vita universale, compresenti nella loro totalità all’intelletto dello scrittore che li abbraccia e li rappresenta nei loro rapporti sempre diversi e inesauribili. Perciò il poema è solo apparentemente dominato dal caso (non si parli di destino che è

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concetto estraneo all’anima ariostesca). Tanto è vero che, mentre l’evento imprevisto sembra essere l’unico motore dell’opera, in realtà è la mente dell’Ariosto che ne predispone tutte le implicazioni e ne amministra con mano ferma e sicura tutti gli impulsi e le energie. L’unità del Furioso è dovuta, dunque, all’opera di sapiente armonizzazione che l’Ariosto ha saputo compiere per ridurre a cordiale e naturale convivenza i molteplici temi, anche contrastanti, di cui il poema è contesto. Un’opera che solo lo scrittore, in quanto uomo dell’arte, può realizzare interpretando e rappresentando la vita degli uomini [...], soggetti agli impulsi esterni e spesso anche vittime di essi. Lo scrittore, infatti, è ormai al di fuori della vita intricata degli impulsi. È colui che, per averli conosciuti tutti nella loro essenza e nelle loro contraddizioni, può controllarli interamente e quindi raffigurarne con lucido coordinamento, cioè in unità, l’assidua complicazione. Questa condizione di eccezionale libertà conferisce all’Ariosto quella sua rara virtù di sereno e obiettivo distacco, quell’autentica saggezza che è stata erroneamente giudicata come indifferenza o superficialità sentimentale.

Comprensione e analisi

Produzione

1. Individua la tesi proposta dal critico a proposito del capolavoro di Ariosto. 2. Ricostruisci lo schema argomentativo del testo riportato, sintetizzando gli argomenti presentati da Caretti a sostegno e illustrazione della propria tesi. 3. Quale interpretazione del poema e del suo stesso autore vuole respingere Caretti con la propria argomentazione? 4. In che senso l’unità dinamica del poema ariostesco si distingue dall’unità di tipo medievale? 5. Dalla sua interpretazione del Furioso, il critico desume anche un ritratto umano di Ariosto: illustralo brevemente. Il giudizio espresso dal critico Lanfranco Caretti nel testo proposto può rimandare ad alcuni dei valori fondanti e più fecondi della visione del mondo e della cultura rinascimentali. Individua e illustra come il Furioso esprime i più originali e vitali aspetti della concezione rinascimentale dell’uomo e della vita, istituendo eventualmente confronti con altre opere e autori che conosci. Sviluppa le tue considerazioni al riguardo in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

782 Quattrocento e Cinquecento 14 Ludovico Ariosto


CAPITOLO

15 L’universo della follia.

Realtà sociale e interpretazioni letterarie

La follia è una condizione umana presente in ogni epoca. Tuttavia cambiano nel tempo la percezione di cosa sia la follia e soprattutto il rapporto che la società e la cultura intrattengono con i folli.

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Quattrocento e cinquecento

Nel Medioevo i pazzi venivano emarginati, con estrema crudeltà, allo stesso modo dei lebbrosi, con l’eccezione di feste collettive, in cui era lasciato libero spazio al riso e alla trasgressione, cosicché ogni rapporto sociale era sovvertito. Nel Cinquecento, negli ambienti delle corti europee, la follia trova un ruolo istituzionale nella figura del “folle del re”, una sorta di buffone che si finge folle, a cui è concessa piena libertà di parola e di critica nei confronti del sovrano. La letteratura è affascinata, fin dall’età medievale e barocca, per arrivare alla modernità, dal fenomeno della pazzia, che costituisce in molte opere un tema portante e che taglia trasversalmente la cultura letteraria nei vari secoli. Non dobbiamo dimenticare la fonte costituita dai classici: la pazzia nella letteratura greca è uno dei mezzi con cui gli uomini possono conoscere le manifestazioni estreme della loro natura.

follia: esperienza 1 Laumana e tema letterario 783 783


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15 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie 1 La follia: esperienza umana e tema letterario 1 Folli e follia dal Medioevo al Rinascimento SGUARDO SULL’ARTE La nave dei folli PER APPROFONDIRE L’iconografia della follia

2 La follia come tema letterario Impazzire per amore: dal romanzo cavalleresco medievale all’Orlando Furioso Chrétien de Troyes LEGGERE T1 Il «cerimoniale della follia» LE EMOZIONI EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

3 I diversi significati della follia nella cultura umanistico-rinascimentale Il doppio sguardo di Leon Battista Alberti Leon Battista Alberti T2 La libertà del vagabondo Erasmo da Rotterdam: la follia come saggezza Erasmo da Rotterdam T3 Il rovesciamento del rapporto follia-saggezza T4 Il privilegio dei “folli del re”

VERSO IL NOVECENTO Da Erasmo a Pirandello: il folle “ragionatore”

4 La ripresa del tema della follia nell’età barocca Miguel De Cervantes T5 Il testamento di Don Chisciotte Sintesi con audiolettura Zona Competenze VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

784 Quattrocento e Cinquecento 15 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie


Quattrocento e cinquecento CAPITOLO

16 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento

Mentre nel Medioevo il teatro costituisce un’esperienza che coinvolge l’intera collettività e si incentra esclusivamente su temi religiosi, il teatro umanistico-rinascimentale ha carattere laico e si sviluppa all’interno delle corti per un pubblico ristretto e raffinato. Il teatro rinascimentale è una delle manifestazioni più significative del classicismo: si ispira infatti al teatro antico, da cui deriva aspetti strutturali, ma anche temi, situazioni, personaggi. Il genere teatrale di maggiore successo è la commedia, ispirata per lo più alla commedia latina, a cominciare dalla Cassaria di Ludovico Ariosto (1508) che inaugura il genere, alla Calandria del Bibbiena e alla Mandragola di Machiavelli, la più riuscita e celebre commedia rinascimentale. Si discosta nettamente dall’esempio dei classici il teatro di Ruzante, per la scelta di una rappresentazione realistica del mondo contadino, enfatizzata dal dialetto pavano, cioè il padovano popolare.

teatrali 1 Ledelforme Medioevo teatro umanistico2 ilrinascimentale 785 785


1 Le forme teatrali del Medioevo 1 Il teatro medievale: dai drammi liturgici alle “sacre rappresentazioni”

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Per approfondire La specificità della comunicazione teatrale

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Per approfondire Tragedia e commedia nel mondo classico

La decadenza del teatro classico nell’Alto Medioevo Durante l’Alto Medioevo lo spettacolo teatrale del tipo greco e romano sparisce completamente, sia per la distruzione fisica dei luoghi in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali sia, più in generale, per la grave decadenza della vita cittadina. Per secoli non verranno più costruiti teatri, ma la tradizione teatrale non andrà del tutto dimenticata: all’interno delle abbazie, negli scriptoria monastici, insieme agli altri testi della tradizione classica, i monaci continuano a ricopiare anche i testi teatrali antichi, consentendo così la futura ripresa del teatro laico che si svolgerà con l’Umanesimo e il Rinascimento. Un teatro religioso “collettivo” Come avviene per la maggior parte delle testimonianze culturali, anche il teatro – per tutto il Medioevo e parte del Quattrocento – ha a che fare quasi esclusivamente con la dimensione religiosa, per quanto riguarda sia i temi sia i generi (drammi liturgici, lauda drammatica, sacre rappresentazioni) sia gli ambienti (inizialmente la chiesa e gli spazi immediatamente circostanti) sia, infine, le occasioni delle rappresentazioni stesse: esse sono collegate ai principali eventi liturgici o alle feste dei santi patroni delle città. Il teatro medievale è sempre un evento “collettivo”, che coinvolge l’intera comunità dei fedeli. L’affermarsi, nel corso del Rinascimento, di un teatro di ispirazione laica modellato sui classici comporterà la decadenza degli spettacoli teatrali a contenuto religioso. Il dramma liturgico È agli inizi del X secolo che comincia a svilupparsi una forma embrionale di teatro ed è un teatro a soggetto religioso, che si collega strettamente alla liturgia stessa della messa (si parla infatti di “dramma liturgico”). I drammi liturgici, che conoscono una vasta diffusione in tutta Europa, vengono rappresentati nella chiesa stessa e la loro funzione è quella di supportare il rito della messa attraverso la spettacolarizzazione di temi religiosi tratti dal Vangelo (ad esempio la crocefissione o la resurrezione), così da coinvolgere maggiormente i fedeli. L’uso della lingua latina non consentiva infatti al pubblico dei credenti se non una presenza totalmente passiva. La lauda drammatica A un certo punto il teatro religioso non viene più solo ospitato entro la chiesa ma si riversa anche nelle piazze, a cominciare da quella antistante la chiesa e nelle vie cittadine. A questa “uscita”, di forte rilevanza simbolica, corrisponde, da un lato, l’impiego del volgare rispetto al latino e, dall’altro, la gestione del dramma religioso da parte non più degli ecclesiastici ma delle confraternite laiche di fedeli che si facevano portavoce di una religiosità più autentica e partecipata. Destinata alla recitazione di una confraternita (o forse dedicata dall’autore ai suoi confratelli), è la celebre lauda Donna de Paradiso di Jacopone da Todi (➜ C2 T7 PAG. 113), probabilmente il primo esempio di lauda drammatica. La lauda drammatica rappresenta un particolare sviluppo della lauda in volgare affermatasi verso il 1260 con il movimento dei flagellanti o disciplinati: è caratterizzata dalla presenza di più voci che si alternano (come nel caso appunto di Donna de Paradiso), in una embrionale struttura teatrale.

786 Quattrocento e Cinquecento 16 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento


Pietro Lorenzetti, La Deposizione di Cristo, affresco, 1326-1329 (Assisi, Basilica inferiore). Il tema della Passione è reso con la tragicità propria dei drammi liturgici medievali: Maria, Mater Dolorosa, accarezza i capelli di Gesù, mentre la Maddalena, inginocchiata a terra, bacia i piedi insanguinati.

Le sacre rappresentazioni Diverse dal dramma liturgico e dalla lauda drammatica sono le sacre rappresentazioni, un tipo di spettacolo diffuso soprattutto nella Firenze quattrocentesca di cui ci sono pervenuti molti documenti scritti. Le sacre rappresentazioni non hanno più origine dall’ascetica cultura penitenziale delle laude drammatiche ma sorgono in un ambiente borghese e umanistico: si svolgevano in occasione della festa per un santo, in particolare per san Giovanni, patrono di Firenze. Il soggetto era sempre sacro (si fondava sui testi biblici o sulle più diffuse vite dei santi); ma, a differenza dei drammi liturgici, le rappresentazioni non erano più parte integrante di un rito religioso bensì una specie di spettacolo autonomo, allestito dalle numerose confraternite che fiorirono a Firenze. Tra una scena e l’altra venivano inoltre inseriti intermezzi musicali e persino inserti comici riguardanti personaggi e situazioni della cronaca fiorentina; il che dimostra un progressivo allontanamento di questo tipo di spettacoli da un carattere esclusivamente religioso-devozionale.

PER APPROFONDIRE

Le forme embrionali di teatro profano A questa produzione di carattere religioso fanno da contrappunto forme di teatralità diverse, su soggetti per lo più profani, legate al mondo eterogeneo e alle recitazioni estemporanee dei giullari, che avevano un antecedente negli spettacoli dei mimi latini.

Effetti speciali Nelle sacre rappresentazioni veniva accentuato il carattere spettacolare: già a partire dal Trecento erano venute perfezionandosi macchine teatrali capaci di creare quelli che oggi chiameremmo dei veri e propri “effetti speciali”, con lo scopo di tradurre il mistero religioso in sensazioni visive e uditive forti, che non potevano non suggestionare il pubblico dei fedeli. In molti spettacoli del Quattrocento si potevano vedere «angeli che volano, paradisi che si aprono e si chiudono, roteano e si

accendono di mille fiaccole, la Vergine realmente “assunta” in cielo, trucchi e fiamme dell’inferno, corpi che sembrano sudare sangue, fantocci sottoposti a veristiche torture e mutilazioni» (Carandini). La compenetrazione tra attori e pubblico, attori e spettatori è tipica del primo teatro religioso in volgare, nel quale non solo mancava uno spazio teatrale istituzionalmente deputato a ospitare gli spettacoli, ma persino un fondale che isolasse la messinscena e sottolineasse la finzione teatrale.

Le forme teatrali del Medioevo

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2 Il teatro umanistico-rinascimentale 1 Il teatro di corte Il teatro umanistico-rinascimentale come “rito di corte” La nascita del teatro moderno si colloca nel Rinascimento e si collega strettamente alla vita della corte signorile: appartengono infatti all’universo cortigiano sia gli attori, sia chi mette in scena lo spettacolo, sia il pubblico; la rappresentazione stessa è allestita nella corte, in uno spazio adattato per l’occasione prima nei cortili e poi all’interno dei palazzi signorili (fino alla fine del Cinquecento non esistono, infatti, teatri fissi). Gli spettacoli sono organizzati in occasione di feste, come nel Medioevo. Le feste però riguardano non più solo occasioni quali il carnevale o momenti dell’anno liturgico, come avveniva per le sacre rappresentazioni, ma soprattutto eventi importanti nella vita della famiglia principesca: ad esempio fidanzamenti o nozze.

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Per approfondire I luoghi del teatro

Ballo a corte, miniatura lombarda, sec. XV.

La riscoperta del testo scritto Tappa fondamentale nell’evoluzione delle forme teatrali verso la moderna nozione di teatro è la rinnovata dignità attribuita al testo scritto, che rappresenta una delle conquiste fondamentali dell’Umanesimo. Mentre nelle rappresentazioni medievali il testo letterario occupava un ruolo marginale rispetto alle componenti visive dello spettacolo (non a caso molti testi di teatro religioso ci sono pervenuti anonimi), con l’Umanesimo si riscoprono i grandi testi teatrali dell’antichità (in particolare la commedia di Plauto e Terenzio) riportati alla loro veste originaria dalla filologia umanistica. Le tre fasi della rinascita del teatro laico In un primo tempo i testi classici circolano solo fra addetti ai lavori (gli umanisti e i loro discepoli) e sono recitati in latino. Presto però il signore stesso commissiona la traduzione in volgare dei testi di Plauto e di Terenzio, di cui si inserisce la rappresentazione all’interno delle feste di corte. In questo contesto, un ruolo di significativa rilevanza riveste la storia del teatro nella corti padane, e in particolare a Ferrara. Più precisamente, la prima rappresentazione in città di un volgarizzamento plautino, avvenuta il 25 gennaio 1486, è considerata un evento di grande importanza nella storia del teatro italiano, perché si tratta della prima rappresentazione teatrale a corte che diventa occasione di spettacolo e richiamo pubblico in un luogo appositamente attrezzato: quindi la base del teatro moderno. Nella fattispecie, il luogo teatrale è il cortile del palazzo ducale, in uno dei cui lati viene innalzato un palcoscenico di assi, mentre di contro, sempre in legno, vengono costruite gradinate per il pubblico. Il passaggio successivo, di lì a pochi anni, sarà quello dalla rappresentazione teatrale in cortile alla rappresentazione all’interno del palazzo, in sale appositamente attrezzate e riparate dalle intemperie: il che, evidentemente, costituisce la base dei primi teatri. Negli stessi anni, inoltre, a Ferrara gli eventi teatrali si svolgono con continuità, secondo una vera e propria stagione (tranne che nei periodi di lutto); la grande passione di Ercole

788 Quattrocento e Cinquecento 16 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento


d’Este per il teatro e la sua cura per gli allestimenti scenici, sempre più lussuosi e sofisticati, hanno peraltro una forte implicazione politica, poiché diventano pretesto e manifestazione di prestigio e suscitano l’emulazione degli altri signori. Si pensi che Ercole conservava una sorta di monopolio sui volgarizzamenti di Plauto e di Terenzio, prima facendone tradurre i testi a Battista Guarino, negli anni Settanta del Quattrocento, poi da altri letterati. La sua scelta dei Menecmi come spettacolo inaugurale dimostra senza dubbio un notevole intuito: non a caso, l’opera sarà di gran lunga la più rappresentata fino alla prima metà del Cinquecento, proprio perché il testo è l’emblema della cosiddetta “commedia degli errori” o del “sosia”, di forte impatto e capacità di intrattenimento per il pubblico. In questa fase, un ruolo pionieristico è esercitato da Ludovico Ariosto, che mette in scena per il carnevale del 1508 la Cassaria, con la quale inizia ufficialmente la fortunata storia della commedia italiana: modellata sulla Casina di Plauto, non è più infatti un semplice volgarizzamento dei testi classici, ma una nuova commedia in volgare. Illustrazione da un codice rinascimentale del 1460-1470 contenente le Commedie di Plauto (Madrid, Biblioteca Nacional).

Un teatro all’insegna del classicismo Il teatro italiano, come altri generi della cultura rinascimentale, si forma all’insegna del classicismo. I due principali generi teatrali del Rinascimento – la tragedia e la commedia – derivano dall’antichità classica e sono nettamente distinti sulla base delle teorie contenute nella Poetica di Aristotele, un testo chiave nel dibattito letterario del tempo: la tragedia rappresenta personaggi più elevati rispetto alla comune umanità (come gli eroi della mitologia classica) che vivono conflitti morali e spirituali, usando uno stile sostenuto; la commedia, al contrario, presenta personaggi che appartengono al ceto medio o basso, immersi in situazioni quotidiane, e impiega un linguaggio medio o basso. La stessa scenografia – sulla base di indicazioni contenute nel De architectura di Vitruvio (I sec. a.C.) tradotto in volgare nel 1521 – prevede ambientazioni differenti per l’uno e l’altro genere: nel caso della commedia lo sfondo sarà costituito da piazze cittadine, abitazioni borghesi, botteghe o chiese, mentre la tragedia sarà ambientata fra dimore patrizie e monumenti antichi allusivi a quelli di Roma (l’arco trionfale, il Colosseo); il genere del dramma pastorale avrebbe avuto invece come sfondo boschi e capanne di pastori. Uno schema che la scena teatrale seguirà per lungo tempo.

Il teatro laico rinascimentale riscoperta dei testi antichi

Teatro laico rinascimentale

poetiche di imitazione dei classici

ambiente di corte

Il teatro umanistico-rinascimentale 2 789


Sia le commedie sia le tragedie, infine, con pochissime eccezioni, rispettano le tre unità – di tempo, di luogo e d’azione – che erano ricondotte a quanto affermato nella Poetica aristotelica a proposito del teatro tragico greco (➜ C10, PAG. 579). Il teatro laico (cioè non religioso quanto a tematiche e funzione) nasce dunque nell’ambito del classicismo e come esperienza socialmente elitaria: questo carattere comporta ovviamente dei risvolti negativi (e cioè la sostanziale emarginazione di ampia parte della popolazione); d’altra parte, però, assicura alle forme teatrali elaborate dal Rinascimento italiano un livello artistico molto più elevato rispetto alle coeve esperienze europee: ancora verso la metà del Cinquecento in Spagna, Francia e Germania il teatro era in mano a scalcinati mestieranti e veniva rappresentato in ambienti ben poco qualificati, davanti a un pubblico rozzo ed eterogeneo.

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Video e Audio Festa del Paradiso di Leonardo in Vita di Leonardo Renato Castellani (Sceneggiato Rai, 1971)

La tragedia e il dramma pastorale La tragedia, ispirata ai classici greci e al teatro dello scrittore e filosofo latino Seneca (4 a.C.-65 d.C.), stentò ad affermarsi al di fuori di un pubblico di dotti e specialisti (anche perché destinata più alla lettura che alla rappresentazione) e produsse risultati artistici non rilevanti. Maggiore fortuna, perché meglio potevano legarsi al gusto raffinato e allo spirito edonistico della corte, avranno le forme teatrali a sfondo pastorale. Già nel corso del Quattrocento, nell’ambito del gusto erudito umanistico, comincia infatti a diffondersi nelle feste di corte la presenza di favole, cioè soggetti teatrali, di argomento mitologico-pastorale. La prima, o almeno la più nota, testimonianza di queste ultime è la Fabula di Orfeo (per il soggetto ➜ C10, PAG. 587), commissionata nel 1480 a Poliziano, uno dei più grandi intellettuali umanisti, dal cardinale Francesco Gonzaga per festeggiare un fidanzamento alla corte di Mantova. La Fabula di Orfeo ebbe grandissima fortuna, contribuendo a diffondere, soprattutto nelle corti dell’area padana (Milano, Ferrara, Mantova), la moda degli spettacoli a sfondo mitologico-pastorale: una tipologia che confluirà in un vero e proprio genere, ossia quello del dramma pastorale. Esso ritrae, sullo sfondo di un ambiente campestre, il mondo dei pastori in modo non certo realistico, ma stilizzato, ricreandolo attraverso le suggestioni della poesia classica (da Teocrito a Virgilio). Sarà un genere particolarmente congeniale al gusto classicistico ed elitario del Rinascimento, il cui capolavoro, quasi un secolo dopo l’Orfeo, sarà l’Aminta di Torquato Tasso (1573) (➜ C19).

2 La commedia, genere chiave della cultura rinascimentale Comicità e commedia Delle due più importanti forme teatrali, quella sicuramente più significativa – sia a livello del gradimento del pubblico sia per quanto riguarda i risultati artistici – fu la commedia, che rispondeva maggiormente al gusto edonistico del Rinascimento e alle situazioni della vita cortigiana in cui si iscrivevano le rappresentazioni teatrali (ossia, come già si è detto, le feste). Tra i generi praticati dalla letteratura rinascimentale, la commedia è quello che meglio documenta una visione laica della vita, qui affermata attraverso il veicolo della comicità. Nella commedia rinascimentale si consacra la legittimità del riso, l’iscrizione stabile nel territorio della letteratura del comico, che era stato marginalizzato o comunque confinato in ambiti e ruoli particolari dal rigorismo religioso del Medioevo. Il Rinascimento associa la comicità a uno specifico genere letterario: se in questo modo la sfera del comico viene privata del suo spirito più genuino e trasgressivo, dall’altro però lo spettacolo comico risulta indubbiamente valorizzato dal suo inserimento tra le forme d’arte.

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Per approfondire La scenografia prospettica

Le costanti della commedia rinascimentale Già con le commedie di Ariosto inizia a delinearsi quella codificazione del teatro comico che si definirà stabilmente intorno al 1540 e che prevede alcuni elementi sostanzialmente costanti. Essi sono: • lo scenario Conformemente alla tradizione latina, la commedia rinascimentale ha uno sfondo realistico: la scena rappresenta l’ambiente urbano, in cui si iscrivono situazioni e personaggi tratti dalla vita quotidiana; • la struttura La commedia rinascimentale è in genere divisa in cinque atti ed è preceduta da un prologo, per lo più impiegato (come nelle commedie latine di Terenzio) non per illustrare l’intreccio, ma come occasione talvolta polemica di dibattito letterario: è questa appunto la sua funzione in una delle due più celebri commedie rinascimentali: La Calandria del Bibbiena (➜ T1 OL); • l’intreccio L’intreccio risente soprattutto del modello di Plauto: utilizza infatti le ricorrenti situazioni dello scambio di persona, dei capovolgimenti e magari dell’agnizione (cioè la rivelazione finale della vera identità di un personaggio), ma impiega anche molto spesso strutture tematiche e situazioni comiche attinte dal Decameron, in particolare per quanto concerne il tema della beffa; • i personaggi Essi non sono in genere caratterizzati psicologicamente ma rappresentano dei “tipi fissi” che rimandano spesso a figure già convenzionali nella commedia latina: il servo astuto, il giovane innamorato (per lo più contrapposto al vecchio severo), ecc. A questi personaggi tradizionali si associano, in alcune commedie, tipi che rimandano alla realtà coeva come la figura del pedante saccente, ritratta in molte commedie del tempo (ad es. in Il pedante di Francesco Belo [1529] e in Il Marescalco di Aretino [1527, ed. a stampa 1533]); • la presenza della dimensione erotica Proprio per le convenzioni connesse al genere fin dall’antichità, la commedia rinascimentale dà spazio a una rappresentazione dell’amore che investe soprattutto il piano della sessualità, talvolta evocata in modo diretto per stimolare il divertimento del pubblico. Una rappresentazione che contrasta vistosamente con le teorie dell’amor platonico, diffuse nei trattati del tempo (a cominciare dagli Asolani del Bembo). A una concezione idealizzante dell’amore la commedia contrappone una visione naturalistica e dà spazio alla rappresentazione dell’attrazione dei sensi (➜ T3a-T3b OL);

Tragedia, dramma pastorale, commedia

GENERE

tragedia

dramma pastorale

commedia

MODELLO

Seneca

Teocrito e Virgilio

Plauto e Terenzio

CARATTERISTICHE

stanche rivisitazioni di modelli e storie della classicità

storie amorose in scenari bucolici

genere adatto all’intrattenimento con storie che esprimono lo spirito laico del tempo

Il teatro umanistico-rinascimentale 2 791


• i meccanismi della comicità La comicità delle commedie rinascimentali non è di “carattere”, cioè fondata sulla valorizzazione a fini umoristici delle diverse psicologie dei personaggi, ma di “intreccio”, ossia affidata alle situazioni in cui i personaggi si vengono a trovare. Inoltre le commedie utilizzano una comicità che sfrutta le risorse del linguaggio e che si può distinguere in “comico del significato” (fondato sull’equivoco linguistico e sul conseguente fraintendimento) e “comico del significante” (presente quando si valorizzano comicamente determinati effetti fonici, a prescindere dal significato delle parole usate ➜ PER APPROFONDIRE “Comico del significato” e “comico del significante”); • lo stile Secondo il principio derivato dalle poetiche classiche, che prevedeva una stretta congruenza tra materia e stile, la commedia (a differenza della tragedia), proprio perché rappresenta la realtà quotidiana, utilizza uno stile che oscilla in genere tra il medio e il basso e che può ospitare la mimesi del parlato e forme dialettali finalizzate a ritrarre determinati ambienti, situazioni, tipologie sociali. Nel suo complesso, la commedia documenta un insieme di scelte linguistiche molto vario e ricco ed è caratterizzata da un sostanziale plurilinguismo, che si contrappone alla rigida codificazione verso l’alto della lingua letteraria imposta nel primo Cinquecento dal Bembo.

3 La produzione comica del Cinquecento Una ricca produzione Nel corso del Cinquecento, la produzione di commedie è molto ricca, stimolata dal crescente successo del genere presso il pubblico. Alla grande quantità di testi prodotti non corrisponde però nel complesso un elevato livello artistico. Pochi sono gli esempi davvero significativi: tra di essi spiccano La Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena (1470-1520), la Veniexiana di autore ignoto e la Mandragola di Niccolò Machiavelli (➜ C17). Una commedia di successo: La Calandria Nel 1513 Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, chiede a un giovane e brillante ecclesiastico, Bernardo Dovizi da Bibbiena, diplomatico a Roma, di scrivergli una commedia per le feste del carnevale, nelle quali indirettamente si sarebbe celebrata la rinnovata alleanza tra Urbino e il papato. Nasce così La Calandria, l’unica commedia di Bibbiena e uno degli esempi più significativi, per la felice vena comica che la caratterizza, del teatro rinascimentale. Per allestire lo spettacolo viene scelto Castiglione, che allora soggiornava alla corte di Urbino, mentre la scenografia è affidata a un allievo di Raffaello, Gerolamo Genga. Sul proscenio è ritratta una contrada, sul fondale strade, palazzi, chiese, torri in prospettiva, che rimandano alla città di Roma. La Calandria ha un successo strepitoso in Italia e anche all’estero. L’intreccio della commedia prende spunto dai Menecmi del commediografo latino Plauto, ma il modello plautino è intrecciato a fitti richiami decameroniani (al personaggio di Calandrino allude il titolo stesso), secondo una formula che diventerà ricorrente. I riferimenti al testo di Boccaccio, pur abilmente dissimulati, venivano presumibilmente identificati dal pubblico di corte, accomunato all’autore dal possesso di una raffinata cultura.

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PER APPROFONDIRE

La Veniexiana Un vero capolavoro della commedia cinquecentesca è La Veniexiana (1536 ca.) di autore ignoto. Frutto della ricca cultura teatrale dell’ambiente veneziano, ambientata a Venezia (il titolo significa appunto “commedia di Venezia”) è una commedia in prosa, non fondata sull’imitazione di Plauto e Terenzio ma realistica nella ricostruzione dello sfondo ambientale, nella scelta dei personaggi, nei temi e nel linguaggio (è impiegato prevalentemente il dialetto veneziano). La trama è molto semplice e ruota attorno al tema dell’amore, inteso in senso esclusivamente erotico: una scelta tanto più audace se si pensa che in questo caso il desiderio amoroso e l’iniziativa per realizzarlo riguardano le donne: Angela, una vedova ancora giovane, e Valeria, una giovane sposata a un uomo anziano. Entrambe si innamorano di un ragazzo molto bello, Iulio, da poco arrivato a Venezia. Servendosi della complicità delle rispettive serve (Nena e Oria) e dell’aiuto del facchino Bernardo, le due donne riescono a turno ad accompagnarsi al giovane straniero. A differenza della maggior parte delle commedie cinquecentesche, La Veniexiana non è online tanto una commedia “di intreccio” (non ci sono travestimenti, T1 Bernardo Dovizi da Bibbiena Prologo a difesa della modernità agnizioni, complicate avventure) ma piuttosto “di caratteri”, La Calandria vivacemente tratteggiati soprattutto attraverso i dialoghi.

“Comico del significato” e “comico del significante” La comicità, come si è detto, non ha solo a che fare con determinate situazioni e tipologie di personaggi, ma è affidata anche al linguaggio, come risulta evidente anche nel testo proposto. Quali sono i mezzi linguistici sfruttati per ottenere un effetto comico? La studiosa Maria Luisa Altieri Biagi, che ha dedicato un saggio illuminante al linguaggio teatrale, distingue tra “comico del significato” e “comico del significante”. Il primo, di cui la commedia rinascimentale offre innumerevoli esempi, si basa sul fraintendimento, sull’equivoco. Interrogandosi sulle ragioni per le quali l’equivoco linguistico suscita il riso, Altieri Biagi osserva che nell’equivoco linguistico c’è sempre un elemento di sorpresa, dovuto al turbamento della norma linguistica; il riso scaturisce dalla possibilità che noi abbiamo, pressoché simultaneamente, di restaurare mentalmente l’“ordine”, di riassorbire nel codice linguistico anche il significato imprevisto e improprio. Nella commedia rinascimentale la diffusa presenza di questa categoria del comico è anche un riflesso delle rigide gerarchie sociali vigenti: il pubblico di corte ride dell’ignoranza o della sciocchezza che fa scaturire l’equivoco linguistico, delle storpiature linguistiche, frutto spesso di un’etimologia popolare che decifra in modo errato una parola. La comicità deriva quindi, in questo caso, da uno scontro di codici tra loro incomunicanti, in cui quello superiore è anche quello del pubblico. Ad esempio, nella Pastorale di Beolco, il dialogo tra Ruzante e Arpino, «l’equivoco è lo strumento linguistico che marca l’incomunicabilità fra due mondi, quello arcadico sannazariano e quello, irto di problemi fisiologici, del contadino pavano»: ARPINO O sacro Pan, pietà d’i servi toi! RUZANTE Tu me vuò dar del pan? [...] È chiaro che lo spettatore di corte, a differenza di Ruzante,

è in grado di decifrare l’allusione al dio Pan della mitologia classica e proprio questa competenza gli consente di ridere dell’equivoco in cui cade Ruzante (che, perennemente affamato, scambia Pan per il pan, il pane). Gli esempi di questo tipo di fraintendimento sono innumerevoli: i servi possono scambiare le epistole per fistole; o i sonetti per sognetti, e così via... La risata del pubblico è assicurata. Nel passaggio alla commedia dell’arte, forma teatrale che emergerà nel secondo Cinquecento, questo tipo di comicità (del “significato”) continua a essere sfruttato, ma in misura minore, mentre emerge prepotentemente il “comico del significante”, che si realizza «usando “ludicamente” la lingua, svalutandone l’aspetto semantico e la funzione comunicativa, per puntare sui valori fonici, musicali». Al contrario del “comico del significato” questo tipo di comicità è fondato sullo sperpero di parole, su un vero e proprio diluvio di parole: dire in trenta righe, a forza di ripetizioni, accumuli, enumerazioni (le più tipiche sono quelle di cibi), quello che potrebbe essere detto in tre righe. Inoltre, proprio perché la comicità del significante tende ad annullare la funzione comunicativa della lingua e a privilegiarne il suono in sé e per sé, sfrutta le assonanze, le rime, le allitterazioni, insiste su un monema lessicale, in un gioco funambolico che mira a stordire lo spettatore. Ecco un esempio proposto dalla Altieri Biagi e tratto dal Filosofo di Aretino (a. IV, sc. iii): «impacciarsi con simili donne astute talmente, che distrigano intrighi, che non gli distrigarebbe il distriga, i distrigamenti delle distrigaggini distrigate da le distrigature de la distrigaggine distrigatoia». È in particolare nella caratterizzazione linguistica dello sciocco, personaggio chiave della commedia dell’arte, che la lingua diventa «gioco puro, definitivamente liberato da ogni coerenza, libera fluttuazione di parole», in cui dominano tautologie, nonsensi, in una spericolata acrobazia verbale, come si può notare nell’esempio tratto dalla Calandria.

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Bernardo Dovizi da Bibbiena

T2

Un esempio canonico di comicità La Calandria

B. Dovizi da Bibbiena, La Calandria, in Il teatro italiano. La commedia del Cinquecento, a cura di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1977

Sulla scena ci sono due dei protagonisti della commedia: il servo Fessenio e lo sciocco Calandro, marito sprovveduto di Fulvia. Costui si è perdutamente innamorato di quella che crede essere una donna, Santilla (in realtà ha visto Lidio, il fratello gemello di Santilla, travestito da donna) e Fessenio si prende gioco di lui, fingendo di fargli da intermediario. La scena, pur nella sua brevità, ci mostra in atto i fondamentali meccanismi della comicità utilizzati dalla commedia rinascimentale per divertire il pubblico. SCENA SESTA Fessenio servo, Calandro.

FESSENIO Salve, patron, che ben salvo sei da che la salute ti porto1. Dammi la mano. CALANDRO La mano, e i piedi. FESSENIO (Parti che i pronti detti gli sdrucciolino di bocca?2) CALANDRO Che c’è? 5 FESSENIO Che, ah? El mondo è tuo, felice sei. CALANDRO Che mi porti? FESSENIO Santilla tua ti porto: che piú te ama che tu non ami lei, e di esser teco piú brama che tu non brami, perché gli ho detto quanto tu se’ liberale, bello e savio: uuuh! tal che la vuol3, in fine, ciò che tu vuoi. Odi, patrone: ella non sentí 10 prima nominarti che io la viddi tutta accesa de l’amor tuo. Or sarai ben, tu, felice. CALANDRO Tu di’ il vero. E’ mi par4 mille anni succiar quelle labra vermigliuzze e quelle gote vino e ricotta5. FESSENIO Buono! (Volse dir6 sangue e latte) CALANDRO Ahi, Fessenio! Imperator ti faccio. 15 FESSENIO (Con che grazia l’amico catta grazia7!) CALANDRO Or andianne da lei. FESSENIO Come, da lei? E che? pensi tu ch’ella sia di bordello?8 Andarvi ti bisogna con ordine9. CALANDRO E come vi si anderà? 20 FESSENIO Coi piedi. CALANDRO So bene. Ma dico: in che modo? FESSENIO Hai a sapere che, se tu palesemente vi andasse10, saresti visto. E però sono rimasto con lei, perché tu scoperto non sia e perché ella vituperata non resti11, che tu in un forziero12 entri e, portato in camera sua, insieme quel piacere prendiate che vorrete tutti a due.

1 da che... ti porto: dato che ti porto la salvezza. Fessenio allude al fatto che finalmente Calandro potrà avere Santilla. 2 Parti... di bocca?: Ti pare (Fessenio si rivolge al pubblico) che gli scivolino dalla bocca parole dirette? 3 tal che la vuol: così che lei desidera. 4 E’ mi par: Mi sembra. E’ sta per “egli”.

5 gote vino e ricotta: guance bianche e rosse. 6 Volse dir: Ha voluto dire. 7 catta grazia: acquista benevolenza. 8 sia di bordello?: sia una donna di malaffare? 9 Andarvi... con ordine: È necessario che tu vada da lei con un piano ponderato.

10 Hai a sapere... vi andasse: Devi sapere che se tu andassi da lei scopertamente.

11 però... non resti: perciò sono d’accordo (sono rimasto) con lei perché tu non sia scoperto e perché ella non sia rimproverata (vituperata). 12 forziero: cassa, cassapanca.

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CALANDRO Vedi che io non v’andrò coi piedi, come dicevi. FESSENIO Ah! ah! ah! accorto amante! Tu di’ il vero, in fine. CALANDRO Non durerò fatica13, non è vero, Fessenio? FESSENIO Non, moccicon14 mio, no. CALANDRO Dimmi: il forziero sarà sí grande che io possa entrarvi tutto? 30 FESSENIO Mo che importa questo? Se non vi entrerai intero, ti farén di pezzi15. CALANDRO Come, di pezzi?! FESSENIO Di pezzi, sí. CALANDRO Oh! come? FESSENIO Benissimo. 35 CALANDRO Di’. FESSENIO Nol sai? CALANDRO Non, per questa croce. FESSENIO Se tu avesse navigato, il saperresti16: perché aresti visto spesso che, volendo mettere in una piccol barca le centinara delle persone, non vi enterriano17 40 se non si scommettessi18 a chi le mani, a chi le braccia e a chi le gambe secondo il bisogno; e, cosí stivate come l’altre mercanzie a suolo a suolo19, si acconciano sí che tengano poco loco20. CALANDRO E poi? FESSENIO Poi, arrivati in porto, chi vuol si piglia e rinchiava21 il membro suo. E 45 spesso anco avviene che, per inavvertenzia o per malizia, l’uno piglia el membro dell’altro e sel mette ove piú gli piace; e talvolta non gli torna bene, perché toglie un membro piú grosso che non gli bisogna, o una gamba piú corta della sua, onde ne diventa poi zoppo o sproporzionato, intendi? CALANDRO Sí, certo. In buona fé, mi guarderò bene io che non mi sia nel forziero 50 scambiato il membro mio. FESSENIO Se tu a te medesimo non lo scambi, altro certo non te lo scambierà, andando tu solo in nel forziero: nel quale quando tu intero non cappia22, dico che, come quelli che vanno in nave, ti potremo scommettere almen le gambe; con ciò sia che23, avendo tu ad essere portato, tu non hai ad oprarle24. 55 CALANDRO E dove25 si scommette l’omo? FESSENIO In tutti e’ luoghi ove tu vedi svolgersi: come qui, qui, qui, qui... Vuo’lo sapere? CALANDRO Te ne prego. FESSENIO Tel mosterrò in un tratto, perché è facil cosa e si fa con un poco d’in60 canto26. Dirai come dico io: ma in voce summissa27, per ciò che, come tu punto gridasse, tutto si guasteria. 25

13 durerò fatica: farò fatica. 14 moccicon: moccioso. 15 ti farén di pezzi: ti divideremo in pezzi. 16 il saperresti: lo sapresti. 17 perché aresti… non vi enterriano: perché avresti visto spesso che, volendo imbarcare centinaia di persone su una piccola imbarcazione, non vi entrerebbero.

18 si scommettessi: si sconnettessero, si svitassero. 19 a suolo a suolo: a strati. 20 si acconciano... poco loco: si dispongono in modo che occupino poco posto. 21 rinchiava: si riconnette, si riavvita. 22 nel quale... non cappia: nel quale, nel caso tu non ci stia dentro (cappia, latinismo da capĕre) intero.

23 con ciò sia che: dato che. 24 non hai ad oprarle: non hai da adoperarle.

25 dove: in quali punti del corpo. 26 con un poco d’incanto: con un pizzico di magia.

27 in voce summissa: a voce bassissima.

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CALANDRO Non dubitare. FESSENIO Proviamo, per ora, alla mano. Da’ qua, e di’ cosí: Ambracullàc. CALANDRO Anculabràc. FESSENIO Tu hai fallito28. Di’ cosí: Ambracullàc. CALANDRO Alabracúc. 70 FESSENIO Peggio! Ambracullàc. CALANDRO Alucambràc. FESSENIO Oimè! oimè! Or di’ cosí: Am... CALANDRO Am... FESSENIO ...bra... 75 CALANDRO ...bra... FESSENIO ...cul... CALANDRO ...cul... FESSENIO ...lac... CALANDRO ...lac... 80 FESSENIO Bu... CALANDRO Bu... FESSENIO ...fo... CALANDRO ...fo... FESSENIO ...la... 85 CALANDRO ...la... FESSENIO ...cio... CALANDRO ...cio... FESSENIO ...or... CALANDRO ...or... 90 FESSENIO ...te la... CALANDRO ...te la... FESSENIO do. CALANDRO Oh!29 oh! oh! oi! oi! oimè! FESSENIO Tu guasteresti il mondo. Oh, che maladetta sia tanta smemorataggine 95 e sí poca pazienzia! Ma, potta del cielo, non ti dissi pure ora che tu non dovevi gridare? Hai guasto lo ‘ncanto30. CALANDRO El braccio hai tu guasto a me. FESSENIO Non ti puoi piú scommetter, sai? CALANDRO Come farò, dunque? 100 FESSENIO Torrò, infine, forziero sí grande che vi entrerai intero. CALANDRO Oh, cosí sí! Va’ e trovalo in modo che io non mi abbia a scommettere, per l’amor di Dio! perché questo braccio m’amazza. FESSENIO Cosí farò in un tratto. CALANDRO Io anderò in mercato, e tornerò qui subito. 105 FESSENIO Ben di’. Adio. Sarà or ben ch’i’ trovi Lidio e seco ordini questa cosa, della quale ci fia da ridere tutto questo anno. Or vo via sanza parlare altrimenti a Samia, che là su l’uscio vego borbottare da sé. 65

28 fallito: sbagliato. 29 Oh!: evidentemente Fessenio ha torto

la mano all’ingenuo Calandro procurandogli un forte dolore.

30 Hai guasto lo ‘ncanto: Hai spezzato l’incantesimo.

796 Quattrocento e Cinquecento 16 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento


Analisi del testo I meccanismi della comicità: la ridicolizzazione dello sciocco Lo sciocco di cui ci si prende gioco è un personaggio costantemente presente nella commedia rinascimentale ed è figura già ampiamente sfruttata nella commedia plautina. In questo caso, però, come dimostra il nome stesso del personaggio, Calandro, è più rilevante l’influenza del modello boccacciano. Era immediato, infatti, per gli spettatori del tempo associare il personaggio ideato dal Bibbiena al Calandrino protagonista di alcune celebri novelle di Boccaccio. Come Calandrino, anche Calandro crede a ogni sciocchezza inverosimile raccontatagli da Fessenio, il servo abile e astuto che ripropone una figura tradizionale della commedia latina, ma che riecheggia soprattutto i personaggi di Bruno e Buffalmacco, i beffatori di Calandrino nel Decameron (si pensi ad esempio alla novella dell’elitropia, la pietra che rende invisibili ➜ C8, PAG. 497 T10a ).

La beffa fine a sé stessa

Una scena della Calandria di Bernardo Bibbiena, incisione, XVI secolo.

Nel beffare Calandro, Fessenio non ha un tornaconto né per sé né per altri: lo ispira un gusto perverso per la beffa fine a sé stessa, il piacere di divertirsi alle spalle di un povero sprovveduto che egli convince addirittura dell’opportunità di farsi slogare le membra per poter entrare nel forziero. In un’altra scena (a. II, sc. IX) Fessenio convincerà Calandro, una volta entrato nella cassapanca, della necessità di morire, spiegandogli poi che avrebbe potuto facilmente resuscitare sputando verso l’alto e scuotendo vigorosamente le membra! Il divertimento ha in questo caso a che fare con la complicità tra Fessenio e gli spettatori (colti, raffinati, appartenenti al pubblico della corte), accomunati dal gusto un po’ sadico di ridere alle spalle di una persona intellettualmente inferiore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Riassumi in massimo cinque righe la situazione comica del brano, mettendo in evidenza il gioco degli equivoci presente nel testo. ANALISI 2. Pur nella sua brevità, il testo mette in evidenza l’ottusità mentale di Calandro nel cadere nelle inverosimili trappole di Fessenio. Indica gli aspetti più rilevanti, quasi grotteschi, in cui emerge la stupidità di Calandro. 3. In alcuni passaggi del testo, Fessenio si rivolge al pubblico. Quali frasi pronuncia agli spettatori e cosa implica ciò? LESSICO 4. Nel testo si possono riconoscere alcune espressioni “basse”, ossia legate al lessico popolare. Rintracciale e spiega il motivo del loro utilizzo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Quali argomenti emergono nel brano e quindi quali temi l’autore esalta, seguendo il modello del Decameron di Boccaccio e facendo riferimento, ad esempio, alla novella dell’elitropia?

online

Testi in dialogo

T3 La dimensione erotica nella commedia e la visione platonicopetrarchista dell’amore

T3a Baldesar Castiglione L’errato giudizio dei sensi Il libro del cortegiano, IV, LII

T3b Anonimo L’incontro amoroso tra Angela e Iulio La Veniexiana, III, III

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4 La commedia anticlassicistica di Aretino e Ruzante La parodia di Euripide alla base del teatro quattrocentesco Non sono molti gli autori importanti che si discostano dalle strutture codificate e piuttosto ripetitive della commedia classicheggiante: tra questi, oltre a Machiavelli, autore della più celebre commedia rinascimentale, la Mandragola, spiccano certamente, con una più decisa posizione anticlassicistica (➜ C1), Pietro Aretino e soprattutto Angelo Beolco detto “Ruzante”. Anche in questo caso, come per gli altri generi teatrali e più complessivamente letterari, l’Umanesimo ha come riferimento la cultura greca e latina abilmente rielaborata e in particolare, per quanto concerne il dramma satiresco, un modello fondamentale è Il ciclope del drammaturgo greco Euripide, una parodia comica dell’episodio di Polifemo narrato nel libro IX dell’Odissea: il ciclope rappresentato da Euripide è assai diverso dal terribile Polifemo dell’Odissea, perché se Omero lo disegna come un essere mostruoso, primitivo, privo di qualsiasi scrupolo morale, al contrario il ciclope di Euripide è civilizzato ed equilibrato e, pur vivendo ai margini della società, non ha nulla di bestiale. Vuole che i satiri gli puliscano bene la grotta e, mentre le sue greggi pascolano nei campi, lui se ne va a caccia, non per procurarsi il cibo, ma solo per divertimento. Insomma non rappresenta più la selvaggia ferinità del ciclope omerico, ma un’espressione più civile, cittadina e, per contro, sono i satiri che restano le uniche creature veramente legate alla natura. Ebbene, l’operazione di rovesciamento parodico e comico realizzata da Euripide, capace di prendere in mano un modello per sovvertirlo, diventa un punto di riferimento per il teatro satirico del Quattrocento, come quello di Vincenzo Braca (originale interprete di un genere dialettale detto “farsa cavaiola”, dove un cavaiuolo, ovvero un ignorante e stolto villico cavese, abitante della città di Cava, viene rappresentato nei suoi tratti più grossolani e caricaturali), ma soprattutto di Ruzante, eccentrico rappresentante di una sorta di “scapigliatura” rinascimentale (➜ T4 ).

La cortigiana di Pietro Aretino Un ritratto anti-idealizzante della vita di corte La scelta antiaccademica e anticlassicistica caratterizza ogni esperienza letteraria di Pietro Aretino (1492-1556) (➜ C1). La sua poetica, incline a contestare ogni regola e modello in nome della personale inclinazione, della “natura”, lo porta a rifiutare anche nell’ambito teatrale la lezione dei classici. Contribuì a diffondere questa tendenza a Venezia, dove risiedette stabilmente a partire dal 1527, dopo essere stato costretto ad abbandonare Roma. Soprattutto la sua prima commedia, La cortigiana (1525), ovvero la “commedia della corte”, riflette una decisa posizione anticlassicistica, esplicitata fin dal prologo, che contiene significative dichiarazioni polemiche contro l’accademismo fiorentineggiante e la moda petrarchista. Ne La cortigiana Aretino ritrae in forma caricaturale la corte di Roma, di cui critica aspramente i vizi e la corruzione. L’ideazione della commedia e il quadro fosco che presenta risentono certamente dell’astio personale dell’autore, costretto ad andarsene da Roma (era appena sfuggito addirittura a un attentato, pare organizzato da un potente uomo di fiducia del papa): nove anni dopo, nel testo definitivo (1534) attenuerà notevolmente gli spunti più polemici e non a caso abolirà il lungo

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e anticonformistico prologo. La scelta anticlassicista induce Aretino a mettere sulla scena non tipi astratti ma personaggi veri abbastanza riconoscibili dal pubblico, che appartenevano alla cronaca cortigiana del tempo (i personaggi storici, evocati magari con rapidissime allusioni, sono più di sessanta). La struttura teatrale de La cortigiana è molto particolare, caratterizzata da continue interruzioni e riprese in grado di dare un ritmo spezzato all’azione teatrale; quasi «una serie di sketches da moderno cabaret» (Doglio) che riproducono il disorientamento, la perdita di senso e di valori di una società ormai fatiscente.

Il teatro controcorrente di Ruzante

Lessico familiare Persona fidata al servizio di famiglie nobili e/o ricche come servitore o amministratore e che ne abitava la stessa casa o le terre di proprietà.

Chi era Ruzante La biografia di Angelo Beolco (ca. 1496-1542), detto “Ruzante” dal personaggio da lui impersonato come attore, è ancora in parte da ricostruire. Nato a Padova da una relazione extramatrimoniale del padre (un medico che fu anche rettore della facoltà di medicina di Padova), esercitò fin da giovanissimo e per tutta la vita l’attività teatrale, nel triplice ruolo di drammaturgo, impresario teatrale (diresse una delle prime compagnie teatrali semiprofessioniste, in cui ogni attore era specializzato in un ruolo fisso, e organizzò con essa tournée teatrali di successo nelle corti del tempo) e soprattutto attore di grande successo. Tra l’attività di drammaturgo e quella di attore esiste una stretta relazione: il successo conseguito da Beolco presso il pubblico nel ruolo del contadino padovano Ruzante non fu certo irrilevante nella sua decisione di approfondire in più testi teatrali, attraverso una progressiva indagine, il “suo” personaggio; con Ruzante, Beolco finirà per identificarsi, al punto da comparire con il nome di questo personaggio persino nei documenti ufficiali. La sua genialità di uomo di teatro fu intuita dal nobile Alvise Cornaro, uomo di vasta cultura, presso il quale Ruzante era entrato a servizio come familiare verso il 1525 e che lo aiutò a farsi conoscere dal pubblico. Del Cornaro, ricco proprietario terriero, Ruzante amministrava come uomo di fiducia le tenute: ebbe modo così di conoscere da vicino la dura vita quotidiana dei contadini che rappresenterà con vivace e spregiudicato realismo nelle sue opere più note. Un’interpretazione fuorviante Una lettura ingenua, di derivazione romantica, ha interpretato la figura di Ruzante secondo il cliché dell’artista bohémien, privo di cultura letteraria, le cui doti artistiche deriverebbero da una spontanea adesione al mondo contadino espressa anche dalla scelta del dialetto pavano (il padovano parlato dai contadini) presente nella maggior parte delle sue opere. Questo fraintendimento della figura e dell’identità artistica di Ruzante ha certo nuociuto a una corretta interpretazione della sua opera, contribuendo a relegarla a lungo nell’ambito inferiore della letteratura dialettale di carattere popolare. Gli studi novecenteschi, sia biografici sia critici, hanno invece da tempo dimostrato da una parte la sua identità sociale di borghese colto, e dall’altra il suo rapporto stretto con la cultura del tempo, i cui modelli Ruzante mostra di conoscere molto bene anche se assume spesso una posizione polemica rispetto ad essi. La Pastorale: la rivisitazione dei modelli letterari La consapevole rivisitazione dei modelli letterari è evidente fin dalla prima opera di Ruzante, composta nel 1518 o, secondo altri nel 1521, nella quale già compare il “suo” personaggio: la Pastorale, un “contrasto” in versi, nel quale il mondo idillico dei pastori è messo di fronte a quello sanguigno e rozzo dei contadini padovani. Il teatro umanistico-rinascimentale 2 799


Di fatto sono contrapposte due tradizioni letterarie che Ruzante, pur giovanissimo, mostra di padroneggiare: da un lato la tradizione idealizzante della letteratura bucolica (dalle Egloghe di Virgilio all’Arcadia di Sannazaro) e dall’altro quella della “satira del villano”, particolarmente diffusa nell’area veneta; in questo tipo di testi il “villano”, ovvero il contadino, veniva sottoposto a una deformazione comicosatirica finalizzata a divertire il pubblico colto e raffinato della città. La contrapposizione investe anche il linguaggio adottato: letterario e stilizzato per i pastori, pavano per i contadini. La Betìa e la poetica del “naturale” Anche l’opera successiva di Ruzante, la Betìa (1524-1525), una commedia in cinque atti in versi e integralmente in dialetto pavano, si rifà a modelli letterari, in questo caso però popolareggianti: Ruzante attinge alla tradizione, tipicamente veneta, dei mariazi, farse incentrate sullo schema del “contrasto” che sfocia nella cerimonia nuziale: un genere che, con successive metamorfosi, attraverso la commedia dell’arte confluisce in molti melodrammi giocosi e opere buffe dei secoli successivi. Particolarmente importanti sono il prologo e il congedo della Betìa, in cui Ruzante enuncia per la prima volta la sua poetica del “naturale” (snaturalitè in pavano): «Il naturale tra gli uomini e le donne è la più bella cosa che ci sia, e perciò ognuno deve andare per la via diritta e naturale, perché, quando tu cavi la cosa dal naturale, essa ci imbroglia». La scelta del “naturale” induce Ruzante a criticare con sarcasmo la poesia bucolica che ritrae il mondo rurale in modo appunto “innaturale” e con un linguaggio toscaneggiante del tutto convenzionale, mentre Ruzante rivendica l’uso del dialetto pavano delle campagne, sia per ragioni di realismo rappresentativo, sia per una volontà polemica contro l’emarginazione delle lingue locali da parte del fiorentino (la lingua moschèta, che significa appunto “artificiosa”). Non è quindi un caso che qua e là Ruzante parodizzi nella Betìa, volgendole in pavano, intere frasi del trattato di Bembo sull’amore platonico, ossia Gli Asolani: il che ne dimostra la scaltrita cultura letteraria e la volontà polemica. Una contadina padovana, miniatura del XVI secolo, dal manoscritto Bottacin (Padova, Biblioteca civica).

I Dialoghi: un teatro iperrealistico L’originalità del teatro di Ruzante, la vocazione realistica della sua poetica, emergono in particolare nei tre Dialoghi in lingua “rustica”: Menego (una zuffa a sfondo sessuale), Bìlora, una cruda vicenda di gelosia che si chiude con l’omicidio, da parte del contadino soprannominato Bìlora (che in pavano significa “faina”, con allusione a un carattere infido e sanguinario) dell’amante della moglie; e soprattutto il celebre Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo (➜ T4 ), vertice della drammaturgia dell’autore padovano per consenso generale della critica. I Dialoghi furono composti intorno al 1528 (la cronologia delle opere di Ruzante non è sicura e le indicazioni degli studiosi divergono notevolmente), parallelamente a due commedie, La Fiorina e La Moscheta. Quest’ultima rielabora in un quadro più complesso la stessa materia dei Dialoghi (il titolo allude al parlar moscheto e cioè fiorentineggiante, adottato da Ruzante in questa commedia per non farsi riconoscere dalla moglie di cui vuole, con esiti peraltro catastrofici, saggiare la fedeltà).

800 Quattrocento e Cinquecento 16 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento


Commedia o tragedia? Presentati al pubblico come “comici”, i brevi atti unici hanno in realtà contenuti tutt’altro che tali: come ha scritto Ludovico Zorzi, uno degli studiosi più autorevoli di Ruzante, «dietro le sembianze del comico si cela un “teatro della crudeltà” tra i più asciutti e oppressivi del repertorio del Rinascimento». Nei Dialoghi il mondo contadino viene presentato senza alcun filtro deformante (e neppure interpretativo), nella sua cruda realtà, nei suoi bisogni primari: «la costruzione delle due brevi commedie fa leva sugli istinti e sulle passioni elementari che vi si affrontano, la fame, il bisogno economico e sessuale, la violenza come mezzo di sopraffazione e di immediato soddisfacimento» (Zorzi). Non è certo un caso che per questi dialoghi Ruzante elimini il prologo, abolendo così la mediazione tra autore e pubblico e catapultando l’attore, senza alcuna preparazione, nel mezzo dell’azione: una scelta che ha richiamato a qualcuno l’espediente narrativo (noto come “eclissi del narratore”) con cui Giovanni Verga realizzerà nel tardo Ottocento una poetica radicalmente realista.

Il povero soldato che ritorna dalla guerra, incisione da un’edizione delle commedie di Ruzante, 1589.

Il Reduce o Parlamento di Ruzante Il Parlamento (ovvero “discorso”), noto con il termine moderno di Reduce, è stato diviso in cinque scene: la prima presenta il monologo di Ruzante, un contadino reduce dalla guerra, che si dirige, lacero e affamato, verso Venezia, dove si è trasferita in sua assenza la moglie Gnua. La seconda scena vede l’incontro tra Ruzante e il suo compare Menato, che rimane colpito dal misero aspetto dell’amico. Menato informa Ruzante che la moglie, per campare, si è messa con un poco di buono. Nella terza scena sono messi a confronto Ruzante e Gnua. La donna sdegna sarcasticamente per la sua povertà il marito e a nulla valgono le sue profferte d’amore, alle quali essa contrappone la dura legge del bisogno. Nelle due scene successive Ruzante, senza opporre la minima resistenza, è bastonato dal bravaccio che si è preso sua moglie e tenta alla fine, davanti all’incredulo Menato, una menzognera autodifesa per salvare la sua umiliata dignità, chiudendo il suo “parlamento” con un’allucinata risata con la quale esce di scena.

Le principali commedie anticlassicistiche Aretino

La cortigiana

aperta critica dei vizi della corte romana

Ruzante

Dialoghi

rappresentazione realistica (e non bucolica) delle campagne

Il teatro umanistico-rinascimentale 2 801


Ruzante

T4

Il monologo di Ruzante e l’incontro con la moglie Gnua Parlamento de Ruzante, I; III

Ruzante, Parlamento de Ruzante, in Teatro, Einaudi, Torino 1967

Il titolo completo dell’atto unico da cui sono tratti i due testi proposti è Parlamento de Ruzante che iera vegnù da campo, ovvero Discorso di Ruzante di ritorno dal campo di battaglia. Il primo, che apre l’opera, corrisponde esattamente al titolo del dialogo, poiché consiste in un monologo che accoglie le amare considerazioni di Ruzante. Nella seconda scena Ruzante incontra la moglie Gnua, che si è sistemata con un poco di buono e di fatto si è data alla prostituzione per sopravvivere. Alle profferte amorose del povero Ruzante la moglie risponde con duro pragmatismo e cinica indifferenza: non sa che farsene di un poveraccio che non può assicurarle di che vivere.

SCENA PRIMA Ruzante solo RUZANTE [sbuca ansimante dal fondo e avanza fin quasi al proscenio. È lacero e sporco, coperto di polvere. Si guarda intorno, asciugandosi il sudore che gli cola di sotto l’elmetto] A’ ghe son pur arivò a ste Veniesie! Che a’ m’he pí agurò de arivar-ghe, che no se aguré mè d’arivare al’erba nuova cavala magra e imbolsía. A’ me refaré pure. A’ galderé pure la mia Gnua, che gh’è vegnua a stare. Cancaro1 ai campi e ala guera e ai soldè, e ai soldè e ala guera! A’ sè che te no me ghe arciaperè pí in campo. A’ no sentiré zà pí sti remore de tramburlini, com a’ fasea, nié trombe mo’, criar arme mo’... Arètu mo’ pí paura mo’2? Che, com a’ sentía criar arme, a’ parea un tordo che aesse abù una sbolzonà. S-ciopiti mo’, trelarí mo’... A’ sè che le no me arvisinerà. Sí, le me darà mo’ in lo culo! Ferze mo’, muzare mo’? A’ dromiré pur i miè’ soni. A’ magneré pur, che me farà pro. Pota3, mo’ squase che qualche bota a’ no avea destro da cagare, che ‘l me fesse pro. Oh, Marco, Marco!4 A’ son pur chí, e ala segura. Cancaro, a’ son vegnù presto. A’ cherzo che a’ he fato pí de sessanta megia al dí. Mo’ a’ son vegnù in tri dí da Cremona in qua. Poh, no gh’è tanta via com i dise. I dise che da Cremona a Bersa gh’è quaranta megia. Sí, gh’è un bati! El no ghe n’è gnan deseoto. Da Bersa ala RUZANTE Ah, ci son pur arrivato a questa Venezia! Che mi sono augurato più io di arrivarci, che non si augurò mai di arrivare all’erba nuova una cavalla magra e imbolsita. Mi rifarò pure. Godrò pure la mia Gnua, che c’è venuta a stare. Canchero ai campi, alla guerra, ai soldati, e ai soldati e alla guerra! So che non mi ci acchiapperete più, al campo! Non sentirò più quei rumori di tamburini, come sentivo, né trombe, né gridar «all’armi!»... Ora non avrai mica più paura, no? Che quando sentivo gridar «all’armi!», parevo un tordo che avesse avuto una frecciata. E schioppi, e artiglierie... So che non mi raggiungeranno. Sì, ora mi daranno nel culo! Frecce, ora, scappare? Dormirò pure i miei sonni. Mangerò pure, che mi farà pro. Potta! che quasi, qualche volta, non avevo comodo di cacare, che mi facesse pro. Oh, Marco, Marco! Son pur qua, al sicuro. Canchero, ho fatto presto a venire. Credo di aver fatto più di sessanta miglia al giorno. Sono venuto in tre giorni da Cremona fin qua. Poh! non c’è poi tanta strada come dicono. Dicono che da Cremona a Brescia 1 Cancaro: intercalare frequentemente in bocca a Ruzante; ha il valore di una maledizione. 2 Arètu mo’ pí paura mo’: Ruzante parla a sé stesso, chiedendosi se per caso non

abbia ancora paura. 3 Pota: altro intercalare frequente di Ruzante, presente anche oggi nel parlato bresciano-bergamasco; il termine allude all’organo sessuale femminile.

4 Marco, Marco!: san Marco è il protettore di Venezia, nelle cui armate aveva militato Ruzante; Marco, Marco! era il grido che esprimeva la fedeltà alla Repubblica di Venezia.

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Peschiera i dise che ghe n’è trenta. Trenta? Cope, Fiorin!5 A’ n’è-gi ben seíse. Dala Peschiera a chí, che pò essere? A’ ghe son vegnù int’un dí. L’è vero ch’he caminò tuta la note. Mei sí, falcheto no volé mè tanto com a’ he caminò mi. Ala fé, che ‘l me duole ben le gambe. Tamentre, a’ no son gnan straco. Orbéntena, la paura me cazava, el desedierio me ha portò. Façe che le scarpe arà portò la pena: a’ le vuò vêre. [Si osserva, a turno, le suole delle scarpe]. Te ‘l diss-io? Cancaro me magne, te par che a’ ghe n’he dessolò una? Aré guagnò questo, in campo. Mo’ cancaro me magne, sí; se aesse abù i nemisi al culo, a’ no desea caminar tanto. He fato un bel guagno. [Si guarda intorno] Mo’ a’ son fuossi in luogo che a’ gh’in poré robare un paro, com a’ fiè queste, che a’ le robiè in campo a un vilan. Orbéntena, el no serae mal star in campo per sto robare6, se ‘l no foesse che el se ha pur de gran paure. Cancaro ala roba! A’ son chialò mi, ala segura, e squase che a’ no cherzo esserghe gnan. S’a’ m’insuniasse? La sarae ben de porco. A’ sè ben ch’a’ no m’insunio, po. Non son-gie montà in barca a Lizafusina7? A’ son stò pur a Santa Maria d’un bel Fantin8 a desfar el me vó. Se mi mo’ no foesse mi? E che a’ foesse stò amazò in campo? E che a’ foesse el me spirito? Lo sarae ben bela. [Cava in fretta dalla bisaccia un tozzo di pane e lo addenta] No, cancaro, spiriti no magna9. [A bocca piena] A’ son mi, e sí a’ son vivo; cossí saesse on’ catar adesso la mia Gnua, o me compare Menato, che a’ sè che l’è an elo chí ale Veniesie. c’è quaranta miglia. Sì, c’è un attimo! Non ce n’è neanche diciotto. Da Brescia a Peschiera dicono che ce n’è trenta. Trenta? Ma sì, coppe! Non ce n’è neanche sedici. Da Peschiera a qui, quanto ci può essere? Ci sono venuto in un giorno. È vero che ho camminato tutta la notte. Oh sí, un falchetto non volò mai tanto quanto ho camminato io. In fede mia, che mi dolgono bene le gambe. Eppure non sono neanche stanco. Caspita, la paura mi cacciava, il desiderio mi ha portato. Credo che le scarpe l’abbiano pagata loro. Le voglio vedere. Te lo dicevo, io? Che il canchero mi mangi, lo vedi che ne ho dissolata una? Ci avrò guadagnato questo, in campo. Che il canchero mi mangi, sì; se avessi avuto i nemici al culo, non dovevo camminar tanto. Ho fatto un bel guadagno. Ma forse sono in un luogo dove potrò rubarne un paio, come feci con queste, che le rubai in campo a un villano. Davvero, non sarebbe male stare al campo per questo rubare, se non fosse che ci si pigliano delle gran paure. Al diavolo la roba! Sono qua, al sicuro, e quasi non credo di esserci. E se sognassi? Sarebbe proprio una porcheria. So bene che non sogno, poi. Non sono montato in barca a Lizzafusina? Sono pur stato a Santa Maria del bel Fantino a sciogliere il mio voto. E se io non fossi più io? E fossi stato ammazzato in campo? E fossi il mio spirito? Sarebbe ben bella. No, canchero! gli spiriti non mangiano. Sono io, e sono vivo. Così sapessi dove trovare la mia Gnua, o mio compare Menato, che so che anche lui è qui a Venezia.

5 Cope, Fiorin!: sorta di imprecazione collegata al gioco delle carte. 6 el no serae... robare: Ruzante vede come unico pregio nella guerra la possibilità di fare bottino facilmente. 7 Lizafusina: Fusina, sul delta del Brenta, era il luogo di imbarco per chi prove-

niva dall’entroterra e voleva raggiungere Venezia. 8 Santa Maria d’un bel Fantin: il santuario dove si venerava l’immagine della Madonna col Bambino. Il voto a cui allude il personaggio era certo quello di aver salva la vita.

9 Se mi mo’... spiriti no magna: in una scena quasi surreale, Ruzante si chiede se è vivo o morto; gli sorge il dubbio terribile di essere morto in battaglia, ma è l’evidenza del suo appetito, il fatto di poter ancora mangiare a confermargli la sua identità di persona reale.

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Cancaro, la mia femena arà adesso paura de mi. Besogna ch’a’ mostre de esser fato braoso. Mo’, agne muò’, a’ son fato braoso e tirò dai can. Me compare me domanderà de campo. Cancaro, a’ ghe diré le gran noele. [Pausa; guarda verso il fondo]. Mo’ a’ cherzo che l’è quelo. Mo’ l’è ben elo. Compare, o compare! A’ son mi, Ruzante, vostro compare. SCENA TERZA Gnua, Ruzante e Menato GNUA [passa indifferente sul fondo. Alle grida festose di Ruzante volge appena il capo verso di lui. Il tono della sua risposta è gelido e sprezzante] Ruzante? Si’-tu ti? Ti è vivo, ampò? Pota, te è sí sbrendoloso, te hê sí mala çiera... Te n’hê guagnò ninte, n’è vero, no? RUZANTE Mo’ n’he-gi guagnò assè per ti, s’a’ t’he portò el corbame vivo? GNUA Poh, corbame! Te me hê ben passù. A’ vorae che te m’aíssi pigiò qualche gonela pre mi. RUZANTE [tentando un ammicco] Mo’ n’è miegio che sipia tornò san de tuti i limbri, com a’ son? GNUA Mei sí, limbri mè in lo culo! A’ vorae che te m’aíssi pigiò qualche cossa. [Rapida pausa] Mo’ a’ vuogio andare, ché a’ son aspità. RUZANTE Pota, mo’ te hê ben la bela fuga al culo. Mo’ aspeta un può. GNUA [calma] Mo’ che vuò-tu ch’a’ façe chí, s’te n’hê gnente de far de mi? Lagame andare. RUZANTE O cancaro a quanto amore a’ t’he portò10! Te te vuossi ben presto andar a imbusare, e sí a’ son vegnù de campo a posta per vêr-te. Canchero, la mia femmina avrà paura, adesso, di me. Bisogna che mostri di essere diventato un bravaccio. Eh, in ogni modo sono diventato un bravaccio, ma tirato dai cani. Mio compare mi domanderà del campo. Canchero, gli dirò grandi cose. Ma mi pare che sia quello. È proprio lui. Compare, o compare! Sono io, Ruzante, vostro compare. GNUA Ruzante? Sei tu? Sei vivo ancora? Potta, sei cosí stracciato, hai una tal brutta cera... Non hai guadagnato niente, vero o no? RUZANTE Ma non ho guadagnato assai per te, se ti ho portato la carcassa viva? GNUA Oh, la carcassa! Mi hai ben pasciuta. Vorrei che tu mi avessi preso qualche gonnella per me. RUZANTE Ma non è meglio che sia tornato sano di ogni membro, cosí come sono? GNUA Ma sí, membro in culo! Vorrei che tu mi avessi preso qualcosa. Su, ora voglio andare, ché sono aspettata. RUZANTE Potta, ma hai proprio una gran fretta al culo. Aspetta un po’. GNUA Ma che vuoi che faccia qui, se non hai niente da fare con me? Lasciami andare. RUZANTE Oh, canchero a quanto amore ti ho mai portato! Ti vuoi subito andare a imbucare, e non pensi che io sono venuto dal campo apposta per vederti.

10 O cancaro... a’ t’he portò: Accidenti all’amore che ho avuto per te!

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GNUA Mo’ non m’hê-tu vezúa? A’ no vorae, a dir-te el vero, che te me deroiniessi; ché a’ he uno che me fa del ben, mi11. No se cata cossí agno dí de ste venture. RUZANTE [senza scomporsi] Poh, el te fa del ben! A’ te l’he pur fato an mi. A’ no t’he fato zà mè male, com te sê. El no te vuol zà tanto ben com a’ te vuogio mi. GNUA Ruzante, sê-tu chi me vol ben? Chi me ‘l mostra. RUZANTE Mei sí, che a’ no te l’he mè mostrò... GNUA Che me fa che te me l’ebi mostrò, e che te no me ‘l puossi mostrare adesso, ché adesso a’ he anche de besogno? No sê-tu che agno dí se magna? Se me bastasse un pasto al’ano, te porissi dire. Mo’ el besogna che a’ magne ogni dí, e perzò besognerae che te me ‘l poíssi mostrare anche adesso, ché adesso he de besogno. RUZANTE Poh, mo’ el se dé pur far deferinçia da om a omo. Mi, com te seí, a’ son om da ben e om compío. GNUA [interrompendolo] Mo’ a’ la fazo ben. Mo’ el ghe è an deferinçia da star ben a star male. Aldi, Ruzante: s’a’ cognossesse che te me poíssi mantegnire, che me fa a mi?, a’ te vorae ben mi, intiendi-tu? Mo’ com a’ penso che te si’ poverom, a’ no te posso vêre. No che a’ te vuogie male, mo’ a’ vuogio male ala to sagura: ché a’ te vorae vêre rico, mi, azò a’ stassem ben mi e ti. RUZANTE [avvilito] Mo’, se a’ son povereto, a’ son almanco leale. GNUA Mo’ che me fa ste tuò’ lealtè, s’te no le può mostrare? Che vuò-tu darme? Qualche peogion, an? RUZANTE Mo’ te sê pure che, se aesse, a’ te darae, com t’he zà dò. Vuò-tu ch’a’ vaghe a robare e a farme apicare? Me consegere-tu mo’? GNUA E ora non mi hai veduta? Non vorrei, a dirti il vero, che tu mi rovinassi, ché ho uno che mi fa del bene, io. Non si trovano mica ogni giorno di queste fortune. RUZANTE Poh, ti fa del bene! Te l’ho pur fatto anch’io. Non ti ho mai fatto del male, come sai. Quello non ti vuole certo tanto bene come ti voglio io. GNUA Ruzante, sai chi mi vuol bene? Chi me lo mostra. RUZANTE Ma sí, come se io non te l’avessi mai mostrato... GNUA Che mi fa che tu me l’abbia mostrato, e che non me lo possa mostrare adesso? Perché adesso ne ho anche bisogno. Non sai che ogni giorno si mangia? Se mi bastasse un pasto all’anno, potresti parlare. Ma bisogna che mangi ogni giorno, e perciò bisognerebbe che tu me lo potessi mostrare anche adesso, perché adesso ne ho bisogno. RUZANTE Oh, ma si deve pur fare differenza tra uomo e uomo. Io, come sai, sono uomo dabbene e uomo compito. GNUA Sicuro che la faccio. Ma c’è anche differenza tra star bene e star male. Senti, Ruzante: se io sapessi che tu mi puoi mantenere, che mi fa a me? ti vorrei bene, io, intendi? Ma quando penso che sei un poveruomo, io non ti posso vedere. Non che voglia male a te, ma voglio male alla tua disgrazia; ché ti vorrei vedere ricco, io, acciò che stessimo bene, io e te. RUZANTE Ma se sono povero, sono almeno leale. GNUA E che me ne faccio, io, delle tue lealtà, se non me le puoi mostrare? Che vuoi darmi? Qualche pidocchio, forse? RUZANTE Ma sai pure che, se avessi, ti darei, come ti ho già dato. Vuoi che vada a rubare e a farmi impiccare? Mi consiglieresti cosí? 11 ché a’ he uno che me fa del ben, mi: Gnua allude al bravaccio con cui si è messa in assenza di Ruzante.

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GNUA Mo’ vuò-tu ch’a’ viva de agiere? E che a’ staghe a to speranza? E che a’ muora al’ospeale? Te n’iè tropo bon compagno, ala fé, Ruzante. Me consegiere-tu mo’ mi? RUZANTE Pota, mo’ a’ he pur gran martelo de ti, mo’ a’ sgangolisso. Mo’ no heítu piatè? GNUA E mi he pur gran paura de morir da fame, e ti no te ‘l pinsi. Mo’ n’heí-tu consinçia? El ghe vuol altro ca vender radicio né polizuolo. Com fazo, ala fé, a vivere? RUZANTE Pota, mo’ s’te me arbandoni, a’ moriré d’amore. A’ muoro, a’ te dighe che a’ sgangolo. GNUA E mi l’amore m’è andò via dal culo per ti, pensanto che te n’hê guagnò com te dîvi. RUZANTE Pota, te heí ben paura che ‘l ne manche. No manca zà mè... a robare. GNUA Pota, te hê pur el gran cuore e tristi lachiti. A’ no vego niente, mi. [Lo guarda con disprezzo da capo a piedi]. RUZANTE Pota, mo’ a’ no son se lomé arivò chive... GNUA E tu vuoi che viva d’aria, e stia qua a sperare in te, e che muoia all’ospedale? Non sei mica un buon compagno, in fede mia, Ruzante. Mi consiglieresti cosí, tu? RUZANTE Potta, ma io ho una gran passione per te, io spasimo. Ma non hai pietà? GNUA E io ho invece una gran paura di morire di fame, e tu non ci pensi. Ma non hai coscienza? Ci vuol altro che vendere radicchio o borragine. Come faccio, in fede mia, a vivere? RUZANTE Potta, ma se tu mi abbandoni, morirò d’amore. Muoio, ti dico che spasimo. GNUA E a me l’amore m’è andato via dal culo per te, pensando che non hai guadagnato come dicevi. RUZANTE Potta, hai ben paura che [la roba] ci manchi. Non manca mai, [se si va] a rubare. GNUA Eh sí, hai proprio un gran cuore, e triste gambe. Non vedo niente, io. RUZANTE Potta, ma sono appena arrivato qui...

Analisi del testo Ruzante Contadino dell’entroterra di Padova, costretto a lasciare la sua vita grama nei campi per la guerra, Ruzante è fuggito dal campo di battaglia e dopo alcuni giorni di cammino arriva a Venezia. È lacero, ancora più miserabile di prima, le sue speranze di arricchirsi con il bottino di guerra sono tutte miseramente fallite e gli resta solo il ricordo della gran paura avuta in battaglia.

Uno sfondo storico-sociologico reale Il Parlamento de Ruzante prende spunto da una precisa situazione storico-sociale: nella figura e nella vicenda del protagonista si rispecchia una condizione reale e una specifica categoria sociale, quella dei contadini dell’entroterra arruolati in massa (nelle cosiddette cernide) dalla Repubblica di Venezia ai tempi della Lega di Cambrai. Nel 1509, nella battaglia di Agnadello, l’esercito veneziano era stato duramente sconfitto dagli eserciti della Lega ed è questo il contesto in cui Beolco-Ruzante ha immaginato la propria opera. Quello che Beolco ci presenta attraverso le figure di Ruzante e della Gnua è un mondo contadino sconvolto, che ha perso la sua identità una volta sradicato dal suo ambiente. Allontanato dalle campagne, Ruzante non è più nessuno, la guerra ha stravolto la sua stessa personalità (estremamente indicativo al proposito è il dubbio formulato da Ruzante: se non fosse per la capacità di mangiare dubiterebbe addirittura di essere vivo). Allo stesso modo Gnua, trapiantata forzatamente in città, ha smarrito la propria natura genuina di villana, ha tradito per bisogno la fedeltà coniugale e si ritrova prostituta nelle mani di un bravaccio, che però almeno le assicura il pane quotidiano.

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L’“ottica dal basso” e il realismo teatrale di Beolco-Ruzante Il programma del Piccolo Teatro di Milano per la rappresentazione della Moscheta di Ruzante con Franco Parenti, 1970.

Il tipo del contadino sensuale, materiale, violento era tradizionalmente ritratto, con l’obiettivo di far ridere, nella satira del villano, ma qui viene invece impiegato con potente volontà realistica. In un certo senso la satira del villano è il codice letterario di riferimento a cui Ruzante attinge, perché familiare al pubblico colto cui egli comunque si rivolge, ma per svuotarlo del suo obiettivo di divertimento e trasformarlo in impietoso ritratto sociale. Quello che cambia è sicuramente il punto di vista adottato dall’autore, che è quello del mondo di Ruzante: la sua è un’ottica radicalmente “dal basso”, la scelta di una focalizzazione interna al personaggio così totale che ha ricordato ai critici l’“eclisse dell’autore” verghiana. In questo modo Beolco sottrae il suo personaggio alla dimensione satirico-parodica per consegnarlo passo dopo passo alla dignità della tragedia. Ruzante si svincola dalle convenzioni teatrali e letterarie per ritrarre con crudezza realistica il personaggio, dietro il quale si profila un’intera categoria sociale, la sua miseria, la sua condizione di vita scandita da bisogni elementari: il bisogno di cibo, il desiderio della “roba”, il bisogno di sesso, la paura fisica sono gli orizzonti istintuali in cui vive e pensa Ruzante e in cui pensa anche la più pragmatica Gnua. Orizzonti che si contrappongono alla prospettiva idealizzante (e quindi deformante) della letteratura idillico-pastorale di derivazione classicistica e più in generale ai modelli elitari della cultura dominante della corte. Ne risulta «una delle rappresentazioni più vere e più alte che del mondo subalterno annoveri la letteratura italiana» (S. Guglielmino). Allo stesso modo, a differenza di altri commediografi del tempo, Ruzante impiega il dialetto pavano non per far ridere, ma come lingua reale del mondo contadino.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Riassumi in 5 righe il contenuto del monologo di Ruzante. ANALISI 2. Pur nella sua brevità, il monologo di Ruzante presenta un quadro significativo della guerra visto dalla parte di un contadino arruolato. Indica gli aspetti più rilevanti di tale rappresentazione. 3. Il dialogo tra Ruzante e Gnua è come un “dialogo tra sordi”: spiega che cosa contrappone i due personaggi e le ragioni che impediscono loro di trovare un modo di intendersi. LESSICO 4. Nei due passi ci sono molte interiezioni ed espressioni “basse” attribuite sia a Ruzante sia alla Gnua. Rintracciale e spiega il motivo del loro utilizzo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Che cosa differenzia la rappresentazione che Ruzante dà del mondo contadino rispetto a testi come l’Arcadia di Sannazaro da un lato e rispetto alla satira del villano dall’altro? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Attraverso precisi riferimenti ai due testi spiega la definizione che il critico Zorzi ha dato del teatro di Ruzante come di un «teatro della crudeltà».

Fissare i concetti Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento 1. In cosa consiste la lauda drammatica del Medioevo? 2. Quali sono le tre fasi della rinascita del teatro laico nell’Umanesimo? 3. Quali sono gli elementi costanti della commedia rinascimentale? 4. Quali sono i caratteri del dramma pastorale? 5. Perché è importante l’aspetto scenografico nelle rappresentazioni teatrali dell’Umanesimo e del Rinascimento? 6. Di cosa tratta La Calandria di Bibbiena? 7. Quali sono le caratteristiche della commedia La Veniexiana? 8. Quale è l’originale rappresentazione della corte romana che realizza Aretino nella Cortigiana? 9. Perché il teatro di Ruzante si può definire “controcorrente”? 10. Di cosa tratta il Parlamento de Ruzante?

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Quattrocento e Cinquecento 16 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento

Sintesi con audiolettura

1 Le forme teatrali del Medioevo

Dai drammi liturgici alle sacre rappresentazioni Nel Medioevo il teatro, a parte le performances dei giullari, consiste esclusivamente in manifestazioni volte a testimoniare lo spirito religioso, che coinvolgevano la collettività dei fedeli. Nei cosiddetti drammi liturgici (inizio sec. X), per rendere più coinvolgente il rito della messa, venivano “drammatizzati”, cioè trasformati in scene, momenti della vita dei santi e di Cristo o importanti episodi biblici. I drammi liturgici utilizzavano comunque per lo più il latino e la rappresentazione si svolgeva all’interno della chiesa. In una fase successiva (secoli XIII-XIV) con lo sviluppo dei movimenti penitenziali si diffondono forme di testimonianza religiosa (le laude) in lingua volgare, prodotte e recitate dalle confraternite di fedeli. Le laude assumono spesso al loro interno elementi dialogati tra due o più personaggi che costituiscono una forma embrionale di teatro: si parla per questo di lauda drammatica. Uno dei primi esempi è la celebre lauda drammatica Donna de Paradiso di Jacopone da Todi, in cui il dramma della Passione è rappresentato dal punto di vista centrale di Maria, evocata soprattutto nel suo dolore di madre. Dalla lauda drammatica si svilupperanno le sacre rappresentazioni, forme di spettacolo a soggetto religioso, recitate sul sagrato delle chiese che continuano almeno fino al Quattrocento in particolare a Firenze, accentuando sempre più gli aspetti spettacolari della rappresentazione.

2 Il teatro umanistico-rinascimentale

Il teatro di corte La nascita del teatro moderno si colloca nel Rinascimento e si collega strettamente alla vita della corte signorile: le occasioni di spettacolo non sono più legate solo all’ambito religioso ma a eventi importanti nella vita della famiglia principesca. Con l’Umanesimo si riscoprono i grandi testi teatrali dell’antichità (in particolare le commedie di Plauto e Terenzio) riportati alla loro veste originaria dalla filologia umanistica. Tale riscoperta e la diffusione di una poetica che induce a un rapporto di imitazioneemulazione dei classici sono alla base della nascita di un teatro laico (cioè a soggetto non religioso): inizialmente, nella corte vengono recitati i testi classici in latino, quindi, su iniziativa del signore, li si traduce e infine si cerca di creare tragedie e soprattutto commedie originali. In questo contesto, un ruolo significativo rivestono, per la storia del teatro, le corti padane, e in particolare Ferrara. Qui il luogo teatrale è il cortile del palazzo ducale. Il passaggio successivo sarà quello di spostare la rappresentazione teatrale all’interno del palazzo, in sale appositamente attrezzate e riparate: ciò costituisce la base dei primi teatri. Negli stessi anni, inoltre, sempre a Ferrara, gli eventi teatrali si svolgono con continuità, secondo una vera e propria stagione. In questa fase, Ludovico Ariosto mette in scena per il carnevale del 1508 la Cassaria, con la quale inizia ufficialmente la storia della commedia italiana: non è più un semplice volgarizzamento dei testi classici ma è una commedia nuova in volgare.

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Tragedia e commedia I due principali generi teatrali del Rinascimento sono la tragedia e la commedia: la tragedia rappresenta personaggi più elevati rispetto alla comune umanità (come gli eroi della mitologia classica) e utilizza uno stile sostenuto; la commedia, al contrario, presenta personaggi che appartengono al ceto medio o basso, immersi in situazioni quotidiane, e impiega un linguaggio meno elevato. Sia le commedie sia le tragedie, con pochissime eccezioni, rispettano le tre unità – di tempo, di luogo e d’azione – che erano ricondotte a quanto affermato nella Poetica aristotelica a proposito del teatro tragico greco. La commedia è certamente la forma più significativa delle forme teatrali, in quanto risponde maggiormente al gusto edonistico rinascimentale, rispecchia più fedelmente le situazioni di vita della corte e documenta la visione laica della vita tramite il veicolo della comicità. Si delineano progressivamente, e saranno stabilmente definiti attorno al 1540, alcuni elementi costanti: lo scenario realistico, la struttura in cinque atti con un prologo, l’intreccio, la mancanza di definizione psicologica dei personaggi, la dimensione erotica, i meccanismi della comicità, lo stile medio o basso. All’interno della ricca, seppur non sempre di alto livello, produzione di commedie lungo il Cinquecento, emergono La Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, la Veniexiana di autore ignoto e, soprattutto, la Mandragola di Niccolò Machiavelli. La commedia anticlassicistica di Aretino e Ruzante Pietro Aretino e Angelo Beolco detto “Ruzante” – oltre al Machiavelli della Mandragola – assumono una posizione che vuole distinguersi, e contrapporsi, rispetto alle forme della commedia ispirata ai classici. Con La cortigiana, ossia la “commedia della corte”, Aretino mette in scena non tipi astratti ma personaggi veri abbastanza riconoscibili dal pubblico, che appartenevano alla cronaca cortigiana del tempo e ritrae così, in forma caricaturale, la corte di Roma, di cui critica aspramente i vizi e la corruzione. La prima opera di Ruzante è la Pastorale: qui il mondo idillico dei pastori è messo di fronte a quello sanguigno e rozzo dei contadini padovani. Nell’opera successiva, la Betìa, una commedia in cinque atti in versi e integralmente in dialetto pavano, Ruzante enuncia per la prima volta la sua poetica del “naturale”: «Il naturale tra gli uomini e le donne è la più bella cosa che ci sia, e perciò ognuno deve andare per la via diritta e naturale, perché, quando tu cavi la cosa dal naturale, essa ci imbroglia». Criticando la poesia bucolica che ritrae il mondo rurale in modo appunto “innaturale” e con un linguaggio convenzionale, Ruzante rivendica l’uso del dialetto pavano delle campagne. Infine, nei Dialoghi in lingua “rustica”, tra cui si distingue il Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, emerge tutta l’originalità del teatro di Ruzante e la sua vocazione al realismo.

Zona Competenze Competenza 1. Prepara una presentazione mediante slides per esporre alla tua classe le caratteristiche digitale del teatro umanistico-rinascimentale; prova a fare anche una ricerca iconografica. Scrittura giornalistica

2. Scrivi un articolo (max 2000 battute) per il giornale della scuola sulla novità del teatro di Ruzante.

Recensione

3. Scrivi una recensione sul testo di Bernardo Dovizi da Bibbiena tratto da La Calandria (➜ T2 ).

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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Quattrocento Quattrocento e cinquecento e cinquecento CAPITOLO

17 Niccolò Machiavelli LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Machiavelli visto da roberto ridolfi... il sorriso enigmatico di niccolò Della persona fu ben proporzionato, di mezzana statura, di corporatura magro, eretto nel portamento con piglio ardito. I capelli ebbe neri, la carnagione bianca ma pendente nell’ulivigno; piccolo il capo, il volto ossuto, la fronte alta. Gli occhi vividissimi e la bocca sottile, serrata, parevano sempre un poco ghignare. Di lui più ritratti ci rimangono, di buona fattura; ma soltanto Leonardo, col quale ebbe pur che fare ai suoi prosperi giorni, avrebbe potuto ritradurre in pensiero, col disegno e i colori, quel fine ambiguo sorriso. R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Sansoni, Firenze 1969

...e da Maurizio Viroli L’ultimo sogno Si racconta che prima di morire, il 21 giugno 1527, Niccolò Machiavelli abbia raccontato agli amici che gli restarono vicini fino all’ultimo di un suo sogno, che diventò poi celebre nei secoli come «il sogno di Machiavelli». Disse di aver visto in sogno una schiera di uomini, malvestiti, dall’aspetto misero e sofferente. Chiese loro chi fossero e quelli gli risposero «siamo i santi e i beati; andiamo in paradiso». Vide poi una moltitudine di uomini di aspetto nobile e grave, vestiti con abiti solenni, che discutevano solennemente di importanti problemi politici. Riconobbe fra di essi i grandi filosofi e storici dell’antichità che avevano scritto opere fondamentali sulla politica e sugli stati, fra i quali Platone, Plutarco e Tacito. Chiese anche a loro chi fossero e dove andassero. «Siamo i dannati dell’inferno», gli risposero. Terminato il racconto, spiegò agli amici che preferiva di gran lunga andarsene all’inferno per ragionare di politica con i grandi uomini dell’antichità piuttosto che in paradiso a morire di noia con i beati e i santi. Non sappiamo per certo se la storia del sogno di Machiavelli sia vera o inventata, ma ho voluto ricordarla perché credo che sia il modo migliore di presentare l’uomo di cui vorrei raccontare la vita e le idee. Nella narrazione del sogno ci sono infatti tutte le qualità di Niccolò: burlone, irriverente, dotato di un’intelligenza finissima; poco preoccupato dell’anima, della vita eterna e del peccato; affascinato dalle cose e dagli uomini grandi. Grandi erano per lui soprattutto i principi, e i governanti di repubbliche; gli uomini che diedero buone leggi ai loro popoli, che li strapparono dalla schiavitù e ne fecero popoli liberi, come Mosè. Grandi erano le vicende degli Stati e dei governi che decidevano della vita e dei destini di tanti uomini. Grande era insomma per Machiavelli la politica. Non c’è nulla di strano che in punto di morte abbia detto di preferire l’inferno in compagnia dei grandi politici che il paradiso con i santi. M. Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Laterza, Roma-Bari 1998

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Commediografo, storico, politologo, il fiorentino Niccolò Machiavelli è una delle maggiori figure della cultura italiana del Rinascimento. Personalità eclettica e aperta, Machiavelli ha lasciato un’impronta rilevante in vari generi letterari. Ma la celebrità addirittura mondiale dello scrittore è dovuta al Principe, l’opera forse più discussa della letteratura politica di tutti i tempi, che ha sconvolto con le sue sconcertanti verità l’ottica moralistica con cui tradizionalmente si valutava l’azione politica: con Machiavelli – in nome della «verità effettuale» a cui lo scrittore si attiene nella sua analisi – la politica si rende autonoma dalla morale; diventa, o cerca di diventare, “scienza”. E di questa nuova “scienza” Machiavelli enuncia i princìpi basilari nel suo capolavoro, destinato a suscitare reazioni e polemiche a tutt’oggi non ancora sopite.

1 ritratto d’autore 2 Il Principe politologo, 3 Machiavelli storico e letterato 811 811


1 Ritratto d’autore 1 Una vita segnata dalla passione politica VIDEOLEZIONE

La formazione, i libri amati Niccolò Machiavelli nasce a Firenze il 3 maggio 1469 da una famiglia fiorentina antica, ma ormai decaduta: il padre Bernardo, dottore in legge, è un uomo abbastanza colto da ospitare nella biblioteca di casa un buon numero di testi classici antichi e “moderni” (Dante, Petrarca e Boccaccio). Proprio nella biblioteca paterna il giovane Niccolò può leggere un libro che gli sarà sempre caro, la Storia di Roma di Tito Livio, a cui attingerà per comporre i suoi Discorsi sulla prima deca. Poco o nulla sappiamo della formazione di Machiavelli. Di certo dispone di una buona cultura umanistica: il giovane Machiavelli trascrive di suo pugno il De rerum natura di Lucrezio, certo per poterne avere una copia a disposizione da leggere quando vuole (e Lucrezio può aver influenzato il costruirsi in Machiavelli di un’ideologia “laica” se non addirittura materialista). Ma le sue letture predilette furono sempre gli storici greci (Tucidide, Plutarco) e soprattutto latini (Tacito e Livio, appunto). Segretario della Repubblica. Comincia una vita in viaggio… Il 28 maggio 1498, cinque giorni dopo l’esecuzione pubblica di Savonarola, Niccolò Machiavelli diventa Segretario alla seconda Cancelleria, che si occupava degli affari interni e anche della politica estera di Firenze: un ruolo prestigioso, soprattutto data la sua giovane età (non era ancora trentenne).

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1494

Discesa di Carlo VIII in Italia. Cacciata dei Medici da Firenze e instaurazione della repubblica governata da Savonarola.

1492

Morte di Lorenzo il Magnifico.

1460

1470

1480

1490

1500 1502-1503

1469

Nasce a Firenze Niccolò Machiavelli.

1498

Caduta e morte di Savonarola e instaurazione di una repubblica oligarchica.

È inviato dalla Repubblica di Firenze presso Cesare Borgia e a Roma segue i lavori del conclave da cui uscirà eletto papa Giulio II. Dalle missioni come osservatore politico derivano «relazioni» come la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino... e Del modo di trattare i popoli...

1498-1512

È eletto Segretario della seconda Cancelleria della Repubblica. Compie diverse missioni come osservatore politico, la prima delle quali è presso Luigi XII, re di Francia.

1506

Si batte per dotare la Repubblica fiorentina di armi proprie. Caldeggia l’istituzione di una nuova magistratura, i Nove della milizia, di cui viene nominato Segretario. 1501

Sposa Marietta Corsini dalla quale avrà sei figli.

812 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

1507-10

Si reca presso l’imperatore Massimi­liano d’Asburgo e quindi nuovamente in Francia.


Quali erano i compiti di un Segretario della Cancelleria? Si potrebbe sintetizzarne il ruolo come quello di un “osservatore politico” presso potentati italiani e stranieri, con l’incarico di fornire al governo della Repubblica dettagliate informazioni su aspetti militari e politici. Per assolvere al suo delicato compito il giovane Segretario conta su un’équipe di “assistenti”. Con i suoi collaboratori, quando è in missione, Machiavelli scambia lettere dalle quali si deducono un rapporto amichevole, scherzoso e il gusto di formare non solo un gruppo di “tecnici della politica”, ma soprattutto di amici affiatati. L’esecuzione di Savonarola in piazza della Signoria, 1498 (Firenze, Museo San Marco). Girolamo Savonarola, scomunicato dal papa Alessandro VI, fu accusato di eresia e condannato a essere impiccato e arso al rogo. Fu pubblicamente giustiziato il 23 maggio 1498.

L’“esperienzia delle cose moderne”: le missioni politico-diplomatiche Nel ruolo di Segretario è implicita la necessità di viaggiare (un obbligo che a Machiavelli, curioso e irrequieto di natura, non dispiace affatto). Nei quattordici anni del suo incarico (1498-1512) Machiavelli compie numerose missioni politico-diplomatiche sia in Italia sia all’estero (tra di esse, particolarmente importanti furono quelle presso il re di Francia Luigi XII nel 1500 e nel 1510 e l’imperatore Massimiliano d’Asburgo nel 1507, 1508 e 1509). Missioni faticose e delicate, che gli permettono di conoscere da vicino i meccanismi della “grande politica”, il duro pragmatismo che ne ispira le scelte e di acquisire così quella «lunga esperienzia delle cose moderne» che, insieme alla «lezione [lettura] delle antique», starà alla base dell’ideazione del Principe e dei Discorsi. Machiavelli si trova a constatare di persona la grave crisi non solo di Firenze ma degli stati italiani, militarmente deboli e politicamente instabili di fronte alla solidità e all’aggressiva politica delle grandi potenze europee (Francia, Spagna, Impero).

1511

1513

Erasmo pubblica l’Elogio della follia.

1527

Giovanni de’ Medici è eletto papa col nome di Leone X.

1512

1517

I Medici ritornano a Firenze; viene cacciato il gonfaloniere Pier Soderini.

Lutero pubblica le 95 Tesi. Inizia la Riforma protestante.

1510

1520

Inizio del conflitto tra Carlo V e Francesco I di Francia.

Il Sacco di Roma indebolisce la posizione di Clemente VII. A Firenze il governo dei Medici viene rovesciato e nuovamente instaurata la repubblica.

1520

1530

1517-19

Conclude i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, iniziati prima della stesura del Principe. 1515

Inizia a frequentare a Firenze le riunioni degli Orti Oricellari. 1512

Machiavelli viene allontanato dal suo ruolo, e condannato al confino per un anno.

1521 1518-1819

Compone la Mandragola, lavora a Dell’arte della guerra.

Pubblica il dialogo Dell’arte della guerra.

1527

Muore a Firenze.

1513

È imprigionato e torturato con l’accusa di aver partecipato a una congiura antimedicea. Si ritira nella sua tenuta dell’Albergaccio presso San Casciano. Inizia la composizione del Principe che terminerà nel 1514.

1520

Per volontà del cardinale Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII) riceve l’importante incarico di scrivere una storia di Firenze: consegnerà le Istorie fiorentine nel 1525 a Clemente VII.

Ritratto d’autore 1 813


Nel 1502-1503, in due diverse occasioni, Machiavelli incontra e conosce da vicino il duca Valentino, Cesare Borgia, che stava cercando di costruire uno Stato forte nel centro d’Italia che avesse come base i territori pontifici (Cesare Borgia era figlio naturale del papa Alessandro VI) e si estendesse verso la Toscana. La spregiudicata condotta politica del duca (arriva a far uccidere spietatamente a tradimento i suoi avversari politici) colpisce profondamente Machiavelli: una decina d’anni dopo, l’ideazione della figura del Principe risentirà non poco della forte suggestione esercitata dal personaggio del Valentino sullo scrittore (➜ T6 OL). La milizia cittadina: un progetto deludente La stima che Machiavelli acquista (il potente gonfaloniere Pier Soderini aveva particolare fiducia in lui) induce la Signoria ad accogliere nel 1506 la sua proposta di istituire una milizia cittadina per porre fine all’usanza di utilizzare milizie mercenarie (che Machiavelli critica duramente in più parti delle sue opere, oltre che nel trattato sull’Arte della guerra). Dopo aver dato una buona prova (1509), il progetto risulterà poi fallimentare: la nuova milizia subisce a Prato, due anni dopo, una clamorosa sconfitta da parte delle truppe imperiali, che marciano verso Firenze per restaurarvi il potere dei Medici. La carriera stroncata di un promettente politico Nel 1512 i Medici ritornano al potere a Firenze e l’anno successivo Giovanni de’ Medici (figlio del Magnifico) viene eletto papa col nome di Leone X. La restaurazione del potere mediceo comporta l’inevitabile liquidazione dell’assetto politico-amministrativo repubblicano. Machiavelli è tra i primi “licenziati”: viene rimosso dal suo incarico di Segretario, obbligato al confino entro il territorio fiorentino e al versamento di una somma come garanzia. È poi addirittura incarcerato e torturato, con l’accusa (poi risultata infondata) di aver partecipato a una cospirazione contro i Medici. Da quel momento la sua carriera politica si interrompe e, anche quando risalirà la china, di fatto non riuscirà più a occupare le posizioni di prestigio che aveva avuto in precedenza.

Sguardo sulla storia La vita politica a Firenze negli anni del segretariato di Machiavelli La vita politica di Firenze tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento è caratterizzata da una grande instabilità, una caratteristica di cui occorre tenere conto per poter comprendere le riflessioni presenti nel Principe e nei Discorsi, le principali opere di Machiavelli. La cacciata dei Medici (1494) aveva permesso l’instaurazione di un regime repubblicano dominato per quattro anni dalla forte personalità del frate domenicano Girolamo Savonarola (1452-1498), che esercita sulla popolazione una forte suggestione con le sue veementi prediche contro la corruzione dilagante tra i cittadini e nel clero stesso. Egli orienta la vita politica fiorentina in senso radicalmente democratico, imponendo l’allargamento del corpo politico con l’istituzione del Consiglio Maggiore (o Grande), al quale vengono attribuiti poteri molto ampi sul piano sia legislativo e giudiziario sia politico: eleggere i nove componenti della Signoria e le altre magistrature. Era previsto, però, che i membri del Consiglio rimanessero in carica solo sei mesi e ciò introduce un elemento di instabilità nella gestione del potere.

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Gli aristocratici riescono allora a far varare una riforma costituzionale che trasforma in una carica a vita la più importante e potente carica politica del governo a Firenze, quella di Gonfaloniere: l’obiettivo è quello di limitare l’influenza democratica sulla gestione dello stato. Il nuovo corso porta all’eliminazione del Savonarola, inviso alla curia romana: condannato al rogo come eretico, è giustiziato in piazza della Signoria il 23 maggio 1498. Pochissimi giorni dopo Machiavelli inizia la sua carriera politica nella repubblica. Nel 1502 viene eletto Gonfaloniere a vita Pier Soderini, ma questa soluzione, pur positiva per certi aspetti, non riesce ad arrestare l’azione di coloro che si muovono a favore di una restaurazione medicea, spinti da concreti interessi e dall’idealizzazione di una continuità di governo che quella famiglia aveva assicurato. La vita della rinnovata repubblica fiorentina dura meno di vent’anni (1494-1512). Mutata la situazione internazionale, nel 1512 i Medici, sostenuti dalla Spagna, tornano alla guida di Firenze.


Vive il periodo del confino all’Albergaccio, una sua proprietà presso San Casciano, non molto distante da Firenze, lontano dagli affari pubblici, dedicandosi a futili, concrete occupazioni legate alla gestione del podere e alla vita banale di un piccolo borgo agricolo: una condizione frustrante per un uomo attivo e impegnato come lui, che Machiavelli ci ha descritto mirabilmente nella celebre lettera al Vettori (➜ T2 ).

Il cosiddetto Albergaccio, a San Casciano in Val di Pesa, dove visse Niccolò Machiavelli durante l’esilio da Firenze.

La nascita di un grande scrittore Proprio dalla dolorosa condizione dell’isolamento scaturiscono d’altra parte le sue opere maggiori, tutte composte dopo l’emarginazione dalla vita pubblica: impossibilitato a esprimere nell’azione la sua vocazione di osservatore politico, Machiavelli si rifugia nell’attività intellettuale, fissando e organizzando le riflessioni elaborate negli anni sui problemi politici. È da questa condizione intellettuale e psicologica che nascono Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Alla stesura delle opere politiche Machiavelli alterna la composizione di scritti letterari di argomento leggero (che egli chiamava scherzosamente badalucchi), come la commedia Mandragola o la novella Belfagor arcidiavolo, opere che testimoniano il lato beffardo e scherzoso della sua multiforme personalità umana. L’ambiguo rapporto con i Medici. Gli ultimi anni Durante gli anni della sua emarginazione dalla vita politica, Machiavelli non vive in un isolamento totale, ma intrattiene rapporti con amici importanti, come Guicciardini e Vettori (➜ T2 ); inoltre, a partire probabilmente dal 1515, frequenta assiduamente le riunioni di un cenacolo umanistico che si teneva a Firenze presso gli Orti Oricellari, cioè i giardini di Palazzo Rucellai. I partecipanti erano intellettuali raffinati, per lo più giovani, i quali – anche per suggestione dalla storiografia classica – nutrivano ideali politici antimedicei. Nei Discorsi, come vedremo, sono appunto rispecchiati temi e posizioni del dibattito degli Orti Oricellari. Nonostante ciò, in quegli stessi anni Machiavelli continua a cercare contatti con i Medici, che gli consentano di rientrare sulla scena politica: a questo fine dedica Il Principe a Lorenzo de’ Medici, con la speranza di ingraziarselo. Tentativi che solo parecchi anni dopo, nel 1520, producono un risultato tangibile: grazie all’intercessione di Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII, Machiavelli ottiene un incarico come storico ufficiale; nascono da questa esperienza le Istorie fiorentine. Revocata nel 1525 l’interdizione dai pubblici uffici, rivestirà ancora qualche incarico e parteciperà a missioni diplomatiche. L’atteggiamento contraddittorio di Machiavelli può essere forse spiegato pensando che egli si sentiva un competente “tecnico” della politica, al di là delle sue specifiche posizioni ideologiche, e cercava in ogni modo di riprendere la propria funzione. D’altra parte, quando i Medici furono nuovamente cacciati nel 1527 e a Firenze la gestione della cosa pubblica tornò a cambiare, a Machiavelli fu negata la possibilità di riprendere il suo vecchio incarico di Segretario, probabilmente per le ambiguità del suo contegno politico. Ritratto d’autore 1 815


Niccolò muore, deluso e amareggiato, quello stesso anno, il 21 giugno 1527. Verrà sepolto nella basilica di Santa Croce. Poche settimane prima della sua morte Roma veniva presa d’assalto e saccheggiata dalle truppe dei lanzichenecchi e da fanti spagnoli. Una tragedia che Machiavelli aveva previsto: ma il messaggio del Principe, volto a evitarla, non era stato per nulla preso in considerazione.

2 Le lettere di Machiavelli: l’acuto osservatore politico e l’uomo

PER APPROFONDIRE

Il lato umano e professionale Nel periodo in cui è Segretario della seconda Cancelleria della Repubblica, Machiavelli scrive molte lettere ufficiali, anche dalle varie missioni che lo portano in diverse località in Italia e all’estero. Si tratta di lettere legate a occasioni specifiche, ma rivestono comunque interesse per gli studiosi: rivelano infatti un osservatore perspicace e attento alle diverse realtà politiche che si trova a incontrare e da esse traspare l’ottica realista che caratterizza anche le sue maggiori opere. Anche nell’epistolario privato vengono trattati spesso, in rapporto ai destinatari, complessi problemi politici, ma non mancano lettere in cui lo scrittore racconta episodi di vita vissuta con immediatezza e umorismo. Dalle lettere di Machiavelli non esce – come invece da quelle di Petrarca – un’immagine idealizzata costruita a tavolino, ma il ritratto “dal vivo” dell’autore, capace di alternare momenti di riflessione sui gravi problemi del suo Paese a occasioni di corrispondenza rilassanti e scherzose, in cui indulgere con gli amici a battute anche volgari, nello spirito tipico del costume toscano. La piena accettazione della vita umana in ogni suo aspetto, anche il più banale, l’inclinazione agli amori, agli scherzi, il contatto ricercato con i più vari aspetti del quotidiano e con la più varia umanità, ci possono spiegare come nella stessa persona potessero trovar posto le riflessioni del Principe e le battute della Mandragola. Questo carattere dell’epistolario di Machiavelli si mantiene anche nelle numerose lettere che, dopo l’estromissione dagli incarichi pubblici, egli scambia con l’amico Francesco Vettori, uomo politico di alto profilo e di grandi responsabilità. Imporonline tante è anche il gruppo di lettere scambiate con Francesco T1 Niccolò Machiavelli Guicciardini, anch’egli personaggio di primo piano nella vita Lode della varietà di comportamento (e di stile) politica del tempo, che aveva conosciuto nel 1521 e con il quale Lettera al Vettori del 31 gennaio 1515 stringe un rapporto di sincera amicizia.

I rapporti di un acuto osservatore politico Dalle missioni compiute da Machiavelli deriva una gran quantità di scritti: dalle lettere ufficiali mandate al governo fiorentino, a rapporti più strutturati, come Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1503) o la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino per ammazzar Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini (1503), resoconto del tradimento perpetrato dal Valentino ai danni dei suoi avversari. Nel capitolo VII del Principe, interamente dedicato al ritratto del Valentino, Machiavelli presenterà l’azione come esempio di efficienza politica.

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Dedicati all’analisi politica di due grandi potenze straniere sono il Ritratto di cose di Francia (1510) e il Ritratto delle cose della Magna (1512); della Francia Machiavelli ammira l’avvenuto processo di unificazione che ne fa uno stato moderno, dotato di un potente esercito nazionale; della Germania la ricchezza e la forza militare (anche se ne critica la struttura politica e le divisioni interne). In queste relazioni, che furono molto apprezzate, già si possono rintracciare tratti della successiva riflessione machiavelliana: la tendenza ad analizzare in modo lucidamente razionale i comportamenti e lo stile incisivo e concreto.


Niccolò Machiavelli

T2

L’ozio forzato all’Albergaccio e la nascita del Principe Lettera al Vettori del 10 dicembre 1513

N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, a cura di G. Inglese, Rizzoli, Milano 1989

AUDIOLETTURA

La più celebre lettera di Machiavelli è quella inviata il 10 dicembre 1513 al Vettori, allora ambasciatore presso la corte papale. La lettera è scritta in risposta a una precedente del Vettori, in cui quest’ultimo descrive la sua sfarzosa vita romana e le frequentazioni importanti che comportava la sua qualifica di diplomatico. Anche Machiavelli allora, con una punta di autoironia, descrive la sua giornata-tipo nell’ozio a cui era costretto dopo l’abbandono forzato degli incarichi pubblici. Importante, nella seconda parte della lettera, è il riferimento alla composizione del Principe, presentata come già avvenuta, anche se l’opera, come Machiavelli stesso precisa, è ancora soggetta alla revisione da parte dell’autore.

Magnifico oratori florentino Francischo Vectori apud Summum Pontificem, patrono et benefactori suo. Romae1. Magnifico ambasciatore. «Tarde non furon mai grazie divine2.» Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai 5 tempo senza scrivermi, et ero dubbio donde potessi nascere la cagione. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto3 scritto che io non fussi buono massaio4 delle vostre lettere; et io sapevo che, da Filippo e Pagolo5 in fuora, altri per mio conto non le haveva viste. Honne rihauto per l’ultima vostra de’ 10 23 del passato6, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto offizio publico7, et io vi conforto a seguire8 così, perché chi lascia i sua commodi9 per li commodi d’altri, so perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado10. E poiché la Fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, et aspettar tempo che la lasci fare qualche 15 cosa agl’huomini; e allora starà bene a voi durare più fatica, veghiar11 più le cose, et a me partirmi di villa12 e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia, e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla. Io mi sto in villa13, et poi che seguirno quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad 20 accozarli tutti, 20 dì a Firenze14. Ho infino a qui uccellato a’ tordi di mia mano15.

1

“Al magnifico oratore fiorentino Francesco Vettori presso il Sommo Pontefice, patrono e benefattore suo. A Roma”. Nelle lettere cancelleresche l’intestazione e la data per consuetudine erano in latino. 2 Tarde… divine: ripresa del v. 13 del Trionfo dell’eternità di Petrarca, qui utilizzato in chiave ironica per specificare che, anche se la lettera dell’amico è arrivata in ritardo, è comunque cosa gradita. 3 suto: stato. 4 buono massaio: custode discreto. Il timore di Machiavelli è che Francesco possa aver pensato che lui avesse divulgato il contenuto delle loro missive che,

talvolta, toccavano argomenti scottanti. Filippo e Pagolo: Filippo Casavecchia, comune amico di Machiavelli e Vettori e Paolo, fratello di Francesco Vettori. 6 Honne… passato: Machiavelli ha avuto la riprova dell’amicizia di Vettori grazie alla sua ultima lettera del 23 novembre scorso. 7 cotesto offizio publico: Francesco Vettori era ambasciatore dei de’ Medici a Roma, dove un membro della stessa famiglia, Giovanni de’ Medici, era papa con il nome di Leone X. 8 seguire: continuare. 9 sua commodi: i propri vantaggi.

5

10 saputo grado: serbata gratitudine. 11 veghiar: sorvegliare. 12 partirmi di villa: venire via da San Casciano. 13 in villa: in campagna. 14 poi che… a Firenze: da quando sono successe le ultime mie vicissitudini (Machiavelli allude non solo al suo allontanamento, ma alla triste e più recente esperienza del carcere e della tortura perché sospettato di aver complottato con altri contro i Medici) non sono stato più di venti giorni in tutto a Firenze. 15 Ho… mano: Mi sono dedicato fino ad ora a cacciare personalmente i tordi.

Ritratto d’autore 1 817


Levavomi innanzi dì16, inpaniavo17, andavone oltre18 con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con e libri d’Amphitrione19; pigliavo el meno dua, el più sei tordi, et così stetti tutto novembre. Dipoi questo badalucco20, ancora che dispettoso et strano21, è mancato con mio dispiacere; et 25 qual la vita mia vi dirò22. Io mi lievo la mattina con el sole et vommene23 in un mio boscho che io fo tagliare, dove sto dua hore a rivedere l’opere24 del giorno passato, et a passar tempo con quegli tagliatori25, che hanno sempre qualche sciagura alle mane26 o fra loro o co’ vicini. Et circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute27, et con Frosino da Panzano28 et con altri che voleano di 30 queste legne. Et Fruosino in spetie mandò per certe cataste senza dirmi nulla29, et al pagamento mi voleva rattenere30 10 lire, che dice haveva havere da me quattro anni sono31, che mi vinse a cricca32 in casa33 Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare el diavolo34; volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro35; tandem36 Giovanni Macchiavelli vi entrò di mezzo, et ci pose d’accordo. Batista Guicciardini, 35 Filippo Ginori, Tommaso del Bene et certi altri cittadini, quando quella tramontana soffiava37, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; et manda’ne una a Tommaso, la quale tornò in Firenze per metà38, perché a rizzarla39 vi era lui, la moglie, le fante40, e figliuoli, che paréno el Gabburra quando el giovedì con quelli suoi garzoni bastona un bue41. Di modo che, veduto in chi era guadagno42, ho detto 40 agl’altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso43, et in spezie Batista, che connumera questa tra l’altre sciagure di Prato44. Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio uccellare45. Ho un libro sotto46, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo,

16 Levavomi innanzi dì: Mi alzavo prima

26 qualche sciagura alle mane: qualche

38 la quale... per metà: la quale (catasta,

dell’alba. 17 inpaniavo: impaniavo, spalmavo la pania (una sostanza vischiosa) sulle trappole per cacciare. 18 andavone oltre: mi incamminavo. 19 parevo… Amphitrione: sembravo Geta quando tornava dal porto con i libri di Anfitrione. Machiavelli allude a una scena tratta da una novella quattrocentesca in ottave (Geta e Birria), ispirata all’Anfitrione del commediografo latino Plauto. Geta è lo schiavo di Anfitrione e reca sulle spalle il gran carico di libri che il padrone ha portato da Atene. Data la notorietà del testo al tempo di Machiavelli, il riferimento scherzoso doveva essere chiarissimo al Vettori. 20 badalucco: passatempo. 21 ancora che dispettoso et strano: seppure condito di fastidio (dispettoso) e insolito (Machiavelli allude al fatto che, dati i suoi impegni abituali, di solito non passava le giornate a cacciare tordi!). 22 et qual... vi dirò: e vi racconterò quale sia la mia vita. 23 vommene: me ne vado (vo); forma con doppio pronome enclitico (leggi vòmmene). 24 l’opere: i lavori. 25 tagliatori: boscaioli incaricati di tagliare le piante.

litigio in corso. 27 io vi harei... intervenute: io avrei da raccontarvi mille belle cose che mi sono capitate. 28 Frosino da Panzano: un conoscente di Machiavelli del posto, come altri più sotto citati. 29 Et Fruosino… nulla: E Fruosino in particolare mandò a prendere quattro cataste di legna senza avvisarmi. 30 rattenere: trattenere. 31 che dice... sono: che dice che doveva riavere da me da quattro anni. 32 cricca: è un gioco di carte. 33 in casa: in casa di. Usuale nell’italiano antico la caduta della preposizione di davanti a un nome proprio. 34 fare el diavolo: andare su tutte le furie. 35 volevo… per ladro: volevo accusare il trasportatore che era andato (ito) a prelevare le cataste di essere un ladro. 36 tandem: in latino “infine”. Come era nell’uso delle cancellerie umanistiche e rinascimentali, Machiavelli inserisce spesso congiunzioni latine. 37 quando... soffiava: il freddo intenso causato dal vento di tramontana aveva indotto molti conoscenti (citati nel passo) ad approvvigionarsi di cataste di legna.

venduta a Tommaso) a Firenze risultò valere la metà di quella che era. 39 rizzarla: caricarla. 40 le fante: le fanti, le domestiche. 41 paréno… un bue: un altro vivace paragone, tratto questa volta dalla vita quotidiana (il Gabburra era un macellaio, evidentemente molto conosciuto). Il senso del paragone è probabilmente il seguente: come il macellaio e i suoi garzoni quando uccidono un bue, così Tommaso e i suoi familiari si erano dati da fare con enorme energia per accatastare la legna stretta, così da pagarla di meno, come sopra si dice (era stata evidentemente venduta a volume e non a peso). 42 Di modo che... guadagno: Cosicché, visto chi realmente ci guadagnava (non certo Machiavelli). 43 ne hanno fatto capo grosso: ne hanno avuto dispiacere (del fatto che Machiavelli ha deciso di non dare più legna a nessuno). Espressione del parlato. 44 connumera… Prato: Batista Guicciardini equipara questa sciagura (ovvero il non poter avere la legna) al saccheggio di Prato (compiuto l’anno prima dalle truppe spagnole). 45 un mio uccellare: un mio bosco dove sono solito tendere trappole agli uccelli. 46 sotto: sottinteso “il braccio”.

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Ovvidio et simili: leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordomi de’ mia47, godomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passono, dimando delle nuove48 de’ paesi loro, intendo varie cose, et noto varii gusti et diverse fantasie49 d’huomini. Vienne in questo mentre50 l’hora del desinare, dove con la mia brigata51 mi mangio di quelli cibi che questa mia povera villa e paululo patrimonio comporta52. Mangiato che ho, 50 ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario53, un beccaio, un mugniaio, due fornaciai54. Con questi io m’ingaglioffo55 per tutto dì giuocando a cricca, a trichetach56, et poi dove nascono57 mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose58, et il più delle volte si combatte un quattrino et siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano. Così rinvolto entra59 questi pidocchi, traggo el cervello di muffa60 et 55 sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi61. Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio62; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto63, et mi metto panni reali et curiali64; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uo60 mini65, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui66; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità67 mi rispondono; et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottiscie la morte: tucto mi transferisco in loro. 65 E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritener lo havere inteso68, io ho notato quello di che per la loro conversatione ho fatto capitale69, et composto uno opuscolo De principatibus70, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto71, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. Et se vi piacque 70 mai alcuno mio ghiribizo72, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a un principe, et maxime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indrizzo alla Magnificenza di Giuliano73. Philippo Casavecchia74 l’ha visto; vi potrà ragguagliare in 45

47 de’ mia: dei miei amori. 48 nuove: notizie. 49 fantasie: caratteri. 50 Vienne... mentre: Se ne viene in questo modo.

51 brigata: famiglia. 52 che... comporta: che questa modesta casa di campagna e il mio piccolissimo (paululo, latinismo) patrimonio consentono. 53 per l’ordinario: di solito. 54 un beccaio… fornaciai: un macellaio, un mugnaio, due lavoratori delle fornaci. Come si vede, nell’osteria Machiavelli si ritrova in compagnia di persone di condizione sociale molto modesta. 55 m’ingaglioffo: mi trasformo in un perdigiorno, mi abbruttisco (il verbo ingaglioffirsi è un neologismo). 56 triche-tach: gioco a pedine, simile alla dama. 57 et poi dove nascono: e (altri giochi) da cui si originano. 58 parole iniuriose: insulti.

59 entra: fra, entro. 60 Così… di muffa: Così tra questa misera compagnia e queste basse attività (questi pidocchi) tengo impegnato il cervello. 61 sfogo … vergognassi: lascio sfogare la mia sorte avversa, permettendole di calpestarmi in questo modo per vedere se mai essa stessa se ne vergognasse. 62 scrittoio: studio. 63 di fango et di loto: coppia sinonimica (loto “fango”, dal latino lutus). 64 reali et curiali: degni di re e di corti. 65 entro… uomini: Machiavelli allude metaforicamente alle sue letture dei testi classici, in particolare relativi alla storia e alla politica. 66 mi pasco… per lui: mi nutro di quel cibo che solo mi appartiene (appunto la cultura classica) e per il quale sono nato. 67 humanità: cortesia. 68 non fa scienza… inteso: non diventa conoscenza vera (scienza) il comprendere (lo havere inteso) senza la memorizzazio-

ne (sanza lo ritener). La citazione dantesca è da Pd V 41-42. 69 per la loro... ho fatto capitale: per mezzo della loro conversazione ho fatto tesoro, ho imparato. 70 uno opuscolo De principatibus: si tratta della prima testimonianza della composizione, qui presentata come già avvenuta, del Principe. 71 cogitationi di questo subbietto: riflessioni relative a questo argomento (appunto il principato). 72 ghiribizo: scritto bizzarro, estroso, composto per gioco. L’espressione, che Machiavelli usa abbastanza spesso, sembra qui dettata dalla modestia d’obbligo. 73 Giuliano: Giuliano de’ Medici, il terzogenito di Lorenzo il Magnifico, morì nel 1516. Il Principe sarà poi dedicato (e la dedica, quindi, verrà stesa in un secondo tempo rispetto all’opera) a Lorenzo il Giovane, nipote di Lorenzo il Magnifico. 74 Philippo Casavecchia: uno dei conoscenti di Machiavelli.

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parte et della cosa in sé, et de’ ragionamenti ho hauto seco75, anchor che tuttavolta io l’ingrosso et ripulisco76. 75 Voi vorresti, magnifico ambasciadore, che io lasciassi questa vita77 et venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta78 hora è certe mie faccende, che fra 6 settimane l’arò fatte. Quello che mi fa stare dubbio è, che sono costí quelli Soderini, e quali io sarei forzato, venendo costí, vicitarli e parlar loro79. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scaval80 cassi nel Bargello80; perché, ancora che questo stato abbi grandissimi fondamenti e gran securtà, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca di saccenti, che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono el pensiero a me81. Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo. 85 Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare82; et, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi83. El non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non ch’altro, letto, e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia faticha84. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia85, perché io mi logoro, et lungo tempo non posso 90 star così che io non diventi per povertà contennendo86, appresso al desiderio harei87 che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a

75 vi potrà ragguagliare… seco: vi potrà dare informazioni parziali sia sul libro sia sulle discussioni che ne abbiamo avuto. 76 anchor che… ripulisco: si tratta di un’informazione preziosa in cui Machiavelli allude al lavoro correttorio che lo impegnava al momento della lettera sul Principe, consistente sia nell’ampliamento di parti (a questo allude l’immagine metaforica io l’ingrosso) sia nella risistemazione anche formale (ripulisco). Anchor che tuttavolta sta per “sebbene giorno per giorno”. 77 questa vita: questa condizione di vita. 78 tenta: trattiene. 79 sono costì… loro: a Roma ci sono i Soderini che sarei obbligato a frequentare. A Roma c’erano i Soderini e, dunque, Machiavelli si sarebbe sentito obbligato ad andare a far loro visita. Tuttavia, Pier Soderini (di cui Machiavelli era stato uno stretto collaboratore) non era ben visto dai de’ Medici e, frequentandolo, lo scrittore si sarebbe esposto al rischio di compromettere i rapporti con la famiglia della quale stava cercando di recuperare la fiducia. 80 Dubiterei… Bargello: Dubiterei che al mio ritorno, pensando di smontare a casa mia, dovessi invece smontare al Bargello, cioè in prigione. 81 perché… a me: perché anche se questo stato (il principato mediceo a Firenze) ha solide fondamenta e grande sicurezza, tuttavia è un regime appena costituito e per questo motivo incline al sospetto; e non mancano dei saccenti come Paolo

Bertini che, per mettersi in mostra, manderebbero altri all’albergo lasciando a me il conto. Cioè “mi manderebbero in prigione, accusandomi senza fondamento”. 82 se gli… non lo dare: Machiavelli asserisce di aver discusso con l’amico più sopra ricordato se offrire o no il libro a Giuliano de’ Medici. 83 se gli era bene… mandassi: il secondo dubbio riguarda il fatto di portare personalmente Il Principe a Giuliano o inviarlo. 84 El non lo dare… mia faticha: molto realisticamente Machiavelli ipotizza che il non offrire il libro al potente membro della famiglia Medici avrebbe comportato il rischio che non fosse letto e che magari qualcun altro se ne potesse appropriare; in particolare viene nominato Pietro Ardinghelli, segretario di Leone X, ostile a Machiavelli. 85 El darlo… mi caccia: la scelta di offrirlo è dettata, come Machiavelli ben spiega, dalle sue attuali difficoltà anche economiche. 86 così che… contennendo: così che io non diventi, a causa della mia povertà, degno di disprezzo (latinismo). 87 appresso al desiderio harei: oltre al desiderio che avrei. Machiavelli enuncia ora la seconda (e ben più importante) ragione per cui pensa di offrire il libro a un membro della famiglia Medici, ovvero il desiderio che le sue capacità di osservatore politico possano essere nuovamente impiegate e messe a frutto.

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Sandro Botticelli, Ritratto di Giuliano de' Medici, 1478 ca. (Washington, National Gallery of Art).


farmi voltolare un sasso88. Perché, se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me89; et per questa cosa90 quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio dell’arte dello stato, non gl’ho né dormiti, né giuocati91; et 95 doverrebbe ciascheduno aver caro servirsi d’uno che alle spese d’altri fussi pieno di experienzia. Et della fede92 mia non si doverrebbe dubitare, perché havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; et chi è stato fedele et buono 43 anni, che io ho, non debbe potere mutare natura; et della fede et della bontà mia ne è testimonio la povertà mia93. 94 100 Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia 95 vi paia, et a voi mi raccomando. Sis felix . Die X Decembris 151396.

88 se dovessino… un sasso: anche se all’inizio mi facessero far rotolare un sasso. Si avverte la nostalgia dell’azione. 89 Perché… di me: Perché se poi non dovessi riuscire ad accattivarmeli (i Medici), me la prenderei solo con me stesso. 90 questa cosa: allude al Principe.

91 né dormiti, né giuocati: Machiavelli sostiene con evidente orgoglio di aver ben impiegato gli anni trascorsi al servizio dello stato (tra il 1498 e il 1512). 92 fede: lealtà; non tanto a un partito politico ma allo Stato, di cui Machiavelli si presenta fedele servitore.

93 la povertà mia: lo scrittore intende presentare la sua povertà come una prova della sua onestà. 94 questa materia: il modo più opportuno per consegnare la mia opera a Giuliano. 95 Sis felix: Sii felice. 96 Die… 1513: Il giorno 10 dicembre 1513.

Analisi del testo La struttura La lettera presenta una struttura articolata, che viene qui di seguito sintetizzata. La prima parte fa riferimento alla precedente lettera del Vettori: Machiavelli mostra il proprio piacere per avere finalmente ricevuto notizie dall’amico. Dato il suo silenzio, temeva che qualcuno avesse insinuato al Vettori che lui avesse fatto leggere le sue lettere ad altri che non fossero persone affidabili (cosa evidentemente disdicevole, data la levatura politica del personaggio). Si congratula quindi con lui per la serenità con cui assolve al suo compito e auspica che la Fortuna gli possa in futuro consentire maggiore possibilità di azione, oltre che consentire a lui stesso di ritornare alla vita attiva. Significativo nel passo è il riferimento al potere, nelle cose umane e in particolare negli eventi politici, della Fortuna, alla quale è necessario adattarsi a seconda delle circostanze. La parte centrale è costituita dall’ampio racconto autobiografico di una giornata-tipo nel podere di campagna (l’Albergaccio), dove Machiavelli viveva confinato, lontano dagli affari pubblici. La giornata descritta si suddivide in due fasi, corrispondenti al giorno e alla sera, a due diversi spazi, principalmente l’osteria del paese e lo studio dello scrittore, e soprattutto a due diverse condizioni interiori. Significativamente, Machiavelli utilizza due diversi registri stilistici e opera scelte lessicali fortemente connotate in senso oppositivo.

Il tempo diurno/lo spazio paesano e l’osteria Durante il giorno Machiavelli caccia e si occupa del suo podere (in particolare assistendo al taglio della legna del bosco, che poi vende al miglior offerente). Riferisce, con dettaglio di particolari (che possono apparire anche troppo insistiti) gli alterchi relativi al commercio di legname e le liti giornaliere fra boscaioli per le più futili questioni, a cui l’autore assiste rassegnato (ma forse anche divertito). Ma soprattutto frequenta l’osteria, nella quale s’ingaglioffa, immiserisce il suo spirito, in compagnia di gente del popolo, dedita a occupazioni umili (il macellaio, il mugnaio, i fornaciai, l’oste stesso) e dove volano anche gli insulti per i giochi d’osteria che animavano (e tuttora nei borghi toscani animano) le piccole comunità di paese. Due espressioni indicano il sostanziale disprezzo di Machiavelli per questa misera realtà, nella quale, suo malgrado, è costretto a vivere ampia parte della sua giornata: questi pidocchi e, appunto, m’ingaglioffo.

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Lo spazio aristocratico dell’umanista/il tempo della sera Allo spazio popolare degradato e degradante dell’osteria e al tempo della giornata, consumato in occupazioni materiali e nel gioco, si contrappongono il tempo della sera e lo spazio solitario e silenzioso dello studio, lo scrittoio in cui Machiavelli si rifugia alla fine della sua inutile giornata. Significativamente il passaggio da uno spazio all’altro è segnalato nel testo da una sorta di “varco del confine” tra il “fuori” volgare e chiassoso e il “dentro” raccolto e meditativo dello studio, dove lo scrittore avvierà un silenzioso colloquio con gli amati scrittori antichi. Il “confine” è costituito da una sorta di mini-anticamera, in cui lo scrittore si ferma prima di entrare nello studio. In essa (come può osservare chi visita oggi la casa di Machiavelli nel podere dell’Albergaccio) ci sono un lavabo di pietra e un armadio. In questo piccolo ambiente avviene una sorta di “rito di purificazione”, o almeno così doveva percepirlo Machiavelli a quanto ci dice nella lettera: si libera dal fango (non solo quello attaccato ai suoi vestiti e ai suoi stivali, ma forse anche quello interiore, incrostato dentro di lui a causa della banale trivialità del quotidiano) e indossa nuovi abiti (in senso reale e metaforico), consoni all’incontro con gli antichi a cui solennemente si prepara.

Le scelte stilistiche La dicotomia, la contrapposizione che viene prospettata nella lettera è rispecchiata dallo stile: nella prima parte del testo, in cui Machiavelli racconta la sua giornata con vivaci particolari che fanno pensare a un rapporto di familiarità con il destinatario, anche se si tratta di un uomo importante, prevalgono espressioni popolari e addirittura gergali (badalucco, fare il diavolo, fare capo grosso, m’ingaglioffo, pidocchi ecc.), paragoni che attingono alla vita quotidiana (il macellaio Gabburra); nella seconda parte, relativa alla sera, l’andamento del discorso si fa invece lento e solenne, abbondano le immagini metaforiche, il lessico si fa elevato e scelto, con molti latinismi (antique, antiqui, loto) o addirittura forme latine, peraltro usuali nella prosa cancelleresca come solum o tandem.

L’ultima parte: l’annuncio dell’avvenuta composizione del Principe Molto importante nella lettera al Vettori è il riferimento al Principe, che l’autore definisce un opuscolo (cioè un’opera di piccola mole) e che presenta innanzitutto come frutto della sua lettura degli storici antichi («io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale»). Machiavelli comunica anche all’amico la sua intenzione di dedicarlo a Giuliano de’ Medici (sappiamo che, per la morte di quest’ultimo, Il Principe sarà invece dedicato a Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico). L’autore ci informa inoltre che al momento della stesura della lettera era impegnato a completare l’opera e a rivederne la veste stilistica (a questa operazione alludono le espressioni metaforiche «l’ingrosso et ripulisco»). Esprime infine all’amico le motivazioni che lo inducono a voler presentare di persona l’opera a Giuliano de’ Medici, nella speranza di ingraziarselo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Cosa sarebbe disposto a fare Machiavelli, pur di essere ancora al servizio dei de’ Medici? 2. Cosa trattiene Machiavelli dall’andare in visita all’amico a Roma? ANALISI 3. Nel testo si allude in due diversi momenti alle letture di Machiavelli: a. individua di quali differenti tipologie letterarie si parla e a quale contesto di lettura sono riferite; b. indica quale nesso istituisce l’autore fra le sue letture umanistiche e la stesura del Principe. 4. Rileggi il celebre passo della lettera in cui lo scrittore rivela come amava passare le serate nel suo studio: individua le informazioni che ci fanno capire come gli uomini di cultura del tempo leggevano i classici. STILE 5. Per descrivere il rapporto con gli autori antichi, l’autore utilizza una serie di metafore. Indicale e spiegane il significato.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 6. Prova a riscrivere la lettera sotto forma di un dialogo immaginario tra Machiavelli e Francesco Vettori, rispettando le tematiche trattate.

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2 Il Principe 1 Un “opuscolo” destinato a rivoluzionare i parametri della politica VIDEOLEZIONE

Giorgione, Ritratto di guerriero con scudiero, 1502-1510 ca. (Firenze, Gallerie degli Uffizi).

Storia del Principe Il 10 dicembre 1513, dal “confino” all’Albergaccio, Machiavelli scrive una celebre lettera all’amico Vettori, diplomatico presso la corte pontificia (➜ T2 ). In essa annuncia l’avvenuta composizione di un «opuscolo», di cui indica il titolo (De principatibus) e, sinteticamente, il contenuto dichiarando, inoltre, l’intenzione di indirizzarlo a Giuliano de’ Medici, che sembrava sul punto di diventare principe di un nuovo stato nel centro Italia. Afferma che l’opera è ancora in divenire (usando espressioni metaforiche come «l’ingrosso et ripulisco [lo amplio e lo rivedo nella forma]») e che non sa se farla pervenire a Giuliano (che si trovava allora a Roma dopo la nomina a pontefice del fratello Giovanni, Leone X), come lo spingeva a fare «la necessità». Un mese dopo, nel gennaio del 1514, in una lettera a Machiavelli, il Vettori esprime un giudizio positivo sul Principe, ma aggiunge anche che, per consigliare l’amico se sia il caso o no di presentarlo a Giuliano de’ Medici, ha bisogno di leggerlo tutto (se ne deduce che nel frattempo l’opera si stava forse ampliando). A maggio del 1514 l’opera è comunque terminata (sebbene alcuni pensino che Machiavelli abbia continuato a lavorarci fino al 1518), ma a questo punto Vettori sconsiglia all’amico di andare a Roma. Tra il 1515 e il 1516 Machiavelli cambia il destinatario della Dedica: il nuovo dedicatario (➜ T3 ) è Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico, capo del governo di Firenze dal 1513, al quale forse l’opera fu consegnata, ma senza nessun riscontro positivo per il suo autore. Nel 1532, cinque anni dopo la morte dello scrittore, l’opuscolo sarà pubblicato con il titolo con cui passerà alla storia: Il Principe. Una doppia titolazione: I Principati o Il Principe? Come comunica lo stesso Machiavelli al Vettori (➜ T2 ), il titolo originario del trattato, in latino, è De principatibus (I principati). Fin dai primissimi tempi, però, i lettori privilegiano il ritratto dell’uomo politico spregiudicato (tratteggiato nella parte centrale del testo) rispetto all’analisi delle diverse tipologie di principati: si impone così – con un significativo orientamento dell’ottica stessa di lettura dell’opera – il titolo Il Principe, con il quale essa viene pubblicata. I contenuti Oltre alla Dedica, Il Principe consta di ventisei capitoli, ognuno dei quali presenta un titolo in latino che ne prospetta sinteticamente il contenuto e che possono essere così raggruppati: • I-XI: dopo la presentazione della materia del trattato (o meglio, della sua prima parte) sono delineate le diverse tipologie di principati: ereditario (II), nuovo in parte (III-V), del tutto nuovo (VI-X). Il Principe 2 823


Quest’ultima tipologia è quella che maggiormente interessa Machiavelli, poiché è solo attraverso un principato nuovo che si potrebbe rimediare alla presente «ruina» d’Italia. Chiude la sezione il cap. XI, dedicato a quel particolare principato che è lo Stato della Chiesa, verso cui Machiavelli, come nei Discorsi, non risparmia critiche. • XII-XIV: viene discussa una questione assai urgente per Machiavelli, quella delle milizie. L’autore si fa portavoce della necessità, ribadita anche nei Discorsi e nell’Arte della guerra, che uno stato sia dotato di milizie proprie. • XV-XXIII: Machiavelli affronta la parte più scottante dell’opera, delineando (in particolare nei capp. XV-XIX) i comportamenti più adatti (anche se contrari alla morale) a un principe «virtuoso», cioè capace di operare per il bene dello Stato. Nei capp. XX-XXIII continua l’enunciazione di precetti utili al principe virtuoso con riferimento a problemi specifici, come ad esempio la scelta dei ministri. • XXIV-XXVI: la riflessione si sposta sull’analisi della fallimentare politica dei prìncipi italiani che ha generato la decadenza dell’Italia. Si affronta inoltre il problema del peso esercitato dalla fortuna sulle cose umane (XXV). L’opera si conclude, ricollegandosi alla Dedica, con la celebre esortazione alla casata medicea a guidare il riscatto dell’Italia e a liberarla dai «barbari». Le finalità del trattato Nell’ideazione del Principe si sovrappongono tre distinte prospettive e tre diverse finalità. • L’intento trattatistico a cui corrisponde un’attitudine analitico-definitoria e che si manifesta soprattutto nei primi undici capitoli, dove sono delineate le diverse tipologie dei principati. • L’intento pragmatico che riconduce il trattatello alla situazione contingente e ne fa un testo militante, una sfida politica imposta da un presente drammatico: da qui i celebri consigli al principe che si ritrovano nei capitoli centrali dell’opera. Machiavelli si propone di suggerire strategie politiche (ma anche militari) che consentano a un principe, dotato di straordinarie capacità, di costituire uno stato moderno in grado di affrontare il confronto con i grandi Stati europei e di risolvere la grave crisi italiana, divenuta evidente dopo la discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494. • L’intento utilitaristico-personale secondo cui Machiavelli spera (come si deduce dalla Dedica) di far cosa gradita ai nuovi signori, confidando che la sua opera possa diventare un lasciapassare per rientrare sulla scena politica (un obiettivo che condiziona per più di un aspetto la scrittura dell’opera e che troppo spesso viene messo in secondo piano).

Ritratto di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, in una copia da un originale di Raffaello.

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Il Principe: struttura e contenuti PRIMA PARTE: CAPITOLI I-XI ereditario

nuovo in parte Le tipologie di principato

preso con la violenza nuovo preso con il consenso

ecclesiastico

il caso dello Stato della Chiesa

SECONDA PARTE: CAPITOLI XII-XIV contro l’uso dei mercenari L’esercito il possesso di un proprio esercito come requisito per la sopravvivenza dello Stato

TERZA PARTE: CAPITOLI XV-XXIII rifiuto di ogni rappresentazione ideale Le caratteristiche del principe etica subordinata alla politica

QUARTA PARTE: CAPITOLI XXIV-XXVI analisi della crisi dell’epoca

La situazione italiana

il rapporto virtù/fortuna nelle cose umane

esortazione al riscatto dell’Italia

Il Principe 2 825


2 I fondamenti metodologici del Principe La concezione naturalistica dell’uomo L’indagine di Machiavelli sulle dinamiche politiche poggia su una fondamentale premessa: la concezione “naturalistica” dell’uomo che sta alla base anche dei Discorsi. Per Machiavelli la natura umana non cambia con il trascorrere dei secoli, così come non cambiano le leggi che regolano il moto degli astri e non mutano i suoi elementi costitutivi (sole, luna ecc.): «Gli uomini nacquero vissero e morirono sempre con un medesimo ordine» scrive Machiavelli nei Discorsi (I, xi ). Proprio l’immutabilità della natura umana autorizza a fissare regole generali per il comportamento del politico valide anche per il futuro e, d’altra parte, legittima il ricorso a esempi tratti dalla storia passata. Un’antropologia pessimistica Dato come assioma (e cioè principio indiscutibile, di valore assoluto) che la natura dell’uomo sia dunque sempre la medesima e i suoi comportamenti in certo qual modo prevedibili, quale visione ha Machiavelli di essa? Per Machiavelli l’uomo è fondamentalmente malvagio: «non opera mai nulla bene se non per necessità»; «degli uomini si può dire questo, generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno» (cap. XVII, PAG. 893). Ecco due delle molte sentenze volte a definire la negatività della natura umana che, per Machiavelli, non dipende da particolari circostanze storiche, ma è una qualità costituzionale, intrinseca all’essere umano. Da questo secondo assioma derivano le inevitabili scelte che il politico si trova a compiere se non vuole la «ruina» propria e dello stato che si trova a governare: «è necessario a chi dispone una repubblica e ordina leggi in quella», egli afferma, «presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malvagità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione». In questa pessimistica visione dell’umanità l’arte politica si prospetta anche come un rimedio agli egoismi dei singoli, che lasciati liberi di esprimersi, senza una guida e un deterrente, condurrebbero inevitabilmente un Paese all’anarchia. Il richiamo alla «verità effettuale» e il coraggioso congedo dalla tradizione Fin dalla Dedica Machiavelli esibisce la consapevolezza che la sua è un’opera nuova, anche se inizialmente allude soprattutto alla novità dello stile. Occorrerà arrivare al cap. XV (➜ T7 ), che apre i capitoli chiave del Principe, perché la vera novità dell’opera venga esplicitata dall’autore: «partendomi massime [allontanandomi del tutto], nel disputare questa materia, da li ordini delli altri [dai giudizi formulati dagli altri]. Ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto [dietro] alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa». Segue un riferimento polemico ai molti che «si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere [nella realtà]». L’autorevole capostipite di coloro che parlando degli stati hanno seguito l’immaginazione e non la realtà è certamente il filosofo greco Platone; ma Machiavelli si pone in un confronto polemico più diretto con la tradizione medievale e poi umanistica dei trattati sull’“ottimo principe” (➜ PER APPROFONDIRE La tradizione della trattatistica politica sul “buon governo” OL). Essi prospettavano un astratto “catalogo di virtù” a cui doveva conformarsi chi governa ma che non aveva nessuna rispondenza con la realtà e risultava agli occhi di Machiavelli, più ancora che falso, del tutto inutile.

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Machiavelli, invece, pone al centro delle proprie riflessioni e dei propri consigli politici la concreta realtà dell’esperienza, sia passata (di cui ricerca le tracce nei testi degli storici), sia recente: quella che egli chiama, con neologismo da lui creato, «verità effettuale». Questa prospettiva innovativa, derivata dall’obiettivo dichiarato di essere utile a chi governa e non di proporre un astratto discorso teorico, costituisce la base di un nuovo metodo per interpretare i comportamenti collettivi e individuali che sconvolgerà i parametri di giudizio politico.

3 I temi chiave Etica e politica online

Per approfondire La tradizione della trattatistica politica sul “buon governo”

La relativizzazione del codice etico Lo scopo primario dell’opera – fare cosa utile a chi governa – ha questa conseguenza: nel Principe i comportamenti umani sono valutati esclusivamente sulla base dei risultati che producono sul piano politico, nell’obiettivo di garantire l’efficienza dello Stato. Da qui la celebre rassegna dei comportamenti umani (da seguire o da evitare) sviluppata nei capitoli centrali dello scritto, dalla quale emerge la novità della prospettiva machiavelliana rispetto alla tradizionale trattatistica politica. Machiavelli non conia nuovi termini che identifichino la condotta politica, ma utilizza il sistema lessicale “etico” tipico dei trattati umanistici sul “principe buono”, dissolvendone però in modo spregiudicato l’assolutezza: nell’ottica pragmatica del Principe, infatti, la bontà, la liberalità, il mantenimento della parola data – un insieme di valori che la morale considera indiscutibilmente virtù – diventano qualità negative se nuocciono allo Stato; al contrario possono diventare “virtù”, cioè qualità positive, la crudeltà, il tradimento della parola data, persino l’uso deliberato della violenza, purché finalizzate al bene dello Stato. Il metodo del «rovesciamento paradossale» (G. Inglese) di fonti autorevoli dell’etica umanistica è utilizzato anche a proposito della celeberrima immagine della golpe e del lione (cap. XVIII ➜ T8 ): la coppia volpe-leone era presente come simbolo di comportamento indegno nel De officiis di Cicerone (I, xiii , 41) e in vari luoghi della Commedia. Machiavelli la reintroduce invece come immagine del politico “virtuoso”: egli deve all’occorrenza saper usare la forza irruenta, la violenza (come appunto il leone), ma anche – e forse soprattutto – le astuzie tradizionalmente associate alla volpe, ossia la slealtà, la simulazione e l’inganno dissimulato. L’“assolutezza” della politica Nella visione pragmatica di Machiavelli, dunque, l’agire politico diventa “autoreferenziale”, nel senso che non è vincolato da alcuna altra legge se non quella dell’efficienza politica, né rimanda, per essere accettato, a un sistema morale e religioso. Scrive giustamente lo studioso Emanuele Cutinelli-Rèndina: «piuttosto che di autonomia, che è pur sempre un relazionarsi e un distinguersi da un altro, bisognerà parlare per Machiavelli di assolutezza della politica»: una prospettiva che, una volta assunta, detta le proprie leggi ed è proprio questo che fonda la possibilità di costruire una “scienza della politica”. Non a caso alcuni interpreti hanno accostato la rivoluzione introdotta nel campo della riflessione politica da Machiavelli alla rivoluzione scientifica galileiana: «Machiavelli è il Galilei della politica» scriveva Gioberti già nell’Ottocento. In entrambi i casi si pongono al centro del metodo di analisi i dati dell’esperienza: nel campo dei fenomeni naturali per Galileo, in quello dell’agire umano nella storia per Machiavelli (➜ VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 895). Il Principe 2 827


Il rapporto virtù-fortuna

Parola chiave

Un legame essenziale A mano a mano che il trattato procede, si impone sempre più a Machiavelli una domanda: possedere la “scienza della politica” assicura davvero, in ogni caso, il successo politico dell’azione, o elementi imponderabili lo possono comunque compromettere? Il rapporto “virtù-fortuna” è posto fin dall’inizio nel Principe, ma non a caso emerge e viene fatto oggetto di specifiche argomentazioni nell’ultima parte dell’opera. Il ruolo della fortuna sulle cose umane è un soggetto tradizionale, particolarmente presente nella trattatistica quattrocentesca (ad esempio in Alberti ➜ PER APPROFONDIRE La Fortuna tra letteratura e arte OL), ma certo al tempo di Machiavelli il problema si fa più pressante, in relazione al corso sempre più mutevole e imprevedibile degli eventi (a partire dalla discesa di Carlo VIII in Italia, nel 1494). Nella prima parte dell’opera la fortuna si configura soprattutto come “occasione”: una concomitanza di eventi e situazioni che la virtù del principe – intesa come capacità valutativa e decisionale – deve saper sfruttare a proprio favore: se manca l’occasione, la virtù non ha modo di esprimersi; e, d’altra parte, se l’occasione favorevole si presenta ma non c’è chi è capace di sfruttarla, essa non può concretizzarsi. Verso la conclusione dell’opera (e in particolare nel cap. XXV dedicato espressamente al tema della fortuna ➜ T10 ) tende a prevalere nel Principe una connotazione negativa di questa entità (in proposito, è significativa l’immagine dominante della fortuna come un fiume in piena), vista come insieme di forze, tutte e sempre terrene, imprevedibili che possono inaspettatamente travolgere i progetti anche dei politici più “virtuosi”. Nell’ultima parte dello stesso capitolo conclusivo, la progettazione razionale dell’azione politica si scontra con un ostacolo ancora più grave del variare turbinoso degli eventi, cioè la natura di chi governa, la costituzionale indole di ognuno, che spesso non si accorda con il variare dei tempi. L’atteggiamento ideale sarebbe una perfetta adattabilità alle situazioni, ma Machiavelli sa che ciò non è possibile e allora, con uno scarto logico, una virata irrazionale, conclude che è meglio comunque essere «impetuosi» perché «la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla», come fanno in genere i giovani.

virtù/fortuna

Fin dal primo capitolo del Principe (➜ T4 ), Machiavelli introduce le due principali parole chiave dell’intera opera: fortuna e virtù. Virtù deriva dal latino virtus, nel senso di “vigore, forza, valore”, per lo più associato all’ambito militare. Con il cristianesimo il termine, così come succede a tanti altri vocaboli (ad esempio fides, “fede”), muta significato e si afferma l’associazione tra virtus e moralità. Il virtuoso per eccellenza è il santo, che nelle sue scelte di vita attua pienamente il richiamo cristiano ai valori dello spirito. Machiavelli laicizza il termine, riconducendolo all’accezione latina classica – e quindi all’idea di energia, forza vitale – ma lo trasferisce al campo politico: il politico virtuoso non è il portavoce dei valori cristiani, ma chi sa sfidare le difficoltà e affermare con forza il proprio progetto mettendolo in atto, chi sa operare scelte funzio-

828 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

nali, chi sa decidere tempestivamente ciò che è meglio per lo Stato. Fortuna deriva dal latino fors, che significa “sorte”, “caso”. I latini ne fecero una divinità, personificando così la forza che condizionava ciecamente (da qui la tradizionale figurazione della dea come bendata) i destini degli uomini. Mentre nella lingua italiana corrente “fortuna” ha un’accezione esclusivamente positiva, in latino il termine assommava sia un significato positivo (la buona sorte) sia negativo (la cattiva sorte). Di questa duplice accezione resta traccia in Machiavelli, che comunque restringe l’uso del termine all’ambito strettamente politico o comunque afferente all’azione politica. La fortuna è un insieme di circostanze imprevedibili che possono favorire o danneggiare la capacità politica (la “virtù”) del principe: questa seconda accezione prevale nella parte finale dell’opera.


La conclusione del Principe Da questa premessa trae origine l’appello appassionato alla liberazione dell’Italia dai «barbari» che chiude Il Principe (cap. XXVI ➜ T11 ): considerato da qualche critico un’appendice di natura retorica aggiunta in un tempo successivo, il discusso capitolo trova la sua genesi nella parte conclusiva del capitolo precedente. Il corso inesorabile della lucida riflessione machiavelliana ha portato, passo dopo passo, all’incrinarsi della fiducia assoluta nella progettazione razionale dell’azione politica, ma Machiavelli non dispera che un’azione di forza possa riscattare il suo paese: un’azione che non poteva avere il suo artefice in altri che in un membro della casata dei Medici, che una straordinaria occasione di fortuna vedeva contemporaneamente a capo di Firenze e a capo della Chiesa. Era quindi davvero possibile, agli occhi di Machiavelli, che questa casata guidasse la riscossa dell’Italia e desse vita a un forte “principato civile”, capace di sfidare le avversità della storia. La fredda razionalità dello scienziato della politica cede allora il posto nella celebre chiusa del Principe alla passione del politico, angosciato dalla «ruina» attuale dell’Italia, ma anche proteso verso la speranza della sua rinascita.

il consenso: strategie espositive ed espressive 4 Ottenere nel Principe Una “voce” autorevole Un apparente paradosso percorre Il Principe: all’esposizione di regole e precetti oggettivamente dedotti dall’analisi della realtà effettuale si associa d’altra parte la scelta di una narrazione-esposizione condotta in prima persona da un soggetto che rinuncia a ogni delega o intermediazione e si assume la totale responsabilità delle parole che pronuncia. L’autore sottolinea volutamente la sua presenza attraverso l’uso insistito delle forme pronominali (io/me): «Raccolte io adunque tutte le azioni del duca…», «Rispondo con quello che per me di sotto si dirà circa alla fede dei principi», «Io laudo questo modo perché e’ gli è usitato ab antiquo». L’intrusione frequente del soggetto però non conferisce assolutamente alla prosa di Machiavelli un carattere soggettivo, ma al contrario il lettore tende a riconoscervi l’unica prospettiva interpretativa corretta. A questa autorevolezza contribuisce in modo rilevante il tipico andamento “binario” dell’argomentazione machiavelliana, che tende a escludere in modo perentorio ogni possibilità intermedia all’interno di un problema o di una categoria concettuale.

Le chiavi del pensiero di Machiavelli La politica

autonomia della politica dalla morale

L’uomo e la legge

la natura dell’uomo è sempre uguale nel tempo, quindi si possono definire delle leggi universali ed eterne

La storia

la storia è vista come un modello di comportamento

La gestione del potere

ogni riflessione deve partire dalla verità effettuale

Il Principe 2 829


La strategia del consenso Le tecniche discorsive e le strategie retoriche impiegate dall’autore nella propria opera sono finalizzate a ottenere il consenso da parte del lettore (e come lettore Machiavelli identifica innanzitutto l’illustre rappresentante della casata Medici a cui si rivolge l’opera): un consenso di cui Machiavelli ha forte bisogno, ma che non era affatto scontato, anche tenuto conto della novità scottante dei contenuti. Uno degli espedienti privilegiati per creare il coinvolgimento del lettore è l’uso assai frequente del tu; nel Principe Machiavelli si rivolge spesso a un interlocutore interno al testo, attraverso il pronome di seconda persona: «di modo che tu hai nemici», «e il bene che tu fai non ti giova» (più raramente il tu lascia il posto al voi: «se voi considererete…»). Machiavelli costruisce così un tipo di comunicazione dialogica molto efficace sul piano comunicativo, fondata sulla programmatica intesa tra un “io” autorevole e un “tu” in grado di intenderlo correttamente. Il dialogo è, però, solo apparente, perché ne è esclusa la prerogativa più specifica, cioè l’ipotesi di un eventuale disaccordo, l’apertura a diverse possibilità interpretative degli eventi in nome di una interpretazione rigorosamente univoca della storia a cui il lettore è inesorabilmente condotto. La “retorica della persuasione” La persuasione è realizzata attraverso la coesistenza di due diverse modalità: da un lato l’uso di un’argomentazione «necessitante», come la chiama efficacemente il critico Giorgio Inglese, e dall’altro il ricorso al potere suggestivo della singola parola, di immagini metaforiche e simboliche di forte impatto. Per quanto riguarda l’argomentazione, nel Principe non può non colpire la successione incalzante delle argomentazioni, enfatizzata dall’uso insistito di connettivi testuali, tra i quali prevalgono i nessi causali e conclusivi («Dico adunque», «Donde nasce che», «È necessario pertanto»). La stringente logica argomentativa è sostenuta dall’uso di un “vocabolario della necessità”, come è stato definito dalla critica, ovvero da termini come conviene, è necessario, si deve, bisogna ecc. La volontà di semplificare a fini persuasivi l’enunciazione e interpretazione dei dati è alla base del procedimento dilemmatico caratteristico del metodo espositivo del Principe: Machiavelli individua due alternative possibili affidate alla congiunzione disgiuntiva o; da una di queste si dipartono altre opzioni fino alla conclusione del ragionamento. Su una struttura dilemmatica si fonda l’intero capitolo I dell’opera, che ne enuncia la materia: «Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati. E’ principati sono o ereditari […] o sono nuovi. E’ nuovi, o e’ sono nuovi tutti ecc.». Sull’altro versante si può citare il ricorso a espressioni colloquiali («si tirò drieto», «vi si godono»), all’ideazione di immagini corpose di forte impatto (il centauro, la volpe e il leone, la fortuna-fiume o donna ecc.), di paragoni e immagini metaforiche tratte spesso dalla realtà naturale, come il termine barbe (“radici”) usato in rapporto allo stato («mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi»); o ancora l’uso di massime e sentenze che condensano le tesi prima soggette ad analitica argomentazione: «Da qui nacque che tutti ’e profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno», «li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio». Lo stile del Principe: contro una prosa “ampollosa e magnifica” La prosa di Machiavelli costituisce un esempio unico non solo nel panorama del primo Cinquecento, ma più in generale nella storia della lingua letteraria italiana. È questa la principale ragione per cui il trattato di Machiavelli viene inserito in una storia della letteratura italiana, e non solo in una storia delle dottrine politiche.

830 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli


online

Interpretazioni critiche Mario Martelli Lorenzo come il Valentino: la concretezza storica dell’esortazione a liberare l’Italia dai barbari

Occorre ricordare che Machiavelli sceglie di impiegare il volgare, rifiutando anche dal lato linguistico la tradizione del trattato politico umanistico, che era scritto comunemente in latino. Quanto ai trattati in volgare, i maggiori intellettuali del tempo, come Bembo e Castiglione, avevano usato nelle loro opere (celeberrime a quel tempo: Gli Asolani e il Cortegiano) una prosa volutamente elevata e retoricamente sostenuta. Nella Dedica del Principe, Machiavelli fa una precisa dichiarazione d’intenti, implicitamente critica verso una prosa accademica, in cui si nobilitano e abbelliscono i contenuti con espedienti retorici: vuole che la sua opera sia apprezzata per l’importanza dei contenuti e non per la presenza di «clausule ample o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare». Le scelte linguistiche A livello fono-morfologico (ma anche sintattico) Machiavelli si attiene spesso al fiorentino parlato del suo tempo, secondo le posizioni che aveva assunto anche nel dibattito sulla questione della lingua (➜ SCENARI, PAG. 561). Segnaliamo solo alcuni tra i molti elementi ricorrenti e caratterizzanti: l’articolo maschile el (singolare) ed e’ (plurale) (el principe, e’ più eccellenti); il possessivo plur. sua («ne’ sua ordini nuovi»); i passati remoti in -ono (feciono) o -orno (ruinorno); il participio passato del verbo essere suto. L’impasto linguistico dell’opera è vario: accoglie, infatti, sia termini colti e latinismi (iudicare, esemplo, espedito, potestà, congiunzioni come et, etiam, tamen), sia componenti popolaresche («volendola tenere sotto»). Interessante è poi la risemantizzazione in senso politico di termini di impiego comune: Machiavelli trasforma in termini politici espressioni come ruina (propriamente “crollo di un edificio”), occasione, mantenere ecc. Ne risulta un impasto linguistico tutto particolare nel panorama generale, che tendeva ormai all’omologazione, della prosa primo-cinquecentesca.

Il Principe GENERE

trattato politico

DATA DI COMPOSIZIONE

presumibilmente 1513-1514

DATA DI PUBBLICAZIONE

1532

STRUTTURA

ventisei capitoli preceduti da una Dedica

FINALITÀ

ingraziarsi un membro della potente famiglia Medici e offrire strumenti utili a un uomo politico per dar vita a un nuovo Stato e porre un argine alla grave crisi italiana

CONTENUTO

• analisi dei vari tipi di principato • indicazioni su come conquistare o mantenere un principato

• rassegna delle virtù (non in senso morale) necessarie all’esercizio del potere • esame del problema delle milizie • ruolo della fortuna

LINGUA

fiorentino parlato

STILE

prosa chiara e immediata

Il Principe 2 831


Niccolò Machiavelli

T3

La Dedica e la presentazione del Principe

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 2

Il Principe, Dedica N. Machiavelli, Opere, vol. I, a cura di C. Vivanti, EinaudiGallimard, Torino 1997

Era del tutto comune, ai tempi di Machiavelli, che uno scrittore dedicasse la propria opera a un illustre personaggio per ingraziarselo. Anche la Dedica del Principe, che qui leggiamo, indirizzata a Lorenzo de’ Medici, giovane nipote del Magnifico, si iscrive in questa consuetudine, tipica del costume delle corti. Particolari sono però le circostanze: al tempo in cui egli stende la Dedica (probabilmente tra il 1515 e il 1516), Machiavelli ha già composto il suo trattato e si trova da alcuni anni estromesso dalla vita politica. Da qui la speranza di ingraziarsi, con la propria opera, la potente famiglia Medici e di poter così riprendere una vita attiva. La Dedica, al di là delle frasi di circostanza, si articola in una serie di considerazioni che costituiscono una prima, significativa presentazione dell’opera.

NICOLAUS MACLAVELLUS MAGNIFICO LAURENTIO MEDICI IUNIORI SALUTEM1 Sogliono2 el più delle volte coloro che desiderano acquistare grazia appresso uno principe3 farsegli incontro con4 quelle cose che in fra le loro abbino più care o delle 5 quali vegghino lui più dilettarsi5; donde si vede molte volte essere loro6 presentati cavagli, arme, drappi d’oro, prete7 preziose e simili ornamenti degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque offerirmi alla vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella8, non ho trovato, in tra la mia supellettile9, cosa quale io abbia più cara o tanto esistimi10 quanto la cognizione11 delle 10 azioni delli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche12; le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate13; e ora in uno piccolo volume ridotte14, mando alla Magnificenzia vostra. E benché io iudichi questa opera indegna della presenza di quella15, tamen16 confido assai che per sua umanità gli debba essere 15 accetta, considerato come da me non gli possa essere fatto maggiore dono che darle facultà a potere in brevissimo tempo intendere tutto quello che io, in tanti anni e con tanti mia disagi e periculi, ho conosciuto e inteso17. La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample18 o di parole ampullose e magnifiche19 o di

1

“Niccolò Machiavelli al Magnifico Lorenzo de’ Medici il giovane”. 2 Sogliono: sono soliti. 3 acquistare... principe: cercare di ottenere la benevolenza di un principe. 4 farsegli incontro con: offrirgli. 5 delle quali… dilettarsi: che vedono essere a lui più gradite. 6 loro: ai principi; più sotto di quelli, “dei principi”. 7 prete: pietre. 8 qualche testimone… di quella: qualche dono che possa testimoniare il mio desiderio di servirla (riferito a vostra Magnificenzia). 9 supellettile: l’insieme delle proprietà e dei beni di qualcuno.

10 esistimi: stimi (leggi: esìstimi). 11 cognizione: conoscenza. 12 una lunga... antiche: riferimento agli anni in cui Machiavelli, Segretario della Repubblica fiorentina, aveva svolto delicati incarichi diplomatici e militari acquisendo un’esperienza diretta delle vicende contemporanee; e allo studio della storia antica (lezione vale “lettura” alla latina). 13 escogitate ed esaminate: meditate e analizzate. 14 ora… ridotte: avendole ora sintetizzate in un piccolo volume (appunto Il Principe). 15 indegna… di quella: indegna di essere presentata ad essa (il riferimento è sempre alla vostra Magnificenzia).

832 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

16 tamen: tuttavia (congiunzione latina; uso proprio del linguaggio della cancelleria). 17 considerato… inteso: Machiavelli asserisce che non può fare dono maggiore a Lorenzo de’ Medici che quello di dargli la possibilità (facultà), attraverso la lettura del libretto, di comprendere rapidamente tutto quello che l’autore aveva appreso e compreso in tanti anni e con tanta fatica e pericoli. 18 clausule ample: elaborate chiuse ritmiche (secondo le norme del cursus). 19 ampullose e magnifiche: altisonanti ed elaborate.


qualunque altro lenocinio20 e ornamento estrinseco, con e’ quali molti sogliono le 20 loro cose descrivere e ornare, perché io ho voluto o che veruna21 cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata22. Né voglio sia imputata prosunzione se uno uomo di basso e infimo stato ar disce discorrere e regolare e’ governi de’ principi23; perché così come coloro che disegnano e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti e, 25 per considerare quella de’ luoghi bassi, si pongono alto sopra’ monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi, conviene essere populare24. Pigli adunque vostra Magnificenzia questo piccolo dono con quello animo che io ’l mando; il quale se da quella fia25 diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro uno estremo mio desiderio 30 che lei pervenga a quella grandezza che la fortuna e l’altre sue qualità le promettano26. E se vostra Magnificenzia da lo apice della sua altezza qualche volta volgerà li occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna27.

20 lenocinio: abbellimento retorico. 21 veruna: nessuna. 22 o che solamente… la facci grata: o che soltanto la varietà della materia e l’importanza del soggetto (subietto, latinismo) trattato la rendesse gradita (a chi legge). 23 discorrere… de’ principi: discutere il modo di governare dei principi e dare consigli (regolare) su di esso. 24 perché… populare: Machiavelli ricorre

a un efficace esempio: come coloro che disegnano le mappe geografiche si collocano in basso per delineare correttamente i luoghi elevati e in alto per delineare le pianure, allo stesso modo bisogna essere principi per conoscere bene la natura dei popoli e persone del popolo per conoscere bene quella dei principi. 25 se da quella fia: se da quella (cioè la vostra Magnificenzia) sarà. 26 la fortuna… promettano: la buona

sorte e le qualità individuali le promettono (di raggiungere). 27 quanto io… di fortuna: Machiavelli colloca opportunamente in chiusura della Dedica il riferimento alla sua triste condizione personale, al suo essere vittima di una sorte maligna. Egli spera (una speranza che non si realizzerà) che il suo “opuscolo” gli consenta di rientrare nell’attività politica. La richiesta diretta non viene fatta a Lorenzo, ma è evidentemente implicita.

Analisi del testo L’autore presenta Il Principe Al di là e al di sotto delle espressioni di circostanza un po’ paludate, la Dedica contiene preziose informazioni sull’opera che Machiavelli aveva appena composto e sull’alta considerazione che aveva di essa. 1. Significativamente Machiavelli definisce la sua competenza politica («la cognizione delle azioni delli uomini grandi») come la cosa più cara che possiede e può offrire al potente signore. Precisa che la sua sapienza in campo politico è stata acquisita in lunghi anni attraverso l’esperienza diretta a contatto con la realtà politica e attraverso le letture degli storici antichi. Questa sapienza è condensata nel Principe. 2. Anche Lorenzo de’ Medici può acquisire la stessa sapienza in breve tempo, semplicemente leggendo l’opera, che quindi viene presentata come un prezioso strumento per un uomo politico importante. Machiavelli presenta indirettamente il suo libro come una sorta di manuale tecnico di politica di pronta utilizzazione, che potrebbe essere paragonato – fatte le debite differenze – ai prontuari sintetici oggi diffusi soprattutto in campo aziendale. 3. Machiavelli dichiara di non aver voluto “ornare” la sua opera con espressioni altisonanti e formule retoriche, come invece fanno molti altri, per evitare il rischio che venga letta per i pregi stilistici e non per il suo contenuto, che egli ritiene particolarmente degno di interesse. È certamente uno degli elementi della modernità del Principe. 4. Il libro viene offerto a Lorenzo perché possa realizzare più elevati obiettivi, ma anche perché, convinto dalla qualità di esso, ponga termine con il suo autorevole intervento all’inattività a cui Machiavelli è costretto da «una grande e continua malignità di fortuna».

Il Principe 2 833


Esercitare le competenze comprendere e analizzare

coMPrenSione 1. Spiega la celebre definizione secondo cui Machiavelli attribuisce il sapere politico trasmesso nel trattato a «esperienza delle cose moderne» e «lezione delle antiche». A quali elementi della biografia e della formazione culturale dell’autore si riferisce? anaLiSi 2. Modestia e orgoglio si alternano nella Dedica: rintraccia i punti in cui prevale l’uno o l’altro atteggiamento dell’autore del Principe. 3. Verso la conclusione della Dedica, Machiavelli ricorre a un paragone significativo: individualo e spiegane la funzione in rapporto al contesto. StiLe 4. Quale differenza rimarca Machiavelli sul piano stilistico tra la sua opera e altre analoghe? Quale preoccupazione lo ha indotto a rinunciare a determinati espedienti stilistici?

interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1, 2

Letteratura e noi 5. Machiavelli sottolinea nel testo quanto la competenza, nel suo caso nell’ambito della politica, derivi in pari misura dall’esperienza sul campo e dallo studio sui libri. Ritieni che oggi una simile considerazione sia ancora attuale? Oppure pensi che il sapere pratico porti alla svalutazione del sapere acquisito attraverso i libri? Rispondi esponendo le tue considerazioni in un testo di max 15 righe.

niccolò Machiavelli

t4

I diversi tipi di principati e le diverse condizioni della loro genesi Il Principe, cap. I

N. Machiavelli, Opere, vol. I, a cura di C. Vivanti, EinaudiGallimard, Torino 1997

Il primo, brevissimo, capitolo dell’opera ha la funzione quasi di un indice che possa orientare il lettore nell’opera: prospetta, infatti, a livello di pura e semplice definizione elencatoria, le diverse tipologie di principati e i diversi modi con cui si acquisiscono.

I. QUOT SINT GENERA PRINCIPATUUM ET QUIBUS MODIS ACQUIRANTUR1 Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio2 sopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati3. E’ principati4 sono o ereditari, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe5, o sono nuovi. 5 E’ nuovi, o e’ sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza6, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che gli acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna7. Sono questi dominii, così acquistati o consueti a vivere sotto uno principe o usi a essere liberi8; e acquistonsi9 o con l’arme di altri o con le proprie10, o per fortuna o per virtù. 1

“Di quante specie siano i principati e in quali modi si acquistino”. 2 imperio: potere, sovranità. 3 principati: monarchie, stati retti da un sovrano. 4 E’ principati: I principati. 5 de’ quali… principe: nei principati ereditari la famiglia (el sangue) del signore è stata (suto è participio passato del verbo

essere, frequentemente usato da Machiavelli) per lungo tempo al potere (principe). 6 a Francesco Sforza: per Francesco Sforza. Capitano di ventura, a capo di milizie mercenarie, Francesco Sforza (1401-1466) riuscì a diventare signore di Milano dopo la morte di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, di cui aveva sposato la figlia. 7 al re di Spagna: Ferdinando il Catto-

834 Quattrocento e cinQuecento 17 Niccolò Machiavelli

lico (1452-1516), re di Spagna, che aveva conquistato il regno di Napoli nel 1503. 8 usi a essere liberi: abituati a vivere in un regime repubblicano. 9 acquistonsi: si acquistano, ossia si conquistano. 10 o con l’arme… le proprie: o con eserciti mercenari (arme di altri) o con milizie proprie.


Analisi del testo Il procedimento dilemmatico Come è stato evidenziato dagli studi critici, la logica argomentativa del Principe tende a utilizzare una modalità che è stata definita “dilemmatica”. Con questa si riduce la complessità del campo indagato a una coppia antitetica; a sua volta il secondo corno, cioè l’altro polo del dilemma, si scinde in una nuova coppia antitetica e così via secondo una struttura “ad albero”. In questo capitolo il procedimento trova la sua massima espressione: l’intero breve testo è costruito su uno schema binario oppositivo (o… o). Machiavelli ha probabilmente esasperato qui quello che è un modo tipico del suo pensiero proprio perché ci troviamo “alle soglie” del testo, cioè all’inizio dell’opera, e gli preme conquistare subito il lettore anche a costo di semplificare la complessa materia che si prepara ad affrontare, dando un saggio dimostrativo del suo modo di argomentare e di scrivere.

Uno stile incisivo In queste poche righe Machiavelli dà dimostrazione non solo del suo modo di argomentare ma anche del suo stile: intenzionalmente lontano, come ha specificato nella Dedica, da una prosa paludata e classicheggiante, dalle «parole ampullose e magnifiche», e stringato, particolarmente incisivo e funzionale a un libro che vuole avere un obiettivo pragmatico.

Bonifacio Bembo, Ritratto di Francesco Sforza, 1460 ca. (Milano, Pinacoteca di Brera).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del capitolo completando lo schema che ne visualizza l’articolazione “dilemmatica”. Secondo Machiavelli, è possibile distinguere gli Stati in: 1. ……………... 2. PRINCIPATI che possono essere: 2.1 ………. 2.2 NUOVI I principati nuovi possono essere: ………………………………… e si acquistano: 1 . o con LE ARMI ALTRUI o con ……………… 2. o con …………………. o con……..………………………. STILE 2. Nel breve capitolo prevale la coordinazione per asindeto o per polisindeto?

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Sviluppa una o più argomentazioni a tua scelta (di argomento letterario, storico, economico, politico, di attualità ecc.) con il caratteristico procedimento dilemmatico.

Il Principe 2 835


Collabora all’analisi

T5

Niccolò Machiavelli

I principati nuovi acquistati grazie alla «virtù» e per mezzo di milizie proprie Proponiamo il testo originale del cap. VI del Principe (➜ T5a ) e anche la recentissima riscrittura in italiano contemporaneo di Carmine Donzelli (➜ T5b OL).

T5a

I principati nuovi Il Principe, cap VI

N. Machiavelli, Opere, vol. I, a cura di C. Vivanti, EinaudiGallimard, Torino 1997

Nell’analisi delle strutture politiche sviluppata nella prima parte dell’opera (capp. I-XI), occupa un posto privilegiato, tra le diverse forme prospettate, quella dei principati nuovi, su cui Machiavelli concentra particolarmente il suo interesse, proprio perché solo un principato «nuovo» avrebbe potuto arginare la attuale «ruina» dell’Italia. Il capitolo VI è molto importante nell’economia complessiva dell’opera perché introduce alcuni fondamentali principi metodologici (come la necessità di imitare gli esempi dei “grandi” della storia) e una delle tematiche principali del trattato, cioè il rapporto fra la virtù e la fortuna, definendo per la prima volta entrambi questi concetti-chiave della riflessione machiavelliana.

VI. DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ARMIS PROPRIIS ET VIRTUTE ACQUIRUNTUR1 Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi, e di principe e di stato2, io addurrò grandissimi esempli. Perché, camminando gli uomini 5 sempre per le vie battute da altri3 e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie d’altri al tutto tenere4 né alla virtù di quegli che tu imiti aggiugnere5, debbe uno uomo prudente6 entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quegli che sono stati eccellentissimi imitare: acciò che7, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore8; e fare come gli arcieri prudenti9, a’ quali parendo 10 el luogo dove desegnano ferire10 troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù11 del loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro. Dico adunque che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si truova 15 a mantenergli più o meno difficultà secondo che più o meno è virtuoso12 colui che gli acquista. E perché questo evento, di diventare di privato principe, presuppone o virtù o fortuna13, pare che l’una o l’altra di queste dua cose mitighino in parte molte 1

“I principati nuovi che si conquistano con le proprie armi e con la virtù”. 2 principati... stato: principati del tutto nuovi sia nella dinastia regnante sia negli ordinamenti. 3 camminando... da altri: poiché gli uomini in genere seguono la via già tracciata da altri. 4 né si potendo... tenere: poiché non si possono sempre seguire in tutto le vie degli altri. 5 né alla virtù... aggiugnere: né (po-

tendo) sempre raggiungere, eguagliare, la capacità politica dei modelli che imiti. 6 prudente: saggio, avveduto. 7 acciò che: in modo che. 8 ne renda qualche odore: assomigli almeno in parte al modello (per metafora “ne porti almeno una traccia”). 9 fare come gli arcieri prudenti: agire come i più abili tiratori d’arco. Machiavelli introduce qui un efficace paragone, per mostrare come l’agire del principe debba proporsi alte mete: come l’arciere, per

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raggiungere un obiettivo lontano, deve mirare verso l’alto, così un abile uomo politico deve ispirarsi ai modelli più nobili e illustri. 10 el luogo... ferire: il bersaglio che intendono colpire. 11 virtù: potenza. 12 virtuoso: capace. 13 o virtù o fortuna: o capacità politica o fortuna. Procedimento dilemmatico tipico dello stile di Machiavelli.


difficultà; nondimanco, colui che è stato meno in su la fortuna si è mantenuto più14. Genera ancora facilità essere el principe constretto, per non avere altri stati, venire 20 personalmente ad abitarvi. Ma per venire a quegli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati principi, dico che e’ più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo15 e simili. E benché di Moisè non si debba ragionare, sendo suto uno mero esecutore16 delle cose che gli erano ordinate da Dio, tamen17 debbe essere ammirato, solum18 per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio. Ma considerato 25 Ciro e li altri che hanno acquistato o fondati regni, gli troverrete tutti mirabili19; e se si considerranno le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quegli di Moisè, che ebbe sì grande precettore20. Ed esaminando le azioni e vita loro non si vede che quelli avessino altro da la fortuna che la occasione21, la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma che parse loro22: e sanza 30 quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano23. Era adunque necessario a Moisè trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo24 e oppresso da li egizi, acciò che quegli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo. Conveniva che Romulo non capessi in Alba, fussi stato esposto al nascere25, a volere 35 che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro trovassi e’ persi malcontenti dello imperio de’ medi, ed e’ medi molli ed effeminati per la lunga pace26. Non poteva Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli ateniesi dispersi27. Queste occasioni per tanto feciono questi uomini felici28 e la eccellente virtù loro fe’ quella occasione essere conosciuta29: donde la loro patria ne fu nobi40 litata e diventò felicissima30. 14 nondimanco... mantenuto più: tuttavia, colui che meno ha contato sulla fortuna (e più sulle proprie capacità), si è mantenuto più a lungo al potere. 15 Moisè... Teseo: gli esempi tratti dalle storie antiche riguardano personaggi appartenenti a epoche lontanissime l’una dall’altra, senza che sia fatta distinzione tra figure storiche e mitiche. Mosè è figura biblica: liberò gli ebrei dalla schiavitù d’Egitto e li condusse nella Terra promessa; Ciro è il fondatore dell’impero persiano (VI sec. a.C.); Romolo fu il leggendario primo re di Roma (VIII sec. a.C.); Teseo fu il mitico re di Atene (XII sec. a.C.). 16 sendo suto... esecutore: essendo stato un semplice esecutore. 17 tamen: tuttavia (in latino). 18 solum: soltanto (in latino). 19 mirabili: degni di ammirazione. 20 se si considerranno... precettore: se si prenderanno in esame le azioni e gli ordinamenti introdotti da ciascuno di loro, appariranno non molto differenti da quelli di Mosè, che ebbe un così grande insegnante (Dio). L’affermazione, espressa dal laico Machiavelli, ha sapore evidentemente ironico: per lui l’arte della politica non ha nulla a che vedere con la dimensione del trascendente. 21 avessino... occasione: la fortuna concesse loro soltanto l’occasione favorevole (che essi seppero sfruttare grazie alla loro abilità politica).

22 dette... loro: Machiavelli utilizza qui la terminologia filosofica aristotelica (in particolare i termini materia e forma) applicandola all’ambito storico-politico: (l’occasione) offrì a loro (i personaggi sopra citati) un momento favorevole (la materia) che essi poterono plasmare secondo il proprio intendimento («introdurvi dentro quella forma che parse loro»). 23 sanza... invano: si sottolinea l’interdipendenza tra l’occasione (la situazione storica favorevole) e la virtù (la capacità politica) del principe: solo se si presentano entrambe è possibile realizzare grandi progetti. 24 stiavo: schiavo. Machiavelli definisce i caratteri dell’occasione offerta a Mosè: gli ebrei erano schiavi degli egizi e perciò ben disposti a seguire un capo autorevole che li conducesse alla libertà. Risulta evidente l’analogia con la situazione dell’Italia cinquecentesca, ormai divenuta preda di popoli stranieri politicamente meglio organizzati (francesi e spagnoli). 25 Conveniva... al nascere: Era opportuno che Romolo non trovasse posto (capessi è latinismo da capere, “contenere”) ad Alba Longa e fosse abbandonato alla nascita. Secondo la tradizione Romolo, nato ad Alba Longa, era stato abbandonato e allevato da un pastore, perché figlio illegittimo di una vestale e del dio Marte. Romolo rappresenta la figura esemplare di fondatore per eccellenza, in quanto artefice

dello Stato romano. È da sottolineare in questo e negli esempi che seguono l’uso di quello che è stato definito «vocabolario della necessità», a indicare come per Machiavelli l’occasione favorevole e la capacità del singolo costituiscano un binomio inscindibile. 26 Bisognava che... pace: Ciro il Grande, fondatore dell’impero persiano, come Mosè, liberò il suo popolo da una dominazione straniera, quella dei medi, snervati ed effeminati dopo un lungo periodo senza guerre. 27 Non poteva Teseo... dispersi: il passo sottolinea ancora una volta il legame tra l’occasione favorevole e la capacità di servirsene per realizzare un progetto politico. Secondo la tradizione, Teseo avrebbe riunito varie popolazioni dell’Attica in un unico organismo statale, con al centro Atene. Anche in questo caso il riferimento alla situazione italiana è evidente: non soltanto Teseo fonda un nuovo stato, ma riunisce popoli dispersi in varie aggregazioni, dunque in una situazione simile a quella dell’Italia del Cinquecento. 28 feciono... felici: resero fortunati quegli uomini. 29 la eccellente virtù... conosciuta: qualità fondamentale per un politico, come qui sottolinea Machiavelli, è saper vedere le occasioni favorevoli, e quindi utilizzarle a proprio favore. 30 felicissima: assai prospera.

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Quelli e’ quali per vie virtuose31, simili a costoro, diventono principi, acquistano el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e le difficultà che gli hanno nello acquistare el principato nascono in parte da’ nuovi ordini e modi che sono forzati introdurre32 per fondare lo stato loro e la loro securtà33. E debbesi considerare 45 come e’ non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo di introdurre nuovi ordini34. Perché lo introduttore ha per nimico tutti quegli che degli ordini vecchi fanno bene35, e ha tiepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene: la quale tepidezza nasce parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte da la incredulità36 50 degli uomini; e’ quali non credono in verità le cose nuove, se non ne veggano nata una ferma esperienza37. Donde nasce che, qualunque volta quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente38, e quelli altri difendono tiepidamente39: in modo che insieme con loro si periclita40. È necessario pertanto, volendo discorrere41 bene questa parte, esaminare se questi 55 innovatori stanno per loro medesimi42 o se dependono da altri: cioè se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare43. Nel primo caso, sempre capitano male e non conducono44 cosa alcuna; ma quando dependono da loro propri45 e possono forzare, allora è che rare volte periclitano: di qui nacque che tutti e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno46. Perché, oltra alle cose dette, 60 la natura de’ populi è varia47 ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermargli48 in quella persuasione: e però conviene essere ordinato in modo che49, quando non credono più, si possa fare loro credere per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono possuto50 fare osservare loro51 lungamente le loro constituzioni, se fussino stati disarmati; come ne’ nostri tempi intervenne a fra Ieronimo 65 Savonerola, il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi52, come la moltitudine cominciò a non credergli, e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto né a

31 virtuose: che esigono capacità ed energia. 32 le difficultà che... introdurre: le difficoltà che hanno nel conquistare il principato nascono in parte dai nuovi ordinamenti e istituzioni che sono costretti a introdurre. 33 securtà: sicurezza (loro e dello Stato). Tale sicurezza, come Machiavelli dimostrerà nel seguito del capitolo, può fondarsi soltanto su una adeguata forza militare. 34 farsi capo... ordini: prendere l’iniziativa di introdurre nuove leggi. 35 degli ordini vecchi fanno bene: traggono vantaggio dal vecchio ordinamento; anche poco avanti, farebbono bene: “potrebbero trarre vantaggi”. 36 incredulità: diffidenza. 37 una ferma esperienza: una esperienza sicura, accertata. 38 partigianamente: con spirito fazioso. 39 tiepidamente: con scarso slancio. 40 si periclita: si corrono rischi; poco più sotto periclitano. 41 discorrere: analizzare. 42 stanno per loro medesimi: si reggono sulle proprie forze.

43 bisogna... forzare: devono chiedere sostegno ad altri (bisogna che preghino) o possono usare la forza. Anche nella trattazione di questo punto domina il procedimento dilemmatico. 44 non conducono: non portano a termine. 45 da loro propri: da sé stessi. 46 tutti e’ profeti... ruinorno: tutti i profeti armati hanno vinto, quelli privi della forza delle armi sono caduti in rovina. Come apparirà nel seguito del capitolo, la figura del profeta armato è contrapposta a quella del profeta disarmato fra’ Girolamo Savonarola (1452-1498), la cui vicenda colpì enormemente Machiavelli. Dopo aver avuto in un primo tempo largo seguito per le sue prediche ispirate, che annunciavano un’imminente punizione divina per i peccati commessi dai fiorentini e li invitavano a pentirsi e a mutare stile di vita, il frate ampliò ulteriormente il suo consenso quando le sue profezie sembrarono avverarsi, con la discesa in Italia del re di Francia, la cacciata dei Medici da Firenze, l’instaurazione della repubbli-

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ca. Ma i suoi potenti nemici, capeggiati da papa Alessandro VI, lo screditarono e lo avversarono finché, rimasto politicamente isolato, venne condannato come eretico e giustiziato nel 1498. 47 la natura... è varia: la natura umana è mutevole, incostante. È un altro aspetto dell’antropologia negativa di Machiavelli: i pareri della folla sono mutevoli, perciò chi governa deve sempre poter disporre della forza. Il richiamo all’attualità del tempo e all’episodio di Savonarola fa comprendere come il precedente riferimento a Mosè fosse ironico: nessuna forza profetica e nessuna giustizia ideale può, secondo Machiavelli, sostituire l’uso della forza, unica vera risorsa per un’efficace azione politica. 48 fermargli: renderli fermi, stabili. 49 però conviene... modo che: perciò conviene predisporre le cose in modo che. 50 arebbono possuto: avrebbero potuto. 51 loro: ai popoli. 52 ne’ sua ordini nuovi: nel suo nuovo ordinamento repubblicano.


fare credere e’ discredenti53. Però questi tali54 hanno nel condursi grande difficultà, e tutti e’ loro periculi sono fra via55 e conviene che con la virtù gli superino. Ma superati che gli hanno, e che cominciano a essere in venerazione, avendo spenti56 quegli 70 che di sua qualità gli avevano invidia57, rimangono potenti, sicuri, onorati e felici. [Chiude il capitolo «uno esemplo minore», ovvero quello di Gerone, divenuto tiranno di Siracusa nel 263 a.C., presentato come esempio di somma virtù politica.]

53 lui non aveva... discredenti: non di-

54 Però questi tali: Perciò quelli che, di-

57 di sua qualità... invidia: per la loro

sponendo della forza delle armi, Savonarola non aveva la possibilità di mantenere fedeli quanti, dopo averlo seguito, avevano perso la fiducia in lui, né di convincere quanti fin dall’inizio si erano mostrati restii (e’ discredenti).

versamente dai profeti disarmati, si affidano alla forza. 55 fra via: nel corso dell’azione. 56 spenti: uccisi; è termine del lessico machiavelliano.

posizione sociale altolocata provavano odio per il nuovo potere del principe.

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Nel primo paragrafo, introdotto l’argomento che occuperà i capitoli dal VI al X, ovvero i principati del tutto nuovi, Machiavelli enuncia un importante principio metodologico: la necessità per un principe prudente di imitare nelle scelte politiche modelli eminenti del passato. In quanto autore di un trattato di politica, lui stesso citerà varie volte tali esempi, come appunto farà nel paragrafo successivo del capitolo, elencando quattro personaggi, dei quali sottolinea le mirabili virtù ma soprattutto la capacità di sfruttare le circostanze favorevoli che la fortuna mise loro davanti. 1. Spiega la funzione e il significato del celebre esempio degli arcieri che Machiavelli introduce nel primo paragrafo. 2. Quali personaggi esemplari sono ricordati da Machiavelli? Qual è l’unico personaggio storico tra di essi? Da cosa sono accomunati, oltre che dalla “virtù”? 3. Quale rapporto istituisce Machiavelli tra virtù e occasione? Nel paragrafo che segue, con grande rigore analitico, Machiavelli mette in luce le difficoltà che un «nuovo principe» incontra, identificabili sinteticamente nella generale diffidenza degli uomini verso le cose nuove, che ancora non conoscono, nel fatto che anche chi è favorevole alle nuove istituzioni e sostiene il nuovo regime lo fa tiepidamente, mentre il principe nuovo ha contro tutti quelli che hanno avuto vantaggi dalla precedente compagine statale. Procedendo nella sua riflessione Machiavelli afferma che i fondatori di stati hanno bisogno della forza: la fragilità propria di un potere politico nuovo, cui sopra ha alluso, implica che il principe nuovo debba essere in grado di poter usare al bisogno anche le armi per potersi imporre. È appunto il caso dei quattro principi nuovi prima citati, mentre in tempi recenti si è visto chiaramente che chi introduce ordini nuovi, ma non può contare sulla forza, è destinato inevitabilmente a ruinare. 4. A quale proposito è introdotto il riferimento a Savonarola? Secondo Machiavelli, da cosa dipendeva l’intrinseca debolezza del suo governo? Il “principio di imitazione” L’imitazione dei classici costituisce uno dei cardini dell’ottica culturale dell’Umanesimo. Come Machiavelli spiega nel Proemio dei Discorsi (➜ T12 ), non si deve limitare l’applicazione di questo principio al solo campo artistico-letterario, ma occorre estenderla anche al campo dell’azione politica, come appunto lo scrittore mostra di fare in questo importante capitolo. La motivazione di questa scelta è presentata da Machiavelli all’inizio del capitolo come fondata su un dato certo, così scontato che non necessita di alcuna dimostrazione: «gli uomini camminano sempre sulle vie battute da altri». La selezione di Machiavelli non può non suscitare perplessità: i personaggi scelti sono tra loro molto eterogenei e non si specifica per nulla in cosa sia consistita, sul piano politico, la loro eccezionale virtù; ma soprattutto solo uno di loro appartiene effettivamente alla storia (Ciro, fondatore dell’impero persiano). Si ha quasi l’impressione che Machiavelli abbia voluto suggestionare il lettore attraverso il ricorso a personaggi per certi aspetti mitici, la cui

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indiscutibile eccezionalità era radicata nell’immaginario collettivo. Ne deriva, al di sotto della logica stringente delle argomentazioni, una certa approssimazione nel discorso propriamente storico, che verrà messa in discussione da Guicciardini, commentando i Discorsi. 5. Alla base della concezione storica di Machiavelli, secondo cui si verifica una sostanziale ripetibilità dei comportamenti, sta una visione naturalistica dell’uomo: confronta il primo paragrafo del capitolo con il Proemio dei Discorsi (➜ PAG. 868), mettendo in luce le analogie. Il rapporto virtù/fortuna e l’occasione Machiavelli inizia qui a delineare il complesso gioco che, nella sua concezione politica, e nel corso dell’intera opera, pone in rapporto dialettico virtù e fortuna. In questa parte iniziale del trattato la fortuna ha ancora un campo circoscritto d’azione rispetto alla virtù e, associandosi strettamente all’occasione, assume una connotazione sostanzialmente positiva: la fortuna si configura soprattutto come quadro contingente variabile, che fornisce la materia a cui il politico virtuoso può imprimere in modo demiurgico la forma da lui voluta. L’impiego della terminologia aristotelica è funzionale all’enfatizzazione del ruolo primario esercitato dalle doti individuali e dalla capacità progettuale dell’uomo politico. La virtù dei quattro personaggi presentati come modello ha potuto manifestarsi perché la fortuna ha offerto loro un’occasione favorevole: in questo caso una situazione negativa di partenza, che ha consentito ai grandi personaggi nominati di sfruttare a proprio favore una “mancanza”, dei bisogni che attendevano di essere accolti. 6. La visione machiavelliana quale traspare da questo capitolo relativamente alle forze in gioco nell’azione politica ti sembra prevedere interventi soprannaturali o è interamente laica? Come spieghi allora il riferimento a Mosè che, a quanto dice Machiavelli, parlava con Dio ed era l’esecutore dei suoi disegni? Le tecniche espositive Il capitolo costituisce, nel suo insieme, un esempio delle tecniche argomentative usate da Machiavelli nella propria opera. Sono in particolare evidenti: a. la ricchezza di connettivi testuali, in particolare causali e conclusivi (dunque, così ecc.) che sostengono con forza la progressione argomentativa; b. il procedere per dilemmi, cioè attraverso alternative (o... o) volte a escludere, a costo di semplificare, qualsiasi prospettiva intermedia; c. l’uso di sentenze lapidarie che sintetizzano l’argomentazione. 7. Attraverso puntuali riferimenti al testo presenta un’adeguata esemplificazione delle caratteristiche dello stile espositivo di Machiavelli. 8. Sai rintracciare nel testo qualche esempio di quello che è stato definito il «vocabolario della necessità»?

online T5b Niccolò Machiavelli

I principati nuovi (in italiano contemporaneo) Il Principe, cap. VI

online T6 Niccolò Machiavelli

Un principe esemplare: il duca Valentino Il Principe, cap. VII

online

Per approfondire Il duca Valentino: un modello per Il Principe

Cesare Borgia in un particolare dell’affresco di Pinturicchio, Disputa di santa Caterina d’Alessandria, 1492-1494 (Città del Vaticano, Appartamento Borgia).

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Niccolò Machiavelli

Le qualità del principe machiavelliano

T7

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Il Principe, cap. XV N. Machiavelli, Opere, vol. I, a cura di C. Vivanti, EinaudiGallimard, Torino 1997

ANALISI INTERATTIVA

I capitoli XV-XIX costituiscono la sezione più nota del Principe. In essi è contenuto il nucleo più rivoluzionario dell’opera, ad essi si collega l’immagine vulgata del Principe come libro “scandaloso”. Machiavelli affronta in questi capitoli il tema scottante del comportamento del principe alla luce del rispetto della «verità effettuale». Una scelta metodologica che implica il rifiuto di ogni rappresentazione edulcorata e idealizzante della dura realtà dell’azione politica.

XV. DE HIS REBUS QUIBUS HOMINES ET PRAESERTIM PRINCIPES LAUDANTUR AUT VITUPERANTUR1 Resta ora a vedere2 quali debbino essere e’ modi e governi3 di uno principe o co’ sudditi o con li amici. E, perché io so che molti di questo hanno scritto4, dubito, 5 scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso5, partendomi massime, nel disputare questa materia, da li ordini delli altri6. Ma sendo l’intenzione mia stata7 scrivere cosa che sia utile a chi la intende8, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa9. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero10 10 essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere11, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua12: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni13. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere14, imparare a potere essere 15 non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità15. Lasciando adunque addreto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime16 e’ principi, per essere posti più alti17, sono notati di18 alcune di queste qualità che

1 “Di quelle cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono lodati o biasimati”. 2 Resta ora a vedere: rimane ora da considerare. Il passo introduce la sezione più nuova e rivoluzionaria del Principe, dedicata all’etica. 3 e’ modi e governi: il modo di comportarsi. 4 molti… hanno scritto: Machiavelli si riferisce ad una lunga tradizione di trattatistica politica, che comincia con autori classici come Platone, Aristotele e Cicerone, fino ad arrivare agli scrittori cristiani medievali e agli umanisti. Pur presentando idee diverse, tali autori sono sostanzialmente accomunati da una visione idealizzata della politica, contestata da Machiavelli. 5 dubito... prosuntuoso: ho il timore, scrivendone anch’io, di essere considerato presuntuoso. 6 partendomi… delli altri: poiché, trat-

tando questo argomento, mi discosto moltissimo dall’impostazione degli altri. 7 sendo... stata: dato che il mio scopo è stato. 8 cosa che… intende: precetti utili a chi li sa comprendere. Il criterio per giudicare il trattato politico di Machiavelli dovrà essere l’utilità dell’opera, non un giudizio moralistico. 9 andare dreto… essa: studiare l’effettiva realtà della cosa e non una sua rappresentazione ideale. 10 in vero: nella realtà. 11 gli è tanto… vivere: c’è tanta distanza tra come è effettivamente la vita e come dovrebbe essere secondo un ideale astratto. 12 impara… perservazione sua: impara più a rovinarsi che a salvarsi. Chi segue i propri ideali senza rendersi conto di quanto essi siano costantemente traditi nella realtà, secondo Machiavelli va incontro alla propria rovina.

13 uno uomo… buoni: un uomo che voglia mostrarsi buono in ogni situazione, necessariamente va in rovina in mezzo a tanti che non sono buoni. La fondamentale malvagità della natura umana è uno dei presupposti principali (quasi un assioma) della riflessione politica di Machiavelli. 14 volendosi... mantenere: volendo un principe conservare il potere. 15 imparare… necessità: imparare a poter essere non buono (duro, sleale, crudele) e saper applicare o no tale modello di comportamento a seconda delle necessità. Machiavelli introduce qui una distinzione tra politica e morale: per dominare una massa di uomini “non buoni” il principe non potrà evitare di ricorrere a comportamenti condannati dalla morale tradizionale. 16 massime: soprattutto. 17 per essere... alti: per essere in una posizione più in vista. 18 notati di: giudicati per.

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arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che19 alcuno è tenuto liberale20, alcuno 20 misero21 (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere22: misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo23); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace24; alcuno crudele, alcuno piatoso25; l’uno fedifrago26, l’altro fedele27; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce e animoso28; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo29, l’altro casto; 25 l’uno intero30, l’altro astuto31; l’uno duro, l’altro facile32; l’uno grave33, l’altro leggieri34; l’uno religioso, l’altro incredulo, e simili. E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone35. Ma perché le non si possono avere tutte né interamente osservare36, per le condizioni umane che non lo consentono, è necessario 30 essere tanto prudente37 ch’e’ sappi fuggire la infamia di quegli vizi che gli torrebbono lo stato38; e da quegli che non gliene tolgono guardarsi39, s’e’ gli è possibile: ma non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare40. Ed etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizi, sanza e’ quali possa difficilmente salvare lo stato41; perché, se si considera42 bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, 35 e seguendola43 sarebbe la ruina sua: e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà e il bene essere suo44. 19 E questo è che: Intendo dire che. La locuzione introduce esempi che meglio specificano l’affermazione precedente. 20 è tenuto liberale: è considerato generoso. 21 misero: avaro. 22 avaro… avere: avaro nella nostra lingua toscana è ancora colui che desidera possedere ciò che può ottenere sottraendolo (cioè è avido). 23 misero… usare il suo: noi chiamiamo misero quello che in ogni modo evita sistematicamente di spender del suo (si astiene troppo). 24 donatore… rapace: generoso… ingordo. 25 piatoso: pietoso. 26 fedifrago: sleale. 27 fedele: leale. 28 feroce e animoso: fiero e coraggioso.

29 lascivo: vizioso. 30 intero: sincero, onesto. 31 astuto: calcolatore. 32 facile: accomodante. 33 grave: serio. 34 leggieri: superficiale. 35 ciascuno… buone: ciascuno ammetterà che sarebbe una cosa lodevolissima se in un principe, tra le qualità sopra elencate, si trovassero tutte quelle che sono considerate buone. 36 interamente osservare: applicare completamente (in tutti i casi). 37 prudente: saggio. 38 ch’e’ sappi fuggire… stato: che sappia evitare la cattiva fama dei vizi che gli farebbero perdere lo stato. 39 guardarsi: astenersi. 40 da quegli… andare: guardarsi dai vizi

che non gli farebbero perdere lo stato, se è possibile; ma, se non è possibile, può lasciarsi andare a tali vizi con minore preoccupazione. 41 Ed etiam… stato: E non si preoccupi di incorrere nella cattiva fama di quei vizi senza i quali difficilmente potrebbe salvare lo stato. 42 considera: considererà. 43 seguendola: se la seguisse. 44 seguendola… suo: quando la segue ne ricava sicurezza e condizioni favorevoli. In rapporto all’utilità politica sono dunque distinte tre categorie di vizi: quelli da evitare, perché farebbero perdere lo Stato; quelli indifferenti ai fini politici, da evitare solo quando è possibile; quelli utili alla conservazione del potere, che il principe dovrà esercitare, almeno in alcune occasioni.

Analisi del testo Una dichiarazione metodologica rivoluzionaria «Resta ora a vedere…»: con questa affermazione iniziale Machiavelli segnala al lettore uno snodo importante: dopo la rassegna relativa alle tipologie dei principati e alle modalità della loro conquista, comincia una nuova sezione del Principe. La nuova sezione si apre con una presa di posizione netta nei confronti di una tradizione, quella della trattatistica politica, da cui Machiavelli prende polemicamente le distanze, inaugurando un nuovo modo di parlare di politica («partendomi massime, nel disputare questa materia, da li ordini delli altri»). La motivazione di questa frattura con la tradizione è presto detta: «sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa». L’obiettivo pragmatico che ispira l’opera (suggerire comportamenti utili al principe) comporta di necessità il rifiuto di ogni rappresentazione ideale in nome della «verità effettuale», espressione coniata da Machiavelli per alludere alla realtà dei fatti, con cui il politico che non vuole ruinare deve necessariamente confrontarsi. Da questo principio deriva la necessità di «imparare a potere essere non buono» perché proprio la «verità effettuale» insegna che la maggior parte degli uomini non è buona.

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La subordinazione dell’etica alle ragioni della politica Il capitolo prosegue in modo apparentemente più “innocuo”: Machiavelli elenca, persino con eccessiva analiticità e quasi pignoleria, qualità positive e negative per le quali un principe può farsi notare dai suoi sudditi. Ma la conclusione del capitolo, inaspettatamente, sovverte i tradizionali parametri di giudizio: l’agire politico viene infatti espressamente separato dalla morale, l’utilità politica diviene il criterio assoluto che giudica la “bontà” dei comportamenti del principe. In linea di principio è giusto evitare i comportamenti infamanti, ma solo se le qualità buone non risultano nocive per lo stato. Allo stesso modo ci possono essere comportamenti in sé viziosi che però risultano necessari per la salvezza dello stato e vanno perciò coraggiosamente seguiti. Con queste asserzioni, di cui lo scrittore non ignora per primo la portata innovativa, Machiavelli fonda l’autonomia dell’analisi politica rispetto alla visione morale che gli consente di formulare in ambito politico delle “leggi” a cui è possibile far riferimento se si vuole avere successo.

Lo stile In rapporto al concetto chiave del testo, e cioè la necessità in ambito politico di seguire la “verità effettuale” e non prospettive ideali, il capitolo utilizza con particolare frequenza strutture antitetiche, che sottolineano la contrapposizione tra la visione di Machiavelli e la tradizione: ad esempio verità effettuale vs immaginazione (e, più avanti, cose immaginate vs quelle che sono vere), ruina vs preservazione; antitetico è pure l’elenco di prerogative che arrecano biasimo o laude a un principe: liberale/misero, donatore/rapace ecc. Anche la sconcertante conclusione del capitolo che relativizza, in rapporto agli effetti in campo politico, la virtù e il vizio, è strutturata in forma antitetica. Significativa, sempre in rapporto alla tesi centrale del capitolo, è la contrapposizione dei modi verbali: al condizionale, a cui afferisce la realtà ipotetica («quello che si dovrebbe fare», «sarebbe laudabilissima cosa...») si contrappone l’indicativo, che fa riferimento alla realtà effettuale («quello che si fa», «non si possono avere tutte...»). Infine, anche in questo capitolo, come in molti altri, si può rilevare la tendenza di Machiavelli a tradurre il suo pensiero in frasi sentenziose di forte pregnanza ed evidenza dimostrativa («...colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara più presto la ruina che la preservazione sua»).

Esercitare le competenze comprendere e analizzare

coMPrenSione 1. Per quale motivo, secondo Machiavelli, per essere un buon principe non bisogna necessariamente essere un principe buono? 2. Perché Machiavelli ha il timore di apparire prosuntuoso? anaLiSi 3. In quali circostanze il principe deve evitare di tenere comportamenti viziosi e in quali, invece, può assumerli?

interpretare EDUCAZIONE CIVICA

Scrittura

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo

Costituzione

competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

4. Machiavelli nel passo avvicina la pusillanimità all’effeminatezza. Per quale motivo? Secondo te, la considerazione di Machiavelli, oggi, potrebbe essere ritenuta discriminatoria? Esponi le tue riflessioni in merito in un testo di max 15 righe.

online

testi in dialogo L’immagine del principe ideale nella trattatistica umanistica

D1a Giovanni Pontano Immagini del principe tra Umanesimo e Controriforma De principe liber

D1b erasmo da rotterdam Il «Principe cristiano» L’educazione del principe cristiano

D1c Giovanni Botero «La religione è fondamento di ogni prencipato» Della ragion di stato V, II

Il Principe 2 843


Niccolò Machiavelli

T8

Il ribaltamento del “catalogo delle virtù”: il principe golpe e lione Il Principe, cap. XVIII

N. Machiavelli, Opere, vol. I, a cura di C. Vivanti, EinaudiGallimard, Torino 1997

ANALISI INTERATTIVA

Il capitolo XVIII è sicuramente quello che ha maggiormente colpito e sconcertato i lettori del Principe per l’ardito rovesciamento dei precetti moralistici propri del trattato umanistico, qui operato in rapporto al tema della lealtà. Il capitolo si pone in stretta continuità con il precedente e, come quest’ultimo, trova le proprie premesse concettuali nella dichiarazione di “metodo” enunciata nel cap. XV, ovvero nella necessità di aderire alla «verità effettuale» se si vuole scrivere cosa utile a chi legge.

XVIII. QUOMODO FIDES A PRINCIPIBUS SIT SERVANDA1 Quanto sia laudabile2 in uno principe il mantenere la fede3 e vivere con integrità4 e non con astuzia, ciascuno lo intende: nondimanco5 si vede per esperienza, ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco 6 5 conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: e alla fine 7 hanno superato quelli che si sono fondati in su la realtà . Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere8: l’uno con le leggi, l’altro con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie9. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: 10 pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata alli principi copertamente10 da li antichi scrittori; e’ quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire a Chirone centauro11, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno 12 13 15 principe sapere usare l’una e l’altra natura : e l’una sanza l’altra non è durabile . Sendo dunque necessitato uno principe14 sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione15: perché el lione non si defende da’ lacci16, la golpe non

1

“In che modo i principi debbano mantenere la parola data”. 2 laudabile: lodevole. 3 mantenere la fede: rispettare la parola data. 4 con integrità: con lealtà. 5 nondimanco: tuttavia. La congiunzione avversativa sottolinea la distanza tra il comportamento teoricamente lodevole e quello che il principe è costretto ad adottare sotto la pressione della «verità effettuale» delle circostanze politiche. 6 si vede... e’ cervelli: si vede per esperienza che nei nostri tempi hanno compiuto grandi imprese quei prìncipi che si sono poco curati di mantenere la parola data e che con l’astuzia hanno saputo ingannare le menti. 7 realtà: sincerità. 8 dua generazioni di combattere: due

generi di lotta politica. 9 l’uno con le leggi... delle bestie: Machiavelli si riferisce a un famoso passo di Cicerone (De officiis [I doveri] I, x i , 34): «Essendoci due modi di combattere, uno con la discussione, l’altro con la forza, e pur essendo il primo tipico degli uomini, il secondo delle bestie, tuttavia bisogna ricorrere al secondo, quando non è possibile servirsi del primo». 10 copertamente: dietro la finzione di favole mitologiche e allegoriche. 11 scrivono... centauro: secondo il mito, Achille, come altri famosi eroi greci, fu allevato ed educato dal centauro Chirone, per metà uomo e per metà cavallo; furno “furono”. 12 sapere usare... natura: attraverso l’efficace immagine simbolica del centauro si sottolinea l’importanza della dimensione

844 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

istintiva e naturale dell’uomo che, secondo Machiavelli, non può affidarsi esclusivamente alla razionalità per esercitare il potere. 13 l’una... durabile: il ricorso a una sola delle due componenti (o razionale o “bestiale”), senza l’altra, non permette che il potere del principe sia durevole. 14 Sendo... uno principe: Quando un principe è costretto dalla situazione a. 15 la golpe e il lione: la volpe, simbolo di doppiezza e di astuzia, e il leone, simbolo di forza. Il senso del discorso machiavelliano è che, in situazioni di difficoltà, si può procedere sia attraverso la razionalità espressa dalle leggi, sia attraverso la sopraffazione dell’altro, effettuata con la violenza o con l’astuzia. 16 da’ lacci: dalle trappole; cioè, metaforicamente, dagli inganni.


si defende da’ lupi17; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire18 e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne inten20 dono19. Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede quando tale osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere20. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi21 e non la osserverebbono a te, tu etiam22 non l’hai a osservare a loro23; né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di colorire la inosser25 vanzia24. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante pace, quante promisse sono state fatte irrite e vane per la infidelità de’ principi25: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato26. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire27 ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici28 gli uomini, e tanto ubbediscono alle necessità presenti29, che 30 colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare. Io non voglio delli esempli freschi30 tacerne uno. Alessandro sesto non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini31, e sempre trovò subietto32 da poterlo fare: e non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare33, e con maggiori iuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno; nondimeno 34 35 sempre gli succederno gl’inganni ad votum , perché conosceva bene questa parte 35 del mondo . A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle; anzi ardirò di dire36 questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono utili37; come parere piatoso38, fedele39, umano, intero40, religioso, ed essere41: ma 40 stare in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare il contrario42. E hassi a intendere43 questo, che uno principe e massime

17 la golpe... da’ lupi: l’astuzia non si sa difendere dalla violenza. 18 sbigottire: spaventare. 19 coloro... intendono: i principi che si basano esclusivamente sulla forza (e non sull’astuzia) non comprendono la politica. 20 quando tale... promettere: quando il mantenere la parola data (tale osservanzia) gli rechi danno e siano svanite le ragioni che lo hanno spinto a promettere. 21 tristi: malvagi. In questo capitolo si evidenzia particolarmente l’antropologia negativa di Machiavelli, poiché vengono espressi giudizi negativi sia sulla moralità sia sulla capacità di giudizio della maggior parte degli uomini. Tale antropologia negativa giustifica quello che è probabilmente il precetto più sconcertante del trattato, l’invito alla doppiezza, alla slealtà e alla frode. 22 tu etiam: anche tu (latinismo). 23 non l’hai... loro: non devi mantenere la parola data loro. Nel capitolo si osserva il ricorrere del «lessico della necessità», a indicare che il principe è costretto ad allontanarsi dai precetti di un’etica che non tiene conto delle reali condizioni del potere.

24 mancorno... inosservanzia: sono mancati dei pretesti legittimi per mascherare la mancanza di lealtà. 25 fatte irrite... de’ principi: rese inutili e vane (coppia sinonimica) per la slealtà dei principi. 26 è meglio capitato: ha avuto più successo. 27 è necessario... colorire: è necessario sapere ben nascondere questa natura sleale. 28 semplici: creduloni, superficiali. 29 ubbediscono... presenti: guardano soltanto alla situazione del momento (dimenticando il passato). 30 freschi: recenti. 31 Alessandro sesto... uomini: nella curia romana Alessandro VI e suo figlio Cesare Borgia, il Valentino, erano famosi per l’astuzia e la doppiezza, come testimonia Guicciardini nella Storia d’Italia (VI, ii ): «La simulazione e dissimulazione de’ quali era tanto nota nella corte di Roma che n’era nato comune proverbio che ’l papa non faceva mai quello che diceva e il Valentino non diceva mai quello che faceva». 32 subietto: occasione. 33 in asseverare: nel garantire la verità di quanto affermava.

34 gli succederno... ad votum: gli inganni gli riuscirono secondo il suo desiderio. 35 conosceva bene... mondo: era esperto di questo aspetto della natura umana. 36 ardirò di dire: oserò dire. L’affermazione in prima persona sottolinea la consapevolezza dell’autore di quanto sia radicale e paradossale la conclusione a cui giunge. 37 avendole... utili: Machiavelli afferma che per un politico sarebbe utile fingere di possedere le qualità positive elencate, ma dannoso possederle davvero. 38 piatoso: pietoso. 39 fedele: leale. 40 intero: onesto. 41 ed essere: ed esserlo veramente. 42 stare in modo... il contrario: ma bisogna avere l’animo preparato in modo che, quando è necessario, tu possa e sappia rivolgerti ad un modello di comportamento opposto. Il senso è che quando comportarsi secondo le norme etiche si rivela dannoso, bisogna saper ricorrere ad un comportamento eticamente scorretto, ma utile ai fini della conservazione del potere. 43 hassi a intendere: si deve comprendere.

Il Principe 2 845


uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato44, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione45. E però biso45 gna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano46; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato47. Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto 50 pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani48; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi49: ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato 50 55 che gli difenda ; e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine51. Facci52 dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli53 e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo, e’ pochi non ci hanno luogo quando 54 60 gli assai hanno dove appoggiarsi . Alcuno principe de’ presenti tempi, il quale non è bene nominare55, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe56 più volte tolto e la riputazione e lo stato.

44 chiamati buoni... necessitato: considerati buoni, essendo spesso costretto a. 45 contro... religione: l’anafora evidenzia il paradossale comportamento richiesto al «buon principe». Machiavelli sottolinea come la situazione instabile di un principato nuovo obblighi il principe a comportamenti che sarebbero condannati dalla morale tradizionale. 46 abbia uno animo... comandano: attraverso la metafora del vento, che suggerisce l’immagine della navigazione, Machiavelli indica come fondamentale per il principe la capacità di adeguarsi al rapido mutamento delle situazioni, per il quale mantenere la parola data in precedenza può risultare in molti casi sfavorevole. 47 non partirsi… necessitato: non allontanarsi dal bene, se può, ma saper entrare nel male, quando vi è costretto. 48 li uomini... mani: gli uomini in generale (in universali) giudicano più secon-

do l’apparenza esteriore (alli occhi) che secondo una piena comprensione della cosa, che vada oltre l’aspetto superficiale (alle mani). 49 tocca a vedere... a pochi: (dei provvedimenti del principe) a pochi capita di subire le conseguenze, a tutti di vederli dall’esterno. 50 quelli pochi... difenda: quei pochi (che sono scontenti del regime) non osano opporsi all’opinione della maggioranza che abbia il potere e le leggi dello stato a difenderla. 51 dove non è iudizio... fine: dove non c’è un’autorità superiore al cui giudizio appellarsi, si guarda al risultato delle azioni. 52 Facci: Faccia in modo. 53 e’ mezzi... onorevoli: i mezzi utilizzati saranno sempre giudicati onesti (dalla massa). Da questo passo venne tratta la massima “il fine giustifica i mezzi”, che viene erroneamente attribuita a Machia-

846 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

velli. In realtà l’autore del Principe afferma che, se il fine viene realizzato, i mezzi appaiono leciti a una massa sprovvista di capacità di giudizio (che Machiavelli chiama, con espressione spregiativa, vulgo). 54 el vulgo... appoggiarsi: il popolo, la massa deve essere conquistata con le apparenze (con quello che pare) e con il successo dell’azione; poiché nel mondo non si trovano altro che persone di tal genere, i pochi meritevoli non hanno spazio quando i più hanno il sostegno del potere politico. 55 Alcuno principe... nominare: Un principe del nostro tempo, che non è prudente nominare. Con abile strategia retorica, dichiarando prudente non nominarlo, Machiavelli suscita un’atmosfera minacciosa attorno alla figura di Ferdinando, il re spagnolo definito “il Cattolico” per antonomasia. 56 arebbe: avrebbe.


Analisi del testo L’inizio del capitolo e la tecnica del “rovesciamento” Il capitolo, conformemente ai due che lo precedono, inizia con una dichiarazione di adesione dell’autore al codice tradizionale dei valori da tutti condiviso («ciascuno lo intende»). Il brusco inserimento della congiunzione modificativa nondimanco (frequente in Machiavelli) segna però subito la frattura tra un sistema di valori che sarebbe auspicabile rispettare e la “necessità”, imposta dalle dure leggi della politica, di non rispettarlo: hanno successo proprio quei principi che hanno raggirato gli uomini e hanno così potuto prevalere sui principi che sono stati leali. Anche se non detto in modo esplicito, dietro il passo sta certamente il travaglio che la coscienza dello scrittore dovette affrontare nel momento in cui demolisce l’assolutezza dei princìpi morali, divenuti nel suo pensiero un universo utopico e lontano.

Il mito del centauro Chirone e il lato ferino della politica Continuando la propria argomentazione, Machiavelli si rivolge ai lettori attraverso un enunciato fatico (che cioè vuol stabilire un contatto fra scrittore e lettore) di particolare autorevolezza: «Dovete adunque sapere». È un’autorevolezza che si rende particolarmente necessaria nel momento cruciale in cui l’autore si prepara a enunciare verità difficilmente accettabili: il politico, scrive Machiavelli, deve saper essere anche bestia e non solo uomo e adoperare il suo lato umano (il rispetto della legalità) e il suo lato animalesco (l’uso della forza) a seconda delle necessità. Come si è detto (nella nota 9), la fonte di questa osservazione machiavelliana è un passo del De officiis di Cicerone. Secondo l’autore questa doppia natura del principe è rappresentata in forma simbolica nel mito del centauro Chirone (i centauri avevano infatti, secondo la leggenda, busto umano e corpo equino) che allevò Achille e altri condottieri, come Giasone. Machiavelli accoglie l’immagine mitologica del centauro, di forte suggestione per chi legge, ma la sottopone a un’interpretazione razionalistica: il mito significa appunto che i politici devono disporre di qualità sia umane sia ferine.

La golpe e il lione

Giovanni Battista Cipriani, Chirone istruisce Achille nell'uso dell'arco, 1776 ca. (Philadelphia, Philadelphia Museum of Art).

La metafora animalesca del centauro si precisa ulteriormente, secondo l’abituale procedimento binario, nelle figure della volpe e del leone a cui deve ispirarsi la condotta politica del principe, associando la forza all’astuzia. A proposito di quest’ultima Machiavelli sostiene l’impossibilità per il politico di mantenere la parola data, tenuto conto della natura degli uomini, di cui Machiavelli ribadisce la negatività («se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai a osservare a loro»). Come esempio di golpe, cioè di politico capace di simulare e dissimulare (due termini quasi sinonimici) Machiavelli cita l’esempio “moderno” di papa Alessandro VI; le parole con cui ne sintetizza la condotta politica suscitano ancora oggi sconcerto, essendo il personaggio citato a capo della Chiesa cattolica, che avrebbe dovuto farsi portavoce tra gli uomini dei principi cristiani: «non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini». Le immagini allegoriche della volpe e del leone, oltre che da Cicerone (De officiis, I, XIII, 41), sono ispirate dal XXVII canto dell’Inferno dantesco (vv. 74-76), in cui Guido da Montefeltro così dichiara il proprio carattere fraudolento: «l’opere mie / non furon leonine, ma di volpe. / Li accorgimenti e le coperte vie / io seppi tutte [...]». Ammiratore di Dante, Machiavelli si contrappone al poeta fiorentino che considera la frode un peccato gravissimo, perché volge al male la ragione, la più nobile prerogativa dell’uomo.

Il Principe 2 847


L’etica dell’apparenza, la “virtù” della dissimulazione Nel capitolo XV Machiavelli aveva elencato le qualità positive e negative che un principe avrebbe potuto avere. Limitandosi qui a quelle positive, sostiene che non è opportuno avere tutte quelle positive, l’importante è sembrare di averle (in particolare la pietà, la lealtà e soprattutto lo spirito religioso). Machiavelli è consapevole dello sconcerto che le sue affermazioni avrebbero suscitato, ma continua fino in fondo la sua dolorosa presa di coscienza delle terribili virtù richieste all’uomo politico: «bisogna […] non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato»; il popolo, sulle cui capacità critiche esprime un giudizio del tutto negativo, guarda ai risultati e non ai mezzi delle azioni politiche, guarda all’apparenza e non all’essenza («el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo»). La duttilità opportunistica, la valorizzazione dell’apparire rispetto all’essere, sconcertanti precetti di comportamento enunciati in questa parte fondamentale del Principe, sono alla base di quell’atteggiamento che è stato definito “machiavellismo”.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del capitolo mettendo in evidenza i punti principali. COMPRENSIONE 2. Ti sembra che l’autore sia consapevole dell’arditezza delle sue affermazioni? ANALISI 3. Schematizza nella tabella sottostante le prerogative e i comportamenti del principe che corrispondono rispettivamente alla golpe e al lione. Golpe

Interpretare

Lione

ESPOSIZIONE ORALE 4. Nella parte finale del testo si fa riferimento al fine e ai mezzi dell’azione del principe. È su questa affermazione che si è tramandata la celebre massima “il fine giustifica i mezzi”, che – a torto – ha finito per essere attribuita allo stesso Machiavelli e che generalizza una riflessione che esige invece di essere contestualizzata con precisione. Prova a farlo, in un intervento orale di max 3 minuti. SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. In questo capitolo (ma anche in altri punti della sua opera), Machiavelli dà un giudizio negativo sul popolo, che appare facilmente manipolabile dal principe, come un passivo strumento nelle sue mani: utilizzando anche il passo critico di Garin (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO OL), in un testo di max 15 righe sviluppa una tua riflessione sul modello politico che si evince da questo e da altri capitoli de Il Principe in rapporto anche alla realtà storica delle signorie rinascimentali e alle strategie del consenso effettivamente praticate in esse.

online T9 Niccolò Machiavelli

Perché i principi d’Italia persero il regno Il Principe, cap. XXIV

online

Interpretazioni critiche a confronto Eugenio Garin, Il principe machiavelliano come espressione estrema della cultura italiana del Rinascimento Antonio Gnoli e Gennaro Sasso, “Bene” e “male” per Machiavelli

848 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli


Analisi passo dopo passo

T10

Niccolò Machiavelli

Il ruolo della fortuna Il Principe, cap. XXV

N. Machiavelli, Opere, vol. I, a cura di C. Vivanti, EinaudiGallimard, Torino 1997

Il capitolo, penultimo del trattato, affronta una questione teorica molto dibattuta nel Rinascimento: il peso della fortuna sugli eventi umani. Machiavelli ammette che la crisi italiana abbia potuto indurre molti a rinnegare la fiducia umanistica nell’uomo come padrone del proprio destino, ma non accetta di attribuire al caso tutta la responsabilità degli eventi. Il suo sforzo è, dunque, quello di indicare come i grandi uomini possano essere comunque artefici della storia. La pagina costituisce perciò una sorta di cerniera che salda la riflessione teorica dei capitoli precedenti con l’appassionata esortazione finale a liberare l’Italia.

XXV. QUANTUM FORTUNA IN REBUS HUMANIS POSSIT ET QUOMODO ILLI SIT OCCURRENDUM1 E’ non mi è incognito2 come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, da 5 la fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle3, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare4 molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte5. Questa opinione è suta6 più creduta ne’ nostri tempi per le variazione grande 10 delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura7. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro8. Nondimanco9, perché il nostro libero arbitrio non sia spento10, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni 15 nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso11, a noi.

1 “Quanto potere abbia la fortuna e in che modo si debba opporsi ad essa”. 2 È non mi è incognito: Non mi è ignoto. 3 sieno in modo... correggerle: siano determinate dalla fortuna o dalla provvidenza divina in modo che gli uomini con la loro avvedutezza non possano mutarle. 4 non fussi da insudare: non ci si dovesse affaticare. 5 lasciarsi... alla sorte: affidarsi al caso, rimettersi nelle mani del destino. 6 è suta: è stata.

7 le variazione... coniettura: i grandi mutamenti politici che si sono visti e si continuano a vedere ogni giorno, al di fuori di ogni umana previsione. Machiavelli si riferisce alla situazione politica italiana, divenuta sempre più instabile e caotica dopo la discesa del re francese Carlo VIII. 8 mi sono... loro: mi sono per qualche aspetto accostato alla loro opinione (quella dei fatalisti). Il riferimento autobiografico sottolinea l’importanza che la crisi italiana ebbe per il pensiero politico di Machiavelli.

1. Il capitolo si apre con una considerazione generale: Machiavelli constata la diffusa tendenza (che i drammatici sconvolgimenti politici del suo tempo hanno contribuito ad accentuare) a una visione rinunciataria e fatalistica dell’agire umano, in quanto dipendente totalmente dalla fortuna o dalla volontà di Dio. Lo scrittore pensa, da una parte, al fato degli antichi e, dall’altra, alla visione provvidenziale della storia propria della cultura medievale. Con l’usuale Nondimanco Machiavelli si contrappone a questa concezione e rivendica il ruolo dell’azione e della progettualità umane, pur ammettendo che la fortuna incide per una metà sull’andamento delle cose. Una posizione mossa più dalla volontà che sostenuta dalla realtà (come dimostra l’impiego della proposizione finale, che esprime un desiderio, un auspicio più che una constatazione: «perché il nostro libero arbitrio non sia spento») e che è certo debitrice dell’umanistica esaltazione dell’uomo faber fortunae suae.

9 Nondimanco: Tuttavia. 10 perché... spento: perché la nostra libertà di agire non sia cancellata. Machiavelli usa l’espressione libero arbitrio non nel senso teologico di scelta tra bene e male, ma nel senso di libertà di decidere il proprio destino. 11 o presso: o pressappoco. Secondo Machiavelli gli uomini possono influire sugli eventi circa per il cinquanta per cento, il resto è condizionato dalla fortuna; ne si riferisce a azioni nostre.

Il Principe 2 849


E assimiglio quella12 a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano13, allagano e’ piani, rovinano li albori e li edifizi14, lievano da questa parte terreno, pongono da quella 20 altra15: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede16 all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare17. E, benché sieno così fatti, non resta però che18 gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento19 e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per 25 uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso20. Similmente interviene21 della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù22 a resisterle: e quivi volta e’ sua impeti23, dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ripari a tenerla. E se voi considerrete24 la Italia, 30 che è la sedia di queste variazioni25 e quella che ha dato loro il moto26, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: che, s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come è la Magna27, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatto le variazioni grande che la ha, o la non ci 35 sarebbe venuta28. E questo voglio basti aver detto, quanto allo opporsi alla fortuna, in universali29. Ma restringendomi più a’ particulari30, dico come si vede oggi questo principe felicitare31 e domani ruinare32, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna; il che credo che nasca, 40 prima, da le cagioni che si sono lungamente per lo addreto discorse33: cioè che quel principe, che si appoggia tutto in su la fortuna, rovina come quella varia34. Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con la qualità de’ tempi35: e similmente sia infelice quello che con 45 il procedere suo si discordano e’ tempi. Perché si vede gli uomini, nelle cose che gli conducono al fine quale ciascuno

12 assimiglio quella: paragono la fortuna. 13 si adirano: il verbo sottolinea la violenza dell’alluvione, suggerendo una sorta di personificazione delle forze naturali. Al fiume viene attribuito il sentimento umano dell’ira, perché l’alluvione è determinata anche dall’incuria degli uomini. 14 allagano... edifizi: allagano le piane, distruggono gli alberi e le case. La similitudine dell’alluvione, di grande efficacia drammatica, si riferisce allegoricamente alla situazione dell’Italia ai tempi di Machiavelli; nel cap. VII, dedicato al Valentino, lo Stato veniva paragonato a un albero e a un edificio, qui travolti dal fiume in piena. 15 lievano... altra: tolgono terreno da una parte e lo trascinano da un’altra.

16 ciascuno fugge... cede: i verbi sottolineano l’impotenza degli uomini di fronte alla violenza della natura. 17 ostare: resistere (latinismo da obstare). 18 non resta però che: non è meno vero. 19 non vi potessino... provedimento: non potessero prendere provvedimenti. 20 licenzioso: sfrenato. 21 interviene: accade. 22 ordinata virtù: preparata una forza. 23 volta e’ sua impeti: volge il suo impeto. 24 considerrete: considererete, prenderete in esame. 25 sedia di queste variazioni: sede di questi mutamenti politici. 26 quella... moto: è l’Italia che ha dato l’avvio (il moto) agli sconvolgimenti che hanno portato alla rovina.

850 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

2. Assai efficace e celebre è il paragone che Machiavelli istituisce tra la fortuna e un fiume in piena che tutto travolge. La successione di verbi d’azione (allagano... rovinano... lievano... pongono... ciascuno fugge... ognuno cede...) crea un ritmo concitato che traduce in modo immediato, quasi “visivo”, la rovinosa azione del fiume. Tuttavia, questa azione dannosa può essere prevenuta, così come la fortuna può essere limitata da opportuni accorgimenti frutto della virtù dell’uomo. È quanto non hanno fatto i principi italiani, a differenza delle altre grandi potenze europee, riducendo l’Italia a «una campagna sanza argini e sanza alcun riparo», aperta alle scorrerie straniere.

3. Dalle osservazioni di carattere generale (gli universali) Machiavelli scende quindi a un discorso più analitico e concreto («Ma restringendomi più a’ particulari») relativo al rapporto tra il comportamento del principe e la fortuna. Un’argomentazione serrata e aperta, da una presa di posizione autorevole: dico. Alla constatazione che chi fa affidamento sulla fortuna è condannato a ruinare, segue la considerazione che un buon andamento politico deriva dall’accordo tra la natura (impetuosa o respettiva) del principe e i tempi in cui si trova a operare. Cambiando i tempi è quasi impossibile che un principe muti, adattandovisi, la propria indole. È da notare nel passo l’utilizzazione in senso politico di termini generici, come felicitare/felice/infelice, ruinare, respetto/respettivo. 27 la Magna: la Germania. 28 questa piena... venuta: questa alluvione (allegoricamente le invasioni straniere) non avrebbe prodotto le grandi conseguenze che ha avuto, o non sarebbe avvenuta. 29 in universali: in generale. 30 restringendomi... particulari: rivolgendomi a questioni più specifiche. 31 felicitare: avere successo. 32 ruinare: cadere in rovina. 33 da le cagioni... discorse: dalle ragioni che precedentemente (per lo addreto) si sono lungamente analizzate. 34 si appoggia... varia: Machiavelli auspica qui che il principe sappia adattarsi al mutare delle circostanze. 35 sia felice... de’ tempi: abbia successo quello il cui modo di agire sia adatto alle caratteristiche del suo tempo.


ha innanzi, cioè gloria e ricchezze, procedervi variamente36: l’uno con rispetto37, l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro con arte38; l’uno per pazienza, l’altro col suo contrario; 50 e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora dua respettivi39, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente dua equalmente felicitare con dua diversi studi40, sendo l’uno rispettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non da la qualità de’ tempi che si conformano, o 55 no, col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto: che dua, diversamente operando, sortiscono el medesimo effetto, e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene41; perché se uno, che si governa con rispetti e pazienza, e’ tempi e le cose 60 girano in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando, ma se e’ tempi e le cose si mutano, rovina, perché e’ non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si sappia accomodare42 a questo: sì perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina43, sì etiam perché, avendo 65 sempre uno prosperato camminando per una via44, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella. E però l’uomo respettivo, quando e’ gli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare: donde e’ rovina; che se si mutassi natura con e’ tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna45. 70 Papa Iulio II46 procedé in ogni sua azione impetuosamente, e trovò tanto e’ tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fine. Considerate la prima impresa ch’e’ fe’ di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Bentivogli47. Viniziani non se ne contentavano48; el re di 75 Spagna, quel medesimo49; con Francia aveva ragionamenti50 di

36 si vede... variamente: si vede che gli uomini, nelle azioni che li (gli) conducono a realizzare i fini che ciascuno si propone, cioè gloria e ricchezze, procedono in modo diverso. 37 con rispetto: con circospezione, cautela, ponderazione. 38 con arte: in modo studiato e abile. 39 respettivi: categoria psicologica individuata da Machiavelli e contrapposta, con il consueto procedimento binario, agli impetuosi. I respettivi sono quelli che agiscono in modo cauto e ponderato, dopo aver riflettuto sulle conseguenze delle loro azioni; gli impetuosi si comportano invece con slancio e impulsività. 40 studi: inclinazioni. 41 del bene: sottinteso “del principe”.

42 si sappia accomodare: si sappia adattare, comportare. 43 a che la natura lo inclina: a cui è naturalmente predisposto. Secondo Machiavelli è quasi impossibile adeguare il proprio modo di agire alle esigenze del momento, che a volte richiedono slancio e iniziativa, in altre circospezione e cautela: qualità dipendenti dal carattere di ciascuno e non ugualmente presenti in tutti. Tale concezione della natura umana si allontana dall’ottimismo di umanisti come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, convinti che l’uomo fosse creatura capace di autodeterminarsi e di scegliere la natura del proprio essere. 44 prosperato... via: avuto successo procedendo in un certo modo. 45 fortuna: esito.

4. Machiavelli fa poi riferimento a un esempio moderno: quello del papa Giulio II, la cui natura audace e impetuosa ottenne sempre positivi risultati perché si ebbe una felice coincidenza tra la sua natura (che non sarebbe certo riuscito a cambiare) e le esigenze dei tempi.

46 Iulio II: Giulio II, papa dal 1503 al 1513. Le testimonianze del tempo sono concordi nel rappresentarlo come impulsivo e aggressivo (si racconta che scalasse personalmente le mura delle fortezze assediate), tuttavia è evidente l’ironia di Machiavelli nel presentare i papi suoi contemporanei come dotati di caratteristiche ben poco adatte al loro ruolo. 47 impresa... Bentivogli: Giulio II occupò Bologna, dopo aver scomunicato e scacciato i Bentivoglio, che la governavano. 48 non se ne contentavano: vi si opponevano. 49 quel medesimo: lo stesso (cioè non l’approvavano). 50 aveva ragionamenti: era in trattative. Spagnoli e veneziani erano ostili all’impresa; i francesi avevano promesso di appoggiarla, ma le trattative erano ancora in atto.

Il Principe 2 851


tale impresa. E lui nondimanco con la sua ferocità51 e impeto si mosse personalmente a quella espedizione. La qual mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e viniziani, quegli per paura e quell’altro per il desiderio aveva di recuperare tutto el regno 80 di Napoli52; e da l’altro canto si tirò dietro il re di Francia perché, vedutolo quel re mosso e desiderando farselo amico per abbassare e’ viniziani53, iudicò non poterli negare gli eserciti sua sanza iniuriarlo manifestamente54. Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pontefice, 85 con tutta la umana prudenza, arebbe condotto. Perché, se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme e tutte le cose ordinate55, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai gli riusciva56: perché il re di Francia arebbe avuto mille scuse e li altri li arebbono messo mille paure. Io voglio lasciare 90 stare le altre sua azioni, che tutte sono state simili e tutte gli sono successe bene57: e la brevità della vita58 non li ha lasciato sentire59 il contrario; perché, se fussino sopravvenuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua rovina60: né mai arebbe deviato da quegli modi61 alli quali la 95 natura lo inclinava. Concludo adunque che, variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’ loro modi ostinati62, sono felici mentre concordano insieme63 e, come e’ discordano, infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo: perché la for100 tuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto64, batterla e urtarla65. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quegli che freddamente procedono66: e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.

51 ferocità: audacia. 52 quell’altro... Napoli: il re di Spagna per il desiderio di recuperare il regno di Napoli (opponendosi alla Francia). Giulio II, come il Valentino, sa muoversi abilmente nel complesso gioco di alleanze della penisola italiana, che coinvolgeva francesi e spagnoli. 53 abbassare e’ viniziani: contrastare la potenza dei veneziani. 54 sanza iniuriarlo manifestamente: senza offenderlo apertamente. 55 di partirsi da Roma... ordinate: di partire da Roma per la spedizione contro

Bologna con le trattative (con i francesi) concluse e tutto predisposto. 56 mai gli riusciva: non sarebbe mai riuscito. 57 gli sono successe bene: hanno avuto successo. 58 della vita: del pontificato. 59 sentire: sperimentare. 60 che fussi bisognato... rovina: in cui fosse stato necessario procedere con cautela, sarebbe caduto in rovina. 61 modi: modo di comportarsi. 62 ostinati: è riferito a li uomini.

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5. La parte finale del capitolo ha un che di drammatico: le aporie, le questioni contraddittorie in cui il limpido ragionamento di Machiavelli si è scontrato sembrano smentire addirittura la possibilità di qualsiasi progetto politico razionale, visto il ruolo assodato della fortuna nei casi umani, e soprattutto visto che è impossibile cambiare la natura umana. La fine del capitolo vede così uno scatto irrazionale: è meglio comunque essere audaci perché, essendo la fortuna donna (secondo lo stereotipo misogino che associava alla donna mutevolezza e instabilità), è più facile sottometterla, come appunto fanno i giovani, che sono meno respettivi. Il capitolo si chiude quindi con un elogio dell’attivismo combattivo che, più della ponderazione, sembra in grado di fronteggiare una realtà politica sempre più caotica e indecifrabile.

63 concordano insieme: la fortuna e i modi, le circostanze e i comportamenti.

64 tenere sotto: dominare. 65 batterla e urtarla: batterla e contrastarla. La seconda immagine allegorica della fortuna, contrariamente a quella del fiume in piena dell’inizio del capitolo, che ne mette in luce gli aspetti distruttivi, pone invece in primo piano l’azione risoluta dei grandi uomini, capaci di opporsi vittoriosamente ai condizionamenti della sorte. 66 freddamente procedono: si comportano cautamente.


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è la tematica principale del capitolo? 2. Secondo Machiavelli, in quale misura la fortuna determina gli eventi umani? ANALISI 3. Quale funzione ha l’esempio di Giulio II? 4. Confronta le due immagini della Fortuna presentate nel capitolo. Qual è il loro significato allegorico? E il loro rapporto reciproco? LESSICO 5. Indica il significato politico che Machiavelli attribuisce ai seguenti termini: felicitare/feliceinfelice; ferocità; respettivo.

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Cosa sono gli argini che, secondo Machiavelli, i politici italiani avrebbero dovuto approntare per evitare le disastrose conseguenze che sono rappresentate dalla similitudine dell’inondazione? Argomenta la tua risposta e contestualizzala in un breve testo (max 15 righe).

Studiare con l'immagine 7. Osserva con attenzione l’immagine raffigurante l’allegoria della Fortuna e svolgi le seguenti richieste: a. rintraccia nell’immagine gli elementi in comune con la descrizione della fortuna che si evince dal testo di Machiavelli; b. ricollega l’immagine al testo appena analizzato e ad altri testi di Machiavelli che conosci e che parlano della fortuna: evidenzia le caratteristiche che testimoniano la visione dell’autore (max 15 righe).

Allegoria della Fortuna, incisione di Nicoletto da Modena, un artista contemporaneo di Machiavelli, XV-XVI sec. (Roma, Istituto Centrale per la Grafica, Gabinetto Disegni e Stampe, Fondo Nazionale).

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La Fortuna tra letteratura e arte

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

Per approfondire

Verso l’esame di Stato

Il Principe 2 853


Niccolò Machiavelli

T11

Esortazione a liberare l’Italia dai “barbari” Il Principe, cap. XXVI

N. Machiavelli, Opere, vol. I, a cura di C. Vivanti, EinaudiGallimard, Torino 1997

AUDIOLETTURA

Il capitolo XXVI, conclusivo del Principe, riprende i temi chiave dell’opera, riassumendoli in un’appassionata esortazione al principe della casata dei Medici affinché, traducendo in azione i precetti appresi dall’opera di Machiavelli, acquisti onore e gloria creando uno Stato solido e ben governato e riesca a liberare l’Italia dal «barbaro dominio» delle invasioni straniere.

XXVI. EXHORTATIO AD CAPESSENDAM ITALIAM IN LIBERTATEMQUE A BARBARIS VINDICANDAM1 Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse2, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare3 uno nuovo principe, e se ci era 5 materia4 che dessi occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella5, mi pare concorrino6 tante cose in benefizio di uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a7 questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù8 di Moisè, che il populo d’Isdrael fussi stiavo9 in Egitto: e a conoscere la grandezza dello 10 animo di Ciro, ch’e’ persi fussino oppressati10 da’ medi; e la eccellenzia di Teseo, che li ateniesi fussino dispersi11; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini presenti, e che la fussi più stiava che li ebrei, più serva ch’e’ persi, più dispersa che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine12, battuta, spogliata, lacera, corsa, e avessi sopportato d’ogni 15 sorte ruina13. E benché insino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare ch’e’ fussi ordinato da Dio per sua redenzione14, tamen si è visto come di poi, nel più alto corso delle azioni sua, è stato da la fortuna reprobato15. In modo che, rimasa16 come sanza vita, aspetta quale possa essere quello che sani le

1 “Esortazione a prendere la difesa dell’Italia e a liberarla dalle mani dei barbari”. 2 tutte... discorse: tutte le cose in precedenza analizzate. Machiavelli sottolinea il rapporto tra l’analisi politica svolta nei capitoli precedenti e l’esortazione finale. 3 correvano tempi da onorare: c’erano le circostanze adatte perché si facesse prosperare. 4 materia: la materia coincide per Machiavelli con l’occasione, cioè con la situazione di instabilità politica che consente a un nuovo ordinamento di instaurarsi con successo. L’autore del Principe riprende qui l’analisi del cap. VI, mostrandone l’attualità nella situazione politica italiana del momento. 5 facessi onore… quella: rendesse glorioso lui e fosse vantaggiosa per tutta la popolazione italiana. 6 concorrino: concorrano. 7 atto a: propizio, favorevole di. 8 virtù: capacità politica.

9 stiavo: schiavo. 10 oppressati: oppressi. 11 dispersi: non uniti, divisi in tanti staterelli. La puntuale citazione di tre dei quattro esempi del cap. VI (Mosè, Ciro, Teseo), la ripresa del concetto di occasione e della terminologia aristotelica di materia e forma, sembrerebbero indicare che, nonostante le diversità di stile, sussista uno stretto rapporto fra l’esortazione finale e la parte precedente del trattato. 12 sanza capo, sanza ordine: senza un centro di potere superiore agli altri, senza un efficace ordinamento politico. 13 battuta… ruina: devastata, spogliata con saccheggi, divisa, percorsa da eserciti nemici e avesse sopportato sciagure di ogni genere. Il drammatico elenco indica gli effetti della debolezza politica sopra evidenziata. 14 benché insino a qui… sua redenzione: sebbene prima di ora sia apparso (si sia mostro) qualche barlume (spiraculo)

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di virtù in qualche politico capace (ancora l’allusione è al Valentino), tanto da poter far immaginare che questi fosse stato inviato da Dio per la liberazione dell’Italia. Sorprende che, dopo il discorso laico e scientifico dei capitoli precedenti, Machiavelli introduca nella conclusione una prospettiva provvidenzialistica della storia. Si deve tuttavia considerare che il cap. XXVI è un’esortazione rivolta al principe mediceo perché adotti una politica energica ed espansionistica che possa salvare l’Italia, e perciò ogni mezzo persuasivo può essere considerato lecito. Redenzione, termine afferente all’area semantica della religione, è parola chiave del capitolo. 15 tamen… reprobato: tuttavia (in latino tamen) si è visto successivamente come, nel momento culminante (più alto corso) delle sue imprese, sia stato respinto dalla fortuna. Machiavelli sintetizza qui il significato del cap. VII, dedicato al Valentino. 16 rimasa: rimasta.


sua ferite e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana17, 20 e la guarisca da quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite18. Vedesi come la priega Iddio che li mandi qualcuno che la redima19 da queste crudeltà e insolenzie20 barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli. Né ci si vede al presente in quale lei possa più sperare che nella illustre Casa vostra, la quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e da la Chie25 sa, della quale è ora principe21, possa farsi capo di questa redenzione. Il che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopra nominati22; e benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, nondimeno furno uomini, ed ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente perché la impresa loro non fu più iusta23 di questa, né più facile, né fu Dio più amico loro che a voi. Qui è iustizia grande: 30 iustum enim est bellum quibus necessarium et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est24. Qui è disposizione grandissima25: né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà, pure che quella pigli delli ordini di coloro che io ho proposti per mira26. Oltre a di questo, qui si veggono estraordinari sanza esemplo, condotti da Dio: el mare si è aperto; una nube vi ha scorto il cammino; la pietra ha versato 35 acque; qui è piovuto la manna27. Ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza. El rimanente dovete fare voi: Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio28 e parte di quella gloria che tocca a noi. E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati italiani29 non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre Casa vostra, e se, in tante revoluzioni30 di Italia e in tanti maneggi di guerra, e’ pare 40 sempre che in Italia la virtù militare sia spenta31; perché questo nasce che gli ordini antichi32 di quella non erono buoni, e non ci è suto alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi. E veruna cosa fa tanto onore a uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove legge ed e’ nuovi ordini trovati da lui33: queste cose, quando sono bene

17 a’ sacchi... Toscana: ai saccheggi fatti nell’Italia settentrionale dagli eserciti francesi e spagnoli e ai tributi imposti al regno di Napoli e in Toscana. 18 piaghe… infistolite: piaghe che già con il tempo si sono aggravate per le fistole infette. Ispirandosi alla poesia di Dante e di Petrarca, Machiavelli raffigura l’Italia come una donna; la sua drammatica condizione è allegoricamente rappresentata dalle ferite che le coprono il corpo. 19 la redima: la liberi. 20 insolenzie: violenze. 21 favorita… principe: dal 1513 era papa Leone X, della famiglia de’ Medici; l’appoggio del papato, come Machiavelli sottolinea più volte nelle sue opere, era indispensabile per costituire un forte stato in Italia: l’elezione di Leone X è perciò l’occasione di cui parla Machiavelli. 22 se vi recherete… sopra nominati: se prenderete come modello le azioni e la vita di coloro che sono stati nominati sopra (Mosè, Ciro, Teseo). L’affermazione non ha assolutamente un carattere retorico, perché Machiavelli ritiene che gli esempi dell’antichità possano valere in ogni tempo, a causa dell’immutabilità della natura umana.

23 iusta: giusta. Anche la considerazione etica del concetto di giustizia pone il capitolo su un piano diverso dai precedenti. 24 iustum… est: la citazione – evidentemente fatta a memoria perché imprecisa – è da Livio (Ab urbe condita IX, 1): “è giusta infatti la guerra per coloro a cui è necessaria, e sono pietose le armi quando non vi è alcuna speranza se non nelle armi”. 25 disposizione grandissima: situazione storica estremamente favorevole. 26 pure che… per mira: purché quella venga rivolta all’imitazione dei provvedimenti di coloro che ho proposto ad esempio. 27 si veggono estraordinari… la manna: si vedono prodigi straordinari, di cui non si ricorda un altro esempio, voluti da Dio: una nube vi ha indicato il cammino; dalla pietra è scaturita acqua; è piovuta la manna dal cielo. Le citazioni bibliche, certo inconsuete in Machiavelli, sono intonate alla solennità dell’esortazione, indirizzata a un personaggio di dignità principesca. I riferimenti religiosi e provvidenzialistici possono forse anche essere spiegati se si pensa che lo scrittore si rivolge anche al papa Leone X, della famiglia Medici: Machiavelli sperava infatti che il nuovo

papa non agisse per la rovina dell’Italia, come avevano fatto i suoi predecessori (➜ T13 OL), ma contribuisse alla salvezza del paese. 28 non ci tòrre el libero arbitrio: non toglierci la libertà di scegliere. Da umanista, Machiavelli sottolinea il valore dell’iniziativa umana e della gloria che se ne può acquisire. 29 alcuno de’ prenominati italiani: si riferisce in particolare a Francesco Sforza e al duca Valentino. 30 revoluzioni: rivolgimenti politici. 31 in Italia… spenta: in un capitolo che si distingue dagli altri per il suo idealismo Machiavelli non trascura gli aspetti concreti della situazione italiana, esaminando in modo preciso, con dettagli tecnici, il problema cruciale delle tecniche di combattimento, a cui aveva dedicato i capp. XII-XIV del Principe e un’opera specifica, l’Arte della guerra. 32 gli ordini antichi: la precedente organizzazione. 33 veruna cosa… trovati da lui: nessuna cosa rende tanto onorato un uomo che assuma un potere nuovo, quanto le nuove leggi e le nuove forme di organizzazione da lui progettate.

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fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile34. E in Italia non 45 manca materia da introdurvi ogni forma: qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancassi ne’ capi35. Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’ pochi36, quanto gli italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno; ma come e’ si viene alli eserciti, non compariscono37. E tutto procede da la debolezza de’ capi: perché quegli che sanno non sono ubbiditi e a ciascuno pare sapere, non ci essendo 50 insino a qui suto alcuno che si sia rilevato tanto, e per virtù e per fortuna, che li altri cedino38. Di qui nasce che in tanto tempo, in tante guerre fatte ne’ passati venti anni, quando gli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova: di che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna, Mestri39. Volendo dunque la illustre Casa vostra seguitare quelli eccellenti uomini 40 55 che redimerno le provincie loro, è necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d’ogni impresa, provedersi d’arme proprie41, perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati: e benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori quando si vedessino comandare dal loro principe, e da quello onorare e intratenere42. È necessario pertanto prepararsi a queste arme, 60 per potersi con la virtù italica defendersi da li esterni. E benché la fanteria svizzera e spagnuola sia esistimata terribile, nondimanco in ambedua è difetto per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro ma confidare di superargli43. [...] Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga 65 dopo tanto tempo apparire uno suo redentore. Né posso esprimere con quale amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne44; con che sete di vendetta, con che ostinata fede45, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbono46? Quali populi gli negherebbono la obbedienza? Quale invidia se li opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe lo ossequio47?

34 reverendo e mirabile: degno di rispetto e ammirazione. 35 qui è virtù... ne’ capi: Machiavelli dà voce a un’opinione corrente al tempo, che cioè i singoli (le membra) hanno una virtù grande che manca ne’ capi. 36 Specchiatevi... de’ pochi: guardate il valore italiano rispecchiato nei duelli e nelle sfide fra pochi combattenti. Machiavelli allude probabilmente alla disfida di Barletta (nell’Ottocento resa celebre dal romanzo di Massimo d’Azeglio), avvenuta nel 1503, quando alcuni cavalieri italiani, al servizio degli spagnoli, sconfissero in un duello altrettanti cavalieri francesi. 37 non compariscono: non danno una buona prova. 38 non ci essendo… li altri cedino: non essendoci nessun principe che, per capacità o per fortuna, si sia potuto porre in una posizione superiore agli altri, in modo che gli altri fossero costretti a cedere (a ubbidirgli). In Italia, come sottolinea

Machiavelli in questo passo, mancava infatti un’autorità assoluta, presente in monarchie come la Francia e la Spagna, che potesse garantire un potere centralizzato e quindi più efficace in caso di guerra. 39 el Taro… Mestri: Machiavelli cita le battaglie in cui, tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento, gli eserciti italiani erano stati sconfitti da francesi e spagnoli: Fornovo sul Taro, Alessandria, Capua, Genova, Agnadello, Bologna, Mestre. 40 redimerno: riscattarono. 41 provedersi d’arme proprie: Machiavelli riprende qui brevemente la polemica contro le armi mercenarie, già presente nei capitoli XII-XIV. 42 intratenere: trattare bene. 43 nondimanco... superargli: non di meno in tutte e due ci sono dei difetti, per cui un ordinamento militare diverso da quello svizzero e spagnolo (uno ordine terzo), con un modo di organizzare la

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fanteria diverso da quello adottato dagli svizzeri o dagli spagnoli potrebbe non solo opporsi a loro, ma avere speranza di superarli. 44 illuvioni esterne: alluvioni venute dall’esterno; per allegoria, le invasioni straniere. La metafora dell’alluvione evidenzia il rapporto con il cap. XXV, in cui tale similitudine è riferita alla fortuna. 45 ostinata fede: assoluta lealtà. 46 Quali… serrerebbono?: quali porte (di stati italiani) gli si chiuderebbero? 47 lo ossequio: l’obbedienza. Notiamo qui che la serie di interrogative retoriche, tra loro legate dall’anafora dell’interrogativo quale, innalza il tono del discorso, rendendolo sempre più incalzante e appassionato. Dopo i richiami alla «verità effettuale» presenti nel resto del trattato, l’idealismo dell’esortazione finale di Machiavelli ha sempre sorpreso i critici, che ne hanno dato differenti interpretazioni.


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A ognuno puzza questo barbaro dominio48. Pigli adunque la illustre Casa vostra questo assunto49, con quello animo e con quella speranza che si pigliono le imprese iuste, acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata e, sotto e’ sua auspizi, si verifichi quel detto del Petrarca, quando disse:

Virtù contro a furore 75 prenderà l’armi, e fia el combatter corto, che l’antico valore nelli italici cor non è ancor morto.50 48 A ognuno... dominio: Ogni italiano è disgustato dal dominio di popoli barbari. Padrone di tutte le risorse dello stile, Machiavelli colpisce il lettore con questa brusca inversione del registro, che diviene basso

e popolareggiante, a sottolineare l’odiosità della dominazione straniera e l’avversione che per essa provano tutti gli italiani. 49 assunto: compito. È l’esortazione conclusiva.

50 Virtù… morto: con un crescendo appassionato, Machiavelli chiude il suo trattato con una citazione poetica, tratta dalla Canzone all’Italia del Petrarca (Canz. CXXVIII, vv. 93-96).

Analisi del testo Il tono profetico dell’esortazione: un “altro” Machiavelli? L’esortazione finale del cap. XXVI ha sempre colpito critici e lettori per la palese diversità di tono e di stile rispetto al resto del libro. Alla lucida e rigorosa razionalità del trattato e al suo continuo richiamo alla «verità effettuale», si sostituiscono infatti nella conclusione toni esaltati e profetici (secondo alcuni critici addirittura “savonaroliani”) e un appassionato idealismo. Non solo: nell’esortazione finale si trovano richiami a quell’etica che Machiavelli aveva duramente contestato nei capitoli più “scandalosi” del Principe (dal XV al XIX): il destinatario viene invitato ad affrontare l’impresa perché giusta; si afferma che gli altri signori italiani lo avrebbero in tal caso seguito con quella «ostinata fede» in cui, in altri punti del trattato, Machiavelli mostra di credere poco. Nel XXVI capitolo non mancano neppure appelli alla religione, con una serie di richiami biblici e di considerazioni che sembrano ispirate a una concezione provvidenzialistica della storia («qui si veggono estraordinari sanza esemplo, condotti da Dio»). D’altra parte l’esortazione finale presenta molteplici agganci a tutte le parti precedenti dell’opera, come se in essa si tirassero le fila dell’intero discorso: è ripreso il concetto di occasione del cap. VI; dallo stesso capitolo sono tratti gli esempi di Mosè, Ciro, Teseo, di cui viene evidenziata l’attualità nella situazione italiana del tempo; la sfortunata ma gloriosa impresa del Valentino (analizzata nel cap. VII) è proposta come precedente autorevole per un secondo, meglio riuscito tentativo; si analizza la difficile e critica situazione italiana e la necessità di porvi rimedio, contrapponendo virtù a fortuna; si propongono soluzioni per il problema militare, già affrontato nei capp. XII-XIV del trattato. Perciò, a ben vedere, l’esortazione appare come la logica e consequenziale conclusione dell’opera.

Due diverse valutazioni critiche La difformità espositivo-stilistica dell’esortazione finale rispetto al resto dell’opera ha diviso i critici. Alcuni di essi, più inclini a vedere nel Principe un trattato teorico, disgiunto dalla situazione contingente, hanno considerato l’esortazione come una sorta di appendice retorica, forse aggiunta in un secondo tempo e comunque, di fatto, estranea all’opera; altri invece, e si tratta della tesi oggi prevalente, hanno visto Il Principe come un testo unitariamente composto, che rivela il suo senso proprio nel capitolo conclusivo. Secondo tale prospettiva critica Il Principe non è un’opera teorica, ma di attualità, “militante”, cioè di impegno storico-politico, che trae la sua origine dalla preoccupazione di Machiavelli per la grave crisi politica italiana. Per uscire da essa egli suggerisce ai Medici, molto concretamente, una politica assolutistica ed espansionistica, che consenta di creare uno stato forte nell’Italia centrale, che costituisca un baluardo contro le monarchie nazionali di Francia e Spagna.

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La retorica della persuasione L’indubbia particolarità tonale e stilistica dell’esortazione non deve far pensare a un cambiamento ideologico in Machiavelli, la cui ottica rimane laica e pragmatica, ma si spiega innanzitutto con la sua collocazione alla fine dell’opera. Machiavelli conclude la sua fatica e riprende così, alla fine del Principe, circolarmente, il rapporto diretto con l’illustre personaggio della casata dei Medici a cui si è rivolto nella Dedica. Ha esposto tutto il suo sapere politico attraverso i venticinque capitoli del trattatello e invita Lorenzo de’ Medici a farne tesoro e a sfruttarlo per redimere l’Italia dall’abbrutimento in cui si trova: al tempo presente non manca nella degradata situazione italiana la “materia” per introdurvi la “forma”, il progetto di stato che consenta la rinascita del paese. Per rendere persuasivo il proprio messaggio Machiavelli ricorre qui a un registro emozionale, anziché – come abitualmente – logico, ma lo fa consapevolmente, sfruttando tecniche appartenenti al sapere retorico di ogni umanista (del resto gli oratori dell’antichità nella parte finale dei discorsi puntavano proprio sugli effetti emotivi). Anziché alla stringente forza delle argomentazioni, per convincere il suo principe, nell’esortazione Machiavelli fa appello al pathos travolgente: da qui l’incalzare delle interrogative retoriche, la personificazione dell’Italia ferita e martoriata, i toni profetici, il climax di forte impatto che chiude il capitolo con i versi della Canzone all’Italia di Petrarca. Lo sforzo di Machiavelli rimase al suo tempo senza risultati, ma in compenso il Risorgimento amerà particolarmente questa pagina machiavelliana.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Machiavelli parla ripetutamente di occasione favorevole per un nuovo principe: a cosa si riferisce? ANALISI 2. Come è sua consuetudine, Machiavelli utilizza esempi tratti dalla storia passata e dalla storia recente. Individuali nel testo. LESSICO 3. Individua i vocaboli e le espressioni appartenenti alla dimensione profetico-religiosa. STILE 4. Esemplifica ognuna delle figure retoriche indicando le righe del testo in cui sono presenti. anafora: ...................................................................................................................................................................................... iperbole: ..................................................................................................................................................................................... interrogativa retorica: ......................................................................................................................................................... accumulazione di aggettivi: .............................................................................................................................................. personificazione: ....................................................................................................................................................................

Interpretare

SCRITTURA 5. Indica, argomentando la tua posizione e presentando gli opportuni riferimenti testuali se, a tuo parere, l’esortazione sia la conclusione del trattato o un’aggiunta posteriore e, di conseguenza, se Il Principe sia da considerare o no un’opera unitaria. TESTI A CONFRONTO 6. Alle spalle del capitolo stanno illustri modelli della tradizione letteraria: la celebre apostrofe all’Italia di Dante (Pg VI) e la Canzone all’Italia di Petrarca, di cui Machiavelli utilizza alcuni versi particolarmente significativi (vv. 93-96). Fai un analitico confronto tra i testi, evidenziando analogie e differenze anche in rapporto alle differenti circostanze storico-politiche che animano la polemica dei tre scrittori.

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Educazione civica Riflessioni sulla guerra

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giulio Ferroni Contestualizzare il pensiero di Machiavelli G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza, Donzelli, Roma 2003

Nel passo, tratto dal saggio di Giulio Ferroni Machiavelli, o dell’incertezza, il critico sottolinea la necessità di ricondurre il pensiero di Machiavelli (comprese le celebri asserzioni su cui si è fondata la discutibile attualizzazione del Principe nel tempo) al momento storico drammatico in cui fu elaborato e anche alla peculiare natura della cultura fiorentina. In essa era tradizionalmente presente la dimensione “comico-realistica”, con la connessa tendenza al rovesciamento irriverente ed erano sentiti i temi della “maschera” e del doppio di cui si avverte l’eco nelle riflessioni machiavelliane sull’agire del politico.

È un pensiero che non si inserisce in un programma teorico, che non è motivato da istanze ideologiche: che si sviluppa appunto entro il linguaggio, le istanze, le motivazioni, i presupposti della pratica quotidiana. Più che esito di un impegno da umanista o da letterato di professione, esso è il risultato delle domande che si fa un 5 uomo «pratico», che ama i grandi classici della storiografia e della letteratura, che si serve dei libri più diversi in modi eterogenei, in ragione dei problemi politici di volta in volta toccati, senza seguire un conseguente modello teorico. Un pensiero che è ben lungi dall’essere sistematico: del tutto «aperto» e contraddittorio, affronta la politica e la storia nel quadro di una concezione dell’uomo [...] radicata nella 10 cultura municipale fiorentina, entro un intreccio di abitudini, modi di comportamento, perfino presupposti mitici e simbolici, confrontati con le urgenze del «fare», con l’osservazione dei dati spesso imprevedibili posti dalla realtà contemporanea, e con quell’assidua ma non professionale frequentazione dei classici. Per questo esso non è risolvibile in formule filosofiche, legate a una visione «progressiva» 15 dello sviluppo del pensiero: la sua forza e originalità può essere adeguatamente riconosciuta proprio tenendo conto della sua distanza da noi, prescindendo dai nostri schemi, dagli umori delle polemiche e degli scontri politici contemporanei [...], nel suo strettissimo legame con le idee diffuse, con il linguaggio e la morale «pratica» corrente nella Firenze dei suoi anni. 20 Il carattere così sconvolgente di questo pensiero, la sua carica dissacratoria e provocatoria, che hanno dato luogo alla sua lunga (e, ancora, contraddittoria) fortuna storica, sono scaturite proprio da quelle circostanze così concrete, dal modo in cui Machiavelli si è trovato a confrontare i dati di uno spregiudicato «realismo» fiorentino, di una morale dotata di stretti legami con un fondo municipale e «po25 polare», con la situazione contemporanea, con quel clima di totale insicurezza, con i disastri e le rovine della politica fiorentina e italiana.[...] Proprio in questo legame con un mondo tanto concreto e particolare, e con le stesse nozioni e formule correnti in quel mondo, nei rapporti «pratici» della vita quotidiana, nell’impegno a risolvere problemi pressanti, in un orizzonte politico, militare, 30 diplomatico e amministrativo che da Firenze si affacciava sulla scena dell’intera Europa, si sviluppano e si approfondiscono quegli stessi tratti caratterizzanti del pensiero di Machiavelli che sono apparsi più sconvolgenti e provocatori, che hanno creato la sua fama «diabolica». Le formule e le sentenze più terribili, che sembrano contraddire i più assestati e riconosciuti principi morali, i rilievi impietosi sulla 35 necessità della crudeltà e della doppiezza, le massime più duramente pessimistiche

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

sulla natura degli uomini, non sono certo scoperte e invenzioni di Machiavelli; esse erano già emerse variamente, anche se spesso in modo sotterraneo, nelle più diverse fasi della cultura occidentale, e soprattutto venivano lungamente formulate e praticate nella vita concreta, nella spregiudicata violenza dei rap40 porti quotidiani, che la cultura tradizionale relegava nell’ambito del comico, del «basso», del realismo grottesco. [...] Machiavelli è tutto immerso in quella tradizione comica; da essa il suo linguaggio riceve la sua forza e la sua vitalità, nell’evidenza degli scatti, delle metafore, dei contrasti anche violenti. [...] Ma il nesso più interno e profondo tra il comico e l’esercizio della politica è dato 45 dalla maschera, dal gioco del doppio e dell’apparenza, della simulazione e dissimulazione che essa comporta; proprio la familiarità «comica» con la maschera implica un’incoercibile disposizione a «estrarre» ciò che non è immediatamente visibile: un’attenzione alla necessità dei comportamenti «doppi» e insieme una prontezza nello svelarli, nel «toccare» quel che c’è sotto quello che appare alla 50 vista. Quando si parla di Machiavelli come scopritore dell’«ideologia», pronto a svelare il carattere «economico» dell’agire umano, i suoi fondamenti materiali, anticipatore di Marx, e magari anche di Nietzsche e di Freud, si deve tener conto del fatto che tale qualità ha comunque radice nella pratica della maschera, in quella coscienza della natura «doppia» e contraddittoria della realtà, dell’appa55 renza, dei comportamenti, che ha molteplici modelli nella cultura antica, come nella tradizione culturale romanza e nella stessa cultura umanistica.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Perché, secondo Ferroni, la forza del pensiero di Machiavelli si può cogliere solo istituendo un’adeguata distanza tra esso e noi moderni? 2. Quale rapporto stabilisce il critico tra il pensiero di Machiavelli e la tradizione culturale fiorentina? 3. A che proposito evoca la consuetudine di Machiavelli con la dimensione teatrale del comico e il tema della maschera? 4. Giulio Ferroni sottolinea la necessità di contestualizzare l’opera di Machiavelli per poter esprimere su di essa un corretto giudizio. Le considerazioni del critico possono essere uno stimolo a una lettura consapevole di opere del passato e del presente. Rifletti su questo tema, facendo riferimento alle tue letture scolastiche e personali.

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fu letto Il Principe: una pagina fondamentale 5 Come nella coscienza politica europea Un classico sorprendentemente attuale La fortuna e l’attualità di Machiavelli si identificano di fatto con la fortuna e l’attualità del Principe, uno dei libri italiani più conosciuti nel mondo. Un libro che è impossibile leggere in modo “neutro”, che fin dalla sua prima apparizione ha fatto scalpore, suscitando forti polemiche, e che continua, dopo cinquecento anni, ad alimentare un acceso dibattito e una ricchissima produzione critica (l’imponente bibliografia machiavelliana trova confronto solo con quella dantesca). Leggere Il Principe, oggi come secoli fa, rimane un’esperienza inquietante perché implica il confronto brutale con le leggi della politica e con i problemi morali che inevitabilmente essa suscita. Proprio in questo consiste la scottante attualità di questo celebre libro, che ha stimolato in tutte le epoche la riflessione di grandi pensatori (tra gli altri: Bacone, Spinoza, Hegel, Marx). Anche gli uomini politici, in momenti chiave della loro storia, non hanno potuto non incontrare Il Principe: da Mussolini a Gramsci ad altri esempi più recenti (➜ PER APPROFONDIRE I politici e Machiavelli OL). Alla fortuna secolare del Principe ha sicuramente contribuito il fatto che non sia rimasto confinato nel campo degli addetti ai lavori: è stata persino pubblicata una scelta di citazioni machiavelliane per manager!

Parola chiave

Dalla pubblicazione all’Indice dei libri proibiti Nel 1532 viene stampato Il Principe (ma già da tempo l’opera circolava in forma manoscritta) e in breve tempo il pensiero di Machiavelli conosce una fortuna straordinaria in Italia e in Europa: in soli venticinque anni si annoverano una quarantina di edizioni delle sue opere. Già nel primo Cinquecento tuttavia hanno inizio le aspre polemiche nei confronti di questo lavoro: tra i primi accusatori figura un ecclesiastico (anche in seguito, nel dibattito sul trattato, gli uomini di Chiesa saranno sempre in primo piano): il cardinale inglese Reginald Pole, nella sua Apologia a Carlo V (1539), definisce Il Principe un libro «scritto col dito di Satana». Assai presto nasce il fenomeno dell’antimachiavellismo e viene elaborata la categoria concettuale (tuttora presente nel linguaggio comune) di machiavellico come sinonimo di “immorale, spregiudicato, cinico, perfidamente astuto, empio”. Nel 1559 Il Principe (seguito dalle altre opere machiavelliane) viene inserito dal papa Paolo IV nell’Indice dei libri proibiti con una rilevanza tutta particolare, certo in rapporto alla pericolosità ideologica. Da quel momento diventa imprudente non solo leggere, ma persino nominare Machiavelli, a meno che non lo si condanni apertamente.

machiavellico L’aggettivo machiavellico (derivato evidentemente dal nome dell’autore del Principe) è ancora oggi comunemente impiegato. L’aggettivo nasce in Francia una quarantina d’anni dopo la pubblicazione del trattato – come più tardi anche il sostantivo machiavellismo (1611) – con una forte connotazione negativa. Questa connotazione si collega alla specifica ricezione dell’opera in Francia e Inghilterra. Soprattutto in questi paesi Il Principe fu letto come libro immorale: una raccolta di precetti cinici e opportunistici di uno studioso privo di scrupoli e di principi.

Il termine machiavellico, che deriva da questa lettura semplicistica del Principe, è poi uscito dall’ambito politico per diventare sinonimo di ogni comportamento ispirato a doppiezza, spregiudicatezza, astuzia ingannatrice. È bene precisare, invece, che il termine machiavelliano non è legato a connotazioni negative, ma designa semplicemente, senza alcun giudizio implicito, “tutto ciò che riguarda le opere e il pensiero di Machiavelli” (ad esempio lo stile machiavelliano, la concezione machiavelliana).

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Il «machiavellismo dissimulato»: il trionfo della “ragion di Stato” Al contempo però alcuni pensatori, specie in ambiente gesuita, non mancarono di utilizzare le acquisizioni di metodo e di analisi del Principe; ma lo fecero in modo camuffato, fingendo di biasimare ciò di cui capivano l’utilità (quindi, in modo sostanzialmente “machiavellico”!). Nell’età della Controriforma era fondamentale riportare l’agire politico nei rassicuranti confini della morale e della religione, ai quali Machiavelli l’aveva audacemente sottratta, senza perdere però la preziosa lezione politica del suo trattato. Alla “ragion di Stato” rigorosamente laica presente nel Principe si contrappongono i diritti di una “ragion di Stato” ispirata ai princìpi del cattolicesimo, dei quali chi governa deve farsi portavoce e ai quali deve sottomettersi. Nel suo trattato intitolato appunto Della ragion di Stato (1589), il gesuita Giovanni Botero tratteggia l’immagine di un principe cristiano che pratica sì le dure leggi della politica, ma solo per tutelare l’autorità della legge di Dio sui popoli (➜ D1c OL). Si trattava di «un machiavellismo dissimulato, funzionale alle esigenze delle monarchie assolute di diritto divino» (Ceserani) o, forse meglio, di un «machiavellismo cattolico» (Maier). Un antimachiavellismo strumentale La fama internazionale di Machiavelli coincise con un periodo convulso della storia d’Europa: i decenni delle guerre di religione in cui furono coinvolti più o meno direttamente tutti i Paesi europei, dalla notte di San Bartolomeo (1572) alla pace di Westfalia (1648). In un clima di tensione e di radicalizzazione, l’uso strumentale e a fini di polemica delle idee di Machiavelli divenne pratica corrente ed egli stesso diveniva la personificazione dei vizi più diversi, simbolo del male. Di fatto protestanti e cattolici si accusano reciprocamente di machiavellismo. Particolare diffusione ebbe il violento libello Antimachiavellus (1576) dell’ugonotto Innocent Gentillet. Il mito negativo di Machiavelli e l’interpretazione “nera” del Rinascimento italiano In Francia trova particolare seguito una nozione volgare di machiavellismo, ancora diffusa in tempi relativamente recenti: in questa immagine vulgata Il Principe è visto come un breviario politico che incita a comportamenti perversi, ispirati dall’empietà e dall’ateismo. Nell’immaginario francese del tempo Machiavelli non è diverso dai sanguinari Borgia, secondo un’interpretazione “nera” del Rinascimento italiano (evidentemente stereotipata e tendenziosa) che si riflette nel teatro francese del Cinquecento. Ma è soprattutto in Inghilterra che attecchisce, persino a livello popolare, il “mito negativo” di Machiavelli, che assume addirittura i tratti di un personaggio satanico, da leggenda nera: questa immagine sinistra compare nei drammi di Marlowe, Ben Johnson e dello stesso Shakespeare, ma ancora nei romanzi “gotici” di fine del Settecento persiste la tendenza ad attribuire connotazioni machiavelliche ai personaggi tenebrosi e malvagi. La nuova condanna del Principe nel contesto dell’Illuminismo Successivamente l’antimachiavellismo trova nuove motivazioni e nuovo alimento nel contesto ideologico e politico dell’Illuminismo, che, alla luce dei nuovi princìpi filosofici e politici, condanna come liberticida la concezione machiavelliana dello Stato e della politica. Poco prima di salire al trono è lo stesso Federico di Prussia a riproporre un Antimachiavel (1740), scritto con la collaborazione di Voltaire, in cui attacca il trattato sul piano morale ma anche su quello politico, in nome della tolleranza illuminata propria del Settecento, esaltata come modello di condotta politica opposto a quello machiavelliano. Il «Machiavelli obliquo» Intanto la voce machiavélisme della celebre Encyclopédie (dovuta molto probabilmente a Diderot) comincia a gettare le basi del cosiddetto

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«Machiavelli obliquo»: l’impossibilità di accettare così come sono le sconcertanti analisi e dichiarazioni del Principe induce alcuni interpreti non più a condannarle, ma ad attribuire a Machiavelli intenzioni del tutto diverse da quelle apparenti, leggendo così Il Principe come una finzione motivata da nobili scopi: Machiavelli sarebbe non un “precettore” di prìncipi assoluti, ma colui che ha voluto svelare ai sudditi il vero volto del potere. Fra i primi fautori di questa interpretazione è J.-J. Rousseau: nel Contratto sociale (1762) sostiene che Machiavelli, «fingendo di dare lezioni ai re, ha dato grandi lezioni ai popoli», e che il vero obiettivo del Principe («il libro dei repubblicani») era quello di scoprire i meccanismi del potere (III, vi). Questa tesi in Italia è condivisa innanzitutto da Vittorio Alfieri. Nel trattato Del principe e delle lettere (1786) dichiara: «dal solo libro Del Principe si potrebbe qua e là ricavare alcune massime immorali e tiranniche, e queste dall’autore sono messe in luce (a chi ben riflette) molto più per disvelare ai popoli le ambiziose ed avvedute crudeltà dei principi che non certamente per insegnare ai principi a praticarne». Anche Ugo Foscolo in alcuni celeberrimi versi dei Sepolcri (1806) mostra di credere all’interpretazione «obliqua» del trattato. Rievocando, tra i grandi italiani sepolti in Santa Croce, Machiavelli, lo esalta come «quel grande, / che temprando lo scettro a’ regnatori / gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue» (vv. 155-158). A suo modo anche la lettura dello stesso Gramsci (1891-1937), fondatore del Partito comunista italiano, sarà incentrata sul «Machiavelli obliquo» (➜ PER APPROFONDIRE I politici e Machiavelli OL). Machiavelli e il Risorgimento Sotto la spinta delle passioni politiche dell’età risorgimentale Machiavelli conosce in Italia una grande fortuna come “profeta” dell’indipendenza e dell’unità nazionale (e in questa ottica fu particolarmente valorizzato il capitolo conclusivo dell’opera che incitava alla liberazione dell’Italia dagli stranieri). È questa la visione che di Machiavelli ha anche il grande critico di età romantica Francesco De Sanctis, che contrappone al culto della forma, proprio della cultura rinascimentale, la passione civile di Machiavelli e lo spirito profondamente laico che ne fa un precursore della scienza della politica moderna, colui che ha svincolato l’uomo dalla sudditanza al trascendente.

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Per approfondire I politici e Machiavelli

Machiavelli tra attualizzazione e storicizzazione In generale si può dire che nella storia della ricezione del pensiero di Machiavelli è stata predominante da un lato l’interpretazione assolutizzante di un Machiavelli “genio del male”, e dall’altro un uso sostanzialmente strumentale del suo pensiero, riproposto ancora nei primi decenni del Novecento da parte delle ideologie totalitarie che se ne servono per legittimare l’idea di uno Stato autoritario. In ogni caso il pensiero di Machiavelli è stato spesso svincolato dal tempo e dalle circostanze in cui fu elaborato. In tempi più recenti però la tendenza emergente è la sempre più marcata storicizzazione del personaggio Machiavelli e della sua opera, sostenuta in ambito critico in particolare dagli studi fondamentali di Federico Chabod (1901-1960) e di Felix Gilbert (1905-1991), volti a riportare rigorosamente la riflessione politica di Machiavelli a un preciso contesto storico-politico (la crisi degli Stati signorili, a cui egli cerca di trovare una soluzione) e al dibattito proprio degli ambienti intellettuali fiorentini. In generale, citando il celeberrimo filosofo tedesco Hegel, si potrebbe dire: «Se è doveroso, per concludere, non astrarre le considerazioni del Principe dal contesto storico-politico da cui derivano e a cui espressamente, non dimentichiamolo, si rivolgono, d’altra parte è anche giusto, soprattutto nella prassi scolastica, non eludere il problema di fondo posto dal testo machiavelliano: il rapporto politica-morale. Riteniamo che “attualizzare” Machiavelli voglia dire soprattutto tentare di dare una risposta a questo dilemma, che sicuramente travagliò la coscienza di Machiavelli e che risulta più che mai attuale». Il Principe 2 863


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Machiavelli politologo, storico e letterato Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: la lezione 1 Idell’Umanesimo

Bramante, Uomo d’arme, 1485 (Milano, Pinacoteca di Brera). L’opera fa parte di una serie di otto affreschi che rappresentano i più famosi condottieri del tempo: raffigurati all’interno di nicchie architettoniche dipinte, hanno parvenza di statue.

I caratteri e il titolo Oltre al Principe, durante il suo forzato ritiro dalla scena politica Machiavelli scrive un’altra importante opera politica a cui è affidato il suo pensiero: i Discorsi. A differenza del Principe i Discorsi non nascono da un’occasione contingente e non hanno l’organica struttura di un trattato: consistono infatti in una serie di riflessioni di diversa ampiezza suggerite a Machiavelli dalla lettura e interpretazione dei primi dieci libri (prima deca) della monumentale opera storica di Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) Ab urbe condita libri (Storia di Roma dalla sua fondazione). Il termine “discorsi” non è di Machiavelli, ma è usato nel titolo della prima edizione a stampa (1531) ed è poi rimasto nelle successive: va inteso nel senso etimologico di “divagazioni” a partire da un testo-base (dal latino discurrere). Una nuova applicazione del “principio d’imitazione” La premessa concettuale su cui si fondano i Discorsi è l’adesione dell’autore al principio umanistico dell’imitazione dei classici: come dichiara espressamente nel Proemio dell’opera (➜ T12 ), Machiavelli pensa però che l’imitazione dei classici non vada limitata al solo campo artistico-letterario, ma debba essere utilmente estesa anche all’ambito dell’azione politica, mentre «non si truova principe né repubblica che agli esempi degli antiqui ricorra». Il fondamento della possibilità di imitare gli esempi antichi è la concezione (presente anche nel Principe) che Machiavelli ha della natura umana come immutabile nel tempo: anche i comportamenti tendono dunque a seguire in un certo senso gli stessi modelli. Il valore pedagogico della storia Machiavelli crede quindi fermamente al valore pedagogico della storia (historia magistra vitae, “la storia è maestra di vita”) e considera la repubblica romana un modello politico da imitare. Non gli interessa, dunque, celebrare un mondo ormai passato, ma vuole ricavare, anche qui come ne Il Principe, esempi e norme di comportamento politico utili al presente: alla stabilità dello Stato romano fa infatti da sfondo contrastivo per tutta l’opera (anche quando non è espressamente evocata) la drammatica instabilità della Firenze cinquecentesca, a cui occorre porre rimedio prima che sia troppo tardi. La datazione La data di composizione dei Discorsi non è sicura e diverse sono le posizioni degli studiosi in proposito. L’ipotesi tradizionale riteneva che i Discorsi fossero iniziati nel 1513, appena prima della stesura del Principe, interrotti (probabilmente al XVIII capitolo) per lasciare spazio alla più “urgente” composizione del trattato e poi ripresi subito dopo. Secondo l’ipotesi oggi più accreditata, Machiavelli avrebbe iniziato molti anni prima (tra il 1502 e il 1512)

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un’opera sulla struttura repubblicana (ad essa alluderebbe l’osservazione posta all’inizio del secondo capitolo del Principe: «Io lascerò indrieto el ragionare delle repubbliche, perché altra volta ne ragionai a lungo. Volterommi solo al principato...»). Il materiale, rielaborato, sarebbe poi confluito nei Discorsi tra il 1515 e il 1517, al tempo della frequentazione da parte di Machiavelli del gruppo degli Orti Oricellari. Probabilmente nel 1518 (ma altri spostano di qualche anno la data) i Discorsi sono completati, anche se l’opera non raggiunge mai una veste definitiva e mantiene una certa frammentarietà.

Andrea Mantegna, Trionfi di Cesare, particolare, 1485-1505 (Londra, Palazzo reale di Hampton Court). La tela raffigura un corteo trionfale, con portatori di insegne, ispirato sia a descrizioni storiche antiche sia a rappresentazioni di trionfi romani e di cortei celebrativi rinascimentali.

La struttura e i contenuti I Discorsi (centoquarantadue testi in tutto) sono organizzati in tre libri: • il primo libro tratta l’organizzazione della repubblica romana, l’origine delle leggi, la funzione di coesione sociale esercitata dalla religione, la vitale dialettica che contrappose la plebe e la nobiltà; • il secondo libro si incentra sul tema, sviluppato ampiamente nel Principe, dei rapporti tra virtù e fortuna in relazione all’espansione territoriale della repubblica romana, per poi considerare problemi di vario genere, tra cui quello, cruciale per Machiavelli, delle milizie; • il terzo libro è il più eterogeneo e presenta singoli esempi di grandi personaggi della storia antica iscrivibili in diverse problematiche.

I temi principali L’importanza delle istituzioni Nei Discorsi Machiavelli si pone soprattutto il problema della stabilità e dello sviluppo di uno stato già esistente, per garantire i quali gli appare fondamentale non tanto la “virtù” dei singoli governanti (come nel Principe), quanto piuttosto la validità delle istituzioni, di cui la repubblica romana ha offerto un modello esemplare. Prendendo spunto dallo storico greco Polibio (205-124 a.C.), Machiavelli prospetta come miglior forma di governo possibile la costituzione mista, cioè una forma di governo che possa esprimere istituzioni monarchiche, aristocratiche e democratiche: nella repubblica romana si realizzò appunto un tale governo (i consoli rappresentavano l’elemento monarchico, il senato l’elemento aristocratico, e i tribuni della plebe quello democratico). Queste istituzioni non furono ideate da un singolo legislatore, ma derivarono via via dall’insegnamento degli eventi storici e furono l’esito della conflittualità della vita politica, che Machiavelli non considera un elemento negativo ma al contrario vitale e positivo: le lotte tra patrizi e plebei ebbero come sbocco politico appunto una forma di governo misto e una solida legislazione. Secondo la riflessione di Machiavelli, particolarmente importante fu l’istituzione del tribunato della plebe, perché favorì l’integrazione della plebe nella vita civile e politica. Il riconoscimento del ruolo del popolo nell’amministrazione politica e l’istituzionalizzazione di chi ne prendeva le difese (il tribunato della plebe appunto) costituì poi il presupposto per lo sviluppo territoriale dell’impero: infatti solo a un popolo che si riconosceva parte di una “patria” comune poteva essere chiesto di sacrificarsi sui campi di battaglia nelle campagne militari. Machiavelli politologo, storico e letterato 3 865


Il ruolo chiave della religione nel promuovere i “buoni costumi” dei cittadini Alla base della grandezza di Roma c’era stato però un popolo abituato dai suoi governanti alla moderazione, all’obbedienza civile, al rispetto dell’autorità, “buoni costumi” nei quali aveva avuto un ruolo fondamentale la religione. È importante precisare che Machiavelli considera la religione, qui come anche nel Principe, esclusivamente nell’ottica della funzionalità politica che può comportare la presenza nella popolazione di un forte sentimento di tal natura. Ne derivano suggerimenti ispirati allo stesso pragmatismo presente nel Principe, come quello di alimentare nel popolo la fede nei miracoli perché politicamente utile a chi governa. Il tema, in vario modo ricorrente nel corso dell’opera, occupa ben cinque capitoli (capp. XI-XV) del primo libro. La religione, associata da Machiavelli soprattutto al “timore di Dio”, fu particolarmente radicata nel popolo romano e rappresentò una leva capace di produrre comportamenti politicamente utili: «E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è cagione della rovina d’esse» (➜ T13 OL). Proprio perché convinto del ruolo positivo svolto dalla religione nella società, Machiavelli critica fortemente, come del resto fa Guicciardini (➜ C18), la Chiesa (seconda parte del cap. XII ➜ T13 OL), considerata responsabile del fatto che gli italiani sono diventati «sanza religione e cattivi» e, per di più, di aver impedito l’unificazione del paese. Il problematico rapporto fra Il Principe e i Discorsi Anche il lettore comune constata facilmente la diversità di vedute in ambito politico che si manifesta nelle due principali opere di Machiavelli: Il Principe e i Discorsi. I Discorsi sono improntati a un’ammirazione per gli ordinamenti repubblicani di Roma antica, che a volte si traduce in esplicita dichiarazione di superiorità delle istituzioni repubblicane su altre forme politiche (e in particolare sul principato): una posizione che appare in contraddizione con la rappresentazione del principato assoluto nel Principe. Inoltre nei Discorsi la vita dello Stato sembra affidata alle istituzioni, alle buone leggi e alle virtù collettive di un’intera popolazione, mentre ne Il Principe è esclusivamente esaltata la “virtù” di chi governa che, secondo le necessità politiche, può anche tradursi in brutale oppressione o strumentalizzazione del popolo, il quale non ha (e non deve avere) nessuna voce in capitolo. La diversa natura e finalità delle due opere Dunque Machiavelli era fautore della repubblica o del principato? Di certo, data la sostanziale sovrapposizione cronologica tra le due opere, è da escludere un’evoluzione di posizioni politiche dell’autore nel tempo, da una fase monarchica (Il Principe) a una fase repubblicana (i Discorsi). Oggi la critica non giudica più in assoluto la discordanza di posizioni tra le due opere, ma la interpreta piuttosto in rapporto alla diversa natura dei due testi, alle diverse prospettive che le ispirano, ai diversi fini e circostanze di composizione. Il Principe è scritto nell’urgenza di un clima politico assai pesante e di una difficile situazione personale (Machiavelli cerca di rientrare in tutti i modi nel giro della politica): mette a fuoco, in particolare, la fondazione di uno Stato nuovo, condizione in cui è pressoché inevitabile usare la violenza e la forza, e in cui è in gioco soprattutto la capacità politica individuale del Principe.

866 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli


I Discorsi hanno maggiore ambizione speculativa, sono il frutto della lettura meditata di uno storico antico (Livio) e si ricollegano al clima culturale del cenacolo umanistico fiorentino degli Orti Oricellari, dove si leggeva la storia passata confrontandola polemicamente con il presente (proprio come fa Machiavelli nei Discorsi): la repubblica romana appariva il modello perfetto di uno Stato che conciliasse efficienza politica, stabilità e tutela delle libertà. Quest’opera mette a fuoco soprattutto il problema della durata e della stabilità dello Stato: in primo piano, perciò, si colloca il discorso sugli ordinamenti, cioè sulle istituzioni che possono rendere saldo nel tempo uno Stato, sul modello appunto offerto dai mitizzati tempi romani. In relazione alle diverse circostanze compositive e alle diverse finalità che si propongono, anche lo stile delle due opere appare diverso: all’andamento rapido, incisivo e sentenzioso del Principe si contrappone l’andamento in genere pacatamente argomentativo e la sintassi classicheggiante dei Discorsi. Gli elementi comuni D’altra parte, al di là di schematiche contrapposizioni, sono molti i tratti che accomunano Il Principe ai Discorsi, testimonianze entrambi di una nuova visione della politica. Le due opere hanno un retroterra comune da cui scaturiscono perché entrambe presuppongono l’esperienza politica maturata da Machiavelli negli anni del suo incarico al segretariato. Inoltre, i Discorsi condividono con Il Principe la prospettiva laica, pragmatica, antidealistica dell’azione politica (anche se non pervengono a considerazioni così ardite come quelle presenti nel trattato); comune alle due opere è la visione naturalistica nei confronti della natura umana e dei comportamenti dell’uomo (evidente anche nel lessico e nelle immagini metaforiche tratte dal campo naturale e dalla medicina) e, ancora, la lezione degli antichi che è premessa del Principe e da cui prendono espressamente le mosse i Discorsi.

Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio GENERE

riflessioni di natura politica, ispirate dalla lettura dei primi dieci libri della Storia di Roma di Tito Livio

DATAZIONE

inizio della stesura tra il 1502 e il 1512, completamento 1518

TITOLO

non attribuito da Machiavelli, significa “divagazioni”

STRUTTURA

tre libri

FINALITÀ

dedurre dalla storia antica modelli ed esempi positivi utili a risolvere i problemi politici del presente

CONTENUTO

analisi della repubblica romana: le sue istituzioni, il ruolo della religione, il mantenimento dello Stato

Machiavelli politologo, storico e letterato 3 867


Niccolò Machiavelli

T12

Bisogna imitare gli antichi anche in campo politico Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I, 1 (Proemio)

N. Machiavelli, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971

Nel Proemio del primo libro, che fa da introduzione generale, Machiavelli enuncia con chiarezza le motivazioni che lo hanno indotto a scrivere l’opera e i princìpi metodologici su cui si fonda. È evidente l’orgogliosa consapevolezza, al di là delle dichiarazioni di modestia, di intraprendere un cammino nuovo e la certezza di fare cosa utile a chi leggerà l’opera.

Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d’altri1; nondimanco2, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, sanza alcuno 5 respetto, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a ciascuno3, ho deliberato entrare per una via4, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita5, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora6 arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino7. E se lo ingegno povero8, la poca esperienzia delle cose presenti e la debole notizia9 delle antique 10 faranno questo mio conato difettivo10 e di non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno che, con più virtù, più discorso e iudizio11, potrà a questa mia intenzione satisfare12: il che, se non mi arrecherà laude, non mi doverebbe partorire biasimo13. Considerando adunque quanto onore si attribuisca all’antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento d’una antiqua statua sia suto 15 comperato gran prezzo14, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono15; e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo16; e veggiendo, da l’altro canto, le virtuosissime operazioni17 che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani18, cittadini, latori di leggi19, ed altri che 20 si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate20; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno21; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga. 1

Ancora che… d’altri: Sebbene per la natura invidiosa degli uomini sia sempre stato pericoloso allo stesso modo (tanto) trovare forme e ordinamenti politici nuovi (quanto) andare in cerca di mari e terre sconosciute (incognite), perché gli uomini (per essere quelli) sono più pronti a biasimare che a lodare le azioni di altri. 2 nondimanco: tuttavia. 3 operare... ciascuno: mettere in atto senza nessun timore (sanza alcuno respetto) quelle iniziative che credo (creda) portino un vantaggio comune per ognuno. 4 ho deliberato... una via: ho deciso di intraprendere (lett. “percorrere una strada”). 5 non essendo… trita: non essendo stata ancora percorsa da nessuno (trita è un latinismo dal verbo terere, “percorrere”). 6 ancora: anche. 7 mediante... considerassino: mediante

coloro che giudicassero con benevolenza (umanamente) il fine di questa mia fatica. 8 lo ingegno povero: la modesta intelligenza. 9 la debole notizia: l’insufficiente conoscenza. 10 faranno… difettivo: renderanno imperfetto questo mio tentativo; sia difettivo (da deficere, “mancare”) sia conato (conatus) sono latinismi. Naturalmente qui Machiavelli fa la consueta dichiarazione di umiltà, comune a quasi tutti gli scrittori. In realtà il tono complessivo del Proemio dimostra la piena consapevolezza di essere all’altezza del compito. 11 più discorso e iudizio: maggiori capacità argomentative e intellettive. 12 potrà… satisfare: potrà realizzare il mio progetto. 13 il che... biasimo: la qual cosa, se non

868 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

mi darà lodi, non mi dovrebbe (neppure) sottoporre a critiche. 14 gran prezzo: a un prezzo elevato. 15 poterlo... dilettono: perché chi si diletta nell’arte della scultura (quella arte) lo possa copiare. 16 come… rappresentarlo: come gli scultori (quegli) poi con tutto il loro impegno (industria) si sforzano di riprodurre il modello in ogni loro opera. 17 le virtuosissime operazioni: le imprese, le azioni eccellenti. 18 capitani: condottieri. 19 latori di leggi: legislatori. 20 essere... imitate: (vedendo che le azioni eccellenti) sono ammirate piuttosto (più presto) che non imitate. 21 anzi… segno: anzi, addirittura essendo respinte da ciascuno tanto che non è rimasta traccia di quella antica capacità (virtù).


E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che intra cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli 25 iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati22: perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti23, le quali, ridutte in ordine, a’ presenti nostri iureconsulti iudicare insegnano24. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e’ medici presenti e’ loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare le republiche25, nel 30 mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra26, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio27, non si truova principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la presente religione28 ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio29, 35 quanto dal non avere vera cognizione delle storie30, per non trarne, leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti31 che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono32, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino 40 variati di moto, di ordine e di potenza, da quello che gli erono antiquamente33. Volendo, pertanto, trarre li uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de’ tempi non ci sono stati intercetti34, quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose35, iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia di essi36, a ciò che coloro che 45 leggeranno queste mia declarazioni37, possino più facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia difficile, nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad entrare sotto questo peso, confortato38, credo portarlo39 in modo, che ad un altro resterà breve cammino a condurlo a loco destinato.

22 tanto più… ordinati: tanto più (mi lamento) quanto vedo che si è sempre fatto ricorso alle sentenze o alle cure mediche giudicate valide dagli antichi nelle contese (diferenzie) tra i cittadini risolvibili per via legale (civilmente) o nelle malattie in cui incorrono gli uomini. Machiavelli sottolinea che, a differenza del campo politico, nell’ambito legale e medico si fa sempre riferimento al sapere trasmesso dagli antichi. 23 iureconsulti: giuristi. 24 a’ presenti… insegnano: insegnano ai giuristi contemporanei come formulare corretti giudizi. 25 nello ordinare le republiche: nel dotare uno stato di una costituzione. 26 amministrare la guerra: gestire le operazioni militari. 27 nello accrescere l’imperio: nell’estendere territorialmente uno stato. 28 la presente religione: il cristianesimo; su di esso Machiavelli esprime un giudizio negativo sotto il profilo strettamente politico: ha creato debolezza.

29 uno ambizioso ozio: espressione quasi ossimorica, indicante un’ambizione non sostenuta da una politica energica. 30 vera cognizione delle storie: esatta conoscenza della storia antica. 31 infiniti: numerosissime persone. 32 pigliono piacere… contengono: si dilettano di leggere la molteplicità dei diversi avvenimenti in esse contenuti. Machiavelli allude qui a una lettura sterile, erudita e nozionistica della storia, che non approda a nulla. 33 come se… antiquamente: come se le stelle (il cielo), il sole, gli elementi naturali, la natura umana (li uomini) fossero cambiati nei movimenti, nelle leggi, nella possibilità di agire (potenza) rispetto a come erano in passato. Viene qui enunciata la visione naturalistica che Machiavelli ha dell’indole umana, che non cambia nel tempo così come non cambiano i moti degli astri ecc.

34 sopra tutti… intercetti: sopra tutti i libri di Tito Livio che non ci sono stati sottratti dal tempo. Dei centocinquanta libri, divisi in quindici gruppi di dieci libri (o deche) della monumentale Storia di Roma ce ne sono pervenuti solo trentacinque; l’intenzione di Machiavelli, a giudicare da quanto qui scrive, sarebbe stata quella di occuparsi di tutti i libri rimasti, non solo dei primi dieci come poi di fatto fece. 35 cognizione delle antique e moderne cose: conoscenza delle esperienze antiche (attraverso i libri) e moderne (attraverso la sua diretta esperienza in campo politico). 36 intelligenzia di essi: comprensione di essi. 37 queste mia declarazioni: questi miei commenti. 38 coloro che… confortato: coloro che gli hanno dato coraggio per affrontare questo compito gravoso sono i dedicatari dei Discorsi, Cosimo Rucellai e Zanobi Buondelmonti. 39 portarlo: sottinteso “avanti”.

Machiavelli politologo, storico e letterato 3 869


Analisi del testo Una diversa applicazione del principio di imitazione Il Proemio dei Discorsi non è di facile lettura, soprattutto per un giovane studente, ma costituisce un testo importantissimo non solo per comprendere la prospettiva che ispira i Discorsi, ma anche per giustificare la presenza nel Principe di molti esempi tratti dal mondo antico. Del resto, come si è detto, le due opere sono concettualmente contigue e addirittura la loro stesura si interseca. Nel Proemio Machiavelli fa sua la generale ammirazione per il mondo antico che caratterizza il suo tempo e ricorda la diffusa tendenza ad acquistare a caro prezzo statue antiche per poterle imitare. Constata d’altra parte che pochissimi (anche se le ammirano) imitano le “virtuose” imprese degli antichi trasmesse dagli storici, le buone leggi da essi emanate e così via. Eppure, continua l’argomentazione di Machiavelli, in campo giuridico e medico si ricorre ancora al sapere degli antichi, sul quale si fondano la giurisprudenza e la medicina moderna.

Un modo diverso di leggere gli storici antichi Lo scrittore si chiede perché l’imitazione degli antichi non interessi anche l’ambito politico. La causa gli sembra essere una conoscenza limitata della storia passata, dovuta a una lettura delle opere volta solo a trarre piacere da quanto narrato, escludendo a priori la possibilità di imitare gli esempi antichi («[…] infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile»). Invece, anche in questo campo, l’indole umana è sempre la stessa, così come si ripetono immutabili i fenomeni naturali (la concezione naturalistica dell’uomo accomuna Il Principe e i Discorsi). Machiavelli si propone quindi di commentare – per farli capire meglio – i testi della Storia romana di Livio grazie alla competenza che si attribuisce in campo politico. L’obiettivo non è quindi un erudito commento fine a sé stesso, ma una chiarificazione che restituisca a questi testi antichi la loro viva voce, così da renderli ancora utili al lettore moderno.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del Proemio in non più di 10 righe e individua le parole-chiave. COMPRENSIONE 2. Quale finalità si ripropone Machiavelli scrivendo i Discorsi? ANALISI 3. Nelle prime righe del Proemio, l’autore dà un ritratto di sé attraverso alcuni indizi testuali: sai rintracciare tali indizi che ci guidano a ricostruire la personalità di uomo e di scrittore di Machiavelli? 4. Il testo presenta una struttura argomentativa particolarmente rigorosa: a. individua i nuclei concettuali del testo e poi rappresentali in uno schema; b. indica i principali connettivi testuali (avverbi, congiunzioni, intere locuzioni) che concorrono a fare del Proemio un testo coeso. LESSICO 5. Riscrivi il primo paragrafo in italiano corrente. Poi elenca: latinismi; parole usate in un’accezione diversa rispetto a quella odierna; parole e forme dell’italiano cinquecentesco.

Interpretare

LETTERATURA E NOI 6. Machiavelli invita a seguire gli antichi nella convinzione che la natura umana sia immutabile nel tempo e che dunque i comportamenti dell’uomo obbediscano sempre alle medesime leggi. Ti sembra che i nativi digitali, prodotto della nostra epoca, possano ancora credere in questo “principio di imitazione”? Esponi le tue riflessioni in un testo di max 15 righe.

online T13 Niccolò Machiavelli

Il ruolo positivo della religione a Roma. Le gravi responsabilità della Chiesa cattolica Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I, XI-XII

870 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli


2 Dell’arte della guerra Un trattato dialogico Dell’arte della guerra è un trattato in sette libri organizzato in forma di dialogo che ebbe grande fortuna in Italia e in Europa. Il dialogo è ambientato negli Orti Oricellari, che Machiavelli stesso frequentava assiduamente negli stessi anni in cui è composta l’opera (1519-1520). Interlocutori sono appunto alcuni frequentatori di questo circolo umanistico; portavoce delle tesi dell’autore è Fabrizio Colonna, famoso condottiero romano del tempo. Contro i soldati mercenari Dell’arte della guerra è incentrato su un tema che stava molto a cuore a Machiavelli e a cui aveva già dedicato non poche pagine sia nel Principe (in particolare nei capp. XII-XV) sia nei Discorsi (II libro): la necessità per uno Stato di disporre di un esercito proprio, adeguatamente preparato. Machiavelli fu sempre contrario al ricorso alle milizie mercenarie, che riteneva inaffidabili, pronte in ogni momento a tradire per danaro: servire in guerra il proprio Paese non era per Machiavelli un mestiere mercenario, da esercitare dietro compenso, ma un dovere civile che i cittadini dovevano assolvere in caso di necessità, come avveniva nella repubblica romana. Durante gli anni del segretariato, fra il 1505 e il 1506, Machiavelli si era battuto per dotare la Repubblica di un esercito permanente formato da uomini del territorio fiorentino arruolati con ferma obbligatoria dal governo. La costituzione della milizia era stata approvata dal Consiglio Maggiore il 6 dicembre 1506 e Machiavelli era divenuto il cancelliere di una nuova magistratura preposta all’organizzazione dell’esercito; ma i soldati fiorentini diedero una prova rovinosa nella difesa di Prato (1512). Non per questo lo scrittore rinuncia alle proprie idee e, anzi, le enuncia con rinnovata convinzione nel trattato, nella speranza che vengano accolte (l’opera è dedicata a un potente personaggio della cerchia dei Medici). Un nuovo tipo di esercito In Dell’arte della guerra sono presenti anche considerazioni prettamente tecniche: ad esempio la valorizzazione della fanteria come elemento fondamentale dell’esercito (viene invece attribuita scarsa importanza alla cavalleria, ma anche alla nuova arma emergente, l’artiglieria). Machiavelli pensa che la nuova unità militare (l’«ordine terzo» di combattimento, varie volte nominato nel Principe) debba essere organizzata secondo il modello della legione romana: un battaglione di cinquemila fanti articolato in dieci gruppi (come la legione romana era organizzata in dieci coorti).

Dell’arte della guerra GENERE

trattato dialogico

STRUTTURA

sette libri

DATAZIONE

1519-1520

TEMI

• necessità per uno Stato di avere un esercito proprio adeguatamente preparato • rifiuto dell’utilizzo di truppe mercenarie

Machiavelli politologo, storico e letterato 3 871


3 Machiavelli storico: le Istorie fiorentine Storia e politica L’unico frutto positivo del tentativo di Machiavelli di avvicinare i Medici, signori di Firenze, sono le Istorie fiorentine, l’opera storiografica in otto libri che Machiavelli compone per volontà del cardinale Giulio de’ Medici (divenuto poi papa col nome di Clemente VII) tra il 1520 e il 1525. È il primo incarico ufficiale che riceve dopo il forzato ritiro dall’attività pubblica. Alle spalle dell’opera sta la tradizione storiografica umanistica fiorentina (da Leonardo Bruni a Poggio Bracciolini), che a sua volta si richiamava ai modelli degli storici latini. Da questa Machiavelli riprende l’inserimento dei discorsi diretti attribuiti a diversi personaggi, ma si discosta per il taglio interpretativo di tipo politico degli eventi storici. Dopo un primo libro che sintetizza gli eventi in Italia dalla caduta dell’impero romano alla fine del Trecento, nei tre successivi (II-IV) si passa alla storia di Firenze fino al 1434, quando Cosimo de’ Medici accentra il potere nelle sue mani. I restanti quattro libri (V-VIII) affrontano il periodo del dominio mediceo fino alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492). Probabilmente Machiavelli si ferma a Lorenzo de’ Medici per non essere costretto a esprimere giudizi sulla politica successiva dei Medici, che erano di fatto i committenti dell’opera. Il metodo di lavoro di Machiavelli come storico è sbrigativo e sostanzialmente discutibile: egli, infatti, non esercita alcun controllo critico sulle fonti utilizzate per i vari periodi (quasi esclusivamente cronache), né si preoccupa di consultare documenti d’archivio, come fece invece con estremo scrupolo Guicciardini. Soprattutto, l’autore altera spesso i dati, falsando la realtà storica, pur di dimostrare le proprie tesi politiche e avvalorare personali convinzioni. Nelle Istorie fiorentine non si deve dunque cercare l’esattezza dei dati storici: l’interesse dell’opera sta in una lettura degli eventi che è comunque politica, con lo sguardo sempre rivolto, anche quando si tratta di fatti del passato, alle più pressanti questioni della politica contemporanea.

Istorie fiorentine GENERE

opera storiografica

STRUTTURA

otto libri

DATAZIONE

1520-1525

MODELLI

storiografia umanistica e storici latini

METODO

sbrigativo, privo di controllo critico sulle fonti

CONTENUTO

storia di Firenze fino al 1492, anno della morte di Lorenzo il Magnifico

872 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli


4 L’“altro” Machiavelli: il letterato e il commediografo Machiavelli letterato Il nome di Machiavelli non è legato soltanto alla produzione politica per la quale è celebre. Intellettuale eclettico, spirito acuto e versatile, lo scrittore fiorentino si distinse per la sua originalità anche in altri campi della cultura letteraria del tempo. Machiavelli e la questione della lingua Anche Machiavelli partecipa al dibattito sulla lingua che nel primo Cinquecento coinvolge molti importanti letterati in Italia (➜ SCENARI, PAG. 561) con il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (1515 ca.). L’attribuzione del breve testo a Machiavelli non è però sicura, anche se alcune testimonianze (tra cui quella di un figlio) sembrano confermarla. L’opera potrebbe essere, secondo alcuni, la rielaborazione di un abbozzo dovuto a Machiavelli. Interessante nel Discorso è la concezione della lingua come organismo vivo, in continuo divenire; nel dibattito del tempo, che vede poi l’affermazione della proposta di Pietro Bembo, Machiavelli sostiene la superiorità del fiorentino dell’uso, essendo questa la base sulla quale erano stati generati i grandi capolavori del Trecento. Belfagor arcidiavolo Della sua attività di letterato ricordiamo, oltre ai Canti carnascialeschi, i Capitoli alla maniera del Berni e la divertente novella Il diavolo che prese moglie (detta anche Belfagor arcidiavolo), composta forse nel 1519-1520. La trama della novella riprende il vecchio tema misogino, consueto nella letteratura soprattutto medievale: l’arcidiavolo Belfagor è mandato sulla Terra in missione speciale per verificare l’affermazione di numerosi dannati, secondo cui causa della loro perdizione sia stata la donna. Il diavolo sceglie non a caso Firenze come sede della prova, perché proprio questa è città di «arti usuraie, di poca religione e di altri simili vitii ricolma». Assunta l’identità di un facoltoso cavaliere spagnolo, il diavolo prenderà moglie, sperimentando personalmente la folle attrazione per una donna superba e amante del lusso che lo porterà alla rovina. Dopo varie vicissitudini e dopo aver incontrato un contadino che ne sa… una più del diavolo, Belfagor se ne tornerà sollevato al suo inferno. L’interesse al genere della commedia La felice vena comica di Machiavelli si esprime però soprattutto nel genere elettivamente collegato al “riso”, ovvero la commedia: oltre alla Mandragola (1518), considerata unanimemente la più riuscita commedia del nostro teatro rinascimentale, compone la Clizia (la trama riprende la Casina di Plauto ed è incentrata sull’innamoramento di un vecchio, che finisce beffato) e traduce in volgare l’Andria di Terenzio. Luca Signorelli, dettaglio dei Dannati dell’inferno, 1499-1502 (Orvieto, Duomo, Cappella di San Brizio).

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5 La Mandragola Le circostanze di composizione, il prologo, l’intreccio VIDEOLEZIONE

Vocazione teatrale e inattività politica La Mandragola di Niccolò Machiavelli, l’autore del Principe, è la commedia più riuscita e nota del teatro italiano rinascimentale. Incontrò subito un grande successo: nel 1522 una rappresentazione a Venezia non poté addirittura essere terminata per la straordinaria affluenza di pubblico. Niccolò Machiavelli scrive la Mandragola probabilmente nel 1518, quando già da alcuni anni si trova estromesso dalle funzioni di Segretario della Repubblica fiorentina ed è costretto a una forzata inattività. Da questo periodo di esclusione dall’attività politica, di riflessione e di letture era già nato Il Principe (1513), trattatello nel quale Machiavelli aveva sintetizzato la sua esperienza e le sue osservazioni politiche. La Mandragola esprime la vocazione teatrale dell’autore e il suo straordinario estro comico. Il prologo Nel prologo sono espressamente nominati la città dove si svolge l’azione (Firenze) e i principali scenari che dovevano essere riprodotti dall’apparato scenico: la casa di Nicia, la chiesa e il convento di frate Timoteo (il confessore della protagonista femminile, Lucrezia). L’autore fa anche una prima, sintetica presentazione dei personaggi: messer Nicia, caratterizzato dalla stupidità e insieme dalla saccenteria, l’astuto Ligurio, organizzatore e regista della beffa, frate Timoteo («un frate malvissuto»), il vacuo Callimaco e la passiva Lucrezia. La seconda parte del prologo ha carattere autobiografico e consente di collocare nel tempo, almeno in modo approssimativo, la composizione dell’opera: l’autore sembra alludere alla propria dolorosa condizione di emarginazione dalla vita politica attiva quando si scusa con il pubblico per essersi dedicato – lui, uomo «saggio e grave» – a una materia leggera come quella della commedia; attraverso di essa, egli cerca di compensare «el suo tristo tempo [...] perch’altrove non have / dove voltare el viso / ché gli è stato interciso [precluso] / mostrar con altr’imprese altra virtù e / non sendo premio alle fatiche sue». Nel prologo, Machiavelli non anticipa invece in alcun modo l’argomento della commedia, né accenna al significato del titolo, che crea nel pubblico molte domande in grado di trovare risposta solo nel corso della rappresentazione. Il titolo e l’intreccio Il titolo della commedia prende spunto dal nome di una pianta (la mandragola appunto) cui nell’antichità venivano attribuite proprietà magiche. Nella superstizione popolare la radice della mandragola non poteva essere estratta senza pericolo, per cui ci si doveva servire di un cane, destinato a venire ucciso dal veleno della pianta. Da questo spunto derivano aspetti fondamentali nell’intreccio della commedia, di cui sintetizziamo la trama. Nicia, un vecchio dottore in legge, presuntuoso e credulone, da tempo (ma inutilmente) desidera avere dei figli dalla moglie Lucrezia, una donna bellissima e molto virtuosa. Di questo ardente desiderio della coppia e della balordaggine di Nicia approfitta il giovane Callimaco, perdutamente innamorato di Lucrezia. Con l’aiuto dello scaltro Ligurio, Callimaco si fa passare per un famoso medico e assicura a Nicia che Lucrezia riuscirà a rimanere incinta se berrà una pozione di mandragola. Lo avverte, però, che la prima persona che si unirà sessualmente a lei ne assorbirà il veleno e morirà dopo pochi giorni.

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Occorre quindi trovare qualcuno che si corichi con Lucrezia la prima notte dopo l’assunzione della pozione e muoia così al posto del marito (naturalmente nelle intenzioni di Ligurio e Callimaco questo qualcuno sarà Callimaco stesso in incognito, che potrà così unirsi all’amata Lucrezia). Il vero ostacolo non è lo sciocco Nicia, ma la virtuosa Lucrezia, la quale tuttavia cede alle insistenze della madre Sostrata e soprattutto alle spregiudicate “lezioni” del suo confessore, frate Timoteo. Al corrente del piano, egli usa cinicamente il suo sapere teologico e il formulario della Chiesa (Lucrezia è molto devota) per convincere la donna a un’azione immorale, che ripugna alla sua coscienza. Dopo la notte passata con Callimaco, Lucrezia, scoperto il piacere amoroso con il giovane amante e conosciuta la verità, si adatterà agli strani disegni del destino e acconsentirà a fare di Callimaco “il suo signore”.

tra tradizione e innovazione Ascendenze classiche e boccacciane La Mandragola rielabora con risultati di grande originalità molteplici spunti letterari ed è in questo piena espressione sia della cultura rinascimentale sia degli interessi umanistici e letterari di Machiavelli. Le fonti disseminate nel testo sono state analiticamente messe in luce da Ezio Raimondi. Innanzitutto le fonti classiche, come l’Andria di Terenzio, che Machiavelli aveva personalmente volgarizzato, e la poesia amorosa greco-latina, riconoscibile nell’autoritratto di Callimaco che si strugge d’amore (monologo dell’atto IV). Alla commedia latina rimandano in parte la tipologia di alcuni personaggi: il vecchio sciocco (Nicia), il parassita (Ligurio), il giovane innamorato infelice (Callimaco) e situazioni topiche come l’agnizione (cioè il riconoscimento finale) che chiude l’opera. Dal canto suo la casta Lucrezia, nel nome e nel comportamento virtuoso, non può non richiamare alla mente l’antica eroina romana, modello emblematico di virtù. Accanto alla presenza dei modelli classici, nella Mandragola è assai rilevante anche l’apporto del Decameron di Boccaccio, che non solo influenza la strutturazione di alcuni personaggi come frate Timoteo (innumerevoli sono nel Decameron gli esempi di frati immorali), ma fornisce anche lo spunto per motivi e situazioni, legate essenzialmente alla beffa.

La mandragola, in un’illustrazione dal Tacuinum sanitatis, sec. XV.

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La rivisitazione dei personaggi della tradizione Attraverso notazioni sociopsicologiche Machiavelli rivisita i tipi classici, trasformandoli in personaggi più realistici e moderni, che rispecchiano la sua pessimistica visione della società. Nicia: nel personaggio di Nicia Machiavelli fonde la tradizionale figura del vecchio babbeo (reinterpretato attraverso l’apporto del Calandrino boccacciano e del recentissimo Calandro del Bibbiena ➜ C16 T2 ) con quella moderna del pedante borioso. Rispetto al personaggio della commedia latina e allo sciocco della Calandria, Nicia è maggiormente caratterizzato, anche grazie al suo particolare linguaggio (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE, Il ritratto linguistico di Nicia OL) che assomma raffinatezze formali, il latino della legge e motti vernacolari ed espressioni gergali. Dietro la figura di Nicia si intravede il giudizio negativo di Machiavelli verso la società contemporanea: arrogante e presuntuoso, ma di fatto chiuso in ristretti orizzonti mentali e culturali, gretto e provinciale, cinicamente immorale ma timoroso dell’autorità, Nicia rappresenta un modello di umanità del tutto negativo. Callimaco: anche il personaggio di Callimaco è debitore di una tradizione ben nota al pubblico: incarna il tipo dell’amante malinconico e tormentato, preda della “malattia d’amore”, che si esprime in genere in un registro linguistico sostenuto. Ma anche nel caso di Callimaco le innovazioni non mancano, a cominciare dalla contaminazione, nel suo modo di esprimersi, di registro “alto” e “basso” (giustamente celebre è la scena, tra le più comiche della commedia, del consulto di Callimaco finto medico, tutta giocata sul contrasto fra il linguaggio dotto o presunto tale della medicina e le pesanti allusioni sessuali ➜ T14 ). Ma il contrasto percorre l’intera vicenda amorosa che ha Callimaco come protagonista, nella quale, come ha sottolineato il critico Davico Bonino, all’amore sublime, esaltato in modi lirici, si mescola un erotismo volgare cui danno voce quasi tutti i personaggi della Mandragola. Inoltre Callimaco non è il passivo innamorato che il pubblico si doveva aspettare, ma è a sua volta un machiavelliano uomo d’azione, determinato ad agire per ottenere quanto desidera (e quel che desidera non è genericamente l’amore, ma il possesso sessuale di Lucrezia).

La contiguità tra la Mandragola e Il Principe Una visione negativa dell’umanità A partire dal critico ottocentesco Francesco De Sanctis, la critica ha sempre sottolineato la sostanziale omogeneità tra Il Principe e la Mandragola per quanto riguarda la visione del mondo. Anche nella commedia, infatti, gli uomini sono rappresentati come «simulatori e dissimulatori», «cupidi di guadagno», tendenzialmente malvagi. Anche nella Mandragola ogni azione, ogni iniziativa è mossa dall’utile, in questo caso esclusivamente personale: Nicia in particolare, il personaggio più negativo della commedia, è disposto a prostituire la moglie e persino a uccidere un uomo innocente pur di avere figli (➜ T16 ); e questo non certo per ragioni affettive, ma esclusivamente economiche, avendo assoluto bisogno di un erede cui lasciare il suo cospicuo patrimonio. Anche il corrotto frate Timoteo (➜ T15 OL) mira all’utile nella sua cinica adesione al piano di Ligurio e persino la virtuosa Lucrezia cerca di “comprare” la grazia della sospirata maternità attraverso estenuanti pratiche religiose e soprattutto, anche se dopo aver resistito a lungo, acconsente alla sconcia proposta del marito, complici la madre e il turpe confessore.

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Ma la parentela della Mandragola con il celebre trattato politico non riguarda solo la comune rappresentazione di una “realtà effettuale” che ben poco spazio lascia a motivazioni ideali, ma si può cogliere anche in singoli temi e comportamenti dei personaggi, nei quali si riflettono le più note componenti dell’ideologia machiavelliana. Ad esempio il culto dell’azione lucidamente progettata e razionalmente realizzata, sempre celebrato nel Principe, si manifesta nella Mandragola attraverso il personaggio di Ligurio (secondo alcuni critici vero centro dell’ideazione della commedia), il freddo regista dell’azione. Ligurio è indotto a ideare la beffa non da una meschina sete di guadagno ma unicamente dal desiderio di veder realizzato il suo astuto progetto. In questo personaggio “machiavelliano” si proietta forse, come da qualcuno è stato suggerito, l’autore stesso, che compensa nella progettualità di Ligurio, nel suo piano perfetto in ogni dettaglio, la sua frustrazione di uomo attivo costretto all’inerzia dell’esilio. Del resto anche la caratterizzazione linguistica di Ligurio è particolarmente vicina alle modalità analitiche tipiche dell’argomentare machiavelliano. Persino nella condotta della bella Lucrezia, il personaggio forse più “dinamico” della commedia, si può in controluce leggere la lezione del politico Machiavelli. Il suo brusco cambiamento di vedute dopo la notte passata con Callimaco e dopo aver da lui appreso la verità (➜ T16 ), ha dato luogo a contrastanti interpretazioni (vi accenniamo in Esercitare le competenze). Secondo Davico Bonino la scelta di Lucrezia di diventare stabilmente l’amante di Callimaco è una scelta lucida e razionale che tiene conto della realtà “effettuale” delle cose: essa si adatta, con duttilità tutta machiavelliana, all’andamento della Fortuna, così da assicurarsi dei vantaggi (non solo la sospirata prole, ma la più immediata e sicura felicità sessuale non conosciuta con il vecchio marito).

Mandragola GENERE

commedia

DATAZIONE

1518

MODELLI

commedia di Plauto e Terenzio; Boccaccio

TITOLO

prende spunto dalla pianta della mandragola che, secondo gli antichi, aveva proprietà magiche

TEMI

• tema della beffa erotica • visione pessimistica della natura umana

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Niccolò Machiavelli

T14

Callimaco, finto medico, propone a Nicia il rimedio della mandragola Mandragola, II, 6

N. Machiavelli, Mandragola, a cura di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1980

Dietro suggerimento di Ligurio, il giovane Callimaco, innamorato di Lucrezia, si presenta al marito di lei, Nicia, nelle vesti di un medico di fama, venuto da Parigi: egli potrà risolvere il problema che lo affligge, ovvero il non riuscire ad avere figli da Lucrezia (atto II, scena 2). Nel primo incontro con Nicia, Callimaco colpisce il vecchio sciocco per la sua dottrina, esposta attraverso sapienti citazioni mediche in latino. Nella sesta scena, qui presentata, Callimaco dialoga con Nicia alla presenza di Ligurio e prospetta una possibile soluzione alla sterilità della moglie: una miracolosa pozione di mandragola che Lucrezia dovrà ingerire se vorrà rimanere incinta. Ma c’è un problema...

ATTO SECONDO SCENA SESTA Ligurio, Callimaco, messer Nicia. LIGURIO El dottore fia facile a persuadere; la difficultà fia la donna1, ed a questo 5 non ci mancherà modo. CALLIMACO Avete voi el segno2? NICIA E’ l’ha Siro, sotto3. CALLIMACO Dàllo qua. Oh! questo segno mostra debilità4 di rene. NICIA Ei mi par torbidiccio; eppur l’ha fatto ora ora. 10 CALLIMACO Non ve ne maravigliate. Nam mulieris, urinae sunt semper maioris grossitiei et albedinis, et minoris pulchritudinis quam virorum. Huius autem, in caetera, causa est amplitudo canalium, mixtio eorum quae ex matrice exeunt cum urinis5. NICIA Oh! uh! potta di san Puccio6! Costui mi raffinisce in tralle mani7; guarda 15 come ragiona bene di queste cose! CALLIMACO Io ho paura che costei non sia, la notte, mal coperta8, e per questo fa l’orina cruda9. NICIA Ella tien pure adosso un buon coltrone10; ma la sta quattro ore ginocchioni ad infilzar paternostri, innanzi che la se ne venghi al letto11, ed è una bestia a patir 20 freddo12.

1 El dottore... fia la donna: Sarà facile convincere Nicia (il dottore, qui nel senso più generale del termine: Nicia è infatti notaio), la difficoltà sarà (fia) convincere la donna (cioè Lucrezia). 2 el segno: l’indicatore; nella scena seconda Callimaco aveva richiesto un campione di urina di Lucrezia per poter formulare una diagnosi corretta. 3 E’ l’ha Siro, sotto: Ce l’ha Siro, sotto (probabilmente sotto il mantello). Siro è il servo di Callimaco. 4 debilità: debolezza.

5 Nam mulieris... cum urinis: Callimaco, avendone sperimentato l’efficacia presso Nicia, gioca nuovamente, per accreditarsi presso il vecchio, l’arma della citazione latina (traduzione: “Infatti le urine della donna sono sempre di maggior densità e bianchezza e di minor bellezza di quelle degli uomini. Causa di ciò, oltre al resto, è l’ampiezza dei canali e la mescolanza con l’urina di ciò che esce dalla vagina”). 6 potta di san Puccio: esclamazione volgare; potta è l’organo sessuale femminile.

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7 mi raffinisce... tralle mani: costui mi diventa sempre più raffinato. 8 Io ho paura... mal coperta: Callimaco usa un malizioso doppio senso, ipotizzando che madonna Lucrezia sia forse poco coperta di notte e alludendo alla scarsità di rapporti sessuali con il vecchio marito. 9 cruda: alterata, torbida. 10 coltrone: coperta spessa. 11 innanzi che… al letto: prima che se ne venga a letto. 12 è una bestia a patir freddo: è capace di sopportare il freddo come una bestia.


CALLIMACO Infine, dottore, o voi avete fede in me, o no; o io vi ho ad13 insegnare un rimedio certo, o no. Io, per me, el rimedio vi darò. Se voi arete14 fede in me, voi lo piglierete; e se, oggi ad uno anno15, la vostra donna non ha un suo figliolo in braccio, io voglio avervi a donare dumilia ducati16. 25 NICIA Dite pure, ché io son per farvi onore di tutto, e per credervi piú che al mio confessoro17. CALLIMACO Voi avete ad intender questo, che non è cosa piú certa18 ad ingravidare una donna che dargli bere19 una pozione fatta di mandragola. Questa è una cosa esperimentata da me dua paia di volte20, e trovata sempre vera; e, se non era 30 questo, la reina di Francia sarebbe sterile, ed infinite altre principesse di quello stato. NICIA È egli possibile21? CALLIMACO Egli è come io vi dico. E la Fortuna vi ha intanto22 voluto bene, che io ho condutto qui meco tutte quelle cose23 che in quella pozione si mettono, e potete averla a vostra posta24. 35 NICIA Quando l’arebbe ella a pigliare25? CALLIMACO Questa sera dopo cena, perché la luna è ben disposta, ed el tempo non può essere piú appropriato. NICIA Cotesto non fia molto gran cosa. Ordinatela in ogni modo: io gliene farò pigliare. 40 CALLIMACO E’ bisogna ora pensare a questo: che quello uomo che ha prima a fare seco26, presa che l’ha, cotesta pozione, muore infra otto giorni, e non lo camperebbe27 el mondo. NICIA Cacasangue28! Io non voglio cotesta suzzacchera29! A me non l’apiccherai tu! Voi mi avete concio30 bene! 45 CALLIMACO State saldo, e’ ci è rimedio. NICIA Quale? CALLIMACO Fare dormire súbito con lei un altro che tiri, standosi seco una notte, a sé31 tutta quella infezione della mandragola: dipoi vi iacerete voi sanza periculo32. NICIA Io non vo’ far cotesto. 50 CALLIMACO Perché? NICIA Perché io non vo’ fare la mia donna femmina e me becco33. CALLIMACO Che dite voi, dottore? Oh! io non vi ho per savio34 come io credetti. Sí che voi dubitate35 di fare quel lo che ha fatto el re di Francia e tanti signori quanti sono là?

13 vi ho ad: devo. 14 arete: avrete. 15 oggi ad uno anno: tra un anno a par-

23 quelle cose: quegli ingredienti. 24 posta: disposizione. 25 l’arebbe ella a pigliare: dovrebbe bere

tire da oggi.

questa pozione. 26 che ha… fare seco: che ha a che fare con lei (nel senso di “unirsi sessualmente a lei”) per primo (dopo l’assunzione della mandragola). 27 camperebbe: salverebbe. 28 Cacasangue: imprecazione volgare. 29 suzzacchera: porcheria. 30 concio: conciato. Nicia dà naturalmente per scontato di essere l’unico, in quanto

16 voglio… ducati: mi impegno a darvi duemila ducati. 17 confessoro: confessore. 18 certa: sicura. 19 dargli bere: darle da bere. 20 dua paia di volte: moltissime volte. 21 È egli possibile: egli è pleonastico, come Egli subito sotto. 22 intanto: tanto.

legittimo marito, a giacere con Lucrezia e si ribella dunque, con colorite espressioni popolari, alla possibilità di morire pur di assicurarsi una discendenza. 31 tiri... a sé: attiri su di sé, assorba. 32 dipoi... sanza periculo: poi potrete unirvi a lei senza più pericolo. 33 io non vo’... becco: io non voglio fare di mia moglie una donna di facili costumi (femmina) e me stesso cornuto (becco). 34 non vi ho per savio: non vi vedo saggio. 35 dubitate: esitate.

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NICIA Chi volete voi che io truovi che facci cotesta pazzia? Se io gliene dico, e’ non vorrà; se io non gliene dico, io lo tradisco, ed è caso da Otto36: io non ci voglio capitare sotto male. CALLIMACO Se non vi dà briga37 altro che cotesto, lasciatene la cura a me. NICIA Come si farà? 60 CALLIMACO Dirovelo38: io vi darò la pozione questa sera dopo cena; voi gliene darete bere e, súbito, la metterete nel letto, che fieno39 circa a quattro ore di notte. Dipoi ci travestiremo, voi, Ligurio, Siro ed io, e andrencene40 cercando in Mercato Nuovo, in Mercato Vecchio, per questi canti41; ed el primo garzonaccio che noi troveremmo scioperato42 lo imbavagliereno, ed a suon di mazzate lo condurreno in casa 65 ed in camera vostra al buio. Quivi lo mettereno nel letto, direngli quel che gli abbia a fare, non ci fia difficultà veruna43. Dipoi, la mattina, ne manderete colui44 innanzi dí, farete lavare la vostra donna, starete con lei a vostro piacere e sanza periculo. NICIA Io sono contento, poiché tu di’ che e re e principi e signori hanno tenuto questo modo. Ma sopratutto, che non si sappia, per amore degli Otto! 70 CALLIMACO Chi volete voi che lo dica? NICIA Una fatica ci resta, e d’importanza. CALLIMACO Quale? NICIA Farne contenta mogliama, a che io non credo che la si disponga mai45. CALLIMACO Voi dite el vero. Ma io non vorrei innanzi essere marito, se io non 75 la disponessi a fare a mio modo. LIGURIO Io ho pensato el rimedio. NICIA Come? LIGURIO Per via del confessoro46. CALLIMACO Chi disporrà47 el confessoro, tu? 80 LIGURIO Io, e danari, la cattività nostra, loro48. NICIA Io dubito, non che altro, che per mio detto49 la non voglia ire50 a parlare al confessoro. LIGURIO Ed anche a cotesto è51 remedio. CALLIMACO Dimmi. 85 LIGURIO Farvela condurre alla madre. NICIA La le presta fede52. LIGURIO Ed io so che la madre è della opinione nostra. Orsú! Avanziam tempo53, ché si fa sera. Vatti, Callimaco, a spasso, e fa’ che alle ventitré ore noi ti ritroviamo in casa con la pozione ad ordine54. Noi n’andreno a casa la madre55, el dottore ed 55

36 è caso da Otto: è un caso da tribunale (penale) degli Otto (Nicia, che è uomo di legge, si preoccupa delle conseguenze penali del gesto che Callimaco gli propone). 37 Se non vi dà briga: Se non vi preoccupa. 38 Dirovelo: Ve lo dirò. 39 fieno: saranno. 40 andrencene: ce ne andremo. 41 per questi canti: in queste zone. Si tratta di zone popolari di Firenze. 42 el primo... scioperato: il primo giovinastro che troviamo sfaccendato. 43 non ci fia… veruna: non ci sia alcuna difficoltà.

44 ne manderete colui: lo manderete via. 45 Farne contenta… mai: Convincere mia moglie (mogliama) a fare ciò che non credo possa mai accettare. 46 Per via del confessoro: Per mezzo del suo confessore. Costui è frate Timoteo, che è presentato nel prologo come frate malvissuto. 47 disporrà: convincerà. 48 Io… loro: Io, e il danaro (convinceremo il confessore), la nostra malizia (convincerà) loro. Alla “qualità” della malizia, Ligurio aggiunge la forza di convincimento del denaro a cui frate Timoteo è molto sensibile.

880 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

Infatti Ligurio si farà dare da Nicia venticinque ducati, che a ogni buon conto serviranno per convincere il frate a farsi strumento del piano presso la casta Lucrezia. 49 per mio detto: in seguito alle mie parole. 50 la non voglia ire: non voglia andare (latinismo). 51 è: c’è. 52 La le presta fede: Si fida di lei. 53 Avanziam tempo: Sbrighiamoci. 54 ad ordine: pronta. 55 a casa la madre: a casa della madre.


io, a disporla, perché è mia nota56. Poi n’andreno al frate, e vi raguagliereno di quello che noi aren57 fatto. CALLIMACO Deh! non mi lasciar solo. LIGURIO Tu mi par’ cotto58. CALLIMACO Dove vuoi tu ch’io vadia59 ora? 95 LIGURIO Di là, di qua, per questa via, per quell’altra: egli è sí grande Firenze! CALLIMACO Io son morto60. 90

56 mia nota: mia conoscenza. Ligurio sa, appunto, che la madre non è donna di specchiata virtù come invece la figlia Lucrezia.

57 aren: avremo. 58 cotto: tutto preso d’amore.

59 vadia: vada. 60 Io son morto: per l’attesa angosciosa.

Analisi del testo Un personaggio negativo La figura di Nicia è certo quella che maggiormente resta impressa nel lettore e che più dovette colpire i primi spettatori della commedia, se è vero che Machiavelli stesso parlava della sua opera come della «commedia di Nicia». Molto spesso presente sulla scena, centro dell’azione drammaturgica, la figura di Nicia deriva dalla fusione tra il personaggio, tradizionale nella commedia classica, del vecchio sciocco e credulone, e la figura reale, assai diffusa nella società del tempo, dell’umanista pedante, amante di un sapere paludato e cultore della lingua latina. Ma, al di là dei modelli, Machiavelli conferisce a Nicia una spiccata personalità che lo sottrae alla tipizzazione: supponente, arrogante, anche egoista e di vedute meschinamente ristrette al proprio interesse, cinico e amorale (egli è davvero convinto che sarà commesso un omicidio, ma gli basta solo di non esserne accusato), Nicia è un personaggio completamente negativo, che riassume in sé quel capovolgimento totale dei valori che costituisce il significato finale della commedia. Nella scena appena letta, il finto medico Callimaco, che già in precedenza ha giocato la carta del “latinorum” per far colpo su di lui, finge di dare una valutazione diagnostica dell’urina della moglie e sfodera nuovamente una dottissima citazione in latino che fa andare in visibilio Nicia, abbattendo in lui ogni senso critico, ogni capacità di giudizio: non immagina nemmeno lontanamente di essere vittima di una crudele beffa. Il suo borioso sapere è insufficiente a fargli balenare almeno un dubbio di fronte alle proposte assurde di Callimaco.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale effetto dovrebbe produrre la pozione di mandragola? ANALISI 2. In cosa consiste l’inganno teso a Nicia da Ligurio e Callimaco? Qual è lo scopo della beffa? 3. Dietro le quinte Ligurio è il vero stratega dell’intera beffa. In questa specifica scena interviene solo alla fine, ma il suo suggerimento è fondamentale per la realizzazione del piano: in cosa consiste? STILE 4. Sai rintracciare nel testo un esempio di uso equivoco del linguaggio a fini comici? Per aiutarti: è Callimaco a utilizzare una espressione “a doppio senso”.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 5. Immagina che Nicia in realtà non sia affatto sciocco e credulone e che abbia ben chiara la beffa di Callimaco. Scrivi una scena nella quale Nicia ordisca un inganno ai danni del giovane, per ripagarlo della stessa moneta.

online T15 Niccolò Machiavelli

Un capolavoro di cinismo e abilità retorica: l’“orazion picciola” di frate Timoteo Mandragola, III, 11

Machiavelli politologo, storico e letterato 3 881


Niccolò Machiavelli

La metamorfosi di madonna Lucrezia e un ambiguo “lieto fine”

T16

Mandragola V, 4-6 Nel quarto atto il piano di Ligurio viene messo in atto: Callimaco assume i panni di un ragazzotto che avanza cantando nella notte sul suo liuto. Tutti gli altri si travestono, compreso Nicia e frate Timoteo, che di fronte a Nicia fa finta di essere Callimaco. Il ragazzotto viene catturato. Passata la notte, nel quinto atto, il giovane viene cacciato dalla casa di Nicia e minacciato di ripercussioni a meno di un totale silenzio sulla vicenda. Nicia rievoca per gli amici e complici come l’abbia messo nel letto della moglie e come abbia voluto personalmente controllare che tutto fosse a posto e che il giovane si unisse veramente a Lucrezia, così che la mandragola potesse esercitare la sua funzione. Callimaco si confida con Ligurio e gli riferisce come Lucrezia, una volta venuta a conoscenza della verità (l’inganno ordito ai danni di Nicia e la passione di Callimaco per lei) decide di diventare, per sua libera scelta questa volta, la sua amante per sempre: sia per vendicarsi dello sciocco marito sia, e soprattutto, perché ha sperimentato in quella notte d’amore la differenza tra un marito vecchio e un amante giovane.

N. Machiavelli, Mandragola, a cura di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1980

ATTO QUINTO SCENA QUARTA Callimaco, Ligurio. CALLIMACO Come io ti ho detto, Ligurio mio, io stetti di mala voglia infino alle nove ore; e, benché io avessi gran piacere, e’ non mi parve buono1. Ma, poi che io me le fu’ dato a conoscere, e ch’io l’ebbi dato ad intendere l’amore che io le portavo, e quanto facilmente, per la semplicità del marito, noi potavamo viver felici sanza infamia alcuna2, promettendole che, qualunque volta Dio facessi altro di lui, di prenderla per donna3; ed avendo ella, oltre alle vere ragioni, gustato che diffe10 renzia è dalla ghiacitura mia a quella di Nicia, e da e baci d’uno amante giovane a quelli d’uno marito vecchio4, doppo qualche sospiro, disse: – Poiché l’astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia5 del mio confessoro mi hanno condutto a fare quello che mai per me medesima arei fatto6, io voglio giudicare che venga da una celeste disposizione7, che abbi voluto cosí, e 15 non sono sufficiente a recusare8 quello che ’l Cielo vuole che io accetti. Però9, io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che 5

1 benché io avessi... non mi parve buono: Callimaco, dopo essersi unito a Lucrezia, ha come un ripensamento morale, che comunica a Ligurio: il piacere avuto (’e con ripresa pleonastica) non gli era sembrato onesto (buono). 2 Ma, poi che... alcuna: Callimaco racconta a Ligurio di aver rivelato a Lucrezia la verità e l’amore che le portava e di averle suggerito che avrebbero potuto vivere felici senza disonore (infamia) grazie alla stupidità (semplicità) del marito.

3 promettendole che... per donna: Callimaco inoltre promette a Lucrezia che l’avrebbe presa come moglie (donna: latinismo da domina, “signora”) quando (qualunque volta) Dio avesse chiamato a sé Nicia. 4 avendo ella... vecchio: certamente Lucrezia ha compreso le “vere ragioni” avanzate da Callimaco (ovvero il suo sincero amore per lei) per l’inganno di cui ingenuamente è stata vittima; ma soprattutto ha potuto apprezzare la sensibile differen-

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za tra il modo di far l’amore di Callimaco (ghiacitura mia), amante giovane, rispetto a quello di Nicia, vecchio marito. 5 tristizia: malvagità, corruzione. 6 quello che... arei fatto: quello che per mia volontà mai avrei fatto. 7 io voglio... disposizione: io voglio pensare che (quanto è successo) sia il frutto di una decisione divina. 8 recusare: rifiutare. 9 Però: Perciò.


sia ogni mio bene; e quel che ’l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch’egli abbia sempre10. Fara’ti adunque suo compare11, e verrai questa mattina a la chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi; e l’andare e lo stare starà a te12, e 20 potreno ad ogni ora e sanza sospetto convenire insieme13. – Io fui, udendo queste parole, per morirmi per la dolcezza. Non potetti rispondere a la minima parte di quello che io arei desiderato. Tanto che io mi truovo el più felice e contento uomo che fussi mai nel mondo; e, se questa felicità non mi mancassi14 o per morte o per tempo15, io sarei più beato ch’e beati, più santo ch’e santi. 25 LIGURIO Io ho gran piacere d’ogni tuo bene, ed ètti intervenuto quello che io ti dissi appunto16. Ma che facciàn noi ora? CALLIMACO Andian verso la chiesa, perché io le promissi d’essere là, dove la verrà lei, la madre ed il dottore. LIGURIO Io sento toccare l’uscio suo: le sono esse, che escono fuora, ed hanno 30 el dottore drieto17. CALLIMACO Avviànci in chiesa, e là aspetteremole18.

SCENA QUINTA Messer Nicia, Lucrezia, Sostrata. NICIA Lucrezia, io credo che sia bene fare le cose con timore di Dio, e non alla pazzeresca19. LUCREZIA Che s’ha egli a fare, ora? NICIA Guarda come la risponde! La pare un gallo20! SOSTRATA Non ve ne maravigliate: ella è un poco alterata. LUCREZIA Che volete voi dire? 40 NICIA Dico che gli è bene che io vadia innanzi a parlare al frate, e dirli che ti si facci incontro in sull’uscio della chiesa, per menarti in santo21, perché gli è proprio, stamani, come se tu rinascessi22. LUCREZIA Che non andate? NICIA Tu se’ stamani molto ardita! Ella pareva iersera mezza morta. 45 LUCREZIA Egli è la grazia vostra! SOSTRATA Andate a trovare el frate. Ma e’ non bisogna23, egli è fuora di chiesa. NICIA Voi dite el vero. 35

10 quel che... sempre: con una punta di vendicativa saggezza femminile, Lucrezia decide che quello che il marito, per sua stupidità, ha voluto una sera (ovvero che lei si unisse a Callimaco) debba averlo per sempre (e cioè Lucrezia decide di divenire per sempre l’amante di Callimaco). 11 Fara’ti... compare: Ti farai dunque suo compare (padrino di battesimo o, almeno, un amico di famiglia, cioè una figura quasi parentale, ammessa all’intimità della vita della famiglia). 12 e l’andare e lo stare starà a te: e sce-

glierai tu quando stare con noi e quando andartene. 13 convenire insieme: incontrarci. 14 mi mancassi: mi mancasse. 15 per tempo: per il trascorrere del tempo. 16 ètti intervenuto... appunto: ti è successo proprio quello che ti avevo detto. Ossia Callimaco è riuscito ad avere Lucrezia. 17 drieto: dietro. 18 Avviànci… aspetteremole: Avviamoci verso la chiesa e là le aspetteremo.

19 alla pazzeresca: senza ragionare. 20 La pare un gallo: Nicia avverte nella moglie un atteggiamento più aggressivo.

21 menarti in santo: condurti personalmente dentro la chiesa. 22 perché gli è... rinascessi: perché stamattina è come se tu fossi rinata. L’espressione suona equivoca: effettivamente c’è ormai una “nuova” Lucrezia, ma perché ha sperimentato il vero amore e perché si è verificata in lei una fondamentale presa di coscienza. 23 Ma e’ non bisogna: Non occorre.

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SCENA SESTA Fra’ Timoteo, messer Nica, Lucrezia, Callimaco, Ligurio, Sostrata. FRATE Io vengo fuora, perché Callimaco e Ligurio m’hanno detto che el dottore e le donne vengono alla chiesa. Eccole. NICIA Bona dies24, padre! FRATE Voi sete le ben venute, e buon pro vi faccia, madonna, che Dio vi dia a fare un bel figliuolo mastio25! 55 LUCREZIA Dio el voglia! FRATE E’ lo vorrà in ogni modo. NICIA Veggh’io in chiesa Ligurio e maestro Callimaco? FRATE Messer sí. NICIA Accennategli26. 60 FRATE Venite! CALLIMACO Dio vi salvi! NICIA Maestro, toccate la mano qui alla donna mia. CALLIMACO Volentieri. NICIA Lucrezia, costui è quello che sarà cagione che noi aremo uno bastone che 65 sostenga la nostra vecchiezza27. LUCREZIA Io l’ho molto caro, e vuolsi che sia nostro compare. NICIA Or benedetta sia tu! E voglio che lui e Ligurio venghino stamani a desinare con esso noi. LUCREZIA In ogni modo. 70 NICIA E vo’ dar loro la chiave della camera terrena d’in su la loggia, perché possino tornarsi quivi a loro comodità, che non hanno donne in casa, e stanno come bestie28. CALLIMACO Io l’accetto, per usarla quando mi accaggia29. FRATE Io ho avere e danari per la limosina30. 75 NICIA Ben sapete come, domine, oggi vi si manderanno. LIGURIO Di Siro non è uomo che si ricordi31? NICIA Chiegga, ciò che i’ ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti grossi32 hai a dare al frate, per entrare in santo? LUCREZIA Io non me ne ricordo. 80 NICIA Pure, quanti? LUCREZIA Dategliene dieci. NICIA Affogaggine33! FRATE E voi, madonna Sostrata, avete, secondo che mi pare, messo un tallo in sul vecchio34. 50

24 Bona dies: Buon giorno. 25 mastio: maschio. 26 Accennategli: Fate loro cenno di avvicinarsi.

27 Lucrezia... la nostra vecchiezza: Nicia allude al fatto che, grazie al “medico” Callimaco, avranno un figlio che sarà un sostegno (uno bastone) alla loro vecchiaia. Ma l’autore equivoca maliziosamente su questo bastone di sostegno.

28 stanno come bestie: vivono in modo trascurato. 29 mi accaggia: mi capiti. 30 Io ho… limosina: Io devo avere i danari per l’elemosina. Frate Timoteo ricorda a Nicia che deve ancora avere il suo compenso. 31 Di Siro… si ricordi: Non c’è nessuno che si ricordi di Siro. 32 quanti grossi: quanti denari. Il grosso

884 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

è una moneta d’argento di valore variabile a seconda degli stati che ne facevano conio. 33 Affogaggine: Accipicchia (letteralmente: “affogamento”). 34 E voi... in sul vecchio: Timoteo dice a Sostrata che gli sembra ringiovanita. Per farlo usa una metafora d’ambito agricolo: innestare un pollone (tallo) nuovo su un vecchio tronco per rivitalizzarlo.


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SOSTRATA Chi non sarebbe allegra? FRATE Andianne35 tutti in chiesa, e quivi direno l’orazione ordinaria36. Dipoi, doppo l’ufizio, ne andrete a desinare a vostra posta37. – Voi, aspettatori, non aspettate che noi usciàn più fuora38: l’ufizio è lungo, io mi rimarrò in chiesa, e loro, per l’uscio del fianco39, se n’andranno a casa. Valete40.

35 Andianne: Andiamo. 36 quivi direno… ordinaria: qui diremo la preghiera di rito (per purificare la puerpera). 37 Dipoi… a vostra posta: Poi, dopo l’uf-

ficio (il rito religioso), andrete a pranzare dove vi pare. 38 usciàn più fuora: usciamo di nuovo (in scena).

39 per l’uscio del fianco: da un’uscita di scena, ai lati del palcoscenico.

40 Valete: in latino “State bene”. È un’usuale formula di saluto rivolta al pubblico.

Analisi del testo Un personaggio “dinamico”: la virtuosa Lucrezia Lucrezia è un personaggio ben poco presente sulla scena (compare solo alla fine del terzo atto), sebbene intorno a lei ruoti tutta l’azione della commedia a cominciare dal motore dell’azione stessa. La sua fisionomia come personaggio è costruita dagli altri; la donna non ha voce in capitolo fin quasi alla fine della commedia quando, con una sorprendente e inaspettata metamorfosi, prende nelle mani il proprio destino, capovolgendo i copioni che le sono stati imposti. Atto I, 1 Lucrezia è la donna di cui, a Parigi, viene decantata la bellezza e la virtù, così che Callimaco quasi se ne innamora solo “per fama” (un tema letterario, quello dell’innamoramento “da lontano” di antica ascendenza, ripreso anche dal Boccaccio nel Dec. VII, 7) e viene poi a sapere, giunto in Italia, che la realtà supera addirittura la fama. Atto II, 6 La seconda presentazione indiretta avviene attraverso le parole di Nicia, che presenta la donna come una che «sta quattro ore ginocchioni ad infilzar paternostri» prima di venire a letto e dubita, per la sua moralità, che possa essere convinta a quanto Callimaco, nei panni di un finto medico, suggerisce. Atto III, 2 Sempre attraverso la mediazione delle parole di Nicia veniamo a sapere che Lucrezia («la più dolce persona del mondo») è stata vittima proprio del comportamento di un uomo di Chiesa («uno di quei fratacchioni») che aveva tentato di insidiarla proprio mentre andava alle funzioni di buon mattino, avendo fatto voto (sempre per ottenere la sospirata maternità) di assistere a quaranta messe mattutine. Dopo quell’episodio la giovane è diventata sospettosa e guardinga. Atto III, 10 Il suo “doppio” in negativo è la madre Sostrata, un tempo donna di facili costumi, consigliera della figlia. È lei che la conduce da frate Timoteo, dopo averle spiegato la questione della mandragola. La giovane si ribella e le prime parole che pronuncia nella commedia sono per rifiutare la cosa vergognosa che le si chiede («avere a sottomettere el corpo mio a questo vituperio»). Pochissime sono le parole pronunciate da Lucrezia nel colloquio con il frate e alla fine, per acconsentire, dopo molte perplessità, si affida alla misericordia e all’aiuto di Dio («Dio m’aiuti e la Nostra Donna»). Atto IV, 8 Nuovamente ritroviamo Lucrezia attraverso le parole di Nicia che racconta le molte resistenze fatte dalla moglie («questa mia pazza») per andare nel letto e ne riporta alcune frasi («Io non voglio!... Come farò io? Che mi fate voi fare?...»). Atto V, 4 Il più lungo discorso pronunciato da Lucrezia (che è però anche in questo caso assente dalla scena, poiché il suo discorso diretto è riportato da Callimaco) è successivo alla notte passata con Callimaco ed evidenzia con chiarezza la metamorfosi del personaggio.

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Questo è lo schema argomentativo del discorso di Lucrezia. a. Lucrezia premette che l’adulterio che ha commesso non è dipeso dalla sua volontà e inchioda alle loro responsabilità quelli che considera i fautori dell’azione commessa, associando a ognuno di essi una prerogativa: a Callimaco l’astuzia, a Nicia la sciocchezza, a Sostrata la semplicità (nel senso di “credulità”), a fra’ Timoteo la malvagità. b. Lucrezia ritiene inoltre che quanto è successo sia espressione di un disegno del Cielo, al quale non ha senso opporsi. c. Date le premesse a. e b., Lucrezia sceglie consapevolmente di diventare l’amante di Callimaco per sempre (e non solo per una sera, come aveva stabilito per lei il marito). Le parole con cui consacra Callimaco suo compagno reale di vita («io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore») hanno il tono solenne di un’investitura cavalleresca e rimandano d’altra parte alle parole con cui Dante designa Virgilio sua guida: «tu duca, tu segnore e tu maestro» (If II 140). d. Lucrezia, che appare nel resto dell’opera una debole donna alla mercé degli altri e degli eventi, rivela nella parte finale del suo discorso a Callimaco un inaspettato pragmatismo: pensa infatti anche agli espedienti pratici che potranno rendere agevoli i suoi incontri amorosi con Callimaco.

Un lieto fine? La commedia si conclude con il tradizionale lieto fine: tutti i personaggi sono soddisfatti e qualcuno ha avuto anzi di più rispetto alle aspettative: Callimaco in particolare non solo è riuscito a possedere la bella Lucrezia ma, al di là dei suoi sogni più rosei, ne ha ottenuto l’amore e la devozione; Lucrezia avrà probabilmente il figlio desiderato ma ha anche conosciuto l’amore; Nicia avrà il bambino cui lasciare il suo cospicuo patrimonio; fra’ Timoteo ha ricevuto i soldi per le sue elemosine; l’astuto Ligurio, regista spregiudicato della beffa, ha visto trionfare il suo piano. Tuttavia lo spettatore ne esce, più che con il riso, con un ghigno amaro che è forse quello stesso dell’autore (il critico Nino Borsellino parla di un «lucido e pungente realismo che tuttavia non sa nascondere l’amarezza»). Lo spettatore ha infatti la percezione che il lieto fine sia costruito sul totale rovesciamento di ogni valore: ogni personaggio è chiuso nei propri egoistici interessi, perseguiti in una realtà squallida dominata dal deserto di ogni ideale. Degno epilogo della commedia è allora la conclusione: il rito di purificazione generale nella chiesa, in cui Nicia consegna, senza saperlo, la giovane sposa al nuovo “marito”, invitando i due a darsi la mano, costituisce un beffardo rovesciamento del rito nuziale e segna il trionfo dell’ipocrisia e dell’inganno.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza i contenuti di ogni scena in 2-3 righe assegnando a ciascuna un breve titolo. COMPRENSIONE 2. Quale significato riveste il fatto che Lucrezia non parli quasi mai direttamente e siano sempre gli altri a parlare di lei o a riferire i suoi discorsi? ANALISI 3. Nella scena quinta, Nicia rileva un cambiamento nel carattere di Lucrezia: come si può spiegare?

Interpretare

SCRITTURA 4. La brusca metamorfosi di Lucrezia è stata diversamente interpretata dalla critica. • La trasformazione avrebbe al suo centro soprattutto la scoperta del piacere sessuale e quindi sarebbe un esempio della visione laica dell’amore come esperienza naturale già presente in Boccaccio e diffusa in alcuni ambiti. In questa prima ipotesi la trasformazione del personaggio sarebbe approvata dall’autore come una liberazione da un ruolo costrittivo e formale. • La trasformazione avrebbe il carattere di uno “svelamento” della vera natura del personaggio, una natura cinicamente egoista che la virtù avrebbe soltanto mascherato. In questo caso anche Lucrezia si iscriverebbe nel quadro complessivo del “sistema dei personaggi”.

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• La trasformazione di Lucrezia sarebbe in linea con quanto Machiavelli afferma ne Il Principe a proposito della fortuna (cap. XXV), quando osserva che è molto difficile accordare la propria natura alla «qualità de’ tempi» e quindi al variare delle situazioni; tuttavia, riescono vincitori sulla sorte proprio quelli che sono in grado di farlo. Presa coscienza dell’assoluta sproporzione delle sue qualità morali rispetto a un mondo dove tutti sono cinici e dissoluti, da suo marito a sua madre al suo confessore, Lucrezia sceglie di accettare ciò che è avvenuto, mutando la sua natura di donna virtuosa per adattarsi alla “realtà effettuale” e trovare, come gli altri, uno spazio di felicità personale. Quale delle tre interpretazioni della figura di Lucrezia giudichi più fondata? E perché? Dopo averla individuata, raccogli le tue riflessioni personali in un testo argomentativo.

Fissare i concetti Niccolò Machiavelli Ritratto d’autore 1. Per quale motivo nel 1512 Machiavelli viene esautorato dall’incarico che rivestiva? 2. In che modo Machiavelli poté fare «esperienzia delle cose moderne» (ovvero conoscere da vicino la politica)? 3. Con Machiavelli la politica si rende autonoma dalla morale. In che senso? 4. Quali caratteristiche presenta l’epistolario di Machiavelli? Il Principe 5. Con quale intento Machiavelli scrive Il Principe? 6. Quale struttura presenta l’opera? 7. Quale ritratto emerge del principe? 8. Lo stile del Principe viene definito “dilemmatico”. Perché? Machiavelli politologo, storico e letterato 9. A cosa si ispira Machiavelli per stendere i Discorsi? 10. Qual è il tema centrale del trattato? 11. Perché si può dire che il metodo adottato da Machiavelli nelle Istorie sia discutibile? 12. Quale aspetto può accomunare il Principe e la Mandragola? 13. Quale concezione della natura umana emerge nella Mandragola?

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Interpretazioni critiche Gennaro Sasso Il ritratto linguistico di Nicia

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Sguardo sul cinema Il cinema sul Rinascimento

Rappresentazione della Mandragola, gennaio 2011, costumi di Ula Shevtsov. Ph Daniel Kaminsky.

Machiavelli politologo, storico e letterato 3 887


Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita segnata dalla passione politica Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 da una famiglia colta e benestante, in grado di garantirgli una buona educazione umanistica: ambito di studio che il giovane sempre apprezzerà, prediligendo soprattutto gli storici greci e latini. Nel 1498, Machiavelli diventa Segretario alla seconda Cancelleria, responsabile degli affari interni ed esteri di Firenze: un ruolo prestigioso, cui si accompagnano compiti da osservatore militare e politico presso potentati italiani e stranieri. Nelle numerose missioni politico-diplomatiche in Italia e all’estero, fino al 1512, il funzionario può osservare all’opera lo spietato pragmatismo della “grande politica”: ciò, insieme alle lezioni apprese dalla lettura dei classici, starà alla base dell’ideazione del Principe e dei Discorsi. In queste occasioni, inoltre, Machiavelli può inquadrare con precisione la grave crisi degli stati italiani, militarmente deboli e politicamente instabili. Nel 1502-1503, Machiavelli incontra e conosce da vicino il duca Valentino, Cesare Borgia, che stava cercando di costruire uno stato forte nel centro d’Italia: la sua spregiudicatezza, furbizia e forza di volontà colpiscono il futuro scrittore, che ne richiamerà alcuni caratteri nel delineare la figura del principe. Nel 1506 propone di istituire una milizia cittadina a Firenze, ma il progetto risulta fallimentare: nel 1512, quando i Medici ritornano al potere, Machiavelli viene rimosso dall’incarico e mandato al confino, che trascorre all’Albergaccio, presso San Casciano, lontano dagli affari pubblici. Qui nascono le sue opere maggiori: Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ma anche la Mandragola e la novella Belfagor arcidiavolo; qui continuano anche gli scambi epistolari con amici stretti, come Guicciardini e Vettori, e le riunioni presso il cenacolo umanistico di Palazzo Rucellai. Nel 1520, Machiavelli riesce a riavvicinarsi ai Medici: ottiene un incarico come storico ufficiale e scrive le Istorie fiorentine. Revocata nel 1525 l’interdizione dai pubblici uffici, rivestirà ancora qualche incarico e parteciperà a missioni diplomatiche fino alla nuova cacciata della famiglia Medici. Muore nel 1527. Le lettere di Machiavelli: l’acuto osservatore politico e l’uomo Durante il periodo in cui serve la Repubblica Machiavelli scrive molte lettere: le missive rivelano una personalità perspicace, attenta e realista, ma capace anche di umorismo e immediatezza. Gli scambi epistolari più significativi avvengono con gli amici Francesco Vettori e Francesco Guicciardini, entrambi personaggi politicamente di primo piano.

2 Il Principe

Un “opuscolo” destinato a rivoluzionare i parametri della politica Il Principe è uno dei testi della cultura italiana più celebri nel mondo. È un trattato in ventisei capitoli dedicato a Lorenzo de’ Medici ed è stato scritto tra il 1513 e il 1514, durante il forzato ritiro di Machiavelli dall’attività politica. Il libro si configura come un esauriente trattato tecnico sulla politica, ma ha anche lo scopo

888 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli


di suggerire al principe strategie di azione in un momento politico-sociale difficile e di far guadagnare al suo autore l’attenzione dei potenti, per permettergli di riottenere il tanto agognato incarico diplomatico. I fondamenti metodologici del Principe Alla base dell’opera sta la concezione “naturalistica” dell’uomo, presente anche nei Discorsi. Per Machiavelli la natura umana non cambia con il trascorrere dei secoli e dunque è possibile fissare regole generali per il comportamento del politico ispirate al passato e valide per il futuro; questa natura, inoltre, è intrinsecamente malvagia. La politica deve tenere conto di questi due assiomi e rappresentare un rimedio agli egoismi dei singoli che, lasciati soli, tenderebbero all’anarchia. Per farlo, bisogna abbandonare le teorizzazioni troppo astratte e porre al centro del proprio ragionamento la «verità effettuale», cioè l’esperienza concreta. Questa prospettiva innovativa sconvolge i parametri di giudizio politico comuni nel Cinquecento. I temi chiave Lo scopo dell’opera porta l’autore a sostenere la tesi secondo cui i comportamenti dell’uomo di potere debbano essere valutati esclusivamente sulla base dei risultati che producono sul piano politico, nell’obiettivo di garantire l’efficienza di governo. In questa ottica pragmatica, le tradizionali virtù diventano qualità negative se nuocciono allo stato; al contrario, comportamenti e atteggiamenti disprezzabili possono essere valutati positivamente qualora siano finalizzati al bene della compagine pubblica. La politica, dunque, diventa “autoreferenziale”, nel senso che non è vincolata da alcuna altra legge se non da quella dell’efficienza, né si fonda su un sistema morale e religioso: essa detta da sola le proprie leggi ed è proprio questo che fonda la possibilità di trasformarla in scienza. Nell’ultima parte dell’opera, Machiavelli affronta il tradizionale tema del ruolo della fortuna sulle cose umane: essa è considerata come “occasione”, che la virtù (cioè le capacità) del principe può volgere a proprio favore; in generale, tuttavia, la si ritiene costituita da un insieme di forze terrene imprevedibili che possono inaspettatamente travolgere i progetti anche dei politici più “virtuosi”. L’unico modo di non esserne sopraffatti è che il principe abbia una natura e indole adattabile alle situazioni mutevoli oppure che, in mancanza di queste, egli sappia tenere almeno un atteggiamento irruento negli affari di governo. Nonostante l’azione della sorte e le difficoltà del contesto, Machiavelli non dispera che un’azione di forza, magari ad opera di un membro della casata dei Medici, possa riscattare l’Italia: nella chiusa del Principe, l’autore pone un capitolo nel quale la razionalità dello scienziato è sostituita dalla passione del politico, angosciato dalla «ruina» attuale della patria ma speranzoso della sua rinascita. Ottenere il consenso: strategie espositive ed espressive nel Principe Nel Principe, Machiavelli utilizza strategie retoriche al fine di ottenere il consenso del lettore (innanzitutto Lorenzo de’ Medici). Infatti, la trattazione di regole e precetti considerati oggettivi è associata a una narrazione-esposizione molto efficace, condotta in prima persona secondo un andamento “binario”. A queste modalità di analisi, in grado di conferire autorevolezza all’autore, segue l’uso assai frequente del tu; capace di instaurare una coinvolgente comunicazione dialogica che, però, vuole condurre il destinatario a un’interpretazione rigorosamente univoca delle questioni sottopostegli. Le argomentazioni, non a caso, si succedono con ritmo incalzante, enfatizzato da connettivi testuali di natura causale e da locuzioni che indicano necessità. A questo si accompagnano espressioni colloquiali e paragoni e immagini metaforiche assai impattanti. Per i propri obiettivi, Machiavelli sceglie il volgare, in contrasto con la tradizione dei trattati politici a lui coevi; lo utilizza per dare corpo a una prosa modellata sul fiorentino

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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parlato del suo tempo, nella quale accoglie sia termini colti e latinismi sia componenti popolaresche, dando origine a un impasto linguistico originale e significativo nella storia della letteratura italiana. Come fu letto Il Principe: una pagina fondamentale nella coscienza politica europea Il Principe è uno dei libri italiani più conosciuti nel mondo: un’opera che fin dalla sua prima apparizione ha fatto scalpore, stimolato la riflessione di grandi pensatori e suscitato forti polemiche. Pubblicato nel 1532, è subito oggetto di aspre critiche: nascono il fenomeno dell’antimachiavellismo e viene elaborata la categoria concettuale di machiavellico come sinonimo di “immorale, spregiudicato, cinico, perfidamente astuto, empio”. Nel 1559 il libro viene inserito nell’Indice dei libri proibiti, anche se alcuni pensatori in ambiente ecclesiastico si appropriano in modo camuffato delle acquisizioni metodologiche contenutevi per elaborare una sorta di “ragion di stato cattolica”. In Francia e in Inghilterra trova particolare seguito una nozione volgare di machiavellismo, inteso come ideologia politica elaborata da un personaggio malvagio che incita a comportamenti empi. Anche l’Illuminismo condanna inizialmente Il Principe, portatore di una concezione liberticida dello stato e della politica. L’Encyclopédie, tuttavia, inizia a teorizzare il cosiddetto «Machiavelli obliquo»: l’interpretazione, celebre fino al primo Novecento, secondo cui Il Principe sarebbe stato scritto con nobili scopi, ossia svelare ai sudditi il vero volto del potere. Machiavelli conosce grande fortuna più tardi, specialmente in Italia, come “profeta” dell’indipendenza e dell’unità nazionale durante l’età risorgimentale. In tempi più recenti la tendenza sicuramente emergente in ambito critico è, invece, la sempre più marcata storicizzazione del personaggio Machiavelli e della sua opera.

3 Machiavelli politologo, storico e letterato

I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: la lezione dell’Umanesimo I Discorsi sono un’opera di riflessione politica in tre libri a commento dei primi dieci libri dell’opera dello storico romano Tito Livio, motivata dalla convinzione che gli esempi positivi della storia passata possano e debbano essere imitati per risolvere i problemi politici del presente in virtù dell’immutabilità nel tempo della natura umana. Scritta probabilmente a più riprese (dal 1502-1512 al 1518), stimolata dalla frequentazione del circolo umanistico degli Orti Oricellari e pensata – al contrario del Principe – in un contesto tranquillo dal punto di vista generale e personale, l’opera focalizza l’attenzione al mantenimento degli Stati, assicurato, più che dalla virtù del singolo governante, dalle buone leggi, dalle istituzioni (come avvenne nella repubblica romana, dove esse nacquero come conseguenza della conflittualità della vita politica) e dalla coesione tra i cittadini, per la quale secondo Machiavelli ha un ruolo fondamentale il sentimento religioso. Da qui la critica alla Chiesa, che non solo ha ostacolato l’unità politica del Paese, ma ha contribuito, con lo spettacolo della sua corruzione morale, alla decadenza del sentimento religioso tra la popolazione. Dell’arte della guerra Machiavelli era fermamente convinto che l’uso di milizie mercenarie rappresentasse una debolezza per gli stati e per questo si fece promotore della dotazione di milizie proprie della Repubblica fiorentina. Nonostante gli esiti negativi del progetto, nel dialogo Dell’arte della guerra (1519-1520) in sette libri, lo scrittore ripropone il problema, che aveva già sollevato anche nel Principe. Nell’opera, Machiavelli affronta con competenza aspetti tecnici dell’arte militare.

890 Quattrocento e Cinquecento 17 Niccolò Machiavelli


Machiavelli storico: le Istorie fiorentine Le Istorie fiorentine (1520-1525) sono un’opera in otto libri sulla storia di Firenze che inizia la propria trattazione dalla caduta dell’Impero romano e si ferma alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492). Nella storia fiorentina, Machiavelli ricerca le cause della decadenza della città al suo tempo. La prospettiva con cui egli guarda al passato della città è politica più che storiografica, ed è accompagnata da un metodo discutibile che non attinge a documenti d’archivio e utilizza le fonti con eccessiva disinvoltura. L’“altro” Machiavelli: il letterato e il commediografo Oltre che politologo e storico, Machiavelli fu anche autore di testi più propriamente letterari. Tra di essi ricordiamo la novella Belfagor arcidiavolo. I testi letterari più importanti di Machiavelli sono però due commedie: la Clizia e, soprattutto, la Mandragola (1518), considerata la commedia più significativa del Cinquecento. L’opera, pur rifacendosi agli schemi e ai personaggi della commedia plautina e incorporando numerosi spunti – soprattutto classici e decameroniani – mostra tratti di originalità. Ambientata nella Firenze coeva, è incentrata su una beffa erotica. La visione fortemente pessimistica della natura umana accomuna l’opera al Principe.

Zona Competenze Competenze digitali

1. Illustra, attraverso una rappresentazione grafica o una mappa di studio, il rapporto tra Il Principe e i Discorsi.

Recensione

2. Immagina di scrivere una recensione letteraria del Principe, ipotizzando che sia un’opera appena pubblicata. 3. Scrivi una tua recensione della Mandragola che possa invogliare ad assistere a una rappresentazione teatrale: presenta a un ipotetico spettatore gli aspetti della commedia che ti sembrano più stimolanti e significativi.

Scrittura creativa

4. Immagina un personaggio (italiano o straniero) della scena politica di oggi a cui Machiavelli potrebbe indirizzare una versione del Principe. Prova quindi a scrivere, sulla falsariga di quella del Principe, una Dedica a questo personaggio che presenti le finalità e i contenuti dell’opera.

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Niccolò Machiavelli

«Della crudeltà e pietà» Il Principe, cap. XVII N. Machiavelli, Opere, vol. I, a cura di C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997

De crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri, vel e contra1. [Della crudeltà e pietà e s’elli è meglio esser amato che temuto, o più tosto temuto che amato] Scendendo appresso alle altre preallegate2 qualità, dico che ciascuno principe 5 debbe desiderare di essere tenuto pietoso e non crudele: non di manco debbe avvertire di non usare male questa pietà. Era tenuto Cesare Borgia crudele; non di manco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace et in fede3. Il che se si considerrà bene, si vedrà quello4 essere stato molto più pietoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire el nome del crudele, 10 lasciò destruggere Pistoia5. Debbe, per tanto, uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e’ sudditi sua uniti et in fede6; perché, con pochissimi esempli sarà più pietoso che quelli e’ quali, per troppa pietà, lasciono seguire e’ disordini, di che ne nasca occisioni o rapine7: perché queste sogliono offendere una universalità intera8, e quelle esecuzioni che vengono dal principe 15 offendono uno particulare9. Et intra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli. E Virgilio, nella bocca di Didone, dice: Res dura, et regni novitas me talia cogunt Moliri, et late fines custode tueri10. 20 Non di manco debbe essere grave11 al credere et al muoversi, né si fare paura da sé stesso, e procedere in modo temperato con prudenza et umanità, che la troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile. Nasce da questo una disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma 1 “Della crudeltà e pietà e se sia meglio essere amato che temuto, o viceversa”. 2 Scendendo…. preallegate: venendo alle qualità elencate in precedenza. Machiavelli si riferisce a quanto detto nel cap. XV del Principe. 3 aveva racconcia… in fede: aveva riportato l’ordine in Romagna, l’aveva riunificata, portata alla pace e all’ubbidienza. 4 quello: Cesare Borgia. 5 il populo… Pistoia: Pistoia era divisa nelle due fazioni dei

Cancellieri e dei Panciatichi e i fiorentini avevano favorito queste divisioni interne per conquistare più facilmente la città. Ottenuta la sottomissione di Pistoia, non ebbero la forza sufficiente per placare i tumulti. 6 in fede: fedeli. 7 pochissimi esempli… rapine: con pochissimi esempi di punizioni, sarà più clemente di quelli che, per eccesso di clemenza, permettono che avvengano disordini, dai quali derivano omicidi e rapine.

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8 universalità intera: l’intera cittadinanza. 9 uno particulare: un singolo. 10 Res dura… tueri: Eneide, Libro I, (vv. 563-564). “La dura necessità del governo e il regno di recente fondazione mi costringono ad agire in questo modo, e a controllare i confini con ampia custodia”. Sono i versi nei quali Didone si rivolge a Troiano Ilioneo che si era lamentato dell’ostilità dei fenici nei confronti dello sbarco dei troiani. 11 grave: cauto.


perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e’ figliuoli, come di sopra dissi12, quando il 30 bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina; perché le amicizie che si acquistano col prezzo, e non con grandezza e nobiltà di animo, si meritano, ma elle non si hanno, et a’ tempi non si possano spendere. E li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci 35 amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e 40 non odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognasse procedere contro al sangue di alcuno13, farlo quando vi sia iustificazione conveniente14 e causa manifesta; ma, sopra tutto, astenersi dalla roba d’altri; perché li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio. Di 45 poi, le cagioni del tòrre la roba non mancono mai; e, sempre, colui che comincia a vivere con rapina, truova cagione di occupare quel d’altri15; e, per adverso16, contro al sangue sono più rare e mancono più presto17. Ma, quando el principe è con li eserciti et ha in governo multitudine di soldati, allora al tutto è necessario non si curare del nome di crudele; perché sanza questo nome 50 non si tenne mai esercito unito né disposto ad alcuna fazione18. Intra le mirabili azioni di Annibale19 si connumera questa, che, avendo uno esercito grossissimo, misto di infinite generazioni di uomini, condotto a militare in terre aliene, non vi surgessi mai alcuna dissensione, né infra loro né contro al principe, cosí nella cattiva come nella sua buona fortuna. Il che non poté nascere da altro 55 che da quella sua inumana crudeltà, la quale, insieme con infinite sua virtù, lo fece sempre nel cospetto de’ suoi soldati venerando e terribile; e sanza quella, a fare quello effetto le altre sua virtù non li bastavano. E li scrittori poco considerati20, dall’una parte ammirano questa sua azione, dall’altra dannono21 la 25

12 come di sopra dissi: nel capitolo IX. 13 procedere… alcuno: condannare a morte qualcuno. 14 conveniente: adeguata. 15 colui che… d’altri: chi comincia a vivere di furti, trova la scusa di impadronirsi dei beni degli altri.

16 per adverso: al contrario. 17 mancono più presto: vengono meno, in concomitanza con il rafforzarsi del potere del principe. 18 fazione: impresa militare. 19 Annibale: grande condottiero cartaginese (247-183 a.C.), protagonista della II guerra pu-

nica contro Roma. Dopo aver varcato le Alpi con un esercito di 40.000 uomini, sconfisse i romani in più occasioni per essere poi vinto da Scipione nella battaglia di Zama del 202 a.C. 20 scrittori poco considerati: scrittori poco avveduti. 21 dannono: condannano.

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principale cagione di essa. E che sia vero che l’altre sua virtù non sarebbano 22 60 bastate, si può considerare in Scipione , rarissimo non solamente ne’ tempi sua, ma in tutta la memoria delle cose che si sanno, dal quale li eserciti sua in Ispagna si rebellorono. Il che non nacque da altro che dalla troppa sua pietà23, la quale aveva data a’ sua soldati più licenza24 che alla disciplina militare non si conveniva. La qual cosa li fu da Fabio Massimo25 in Senato rimproverata, 65 e chiamato da lui corruttore della romana milizia. E’ Locrensi, sendo stati da uno legato di Scipione destrutti, non furono da lui vendicati, né la insolenzia di quello legato corretta26, nascendo tutto da quella sua natura facile27; talmente28 che, volendolo alcuno in Senato escusare, disse come elli erano di molti uomini che sapevano meglio non errare, che correggere li errori. La qual 29 70 natura arebbe col tempo violato la fama e la gloria di Scipione, se elli avessi con essa perseverato nello imperio30; ma, vivendo sotto el governo del Senato, questa sua qualità dannosa non solum si nascose, ma li fu a gloria. Concludo adunque, tornando allo essere temuto et amato, che, amando li uomini a posta loro, e temendo a posta del principe31, debbe uno principe savio fondarsi in su 32 75 quello che è suo , non in su quello che è d’altri: debbe solamente ingegnarsi di fuggire lo odio, come è detto.

22 Scipione: Scipione l’Africano maggiore (235-183 a.C.), il vincitore di Annibale a Zama. Nel 206 a.C. aveva dovuto fronteggiare la ribellione del suo esercito in Spagna. 23 pietà: indulgenza. 24 licenza: libertà. 25 Fabio Massimo: Quinto Fa-

Comprensione e analisi

bio Massimo detto “il Temporeggiatore”, eletto dittatore dai romani nel 217 a.C. Fu avversario di Scipione. 26 corretta: punita. 27 facile: indulgente, accomodante. 28 talmente: al punto che. 29 violato: intaccato.

30 nello imperio: nel comando. 31 amando… principe: poiché gli uomini amano secondo il proprio arbitrio, ma temono secondo la volontà del principe. 32 suo: su ciò che gli appartiene; cioè il farsi temere dai sudditi, sui quali ha il controllo diretto.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il contenuto del capitolo. 2. Per quale motivo è preferibile, per un principe, essere temuto piuttosto che amato? 3. In quale punto risulta evidente il pessimismo antropologico di Machiavelli? 4. Chiarisci il senso dei riferimenti ad Annibale e Scipione. 5. Rintraccia nel testo qualche esempio di procedimento dilemmatico, tipico dello stile di Machiavelli.

Interpretazione

Machiavelli, come di consueto, per suffragare le proprie opinioni si appoggia, oltre che al racconto di fatti storici, anche all’autorità classica. Delinea un quadro del rapporto che si era instaurato con i “classici”, nel mondo letterario e delle arti figurative, nell’età umanisticorinascimentale.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da L. Olschki, Machiavelli scienziato, in «Il pensiero politico», 1969, n. 3

Machiavelli creò una «scienza nuova» al modo stesso in cui Galileo diede inizio, alla fine del secolo, ad una nuova scienza del moto e ad una nuova filosofia naturale: e cioè limitando i fenomeni alla loro propria sfera, come oggetti indipendenti di una metodica interpretazione. Quando infatti Galileo, nel 1590, decise di scoprire non perché, ma come i corpi cadono, la scienza naturale venne ad essere separata da tutte le implicazioni metafisiche, ontologiche e morali cui era stata sin’allora unita in un sistema universale del conoscere. In entrambi i casi i due grandi Fiorentini compresero che la prima condizione per osservare direttamente la vera natura dei fenomeni umani o naturali consisteva nel districare i problemi dai modi di pensare tradizionali in cui per molti secoli essi erano stati come radicati e avvinti. Il primo tentativo in questa direzione era stato compiuto nelle immediate vicinanze del Machiavelli, anche se in altri campi scientifici, dal suo grande contemporaneo e concittadino Leonardo da Vinci, la cui bottega e studio erano situati presso il palazzo in cui il Segretario fiorentino ebbe il suo ufficio per circa quattordici anni. Nel 1502 essi si incontrarono alla corte di Cesare Borgia e poco dopo collaborarono nel tentativo di regolare il corso inferiore dell’Arno presso Pisa. Machiavelli cercò di penetrare teoricamente nei meandri della storia e della politica, così come Leonardo tentò appassionatamente di trasformare la pittura e l’ingegneria in un corpo coerente di cognizioni scientifiche ed empiriche. In tal modo i due grandi uomini proclamarono per primi il loro distacco dai rappresentanti puramente letterari ed eruditi di teorie politiche e storiche, oppure scientifiche o tecnologiche. Machiavelli asserisce che, discutendo dei metodi e della condotta del principe, egli si distacca «dalli ordini delli altri»; allo stesso modo Leonardo schernì duramente la «pigritia et comoditate de’ libri», nonché i «recitatori e trombetti dell’altrui opere» (cioè chi cita ripetendo i contenuti di opere altrui), e dichiarò (lui che non conosceva il latino e non aveva una cultura da letterato) con franchezza, rivendicando la migliore scuola dell’esperienza: «Se bene come loro non sapessi allegare [citare] gli autori, molto magiore e più degnia cosa allegherò allegando la sperientia [appoggiandomi all’esperienza], maestra ai loro maestri». Il modo direttamente teorico di affrontare le realtà della vita e della natura è, in entrambi i casi, tipico di quell’ardore creativo che aprì nuovi orizzonti alla scienza e alla storia ed è caratteristico di uomini che assorbirono tutta la cultura della loro epoca senza inchinarsi alle regole e alle convenzioni delle Università e della cultura ufficiale. Nessuno di loro e nessuno dei grandi spiriti del Rinascimento frequentò in modo regolare le scuole e le Università dell’epoca; ma tutti crebbero liberi in un mondo così profondamente permeato da una rinata civiltà secolare, che l’eredità antica divenne un aspetto inseparabile della loro età. Fu solo così che i due Fiorentini giunsero a contemplare l’Uomo e la Natura, cioè la storia umana e quella naturale, in proprio loco, indipendentemente da ogni connessione metafisica e teologica.

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Su questa base essi si convinsero che i fenomeni politici e naturali sono retti da leggi intrinseche, che occorre scoprire con un metodo di tipo induttivo. Leonardo decise di fondare sull’esperienza il suo lavoro di scienziato, scrivendo: «Inanzi che tu facci di questo caso regola generale, pruovalo due e tre volte»; Machiavelli usò le stesse parole e procedure per svelare una infallibile «regola generale» anche negli eventi storici e negli sviluppi politici. Negli scritti di questi due Fiorentini, appaiono pertanto, alla stessa epoca e nello stesso ambiente intellettuale, termini e concetti identici come espressioni originali di un nuovo modo di affrontare i problemi fondamentali della scienza e della storia.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è l’idea centrale su cui si impernia il discorso di Olschki? 2. Su quali basi concettuali il critico accomuna Machiavelli a Galileo e prima ancora a Leonardo? 3. In che senso ed entro quali limiti si può attribuire a Machiavelli la qualifica di “scienziato”, sulla base delle considerazioni di Olschki?

Produzione

Attraverso gli esempi di Machiavelli e Leonardo, Olschki mette in luce il clima di libertà intellettuale, di «ardore creativo», di fervore nella ricerca, che caratterizzò la civiltà rinascimentale consentendo straordinarie innovazioni e scoperte in molti ambiti della cultura, delle arti e delle scienze. Quali complessi e diversi fattori favorirono il diffondersi di questo nuovo clima culturale? Discuti la questione con riferimenti alle tue conoscenze, confrontandoti con gli spunti offerti dal passo proposto e sviluppa le tue considerazioni in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza, Donzelli, Roma 2003

Il pensiero di Machiavelli è ancora in grado di rivelarci certi caratteri della politica così come viene tuttora praticata, i meccanismi in atto in un esercizio del potere in cui impegno primo dei governanti è soltanto fare effetto sui governati: il che, nell’orizzonte dei regimi democratici, si estende nell’impegno di candidati e di eletti a fare effetto sugli elettori. Il rilievo dell’apparenza e del simulacro, di ciò che soltanto si vede, la dimensione «scenica» dell’agire politico, che Machiavelli definisce a partire da un’antica e radicata visione dell’intera vita come scena, teatro, in cui ciascuno recita la sua fabula, hanno acquistato un rilievo ancora più determinante, addirittura totalizzante, nel mondo contemporaneo, grazie all’espansione delle tecnologie della comunicazione e alla spettacolarizzazione dell’intera vita sociale. [...] È ben noto quale uso spregiudicato delle comunicazioni di massa, quale vastissima strategia dell’immagine siano state messe in atto dai regimi totalitari nel corso nel Novecento, con forme di propaganda diretta ed esplicita o più sottilmente indiretta e occulta. Negli anni a noi più vicini si dà peraltro una sorta di slittamento dalla propaganda alla pubblicità: la politica sembra tendere sempre più a identificarsi con la pubblicità, rivolgendosi alla presentazione «vuota» di prodotti indifferenti. L’uso sempre più ossessivo del sondaggio, con la proiezione apparente e predefinita che esso dà delle diverse opinioni dei cittadini-clienti, non è che uno degli esiti di questa riduzione pubblicitaria dell’apparenza politica: il pensiero e il giudizio sugli eventi, il consenso e il dissenso, la partecipazione e l’opposizione, tutto ciò sfuma nell’astrattezza delle percentuali, nella definizione di un’opinione formale ed anonima, privata di ogni densità mentale e corporea, virtualizzata e sganciata completamente dalla concretezza dell’esistere. La stessa esistenza, del resto, è così privata di spessore, ridotta a emergenza senza corpo e senza individualità: il sondaggista e il politico che usa i sondaggi partono proprio dal principio machiavelliano che «nel mondo non è se non vulgo», e trasformano quel «vulgo» in incorporea identità numerica.

Nel brano proposto, Giulio Ferroni fornisce una stimolante lettura del pensiero di Machiavelli secondo la prospettiva, estremamente attuale, dell’uso delle strategie proprie della pubblicità da parte della moderna comunicazione politica, nel quadro della «spettacolarizzazione dell’intera vita sociale» tipica del mondo contemporaneo. Concordi con il giudizio del critico e riscontri i fenomeni da lui descritti? Proponi una tua riflessione critica sul tema, facendo riferimento alle tue conoscenze ed esperienze.

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Quattrocento Quattrocento e cinquecento e cinquecento CAPITOLO

18 Francesco Guicciardini L’uomo Guicciardini visto da antonio Quatela... Quando si accosta l’opera e la figura di Francesco Guicciardini (1483-1540) è tuttora inevitabile il confronto con il contemporaneo Niccolò Machiavelli, di cui fu amico, ma da cui lo differenziavano posizioni ideologiche fondamentali e prima ancora, forse, caratteriali. Così uno studioso di Guicciardini sintetizza il diverso profilo umano dei due grandi scrittori. Certo i due amici (e va ricordato che fu amicizia profonda e schietta), pur parlando il linguaggio comune della politica e della storia, divergono quasi in tutto. E non solo per natali, personalità, aspetto fisico e stile di vita, fissati ormai in immagini e profili stereotipati: l’uno (Machiavelli) plebeo, edonista, estroverso, fiducioso, generoso, idealista, ingenuo e cinico al tempo stesso, capace di forti impeti, dotato di spontaneità e di felici intuizioni, dall’aspetto asciutto e dal viso minuto e beffardo; l’altro (Guicciardini), aristocratico, casa e famiglia, altero e riservato, scettico, non certo altruista, realista, introverso e con forti venature malinconiche, sempre riflessivo e razionale, dall’aspetto imponente e dal viso largo, pensoso e severo. A. Quatela, Invito alla lettura di Guacciardini, Mursia, Milano 1991

… e da sé medesimo In molti suoi Ricordi è Guicciardini stesso a offrirci un eloquente ritratto di sé, delineando la sua personalità inquieta e tormentata, contraddistinta dall’ambizione e dalla continua ricerca del successo. Diamogli perciò la parola. 118. A chi stima l’onore assai succede [ha successo] ogni cosa, perché non cura fatiche, non pericoli, non danari. Io l’ho provato in me medesimo, però [perciò] lo posso dire e scrivere: sono morte e vane le azione degli uomini che non hanno questo stimulo ardente. 15. Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile; e n’ho conseguito molte volte sopra quello che ho desiderato o sperato; e nondimeno non v’ho poi mai trovato drento [dentro] quella satisfazione che io mi ero immaginato; ragione, chi bene la considerassi, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini. F. Guicciardini, Ricordi, a cura di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984

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Francesco Guicciardini, uomo politico, storico, politologo, contemporaneo e amico di Machiavelli, è una delle figure di spicco della civiltà rinascimentale. Un ruolo oggi essenzialmente collegato ai Ricordi, suggestiva raccolta asistematica di brevi riflessioni sulla politica, la condizione umana e i limiti della conoscenza. L’opera è frutto della grave crisi del tempo, ma è ricca di spunti ancora attuali. Portavoce di una visione totalmente pessimistica, che nega ogni certezza, metafisica o razionale, Guicciardini rifiuta la validità esemplare dei modelli etico-politici della storia passata, considerata l’estrema variabilità delle circostanze e il peso determinante della fortuna nelle cose umane. All’impetuosa “virtù” del principe machiavelliano, Guicciardini contrappone la “discrezione”, una prudente e analitica valutazione dei dettagli, che comunque non garantisce la sicurezza del risultato.

1 ritratto d’autore politica alla 2 Dalla storiografia: tappe di un itinerario

Ricordi: il “libro 3 isegreto” 899 899


1 Ritratto d’autore 1 Una vita sotto il segno dell’ambizione Una giovinezza programmata per il successo Francesco Guicciardini (1483-1540) appartiene a una delle più illustri e ricche famiglie fiorentine. Avviato dal padre agli studi di legge, il giovane Francesco rivela ben presto un’intelligenza assai brillante e una forte ambizione, tanto da venir soprannominato dai compagni di studio “Alcibiade” (l’uomo politico ateniese proverbialmente noto, appunto, per la smisurata ambizione). La consapevolezza di poter arrivare in alto guida le scelte fondamentali della vita di Francesco: in un primo tempo il giovane pensa di intraprendere la carriera ecclesiastica, con l’aspirazione a «farsi grande nella chiesa»; quindi decide, contro la volontà paterna, di sposare (nel 1508) Maria Salviati, appartenente a una delle più potenti famiglie di Firenze. Un brillante avvocato e un giovanissimo ambasciatore Le tappe della scalata di Guicciardini sono precoci e brillantissime: si dedica con successo all’avvocatura e nel 1512, appena ventottenne, è nominato ambasciatore presso il re di Spagna: un lusinghiero riconoscimento, visto che era del tutto inusuale affidare un incarico così importante e delicato a un giovane (fu necessaria addirittura una speciale delibera). Il prestigioso incarico lo mette a contatto con la grande politica internazionale, consentendogli di dimostrare le sue indubbie qualità e di ampliare i suoi orizzonti politici. Nelle alte sfere della politica Da quel momento la sua vita si lega indissolubilmente alla politica, della quale diventa un protagonista, ricavandone gratificazioni e onori (➜ D1 OL) ma anche amari disinganni e personali sconfitte (➜ D2 OL). Mentre si trova in Spagna come ambasciatore della Repubblica fiorentina scrive il suo primo saggio di carattere politico, il Discorso di Logrogno, e inizia anche a stendere CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1498

1492

Scoperta dell’America.

1494

Carlo VIII scende in Italia.

1480 1483

Nasce a Firenze da una delle più illustri famiglie. Il padrino di battesimo di Francesco è Marsilio Ficino, il filosofo neoplatonico, uno degli intellettuali più in vista della cerchia medicea.

1490

1513

Savonarola è condannato al rogo. A Firenze si afferma una Repubblica oligarchica.

1512

I Medici tornano al potere.

1500

Machiavelli scrive Il Principe. 1517

Lutero pubblica le sue Tesi. Inizia la Riforma protestante.

1510

1505

Si laurea in diritto civile e inizia la professione di avvocato. 1508

Sposa Maria Salviati, di nobile e illustre famiglia, dalla quale avrà quattro figlie.

900 Quattrocento e Cinquecento 18 Francesco Guicciardini

1516

1509

Inizia le Storie fiorentine. 1512

È ambasciatore della Repubblica fiorentina in Spagna, presso Ferdinando il Cattolico. Scrive il Discorso di Logrogno.

Inizia la sua carriera alle dipendenze dei papi: è governatore di Modena e l’anno dopo di Reggio.


Vittore Carpaccio, Il commiato degli ambasciatori, particolare dal ciclo delle Storie di Sant’Orsola, 1490-1495 (Venezia, Gallerie dell’Accademia).

un primo nucleo del suo “libro segreto”, i Ricordi. Ritornato nel 1514 a Firenze, vi trova una situazione politica profondamente mutata: fallita l’esperienza della Repubblica popolare, i Medici sono tornati al governo. Temporaneamente esonerato dagli incarichi pubblici (la stessa sorte tocca anche a Machiavelli), Guicciardini si dedica nuovamente all’avvocatura e al fiorente commercio della seta; poi, anche grazie ai tradizionali rapporti della sua famiglia con la casata al potere, riesce a riprendere la carriera politica. Con l’elezione a papa di Giovanni de’ Medici (con il nome di Leone X) egli diventa un funzionario di spicco al servizio della politica papale e medicea. È poi nominato governatore di Modena e in seguito di Reggio. Mentre la stella di Machiavelli tramonta, sale la fortuna di Guicciardini; l’amicizia tra i due, accomunati dalla stessa visione laica e disincantata, si intensifica tra il 1521 e il 1525 e ci è testimoniata da un fitto scambio di lettere. Nominato commissario generale dell’esercito pontificio, guida la difesa di Parma dall’assedio dei Francesi e consolida così il suo già grande prestigio personale. Viene quindi chiamato alla presidenza della Romagna (allora una provincia del Vaticano) e dal 1526 diviene il principale ispiratore della politica papale al seguito di papa Clemente VII (Giulio de’ Medici): è lui a suggerire al papato la linea antimperiale, considerando inevitabile lo scontro armato con la Spagna di Carlo V ed è il principale fautore della Lega di Cognac (1526) tra il papato, Venezia, Milano e la Francia. L’inizio della decadenza L’apice della sua luminosa carriera coincide però con l’inizio della decadenza. La Lega è sconfitta, i lanzichenecchi (mercenari tedeschi) nel 1527 sottopongono Roma al terribile assalto e saccheggio noto come “sacco di Roma” (➜ T2 OL). Ne conseguono la prigionia del papa a Castel Sant’Angelo e la cacciata dei Medici da Firenze, dove viene restaurata la Repubblica. Guicciardini torna allora in città ma è visto con diffidente ostilità dal nuovo governo repubblicano ed è addirittura accusato di aver sottratto il denaro destinato alle paghe dei soldati (un’accusa davvero infamante).

1527

Sacco di Roma. Nuova cacciata dei Medici a Firenze e ripristino della Repubblica.

1520

1530 1526 1521

È nominato da Leone X commissario generale dell’esercito pontificio che combatte a fianco di Carlo V. Conosce Machiavelli. Inizia il Dialogo del reggimento di Firenze.

1523

Ha la presidenza della Romagna.

È il principale promotore della Lega di Cognac, volta a contrastare il potere di Carlo V.

1527-1530

Si ritira a vita privata. Scrive le tre orazioni autobiografiche (1527); Le Con­si­de­ ra­zioni intorno ai Discorsi di Machiavelli (1529); stende l’ultima redazione dei Ricordi (1530).

1540 1530-1537

Il ritorno dei Medici a Firenze lo riporta in primo piano sulla scena politica.

1540

Muore all’età di 57 anni. 1537-1540

Si ritira definitivamente dalla vita politica. Ad Arcetri, vicino Firenze, scrive la Storia d’Italia.

Ritratto d’autore 1 901


Da questa dolorosa situazione personale nascono tre orazioni (Consolatoria, Accusatoria, Defensoria): nella Consolatoria si rivolge a sé stesso per consolarsi dell’esclusione dai pubblici uffici (➜ D1 OL), nell’Accusatoria (➜ D2 OL) immagina che un esponente del governo repubblicano lo accusi davanti al tribunale della Quarantìa, nella Defensoria (rimasta incompiuta) respinge le accuse rivoltegli. Si ritira quindi a vita privata e si dedica a riordinare i suoi Ricordi; è però costretto a lasciare Firenze per Roma in una sorta di esilio, durante il quale continua a lavorare a quest’opera e scrive le Considerazioni sui Discorsi di Machiavelli, in cui mostra la propria distanza dalla visione dell’amico. Nuovamente alla ribalta, ma per poco tempo Nuovamente, nel 1531, il convulso altalenare degli eventi riporta i Medici in Firenze e Guicciardini ancora una volta è proiettato sulla scena politica in un ruolo eminente: incaricato da Clemente VII di riorganizzare il governo, colpisce con spietata durezza i rappresentanti più estremisti del governo popolare, mandando a morte o condannando al confino molti online illustri cittadini di Firenze. La morte di Clemente VII lo priva D1 Francesco Guicciardini però del suo principale protettore: questa circostanza e insieAmarezza per la perdita dell’onore Consolatoria me l’assolutismo di Cosimo I de’ Medici, che non condivide, lo spingono nel 1537 a ritirarsi definitivamente a vita privata. online Nella sua villa di campagna presso Arcetri, assistito da un feD2 Francesco Guicciardini dele segretario, scrive il capolavoro della storiografia rinasciLa vita splendida di messer Francesco in Romagna mentale: la Storia d’Italia, rimasta priva dell’ultima revisione Accusatoria per la morte dell’autore, avvenuta il 22 maggio del 1540.

2 La centralità dell’interesse politico e la visione della realtà L’importanza dell’elemento politico A differenza di Machiavelli, più eclettico e interessato anche all’ambito letterario, Guicciardini nella sua vita si interessa soltanto alla politica del suo tempo, che vive in prima persona in ruoli di primo piano nel difficile periodo che intercorre tra la morte di Lorenzo il Magnifico e i primi decenni del Cinquecento. Questa centralità del tema politico si riflette nelle sue opere minori, dedicate a problemi concreti, innanzitutto legati allo Stato di Firenze, a cui Guicciardini cerca di trovare soluzione con un’ottica sempre pragmatica. Il punto di vista La visione politica di Guicciardini è fondamentalmente quella di un conservatore (in un celebre ricordo definisce il popolo «animale pazzo, pieno di mille errori»): non per questo egli era chiuso nella difesa di interessi corporativi e di casta, ma si interrogava piuttosto su quale potesse essere il ruolo della classe sociale cui apparteneva all’interno dello Stato, perché fosse assicurata la stabilità politica del governo. A differenza di Machiavelli Guicciardini non ritiene che si possa trarre esempio dalla storia passata, anche quando si tratta di grandi modelli, per ricavarne regole ed esempi da utilizzare al presente, perché troppe, a ben vedere, sono le variabili e le eccezioni, che rendono ogni situazione diversa da un’altra. Si è parlato al proposito di una visione anticlassicista e antiumanista. In un contesto storico caratterizzato da costante instabilità, in cui appariva sempre più dominante il peso della Fortuna, più che alla “virtù” agonistica di chi deve governare, in cui ha fiducia Machiavelli, il politico deve, per Guicciardini affidarsi alla capacità sottile di ponderare tutti gli aspetti (quella che Guicciardini chiama “discrezione”) usando come osservatorio l’esperienza diretta e non certo la lezione dei libri.

902 Quattrocento e Cinquecento 18 Francesco Guicciardini


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Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 1 Dagli scritti sul governo di Firenze alla Storia d’Italia Le opere dedicate al governo di Firenze

Lessico ottimati Cittadini in vista e potenti per origini famigliari, ricchezza o meriti personali, oppure per una combinazione di questi aspetti.

Lessico politologo Studioso di teorie, sistemi e problematiche politiche, sia passate sia presenti.

• Le Storie fiorentine (1508-1509) Nell’opera, in cui sono esaminati gli avvenimenti a Firenze fra il tumulto dei Ciompi (1378) e il 1509 (data in cui si interrompe l’opera), Guicciardini esprime in modo diretto l’ottica degli ottimati ai quali la sua stessa famiglia appartiene (e da lui identificati negli «uomini da bene e savi»): si oppone perciò nettamente a una larga partecipazione dei cittadini alla gestione politica, che si era espressa a Firenze nella istituzione del Consiglio maggiore (1494) e giudica negativamente l’emergere delle classi popolari. • Il Discorso di Logrogno Di pochi anni successivo (1512), testimonia un’evoluzione del pensiero di Guicciardini: in un primo tempo egli rifiuta senza mezze misure l’assetto della Repubblica fiorentina, mentre nel Discorso lo accetta pragmaticamente, riconoscendo sia l’esistenza del Consiglio maggiore sia del Gonfalonierato (carica a vita istituita nel 1504 per garantire la continuità della gestione politica e che era stata conferita a Pier Soderini). L’impellente necessità di arginare l’instabilità politica induce però lo scrittore a immaginare un terzo organo istituzionale che possa garantire, in un’equa distribuzione dei poteri, l’efficienza dello Stato: pensa così a un consiglio di esperti in carica a vita, il senato, che avrebbe dovuto esercitare un importante ruolo di mediazione tra l’organo democratico (cioè il Consiglio grande) e il gonfaloniere. • Il Dialogo del Reggimento di Firenze Nel Dialogo, scritto tra il 1521 e il 1526, Guicciardini riprende le posizioni del Discorso di Logrogno (lo schema del buon governo è identico), ma l’ottica è qui più teorica e sistematica, da vero e proprio politologo : nel primo libro sono infatti introdotti i princìpi metodologici necessari per affrontare ogni discorso politico. Si tratta di princìpi riconducibili a un sostanziale pragmatismo: Guicciardini rifiuta l’adesione a un modello politico astratto, nella convinzione che la validità di una o dell’altra forma di governo possa essere misurata esclusivamente sul terreno della prassi. Nella finzione letteraria il dialogo si svolge in due giornate nel 1494. La scelta di retrodatare il dialogo è estremamente significativa: Guicciardini era infatti consapevole del fatto che la discesa di Carlo VIII in Italia e la fine dell’equilibrio avessero rappresentato un momento storico cruciale: si chiudeva definitivamente un’epoca e se ne apriva un’altra, densa per l’Italia e per Firenze di nubi oscure e minacciose.

Il distacco dall’ottica “fiorentina” e la rinuncia alla progettualità politica Nuovi campi e metodi d’indagine L’esperienza traumatica del sacco di Roma (1527, ➜ T2 OL) e gli eventi che ne seguirono rivestono un’importanza fondamentale nella vicenda umana di Guicciardini e incidono anche nell’orientare la sua successiva attività di scrittore. Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 2 903


A partire da quella data, Guicciardini si rende infatti conto che è ormai impossibile circoscrivere il discorso alla sola Firenze, divenuta semplice pedina all’interno di un complesso scacchiere politico internazionale. Tende dunque a distaccarsi dal contesto fiorentino per affrontare campi di indagine più ampi; al contempo viene meno in lui la fiducia nella possibilità di una proposta politica operativa e, ancor più, di un discorso unificante e sistematico, ormai inadeguato di fronte alla drammatica variabilità delle situazioni storiche. Dopo l’esperienza sconvolgente del sacco di Roma il pensiero politico rinuncia a enunciare tesi vigorose e diventa uno dei tanti aspetti di una «interrogazione ermeneutica» (Palumbo), di una meditazione cioè sostanzialmente filosofica, che si estende a ogni campo dell’attività umana. Da questo nuovo clima ideologico e psicologico hanno origine le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli (composte intorno al 1530) e la redazione finale dei Ricordi (1530), una serie di considerazioni in forma aforistica (➜ PER APPROFONDIRE I Ricordi e le forme “brevi” della scrittura: massime e aforismi, OL) nelle quali si rispecchia la pessimistica visione dell’autore riguardo alla natura e le relazioni umane. Le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli Le Considerazioni mostrano bene la nuova linea di tendenza: sono state giustamente definite un testo volto più a “decostruire” che ad affermare. In queste note a margine dei Discorsi di Machiavelli (di cui prendono in considerazione solo trentotto capitoli), Guicciardini mette soprattutto in discussione l’ammirazione di Machiavelli per la storia antica e in particolare per gli ordinamenti politici di Roma, da lui ritenuti modelli da imitare. Molte riflessioni in tal senso sono presenti anche nei Ricordi (➜ D3 OL, T3 , T4 T5 OL, T6 ). Per Guicciardini, essendo la realtà sempre mutevole, non esistono leggi e costanti che possano regolamentare i comportamenti dei politici; di conseguenza anche le leggi e gli ordinamenti di Roma non possono in alcun modo costituire dei modelli da seguire. Una presa di posizione, questa, che ha fatto addirittura parlare per Guicciardini, come si è detto, di antiumanesimo. online Certo è che la logica stringente che egli contrappone agli assiomi D3 Francesco Guicciardini machiavelliani, alle sue generalizzazioni spesso semplificanti, coIl compito dello storico e i limiti stituisce un paradigma di “modernità”, se è vero che “modernità” della storiografia antica Ricordi, 143 significa innanzitutto problematicità, apertura al dubbio sistematico.

2 La Storia d’Italia La genesi e la stesura La vita e la produzione di Guicciardini si concludono con un’opera storica di vasto respiro, la Storia d’Italia: essa rispecchia l’itinerario ideologico dell’autore, l’ampliarsi della sua acuta investigazione dall’ambito fiorentino a quello internazionale, ma anche le amare considerazioni sulla natura umana presenti soprattutto nell’ultima elaborazione dei Ricordi. La genesi della Storia d’Italia risiede nelle gravi delusioni subite da Guicciardini, che lo avevano definitivamente allontanato dal palcoscenico della politica attiva (inizia le prime ricerche d’archivio proprio nel 1530), motivando in lui il desiderio di scrivere la tragedia dell’Italia con il distanziamento critico di chi ormai guarda le cose da lontano. Lavora all’opera con intensità soprattutto dal 1537-1538, portando a termine in poco tempo un’impresa monumentale (venti libri). A differenza di tutti gli altri suoi scritti, è sua intenzione pubblicare la Storia d’Italia:

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da qui il lavoro di correzione e rifinitura anche linguistica che porta avanti fino agli ultimi giorni di vita. L’incalzare della malattia che lo porterà rapidamente alla morte gli impedisce però di sottoporre a revisione gli ultimi cinque libri. Questa imperfezione e la consapevolezza di affidare ai posteri il giudizio su di sé proprio con questo testo lo induce, così pare, a ordinare la distruzione del suo capolavoro (ma la disposizione fortunatamente non viene eseguita). La scelta dell’argomento: alle radici della crisi italiana La Storia d’Italia prende le mosse dal 1490, l’era di Lorenzo il Magnifico, considerato unanimemente l’acme della prosperità italiana (➜ T1 ), a cui presto segue la decadenza degli Stati italiani e la parallela crescita dei grandi imperi europei, e arriva fino al 1534, anno della morte di Clemente VII e dell’elezione al soglio pontificio di Paolo III. L’analisi è dunque ristretta a un blocco di eventi di pochi decenni, a cui Guicciardini attribuisce però un significato storico esemplare, facendoli coincidere con il tramonto di un’intera civiltà: un’interpretazione ancora oggi condivisa e seguita dagli studiosi. Abbandonando la prospettiva municipale, Guicciardini rivolge questa volta lo sguardo alla storia internazionale e contemporanea di cui era stato uno dei protagonisti. Egli segue minuziosamente anno per anno le tappe che portarono l’ago della bilancia politica a spostarsi dall’Italia all’Europa (e in questo processo non trascura l’importanza determinante dei rivolgimenti religiosi o delle esplorazioni geografiche), analizzando la progressiva involuzione della storia italiana e portando alla luce gli errori dei governanti che finirono per consegnare la penisola alla dominazione straniera. La sua diagnosi è estremamente lucida, ma nessuna terapia viene prevista, poiché a Guicciardini manca del tutto quella fede utopica in una possibilità di riscatto che aveva ispirato a Machiavelli l’appassionato capitolo finale del Principe.

online

Per approfondire La storiografia: da genere letterario a moderna scienza

Un’ottica pragmatica e individualista Nell’interpretare gli eventi storici l’ottica di Guicciardini è, come quella di Machiavelli, fondamentalmente laica, ma è caratterizzata da un più accentuato pragmatismo: per Guicciardini, alla base dei processi storici non stanno nobili ideali e disinteressati valori, ma esclusivamente le ambizioni e gli interessi dei grandi personaggi che manovrano la storia. Di queste figure di spicco dello scenario storico contemporaneo Guicciardini fornisce dei celebri ritratti, per lo più caratterizzati da un giudizio negativo: al valore esemplare attribuito dalla storiografia umanistica ai grandi personaggi si contrappone la constatazione, nell’agire di papi, sovrani e politici, di egoismi e interessi, oltre che di errori umani che producono fallimenti e sconfitte. Nell’analizzare il comportamento dei grandi personaggi Guicciardini mostra uno straordinario intuito psicologico, ricostruendo le motivazioni spesso tortuose di comportamenti ambigui e problematici. Guicciardini fondatore della storiografia moderna? Una diffusa interpretazione considera Guicciardini il fondatore, con la sua Storia d’Italia, della storiografia moderna. In realtà, come osserva Anselmi, già le Istorie fiorentine (1525) di Machiavelli, di poco precedenti (e che si arrestavano al 1494), avevano segnato un’evidente frattura con la trattazione storica medievale e umanistica: innanzitutto veniva usato per la prima volta il volgare in una storia ufficiale; inoltre in essa trovava posto non una piatta successione annalistica di avvenimenti, né un’idealizzazione delle gesta del casato dei committenti (i Medici), ma una matura indagine sulle cause politiche e sociali dei processi storici.

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Rispetto a Machiavelli, però, Guicciardini ha indubbiamente una più specifica vocazione di storico: innanzitutto egli attinge sempre a fonti dirette, che considera essenziali per la ricostruzione storica (grazie al suo ruolo politico aveva potuto consultare importanti archivi e documenti). Il metodo con cui scrupolosamente cataloga e utilizza queste fonti ci è documentato dai quaderni autografi. In uno dei suoi Ricordi, Guicciardini critica l’approssimazione e la genericità che, secondo lui, caratterizzavano la storiografia antica (ed è questa la ragione per cui, a differenza di Machiavelli, considera ben poco utilizzabili gli “esempi” della storia greca e romana). In secondo luogo, in relazione alla sua scettica visione del mondo, Guicciardini si rivolge alla storia non per trarne delle regole generali, ma esclusivamente per capirla a fondo: dall’indagine rigorosa del passato si possono ricavare solo ipotesi di lettura del presente, che consentano al saggio di districarsi nella giungla imprevedibile degli eventi, non certo modelli da imitare. Lo stile Lo stile dell’opera è alto e solenne, costruito su ampi periodi classicheggianti, densi di incisi e subordinate: questa complessità traduce perfettamente la visione guicciardiniana di una realtà storica anch’essa complessa e corrisponde all’attitudine analitica propria dello storico fiorentino, alla sua volontà di illustrare i particolari, di non lasciar sfuggire alcun dettaglio utile a ricostruire il quadro d’insieme. Sul piano linguistico Guicciardini aderisce sostanzialmente alla proposta del Bembo (➜ SCENARI, PAG. 561; D17 ) e quindi, a differenza di Machiavelli, la sua prosa non accoglie forme popolareggianti.

Storia d’italia GENERE

opera storiografica moderna

DATA DI COMPOSIZIONE

tra il 1537 e il 1540

STRUTTURA

venti libri

CONTENUTO

eventi dall’era di Lorenzo il Magnifico (1490) alla morte di Clemente VII (1534)

TEMI

• realtà storica complessa • celebri ritratti

METODO

uso di fonti dirette

CARATTERISTICHE

• ottica laica • accentuato pragmatismo • intuito psicologico

STILE

alto, solenne, con ampi periodi densi di subordinate

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Francesco Guicciardini

T1

Proemio Storia d’Italia I, 1

F. Guicciardini, Storia d’Italia, in Opere, a cura di E. Lugnani Scarano, UTET, Torino 1970-1981

Nelle prime pagine dell’opera, Guicciardini definisce con chiarezza l’ambito geopolitico e cronologico della propria indagine. Fin dalle prime righe della Storia d’Italia si profila, come oggetto primario dell’interesse dello storico, la grave decadenza dell’Italia a partire dalla discesa di Carlo VIII (1494), una crisi a cui lo scrittore contrappone nostalgicamente l’immagine, che appartiene ormai al passato, di un’Italia prospera e felice. Proponiamo la prima parte del capitolo.

Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra1 in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri prìncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla2: materia, per la varietà e grandezza loro3, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti4; avendo patito tanti anni Italia 5 tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati5. Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti6 onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato 10 da’ venti7, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi8, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano9, quando, avendo solamente innanzi agli occhi, o errori vani o le cupidità presenti10, non si ricordando delle spesse11 variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune12, si fanno, o per poca pruden15 za o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni13. Ma le calamità d’Italia (acciocché14 io faccia noto quale fusse allora lo stato suo15, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali16 erano allora più liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio ro20 mano, indebolito principalmente per la mutazione17 degli antichi costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare18 alla quale con maravigliosa virtù e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava19

1

alla memoria nostra: ai nostri tempi, in anni di cui possiamo ricordarci. 2 dappoi... perturbarla: dopo che gli eserciti francesi, chiamati dai nostri stessi principi, cominciarono a sconvolgere l’Italia con grandissimi cambiamenti; Guicciardini pone come punto di partenza della propria analisi storica la discesa delle armate di Carlo VIII in Italia, avvenuta anche per la richiesta di Ludovico il Moro. 3 loro: si riferisce alle cose accadute. 4 accidenti: eventi. 5 con le quali... essere vessati: con le quali sono soliti… essere tormentati.

6 Dalla cognizione... documenti: Ciascuno potrà dalla conoscenza (cognizione) di questi avvenimenti, tanto vari e tanto gravi, trarre molti utili (salutiferi) insegnamenti (documenti) utili al bene proprio e a quello collettivo. 7 né altrimenti... da’ venti: non diversamente che un mare agitato dai venti. 8 perniciosi: dannosi. 9 i consigli... che dominano: le decisioni sbagliate di coloro che governano. 10 avendo... presenti: tenendo solamente presenti false convinzioni o momentanee brame. 11 spesse: frequenti.

12 convertendo... comune: volgendo in danno (detrimento) per gli altri quel potere (potestà) loro concesso per il bene comune. 13 turbazioni: rivolgimenti. 14 acciocché: affinché. 15 lo stato suo: la sua condizione. 16 le cose universali: le condizioni generali dell’Italia. 17 mutazione: qui vale “corruzione”. 18 di quella... a declinare: a decadere da quella grandezza. 19 si riposava: godeva di pace e prosperità.

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l’anno della salute cristiana20 mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e 25 prima e poi furono congiunti. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi21, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata22 sommamente dalla magnificenza di molti prìncipi, dallo splendore di molte nobilissime e 30 bellissime città, dalla sedia e maestà della religione23, fioriva d’uomini prestantissimi24 nella amministrazione delle cose publiche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa25; né priva secondo l’uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva. 35 Nella quale felicità26, acquistata con varie occasioni, la conservavano molte cagioni: ma trall’altre, di consentimento comune27, si attribuiva laude non piccola alla industria e virtù28 di Lorenzo de’ Medici29, cittadino tanto eminente sopra ’l grado privato30 nella città di Firenze che per consiglio31 suo si reggevano le cose di quella republica, potente più per l’opportunità del sito32, per gli ingegni degli uomini e per 40 la prontezza de’ danari33, che per grandezza di dominio34. E avendosi egli nuovamente congiunto con parentado e ridotto a prestare fede non mediocre a’ consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano35, era per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l’autorità. E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori 45 potentati36 ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio37 che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessino che più in una che in un’altra parte non pendessino38: il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare39 con somma diligenza ogni accidente40 benché minimo, succedere non poteva.

20 della salute cristiana: della salvezza cristiana, ovvero si intende dopo la nascita di Cristo. 21 né sottoposta... medesimi: non sottoposta ad alcuna dominazione straniera. 22 illustrata: resa famosa. 23 dalla sedia e maestà della religione: dalla presenza e maestà della Chiesa. 24 prestantissimi: eccellenti. 25 preclara e industriosa: illustre (latinismo) e operosa. 26 felicità: felice condizione. 27 di consentimento comune: a comune giudizio. 28 industria e virtù: abilità ed energia. 29 Lorenzo de’ Medici: dal 1478 signore della città di Firenze.

30 sopra ’l grado privato: la condizione di privato cittadino. 31 consiglio: decisione. 32 l’opportunità del sito: la favorevole posizione geografica. 33 prontezza de’ danari: disponibilità finanziarie. Firenze era una città ricca, grazie soprattutto all’attività dei grandi banchieri, tra i quali gli stessi Medici. 34 grandezza di dominio: estensione territoriale. 35 E avendosi... pontefice romano: Ed essendosi imparentato con papa Innocenzo III (una figlia di Lorenzo aveva sposato Francesco Cybo, figlio naturale del papa) e avendo indotto il papa a seguire in tutto e per tutto i suoi consigli.

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36 alcuno de’ maggiori potentati: si allude alle altre potenze italiane (lo Stato della Chiesa, il regno di Napoli, il ducato di Milano e la repubblica di Venezia). 37 con ogni studio: con ogni mezzo. 38 procurava... non pendessino: viene qui efficacemente sintetizzato il senso della politica di Lorenzo, “ago della bilancia” della politica italiana. 39 vegghiare: sorvegliare. 40 accidente: fatto, evento.


Analisi del testo Il perimetro cronologico e geografico della Storia d’Italia La Storia d’Italia si apre con la piena assunzione da parte dello scrittore della responsabilità delle sue scelte: «Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia». La scelta è quella di narrare e interpretare un’epoca che si iscrive nella memoria recente dei lettori e di cui Guicciardini è stato in parte testimone diretto: non più dunque, come avveniva nella storiografia medievale, una narrazione che prende le mosse da leggendarie fondazioni di città e si prolunga per secoli, con conseguente scarsa attendibilità storica, ma un arco temporale ristretto a circa quarant’anni: dalla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) alla morte di un altro Medici, papa Clemente VII (1534). La scelta di circoscrivere il campo di osservazione a quel limitato periodo è motivata dall’autore per via della eccezionale gravità degli eventi accaduti («materia... molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti»), ma è anche strettamente connessa al metodo di indagine storica di Guicciardini, analitico e preciso. La prospettiva con cui l’autore guarda agli eventi è sicuramente nuova: abbandona infatti un’ottica strettamente municipalistica, propria delle sue giovanili Storie fiorentine (e dello stesso Machiavelli) che restringeva il campo d’analisi alla realtà di Firenze e assume, come dichiara il titolo stesso dell’opera, un punto di vista nazionale e anche, ormai necessariamente, internazionale, per le strette interazioni tra storia d’Italia e storia d’Europa.

Un amaro confronto tra passato e presente Dopo la presentazione dell’argomento e delle finalità dell’opera e dopo aver già suggerito le responsabilità dei principi italiani nella crisi che ha colpito l’Italia (rr. 1-13 ho deliberato... tribolazioni), Guicciardini compie un nostalgico excursus sullo stato felice della penisola verso la fine del Quattrocento (rr. 18-31 «perché manifesto... riteneva»). Domina il passo la presenza di espressioni elogiative (prosperità, somma pace e tranquillità, magnificenza, splendore...) e la frequenza di iperboli e superlativi assoluti (abbondantissima, nobilissime e bellissime, prestantissimi, ornatissima, chiarissima): scelte stilistiche che traducono l’apprezzamento da parte dell’autore della stagione felice ma purtroppo assai breve dell’Italia prima della calata delle armate francesi di Carlo VIII, che segnano la fine di un’epoca di prosperità e pace. Il responsabile principale di questa felice condizione è identificato senza esitazione in Lorenzo de’ Medici, di cui Guicciardini delinea con pochi tratti incisivi il ruolo e la linea politica, sintetizzabile nella scelta di mantenere l’equilibrio tra i potentati d’Italia, impedendo che uno di essi potesse avere il sopravvento sugli altri. I cinque maggiori Stati in cui era allora divisa l’Italia erano: le repubbliche di Firenze e Venezia, il ducato di Milano, lo Stato della Chiesa e il regno di Napoli.

Le scelte stilistiche Il passo proposto fornisce un esempio indicativo dello stile usato da Guicciardini nella Storia d’Italia. Si tratta di una scrittura difficile, soprattutto per il lettore di oggi: i periodi sono molto ampi, ricchi di subordinate (causali, relative ecc.), densi di ablativi assoluti latineggianti. Una prosa che non segnala solo una concezione “alta” della scrittura, ma corrisponde anche al costante desiderio dell’autore di cogliere e riprodurre nelle proprie pagine la complessità della storia. Il tono generale del passo (e dell’intera opera) è solenne, lo stile e le scelte linguistiche sorvegliatissime, adeguati al compito giudicante, al di sopra delle parti, che Guicciardini attribuisce allo storico. Carlo VIII, olio su tela, copia del XVI secolo di un originale perduto (Vienna, Kunsthistorisches Museum).

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riscrivi con le tue parole la prima parte del Proemio (rr. 1-15). COMPRENSIONE 2. Quali comportamenti politici negativi sono attribuiti ai governanti? (rr. 10-15). 3. Quale giudizio dà Guicciardini di Lorenzo de’ Medici? Quale importante ruolo politico Guicciardini gli attribuisce? ANALISI 4. Identifica e commenta nella prima parte (rr. 1-15) il punto del testo in cui Guicciardini prospetta la finalità della propria opera. LESSICO 5. La prima parte del Proemio vede il ricorrere di espressioni che alludono al turbamento, allo sconvolgimento di un equilibrio: rintracciale e trascrivile. 6. Sulla base delle indicazioni offerte dal testo, scegli cinque aggettivi per sintetizzare la felice condizione dell’Italia prima della crisi. STILE 7. Questo testo esemplifica molto bene lo stile e la prosa di Guicciardini: numerosi sono infatti gli accorgimenti stilistici che ne evidenziano il carattere stilisticamente elevato. Completa la tabella facendo uno o più esempi. Mezzi stilistici

Esempi

Metafore Iperboli Superlativi assoluti ……………........…………

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 8. Spiega come l’affermazione dell’autore contenuta nel testo «Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti» possa essere ricollegata all’interpretazione di Guicciardini come fondatore della storiografia moderna (max 3 minuti).

online T2 Francesco Guicciardini Il sacco di Roma Storia d’Italia XVIII, 8

Francisco Javier Amerigo, Il sacco di Roma, olio su tela, 1887 (Madrid, Museo del Prado).

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3 I Ricordi: il “libro segreto” coscienza della crisi e la fondazione di un nuovo genere 1 La di scrittura L’opera più nota e attuale di Guicciardini Il nome di Guicciardini è oggi soprattutto legato alla raccolta dei Ricordi: duecentoventuno pensieri, stesi in un arco di tempo molto ampio (dal 1512 al 1530) e frutto di una complessa elaborazione. Il titolo complessivo di Ricordi non appartiene all’autore, ma fu utilizzato a posteriori dagli editori dell’opera perché più volte Guicciardini denomina i suoi pensieri con tale termine; inoltre, in almeno due occasioni (Ricordi 9 e 210) è il complesso dei testi a essere definito così. La natura del “ricordo” guicciardiniano Il termine “ricordi” non va però inteso nel senso usuale di “memorie personali”, ma di “consigli, avvertimenti, cose interessanti da ricordare”, secondo il modello dei libri di famiglia, diffusi soprattutto negli ambienti mercantili fiorentini: i Ricordi, dunque, non sono scritti in vista di una pubblicazione ma sono rivolti da Guicciardini innanzitutto ai propri familiari e discendenti (i destinatari a cui si rivolge alcune volte l’autore con il pronome personale voi).

Pagina del manoscritto dei Ricordi di Francesco Guicciardini.

I Ricordi e la tradizione dei “libri di famiglia” I Ricordi di Guicciardini non sarebbero nati se non fosse esistita, in particolare nell’ambiente mercantile fiorentino, una particolare tradizione di scrittura: quella dei “libri di famiglia”, una tipologia testuale a cui Guicciardini si ricollega direttamente; del resto, prima di stendere i Ricordi, egli aveva scritto le Memorie di famiglia, biografie dei suoi antenati e le Ricordanze, in cui narra le circostanze che lo avevano portato a ricoprire determinate cariche politiche: testi entrambi molto vicini al genere. I libri di famiglia rappresentano un’evoluzione dei cosiddetti “libri di conti”, nei quali i mercanti fiorentini annotavano i fatti più rilevanti della loro attività commerciale; talvolta, a margine, inserivano qualche data e fatto importante nella vita della famiglia. Nel corso del Trecento queste essenziali annotazioni assumono una loro autonomia e cominciano a ospitare anche ricordi personali di chi scrive. L’intenzione non è però assolutamente autobiografica, ma è quella di contribuire con qualche nuova informazione alla ricostruzione della storia della famiglia, soprattutto se importante ed economicamente influente. Proprio per questa loro natura, i libri di famiglia non sono concepiti per essere pubblicati ma si iscrivono in una dimensione strettamente privata: essi hanno come destinatari elettivi i discendenti, ai quali sono rivolti anche gli eventuali insegnamenti e i precetti morali. Si tratta comunque di una morale di pronta utilizzazione nella vita pratica, “pillole di saggezza” senza troppe pretese. Al contrario, nei Ricordi di Guicciardini le massime ispirate al buon senso borghese lasciano il posto a inquiete (e inquietanti) riflessioni esistenziali. I Ricordi: il “libro segreto” 3 911


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Per approfondire La complessa elaborazione dei Ricordi

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Interpretazioni critiche Matteo Palumbo La morfologia dei Ricordi

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Per approfondire I Ricordi e le forme “brevi” della scrittura: massime e aforismi

Una struttura asistematica per una visione decostruita della realtà e della conoscenza La raccolta dei Ricordi quali ora li leggiamo (l’ultima redazione, detta dagli studiosi “serie C”, è del 1530) è costituita da una serie di testi identificati esclusivamente dalla loro successione numerica e quindi totalmente slegati tra di loro. Questa scelta dello scrittore assume un chiaro significato: di fronte a una realtà sempre più irrazionale e incontrollabile, diventa impossibile una sintesi complessiva, improponibile un sapere concepito come totalità; da qui la struttura asistematica e aperta dei Ricordi, che rimanda di per sé a una visione “decostruita” della realtà e che non esclude la coesistenza di asserzioni che possono apparire contradditorie tra di loro. La visione di Guicciardini è ormai lontanissima dall’idea medievale secondo la quale esiste una verità assoluta e la conoscenza si configura come assunzione passiva e acritica di una parola autorevole. Al contrario, egli valorizza un’idea del conoscere come ricerca intellettuale, in cui esercita un ruolo fondamentale l’acume interpretativo. Non a caso nei Ricordi è ricorrente l’immagine della vista, dello sguardo: nel senso metaforico di “vista dell’intelletto”, l’occhio è sinonimo di osservazione razionale, strumento indispensabile per la decifrazione intelligente di un mondo che appare sempre più complesso.

2 Le aree tematiche dei Ricordi I Ricordi come sintesi di un’intera esperienza di vita e come autoritratto Gli argomenti trattati nei Ricordi sono molto vari: si va dai motivi più propriamente autobiografici alle riflessioni sulla politica, lo Stato, la Chiesa, alle meditazioni sulla condizione umana. I Ricordi costituiscono però innanzitutto un affascinante autoritratto di Guicciardini, nel quale la forte presenza dell’autore è evidenziata dall’uso frequente della prima persona: in essi si riflette la sua storia personale, la sua inquieta personalità, la sua sconsolata saggezza, frutto di difficili esperienze di vita (non a caso ricorre ripetutamente la formula: «vedesi per esperienza»). Il ruolo negativo della fortuna Il tema emergente dei Ricordi è la fortuna, a cui Guicciardini attribuisce un ruolo dominante (Ricordo 30). La fortuna è un archetipo concettuale che, nell’epoca in cui vive l’autore, ha una grande rilevanza (da Ariosto a Machiavelli). A differenza, però, di Machiavelli, che (almeno nella prima parte del Principe) considera la fortuna anche come opportunità, come occasione favorevole da sfruttare, Guicciardini radicalizza il ruolo negativo della fortuna e la totale subordinazione a essa della virtù, cioè della capacità dell’uomo: la casualità degli eventi, nella sua visione, irrompe senza preavviso e motivazione, frustrando costantemente la capacità di previsione degli uomini, compresa quella dei cosiddetti savi (Ricordo 182). I limiti della conoscenza e dell’azione umana Dalla constatazione della variabilità delle circostanze derivano alcune fondamentali prese di posizione di Guicciardini: l’assurdità di ragionare in termini generali (Ricordo 6) e di giudicare secondo modelli astratti di comportamento (Ricordo 117), l’impossibilità di prevedere il futuro nell’illusione di poterlo influenzare («ogni minimo particulare che varii è atto a fare variare una conclusione», Ricordo 114). Poiché l’azione dell’uomo è soggetta al dominio della fortuna, se non addirittura di un fato-destino già scritto per ognuno di noi, diventa assurdo parlare della storia come magistra vitae, “maestra di vita”. Da qui la critica a chi, come Machiavelli, ha grande fiducia nella lezione degli antichi (Ricordo 110) e la contestazione in genere dei modelli libreschi.

912 Quattrocento e Cinquecento 18 Francesco Guicciardini


L’allegoria della Fortuna in una incisione cinquecentesca.

Empirismo e critica della teologia e della metafisica Poiché è impossibile trovare la verità assoluta «perché in effetto gli uomini sono al buio delle cose» (Ricordo 125), occorre rinunciare all’indagine metafisica. La ricerca dei filosofi oltre l’ambito naturale è considerata da Guicciardini un esercizio intellettuale fine a sé stesso, così come inutili sono le disquisizioni dei teologi, perché la giustizia di Dio – della quale pure Guicciardini non dubita – è imperscrutabile per l’uomo. Il sentimento religioso non è assente nei Ricordi, ma non si esprime in un sistema di certezze positive, bensì nel senso drammatico del limite della conoscenza umana di fronte a fenomeni destinati comunque a rimanere inspiegabili («alle ragione de’ quali non possono gli intelletti degli uomini aggiugnere», Ricordo 123). Date queste premesse, l’uomo può misurarsi solo con situazioni concrete, nelle quali deve affidarsi alla sola lezione dell’esperienza, valutando in modo razionale le circostanze in cui si trova a operare. L’etica stessa viene fatta dipendere non da obblighi morali sanciti una volta per tutte, ma esclusivamente da un’analisi corretta da parte del soggetto, unico responsabile della propria condotta. Quella di Guicciardini è in sostanza una visione empirista , che interessa innanzitutto e principalmente l’ambito della politica (tema sicuramente centrale dell’opera, essendovi dedicati circa novanta ricordi).

Parola chiave

Il particulare Il concetto forse più noto dei Ricordi è il riferimento al particulare. Proprio su questa parola tematica si è fondata una lettura “ideologica” e fortemente limitativa della figura e del pensiero di Guicciardini, che ha avuto la sua più tipica espressione nel celebre intervento critico di De Sanctis (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE  L’uomo del Guicciardini, simbolo della crisi italiana, PAG. 923). Ma cos’è il particulare? Come osserva il critico Alberto Asor Rosa, il particulare si deve intendere nella sua valenza teoretica (cioè come principio conoscitivo) prima che nei suoi risvolti eticopolitici, sui quali invece esclusivamente si incentrava l’interpretazione di De Sanctis: il richiamo al particulare deriva infatti innanzitutto dalla crisi dei criteri generali e oggettivi di giudizio e corrisponde a quella valorizzazione della soggettività del pensiero, contrapposta a ogni semplificazione generalizzante, che costituisce il centro fondante del pensiero guicciardiniano.

empirismo In senso specifico l’empirismo è una vera e propria corrente filosofica, rappresentata da Bacone, Locke e Hume. In senso più generale, empirico (in contrapposizione a teorico-razionale) si può definire l’atteggiamento di chi considera l’esperienza (in greco empeiria) l’unica fonte di conoscenza e svaluta di conseguenza ogni postulato metafisico. Negando l’esistenza di verità assolute, chi si ri-

conosce in un’ottica empiristica ritiene che ogni verità vada ricavata da limitati campioni di esperienza e non dedotta da leggi o teorie generali e che essa debba essere messa alla prova ed eventualmente modificata o abbandonata. Proprio dall’adozione di un’ottica empiristica derivano le sostanziali differenze tra il pensiero di Guicciardini e quello dell’amico Machiavelli.

I Ricordi: il “libro segreto” 3 913


D’altra parte, però, non si può negare la coincidenza del particulare con l’interesse proprio, espressa in modo specifico nel celebre Ricordo 28 e nel Ricordo 66 dove si parla, in modo ancor più concreto, di interessi particulari (➜ T6 ). Ma qual è il vero interesse per l’uomo? Guicciardini precisa che bisogna distinguere l’interesse autentico dal puro e semplice commodo pecuniario (Ricordo 218). Il particulare per Guicciardini ha sempre a che fare con l’onore – termine che però non ha nessuna risonanza ideale – e con la buona riputazione, che non esclude l’apparenza o addirittura il ricorso alla simulazione, machiavellianamente ritenuta molto utile, come nei Ricordi 104 e 199. La discrezione e la teoria guicciardiniana del comportamento Se il particulare è la motivazione che spinge l’uomo ad agire, il mezzo che può assicurargli il successo è la discrezione, vero centro della teoria guicciardiniana del comportamento, in particolare in ambito politico. Il termine deve essere inteso nel suo significato etimologico: designa infatti la capacità di “distinguere” (Ricordi 6 e 186) un caso dall’altro e di analizzare a fondo ogni minimo aspetto di un problema e di una situazione. Un’operazione assolutamente indispensabile, soprattutto in un momento storico caratterizzato da eventi drammatici e rapidissimi mutamenti, perché «piccoli principi e a pena considerabili sono spesso cagione di grandi ruine o di felicità: però [perciò] è grandissima prudenza avvertire e pesare bene ogni cosa benché minima» (Ricordo 82). Alla capacità analitica richiesta dalle infinite combinazioni degli eventi deve poi corrispondere nel comportamento pratico la capacità di adattarsi alle circostanze, scegliendo volta per volta le soluzioni adatte al caso: una qualità che non si può apprendere certo dalla lezione degli antichi («la quale se la natura non t’ha data, rade volte si impara tanto che basti con la esperienza; co’ libri non mai», Ricordo 186). Sullo sfondo dei Ricordi si profila ormai la crisi della fiducia rinascimentale: alla virtù demiurgica del Principe di Machiavelli, l’autore dei Ricordi sostituisce l’invito a una vigile prudenza, a un calcolo ben meditato; sostanzialmente egli suggerisce un sistema difensivo più che attivo, che solo può assicurare all’azione politica del saggio qualche probabilità di successo.

Ricordi GENERE

raccolta asistematica non pensata per la pubblicazione secondo il modello dei libri di famiglia

DATAZIONE

elaborati dal 1512 al 1530

STRUTTURA

duecentoventuno pensieri ispirati dall’esperienza dell’autore di politico e diplomatico

TEMI VARI

si va dai motivi più propriamente autobiografici alle riflessioni sulla politica, lo Stato, la Chiesa, alle meditazioni sulla condizione umana

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online

Per approfondire Guicciardini nel tempo

Il giudizio negativo sul comportamento umano Anche se l’ambito su cui si esercita la discrezione è programmaticamente circoscritto, non per questo è garantita la riuscita dell’azione. Se infatti la razionalità e la discrezione sono proprie dei saggi, la maggior parte degli uomini non è certo guidata dalla ragione, ma segue le abitudini ed è schiava di impulsi irrazionali. Come nel Principe, anche per Guicciardini esiste dunque, oltre alla fortuna, un’altra variabile, che rischia di inficiare ogni progetto politico razionale ed è la natura imprevedibile e per lo più irrazionale degli uomini. A parte la dichiarazione di principio (di ascendenza cristiana) presente nel Ricordo 135 – che considera gli uomini tendenzialmente inclinati al bene – di fatto nel comportamento umano che Guicciardini rappresenta nei Ricordi prevalgono le disposizioni negative: un quadro che giustifica la generale visione pessimistica dell’autore e la sua sfiducia nella possibilità che i pochi saggi possano incidere positivamente nella società.

Machiavelli e Guicciardini a confronto MACHIAVELLI

GUICCIARDINI

Aspetti comuni

• attenzione alla sfera politica • considerazione realistica della “verità effettuale” • visione laica • autonomia dell’azione politica dalla religione e dalla morale

Differenze

• piena fiducia che le capacità del politico “virtuoso” possano fronteggiare la fortuna • gli esempi offerti dalla storia antica possono e devono essere imitati perché i comportamenti seguono leggi costanti • esaltazione della “virtù” • slancio utopistico • fede nella “redenzione” dell’Italia

• la fortuna ha un peso determinante e l’uomo può solo adeguarvisi • nella storia le variabili prevalgono sulle costanti • non esistono modelli passati o presenti di validità assoluta • la “discrezione” è una qualità ottimale • scetticismo radicale • impossibilità di immaginare un futuro migliore

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Francesco Guicciardini

T3

La critica delle regole e della fiducia nell’esemplarità della storia Ricordi 6, 110, 114, 117

F. Guicciardini, Ricordi, a cura di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984

La variabilità delle cose del mondo, della natura e dei comportamenti umani è tale, secondo Guicciardini, da precludere ogni possibilità di stabilire regole e princìpi che rendano capaci di prevedere e orientare il futuro. Da qui la sfiducia enunciata apertamente dall’autore verso esempi e modelli del passato, anche i più autorevoli, e dunque nella stessa lezione degli storici antichi.

6. È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente1 e, per dire così, per regola2; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione3 per la varietà delle circustanze, le quali non si possono fermare4 con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione5. 110. Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano6 e’ romani! Bisognerebbe avere una città condizionata7 come era loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: el quale8 a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di uno cavallo9. 114. Sono alcuni che sopra le cose che occorrono10 fanno in scriptis11 discorsi del futuro, e’ quali quando sono fatti da chi sa, paiono a chi gli legge molto belli; nondimeno sono fallacissimi, perché, dependendo di mano in mano l’una conclusione dall’altra, una che ne manchi12, riescono vane tutte quelle che se ne deducono13; e ogni minimo particulare che varii, è atto a fare variare una conclusione. Però14 non si possono giudicare le cose del mondo sì da discosto15, ma bisogna giudicarle e resolverle giornata per giornata. 117. È fallacissimo16 el giudicare per gli esempli17, perché, se non sono simili in tutto e per tutto, non servono, conciosia che ogni minima varietà nel caso18 può essere causa di grandissima variazione nello effetto: e el discernere queste varietà, quando sono piccole, vuole19 buono e perspicace occhio.

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assolutamente: in assoluto. per regola: basandosi su regole generali. 3 hanno distinzione e eccezione: presentano elementi che le differenziano ed eccezioni rispetto alla regola generale. 4 fermare: definire, fissare. 5 discrezione: si tratta di un termine chiave della riflessione di Guicciardini che identifica la capacità di cogliere la specificità di una situazione, di un problema, l’attitudine ad analizzare i dati disponibili per compiere una valutazione critica (dal latino discernĕre, distinguere).

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allegano: citano, chiamano in causa. condizionata: costituita e ordinata. el quale: la qual cosa. a chi ha le qualità... uno cavallo: a chi ha prerogative diverse (e forse anche inadeguate: questo potrebbe essere il senso di disproporzionate) è tanto inadeguato come sarebbe pretendere che un asino corresse come un cavallo. 10 occorrono: accadono. 11 in scriptis: “sui libri”. 12 una che ne manchi: se viene meno una delle conclusioni.

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13 riescono... deducono: risultano vane tutte quelle che derivano necessariamente da quella. 14 Però: Perciò. 15 sì da discosto: così da lontano. 16 fallacissimo: del tutto ingannevole. 17 per gli esempli: sulla base di modelli esemplari. 18 conciosia che... nel caso: dato che la più piccola differenza esistente nel caso (rispetto al modello). 19 vuole: richiede.


Analisi del testo Il realismo guicciardiniano e l’arte della discrezione I Ricordi qui proposti sono tra quelli considerati basilari nella visione guicciardiniana: su di essi principalmente si fonda il tradizionale confronto con Machiavelli. Alla fiducia di Machiavelli nella possibilità di ricavare, dagli esempi del passato, dei precetti che possano guidare l’azione del politico, Guicciardini contrappone il richiamo a un’osservazione pragmatica e analitica del presente. Nel celebre Ricordo 6 appare per la prima volta la discrezione, vera parola chiave del suo pensiero: la discrezione consiste in una superiore arte del discernimento ed è una dote, egli dice, che non si impara dai libri. La particolarità di ogni situazione è tale che le variabili prevalgono nettamente sulle costanti: ne deriva la critica a coloro (è forse questo il principale elemento di dissenso tra Guicciardini e Machiavelli) che considerano indiscutibile la lezione degli antichi, gli esempi autorevoli della storia romana. L’implacabile realismo di Guicciardini gli preclude le facili schematizzazioni di Machiavelli: il passato è inesorabilmente diverso dal presente e questa distanza storica lo rende improponibile come modello. Allo stesso modo è impossibile fare congetture sul futuro, ma bisogna limitarsi a risolvere i problemi giorno per giorno: l’empirismo (➜ PAROLA CHIAVE, PAG. 913) è la dimensione in cui si iscrive la visione guicciardiniana. Proprio l’adozione del «buono e perspicace occhio» di cui si parla nel Ricordo 117 preclude a Guicciardini sia la possibilità delle generose utopie sia le speranze irrazionali che percorrono l’ultimo capitolo del Principe (a cui forse, tra le righe, il ricordo allude). Date queste premesse, il libro stesso dei Ricordi non può presentarsi al lettore come libro dall’impianto e dalla struttura tradizionale: Guicciardini deve letteralmente «scompaginare» la forma del vecchio libro per adattarla alla forma di un nuovo pensiero «frammentizzato» (Asor Rosa), in cui i vari elementi sono compresenti e che può ospitare anche delle contraddizioni interne.

La metafora dell’“occhio” Nel corpus dei Ricordi ricorrono con particolare frequenza e pregnanza termini associati allo sguardo e alla vista. Essi denotano in primo luogo una funzione fisica, ma contemporaneamente (e soprattutto) l’esercizio riflessivo e speculativo sulla realtà contingente. L’occhio diventa metafora della conoscenza, nella specifica accezione guicciardiniana, ovvero acuta attenzione ai particolari, giudizio sostenuto da razionale osservazione. Senza l’atto dell’“osservare bene” non può darsi la stessa capacità di “distinguere” e “valutare” in cui consiste la discrezione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale aspetto del pensiero di Guicciardini emerge in particolare nel Ricordo 114? LESSICO 2. Tra i verbi presenti nei Ricordi antologizzati, quale richiama il concetto di discrezione? 3. Ricerca le comuni accezioni del termine discrezione: elencale e mettile a confronto con il significato specifico che il termine assume in Guicciardini.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Esaminando i Ricordi qui proposti e il Proemio dei Discorsi machiavelliani (➜ C17 T12 ), confronta le posizioni di Guicciardini e Machiavelli circa il concetto di imitazione, centrale nel pensiero umanistico-rinascimentale, e illustra il diverso ruolo che i due scrittori gli hanno assegnato.

I Ricordi: il “libro segreto” 3 917


Francesco Guicciardini

T4

Il ruolo primario della fortuna nelle cose umane

LEGGERE LE EMOZIONI

Ricordi 30, 136 F. Guicciardini, Ricordi, a cura di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984

AUDIOLETTURA

Nelle cose umane la fortuna ha per Guicciardini un ruolo ben più rilevante di quanto fosse disposto ad ammettere Machiavelli. Di fronte agli imprevisti della sorte, ben poco possono la virtù e la ragione dell’uomo. Un politico avveduto e razionale può fare scelte peggiori di un politico magari sprovveduto e irrazionale ma favorito dalla fortuna.

30. Chi considera bene, non può negare che nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti fortuiti1, e che non è in potestà degli uomini né a prevedergli né a schifargli2: e benché lo accorgimento e sollicitudine3 degli uomini possa moderare molte cose, nondimeno sola non basta, ma gli bisogna ancora4 la buona fortuna. 136. Accade che qualche volta e’ pazzi5 fanno maggiore cose6 che e’ savi. Procede perché7 el savio, dove non è necessitato, si rimette8 assai alla ragione e poco alla fortuna, el pazzo assai alla fortuna e poco alla ragione: e le cose portate dalla fortuna hanno talvolta fini9 incredibili. E’ savi di Firenze arebbono creduto alla tempesta presente, e’ pazzi, avendo contro a ogni ragione voluto opporsi, hanno fatto insino a ora quello che non si sarebbe creduto che la città nostra potessi in modo alcuno fare10: e questo è che dice el proverbio: Audaces fortuna iuvat11.

1 ricevono... fortuiti: derivano grandi sconvolgimenti (moti) da fatti secondari e casuali (accidenti fortuiti). 2 che non è... schifargli: che non è in potere (potestà) degli uomini né prevederli né evitarli. 3 lo accorgimento e sollicitudine: la pronta attenzione. 4 gli bisogna ancora: gli occorre anche. 5 e’ pazzi: qui nel senso generico di “persone irrazionali” (in seguito identificate in un preciso schieramento politico). 6 fanno maggiore cose: realizzano imprese più rilevanti, conseguono maggiori successi.

7 Procede perché: Questo deriva dal fatto che. 8 dove… si rimette: quando non è obbligato, si affida. 9 fini: esiti. 10 E’ savi di Firenze... alcuno fare: I savi di Firenze si sarebbero arresi alla necessità contingente (tempesta è un latinismo); i pazzi, avendo voluto opporsi contro ogni logica razionale, hanno fatto finora ciò che non si sarebbe creduto che la nostra città potesse fare in alcun modo. Guicciardini fa qui riferimento a un preciso fatto storico e anche i termini savi e pazzi vanno contestualizzati, alludendo il primo agli ottimati e il secondo al

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partito popolare (l’uso del termine “savi” per identificare gli ottimati e “pazzi” per i rappresentanti del popolo è frutto della visione politica aristocratica e conservatrice di Guicciardini): nel 1529 Clemente VII e Carlo V cercarono di rimettere i Medici al potere in Firenze. Gli ottimati insistevano perché venissero accettate le condizioni imposte, mentre i popolani riuscirono a far deliberare la resistenza al nemico e, per lo meno fino all’inizio di agosto del 1530, i fiorentini riuscirono a resistere all’assedio. 11 e questo è... fortuna iuvat: e questo è il significato del proverbio “la fortuna aiuta gli audaci”.


Analisi del testo L’importanza della fortuna Per analizzare i due Ricordi sopra proposti può essere utile la voce fortuna del Glossario ide­ ologico che conclude l’edizione citata dei Ricordi. La fortuna, che sfuma di volta in volta nel concetto di caso, di fato, di provvidenza divina, rappresenta la forza irrazionale ed oscura che l’uomo è costretto ad affrontare nel proprio agire, “la zona d’ombra insuperabile”, che insidia la certezza di conseguire quanto si è proposto. Il ruolo della fortuna risulta più decisivo che in altri autori rinascimentali e tinge di fatalismo agnostico [slegato dalla politica, dalla morale, dalla religione] la visione del mondo guicciardiniana (B52). Essa rappresenta uno scacco alla logica perché può favorire il pazzo e non il savio (C136), al quale non resta che assecondare gli eventi senza opporvisi (C138, là dove è citato il verso di Seneca “Ducunt volentes fata, nolentes trahunt”) [...]. Si capisce allora come sia imprescindibile il concorso della fortuna per il compimento di qualsiasi impresa (C30-31, 147) e, in specie, per la vittoria in battaglia (C183). Non vi è tuttavia in Guicciardini atteggiamento di rinuncia e tanto meno di passività. La nota più viva dei Ricordi è pur sempre l’esaltazione del fare. Glossario ideologico, a cura di C. Pedretti, in F. Guicciardini, Ricordi, a cura di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riscrivi in italiano corrente con parole tue il Ricordo 30. COMPRENSIONE 2. Sintetizza la concezione della fortuna di Guicciardini e poi fai un confronto con quella enunciata da Machiavelli nei suoi scritti. ANALISI 3. Nel Ricordo 136 colpisce la forza stringente dell’argomentazione: identifica le parti del testo che corrispondono alle sequenze argomentative indicate. a. asserzione di carattere generale b. giustificazione dell’asserzione c. esempio storico a conferma d. conclusione

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

TESTI A CONFRONTO 4. Riprendi il cap. XXV del Principe (➜ C17 T10 ), il cui tema dominante è il rapporto virtù-fortuna, e cerca di spiegare, riferendoti ai due testi sopra citati, perché la visione di Guicciardini sia nettamente più pessimistica sulla possibilità delle qualità umane in rapporto al potere della fortuna. LETTERATURA E NOI 5. Spesso constatiamo che la sorte (fortuna) ha grande potere nella vita degli uomini; questa considerazione però non libera l’individuo dall’assumersi la responsabilità di agire nella propria vita e di cercare di incidere su di essa con la propria volontà dirigendo gli eventi. Che cosa pensi del rapporto fortuna/volontà umana? Hai fiducia nel potere dell’uomo di decidere del proprio destino o ritieni che la sorte sia più forte della volontà umana e quindi che a nulla serva l’agire umano?

online T5 Francesco Guicciardini

Meditazioni sulla natura degli uomini, sull’esistenza e sui limiti della conoscenza umana Ricordi 60, 92, 125, 134, 161

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Francesco Guicciardini

T6

La Chiesa, il popolo, la politica Ricordi 28, 48, 66, 140, 141, 157

F. Guicciardini, Ricordi, a cura di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

A conclusione di questa breve antologizzazione, nel corpus dei Ricordi presentiamo una serie di testi di carattere politico o più generalmente etico-politico. Anche, e tanto più in questo ambito, emerge lo spietato realismo, lo spregiudicato pragmatismo di Guicciardini, quel vuoto di ideali che tanta indignazione suscitò in epoca romanticorisorgimentale.

28. Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie1 de’ preti: sì2 perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici3, m’ha necessitato a amare per el particulare mio4 la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo5: non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente6, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti7, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità. 48. Non si può tenere stati secondo conscienza8, perché – chi considera la origine loro9 – tutti sono violenti, da quelli delle repubbliche nella patria propria in fuora10, e non altrove: e da questa regola non eccettuo lo imperadore e manco e’ preti, la violenza de’ quali è doppia, perché ci sforzano con le arme temporale e con le spirituale11. 66. Non crediate a costoro che predicano sì efficacemente12 la libertà, perché quasi tutti, anzi non è forse nessuno che non abbia l’obietto13 agli interessi particulari: e la esperienza mostra spesso, e è certissimo, che se credessino trovare in uno stato stretto14 migliore condizione, vi correrebboro per le poste15.

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Io non so… la mollizie: Io non so a chi più che a me riesca sgradita l’ambizione, l’avidità, la mollezza (cioè la corruzione). 2 sì: qui vale “sia”. Le tre causali («perché... perché... e ancora perché») scandiscono tre diversi momenti della condanna che Guicciardini rivolge al clero: innanzitutto ognuno dei tre vizi è esecrabile di per sé, quindi nel loro insieme ben poco si addicono (si convengono) a chi fa una scelta di vita religiosa, infine sono tra di loro così contrastanti (sì contrari) che possono trovarsi uniti solo in un soggetto davvero particolare (detto con ironia). 3 el grado... pontefici: gli alti incarichi che ho avuto con più pontefici (in particolare Leone X e Clemente VII). 4 per el particulare mio: particulare è termine tradizionalmente collegato al nome stesso di Guicciardini; è da intendersi

non come semplice tornaconto personale, ma come piena realizzazione delle sue aspirazioni. 5 se non… medesimo: se non ci fosse questo rispetto, avrei amato Martin Lutero come me stesso. Con la pubblicazione delle 95 Tesi di Wittenberg, nel 1517, Lutero iniziò la sua battaglia contro alcune pratiche della Chiesa cattolica (il commercio delle indulgenze), avviando così la Riforma protestante. 6 non per liberarmi... communemente: Guicciardini sottolinea che la sua eventuale adesione a Lutero non ha nulla a che fare con ragioni teologiche, ma con il disgusto per la condotta della Chiesa cattolica. 7 a’ termini debiti: nei giusti limiti. 8 secondo conscienza: rispettando le regole della morale.

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9 chi... loro: se si considerano i modi in cui si instaura il potere. 10 da quelli... in fuora: ad eccezione delle repubbliche, ma solo all’interno del loro territorio; se ne deduce che Guicciardini pensa che anche le repubbliche esercitino un potere violento verso i territori a esse sottomessi. 11 ci sforzano... le spirituale: ci costringono con le armi del potere temporale e con quelle del potere spirituale (ad esempio la scomunica). 12 sì efficacemente: con tanta foga. 13 l’obietto: la mira. 14 stato stretto: governo aristocratico, contrapposto al governo largo o popolare. 15 per le poste: in tutta fretta; è un’espressione popolaresca.


140. Chi disse uno popolo disse veramente uno animale, pazzo16, pieno di mille errori, di mille confusione, sanza gusto, sanza deletto17, sanza stabilità. 141. Non vi meravigliate che non si sappino le cose delle età passate, non quelle che si fanno nelle provincie o luoghi lontani: perché, se considerate bene, non s’ha vera notizia18 delle presenti, non di quelle che giornalmente si fanno in una medesima città; e spesso tra ‘l palazzo e la piazza19 è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India. E però si empie20 facilmente el mondo di opinione erronee e vane. 157. Non è bene vendicarsi nome21 di essere sospettoso, di essere sfiducciato22; nondimeno l’uomo è tanto fallace, tanto insidioso, procede con tante arte sì indirette, sì profonde, è tanto cupido23 dello interesse suo, tanto poco respettivo24 a quello di altri che non si può errare a credere poco, a fidarsi poco. 16 pazzo: irrazionale. 17 sanza deletto: senza capacità di giudizio e discernimento; è un latinismo da deligĕre, ”scegliere”. 18 vera notizia: conoscenza sicura.

19 ’l palazzo e la piazza: chi governa e la massa dei governati. La metonimia palazzo per alludere ai governanti è diventata di uso corrente. 20 però si empie: perciò si riempie.

21 vendicarsi nome: acquistare la fama. 22 sfiducciato: diffidente. 23 cupido: desideroso. 24 respettivo: attento.

Analisi del testo Il particulare (28, 66, 157) Le affermazioni contenute nel celebre Ricordo 28, a cui può utilmente essere affiancato il Ricordo 66 (incentrato anch’esso sull’«etica del particulare») hanno suscitato riprovazione e sdegno nell’epoca risorgimentale e a esse è inesorabilmente legato il nome di Guicciardini (a torto, visto le tante altre interessanti sfaccettature del suo pensiero, che anche solo una piccola selezione di Ricordi come quella qui presentata riesce a evidenziare). Indubbiamente si tratta di affermazioni sconcertanti e tali da turbare la coscienza. Se si pensa che in altre zone dell’Europa nello stesso periodo eretici e riformatori affrontavano il rogo per difendere le proprie idee non può non suscitare perplessità la posizione abbastanza cinica enunciata da Guicciardini: egli condanna con sarcastica veemenza la condotta riprovevole della Chiesa di Roma, arrivando a dichiararsi pronto ad appoggiare Martin Lutero se solo gli fosse possibile, ma al contempo dichiara di essere stato costretto dal proprio particulare a lavorare per accrescere il potere dei papi. È vero che in un altro pensiero (218) Guicciardini precisa che l’interesse proprio (ovvero il particulare) non coincide, come pensano erroneamente alcuni, con un gretto tornaconto economico, ma piuttosto con l’onore, con la riputazione e il buono nome; tuttavia la sostanza non cambia: sostituire una brillante carriera, l’altissimo prestigio delle cariche raggiunte all’interesse economico non rende meno discutibile sotto il profilo etico il celebre pensiero guicciardiniano. Anche nel Ricordo 66 ritorna il tema del “particulare”. Guicciardini introduce un’osservazione pragmatica: nell’appoggiare l’una o l’altra forma di governo (aristocratica e oligarchica o democratico-popolare) la motivazione è sempre e solo l’interesse personale. Anche in questo ricordo emerge una desolata (e desolante) mancanza di idealità. Se le terribili asserzioni machiavelliane contenute nei capitoli centrali del Principe (➜ C17) hanno una sorta di sinistra e tragica grandezza (e Machiavelli ribadisce che l’interesse primario che può giustificare certe azioni è il bene dello Stato), qui ci troviamo di fronte a orizzonti più limitati e a un’idea dell’azione politica insieme freddamente tecnica e considerata frutto esclusivamente di calcolo personale. È sulla base di ricordi come questi che De Sanctis arrivò a considerare l’«uomo del Guicciardini» come frutto di una nazione che aveva smarrito gli ideali, il senso stesso della morale. Una visione duramente realistica del comportamento umano (e il politico non fa eccezione, anzi) ispira anche il Ricordo 157, di sapore davvero “machiavelliano”: ritorna l’allusione alla ricerca del proprio interesse («l’uomo... è tanto cupido dello interesse suo»), presentata come condizione indubitabile e generale. Da qui l’invito alla diffidenza. I Ricordi: il “libro segreto” 3 921


Il popolo (140) La visione aristocratica e conservatrice della gestione politica induce Guicciardini a formulare un giudizio particolarmente duro e sprezzante sul popolo, presentato come antitesi del saggio capace di discrezione. In un passo delle sue Considerazioni sui Discorsi di Machia­ velli, Guicciardini si contrappone alle asserzioni fatte dall’amico nel capitolo dei Discorsi (I, 58) intitolato «La moltitudine è più savia e più costante di uno principe», giudicando costituzionalmente instabile il governo della moltitudine. Le parole delle Considerazioni richiamano da vicino il Ricordo 140: «[...] dove è moltitudine quivi è confusione, e in tanta dissonanza di cervelli, dove sono vari giudìci, vari pensieri, vari fini, non può essere né discorso ragionevole, né risoluzione fondata, né azione ferma. Muovonsi gli uomini leggermente per ogni vano sospetto, per ogni vano romore, non discernono, non distinguono, e con la medesima leggerezza tornano alle deliberazione [decisioni] che avevano prima dannate [condannate], a odiare quello che amavano, amare quello che odiavano; però [perciò] non sanza cagione è assomigliata [paragonata] la moltitudine alle onde del mare, la quale secondo e’ venti che tirano vanno ora in qua ora in là sanza alcuna regola, sanza alcuna fermezza».

Il palazzo e la piazza (141) La generale sfiducia di Guicciardini nella possibilità di comprendere il senso della realtà, di decifrare un disegno nella storia, investe anche l’ambito politico: nel celebre Ricordo 141 Guicciardini rappresenta con una serie di immagini metaforiche la totale incomunicabilità tra i governanti e i governati: questi ultimi ignorano le scelte dei politici e, ancor più, le motivazioni che le ispirano. Un tema, purtroppo, ancora profondamente attuale.

Luigi Cortei, statua a Francesco Guicciardini, 1847 (Firenze, Loggiato delle Gallerie degli Uffizi).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riscrivi con parole tue il Ricordo 28. COMPRENSIONE 2. Che cosa rimprovera Guicciardini alla Chiesa? Perché apprezza Martin Lutero? ANALISI 3. Quale immagine del potere politico si ricava dal Ricordo 48? STILE 4. Il tema del Ricordo 141 è presentato attraverso una serie di pregnanti metafore, divenute celebri: indicale e spiegane il significato.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

TESTI A CONFRONTO 5. La visione politica di Guicciardini non prevede un coinvolgimento degli strati popolari al governo: commenta il Ricordo 140, evidenziando le analogie con il testo delle Considerazioni sui Discorsi di Machiavelli proposto nell’analisi del testo. SCRITTURA 6. Sintetizza con parole tue il contenuto del Ricordo 157 e commentalo esprimendo le tue considerazioni e la tua opinione motivata in merito in un elaborato scritto di max 20 righe. Come ti rapporti agli altri? Con fiducia in loro o sospettando sempre che non siano onesti con te? Ti fidi dei tuoi amici e degli adulti?

922 Quattrocento e Cinquecento 18 Francesco Guicciardini


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Francesco De Sanctis L’uomo del Guicciardini, simbolo della crisi italiana F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di L. Russo, Laterza, Roma-Bari 1953

Il celebre saggio desanctisiano L’uomo del Guicciardini è scritto nel 1869, all’indomani dell’Unità d’Italia, quando la neonata nazione andava costruendosi. In questo particolare contesto si spiega la risentita polemica morale che ispira il giudizio critico di De Sanctis (1817-1883), che fa dell’uomo savio di Guicciardini, in cui lo scrittore stesso si rispecchia, il simbolo della fiacchezza morale che consegnò l’Italia al dominio straniero. Il saggio del celebre critico di età romantico-risorgimentale è costruito su un collage di citazioni tratte dai Ricordi, abilmente montate a dimostrazione di una tesi precisa.

Quest’uomo savio, secondo l’immagine che ce ne porge il Guicciardini, è quello che oggi direbbesi un gentiluomo, un amabile gentiluomo, nel vestire, nelle maniere e ne’ tratti. Il ritratto è così fresco e vivo, così conforme alle consuetudini moderne che ad ogni ora ti par d’incontrarlo per via, con quel suo risetto di una benevolenza 5 equivoca, con quella perfetta misura ne’ modi e nelle parole, con quella padronanza di sé, con quella confidenza nel suo saper fare e saper vivere. [...] Senza dubbio il nostro savio ama la gloria, e desidera di fare cose «grandi ed eccelse», ma ingegno positivo1, com’egli è, a patto che non sia con suo danno o incomodità2. Gli cascano di bocca parole d’oro. Parla volentieri di patria, di libertà, di onore, di 10 gloria, di umanità; ma vediamolo a’ fatti. Ama la patria e se perisce gliene duole non per lei, perché così ha a essere, ma per sé, «nato in tempi di tanta infelicità». È zelante3 del ben pubblico, ma «non s’ingolfa tanto nello Stato», da mettere in quello tutta la sua fortuna4. Vuole la libertà, ma quando la sia perduta non è bene fare mutazioni5, perché spesso mutano «i visi delle persone non le cose», e come 15 non puoi mutare tu solo, «ti riesce altro da quello che avevi in mente, e non puoi fare fondamento sul populo» così instabile, e quando la vada male, ti tocca la vita spregiata del fuoruscito6. Se tu fossi «di qualità a essere capo di Stato7», passi; ma, così non essendo, è miglior consiglio portarsi in modo che quelli che governano non ti abbiano in sospetto, e neppure ti pongano tra i malcontenti8. Quelli che altrimenti 20 fanno9, sono «uomini leggieri». Nel mondo sono i savii e i pazzi. E pazzi chiama quei fiorentini, che «vollero contro ogni ragione opporsi», quando i «savii di Firenze arebbono10 ceduto alla tempesta». A nessuno dispiace più che a lui l’«ambizione, l’avarizia e la mollizie11 de’ preti e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti12, cioè «a restare 25 o sanza vizi, o sanza autorità»; ma «per il suo particulare» è necessitato amare la grandezza de’ pontefici, e operare a sostegno dei preti e del dominio temporale. [...]

1 2 3 4 5

positivo: realista. incomodità: fastidio, scomodità. zelante: sollecito. fortuna: sorte. ma quando... mutazioni: ma quando essa (la libertà) è persa, non è bene indulgere a cambiamenti. 6 la vita spregiata del fuoruscito: la vita disprezzata dell’esule.

7

Se tu fossi... capo di Stato: Se tu avessi le qualità per governare uno Stato. 8 ma così... malcontenti: ma se non è così, è meglio comportarsi in modo da non essere sospettato da quelli che governano e da non essere considerato tra gli scontenti.

9 altrimenti fanno: quelli che agiscono diversamente da così. 10 arebbono: avrebbero. 11 l’avarizia e la mollizie: l’avidità e la rilassatezza nei costumi. 12 ridurre… debiti: costringere questa moltitudine di scellerati entro i dovuti confini.

I Ricordi: il “libro segreto” 3 923


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Così il nostro savio si nutre di amori platonici e di desiderii impotenti13. E la sua impotenza è in questo, che a lui manca la forza di sacrificare «il suo particulare» a quello ch’egli ama e vuole: perché quelle cose che dice di amare e di desiderare, la 30 verità, la giustizia, la virtù, la libertà, la patria, l’Italia liberata da’ barbari, e il mondo liberato da’ preti, non sono in lui sentimenti vivi e operosi, ma opinioni e idee astratte, e quello solo che sente, quello solo che lo muove, è «il suo particolare». La lotta era accesa in Germania per la riforma religiosa e si stendeva nelle nazioni vicine, e non mancavano «pazzi» tra noi che per quella combattevano e morivano; in Italia si 35 combattevano le ultime battaglie della libertà e dell’indipendenza nazionale; il paese si dibatteva tra Svizzeri, Spagnoli, Tedeschi e Francesi; e il nostro savio non pare abbia anima d’uomo, e non dà segno quasi di accorgersene e non se ne commuove, e libra, e pesa14, e misura quello che gli noccia o gli giovi. La vita è per lui un calcolo aritmetico. 40 L’Italia perì perché i pazzi furono pochissimi, e i più erano i savii. Città, principi, popolo, rispondevano all’esemplare stupendamente delineato in questi Ricordi. L’ideale non era più Farinata15, erano i Medici; e lo scrittore di questi tempi non era Dante, era Francesco Guicciardini. La società s’era ita trasformando16: pulita, elegante, colta, erudita, spensierata, amante del quieto vivere, vaga dei piaceri dello spirito e della 45 immaginazione, quale tu la senti ne’ versi di Angiolo Poliziano17. Ogni serietà e dignità

13 Così il nostro savio... impotenti: in questo modo il nostro saggio si alimenta di utopistici e velleitari progetti. 14 e libra, e pesa: e valuta in modo ponderato e soppesa. 15 Farinata: il personaggio evocato nel canto X dell’Inferno dantesco, qui considerato emblema della passione politica. 16 s’era ita trasformando: era andata trasformandosi. 17 Angiolo Poliziano: filologo e poeta della corte medicea.

Matteo Bonechi, Apoteosi di casa Guicciardini, particolare della Fortuna bendata, affresco, inizi sec. XVIII (Firenze, Palazzo Valori-Altoviti).

924 Quattrocento e Cinquecento 18 Francesco Guicciardini


di scopo era mancata a quella insipida realtà. Patria, religione, libertà, onore, gloria, tutto quello che stimola gli uomini ad atti magnanimi e fa le nazioni grandi, ammesso in teoria, non aveva più senso nella vita pratica, non era più il motivo della vita sociale. E perché mancarono questi stimoli, i quali soli hanno virtù18 di mantener vivo il 19 50 carattere e la tempra delle nazioni, mancò appresso anche ogni energia intellettuale ed ogni attività negli usi e ne’ bisogni della vita, e il paese finì in quella sonnolenza, che i nostri vincitori con immortale scherno trasportarono ne’ loro vocabolarii e chiamarono il «dolce far niente».

18 virtù: capacità. 19 appresso: insieme, subito dopo.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Quale Guicciardini esce dalle parole di De Sanctis? Rispondi usando almeno sei aggettivi che lo definiscano. 2. Che cosa pensa il critico ottocentesco di Guicciardini e della sua opera? Sintetizzane l’opinione in un breve testo (max 10 righe). 3. Spiega e commenta queste espressioni in rapporto al contesto, alla struttura argomentativa del passo e alla più generale interpretazione della figura di Guicciardini: – «E la sua impotenza è in questo, che a lui manca la forza di sacrificare il suo “particulare” a quello ch’egli ama e vuole». – «La vita è per lui un calcolo aritmetico». – «Lo scrittore di questi tempi non era Dante, era Francesco Guicciardini». – «L’Italia perì perché i pazzi furono pochissimi, e i più erano savi». 4. Quale significato ha il riferimento a Poliziano?

Fissare i concetti Francesco Guicciardini Ritratto d’autore 1. Quali sono stati gli incarichi politici più importanti nella vita di Guicciardini? 2. Quale fatto determina la decadenza della sua carriera? 3. Che cosa contraddistingue la visione politica di Guicciardini? Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 4. Quali sono le opere dedicate al governo di Firenze? 5. Qual è il pensiero che caratterizza le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli? 6. Qual è il genere, la struttura e il contenuto della Storia d’Italia? I Ricordi: il “libro segreto” 7. Che cosa sono i Ricordi, a chi sono destinati e perché hanno una struttura asistematica? 8. “Discrezione” e “particulare” sono parole chiave dei Ricordi: puoi spiegarne il significato? 9. Quale ruolo Guicciardini assegna alla fortuna? 10. Quale giudizio Guicciardini ha dell’uomo?

I Ricordi: il “libro segreto” 3 925


Quattrocento e Cinquecento 18 Francesco Guicciardini

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita sotto il segno dell’ambizione Di illustre famiglia, Francesco Guicciardini (1483-1540) si dimostra presto intelligente e ambizioso: a nemmeno trent’anni è già avvocato e ambasciatore in Spagna; inizia qui la sua esperienza nella politica internazionale e la stesura dei Ricordi. Ritorna nel 1514 a Firenze, dove i Medici sono al governo; diventa un funzionario di spicco al servizio della politica papale e medicea sotto Leone X (Giovanni de’ Medici), poi governatore di Modena e Reggio, quindi commissario generale dell’esercito pontificio, in seguito presidente della Romagna e dal 1526 consigliere di Clemente VII (Giulio de’ Medici) con idee antimperiali, tanto da essere fautore della Lega di Cognac. Ma la Lega è sconfitta e nel 1527 Roma subisce il terribile “sacco”. Guicciardini raggiunge Firenze come privato cittadino: ma il clima ostile, che gli ispira tre orazioni, lo convince a rientrare a Roma, dove scrive le Considerazioni sui Discorsi di Machiavelli. Nel 1531, però, i Medici riconquistano il potere in patria e Guicciardini ritrova un ruolo politico come riorganizzatore del governo su incarico del papa. La morte del pontefice e l’assolutismo di Cosimo I de’ Medici lo spingono nel 1537 a ritirarsi definitivamente a vita privata. Negli ultimi anni realizza il capolavoro della storiografia rinascimentale: la Storia d’Italia, rimasta priva dell’ultima revisione a causa della morte, il 22 maggio del 1540. La centralità dell’interesse politico e la visione della realtà Contrariamente all’amico Machiavelli, Guicciardini si interessa soltanto alla politica coeva, cui si dedica in modo pragmatico. Egli è conservatore, anche se non arroccato in una difesa corporativa, quanto preoccupato di garantire la stabilità politica degli organi di governo. Guicciardini è anche anticlassicista e antiumanista: non ritiene, infatti, che si possa trarre esempio dal passato perché troppe sono le variabili e le eccezioni che popolano il reale.

2 Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario

Dagli scritti sul governo di Firenze alla Storia d’Italia In un primo tempo la riflessione politica di Guicciardini è dedicata a Firenze, esempio di instabilità politica. Tra vari scritti sono da ricordare le Storie fiorentine (1509), il Discorso di Logrogno (1512) e il Dialogo del Reggimento di Firenze (1521-1526): Guicciardini cerca di comprendere quali forme di governo possano garantire stabilità, in un’equa distribuzione di poteri, alla città. Nel 1530 scrive le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli nelle quali problematizza gli assiomi dell’autore: per Guicciardini non esistono leggi e costanti che possano regolamentare i comportamenti dei politici e l’unica guida risiede nell’esperienza.

926 Quattrocento e Cinquecento 18 Francesco Guicciardini


Dal 1537 al 1540, Guicciardini stende una monumentale opera storiografica in venti volumi, la Storia d’Italia, punto di arrivo della sua riflessione, che ripercorre quarant’anni della recente storia italiana: dalla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) a quella di Clemente VII (1534). La prospettiva metodologica è del tutto innovativa: Guicciardini attinge scrupolosamente a fonti sicure e a documenti d’archivio; inoltre analizza i dati e risale alle cause degli eventi con minuzioso realismo, in un’ottica laica.

3 I Ricordi: il “libro segreto”

La coscienza della crisi e la fondazione di un nuovo genere di scrittura I Ricordi (1512-1530) sono l’opera di Guicciardini oggi più nota: si tratta di duecentoventuno riflessioni per lo più brevi, destinate non alla pubblicazione ma ai propri discendenti e non organizzate in alcun modo in una struttura, ma slegate l’una dall’altra. Questo carattere asistematico dell’opera è in parte riconducibile alla sfiducia di Guicciardini in un’interpretazione globale di una realtà ormai avvertita come enigmatica e dominata dall’irrazionalità. Le aree tematiche dei Ricordi Gli argomenti dei Ricordi sono molto vari: essi coprono l’ambito autobiografico senza tralasciare i temi della politica, dello Stato, della Chiesa e della dimensione umana in generale, affrontandoli con taglio meditativo-filosofico. Rilievo centrale ha il ruolo della fortuna, cioè della casualità, elemento negativo capace di subordinare le virtù umane, poiché in grado di limitare pesantemente le possibilità di conoscenza e azione. Celebre è il tema del particulare, cioè della soggettività del pensiero ma anche dell’interesse personale, inteso come acquisto e conservazione dell’onore e della reputazione; qualità da guadagnare e mantenere mediante la discrezione, ovverosia la capacità di analizzare a fondo ogni aspetto di una data situazione per adattarsi alla mutevolezza delle circostanze.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Immagina e scrivi un dialogo in cui Machiavelli e Guicciardini si confrontano sull’importanza e sull’utilità della lezione degli antichi nell’azione politica del presente e sul valore pedagogico, educativo della storia.

Recensione

2. Immagina che Guicciardini scriva una recensione del Principe di Machiavelli.

Competenze digitali

3. Realizza una mappa interattiva che metta in relazione gli avvenimenti storici che fanno da sfondo alla vita e all’opera di Guicciardini con la sua produzione politica e storica.

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Francesco Guicciardini

«La fede fa ostinazione» Ricordi 1 F. Guicciardini, Ricordi, a cura di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984

1. Quello che dicono le persone spirituali1, che chi ha fede conduce2 cose grandi e, come dice lo Evangelio, chi ha fede può comandare a’ monti3 ecc., procede perché la fede fa ostinazione4. Fede non è altro che credere con openione ferma, e quasi certezza le cose che non sono ragionevole5, o, se sono ragionevole, 5 crederle con più resoluzione che non persuadono le ragione6. Chi adunche ha fede diventa ostinato in quello che crede, e procede al cammino suo intrepido e resoluto, sprezzando le difficultà e pericoli, e mettendosi a soportare ogni estremità7: donde nasce8 che, essendo le cose del mondo sottoposte a mille casi e accidenti9, può nascere per molti versi nella lunghezza del tempo aiuto 10 insperato a chi ha perseverato nella ostinazione, la quale essendo causata dalla fede, si dice meritamente10: chi ha fede ecc. Esemplo a’ dì nostri ne è grandissimo questa ostinazione de’ fiorentini che, essendosi contro a ogni ragione del mondo11 messi a aspettare la guerra del papa e imperadore sanza speranza di alcuno soccorso di altri, disuniti e con mille difficultà, hanno sostenuto in sulle 15 mura già sette mesi gli eserciti12, e’ quali non si sarebbe creduto che avessino sostenuti sette dì13, e condotto le cose in luogo che14, se vincessino, nessuno più se ne maraviglierebbe, dove prima da tutti erano giudicati perduti: e questa ostinazione ha causata in gran parte la fede di non potere perire15 secondo le predizione di Fra Ieronimo da Ferrara16.

1 le persone spirituali: i credenti (ma forse anche gli uomini di Chiesa). 2 conduce: realizza. 3 come dice lo Evangelio... monti: Guicciardini fa riferimento a un passo del Vangelo secondo Matteo (17, 20-21), in cui Gesù dice: «se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile». 4 procede... fa ostinazione: deriva dal fatto che la fede genera determinazione; il soggetto logico è «Quello che dicono...». 5 ragionevole: ragionevoli. 6 con più resoluzione... le ragione: con una determinazione maggiore di quanto non riescano a convincere le argomentazioni razionali (le ragione). 7 estremità: difficoltà. 8 donde nasce: da cui consegue. 9 accidenti: avvenimenti improvvisi. 10 meritamente: giustamente.

928 Quattrocento e Cinquecento 18 Francesco Guicciardini

11 ragione del mondo: logica razionale. 12 essendosi... gli eserciti: Guicciardini allude a fatti che si stavano svolgendo proprio allora: l’assedio di Firenze (ottobre 1529-agosto 1530) da parte dell’esercito di Carlo V, alleato con il papa Clemente VII, che da sette mesi attanagliava la città; Guicciardini seguiva gli eventi da Roma. Il 3 agosto 1530 le truppe imperiali avranno la meglio e a Firenze sarà ripristinato il potere dei Medici. 13 e’ quali... dì: i quali (fiorentini) non si sarebbe creduto che avessero potuto resistere sette giorni. 14 in luogo che: al punto che. 15 perire: essere sconfitti. 16 secondo... da Ferrara: secondo la profezia del ferrarese fra’ Gerolamo Savonarola; il frate domenicano Savonarola, sostenitore di un governo popolare, fu a capo della repubblica instaurata a Firenze nel 1494; scomunicato, sarà arso sul rogo nel 1498. La profezia riguardava il fatto che il governo popolare, in quanto voluto da Dio, non poteva crollare.


Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Indica il tema centrale del Ricordo. 2. Da quale circostanza storica trae spunto il Ricordo? 3. Quale definizione viene data della fede? Sintetizzala con le tue parole. 4. Quale atteggiamento comporta l’avere fede e in che cosa consiste la “positività” dell’avere fede? 5. A che proposito è ricordato Gerolamo Savonarola? 6. Il testo presenta una struttura articolata. Dividilo nelle brevi sezioni che lo compongono e da’ a ognuna di esse un titolo. 7. Qual è il collegamento tra l’asserzione relativa alla natura delle cose del mondo (rr. 8-11) e il tema del Ricordo?

Interpretazione

L’atteggiamento di Guicciardini ti sembra quello di chi afferma il valore trascendente della fede e invita i lettori a essere religiosi? O è piuttosto quello di chi osserva con spirito critico i comportamenti umani per cercare di comprenderli? Motiva la tua risposta. Ogni Ricordo fissa un punto di partenza da cui, attraverso nessi rigorosi, si snodano argomentazioni che confermano, approfondiscono precisandola o negano l’asserzione iniziale. Cerca di evidenziare la struttura argomentativa del Ricordo.

Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da M. Fubini, Introduzione a F. Guicciardini, Ricordi, a cura di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984

Ma particolare spicco nella storia della fortuna del Guicciardini ha il saggio famoso del De Sanctis, L’uomo del Guicciardini, riecheggiato non so quante volte e anche travisato. Saggio fondamentale eppur tale da non dover essere accolto come pagina di pacata storiografia, bensì come di polemica pedagogica propria del De Sanctis, che qui ha una delle sue punte caratteristiche. Il problema del De Sanctis era quello di comprendere le ragioni della decadenza italiana: perché con tanto splendore d’arte e vivacità d’ingegni l’Italia aveva perduto l’indipendenza e così rapidamente si era avviata a una decadenza non solo politica ma morale: il suo problema era problema urgente per un uomo del Risorgimento, tutto inteso appunto al risorgere della patria, all’educazione perciò di una nuova coscienza civile. Entro l’ambito e il pensiero del De Sanctis quell’interpretazione con altre della Storia aveva una ragione d’essere: ma doveva portare il grande critico ad una visione deformata o almeno parziale di più d’un aspetto e di una figura dell’Italia del passato. Il desanctisiano «uomo del Guicciardini» non del tutto corrisponde al Guicciardini storico: chi legga il saggio desanctisiano e soltanto le pagine in cui si citano i Ricordi guicciardiniani si rende conto di una deformazione involontaria a cui sono stati piegati [...]. Ci troviamo qui di fronte al contrasto di due età, un uomo del Rinascimento giudicato da un uomo del Risorgimento, quel che nel Guicciardini è severo senso della realtà, lucida comprensione degli altri e di sé medesimo viene scambiata per indifferenza,

I Ricordi: il “libro segreto” 3 929


interesse esclusivo per il proprio particolare da un uomo tutto inteso al dover essere, alla resurrezione della patria che ancor troppo gli sembra legata a quel passato. Comprendiamo il De Sanctis e le ragioni del suo nobile errore: ma chi dopo di lui ne ha ripetuto i giudizi, insistendo ancor più sulla limitazione, anzi sulla condanna, del Guicciardini, si è allontanato ancor più dal vero e ha contribuito a diffondere un giudizio fortemente limitativo sul grande storico fiorentino, sulla sua personalità intellettuale e morale. Che resta quello di una delle menti più lucide e coraggiose del suo tempo, un ultimo portato della grande civiltà fiorentina di cui sono uno dei monumenti appunto i Ricordi.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è l’argomento affrontato da Fubini nel passo proposto? 2. Qual è la tesi sostenuta dal critico in merito all’argomento trattato? In quale punto del brano è formulata? 3. A che cosa allude Fubini parlando di «polemica pedagogica» (r. 4) per il saggio di De Sanctis? Quale espressione contrappone a questa? 4. In che senso Fubini parla di «nobile errore» (r. 23) di De Sanctis rispetto a Guicciardini?

Produzione

Il passo critico riportato tocca il tema dell’interpretazione e del giudizio storiografico su autori e opere, che possono essere orientati diversamente a seconda del clima storico e culturale in cui vengono formulati, esprimendo così anche la sensibilità e la personalità dell’interprete che li elabora. Oltre a quello citato da Fubini a proposito di De Sanctis, conosci altri esempi che illustrano tale tema? Come valuti l’interpretazione di opere del passato secondo la prospettiva di chi le interroga e le giudica? Discuti il problema facendo riferimento alle tue conoscenze ed esperienze, in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Il Ricordo 141 (➜ T6 ) di Guicciardini è incentrato sul tema della totale assenza di comunicazione tra la politica e i cittadini, tra palazzo e piazza. Ritieni che tale mancanza di comunicazione tra governanti e governati costituisca ancora oggi un elemento di forte criticità e un significativo ostacolo alla circolazione delle informazioni e alla possibilità di una reale partecipazione dei cittadini alla vita politica? Rifletti sul problema facendo riferimento alle tue conoscenze ed esperienze. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

930 Quattrocento e Cinquecento 18 Francesco Guicciardini


Il secondo Cinquecento


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Il secondo Cinquecento

Scenari socio-culturali Manierismo e Controriforma

LEZIONE IN POWERPOINT

Due elementi caratterizzano il secondo Cinquecento: • la grave crisi politica che vede l’Italia ormai asservita alla Spagna e la conseguente decadenza della civiltà delle corti; • la Controriforma cattolica, che si definisce attraverso il concilio di Trento (1545-1563). La Chiesa tenta di arginare le conseguenze della Riforma protestante attraverso un rigido controllo su ogni manifestazione del pensiero, cui è difficile sfuggire. È istituito, nel 1559, l’Indice dei libri proibiti. In pochi anni la libertà che in precedenza ha improntato i comportamenti sociali è superata dall’atteggiamento di obbedienza ai dettami della Chiesa controriformistica. Entra in crisi la visione rinascimentale dell’uomo e di conseguenza la visione della letteratura, dominata ora da esigenze normative e dalla ripresa del fine educativo. Questo sconvolgimento dà luogo al Manierismo, che investe in particolare l’arte, sovvertendo i canoni classicistici ma anche le forme letterarie. Il Manierismo reinterpreta i modelli classici attraverso un’inquieta e moderna sensibilità.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento 4 L’evoluzione della lingua 933


Il secondo Cinquecento Sguardo sulla storia Il quadro europeo Un periodo di crisi Negli ultimi decenni del Cinquecento inizia un periodo di crisi che investe vari ambiti: la società, la politica, la cultura. Inizia anche una recessione economica che si aggraverà successivamente. La decadenza della Spagna Nonostante le ricchezze provenienti dalle colonie, la Spagna si avvia alla decadenza, sia a causa delle ingenti spese per il mantenimento dell’apparato militare e burocratico necessario al controllo dei vasti domini, sia a causa della tendenza al lusso e alla dissipazione da parte di una nobiltà parassitaria, arroccata su antichi privilegi, in assenza di un ceto borghese capace di modernizzare l’economia. La Controriforma Dopo il concilio di Trento (1545-1563), la Chiesa cattolica esercita un controllo ideologico negli Stati governati da sovrani cattolici con il supporto

Cronologia interattiva 1560

1550 1555

Pace di Augusta tra l’imperatore Carlo V d’Asburgo e i principi tedeschi protestanti: affermazione del principio cuius regio eius religio.

934 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali

1563

1559

Pace di Cateau-Cambrésis, che pone fine al conflitto tra gli Asburgo e la Francia e sancisce il predominio della Spagna sull’Italia.

Conclusione del concilio di Trento: condanna delle tesi luterane e definizione della riforma della Chiesa cattolica.


del tribunale dell’Inquisizione, reprimendo ogni manifestazione di dissenso nei confronti dei princìpi tridentini. Il complesso di iniziative volte, da un lato, a ripristinare l’autorità assoluta delle gerarchie ecclesiastiche in campo dogmatico (contro il Protestantesimo e gli altri movimenti riformatori) e ad affermare il rigoroso controllo delle coscienze e dei comportamenti e, dall’altro, a riportare la Chiesa ai princìpi evangelici è noto come “Controriforma” (o “Riforma cattolica”). Sostenitore del programma controriformistico in Europa è Filippo II di Spagna: la sua opposizione alla libertà di culto di protestanti e calvinisti nei Paesi Bassi sotto il suo dominio ne provoca la ribellione; la guerra si conclude con la proclamazione di indipendenza da parte delle Province Unite del Nord. Ha invece successo la lotta condotta dal re di Spagna contro l’avanzata dei Turchi ottomani, sconfitti dalla Lega cattolica a Lepanto (1571). L’Italia durante la dominazione spagnola A partire dalla seconda metà del Cinquecento, gli Stati italiani iniziano una fase di declino, conseguente alla pace di Cateau-Cambrésis (1559) che sancisce il dominio della Spagna sul ducato di Milano e sul regno di Napoli e ne determina il controllo sulla maggior parte della penisola. L’unico Stato che mantiene la propria indipendenza è la Repubblica di Venezia, che però deve avvalersi dell’aiuto della Spagna contro l’avanzata turca nell’Adriatico. La Chiesa svolge un ruolo importante nell’ambito politico e nella vita sociale intervenendo, secondo il programma controriformistico, sull’educazione, l’arte e la cultura.

1570

1580

1571

Battaglia di Lepanto con la vittoria della Lega Santa delle forze cattoliche sugli ottomani.

1590

1581

Proclamazione di indipendenza dalla Spagna da parte delle Province Unite del Nord dei Paesi Bassi.

1588

Sconfitta dell’Invincibile Armada di Filippo II di Spagna a opera della flotta inglese.

Sguardo sulla storia  935


1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 L’eclissi della libertà di pensiero Un nuovo clima ideologico La visione del mondo, la mentalità e lo stesso immaginario artistico già negli ultimi decenni del Cinquecento sono condizionati dal nuovo clima ideologico che si viene a creare con la Controriforma: la Chiesa, come reazione alla Riforma protestante, intraprende una svolta autoritaria che in pochi decenni, in modo traumatico per le coscienze, limita fortemente il clima di libertà e tolleranza che aveva caratterizzato il Rinascimento. A determinare tale svolta assume un ruolo fondamentale il concilio di Trento. Il concilio di Trento Convocato per superare le drammatiche conseguenze della Riforma protestante, il Concilio si svolge in varie riprese tra il 1545 e il 1563. Le posizioni del Concilio modificano profondamente il volto della Chiesa cattolica e incidono fortemente, di riflesso, sui comportamenti collettivi e sulla cultura stessa. Nel Concilio possono essere distinti due aspetti: la “riforma cattolica”, ossia i provvedimenti intesi a moralizzare la Chiesa, e la “contro-riforma” in senso stretto, cioè le disposizioni rivolte ad arginare l’influenza dei movimenti riformatori non cattolici. La distinzione tra cattolici e luterani viene tracciata in modo netto e si esclude ogni possibilità di riconciliazione con i protestanti. Le disposizioni conciliari, però, assumono ben presto il volto di una offensiva più generale nei confronti di ogni manifestazione di libero pensiero.

Lessico ortodossia Adesione integrale alle regole e/o ai principi di un’organizzazione o di un’ideologia.

La riorganizzazione della Chiesa La Chiesa viene riorganizzata secondo un rigido principio gerarchico. Per il clero diventa obbligatorio il celibato, la residenza nella propria parrocchia, l’esercizio delle funzioni religiose; inoltre si istituiscono i seminari per curarne la formazione e garantirne l’ortodossia . Così, in pochi decenni, la figura dei ministri del culto risulta profondamente trasformata: nel Medioevo e nel Rinascimento i papi e in generale molti religiosi conducono una splendida e dispendiosa vita mondana e spesso la loro condotta morale è tutt’altro che irreprensibile (basti l’esempio di papa Alessandro VI, padre del duca Valentino, reso famoso da Machiavelli); dopo il concilio di Trento invece i ministri del culto si presentano come un corpo compatto e disciplinato, meno esposto a critiche sul piano morale. L’Inquisizione e il capillare controllo della società L’intera società viene costretta a subordinarsi alle autorità ecclesiastiche: a numerose categorie di laici, come i medici e gli insegnanti delle università, è imposto un giuramento di obbedienza ai decreti della Chiesa tridentina.

Pasquale Cati, La Chiesa trionfante schiaccia l’eresia, sullo sfondo il Concilio di Trento, particolare di affresco, 1588 (Roma, Santa Maria in Trastevere).

936 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali


Una fitta rete di strumenti di controllo, legata all’Inquisizione, impedisce ogni deviazione dall’ortodossia. Occorre precisare che anche nelle chiese riformate, tra Cinquecento e Seicento, domina un clima di intolleranza, di fanatismo e il rifiuto di ogni manifestazione di pensiero dissidente. I tribunali dell’Inquisizione esistono già nel Medioevo, ma con la Controriforma la rete inquisitoria viene centralizzata: nel 1542 è istituita a Roma la sede del Sant’Uffizio, da cui sono fatte dipendere le sedi locali dell’Inquisizione. Proprio grazie a un’organizzazione capillarmente ramificata, la Chiesa può attuare un controllo sulla popolazione che nel tempo finisce per annullare gli spazi del libero pensiero. Su artisti e intellettuali che si discostano dalla linea ufficiale incombono infatti minacciosamente i processi e le condanne. Gli inquisitori, per lo più gesuiti e domenicani, sono incaricati di valutare i casi di deviazione dottrinale, di eresia, magia e stregoneria. I gesuiti, “milizia di Cristo” Nel 1534 sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) aveva fondato la Compagnia di Gesù, che ai consueti voti ne aggiunge uno improntato allo spirito dell’epoca: il giuramento di obbedire al papa perinde ac cadaver (“come un cadavere”, cioè incondizionatamente). Il termine compagnia, appartenente all’ambito militare, evidenzia i caratteri del nuovo ordine, che Ignazio di Loyola, ex soldato, organizza come un esercito, con l’obbligo per gli appartenenti di assoggettarsi sempre e comunque ai superiori. Disciplinati e obbedienti, più inclini all’azione che alla solitaria meditazione, i gesuiti combattono una vera e propria guerra per l’affermazione della Chiesa cattolica nel mondo, perché ad essa sia ricondotta ogni manifestazione di dissidenza e per diffondere, come missionari, la parola del Vangelo nei luoghi più remoti della Terra (vere e proprie colonie furono create in America Latina); ma anche per guidare il popolo attraverso la predicazione e per consigliare i potenti. L’arma principale dei gesuiti è la parola: espertissimi nella retorica, accuratamente coltivata nelle loro scuole (➜ SCENARI, PAG. 946), essi sanno conquistare abilmente l’animo dei fedeli.

VERSO IL NOVECENTO

I confessori, «doganieri delle coscienze» Sulla massa della popolazione il controllo delle coscienze viene esercitato dai confessori, «doganieri delle coscienze» (come li definisce lo storico Adriano Prosperi), incaricati di riferire al Sant’Uffizio i casi di sospetta eresia e di miscredenza: durante la confessione, i ministri del culto devono chiedere ai fedeli se tengano in casa libri proibiti o se conoscano chi ne ha; online oppure se, per qualche ragione, sospettino di eresia i propri D1 Franco Cardini parenti e conoscenti. Si comprende come, in questo clima di La confessione di una strega: sospetto e di delazione, possa trovar posto un tragico fenoGostanza di Libbiano Gostanza, la strega di San Miniato meno come la “caccia alle streghe”.

La chimera di Sebastiano Vassalli La chimera, romanzo pubblicato da Sebastiano Vassalli (1941-2015) nel 1990, prende spunto dalla vicenda, realmente avvenuta nel novarese, di Antonia, arsa sul rogo come strega poco più che ventenne nel 1610. Come spesso accadeva per le donne accusate di stregoneria, Antonia si distingueva dalle altre: era una ragazza dalla particolare bellezza e dalla nascita irregolare, essendo una trovatella; inoltre, il suo carattere fiero e appassionato le impediva di conformarsi alla mentalità ristretta

dei compaesani. Cominciò così a suscitare dei sospetti, che sfociarono in un’accusa all’Inquisizione in grado di segnare la sua sorte. Il libro ricostruisce la vicenda della sfortunata ragazza, mostrandone la grande forza morale nel sostenere, di fronte agli inquisitori, le sue opinioni di semplice e ingenua popolana; capace però, nonostante la giovane età e il periodo oscuro in cui ebbe il destino di vivere, di concepire una personale opinione sul mondo.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 937


EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

La caccia alle streghe: una pagina oscura della storia La persecuzione delle streghe riguarda non tanto il Medioevo, come si potrebbe pensare, quanto l’età della Controriforma, raggiungendo il suo apice nel cinquantennio compreso tra il 1570 e il 1620. Già verso la fine del Quattrocento (nel 1496) fu pubblicato, a opera di due domenicani tedeschi, il tristemente noto Malleus maleficarum (Il martello delle streghe), un manuale usato nel tempo dagli inquisitori, che delineava la figura della strega: ciò che fino ad allora era soltanto nell’immaginazione di quanti credevano all’esistenza di malefici infine assumeva i caratteri inquietanti di una pretesa realtà. Con la Controriforma, la cosiddetta caccia alle streghe, compiuta in nome dell’ortodossia cattolica (ma la persecuzione della stregoneria ci fu anche in campo protestante) divenne un fenomeno molto diffuso e drammatico. Chi erano le persone accusate di stregoneria? Prima di tutto, erano donne: i dati dei processi per stregoneria tenuti in Europa tra Cinque e Seicento documentano percentuali del sesso femminile superiori all’80%, e anche le testimonianze iconografiche riportano soprattutto immagini femminili. Per quali ragioni? In primo luogo, perché le donne erano più

PARITÀ DI GENERE equilibri

NUCLEO Costituzione COMPETENZA 3

#PROGETTOPARITÀ

implicate in attività, come ad esempio la preparazione dei cibi, che avrebbero potuto favorire le supposte pratiche magiche. Le donne erano inoltre temute perché, secondo la severa morale religiosa dell’epoca, suscitavano la tentazione della lussuria. Le donne sospettate di essere streghe erano per lo più sole, nubili o vedove, quindi non protette da una rete familiare, e spesso mostravano un carattere indipendente, considerato inaccettabile in un’epoca in cui l’obbedienza era il valore supremo. Pettegolezzi e liti anche banali tra vicini di casa, soprattutto nei piccoli paesi, sfociavano dunque assai spesso in accuse di stregoneria. Le presunte streghe erano in genere accusate di aver stretto un patto con il diavolo, prestandosi come sue alleate nella diffusione del male. I processi contro le streghe si concludevano per lo più con la condanna a morte, dopo confessioni estorte con la tortura. Emblematico per comprendere come la caccia alle streghe incidesse sull’immaginario popolare è anche il caso, analizzato dallo storico Franco Cardini, di Gostanza da Libbiano, una levatrice di San Miniato che alla confessione, estorta con la tortura, aggiunse una serie di fantasiosi racconti, rivelando una formidabile immaginazione.

Esercitare le competenze spunti per la riflessione

1. Dividete la classe in gruppi e cercate documentazione sulla caccia alle streghe tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento e sul perché fossero le donne ad essere condannate e in particolar modo in quali Paesi dell’Europa. 2. Create un documento di lavoro che sia o discorsivo o schematico da condividere con la classe. 3. Condividete il risultato della vostra ricerca che contenga anche immagini con il docente e con gli altri componenti della classe.

Sguardo sul cinema Streghe, inquisitori, eretici Dies Irae Uno dei film più importanti sulla figura della strega e sulla sua persecuzione è Dies Irae (1943) del regista danese Carl Theodor Dreyer (1889-1968). Si tratta di un film estremamente moderno per l’epoca in cui è stato realizzato, soprattutto per la profondità psicologica con cui analizza la figura della presunta strega Anne. Il regista lascia volutamente aperta la questione se davvero la protagonista sia una figura amorale e diabolica o la vittima predestinata di un mondo ostile e dominato dal sospetto.

Un caso italiano: la strega Gostanza Un’interessante pellicola sulla stregoneria e sull’Inquisizione è Gostanza da Libbiano (2000) di Paolo Benvenuti. Il film, ambientato negli ultimissimi anni del Cinquecento, ha come protagonista la tessitrice Gostanza che, rimasta vedova, viene accusata di stregoneria e arrestata. Dapprima Gostanza si dichiara innocente, poi confessa le proprie colpe. Il film richiama le atmosfere angosciose di quel tempo. La locandina del film Gostanza da Libbiano.

Una scena dal film Dies Irae.

938 IL seCondo CInqueCento Scenari socio-culturali


2 La crisi dei valori rinascimentali Lessico sincretismo Fusione di idee religiose o filosofiche di origini diverse.

Presunto ritratto di Michel de Montaigne, artista anonimo di scuola francese, olio su tela.

La sfiducia nella ragione L’influenza della Controriforma si traduce in un quasi totale rovesciamento dei valori rinascimentali. Il pensiero umanistico valorizzava la ragione, ritenendola capace di percorrere la distanza tra l’uomo e Dio. Proprio la fiducia nella ragione fu alla base del clima di tolleranza e di sincretismo religioso del Rinascimento: pensatori come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola riconoscevano nelle diverse filosofie e religioni un comune nucleo razionale, sulla cui base pensavano di poter giungere a una pacificazione religiosa universale. Tale illusione viene drammaticamente infranta dai gravi conflitti religiosi sorti con la riforma luterana. Insieme ad altri fattori, come il traumatico crollo della secolare visione del mondo fondata sulla filosofia aristotelica e il clima oppressivo della Controriforma, i conflitti religiosi contribuiscono a vanificare il ruolo di conciliazione universale della ragione. Dal secondo Cinquecento, la sfiducia nella ragione accomuna protestanti e cattolici: gli uni la giudicano debole e insufficiente e le antepongono la fede; gli altri le sostituiscono un’obbedienza assoluta alla Chiesa controriformistica. Il rovesciamento dell’ottimismo rinascimentale Con la Controriforma, l’ottimismo rinascimentale entra in crisi: in nome di una visione della realtà ispirata a severi valori cristiani, non si esalta più l’umanistica virtù dell’uomo, ma si sottolinea la sua inclinazione al peccato; non la grandezza, insomma, ma i limiti. Nei suoi Esercizi spirituali, il fondatore dell’ordine dei gesuiti Ignazio di Loyola (1491-1556) suggerisce ai fedeli di meditare sulla nullità dell’essere umano. Ma anche un pensatore laico come Michel de Montaigne (1533-1592) delinea un’immagine dell’uomo che si discosta da quella rinascimentale, descrivendolo come la più «miserabile e meschina creatura» (➜ D2 ). Ovviamente, nell’incrinare le fiducie rinascimentali ha un ruolo determinante anche la situazione storica, che vede la rapida decadenza dell’Italia delle corti rinascimentali in seguito al controllo della Spagna su ampia parte della penisola, sancito con la pace di Cateau-Cambrésis (1559). Si diffonde, così, la percezione angosciosa di una crisi destinata ad aggravarsi nel Seicento. L’inconciliabilità tra valori laici e valori cristiani Se nel Rinascimento era possibile conciliare i princìpi etici della classicità con quelli cristiani, ora tale eventualità è decisamente negata. Non a caso è sancita una netta separazione tra “sacro” e “profano”, abitualmente associati nella cultura umanistico-rinascimentale: nella pittura del Rinascimento le scene sacre erano frequentemente collocate su uno sfondo naturale e spesso accoglievano personaggi estranei alle Scritture, come a Firenze era accaduto per esponenti della famiglia Medici. Dopo il concilio di Trento, nelle opere di soggetto religioso non sono, invece, più tollerati dettagli che non corrispondano ai testi sacri. Gli artisti che non si conformano a tali disposizioni sono sottoposti a processi.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 939


La svalutazione della dimensione terrena e la demonizzazione del piacere Nell’età controriformistica si rifiutano gli elementi fondamentali del naturalismo rinascimentale: nella bellezza della natura non si vede più una manifestazione del divino, come nel neoplatonismo rinascimentale, ma una fonte pericolosa di seduzioni peccaminose; la vita terrena viene svalutata rispetto alla dimensione spirituale-religiosa; viene demonizzata la dimensione del corpo e condannata senza appello l’attrazione del piacere dei sensi. All’invito a godere lietamente la giovinezza, presente nella celebre ballata di Lorenzo il Magnifico, possono essere significativamente contrapposte le cupe esortazioni di Ignazio di Loyola, nei già citati Esercizi spirituali, a spegnere ogni inclinazione al piacere: «qualunque pensiero di gioia e letizia è di ostacolo al sentir pena, dolore e lacrime per i nostri peccati; prefiggermi, invece, di voler sentire dolore e pena, traendo piuttosto alla memoria la morte, il giudizio». La censura nella rappresentazione artistica del corpo Considerata dalla Controriforma un fondamentale veicolo ideologico, l’arte fu sottoposta a rigide direttive, applicate con crescente severità. Non solo la rappresentazione del corpo nudo fu severamente proibita, ma venne anche “censurata” nelle opere rinascimentali in cui era presente: il caso più clamoroso, data l’importanza e la notorietà dell’opera, fu quello delle figure michelangiolesche del Giudizio nella cappella Sistina, ricoperte dal pittore Daniele da Volterra (ca. 1509-1566), che ne ricavò il soprannome di “Braghettone” (➜ ARTE NEL TEMPO, PAG. 953).

Elementi della visione del mondo nel secondo Cinquecento Sfiducia nella ragione

non si ritiene più strumento di risoluzione dei conflitti, in particolar modo di quelli religiosi

Caduta dell’esaltazione della virtù dell’uomo

entra in crisi l’ottimismo rinascimentale

Separazione netta tra sacro e profano

non è più possibile conciliare i principi della classicità con quelli cristiani

Svalutazione della vita terrena

viene condannato il piacere e demonizzato il corpo

940 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali


Michel de Montaigne

L’uomo, la più miserabile delle creature

D2

Saggi II, xii Nel suo capolavoro, i Saggi, de Montaigne riflette su come l’ottica antropocentrica della filosofia rinascimentale fosse determinata dalla vanità dell’uomo, la più fragile e, al contempo, la più superba delle creature.

M. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1996

Consideriamo dunque per ora l’uomo solo, senza soccorso esterno, armato delle sue sole armi e sprovvisto della grazia e della conoscenza divina, che è tutto il suo onore, la sua forza e il fondamento del suo essere. Vediamo quanto egli possa resistere in questo bello stato. Che egli mi faccia capire con la forza del suo ragio5 namento su quali basi ha fondato quei grandi privilegi che pensa di avere sulle altre creature. Chi gli ha fatto credere che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di quelle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo1, i movimenti spaventosi di quel mare infinito siano stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio? È possibile immaginare qualcosa di tanto 10 ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di sé stessa ed è esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora dell’universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla? E quel privilegio che si attribuisce, di essere cioè il solo in questa gran fabbrica2 ad avere la facoltà di riconoscerne la bellezza e le parti, il solo a 15 poter renderne grazie all’architetto3 e tener conto del bilancio del mondo, chi gli ha conferito questo privilegio? Ci mostri le credenziali4 di questo grande e bell’ufficio. […] La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa5 e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. 1 2 3

fiaccole… capo: le stelle. fabbrica: costruzione (dell’universo). architetto: creatore. Nell’Oratio de hominis dignitate, Pico della Mirandola sostiene che Dio abbia creato l’uomo come

unica creatura capace di comprendere e ammirare la perfezione dell’universo. 4 le credenziali: termine del linguaggio burocratico, qui usato con ironia; sono i documenti attestanti che il mondo è di

proprietà dell’uomo e le prove che Dio ha creato il mondo per l’uomo. 5 calamitosa: sventurata, debole.

Concetti chiave Il superamento dell’antropocentrismo

Nelle incalzanti domande che si pone Montaigne (ma che di fatto pone all’uomo che si crede signore dell’universo) è evidente un rovesciamento dell’antropocentrismo umanistico-rinascimentale. Montaigne sfida a dimostrare, attraverso argomentazioni razionali, la superiorità dell’uomo. Al contrario, è evidente la fragilità dell’essere umano e i limiti della sua capacità di conoscere.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il pensiero espresso da Montaigne nel testo in max 5 righe. ANALISI 2. Rintraccia nel testo le espressioni che sottolineano l’“indegnità” dell’uomo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Il brano si può contrapporre all’orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola (➜ SCENARI, PAG. 551, D14 ). Immagina e scrivi la replica in cui l’umanista (anche sotto forma di lettera) sostenga le proprie convinzioni rispetto a quelle enunciate dal pensatore francese.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 941


3 La concezione dello spazio geografico Dopo le scoperte geografiche: i nuovi mondi nell’immaginario del tempo Dopo la metà del secolo si accetta ormai il fatto che esistano nuovi mondi, ben diversi dai territori fino ad allora conosciuti, e si inizia a prendere coscienza di una nuova geografia del globo terrestre, grazie alle relazioni dei navigatori e dei primi missionari inviati per evangelizzare le nuove terre. L’importanza storica ed economica delle scoperte geografiche è grandissima e in seguito ad esse inizia a delinearsi una nuova visione “geo-antropologica” che sottolinea la diversità costituzionale delle nuove realtà sia riguardo al paesaggio naturale sia (soprattutto) in relazione ai suoi abitatori. Se la “diversità” del paesaggio suscita la stupita ammirazione degli esploratori per una natura vergine e lussureggiante, l’incontro con popoli di cui non si era neppure sospettata l’esistenza mette in crisi molte certezze, prima fra tutte il racconto biblico e la convinzione che il sacrificio di Cristo avesse redento tutta l’umanità. Come considerare popolazioni primitive fino ad allora ignote e ignare del messaggio cristiano? Degli indigeni per lungo tempo è prevalsa l’idea dell’“inferiorità” (soprattutto in rapporto alla nudità e alle abitudini sessuali totalmente libere). L’inferiorità degli autoctoni si misura nel rapporto obbligato con la civilizzata Europa, secondo una prospettiva che oggi definiremmo eurocentrica e che era di certo storicamente spiegabile a quei tempi. L’adozione comune di questo punto di vista giustificherà, in modo implicito, lo sfruttamento e a volte l’annientamento di intere popolazioni praticato dalle potenze europee nelle nuove terre (vengono distrutte antichissime civiltà come quella azteca e quella inca) e anche il sistematico assoggettamento ideologico e religioso degli abitanti, considerato dagli europei come un compito doveroso, una specie di missione: gli indigeni erano infatti visti come pericolosi selvaggi proprio perché ignari della vera fede. Può essere testimonianza del sentire comune dell’epoca un’ottava della Gerusalemme liberata (XV, ott. 28), in cui la Fortuna guida due crociati, Carlo e Ubaldo, alle occidentali isole Fortunate e profetizza loro la futura scoperta dell’America. Gli amerindi sono rappresentati, secondo uno stereotipo allora diffusissimo, come empi e barbari, dediti a crudeli riti pagani, e anche cannibali.

Gli soggiunse colei1: – Diverse bande2 diversi han riti ed abiti e favelle3: altri adora le belve4, altri la grande comune madre, il sole altri e le stelle; 5 v’è chi d’abominevoli vivande le mense ingombra scelerate e felle5. E ’n somma ognun che ’n qua da Calpe siede6 barbaro è di costume, empio di fede. 1 colei: la Fortuna. 2 bande: regioni. 3 favelle: lingue.

4 altri… belve: alcuni adorano le belve. 5 d’abominevoli… felle: riempiono la tavola di cibi abominevoli, scellerati e cru-

942 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali

deli (cioè praticano il cannibalismo). 6 ’n qua da Calpe siede: si trova al di là di Gibilterra.


L’accettazione del “diverso” Appare di sorprendente modernità la posizione del grande scrittore francese Michel de Montaigne (1533-1592) che, nel capitolo XXI del primo libro dei suoi Essais (Saggi), fa riferimento ai nuovi popoli che le esplorazioni geografiche avevano scoperto. Alla generale preclusione di fronte a individui considerati costituzionalmente inferiori, Montaigne contrappone una posizione relativistica e la saggia accettazione di chi appare “diverso” agli occhi di una civiltà che si è molto allontanata dalla felice condizione naturale. Scrive Montaigne: «[…] Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto».

4 I valori e i modelli di comportamento La virtù dell’obbedienza accomuna sudditi e regnanti Nel mutato contesto religioso e culturale, la principale virtù è l’obbedienza. Ignazio di Loyola inserisce, nei suoi Esercizi spirituali (n. 365), la raccomandazione di obbedire sempre alla Chiesa, «che ci governa e regge per la salvezza delle anime nostre»: perciò, egli afferma, «quello che io vedo bianco, creda che sia nero, se la Chiesa gerarchica così stabilisce». L’obbedienza alla Chiesa era considerata la prima virtù anche per i regnanti. Il gesuita Giovanni Botero (1544-1617), nel suo trattato Della ragion di Stato (1589), sostiene che un buon principe dovrebbe essere in primo luogo obbediente alla Chiesa. È evidente il contrasto con la visione machiavelliana, incentrata sull’idea di una virtù laica, del tutto svincolata dalla morale religiosa. Machiavelli, tuttavia, non è assente dal quadro ideologico dell’epoca: sebbene, per prudenza, non sia quasi mai citato, le sue idee vengono spesso riprese in modo dissimulato. Lo stesso concetto di “ragion di Stato” deriva online in ultima analisi dalla concezione machiavellica: nel proprio D3 Giovanni Botero trattato Botero, quando detta le norme della vita politica e Il principe assoluto deve umiliarsi davanti a Dio delinea lo Stato perfetto, non fa che sancire, edulcorandolo, Della ragion di Stato, II, XV l’assolutismo (➜ D3 OL). Il ruolo sempre più marcato dell’apparire Nel secondo Cinquecento, il controllo dell’Inquisizione deprime ogni vivacità culturale: poiché esprimere liberamente le proprie opinioni diviene rischioso, cessano le appassionate discussioni intellettuali di un tempo. Timorosi di lasciar trasparire le proprie opinioni, i cortigiani divengono sempre più simili ad attori che recitano un ruolo stereotipato; la vita di corte, regolata da ferree regole di etichetta, si riduce a un’ostentazione di fasto e di potere. In tale elitario microcosmo sociale, spentosi l’interesse per il dialogo e il dibattito culturale, appare più importante apparire che essere: in questo senso la società cortigiana di quest’epoca è stata da alcuni sociologi paragonata all’odierna società mediatica.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 943


decadenza delle corti e la trasformazione del ruolo 5 La e dell’identità dell’intellettuale La decadenza delle corti Nella seconda metà del Cinquecento, anche e soprattutto in rapporto alla situazione politica, tramonta il ruolo della corte come centro di aggregazione degli intellettuali e di promozione di modelli culturali: non è un caso che figure di spicco come Bembo e Castiglione si spostino a Roma, unico centro (insieme a Venezia) a mantenere una propria autonomia politica e culturale, grazie alla presenza della corte pontificia. Dal “cortigiano” al “segretario” A partire dal secondo Cinquecento, il ruolo dell’intellettuale umanista – centrale, in Italia, nella civiltà del Rinascimento e delle corti – decade vistosamente. Il prevalere dei regimi assolutistici fa apparire ormai anacronistica la figura delineata dal fortunato trattato del Castiglione che, con la sua saggezza e la sua cultura, guidava e consigliava il signore. Al cortigiano sempre più si sostituisce la figura del segretario, dedito a funzioni esclusivamente burocratiche e caratterizzato da obbedienza, discrezione, segretezza. Un fortunato trattato di Francesco Sansovino, Il secretario (1564), primo di una tipologia in seguito molto diffusa, delinea appunto il ruolo ormai subalterno del letterato: tenuto all’oscuro dei segreti della politica, esercita la propria abilità retorica nella scrittura di lettere e documenti in uno stile ampolloso. Le accademie Con la decadenza delle corti e del modello culturale ad esse connesso, sono le accademie gli ambiti in cui si polarizza l’organizzazione culturale. Nelle accademie gli intellettuali ricercano quel ruolo e quelle sicurezze che erano venuti meno nelle corti. Già nel periodo umanistico-rinascimentale ne esistevano, ma dal secondo Cinquecento in poi si moltiplicano: da luoghi di dibattito intellettuale tendono ora però a trasformarsi in strutture chiuse, in cui domina una visione rigidamente classicistica e precettistica della letteratura.

Le istituzioni culturali Religiose

• il tribunale dell’Inquisizione • i gesuiti

Laiche

accademie letterarie

Nel 1573 il pittore Paolo Veronese è accusato di aver dipinto un’Ultima cena non strettamente conforme al racconto evangelico, perché, secondo il costume rinascimentale, somigliava piuttosto a un fastoso banchetto mondano. Al pittore venne ingiunto di modificare l’opera. Egli tuttavia riuscì a cavarsela semplicemente cambiando il titolo, ribattezzandola con un meno impegnativo Cena in casa di Levi, particolare (Venezia, Gallerie dell’Accademia).

944 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali


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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Copernico e la teoria eliocentrica

Lessico eliocentrismo Modello astronomico che pone il Sole al centro del sistema planetario; si oppone al “geocentrismo”, che al centro poneva invece la Terra.

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Per approfondire Il disorientamento conoscitivo e la perdita delle certezze

Scoperte decisive Nuovi orizzonti si aprono in campo astronomico e nell’immagine del cosmo grazie alle intuizioni dello scienziato polacco Niccolò Copernico (1473-1543). Nel suo De revolutionibus orbium coelestium (Le rivoluzioni dei mondi celesti, 1543), fondato su precise ricerche matematiche, Copernico formula l’ipotesi, a quel tempo incredibilmente audace, dell’eliocentrismo , contestando il geocentrismo tolemaico, secondo cui la Terra si trovava immobile al centro dell’universo. Alla tesi di Copernico seguiranno ben presto le intuizioni di Tycho Brahe, Keplero e soprattutto di Galileo, destinate a sconvolgere gli orizzonti conoscitivi nella seconda metà del Cinquecento e all’inizio del Seicento. Se le scoperte geografiche trasformano in pochi decenni, come si è detto, l’immagine dello spazio terrestre, ancor più sconvolgente sarà l’effetto sull’immaginario della rivoluzione copernicana (ma occorre precisare che si realizzerà pienamente soprattutto nel Seicento): rivelando che la Terra non è al centro dell’universo, Copernico faceva crollare l’armoniosa costruzione del cosmo tolemaico e metteva in crisi l’orgogliosa visione antropocentrica su cui si era fondato il modello culturale rinascimentale(➜ PER APPROFONDIRE La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie).

PER APPROFONDIRE

Dal paradigma tolemaico a quello copernicano Bisogna osservare però che, con il De revolutionibus orbium caelestium, Copernico non si proponeva affatto di rivoluzionare la cosmologia. Innanzitutto il suo universo era ancora “finito” e geometricamente ordinato, ma soprattutto era ancora permeato di un significato teologico: il sole, immaginato da Copernico con tratti antropomorfici al centro dell’universo, era considerato come la più vera immagine di Dio (secondo la concezione propria del neoplatonismo, di cui Copernico era cultore).

La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie Il pensiero di essere smarriti su una terra in movimento, in un universo senza ordine e armonia, determina una crisi profonda delle coscienze, testimoniata nel poema L’anatomia del mondo del 1611, del poeta metafisico inglese John Donne (1572-1631). Con penetrante immaginazione, il poeta vede dissolversi l’antico universo gerarchicamente ordinato (come l’armonica costruzione dell’universo dantesco) in una massa scomposta di atomi; e anche l’ordine sociale, considerato nel Medioevo come un riflesso di quello cosmico, vede cadere il proprio fondamento metafisico: «Tutto è in frantumi, ogni coesione è svanita, ogni equità e ogni relazione». Da allora, pensatori, filosofi e scrittori – da Shakespeare (per Amleto, il tempo è scardinato, la terra un «promontorio sterile», il firmamento «una massa lurida e pestifera di vapori»), a Pascal, a Leopardi (nella Ginestra la Terra, perduta negli immensi

spazi cosmici, è un «oscuro granel di sabbia») – hanno individuato nella distruzione del cosmo antropocentrico l’origine di una crisi delle certezze che ha investito nel profondo tutta la cultura moderna, con riflessi fin nel Novecento, in cui Freud, nella Introduzione alla psicoanalisi (lezione XVIII), definisce il copernicanesimo come una mortificazione all’amore di sé per l’umanità, che si vede spodestata dal centro dell’universo; mentre, in una celeberrima pagina del suo romanzo Il fu Mattia Pascal (1904) nella Premessa seconda (filosofica), a mo’ di scusa, Pirandello mette in relazione la crisi di valori del mondo contemporaneo con l’influenza delle teorie copernicane che, mostrando l’insignificanza della Terra («un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché») avevano tolto significato alle vicende degli uomini che la abitano.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 945


Di fatto, però, l’ipotesi copernicana, allontanando la Terra dalla posizione al centro dell’universo, diede l’avvio a una serie di conseguenze che avrebbero condotto a dubitare dell’intero sistema e, andando ben oltre l’ipotesi di Copernico, avrebbero disgregato in pochi decenni l’immagine aristotelico-tolemaica dell’universo.

2 La pedagogia dei gesuiti I princìpi della Ratio studiorum Nell’epoca della Controriforma, i gesuiti detengono il monopolio dell’istruzione. I loro collegi, organizzati unitariamente secondo una Ratio studiorum, cioè un organico piano di studi, sono frequentati non soltanto da futuri membri dell’ordine, ma anche da giovani delle classi dirigenti, destinati alla carriera diplomatica o militare. I gesuiti coltivano a livello eccellente tutti i campi del sapere, umanistico e scientifico, badando però a che gli studi non stimolino lo spirito critico degli studenti e non mettano in discussione il principio di autorità e l’obbedienza ai dettami della Chiesa che costituiscono i fondamenti della pedagogia gesuitica. Secondo la Ratio studiorum, obiettivo principale dell’insegnante era quello di «condurre i suoi allievi all’obbedienza e all’amore di Dio». Ma come distogliere gli studenti dall’apprezzare autori che li avrebbero condotti sulla strada dell’eresia o comunque di una non perfetta ortodossia? La Ratio studiorum suggeriva agli insegnanti il rimedio: screditarli con mezzi abili e sottili, tipici di una pedagogia tanto raffinata quanto subdola, dimostrando che quel che avessero detto di buono l’avevano desunto da altri. Rembrandt, Il predicatore Cornelis Claeszoon Anslo con la moglie Aeltje Schouten, 1641 (Berlino, Gemäldegalerie).

La riproposizione del principio di autorità Le due autorità fondamentali per i gesuiti erano Aristotele per la filosofia e san Tommaso per la teologia. Gli autori classici erano studiati in modo approfondito, ma disgiunti dai valori di libertà e senso critico che avevano caratterizzato l’ottica umanistica; se ne dovevano soprattutto ricavare insegnamenti di stile, per ottenere una sicura padronanza dell’arte retorica: dalle scuole dei gesuiti, infatti, dovevano uscire innanzitutto predicatori e missionari, capaci di padroneggiare perfettamente il linguaggio e di renderlo persuasivo. I gesuiti coltivavano anche le discipline scientifiche e alcuni di loro possedevano una notevole preparazione in matematica e fisica. Anche in questo campo, tuttavia, il principio di autorità poneva un freno alle innovazioni: non potendo mettere in discussione Aristotele, gli scienziati dell’ordine non potevano che rifiutare la rivoluzione copernicana (e infatti fu proprio un gesuita, il cardinale Bellarmino, a suggerire il decreto anticopernicano del 1616). E se gli insegnanti fossero risultati «troppo aperti alle novità o di spirito troppo libero»? Il rimedio era chiaramente indicato nella Ratio studiorum: «rimuoverli senza esitazioni dall’insegnamento».

946 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali


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Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento 1 Oltre il classicismo rinascimentale: il Manierismo

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Interpretazioni critiche Ezio Raimondi Per la nozione di manierismo letterario

Il Manierismo tra imitazione dei modelli e “trasgressione” Verso la metà del Cinquecento – e grosso modo fino all’ultimo decennio del secolo – si riscontra un mutamento nell’arte e nella letteratura in cui si manifesta la crisi dell’ottimismo rinascimentale (di cui si è parlato) e che corrisponde a un nuovo modo di vedere la realtà. Per definirlo e definire le espressioni artistico-letterarie che ne conseguono è entrato nell’uso il termine Manierismo. Impiegato prima, e secondo alcuni interpreti più correttamente, in ambito soltanto artistico, più recentemente è stato esteso anche all’ambito letterario: vi definisce la letteratura del secondo Cinquecento nei suoi aspetti di sperimentalismo rispetto alle forme assunte durante il Rinascimento; in altri termini: si verifica una forte tendenza a sottoporre i materiali della tradizione letteraria alla ricerca di inedite combinazioni. Il termine “Manierismo” deriva da “maniera”, sinonimo di “stile” proprio di un artista ed è impiegato in particolare da Giorgio Vasari (1511-1574) per indicare il quid dei lavori di grandi personalità come Raffaello e Michelangelo, in grado di raggiungere ormai il massimo della perfezione, a tal punto che coloro che li avrebbero seguiti non avrebbero potuto che imitare la loro arte anziché la natura. Da sempre si riteneva che l’arte fosse imitazione della natura; ora il modello proposto è l’arte, perché divenuta perfetta: da qui l’obbligo di seguire lo stile e la lingua di grandi autori. L’obiettivo di artisti e autori del Manierismo era da una parte imitare lo stile dei grandi maestri, dall’altra contestare la perfezione formale a favore di una deformazione dei modelli e una esagerazione espressiva. Il tratto prevalente del Manierismo è la ricerca dell’ideale e l’allontanamento da esso con una contestazione interna: il modello non viene totalmente rifiutato, viene invece deformato. Già nel Settecento, “Manierismo” acquista un significato negativo, che si è mantenuto a lungo (tuttora è parzialmente esistente) e diventa sinonimo di un’arte artificiosa, convenzionale, che imita senza ricerca di originalità autonoma. L’infrazione dell’armonia e dell’equilibrio In realtà, per artisti e scrittori del tardo Cinquecento non è così: i modelli permangono (anche perché ai grandi esempi del passato si guarda come a un sicuro baluardo a cui fare riferimento) ma vengono assunti in modo originale. Di fronte alla crisi politica, morale e culturale del tempo si infrangono gli ideali di armonia, di equilibrio propri dell’arte rinascimentale; se ne esasperano e deformano, quindi, le caratteristiche salienti: le citazioni dai grandi sono inserite in contesti stranianti, in atmosfere irreali, in cui le figure si contorcono in posizioni innaturali, a esprimere una visione problematica, se non addirittura drammatica, della condizione umana. In ambito artistico, il Manierismo è una tendenza propria di pittori come Pontormo (1494-1557), Rosso Fiorentino (1494-1540), Giulio Romano (1499-1546), Tintoretto (1518-1594) e altri ancora.

Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento 3 947


È piuttosto recente, come si è detto, l’estensione della categoria alla letteratura per scrittori che, come Tasso, non rifiutano le regole e i modelli classici, ma li interpretano appunto in modo innovativo, alla luce di una moderna, inquieta sensibilità. Ne è un esempio la Gerusalemme liberata, che si può considerare un’opera manieristica perché, pur riprendendo i modelli classici dell’Eneide e dell’Iliade, è ormai ben lontana dall’armonia rinascimentale ed esprime a più livelli la crisi spirituale dell’età controriformistica. Il poema di Tasso dà molto spesso spazio, inoltre, a scene notturne affini a quelle della pittura manieristica: si pensi all’episodio della morte di Clorinda o della fuga di Erminia, che possono ricordare la pittura di Tintoretto; o a prospettive spaziali labirintiche e irregolari, tipicamente manieristiche, come quelle del giardino di Armida. IMMAGINE INTERATTIVA

Tra le caratteristiche della pittura manieristica c’è l’abbandono della struttura unitaria dello spazio e della prospettiva centrale del Rinascimento, mentre sono privilegiati punti di vista periferici e inconsueti; le figure umane, spesso innaturalmente allungate, sono collocate in pose tese e contorte; i contorni sono tracciati con linee irregolari e sinuose (definite «serpentinate» dal critico Mario Praz); le tinte sono spesso innaturali e sono accentuati i contrasti tra i colori e quelli tra luce e ombra. Si veda, ad esempio, la Deposizione di Rosso Fiorentino, 1521, una composizione drammatica, organizzata per linee spezzate, dissonante, con colori violenti, senza chiaroscuri (Volterra, Pinacoteca comunale).

Il Manierismo EPOCA

dal 1550 circa

CARATTERISTICHE

• sperimentalismo anticlassico • infrazione di armonia ed equilibrio • visione problematica della condizione umana • inquieta sensibilità

TERMINE

deriva da “maniera”, “stile” (Vasari); prima indica un fenomeno artistico e poi letterario

MODELLI

Raffaello e Michelangelo

CONCETTO CHIAVE

l’arte non imita più la natura ma un modello ritenuto perfetto

AUTORI

in arte Pontormo, Rosso Fiorentino e Tintoretto; in letteratura Tasso

948 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali


2 Il dibattito letterario

Lessico metaletterario Tutto ciò che riguarda la letteratura che parla di sé, cioè la letteratura che discute delle caratteristiche o delle dinamiche della letteratura stessa.

La centralità della Poetica di Aristotele Mentre nel pieno Rinascimento regnava la libertà degli scrittori nel loro rapporto con i generi letterari e non si era particolarmente sentito il bisogno di una rigorosa riflessione teorica sul modo di fare letteratura, al contrario nel secondo Cinquecento si avverte la necessità di individuare regole precise di poetica e di delineare rigorosamente i tratti distintivi dei generi principali: si avvia così quella classificazione dei generi letterari che durerà fino alla rivoluzione romantica. Una tendenza che si ricollega certamente a quella più generale a regolare i comportamenti, all’ossessione per il rispetto dei ruoli. Non certo irrilevante è anche il richiamo costante all’obbedienza che veniva dalla Chiesa controriformistica e che certamente più di tutto contraddistingue il tempo. All’affermazione di questa tendenza metaletteraria e normativa dà un impulso fondamentale la riscoperta della Poetica (IV sec.a.C) di Aristotele. L’opera, peraltro, circolava da tempo negli ambienti intellettuali (la prima edizione a stampa dell’originale compare nel 1508 in una collezione di autori greci curata da Aldo Manuzio), ma senza esercitare l’enorme influenza che avrà nel secondo Cinquecento, quando si moltiplicano le edizioni, i volgarizzamenti dell’opera, che a loro volta danno vita a molteplici scritti teorici. Nel primo libro della Poetica Aristotele, sulla base delle grandi tragedie greche (come l’Edipo re di Sofocle) indica i caratteri fondamentali del genere tragico: la verosimiglianza (le vicende devono essere credibili, non inverosimili) e la razionale concatenazione dei fatti. Nel primo libro dell’opera si riflette anche sul genere epico considerato, per soggetto e caratteri dei personaggi, “alto” come la tragedia. Nella Poetica, Aristotele non fornisce, in realtà, norme vincolanti per gli scrittori. I critici del secondo Cinquecento ricavano invece dal testo aristotelico principi a cui occorreva che gli scrittori si conformassero. Riguardo alla tragedia, diventa obbligatorio il rispetto delle unità di tempo, luogo, azione: la vicenda deve svolgersi in una sola giornata, in un unico luogo e ruotare, senza elementi digressivi secondari, intorno a un’unica vicenda. Essa deve produrre alla fine nello spettatore quella che Aristotele definisce “catarsi”, cioè la “purificazione dalle passioni”. Ma la realizzazione della catarsi, nel clima della cultura post-tridentina, è identificata di fatto in una ripresa del valore educativo o, meglio, addirittura edificante, del testo letterario, e ciò non solo per la tragedia, ma anche per il poema. Il dibattito sul poema epico In nome di Aristotele non si può che rifiutare il modello “irregolare” del poema cavalleresco di Ariosto, che da un lato non risponde alle esigenze di unitarietà e regolarità, dall’altro è del tutto indifferente al fine morale e educativo esaltato dalla visione controriformistica ed è anche portavoce di una visione dichiaratamente laica e disincantata della vita. Si cerca allora di incentivare la produzione di nuovi poemi epici (o eroici, come vengono denominati) che rispondano al nuovo gusto e ai nuovi compiti assegnati alla letteratura. Dalla Poetica si desumono in sintesi alcune regole principali: il poema deve rispettare l’unità d’azione (che risulta garantita dalla scelta di un evento centrale che rispetti la verosimiglianza, come un argomento storico, e di un eroe intorno a cui si raccorda la trama); deve trattare di grandi eventi e grandi uomini in uno stile “alto” e deve trasmettere un insegnamento morale.

Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento 3 949


I generi principali Il poema epico In seguito alle discussioni a cui abbiamo appena fatto riferimento, vi sono vari tentativi di dar vita a un poema epico moderno. L’esempio più noto è L’Italia liberata dai Goti (1547) di Gian Giorgio Trissino (1478-1550) che narra, in uno stile volutamente aulico, la remota guerra combattuta dai Bizantini contro gli Ostrogoti. Il tentativo è fallimentare e non riscuote l’interesse del pubblico. Sarà Tasso con la sua Gerusalemme liberata a dare ai suoi contemporanei l’auspicato poema eroico, destinato a sostituire il modello ariostesco. Ma, come si vedrà nel Seicento, il genere è destinato ben presto a decadere. La tragedia In Italia il genere tragico, nonostante la centralità di esso nel dibattito del tempo, non ha particolare successo, anche perché non si affermano tragediografi veramente significativi. Il più importante è Giambattista Giraldi Cinzio, che peraltro si ispira al teatro tragico latino di Seneca e non alla tragedia greca. Nella sua più celebre tragedia, Orbecche (1541), che anticipa aspetti propri delle poetiche del secondo Cinquecento, dominano toni orrorosi, tematiche violente, presenti anche in alcune sue novelle della raccolta Gli Ecatommiti (1565). Il trattato di argomento politico Il pensiero politico controriformistico si identifica in particolar modo con l’opera di Giovanni Botero, che nella sua Della ragion di Stato (1589) affronta la questione politica subordinandola ai principi controriformistici. Il dramma pastorale Molto gradito al pubblico delle corti è il genere del dramma pastorale, che si richiama al modello classico della poesia bucolica e all’Arcadia di Jacopo Sannazaro. Il dramma pastorale mette in scena, sullo sfondo di scenari idillici agresti, vicende pastorali dietro le quali si celano personaggi e situazioni della corte stessa. L’esempio più noto e significativo è opera di Tasso stesso, Aminta (1573), ma grande successo riscuote anche il Pastor fido di Battista Guarini (1590), una tragicommedia in cui anche lo stile è caratterizzato dall’ibridismo.

Gaspard Poussin Dughet, Aminta sta per salvare Silvia, olio su tela, 1633 ca. (Adelaide, Art Gallery of South Australia).

950 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali


4 L’evoluzione della lingua Il volgare italiano Il Cinquecento è il secolo in cui il volgare conquista dignità: sono sempre più numerosi i dotti che lo utilizzano nelle loro opere. Proprio questa diffusione rende necessario definire il modello linguistico da adottare. A causa del sacco di Roma del 1527 si disperde la corte romana: di conseguenza fallisce l’idea di una lingua cortigiana, ossia dell’utilizzo della lingua delle corti (e la corte per eccellenza è appunto quella della Città Eterna). Rimangono il toscano contemporaneo e il fiorentino del Trecento; alla fine prevale il volgare fiorentino letterario di Dante, Petrarca e Boccaccio, sostenuto da Leonardo Salviati. La sua posizione è sposata dall’Accademia della Crusca, istituzione tuttora esistente e operativa, fondata a Firenze nel 1583. L’Accademia, di cui Salviati è tra i principali promotori, ha lo scopo di eliminare le impurità della lingua (metaforicamente: separare la crusca dalla farina). Nel 1612 l’Accademia realizza il progetto del vocabolario della lingua italiana.

Fissare i concetti Il secondo Cinquecento 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Quale trasformazione subisce la visione del mondo nella seconda metà del Cinquecento? Chi è Ignazio di Loyola? Perché nascono le accademie? Quali conseguenze determina sull’immaginario l’ipotesi che formula Copernico? Da che cosa è caratterizzato l’insegnamento dei gesuiti? In che cosa consiste il Manierismo? Quali sono i generi letterari che meglio rappresentano il gusto manieristico?

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Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Leggere durante la Controriforma: l’Indice dei libri proibiti

Verso l’esame di Stato

Libri, lettori, lettura

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Educazione civica I regimi che proibiscono i libri

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Testi in dialogo

D4 Pro e contro l’Indice dei libri proibiti D4a Roberto Bellarmino

I libri sono più pericolosi degli eretici Scritti politici

D4b John Milton I libri vivono: distruggerli è come uccidere un uomo Areopagitica. Discorso per la libertà di stampa D4c Paolo Sarpi I libri sono una difesa contro un potere tirannico Istoria del Concilio tridentino

Frontespizio dell’edizione del 1612 del Vocabolario degli Accademici della Crusca.

L’evoluzione della lingua 4 951


Arte nel tempo

L’armonia e l’equilibrio che caratterizzano le opere degli artisti del primo CinIl Manierismo quecento vengono turbati dal diffondersi, negli anni ’20, di uno stile fortemente anticlassico e denso di eccessi sia espressivi sia formali. Gli artisti di questa gee la nerazione portano all’esasperazione alcuni aspetti della pittura dei loro maestri: Controriforma non imitano la natura ma l’arte, cioè le opere di Michelangelo e Raffaello. Questo

Dall’eccentricità al rispetto del dogma

distacco dalla realtà non poteva che portare l’arte figurativa verso l’antinaturalismo e un certo grado di erudizione e astrazione, a cui si aggiunge il progressivo codificarsi della necessità di esprimere la propria individualità, facendo sfoggio del proprio stile e andando alla ricerca dell’artificio.

Questo cambiamento di gusto nella rappresentazione, storicizzato con il termine di Manierismo (dal termine maniera, usato da Vasari con il significato di “stile”), coincide con un periodo di profondo cambiamento politico che vede il riflettersi, sul territorio della penisola italica, dello scontro per gli equilibri di potere in Europa tra Francesco I, re di Francia, e Carlo V, alla guida del Sacro Romano Impero. È il 1527 quando l’esercito mercenario dei Lanzichenecchi assoldato da Carlo V saccheggia la città di Roma per punirla della sua alleanza con la Francia. Questa Roma violata e fragile è la stessa che assiste al diffondersi della Riforma di Lutero e delle sue

aspre critiche rivolte ai privilegi e alla gestione del potere da parte della Chiesa romana, costretta a intraprendere un percorso di riforma al proprio interno che si concretizza nel concilio di Trento (1545-1563). Se, da un lato, l’insicurezza e l’angoscia del primo Cinquecento si manifestano nelle arti visive attraverso un linguaggio ambiguo carico di eccentricità, dall’altro la Controriforma della Chiesa di Roma porta a un maggior controllo sulle immagini sacre, con il conseguente restringimento delle libertà espressive degli artisti a favore del rigore visivo, nel rispetto dei testi sacri e dei dogmi religiosi.

1 Il Trasporto di Cristo di Jacopo Pontormo

Il Trasporto di Cristo di Jacopo Pontormo, terminato nel 1528 per la cappella della chiesa di Santa Felicita a Firenze, e Il Giudizio Universale, dipinto da Michelangelo Buonarroti dal 1536 al 1541 sulla parete dietro l’altare della Cappella Sistina, incarnano l’angosciosa espressività tipica degli anni ’30, ancora libera dai dettami della Controriforma. In entrambe le opere assistiamo a una resa spaziale antiprospettica costruita dalla plasticità dei corpi, senza una concezione razionale o naturalistica dei piani di profondità. I movimenti sono accentuati, i corpi presentano muscolature eccessive, i volti sono caratterizzati da espressioni spesso angosciose e grottesche. La solidità della composizione piramidale, forma privilegiata dell’immaginario del primo Cinquecento, viene annullata e rovesciata dall’instabilità del gruppo di personaggi del Trasporto di Pontormo, in cui il corpo di Cristo è precariamente sostenuto dai piedi incerti e traballanti del personaggio in primo piano. Nel “movimento collettivo” della scena la pesantezza di alcuni gesti e delle forme anatomiche si contrappone ai colori acidi dei tessuti e all’incorporeità delle figure fluttuanti e senza peso in secondo piano.

952 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali

Pontormo, Il Trasporto di Cristo (Deposizione), tempera a uovo su tavola, 1526-1528 (Firenze, Cappella in Santa Felicita).


2 Il Giudizio Universale di Michelangelo

Ritroviamo uno spazio “costruito da corpi” anche nell’affresco di Michelangelo, il quale abbandona la sequenzialità chiara della volta realizzata quasi trent’anni prima per rappresentare il Giudizio come un moto circolare di corpi e azioni intorno alla figura centrale di Cristo Giudice. La caratterizzazione grottesca delle figure, la resa muscolare eccessiva di corpi quasi sproporzionati, la composizione caotica rendono la rappresentazione ambigua e di difficile interpretazione, carica di tensione e di drammaticità anche nelle figure dei beati, prive di qualsiasi armonia.

w Michelangelo Buonarroti, Il Giudizio Universale, affresco, 1536-1541, (Città del Vaticano, Cappella Sistina).

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Arte nel tempo La Deposizione di Simone Peterzano

w Michelangelo Buonarroti, Il Giudizio Universale, particolare dei beati, affresco, 1536-1541 (Città del Vaticano, Cappella Sistina).

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Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali Il secondo Cinquecento

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

L’eclissi della libertà di pensiero Il periodo che va dalla seconda metà del XVI secolo alla seconda metà del XVII è segnato dalla Controriforma cattolica, con cui la Chiesa di Roma cerca di arginare il processo originato dalla Riforma protestante. Con il concilio di Trento (1545-1563) vengono dibattuti i contenuti e organizzate le strategie di ristrutturazione della Chiesa in senso gerarchico. Si tratta di un programma che, fissando dogmi e codificando norme rigorose, comporta una pesante limitazione della libertà delle masse e delle classi dirigenti, attuata in particolare attraverso l’organizzazione centralizzata dell’Inquisizione, l’Indice dei libri proibiti e le disposizioni severe nel campo dell’attività intellettuale, dell’arte e del comportamento. La crisi dei valori rinascimentali Anche per influsso del clima controriformistico, oltre che del difficile contesto storico, muta la visione della vita: all’orgoglio antropocentrico del Rinascimento si contrappongono pessimismo, sfiducia nel potere della ragione, senso della vanità della vita terrena; alla rivalutazione rinascimentale del piacere si contrappongono l’invito al pentimento e la demonizzazione del corpo, della natura e dei sensi, oltre che severe norme contro la loro rappresentazione artistica. La concezione dello spazio geografico Dalla metà del Cinquecento si afferma la consapevolezza dell’esistenza di nuove realtà geografiche, estremamente differenti da quella europea e che proprio con il metro di giudizio del Vecchio Mondo vengono categorizzate come inferiori: dunque passibili di annientamento, assoggettamento e sfruttamento. Da questa posizione, tuttavia, c’è chi si allontana, valutando le novità in senso relativista e quindi accettandone le diversità. I valori e i modelli di comportamento I modelli di comportamento imposti dalla Chiesa vedono in primo piano l’obbedienza e la subordinazione alle direttive ecclesiastiche; ciò si esplica in un clima di sospetto e di controllo su ogni espressione di religiosità e su ogni aspetto della vita dei fedeli, siano essi sudditi o regnanti, semplici popolani o affermati intellettuali. Chi non vi si conforma viene sospettato, inquisito o addirittura rischia di essere accusato di eresia. La decadenza delle corti e la trasformazione del ruolo e dell’identità dell’intellettuale Anche le corti risentono della mancanza di libertà dell’epoca e vanno decadendo. Il rapporto tra intellettuale e potere muta rispetto a quello caratteristico del Rinascimento: il ruolo dell’uomo di cultura diviene marginale, subalterno e trova espressione soprattutto nella figura del segretario, a cui non è richiesto di avere idee proprie, ma solo di gestire ruoli burocratici e di mostrare la massima obbedienza e discrezione. La cultura si organizza ora nelle accademie, ma la visione che vi si crea è intellettualmente sterile e precettistica.

954 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali


2 Modelli del sapere

Copernico e la teoria eliocentrica La rivoluzione copernicana, che nega la centralità della Terra nell’universo, sovverte la visione antropocentrica del mondo legata al geocentrismo tolemaico e innesca una serie di scoperte, che in circa un secolo rivoluzioneranno completamente l’idea cosmologica e la fisica aristotelica. La pedagogia dei gesuiti Nel sistema scolastico predominano i gesuiti, che istruiscono ad alto livello in tutti i campi del sapere la futura classe dirigente ecclesiastica e civile. Questo modello culturale si fonda sul principio di autorità, incarnato in Aristotele per la filosofia e in san Tommaso per la teologia, cui si accompagnano gli autori classici studiati, però, esclusivamente sotto il profilo stilistico e non contenutistico, onde evitare approfondimenti critici individuali.

3 Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento

Oltre il classicismo rinascimentale: il Manierismo Tra il secondo Cinquecento e il Seicento si afferma, in arte e in letteratura (ad esempio nei lavori di Tintoretto e Tasso), il Manierismo, un nuovo modo di rappresentare la realtà. Questa corrente si ispira ancora ai modelli classici, ma rifiuta l’armonia e l’equilibrio rinascimentali, rielaborandone le caratteristiche principali in modo esasperato o deforme ed esprimendo, così, la crisi spirituale del mondo controriformistico. Il dibattito letterario Dalla metà del Cinquecento si avverte anche la necessità di delineare, in modo teoricamente preciso, i lineamenti distintivi dei diversi generi letterari: un impulso che nasce dalla riscoperta della Poetica di Aristotele, testo metaletterario dedicato a epica e tragedia che, sebbene privo di carattere vincolante, viene interpretato in senso prescrittivo. Ciò motiva un rifiuto della critica coeva verso il poema cavalleresco e una rielaborazione in senso moralistico, educativo ed edificante degli altri generi (poema epico, tragedia, trattato politico e dramma pastorale).

4 L’evoluzione della lingua

Nel XVI secolo il volgare conquista dignità letteraria. Con il supporto dell’Accademia della Crusca, il modello linguistico che si afferma è quello del fiorentino letterario trecentesco.

Zona Competenze Competenze digitali

1. Costruisci una mappa che evidenzi i rapporti tra il contesto storico-ideologico dell’età compresa tra fine Cinquecento e Seicento e le principali caratteristiche della mentalità e della cultura.

Scrittura

2. In un testo espositivo-argomentativo di max 20 righe, spiega i rapporti tra il clima storico, sociale e culturale e le espressioni letterarie fiorite nella seconda metà del Cinquecento.

Sintesi Il secondo Cinquecento

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Il secondo quattrocento cinquecento e cinquecento CAPITOLO

19 Torquato Tasso LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Tasso visto da sé medesimo… Per conoscere l’autore della Gerusalemme liberata, la testimonianza più illuminante è sicuramente la Canzone al Metauro, scritta nel 1578, in cui Torquato Tasso traccia un pessimistico quadro della propria vita. I versi proposti (vv. 21-40) forniscono una chiave autobiografica che può spiegare l’infelicità esistenziale, la fragilità, l’inclinazione alla malinconia che caratterizzarono il grande poeta. Oimè! dal dí che pria trassi l’aure vitali e i lumi apersi1 in questa luce a me non mai serena, fui de l’ingiusta e ria2 25 trastullo e segno3, e di sua man soffersi piaghe che lunga età risalda a pena4. Sassel la gloriosa alma sirena, appresso il cui sepolcro ebbi la cuna5: cosí avuto v’avessi o tomba o fossa 30 a la prima percossa!6 Me dal sen de la madre empia fortuna pargoletto divelse7. Ah! di quei baci, ch’ella bagnò di lagrime dolenti, con sospir mi rimembra8 e de gli ardenti 35 preghi che se ’n portar l’aure fugaci9: ch’io non dovea giunger piú volto a volto10 fra quelle braccia accolto con nodi cosí stretti e sí tenaci. Lasso11! e seguii con mal sicure piante12, 40 qual Ascanio13 o Camilla14, il padre errante. 1

trassi… apersi: cominciai a respirare e apersi gli occhi. 2 ingiusta e ria: è la Fortuna; ria, “malvagia”. 3 trastullo e segno: oggetto di scherno e bersaglio. 4 piaghe… pena: ferite che il tempo guarisce con fatica (a pena). 5 Sassel… cuna: Lo sa la sirena gloriosa e vivificatrice, presso il cui sepolcro ebbi la culla (cioè nacqui). Secondo il mito, Napoli

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sorgeva presso il sepolcro della sirena Partenope; significativamente Tasso accosta il luogo della sua nascita a un’immagine di morte. 6 cosí… percossa!: così avessi potuto avere là la tomba (morire) a quel primo colpo della sorte! 7 Me... divelse: Il destino crudele strappò me bambino dalla madre (il verbo divelse sottolinea la difficoltà del distacco). 8 mi rimembra: mi ricordo.

9 preghi… fugaci: preghiere che il vento (l’aure) portò via.

10 ch’io... a volto: perché io non dovevo (non ero destinato a) congiungere più il mio volto al tuo. 11 Lasso: Infelice. 12 con… piante: con i passi incerti (di un fanciullo). 13 Ascanio: figlio di Enea, seguì il padre nella fuga da Troia. 14 Camilla: eroina dell’Eneide; anch’ella seguì il padre in esilio.


La Gerusalemme liberata, capolavoro di Tasso, ultimata verso il 1575, fu composta presso la corte di Ferrara come l’Orlando furioso. Lo spirito della Liberata è però molto diverso da quello del Furioso: vi si riflette infatti il clima religioso della Controriforma, nel ruolo predominante della guerra contro gli infedeli come ricostruzione di un evento centrale per la cristianità, la riconquista del Santo Sepolcro nella prima crociata. Il poema di Tasso rispecchia le contraddizioni di un’epoca, segnata dal contrasto tra la cultura rinascimentale ancora viva e le imposizioni del concilio di Trento. Tale conflitto travolse il Tasso stesso, che nel corso della sua vita ne fu psicologicamente turbato; ma il suo poema rimane come specchio del suo autore e insostituibile documento del dramma e delle inquietudini degli uomini del suo tempo.

1 Ritratto d’autore lirica, la “favola 2 lapastorale”, Aminta e Re Torrismondo

Gerusalemme 3 laliberata 4 epistolario e Dialoghi

957 957


1 Ritratto d’autore VIDEOLEZIONE

L’infanzia in esilio e la vita nelle corti La vita di Torquato Tasso, per le vicissitudini tormentate e inquiete, i continui vagabondaggi e per l’immagine del poeta solitario e incompreso che se ne evince, ha costituito un tema di grande suggestione per la cultura romantica fra Sette e Ottocento, che fece del poeta una sorta di mito e figura emblematica. Nato a Sorrento l’11 marzo 1544, l’anno precedente all’apertura di quel concilio di Trento (1545-1563) che tanto profondamente avrebbe segnato la cultura italiana, inaugurando l’età della Controriforma, Torquato Tasso visse i primi anni d’infanzia a Sorrento e a Napoli. La madre era di origine toscana; il padre Bernardo, di nobile casata bergamasca, era poeta e gentiluomo di corte presso il principe di Salerno, Ferrante Sanseverino. La serenità della vita familiare fu ben presto interrotta, quando il Sanseverino, coinvolto in una rivolta contro Carlo V, fu esiliato e quindi costretto ad abbandonare il regno di Napoli; Bernardo, cui furono confiscati tutti i beni, lo seguì, prendendo con sé Torquato che, a soli dieci anni, dovette abbandonare la madre, per mai più rivederla (nel 1556 giunse infatti la notizia della sua morte, un evento traumatico per un ragazzo appena dodicenne). Costretto a spostarsi di corte in corte alla ricerca di munifici protettori, Bernardo poté comunque assicurare al figlio un’educazione raffinata e quasi principesca, essendo entrambi ospitati nelle più splendide corti italiane. Per la formazione di Torquato, dopo i primi studi in casa sotto la guida del padre, di don Giovanni d’Angeluzzo e del cugino Cristoforo, sono soprattutto importanti tre luoghi: Urbino, Venezia e Padova.

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1566

Alfonso II d’Este si allea con l’imperatore Massimiliano II nella guerra contro i turchi in Ungheria.

1563

1545

Si chiude il concilio di Trento.

Inizia il concilio di Trento

1540

1550 1544

Nasce a Sorrento da Bernardo Tasso e Porzia de’ Rossi.

1560 1556

1554

Si reca a Roma per raggiungere il padre, che aveva seguito in esilio il suo signore Ferrante Sanseverino, principe di Salerno.

958 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso

Muore la madre, che Torquato non aveva più rivisto dopo essersi recato a Roma.

1559

A Venezia, compone alcune ottave del Gierusalemme, primo abbozzo della futura Gerusalemme liberata.

1565

È accolto come cortigiano nella corte estense. Comincia a lavorare al poema.


A Urbino, nella splendida corte rinascimentale di Guidobaldo II della Rovere, celebrata dal Cortegiano di Baldesar Castiglione, padre e figlio rimasero alcuni anni (il padre era stato costretto a lasciare Roma nel 1556 e trasferirsi a Urbino, in seguito al dissidio fra Filippo II re di Spagna e papa Paolo IV); qui Torquato studiò scienze, lettere e arti cavalleresche con il figlio del duca, il principe ereditario Francesco Maria, avendo come maestri Girolamo Muzio, Antonello Galli e Federico Commandino. Da Venezia a Padova, la formazione letteraria Altra tappa importante fu Venezia, dove Bernardo si trasferì nel 1559 per attendere alla stampa del suo poema Amadigi. Nella città lagunare era particolarmente sentita la minaccia dei Turchi, con cui si alternavano guerre e alleanze, e il giovanissimo poeta iniziò a scrivere un poema sulla guerra santa (Libro primo del Gierusalemme). Ma, evidentemente non ancora pronto per un’opera così ambiziosa, preferì interromperne la stesura, dopo poco più di un centinaio di ottave, dedicandosi per il momento alla composizione di un più tradizionale poema cavalleresco, il Rinaldo, che pubblicò nel 1562 presso Francesco Sanese, a soli diciotto anni, con dedica al cardinale Luigi d’Este, suo futuro protettore. Avviato così a una promettente carriera di poeta cortigiano, Torquato continuò a perfezionare la sua cultura, frequentando la facoltà di giurisprudenza, poi di eloquenza e di filosofia presso l’università di Padova, dove stringe rapporti di amicizia con Sperone Speroni. Risalgono a questo periodo i primi studi sulla Poetica di Aristotele sotto la guida di Carlo Sigonio, che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’autore. Nello stesso anno in cui fu pubblicato il Rinaldo, Tasso scrisse varie rime per Lucrezia Bendidio, damigella della principessa Eleonora d’Este. Fra il 1563 e il 1564 continuano i trasferimenti: a Bologna e a Mantova (dove il padre era passato al servizio del duca Guglielmo Gonzaga), dove conobbe e amò Laura

1571

Vittoria cristiana sui Turchi a Lepanto.

1570

1580 1579

Torna a Ferrara e dà in escandescenze durante le nozze di Alfonso II. Viene incarcerato a Sant’Anna. 1573

Compone e fa rappresentare l’Aminta.

1577

Manifesta segni di squilibrio e il duca lo fa chiudere in un convento. Ne evade e comincia un viaggio lungo l’Italia. A Sorrento si reca dalla sorella Cornelia senza farsi inizialmente riconoscere. 1575

Conclude il poema, ancora intitolato Goffredo. Ne legge parti al duca Alfonso II e a Lucrezia, sorella del duca. Comincia a sottoporne parti ai revisori.

1590 1586

Viene liberato dopo una reclusione durata sette anni.

1580

1593 1590

È rappresentato il Pastor fido di Battista Guarini, che riprende il modello dell’Aminta tassiano.

Con il titolo di Gerusalemme conquistata, Tasso pubblica la prima edizione del poema da lui approvata, che però è molto diversa dalla Liberata. 1595

Viene pubblicata una prima, scorretta, edizione del poema. Nel 1581 viene pubblicata la prima edizione completa del poema, a cura di Febo Bonnà, con il titolo di Gerusalemme liberata.

Muore il 25 aprile nel convento di Sant’Onofrio a Roma, mentre si preparava la sua solenne incoronazione poetica.

Ritratto d’autore 1 959


Peperara, per la quale compose diverse liriche amorose. A Bologna inoltre, mentre frequentava il quarto anno di studi, fu accusato di aver composto una satira pungente contro professori e studenti dello Studio bolognese e fu costretto a fuggire e a riparare a Padova, dove fu ben accolto dal principe Scipione Gonzaga e dove entrò a far parte dell’Accademia degli Eterei col nome del “Pentito”. Poeta alla corte di Ferrara Nel 1565, ventunenne, Tasso viene accolto alla corte di Ferrara, prima al servizio del cardinale Luigi d’Este e poi, dal 1572, del duca Alfonso II. Sono anni di intensa creatività e di successi letterari. Tenuto in grande considerazione nell’ambiente di corte, il poeta gode dell’amicizia delle sorelle del duca, Lucrezia ed Eleonora, per le quali scrisse alcune fra le sue liriche più belle (da cui prenderà spunto, in parte, la letteratura romantica). In quell’ambiente cortigiano culturalmente ancora assai vivace (dove erano stati scritti i poemi cavallereschi del Boiardo e dell’Ariosto e dove Tasso strinse rapporti di amicizia e collaborazione con nobili e intellettuali come Giovan Battista Pigna, Ercole Cato, Giovan Battista Guarini, Antonio Montecatini, Annibale Romei), Tasso compone il dramma pastorale Aminta (1573, che venne rappresentata nel luglio di quell’anno sull’isoletta del Belvedere) e la Gerusalemme liberata, il suo capolavoro. Nel frattempo, ad Ostiglia, dove era governatore, morì il padre Bernardo nel 1569. Ma lo splendore della corte ferrarese celava una situazione instabile: la città estense era una sorvegliata speciale dell’Inquisizione, sia perché anni prima Renata di Francia, madre di Alfonso II, aveva ospitato a corte un circolo di calvinisti sia perché, non avendo Alfonso II eredi diretti, la Chiesa aspirava a impadronirsi dei suoi territori (come poi in effetti avvenne) e teneva la corte ferrarese sotto un attento controllo. Il poema sulla crociata suscita inquietudini e dubbi Nel 1575 il poema sulla crociata, a cui lavora ormai da circa un decennio (che ha come titolo iniziale il Goffredo) è finalmente completato: il poeta lo legge ad Alfonso e a Lucrezia, ma non si decide a pubblicarlo; anzi continua a rivederlo e a correggerlo, preda di infiniti dubbi di natura sia letteraria sia morale-religiosa. Se il poema doveva essere il gran libro del secolo, era davvero conforme alle norme della poetica aristotelica, nel secondo Cinquecento considerata canone imprescindibile per un poema eroico? E, soprattutto, se doveva essere un libro cristiano, erano davvero ammissibili le tante concessioni al “maraviglioso”, gli incanti, le avventure, le magie? Era lecito che in un’opera sulle crociate fossero inseriti tanti commoventi episodi d’amore? Erano dubbi legittimi nell’età della Controriforma, un periodo in cui l’Inquisizione pretendeva che i soggetti sacri fossero trattati con la più assoluta ortodossia. Inquieto per il «rigor de’ tempi», il poeta temeva di non poter pubblicare il poema o di vederlo colpito da censure. I dubbi di Tasso, i giudizi dei revisori, la crisi Tormentato da dubbi e incertezze, Tasso chiese il parere di religiosi e letterati dell’epoca, Scipione Gonzaga, Flaminio Nobili, Silvio Antoniano, Sperone Speroni (si reca a Roma in occasione del Giubileo del 1575), ricevendone giudizi poco incoraggianti. Illuminanti sono gli scambi epistolari con un revisore ecclesiastico, Silvio Antoniano. Sempre più inquieto e turbato, il poeta diviene preda di scrupoli e ossessioni, che sfociano in veri e propri sintomi di squilibrio: convinto che alcuni cortigiani lo avessero denunciato al Sant’Uffizio, si reca di propria iniziativa dall’inquisitore ferrarese per farsi esaminare. Il religioso lo assolve, ma Tasso manifesta l’intenzione di recarsi da

960 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


altri inquisitori, fuori da Ferrara, per essere ancora più scrupolosamente interrogato, suscitando la preoccupazione di Alfonso II, che in questo modo vedeva accrescersi ulteriormente il controllo inquisitorio sulla sua corte. La prima carcerazione e la fuga Nel frattempo le stranezze e i segni della mania di persecuzione del poeta divengono sempre più evidenti e gravi. Mentre conversa con Lucrezia d’Este, convinto di essere spiato da un servo, lo aggredisce con un coltello; carcerato in un convento, si dà alla fuga, attraverso l’Italia. Si reca a Sorrento dove vive la sorella Cornelia, che non vede da lungo tempo e, per verificarne l’affetto (come Oreste nell’Elettra di Sofocle), travestito da pastore e quindi non riconoscibile, si finge un messaggero giunto con notizie del fratello; riconosciuto, non resta però a lungo con lei, ma si allontana da Sorrento, cercando ospitalità in varie corti. Sette anni nella prigione di Sant’Anna Torna infine a Ferrara nel febbraio del 1579, mentre si stanno celebrando le nozze del duca Alfonso con Margherita Gonzaga. Accolto con freddezza, in casa Bentivoglio dà in escandescenze e si reca al Castello ducale per inveire contro la corte. Così viene preso a forza per ordine del duca ed è rinchiuso come pazzo nell’ospedale ferrarese di Sant’Anna, dove rimarrà sette anni, dal 1579 al 1586. Per la precisione, dopo i primi quattordici mesi di severa e pesante segregazione, gli vengono concesse alcune stanze dove egli può ricevere gli amici e dedicarsi alla scrittura. Anche in carcere, infatti, Tasso riesce a realizzare un’intensa attività letteraria: compone versi, scrive quasi tutti i Dialoghi (di contenuto letterario e filosofico) e continua a rimaneggiare il poema sulla crociata, per approntare la redazione definitiva, per sua stessa mano. Mentre si trovava a Sant’Anna, infatti, il poema era stato pubblicato contro la sua volontà, a volte addirittura in edizioni scorrette. Nel 1581 cominciano ad uscire le prime edizioni della Liberata, tra cui fondamentali le due stampe curate a brevissima distanza l’una dall’altra da Febo Bonnà.

François R. Fleury, Michel de Montaigne visita Tasso al Sant’Anna di Ferrara, 1821 (Lione, Musée des Beaux-Arts).

Ritratto d’autore 1 961


Le lettere scritte da Sant’Anna sono impressionante testimonianza di uno stato d’animo profondamente alterato: il poeta appare assalito da scrupoli religiosi e, influenzato dal clima controriformistico, si tormenta per aver nutrito nella giovinezza concezioni laiche, materialistiche (nella lettera XXV a Scipione Gonzaga rivela di aver dubitato di fondamentali dogmi religiosi, quali la creazione del mondo, l’incarnazione, l’eternità dell’anima individuale); in altre lettere rivela veri e propri sintomi di follia, affermando che un folletto lo perseguita, sottraendogli lettere e cibo (➜ T12 OL). Gli ultimi, inquieti anni di peregrinazioni Nel 1586 Tasso viene finalmente liberato per intercessione di Vincenzo Gonzaga, cognato di Alfonso II, che aveva chiesto di portarlo con sé a Mantova. Insieme alla libertà, il poeta recupera un certo fervore creativo e riprende la tragedia incompiuta Galealto, trasformandola nel Torrismondo, re di Norvegia, la cui stesura stanca il poeta al punto da aumentare il suo squilibrio. Sempre più inquieto, tuttavia, continua a spostarsi, preferendo alle corti luoghi più tranquilli come i conventi e le case di amici, soprattutto a Napoli (nel marzo del 1588, accolto nel monastero del Monte Oliveto, che ispirò l’omonimo poemetto, in onore dei frati che lo hanno benignamente accolto) e a Roma, presso Scipione Gonzaga, dove scrive il Rogo amoroso (stampato postumo). In questo periodo compone Il mondo creato, poema ispirato al racconto biblico della creazione (pubblicato solo nel 1603) e nel 1593 pubblica a Roma presso il Facciotti la Gerusalemme conquistata, rifacimento della Gerusalemme liberata, in cui accoglie la maggior parte dei suggerimenti dei revisori. L’opera, ormai totalmente conforme allo spirito controriformistico, è apprezzata nell’ambiente cattolico romano, tanto che a Tasso è offerta la solenne incoronazione poetica. Ma prima che la cerimonia potesse avvenire, il poeta, ormai gravemente malato, muore cinquantunenne alle ore 11 antimeridiane del 25 aprile 1595, in una piccola chiesa nel convento di Sant’Onofrio, sul Gianicolo, a Roma, dove si era ritirato.

L’uomo Tasso • lacerazione della coscienza e turbamento psicologico-esistenziale: Tasso è attratto dai valori rinascimentali che vorrebbe conciliare con la morale cattolica

Caratteristiche della personalità

• religiosità sofferta, segnata dal senso di colpa e del peccato

• sentimento ambivalente rispetto alla vita cortigiana: è cosciente che solo in quell’ambiente può realizzarsi, ma è insofferente delle regole rigide e del clima di falsità

962 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


2

La lirica, la “favola pastorale” Aminta e Re Torrismondo 1 Le Rime: verso il superamento del modello petrarchesco La produzione di una vita intera Per tutta la sua vita Tasso scrisse liriche, dall’esordio giovanile agli anni trascorsi alla corte di Ferrara, fino al periodo di reclusione a Sant’Anna e agli ultimi tempi (dedicati soprattutto alla poesia religiosa): più di millesettecento testi, di cui solo una parte fu pubblicata dall’autore. Le liriche non sono organizzate in un canzoniere, ma suddivise per generi tematici, inaugurando una tendenza nuova, destinata a grande fortuna. Negli ultimi anni della sua vita Tasso pubblica le poesie amorose (con il titolo di Prima parte delle rime, 1591) e le liriche encomiastiche (Seconda parte delle rime, 1593); dopo la sua morte, nel 1597, infine, videro la luce le poesie religiose. Molte rime di Tasso sono di carattere occasionale: alcune sviluppano temi autobiografici, come la celebre Canzone al Metauro (➜ PAG. 956); altre sono legate alla vita cortigiana, di cui rappresentano un quadro affascinante, con i balli, gli svaghi, le feste, i corteggiamenti, le consuetudini eleganti e raffinate. Un buon numero di rime sono indirizzate a personaggi della corte, in particolare alle principesse estensi, Lucrezia ed Eleonora d’Este, molto legate al poeta. La sperimentazione stilistica e la nuova musicalità dei madrigali Tasso rinnova profondamente il genere lirico, costituendo un importante punto di riferimento per la poesia successiva. La sua lirica si allontana, per lo meno in una prima fase, dall’equilibrio e dall’armonia formale propri del modello petrarchesco: grazie anche all’esempio della poesia di Della Casa (1503-1556), da lui attentamente studiato, Tasso conferisce ai sonetti e alle canzoni un andamento più mosso, inquieto, di tipo manieristico, caratterizzato da un uso intenso e frequente degli enjambements. La lirica tassiana si distingue rispetto al modello del Canzoniere anche per la presenza di componenti spiccate di sensualità nel modo di rappresentare l’amore e per la tendenza a utilizzare metafore complicate, aprendo la strada al concettismo barocco. Tipica della lirica tassiana, in particolare nei madrigali, è la ricerca della musicalità. I madrigali, genere lirico in cui Tasso eccelse, sono poesie brevi, in cui si alternano liberamente endecasillabi e settenari, con rime senza schema fisso, spesso baciate. Sfondo dei madrigali è di frequente una natura umanizzata e partecipe dei sentimenti del poeta (➜ T1 ).

Le Rime • quasi millesettecento componimenti in un arco di tempo che va dal 1567 al 1593 Caratteristiche

• suddivisione per temi (non criterio cronologico): amore, vita di corte, spiritualità • musicalità e varietà metrica

La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 963


Le liriche sacre Composte negli ultimi anni della vita di Tasso, le liriche sacre appaiono invece poeticamente meno ispirate e caratterizzate spesso da toni di solenne eloquenza tipici della religiosità controriformistica. Anch’esse costituirono, comunque, un modello importante per la poesia religiosa del Seicento, soprattutto per le grandiose immagini che preludono al barocco, simili a quelle di altre opere tarde del poeta, la Gerusalemme conquistata e il poema religioso Le sette giornate del mondo creato.

T1

online T1a Torquato Tasso

Tacciono i boschi e i fiumi Rime (498)

Un nuovo modello lirico I tre testi che proponiamo evidenziano l’originalità della lirica tassiana rispetto al modello petrarchesco, soprattutto per la più intensa musicalità. Si tratta di madrigali, cioè poesie brevi e, per la frequenza di rime baciate, molto musicali, adatte a esprimere con immediatezza le più intense e fuggevoli emozioni. È significativa anche la visione della natura, che appare umanizzata come se fosse dotata di un’anima e partecipe dei sentimenti del poeta. Soprattutto per questo aspetto la lirica tassiana costituì un modello di indubbio fascino e suggestione, anticipando la poesia romantica.

Torquato Tasso

T1b

Qual rugiada o qual pianto Rime (324)

T. Tasso, Le rime, a cura di B. Basile, Salerno, Roma 1994

AUDIOLETTURA

Anche questo componimento (come ➜ T1a OL) è costruito sulla corrispondenza tra la natura – di nuovo, un paesaggio notturno con «le suggestioni della diafana luminosità stellare e lunare» (Ossola) – e la vicenda umana e amorosa dell’autore: il poeta immagina infatti che la rugiada sia il pianto del cielo per l’allontanarsi della donna amata.

Qual rugiada o qual pianto, quai1 lagrime eran quelle che sparger vidi dal notturno manto2 e dal candido volto de le stelle? E perché seminò la bianca luna di cristalline stelle un puro nembo a l’erba fresca in grembo?3 Perché ne l’aria bruna s’udian, quasi dolendo, intorno intorno 10 gir4 l’aure insino al giorno? Fur segni forse de la tua partita5, vita de la mia vita? 5

La metrica Madrigale costituito da endecasillabi e settenari, con rime disposte in modo variato; lo schema è: abABCDdcEeFf 1 2

quai: quali. notturno manto: il cielo notturno, immaginato come avvolto da uno scuro

mantello cui coloristicamente si contrappone al verso seguente dal candido volto). 3 E perché... grembo?: E perché la bianca luna ha sparso sull’erba una limpida nuvola (nembo) di stelle di cristallo? Cristalline stelle sono le gocce di rugiada (come cristalli tersi) in cui si specchiano le stelle. Il fenomeno della rugiada (og-

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getto della metafora) si credeva causato dalla luna. 4 gir: andare, muoversi. Si riferisce allo spirare del vento (l’aure) che risuona come una voce lamentosa (dolendo); insino sta per fino. 5 partita: partenza.


Analisi del testo La partecipazione della natura al dolore del poeta Il madrigale descrive a prima vista un paesaggio notturno, ma i particolari del paesaggio evocati via via non appartengono assolutamente a una descrizione oggettiva, ma rimandano, attraverso le metafore impiegate, a una dimensione di tristezza («pianto/lagrime... quasi dolendo») e vengono enunciati in modo originale, attraverso l’iterazione di forme dubitative e interrogative che creano un senso di sospensione e di mistero. Percorre tutta la lirica il legame tra natura e stato d’animo, consueto nei madrigali di Tasso, suggerito già nel primo verso, nel quale le gocce della rugiada notturna appaiono come lacrime del cielo e delle stelle. Anche lo scenario di questo madrigale, come quello del madrigale precedente, è caratterizzato dal contrasto tra luce e oscurità, frequente anche nella pittura manieristica e sottolineato dall’antitesi tra i termini in rima nei versi 5 e 8 (bianca luna: aria bruna) Con la terza proposizione (vv. 8-10, ancora interrogativa), si passa dal piano visivo a quello uditivo (sempre con umanizzazione della natura: il suono dei venti notturni evoca infatti un lamento). La situazione ispiratrice della poesia, che motiva la dolente partecipazione della natura (il distacco dall’amata) è rivelata soltanto negli ultimi due versi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del madrigale in 3 righe, sottolineando i parallelismi che il poeta inventa. COMPRENSIONE 2. Qual è il motivo principale della poesia? 3. Fai la parafrasi dei primi 4 versi. ANALISI 4. Quale atteggiamento assume il poeta verso la natura descritta? 5. In che senso nella lirica si sviluppa un contrasto fra luce e ombra? LESSICO 6. Quale valore ha l’opposizione delle espressioni bianca luna e aria bruna? STILE 7. Quale significato hanno le tre interrogative della seconda strofa?

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. Dietro alla descrizione della natura, in tono doloroso e struggente, si nasconde un motivo di tipo sentimentale che si rivela solo negli ultimi due versi. Di cosa si tratta? Ritieni che questo procedimento letterario sia attuale? Sapresti individuare un testo musicale, di qualche autore del nostro tempo, che ricalca questa tecnica di scrittura? Sviluppa un elaborato prendendo spunto da queste domande.

online T1c Torquato Tasso

Ecco mormorar l’onde Rime (143)

La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 965


2 Un teatro “lirico” Le analogie tra teatro e madrigali Tasso compose due opere teatrali, la favola pastorale Aminta, rappresentata nel 1573, e la tragedia Re Torrismondo, iniziata nello stesso periodo dell’Aminta, ma conclusa e pubblicata più tardi, nel 1587. La favola pastorale, in particolare, presenta analogie con i madrigali (il critico Umberto Bosco la definì «il più bel madrigale della letteratura italiana»), in primo luogo per il metro: anche nell’Aminta, endecasillabi e settenari si alternano liberamente; nelle parti in cui i personaggi raccontano prevalgono gli endecasillabi, quando invece essi esprimono le loro emozioni si intensificano i settenari, dal ritmo più veloce e cantabile, specie nei passaggi in cui sono presenti rime baciate. La struttura metrica dell’Aminta rappresenta un precedente per il futuro melodramma, in cui si alterneranno i “recitativi” e le “arie”: gli uni destinati alla narrazione, le altre all’espressione lirica dei sentimenti. Un teatro non di azioni, ma di emozioni Un altro elemento che avvicina le opere teatrali di Tasso alla lirica è il prevalere dell’espressione dei sentimenti sull’azione drammatica. Nell’Aminta gli eventi non si svolgono quasi mai sulla scena, ma sono rievocati dai protagonisti che, raccontandoli, esprimono i propri sentimenti ed emozioni. Anche la corrispondenza fra natura e stato d’animo, propria dei madrigali tasseschi, trova riscontro nei due testi teatrali. Nell’Aminta la natura non è soltanto sfondo agli eventi, ma è pervasa dalla medesima forza amorosa che domina la vicenda, e sembra condividere i sentimenti dei protagonisti. Lo stesso Aminta spiega all’amico Tirsi come la natura sembri partecipare alle sue pene d’amore (Aminta, atto I, scena ii , 338-341): «Ho visto al pianto mio / risponder per pietate i sassi e l’onde, / e sospirar le fronde / ho visto al pianto mio». Così, nel Re Torrismondo, i tenebrosi sfondi naturali nordici rispecchiano la disperazione dei protagonisti, Alvida e Torrismondo che, dopo essere diventati amanti, scoprono con orrore di essere fratelli e, annientati dalla disperazione, si tolgono la vita.

3 L’Aminta Lessico stilizzazione Elaborazione di un’opera letteraria o di una sua parte secondo un determinato modello tipico, richiamandone solo i tratti principali.

Dimensione agreste L’Aminta è un testo teatrale in endecasillabi alternati a settenari. È diviso in cinque brevi atti, ognuno dei quali chiuso da un coro. La vicenda è ambientata in una dimensione agreste stilizzata ; anche i personaggi (e il coro stesso) sono pastori e ninfe, secondo la tradizione bucolica. L’opera, composta quasi di getto, in due mesi nel 1573 (pubblicata solo nel 1580) in un momento particolarmente felice della carriera poetica del Tasso, fu rappresentata il 31 luglio di quello stesso anno, sull’isolotto del Belvedere sul Po, dove amava recarsi la corte, dai comici della Compagnia dei Gelosi, dove recitavano attori già famosi come Vittoria Piissimi, Simon Bolognese, Giulio Pasquati e Rinaldo Petignoni. I cori della pastorale invece furono aggiunti in un secondo tempo, in vista di una messa in scena che ebbe luogo a Pesaro, nel 1574, presso la corte urbinate dei Della Rovere.

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La trama La vicenda dell’Aminta è semplice: in uno scenario idillico di monti, selve, fonti e limpidi fiumi, in cui tutti sono dediti alla pastorizia e alla caccia, il giovane Aminta scopre dentro di sé un sentimento prima sconosciuto, l’amore per la compagna di giochi Silvia. Ma la giovane, ancora legata al mondo fanciullesco, appassionata soltanto alla caccia, ma soprattutto bloccata dai codici dell’onore e dell’orgoglio, non è pronta per l’amore e in qualche modo si sente tradita per il mutato comportamento dell’amico. Ne segue una serie di equivoci e di peripezie. Dapprima Silvia è creduta morta, dato che è sparita dopo essere scampata alle insidie di un Satiro grazie all’intervento di Aminta che la salva; e addirittura, quando la compagna Nerina si imbatte nel velo, insanguinato, che Silvia indossava, si crede che alcune ossa ritrovate nello stesso luogo siano le sue. Convinto della sua morte, Aminta, che già da tempo minacciava il suicidio per i rifiuti di Silvia, decide di togliersi la vita, quand’ecco che sulla scena compare la fanciulla, sana e salva: sfuggita al lupo, durante l’inseguimento aveva perduto il velo, mentre le ossa, e il sangue di cui il velo era macchiato, erano di un animale. Quando la fanciulla apprende che per amor suo Aminta vuole togliersi la vita, finalmente in lei nasce un sentimento di compassione, che prelude all’amore. Corre a cercare Aminta, che si è gettato da un dirupo: fortunatamente il giovane è soltanto ferito, perché la caduta è stata attutita da alcuni rami, e ormai può essere felice perché anche Silvia contraccambia il suo amore. La pastorale si conclude così con un lieto fine, in margine tuttavia a una serie di fortuiti e casuali eventi.

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Per approfondire Una dissimulata letterarietà: le fonti

L’Aminta e il genere del dramma pastorale Definito «favola boschereccia» dall’autore, l’Aminta appartiene al genere del dramma pastorale, che si discosta dalla tragedia per la presenza del lieto fine e dalla commedia per il linguaggio sempre sorvegliato e l’ambientazione non urbana e realistica. Il dramma pastorale rappresenta lo sviluppo teatrale del genere bucolico, che aveva avuto origine nell’antichità, con le opere del greco Teocrito e del latino Virgilio e aveva ottenuto grande fortuna nella letteratura italiana umanistica e rinascimentale, in particolare con l’Arcadia di Sannazzaro (➜ C1). Come è caratteristico del genere, sotto le vesti di pastori e pastorelle sono raffigurate persone reali: come in un gioco di specchi, i cortigiani, spettatori della rappresentazione, vi potevano riconoscere, sebbene idealizzati, dame e gentiluomini della corte estense, fra i quali lo stesso poeta, che nel testo teatrale si cela dietro il personaggio di Tirsi. Fanno però eccezione i due protagonisti, i giovani Aminta e Silvia, «due voci primigenie della natura» (Moretti), che rappresentano la spontaneità della giovinezza.

Bartolomeo Cavarozzi, Il dolore di Aminta, olio su tela, 1625 ca. (Parigi, Museo del Louvre).

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I temi La natura e l’amore Fondamentali temi dell’Aminta sono la natura e l’amore, fra loro strettamente collegati. L’Aminta rappresenta un mondo in cui la natura e l’uomo sono in perfetta armonia: nell’ambiente bucolico, estraneo alla civiltà, le uniche occupazioni sono la pastorizia, la caccia, i giochi tra pastori. Secondo la concezione rinascimentale che ispira l’Aminta, l’amore è la forza che pervade e anima l’universo, accomunando, appunto, uomo e natura. Il giovane pastore Aminta scopre il sentimento amoroso come una forza naturale, che si fa strada dentro di lui, ancora fanciullo, prima che egli ne abbia piena coscienza: come confida all’amico Tirsi, «fui prima amante ch’intendessi che cosa fosse amore» (➜ T2 OL). Anche il celebre coro O bella età de l’oro, intonato dai pastori, ha come tema l’esaltazione della naturalità dell’amore, in contrapposizione con i divieti e la repressione propri della civiltà (➜ T3 ). Il passaggio dall’infanzia all’età adulta Il passaggio dall’infanzia all’età adulta è un altro tema dell’Aminta. Entrambi i protagonisti passano dal mondo spensierato dell’infanzia a quello più complesso, pieno di slanci, desideri e turbamenti dell’adolescenza. Più di Aminta, Silvia teme questo passaggio, bloccata dai codici e dalle regole dell’onore, dell’orgoglio, della virtù virginale, come emerge nel dialogo che ella ha con l’amica confidente Dafne, nella seconda scena dell’atto primo. In tal senso, Silvia sembra vivere come un tradimento il fatto che Aminta non voglia più essere per lei un amico e un compagno di giochi, ma un amante. Entrambi i ragazzi vivono un processo di formazione che passa attraverso l’ombra di una morte sfiorata (Silvia è creduta uccisa, Aminta minaccia fin dalla prima scena di suicidarsi per la mancata corresponsione amorosa e infatti poi tenta il suicidio), simbolo della difficile iniziazione all’età adulta. Dopo varie vicissitudini, Aminta comprende la necessità di moderare il suo impulso istintivo verso l’amore, Silvia impara ad aprirsi all’esperienza amorosa. In tal senso i due protagonisti della pastorale, distaccandosi dal canone della tradizione amena e bucolica, rispecchiano appieno il tipico conflitto tassiano, l’irresolubile e sofferta compresenza di onore e amore, come emergerà poi in modo sontuoso nelle grandi figure della Gerusalemme liberata, intrise di chiaroscuri tormentati e inquieti. Non a caso – è interessante precisare – l’Aminta fu composta di getto nello stesso tempo in cui il Tasso attendeva, con impegno e dedizione, ai grandi canti di Armida e di Rinaldo del poema epico, ovvero proprio in quei canti in cui il poeta «ha rappresentato il mondo delle delizie voluttuose e dell’oblio immemore, in un’atmosfera intrisa di morbida sensualità, di languida seduzione, ma ha anche provveduto a dissolvere, dal di dentro e non per atto di moralità estrinseca, quella meravigliosa finzione» (Caretti). La visione ingenua e impulsiva di Aminta e Silvia è posta in confronto dialettico con il punto di vista più maturo di due personaggi adulti: Tirsi e Dafne (nella realtà il primo rappresenta lo stesso poeta, la seconda una dama di corte) che, con la loro scettica e disincantata saggezza, tentano di far comprendere ai due adolescenti come la loro visione della vita sia ancora immatura e parziale; Tirsi tenta infatti di convincere Aminta che non è giusto voler morire per un amore non ricambiato, mentre Dafne spiega a Silvia che anche lei un giorno dovrà inevitabilmente cedere all’amore, essendo tutta la natura pervasa dal «potere de l’amoroso foco».

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Il tema del tempo Un altro tema dell’Aminta è quello del tempo; anzi, secondo alcuni (come il critico Roberto Fedi) il dramma pastorale costituisce «una sottile [...] riflessione sul sentimento del tempo». L’azione si svolge in un solo giorno, secondo l’unità di tempo di origine aristotelica, ma la prospettiva temporale da cui la guardano i personaggi è molto più ampia. In un flashback, Aminta racconta come il suo sentimento amoroso si sia lentamente sviluppato tra l’infanzia e l’adolescenza; inoltre, mentre Aminta e Silvia vivono la loro vicenda amorosa nel presente, Dafne e Tirsi ricordano la propria passata giovinezza rispecchiandosi in essi. L’orizzonte temporale si amplia ulteriormente nel coro O bella età de l’oro (➜ T3 ) in cui i pastori, come se per un momento si staccassero dalla scena e si ponessero all’esterno della vicenda, confrontano la mitica età dell’oro di un tempo felice, in armonia con la natura, con il tempo storico degli spettatori e dell’autore stesso, ormai irreparabilmente distante dalla felicità naturale.

4 Il Re Torrismondo La tragedia L’opera è una cupa tragedia, il cui soggetto è ispirato all’Edipo re di Sofocle. Scritta nel 1586, come rielaborazione di un testo a cui Tasso aveva lavorato nel 1574, il Galealto re di Norvegia, riprende le norme della tragedia classica e racconta le vicende di Torrismondo, principe dei Goti, che chiede in moglie la figlia del re di Norvegia, Alvida, con l’intento di cederla poi al suo amico Germondo, che ne è innamorato; una volta ottenutala, però, durante il viaggio di ritorno in Gotia se ne innamora a sua volta e ne viene ricambiato. Ma quando viene a sapere che Alvida è in realtà sua sorella, cerca di allontanarla e Alvida, disperata, si uccide, inducendo anche Torrismondo a compiere il tragico gesto. L’ambientazione nordica e spettrale della tragedia tende a far rispecchiare nelle tinte fosche e gotiche del paesaggio, nell’orrore di una natura selvaggia e incontaminata, il online dramma interiore dei personaggi, combattuti dal tipico T2 Torquato Tasso conflitto tassiano fra onore e amore, regola e sentimento, Il mondo bucolico di Aminta e l’amore per Silvia decoro e passione, dove l’esito tragico esemplifica il tema Aminta, atto I, scena ii, vv. 401-539 della forza devastante del destino.

Joachim Wtewael, L’età dell’oro, 1605 (New York, Metropolitan Museum of Art).

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Torquato Tasso

T3

«O bella età de l’oro»: il contrasto tra natura e civiltà Aminta, coro

T. Tasso, Aminta, a cura di B. Maier, Rizzoli, Milano 1976

Nell’Aminta ogni atto si chiude con un coro, la cui funzione è quella di commentare la vicenda. O bella età de l’oro, coro di pastori posto al termine del primo atto, è un testo chiave dell’opera, fondamentale per comprendere l’ideologia tassiana. Il coro è incentrato sulla contrapposizione tra un passato mitico felice – l’età dell’oro – e un presente afflitto dall’Onore.

O bella età de l’oro, non già1 perché di latte sen’ corse il fiume e stillò mele il bosco2; non perché i frutti loro 660 dier da l’aratro intatte le terre3, e gli angui errar senz’ira o tosco4; non perché nuvol fosco non spiegò allor suo velo, ma in primavera eterna, 665 ch’ora s’accende e verna, rise di luce e di sereno il cielo5; né portò peregrino o guerra o merce a gli altrui lidi il pino6;

La metrica Canzone in cinque stanze di endecasillabi e settenari, con schema delle rime abCabCcdeeDfF; congedo XyY 1 2

non già: non tanto. di latte... bosco: scorreva un fiume di latte e il miele (mele) stillava spontaneamente dagli alberi. 3 i frutti... le terre: le terre produssero frutti senza esser state toccate (intatte) dall’aratro (senza il lavoro dei campi). 4 angui... tosco: e i serpenti (angui, latinismo) strisciavano (letteralmente “erravano”) senza aggressività e senza veleno (tosco). 5 nuvol fosco... cielo: (non perché) nuvole nere non velavano il cielo ma (anzi, il cielo) era ridente di luce e di serenità in un’eterna primavera, mentre (ch’) ora si accende di calore nel periodo estivo e si raffredda e si incupisce d’inverno. 6 portò... pino: né perché le navi (la materia per l’oggetto: pino per “legno” e, con ulteriore passaggio, per “nave”, è una metonimia, o secondo altri, una sineddoche),

ma sol perché quel vano 670 nome senza soggetto, quell’idolo d’errori, idol d’inganno, quel che dal volgo insano onor poscia fu detto7, che di nostra natura ’l feo tiranno8, 675 non mischiava il suo affanno fra le liete dolcezze de l’amoroso gregge9; né fu sua dura legge10 nota a quell’alme in libertate avvezze11, 680 ma legge aurea e felice che natura scolpì12: “S’ei piace, ei lice”13.

recandosi in altri paesi (peregrino), non vi portavano guerra o merci. 7 ma... detto: ma solo perché quel nome vano (in quanto convenzionale), non riferibile a una realtà esistente (cioè privo di consistenza), quella falsa divinità, causa di errori e di inganni, quello che dal popolo stolto poi (poscia) fu chiamato onore. L’avversativa ma, posta in apertura della seconda strofa, sottolinea come per Tasso l’età de l’oro sia diversa da quella del mito e insieme introduce il tema fondamentale del coro: la contrapposizione tra presente e passato come contrasto fra natura e cultura. Secondo il poeta, l’età dell’oro è un’era del passato dell’uomo in cui, a differenza dell’epoca sua, l’onore non frenava gli istinti naturali. 8 che di nostra... tiranno: che lo rese predominante sulle tendenze naturali. 9 de l’amoroso gregge: del popolo (gregge in quanto aggregazione spontanea e naturale) dedito all’amore. 10 sua dura legge: la sua (dell’onore) severa legge.

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11 alme... avvezze: anime abituate alla libertà.

12 scolpì: il verbo scolpire esprime la forza della legge naturale, profondamente radicata nell’animo umano e richiama l’uso antico di incidere nella pietra o nel bronzo leggi e norme per simboleggiarne la perennità. 13 “S’ei... lice”: se (qualcosa) piace, è lecita. La massima, che riassume il significato del coro tassiano, può essere ricondotta alla filosofia epicurea ed è stata poi ripresa nel Rinascimento, che considera il piacere come il massimo bene per l’uomo; l’espressione echeggia un verso del canto dantesco dei lussuriosi, in cui la regina Semiramide «libito fé licito in sua legge» wna i costumi lascivi della regina, qui vale come un principio positivo. Il chiasmo dura legge (v. 678) e legge aurea (v. 680) sottolinea l’opposizione tra la legge imposta dalla civiltà, difficile da sopportare, e la legge naturale.


Allor tra fiori e linfe14 traen dolci carole15 gli Amoretti senz’archi e senza faci16; 685 sedean pastori e ninfe meschiando a le parole vezzi e susurri, ed a i susurri i baci strettamente tenaci; la verginella ignude 690 scopria sue fresche rose, ch’or tien nel velo ascose, e le poma del seno acerbe e crude17; e spesso in fonte o in lago scherzar si vide con l’amata il vago18. 695 Tu prima, Onor, velasti la fonte de i diletti19, negando l’onde a l’amorosa sete20; tu a’ begli occhi insegnasti di starne in sé ristretti21, 700 e tener lor bellezze altrui secrete22; tu raccogliesti in rete23 le chiome a l’aura sparte; tu i dolci atti lascivi24 festi25 ritrosi e schivi; 705 a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte26; opra è tua sola27, o Onore, che furto sia quel che fu don d’Amore28.

14 linfe: acque limpide, di ruscelli e di laghi. 15 traen dolci carole: (sogg. gli Amoretti) ballavano armoniosamente. La carola è un ballo che si danzava tenendosi per mano e girando in cerchio. 16 senz’archi... faci: senza archi e senza fiaccole. Gli amorini sono rappresentati senza le tradizionali “armi”, cioè le frecce, e senza fiaccole, a indicare che gli amori erano gioiosi e istintivi, e non generavano sofferenza. 17 la verginella... crude: la fanciulla lasciava nude le sue fresche membra rosate, che ora tiene coperte da vesti (nel velo) e scopriva le giovanili rotondità del seno (paragonate, come tradizione, a frutti acerbi). 18 il vago: l’innamorato. 19 velasti... diletti: copristi la bellezza, fonte del piacere. 20 negando... sete: negando la soddisfazione (l’onde, “l’acqua”) alla sete amorosa. La metafora amorosa sete sottolinea la naturalità del desiderio amoroso. 21 in sé ristretti: abbassati per pudore.

E son tuoi fatti egregi29 le pene e i pianti nostri. 710 Ma tu, d’Amore e di Natura donno30, tu domator de’ regi, che fai tra questi chiostri31, che la grandezza tua capir non ponno32? Vattene, e turba il sonno 715 a gl’illustri e potenti: noi qui, negletta e bassa turba, senza te lassa33 viver ne l’uso de l’antiche genti34. Amiam, ché non ha tregua 720 con gli anni umana vita, e si dilegua35. Amiam, ché ’l sol si muore e poi rinasce: a noi sua breve luce s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce36.

22 altrui secrete: nascoste ad altri. 23 raccogliesti in rete: fa riferimento alle acconciature di moda, con le chiome variamente raccolte in reticelle. 24 lascivi: sensuali, amorosi. 25 festi: facesti, rendesti. 26 l’arte: l’artificio. 27 opra è tua sola: è solo colpa tua. 28 che furto... d’Amore: che quello che un tempo era un dono d’Amore, ora sia diventato un furto, qualcosa che si ruba, che si ricerca di nascosto. Per il nuovo, rigido codice di comportamento imposto dalla Controriforma, l’amore è accompagnato da sensi di colpa; perciò appare come un furto. 29 fatti egregi: grandi azioni, imprese. 30 donno: signore, dominatore; deriva dal latino dominus (“signore”) e si riferisce all’Onore, che ormai predomina sull’amore e sulla natura. 31 chiostri: luoghi chiusi, ritirati, cioè luoghi bucolici, i boschi, considerati nella poesia pastorale spazi di evasione dalla società. 32 capir non ponno: non possono contenere (capire, dal latino capio).

33 noi qui... lassa: è il gruppo (noi... turba) di umili pastori; negletta “trascurata”. Si noti l’aequivocatio di turba (v. 714 verbo e v. 717 sostantivo). 34 viver... genti: vivere come gli antichi; cioè come i pagani, senza l’idea cristiana del peccato. 35 Amiam... dilegua: Amiamo, perché la vita umana scorre fugace e presto finisce. L’invito ad amare, data la brevità e fugacità della vita, si ispira a una concezione epicurea e paganeggiante della vita, frequentemente ripresa nel Rinascimento (si pensi solo alla ballata di Lorenzo il Magnifico Quant’è bella giovinezza ➜ C10 T1 ). 36 Amiam... adduce: i versi riprendono quasi alla lettera il carme V (vv. 4-6) di Catullo, il cui tema è l’invito ad amare, perché la vita è breve: «Soles occidere et redire possunt: nobis, cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda» (“il sole può tramontare e risorgere; noi, quando sarà tramontata la breve luce della nostra vita, dovremo dormire un’unica, eterna notte”).

La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 971


Analisi del testo Il mito dell’età dell’oro Nella prima strofa il poeta rievoca il mito dell’età dell’oro, narrato dal poeta greco Esiodo e ripreso da altri autori classici, come Virgilio, Tibullo e Ovidio. Gli antichi ignoravano l’idea di progresso e consideravano il corso della storia come una decadenza dalla perfezione originaria: collocavano in un remoto passato l’epoca più felice per l’umanità (la mitica età dell’oro), immaginandola come allietata da una natura spontaneamente feconda e sotto il segno di una pacifica, serena convivenza tra gli uomini. Il poeta riassume gli elementi topici del mito, ripresi in particolare dalle Metamorfosi di Ovidio (I, vv. 89-112): nella mitica età dell’oro la terra produceva spontaneamente i suoi frutti, scorrevano fiumi di latte e, senza la fatica dell’apicoltura, il miele stillava direttamente dai tronchi degli alberi; gli animali non conoscevano la ferocia e il mondo era allietato da un’eterna primavera; la fecondità della natura rendeva inutili il lavoro e il commercio; perciò le navi non solcavano i mari per i loro traffici, non c’erano guerre e gli uomini vivevano in pace.

Una visione alternativa dell’età dell’oro Nella seconda strofa, aperta dalla forte antitesi ma, il poeta, attraverso la voce del coro, precisa però che “l’età dell’oro”, l’epoca di una remota felicità perduta e rimpianta, non è per lui il periodo mitico dell’abbondanza e della fertilità immaginato dagli antichi poeti, ma è una condizione di vita più libera di quella presente (v. 679) in cui, senza divieti e costrizioni, gli uomini seguivano una morale naturale rivolta al piacere. Non è difficile identificare l’età rimpianta da Tasso con il Rinascimento, che cominciava negli ultimi decenni del Cinquecento a essere un modello culturale e ideologico “lontano”, un’epoca in cui era diffusa una concezione edonistica della vita, che si riallacciava alla filosofia epicurea. Il coro contiene infatti l’invito epicureo a godere dei piaceri e delle gioie dell’esistenza, un tratto caratteristico della cultura rinascimentale (espresso in molti testi emblematici, come ad esempio la ballata di Lorenzo il Magnifico Quant’è bella giovinezza) La formula «S’ei piace, ei lice» (è lecito tutto quello che dona piacere), riassume i valori di un’etica paganeggiante ed edonistica, in cui la ricerca naturale del piacere non è condannata, ma considerata piena adesione alla vita. Ma, come il poeta lamenta, alla legge aurea e felice del piacere, in accordo con la natura, la civiltà ha contrapposto la dura legge dell’onore.

Cos’è l’“onore”? Ma cosa è per Tasso l’“onore”, parola chiave del coro? Il concetto coincide con la stessa civiltà: già per i guerrieri omerici possiamo parlare di un senso dell’onore, basato sull’etica guerresca; successivamente, con il tempo, l’onore assume sfumature diverse, in rapporto all’evoluzione della società, ma coincide in ogni caso con la conformità dell’individuo ai valori del contesto sociale e culturale in cui è inserito. L’onore, ai tempi di Tasso, può essere dunque l’obbligo di seguire il codice di comportamento imposto dalla Chiesa controriformistica, che inevitabilmente si trovava in conflitto con i valori edonistici rinascimentali. Sebbene in forma indiretta e in modo allusivo, nell’Aminta Tasso dà espressione a questo conflitto e manifesta per contro la sua adesione alla visione precedente della vita e alla sua concezione positiva della natura e dell’uomo.

Il confronto con la Gerusalemme liberata Il tema sarà ripreso nella Gerusalemme liberata, nell’episodio di Rinaldo e Armida(➜ T11 ), in cui però la mentalità edonistica rinascimentale, lungi dall’essere rimpianta, è condannata. Poiché i due testi furono scritti all’incirca nello stesso periodo, non si può pensare a un mutamento intervenuto nella concezione dell’autore. Occorre invece rifarsi alle convenzioni del genere: sarebbe stato impensabile in un poema epico (oltretutto di argomento religioso) esaltare una tale etica, mentre questo può essere concesso in un genere tradizionalmente disimpegnato, inscritto in uno scenario idillico e al di fuori della storia.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi in 5 righe la rappresentazione dell’età felice del coro dell’atto primo, suddividendo il tuo testo in tre sequenze e dando a ognuna un titolo. COMPRENSIONE 2. Quali caratteristiche presenta l’ambiente naturale nell’età dell’oro? 3. Perché viene data all’onore la seguente definizione: «idolo d’errori, idol d’inganno»? 4 Cosa significa che l’onore ha «velato la fonte de’ diletti»? ANALISI 5. Quale principio si celebra con la formula «S’ei piace, ei lice»? 6. In cosa consiste la contrapposizione, che in questo brano il Tasso sviluppa, fra Onore e Amore? STILE 7. Con quali aggettivi si può definire lo stile, e in particolare il lessico (la scelta delle parole), utilizzato in questo brano? Quale significato implica questa scelta stilistica?

PER APPROFONDIRE

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. Ritieni che le riflessioni sviluppate dal Tasso in questo brano siano attuali? O meglio: che la concezione di un anelato ritorno a una primitiva età dell’oro vada contro l’ideale di un progresso? Elabora un testo argomentativo di almeno 15 righe trattando questo spunto.

Il “disagio della civiltà” da Tasso all’epoca moderna Il contrasto tra l’istinto naturale al piacere e la repressione imposta dalla civiltà, denunciato nel coro dell’Aminta, risulta ancor oggi attuale: basti pensare a una delle più importanti opere di Freud, Il disagio della civiltà (1929), in cui il fondatore della psicoanalisi teorizza che un disagio, una sofferenza, una tensione fra individuo e società siano conseguenza inevitabile della civilizzazione, intrinsecamente fondata sulla sistematica repressione del principio del piacere (un desiderio di godimento innato in ciascun individuo) e della sfera dell’istintività (che si esercita spontaneamente nella prima infanzia) per adattare l’individuo alle esigenze della comunità. Il contrasto fra la natura istintiva dell’uomo e la civiltà è un tema che percorre tutta la riflessione filosofica nel tempo, estrinsecandosi in due posizioni fra loro opposte che qui, di necessità, schematizziamo.

La prima (in analogia con l’Aminta) è che la natura umana sia fondamentalmente positiva e quindi la repressione sociale sia tendenzialmente condannabile: è la posizione del filosofo illuminista Rousseau e di pensatori novecenteschi come Marcuse, Fromm, Foucault; ma c’è chi vede lo stato di natura originario in modo opposto, funestato da guerre e sopraffazioni reciproche. È la posizione del filosofo Thomas Hobbes (1588-1679) per cui, in assenza della legge e dell’ordine civile e politico, homo homini lupus (“l’uomo è un lupo per l’uomo”); ma anche di un famoso libro di William Golding, Il signore delle mosche (1954), in cui un gruppo di ragazzi rimasti da soli in un’isola deserta involve istintivamente verso la violenza e la barbarie. Dunque, qual è la vera natura dell’uomo in assenza del baluardo della civiltà? Una questione che finora non ha trovato una risposta univoca.

Giovanni Carnovali detto il Piccio, Morte di Aminta, 1835 ca. (Piacenza, Banca Popolare).

La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 973


3 La Gerusalemme liberata 1 Storia della Gerusalemme liberata VIDEOLEZIONE

Dall’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata Tra l’Orlando furioso, pubblicato nell’ultima edizione nel 1532, e la Gerusalemme liberata, ultimata verso il 1575, intercorrono circa quarant’anni. Entrambe le opere furono scritte presso la corte di Ferrara e possono essere ricondotte al genere cavalleresco; entrambe sono in ottave e accomunate dalla presenza di storie di cavalieri, guerre, amori ed episodi in cui entra in scena la magia. Proprio tali analogie fanno maggiormente risaltare le differenze tra i due poemi, che rispecchiano due opposte visioni del mondo: l’Orlando furioso, con le sue vicende avventurose e fantastiche, rappresenta un punto di vista laico, ispirato alla libertà degli ideali rinascimentali; la Gerusalemme liberata, poema non più cavalleresco ma eroico , (come Tasso stesso lo definisce) si incentra invece su una vicenda storica, la prima crociata, ed è animato da una visione religiosa, che risente degli ideali della Controriforma e del concilio di Trento.

Parola chiave

Un macrosistema intertestuale La Gerusalemme liberata si inserisce in un più ampio «macrosistema intertestuale» (Anselmi), un insieme di testi variamente in rapporto con la composizione del capolavoro. Dall’adolescenza fino agli ultimi anni di vita, Tasso si impegna a realizzare un poema in grado di rispondere alle attese del proprio tempo: rivolgendosi a una cristianità sempre più pressata dalla minaccia dei Turchi (contro cui si sarebbe combattuta la grande battaglia di Lepanto del 1571, contemporanea al poema), ma soprattutto dilaniata al suo interno dalla Riforma protestante, Tasso aspira a realizzare un poema epico cristiano, individuandone sin dall’inizio l’argomento nella prima crociata, come momento di coesione e di riscossa della cristianità. Del progetto di poema eroico sulla crociata fanno parte un abbozzo giovanile di poema in ottave, il Gierusalemme, iniziato da Tasso a soli quindici anni, nel 1559, poi lasciato incompiuto, di cui molti versi confluiscono, quasi senza variazioni, nei primi tre canti della Liberata; il poema cavalleresco Rinaldo, pubblicato nel 1562, che consentì a Tasso, diciottenne, di acquisire una completa padronanza di temi, motivi e linguaggio di quella componente romanzesca che, con grande abilità letteraria, sarebbe poi riuscito a fondere con la trama storica della Gerusalemme liberata, e il tardo rifacimento della Liberata, intitolato Gerusalemme conquistata. Appartengono a pieno titolo al macrosistema anche i testi di poetica dedicati da

poema eroico Così Tasso definisce la Gerusalemme liberata, per differenziarla dai poemi cavallereschi di Boiardo e Ariosto, con i quali ha vari elementi in comune (il metro dell’ottava, l’intreccio tra guerra e amori, e diversi motivi topici, come

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l’avventura, la magia, i duelli cavallereschi), ma da cui si distingue per il fondamento storico e per l’intento di presentare i suoi eroi come modelli etici, da proporre all’imitazione del lettore.


Tasso al poema eroico: i Discorsi dell’arte poetica, le Lettere poetiche e i più tardi Discorsi del poema eroico. Sono infatti opere in cui la trattazione interagisce con l’ideazione del capolavoro tassiano, costituendone il supporto teorico. La tormentata vicenda compositiva e editoriale La composizione della Gerusalemme liberata si protrae per circa dieci anni, dal 1565 circa al 1575, quando l’opera, costituita da venti canti, è ormai compiuta (il titolo provvisorio era Goffredo) e Tasso può leggerla ad Alfonso II e a Lucrezia d’Este. Nello stesso tempo comincia a spedirne delle parti a revisori da lui scelti, per verificare come potrebbe essere accolta dalle autorità ecclesiastiche e dai letterati sostenitori delle teorie aristoteliche. L’esito non è incoraggiante e, angustiato dalle severe critiche dei revisori, il poeta si vede costretto a intraprendere un interminabile processo di riscrittura. Nel frattempo, durante la carcerazione di Tasso a Sant’Anna, alcuni editori, entrati in possesso di copie parziali e scorrette della prima versione non rivista, le stampano senza il suo consenso. In seguito alcuni letterati amici del poeta curano edizioni più attendibili della redazione originaria, fra le quali due curate da Febo Bonnà e pubblicate nel 1581: la seconda, con nuove correzioni di Tasso, è ancora alla base delle edizioni moderne dell’opera; dunque la Gerusalemme liberata così come la leggiamo noi non corrisponde alla volontà ultima dell’autore. Neppure il titolo con cui è universalmente nota si deve al Tasso, ma è stato introdotto dal letterato Angelo Ingegneri. Mentre l’opera si diffonde con enorme successo, Tasso continua dunque a rivederla e correggerla, soprattutto per renderla in linea con i pareri dei severi revisori ecclesiastici: perciò comincia a eliminare e a modificare (spesso a malincuore, rendendosi conto che si tratta delle parti più felici) tutto ciò che può apparire poco edificante per un’epoca rigida e ossessionata dal peccato qual è la Controriforma.

Macrosistema intertestuale della Gerusalemme liberata Gierusalemme

Rinaldo

Gerusalemme liberata

Discorsi dell’arte poetica e Discorsi del poema eroico

Gerusalemme conquistata

abbozzo giovanile in ottave (1559), incompiuto

poema cavalleresco (pubblicato nel 1562), testimonia i primi esperimenti sui temi e sul linguaggio poetico della componente “romanzesca”

fra il 1565 e il 1575 la stesura del poema

scritti teorici di poetica

rifacimentoriscrittura, frutto degli scrupoli letterari e religiosi che assillavano il poeta (1593)

La Gerusalemme liberata 3 975


La Gerusalemme conquistata Il risultato della quasi ventennale riscrittura è la Gerusalemme conquistata, pubblicata soltanto nel 1593, unica versione del poema sulla crociata edita e approvata da Tasso. Si tratta però di un’opera molto diversa dalla Gerusalemme liberata: i canti vengono portati da venti a ventiquattro, per analogia con il modello classico dell’Iliade; alcuni episodi famosi, ma poco consoni allo “spirito di crociata”, sono eliminati; i pagani e i cristiani sono più nettamente contrapposti; i riferimenti alla tematica amorosa e alla magia vengono ridotti a favore del tema epico-guerresco, mentre lo stile diventa uniformemente alto e solenne, privo delle sfumature che rendevano affascinante il poema proprio per la sua complessità psicologica ed emotiva. Più consona allo spirito controriformistico, la Gerusalemme conquistata non è apprezzata, però, dal pubblico, che preferisce continuare a leggere la Gerusalemme liberata (come facciamo, del resto, ancora oggi).

PER APPROFONDIRE

La produzione epico-cavalleresca Rinaldo

tradizionale poema cavalleresco in dodici canti

Gerusalemme liberata

il capolavoro di Tasso. Poema eroico in venti canti, ultimato nel 1575, che ha per sfondo storico la prima crociata

Gerusalemme conquistata

riscrittura della Gerusalemme liberata in ventiquattro canti, pubblicata nel 1593, con notevoli modificazioni, a cominciare dall’eliminazione di episodi ritenuti non adatti a un poema cristiano

Leggere la Liberata o la Conquistata? Un caso unico nella filologia italiana Dal punto di vista filologico, quello della Liberata è un caso unico. Infatti, in genere, quando esistono diverse redazioni o versioni a stampa di un’opera se ne legge l’ultima, considerandola più corrispondente alle intenzioni dell’autore e perciò capace di esprimerne al meglio il messaggio poetico ed esistenziale. Ciò accade, ad esempio, per I promessi sposi e per l’Orlando furioso. Nel caso di Tasso ci comportiamo in modo diverso e, facendo riferimento al giudizio dei lettori più che alla volontà dell’autore, leggiamo la Gerusalemme liberata, poema non pubblicato né approvato dall’autore, mentre trascuriamo la Gerusalemme conquistata, che Tasso considerava l’unica versione legittima del poema.

976 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso

Se in genere uno scrittore, rivedendo la propria opera, riesce a mettere a fuoco sempre meglio il suo progetto e a esprimere la propria individualità personale e poetica, a Tasso, sempre più preda di scrupoli religiosi e ossessionato dalle critiche dei revisori ecclesiastici, sembra sia avvenuto il contrario. E alla fine, dominato dai sensi di colpa per un’opera non abbastanza consona agli ideali controriformistici, diventa «l’inesorabile e implacabile Inquisitore e Censore di sé stesso», tanto da giungere ad affermare di sentirsi «alieno» [estraneo] dal primo poema, come «i padri da’ figliuoli ribelli, e sospetti d’esser nati d’adulterio». La Gerusalemme liberata, per il suo autore, fu dunque come un figlio illegittimo, frutto del peccato, indegno di essere ufficialmente riconosciuto.


2 La riflessione teorica sul poema: i Discorsi dell’arte poetica Riflessioni di poetica Tasso ha ben chiaro fin dal principio il proprio obiettivo: scrivere un’opera in grado di appagare le attese sia dei letterati sia del pubblico, coniugando le caratteristiche di un poema cavalleresco, vario e piacevole come quello dell’Ariosto, con quelle più ambiziose di un poema epico, in cui tutta la comunità cristiana cattolica possa riconoscersi. Un’opera che possa aspirare alla dignità di un nuovo “classico”, alla pari dell’Iliade e dell’Eneide. Per affrontare il difficile compito, si dedica ad approfonditi studi e riflessioni sulla poetica, il cui frutto sono i Discorsi dell’arte poetica ed in particolare sopra il poema eroico. Probabilmente scritti tra il 1561 e il 1562 (ma alcuni studiosi propongono una data più tarda, tra il 1565 e il 1566), nel periodo in cui l’autore riprende l’abbozzo del giovanile Gierusalemme per dare al poema sulla crociata una forma compiuta, i Discorsi vengono in seguito rielaborati, ampliati in sei libri, e pubblicati nel 1594 con il titolo Discorsi del poema eroico. Nell’elaborazione della propria poetica, Tasso si rifà principalmente (ma non esclusivamente) ad Aristotele, la cui Poetica aveva assunto un’importanza fondamentale nel secondo Cinquecento (➜ SCENARI, PAG. 949) e ne riprende due princìpi cardine: il verisimile e l’unità dell’opera. La scelta dell’argomento: storia o invenzione? I Discorsi dell’arte poetica sono suddivisi in tre libri, ciascuno incentrato su un problema compositivo specifico. Il primo è dedicato alla scelta della materia narrativa del poema. In linea con la tendenza moralistico-pedagogica propria dell’età della Controriforma, Tasso ritiene che la poesia debba offrire al lettore insegnamenti morali e modelli etici: questi però risultano più efficaci e credibili se attinti alla realtà storica. La prima crociata – che, svoltasi tra il 1096 e il 1099, aveva permesso ai cristiani la temporanea riconquista della Terra Santa – appare al poeta l’argomento più adatto, sia perché aveva rappresentato la riscossa cristiana contro i nemici della fede, sia perché si tratta di un evento collocato alla giusta distanza storica: non troppo lontano nel tempo, così da essere consegnato alla leggenda, ma neppure troppo vicino (perché in tal caso sarebbe stato difficile inserirvi elementi immaginari e fantasiosi). Una materia, dunque, coinvolgente per i lettori e tale da poter essere trattata con una certa libertà (per la teoria aristotelica, infatti, il poeta non deve ritrarre il vero, ma il verisimile). Verisimile e “maraviglioso” Accanto al verisimile, Tasso ritiene però debba trovare spazio anche il maraviglioso, ossia l’insieme degli elementi fantasiosi, magici e sovrannaturali che avevano reso così piacevole e avvincente l’opera ariostesca. Il rischio che il maraviglioso si ponga in contrasto con il verisimile, annullandone la credibilità, esiste; ma, per un argomento legato alla religione come la crociata, la soluzione si trova, secondo il poeta, nel «maraviglioso cristiano», che consiste nel ricondurre gli eventi straordinari a forze divine e demoniache, a cui un cristiano crede per fede, a differenza delle mitologiche divinità pagane (ma anche delle figure e situazioni proprie del “fantastico” cavalleresco ➜ D1 OL). Unità e varietà Il secondo libro è incentrato sul rapporto tra varietà e unità. Obiettivo dichiarato di Tasso è conciliare il principio dell’unità teorizzato da Aristotele con la piacevole varietà dell’esempio ariostesco. Un compito difficile: la varietà dell’Orlando furioso era infatti intimamente connessa alla visione rinascimentale del mondo, mentre l’epoca della Controriforma impone di assoggettarsi a un unico sistema di valori, fondato su una rigida ortodossia religiosa. La Gerusalemme liberata 3 977


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Per contemperare i due principi (unità e varietà) Tasso fa sua l’idea, di origine neoplatonica, del poema come «picciolo mondo», insieme uno e molteplice: varietà, dunque, ma subordinata a un’idea d’insieme unitaria (di fatto Tasso organizza la trama intorno a un evento centrale e a un personaggio cardine, Goffredo di Buglione).

D1 Torquato Tasso

La poetica di Tasso: il «meraviglioso cristiano»

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Per approfondire Le fonti storiche del poema e la rielaborazione fantastica

Lo stile del “poema eroico” Il terzo libro dei Discorsi è dedicato allo stile. Trattandosi di un “poema eroico”, fondato su imprese di nobili personaggi, Tasso teorizza un modello linguistico distante dal registro piano e colloquiale del poema ariostesco: uno stile alto, «magnifico e sublime», caratterizzato da scelte lessicali raffinate (voci «peregrine e da l’uso popolare lontane»), da molteplici figure retoriche, da una costruzione sintattica complessa, da frequenti enjambement (osserva infatti nei Discorsi sopra il poema eroico: «I versi spezzati, i quali entrano l’uno ne l’altro […] fanno il parlar magnifico e sublime»). In una lettera a Scipione Gonzaga, Tasso precisa inoltre di aver adottato il «parlar disgiunto», in cui le parole e le frasi sono legate più in modo implicito che da puntuali nessi logico-grammaticali.

I testi teorici di poetica Discorsi dell’arte poetica STRUTTURA

tre libri

PUBBLICAZIONE

1587 (ma iniziati molti anni prima)

CONTENUTO

riflessioni sul poema eroico e su come conciliare l’unità, richiesta da Aristotele, con la varietà di episodi e di azioni dei materiali cavallereschi, sul modo di realizzare la verosimiglianza e sulla necessità di introdurre la dimensione del meraviglioso per attrarre i lettori, purché sia un meraviglioso “cristiano”, non fiabesco

Discorsi del poema eroico STRUTTURA

sei libri

PUBBLICAZIONE

pubblicati postumi nel 1594

CONTENUTO

riprendono i Discorsi dell’arte poetica, con un’attenzione centrata sul poema eroico, a sostegno dell’operazione compiuta con la Gerusalemme conquistata

978 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


3 La trama La struttura bipartita ovvero la struttura teatrale del poema La Gerusalemme liberata narra in venti canti le vicende conclusive della prima crociata, che porteranno alla conquista della Città Santa da parte delle armate cristiane. L’impresa è contrastata dalle forze del male, alleate dei nemici dei cristiani e che prevalgono nella prima parte del poema (canti I-XII), mentre nella seconda (a partire dal canto XIII) si assiste alla rivincita delle forze del bene, fino alla vittoria finale dei crociati. Un’altra interpretazione, più complessa e articolata, della struttura del poema è quella di Ezio Raimondi nel saggio Poesia come retorica, in cui si mette in parallelo l’intelaiatura del poema a uno schema teatrale, suddiviso in cinque parti come gli atti di una tragedia. Raimondi, infatti, rifacendosi peraltro alle intuizioni dell’umanista Ludovico Castelvetro e analizzando l’evoluzione tematica della storia dal momento di crisi iniziale ad un momento di incertezza e di tensione emotiva centrale (climax) fino alla risoluzione e allo scioglimento finale, osserva che «i canti 1-3 formano l’atto primo, 4-8 il secondo, 9-13 il terzo, 14-17 il quarto, 18-20 il quinto, con una simmetria che rispecchia quasi in una figura emblematica la tensione drammatica del racconto». Questo modello strutturale avvicina il racconto della Liberata a quello di una tragedia, quindi sottolinea l’impostazione teatrale e scenografica, la raffigurazione drammatica dei personaggi, che in fondo sta alla base di tutta l’ispirazione tassiana. L’antefatto Premessa alla conquista della Città Santa è un intervento divino. Dio manda l’arcangelo Gabriele da Goffredo di Buglione, il solo tra i guerrieri cristiani animato da un sincero spirito religioso, a differenza dei compagni, sviati da ambizioni, interessi personali, passioni mondane. Eletto capo dei Crociati, Goffredo dovrà infondere uno slancio comune (➜ T4 ) e ricondurre i soldati cristiani erranti sotto i santi segni del vessillo cristiano.

Parola chiave

L’assedio a Gerusalemme e i primi scontri tra i due schieramenti Giunti a Gerusalemme, i Crociati pongono l’accampamento presso le mura e stringono d’assedio la città. Nei primi scontri emergono tra i cristiani Tancredi e Rinaldo, tra gli infedeli Argante e Clorinda. Dall’alto delle mura Erminia, principessa di Antiochia, spodestata dai Crociati, indica ad Aladino, re di Gerusalemme, i più valorosi guerrieri cristiani: Erminia è segretamente innamorata di Tancredi, che a sua volta ama la guerriera musulmana Clorinda (➜ T5 OL).

errante Nel poema di Tasso l’aggettivo ha un duplice significato: si riferisce all’errore morale come peccato e deviazione dalla fede, ma anche allo spirito avventuroso dei cavalieri erranti, che nei romanzi medievali erano impegnati nella continua ricerca (quête) di imprese.

I due significati coincidono per i Crociati, che devono subordinare lo spirito avventuroso, sempre potenzialmente distraente, alla disciplina e all’alto fine religioso dell’azione guerresca, vincendo perciò entrambe le tendenze a un tempo.

La Gerusalemme liberata 3 979


L’azione demoniaca prevale sulle forze in armi Di fronte al pericolo che i Crociati si ricompattino e la fede trionfi, Satana convoca un concilio infernale: i demoni dovranno stimolare nei combattenti cristiani tendenze che li distolgano dal dovere, distrazioni rivolte agli amori vani, all’individualismo cavalleresco, frutto di un erroneo senso dell’onore (➜ T6 OL). Molti Crociati, via via sempre più sviati da maligne tendenze «centrifughe», abbandonano il campo: alcuni, accecati dalla seduzione amorosa dell’affascinante maga Armida, che si finge spodestata e bisognosa d’aiuto, la seguono e vengono da lei imprigionati in un castello sul Mar Morto. Alle armate cristiane viene meno anche il sostegno di Rinaldo: spinto dall’ira, il cavaliere uccide un altro crociato e viene cacciato dal campo. Tancredi a sua volta è ferito gravemente in duello da Argante. L’avventura di Erminia Erminia, indossate le armi di Clorinda, si reca di nascosto all’accampamento cristiano per soccorrere l’amato Tancredi. Ma è sorpresa dai Crociati ed è costretta alla fuga. Si rifugia allora tra i pastori in un mondo agreste lontano dalla guerra. Tancredi e Clorinda La situazione dei crociati precipita ulteriormente quando Argante e Clorinda incendiano la torre d’assedio indispensabile per espugnare Gerusalemme (➜ T9a OL). I due sono scoperti e Tancredi, senza riconoscerla, affronta in duello l’amata Clorinda, ferendola a morte (➜ T9b ); in seguito può contribuire ben poco alla causa cristiana: è così prostrato per le ferite e per l’angoscia di aver ucciso l’amata da meditare il suicidio (da cui viene distolto dai rimproveri e dalle esortazioni di Pietro l’Eremita). La selva incantata Per assediare Gerusalemme sarebbe necessaria un’altra torre, ma vi si oppone un incantesimo del mago Ismeno, che chiama a raccolta le forze demoniache nella selva di Saron, da cui i Crociati avrebbero dovuto procurarsi il legno per la costruzione. La selva incantata diviene uno spaventoso teatro dell’orrore, in cui ciascun guerriero vede ciò che più lo impaurisce e angoscia, perdendo il coraggio di troncarne i rami (➜ T10 OL). Ormai sembra che le forze del male abbiano la meglio: una terribile siccità rende arida e desolata la regione di Gerusalemme e molti Crociati, tormentati dalla sete, si ribellano contro Goffredo, accusandolo di averli condotti a morire per una vana ambizione. La riscossa dei crociati Ma a questo punto un intervento divino, invocato da Goffredo, capovolge la situazione: da qui in poi per i crociati tutto si volge al meglio. Avvertito da un sogno profetico, Goffredo incarica i guerrieri Carlo e Ubaldo di sottrarre Rinaldo, predestinato a vincere l’incantesimo della selva, alla seduzione della sensuale Armida, nella sua dimora nelle Isole Fortunate (➜ T11 ). Richiamato al suo dovere e purificato dopo un’ascesa-pellegrinaggio al monte Oliveto, Rinaldo vince i maligni incanti di Ismeno, consentendo la ricostruzione delle torri d’assedio. I Crociati possono così finalmente entrare in Gerusalemme e liberare il Santo Sepolcro, anche se devono ancora affrontare duri scontri e duelli per vincere la disperata resistenza degli assediati e per annientare, in una battaglia campale, l’armata d’Egitto, accorsa in aiuto di Aladino. Nelle ultime fasi del conflitto Tancredi uccide Argante in duello; Rinaldo annienta le ultime resistenze musulmane, facendo cadere anche il valoroso Solimano, e incontra infine Armida che, deposta la volontà di vendicarsi per l’abbandono dell’amante, si converte alla fede cristiana.

980 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


4 I temi e le caratteristiche generali La guerra Tema dichiarato della Gerusalemme liberata è il conflitto tra infedeli e cristiani, con la vittoria di questi ultimi. La guerra riacquista il peso perduto nei poemi cavallereschi: come ai tempi della Chanson de Roland, sono rimarcate le opposizioni fra i due schieramenti, annullando la sostanziale identità tra le parti in conflitto che aveva caratterizzato l’Orlando furioso; le azioni belliche, rappresentate con inedita precisione, e i duelli, condotti secondo le regole di un secolo puntiglioso in materia di cavalleria, si caricano del peso reale e amaro del sangue e della morte. Il “maraviglioso cristiano” e la magia L’intervento del «maraviglioso cristiano» dilata la guerra a livello cosmico, per l’intervento di angeli e demoni, che segnano l’opposto prevalere delle forze del bene e del male. Tale conflitto si intreccia con il tema religioso e con un altro tema centrale nella Gerusalemme liberata, la magia, perché nello schieramento pagano militano maghi e incantatrici, che si servono dell’aiuto dei demoni (praticando cioè la magia nera) per suscitare nei combattenti passioni maligne e distruttive. Alla magia nera si contrappone nel poema quella “bianca” del mago di Ascalona, che aiuta i Crociati a vincere gli incantesimi e a far prevalere la ragione sulla passione: è lui che, in veste di “aiutante”, dona a Carlo e Ubaldo gli oggetti magici (un libro, una bacchetta per domare gli animali feroci, uno scudo adamantino dalla superficie rispecchiante) che servono a liberare Rinaldo, prigioniero della seducente maga Armida. I conflitti della coscienza Il conflitto tra forze divine e demoniache si ritrova anche nell’animo dei Crociati, che sono insidiati non soltanto dall’esterno, ma soprattutto dall’interno, dai conflitti della loro coscienza. Nei personaggi cristiani della Gerusalemme l’equilibrio è sempre instabile e costantemente insidiato dal conflitto tra bene e male, piacere e dovere, fede e peccato, passione e ragione. Qui sta una delle ragioni della modernità del poema, che apre uno spazio senza precedenti all’interiorità, a cui guarderanno con ammirazione quanti hanno esplorato la complessità conflittuale dell’animo umano: da Goethe, ai Romantici, allo stesso Freud, fondatore della moderna psicoanalisi. L’amore In tale avvicendarsi di forze opposte si colloca, in contrasto con la guerra, l’altro grande tema della Liberata, l’amore. I due schieramenti avversi sono in realtà uniti, come è stato detto, da una corrente sotterranea di desiderio e i grandi amori del poema sono significativamente quelli tra nemici. Già la lettura delle ottave che narrano l’arrivo dei crociati a Gerusalemme, nel terzo canto del poema (➜ T5 OL), è rivelatrice. Siamo nel bel mezzo di un conflitto, per di più di natura religiosa, e tra i due schieramenti si intrecciano sguardi dettati da irresistibili attrazioni amorose. Erminia, musulmana, è innamorata del cristiano Tancredi il quale, a propria volta, non riesce più a ragionare quando sotto l’elmo appaiono i biondi capelli della nemica Clorinda. A sua volta, Rinaldo sarà irretito dall’attrazione sensuale per la maga musulmana Armida. Solo l’amore di Rinaldo e Armida avrà un lieto fine, mentre gli altri sono destinati a restare inappagati: ma proprio perché insoddisfatto, il desiderio amoroso tanto più si perpetua e si rafforza, generando l’atmosfera sensuale che pervade il poema. La categoria critica del «bifrontismo» di Tasso L’attrazione tra nemici, che mette in crisi la logica della “guerra santa”, ha suscitato da sempre interrogativi nei lettori: cosa rappresentano i due schieramenti nel sistema simbolico del poema? La Gerusalemme liberata 3 981


Chi sono per Tasso in realtà gli “infedeli”? Una questione tanto più importante quanto più si osserva (ed è giudizio unanime dei critici) la maggiore ispirazione degli episodi legati alle passioni amorose (dunque ciò che unisce i due fronti) che non ai temi religiosi (ciò che li divide). Fin dal 1961 Lanfranco Caretti, in un suo importante saggio, per definire la complessa situazione psicologica e culturale da cui trae origine il poema, espressione di un’età di profonda crisi, propose una convincente tesi critica, coniando la fortunata formula di un «bifrontismo spirituale», vale a dire un’ambivalenza nel sistema di valori nella Gerusalemme liberata. Mentre la Divina commedia – e per certi versi anche l’Orlando furioso – rimandano a una visione del mondo coerente e omogenea, la Gerusalemme liberata riflette la compresenza nell’autore di due sistemi di valori inconciliabili, ma entrambi fortemente sentiti, facendo del poema un campo di continue tensioni. «Era fatale» – scrive Caretti – «che ne uscisse una struttura del tutto nuova [rispetto alla Commedia e al Furioso], fondata non sopra un’unica e fortissima sollecitazione, ma sopra un ritmo alterno di spinte e controspinte che ora impongono alla poesia tassiana sviluppi ascendenti, a spirale (con quelle vertiginose impennate verso zone di assoluto rasserenamento, di ansia purificata), ed ora sviluppi diversivi, più distesamente autonomi, ma mai del tutto eccentrici rispetto all’azione centrale. Il risultato è una originale compenetrazione di piani diversi, in cui momenti eroici (storici e morali) e quelli lirici (sentimentali e autobiografici) strettamente si intrecciano e reciprocamente si trasfondono attraverso suggestive increspature e secondo impulsi subitanei ed eccitati, in un continuo e spesso repentino mutare di luci e ombre, di opposte prospettive».

Il bifrontismo spirituale nella Gerusalemme liberata: le tematiche attrazione verso il centro di potere CORTE disprezzo per l’ipocrisia, le falsità, gli intrighi

manifestazioni di eroismo GUERRA atti di brutale violenza

sensualità AMORE passione

profonda esperienza spirituale RELIGIONE rituali ripetitivi, ipocrisia, limitazione della libertà di pensiero

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Il conflitto fra pagani e cristiani come «conflitto di codici culturali» In un altro saggio fondamentale per gli studi tassiani, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, il critico Sergio Zatti ha sviluppato e arricchito con nuove argomentazioni l’ipotesi di Caretti sul «bifrontismo spirituale» di Tasso. Dietro l’opposizione tra musulmani e cristiani non si profilerebbe, secondo il critico, un conflitto ideologico tra due culture, ma un contrasto interno alla cultura del tempo che Tasso si trovò drammaticamente a vivere: quello fra il codice culturale rinascimentale (con i suoi valori laici, individualisti, edonisti), condannato dalla cultura postridentina, ma di cui ancora si avvertiva il fascino (soprattutto da parte di quelli che, come Tasso, in tale clima si erano formati), e i rigidi princìpi, etici e religiosi della cultura controriformistica. Il complesso e conflittuale atteggiamento dell’autore Tasso si propone come il cantore epico del suo tempo, perciò deciso a proporre i valori controriformistici: la celebrazione dell’azione bellica al servizio dei valori religiosi, il trionfo della fede, dell’ordine, della disciplina morale sui piaceri mondani; ma questo piano intenzionale è sotterraneamente contrastato da un’opposta attrazione per i valori considerati “devianti” e condannati come peccato, ma che, alla luce della riuscita stessa della loro rappresentazione artistica nel poema, rivelano l’ambiguità della posizione tassiana: una contraddizione che, lungi dal vanificare il valore poetico dell’opera, ne accresce il fascino.

Il bifrontismo nell’ideologia e nella struttura narrativa della Gerusalemme liberata UNITÀ

vs

MOLTEPLICITÀ

impostazione controriformistica (rigore morale e dogmatismo)

impostazione rinascimentale (edonismo, laicismo, pluralismo)

cielo (il bene)

inferno (il male)

spazio verticale (dimensione del trascendente)

spazio orizzontale (dimensione terrena)

cristiani (portatori di valori controriformistici)

pagani (portatori di valori rinascimentali)

Goffredo (eroismo e religiosità)

soldati (molteplici interiorità confuse e instabili)

influsso dell’aristotelismo (struttura unitaria e chiusa)

richiamo del modello romanzesco (varietà delle azioni e struttura aperta)

evento centrale (assedio di Gerusalemme e conquista del Santo Sepolcro)

digressioni narrative secondarie (imprese individuali di eroi cristiani e pagani)

La Gerusalemme liberata 3 983


5 Le modalità narrative Il sistema dei personaggi La simpatia per gli “infedeli” La tesi interpretativa di Caretti e Zatti trova conferma nel sistema dei personaggi. Ciò che soprattutto mette in crisi l’opposizione tra i due schieramenti, in un poema che intenderebbe glorificare le crociate, è l’evidente simpatia dell’autore per gli “infedeli”, al cui schieramento appartengono alcune delle figure più vive del poema, dal valoroso Argante al regale Solimano, alla sensibile e delicata Erminia, all’intrepida e splendida Clorinda. Tasso assume spesso, inoltre, il punto di vista degli “infedeli”, mostrando in più passaggi del poema di aderire (in modo neppur troppo sotterraneo) ai valori di cui essi si fanno portavoce. Gli avversari dei Crociati non sono ritratti nella Gerusalemme come i testimoni di una fede e di una cultura (quella musulmana) diverse da quella cristiano-occidentale, ma sembrano incarnare proprio quei valori del passato rinascimentale che venivano attaccati dalla Controriforma, a cominciare dal pluralismo: se il campo dei Crociati tende forzosamente all’unità e al rispetto di un principio gerarchico superiore, quello degli infedeli rappresenta l’opposta spinta alla molteplicità, alla diversità delle scelte individuali, alla libertà. Nei musulmani, per come li rappresenta Tasso, rivivono gli ideali rinascimentali dell’homo faber, artefice del proprio destino, la concezione terrena della vita, il culto dell’onore, l’eroismo individualistico: basti pensare che un’iniziativa bellica decisiva per lo schieramento musulmano, come l’incendio della torre, è progettata dalla donna guerriera Clorinda e non dal re o dal capo dell’esercito (➜ T9a OL). È inoltre nei musulmani (in particolare in Solimano, Clorinda e Argante) e non nei cristiani che si realizza in pieno un ideale di virtù eroica: sono loro ad affrontare lucidamente e intrepidamente il pericolo, la sventura e la morte, privi – per come li rappresenta Tasso – del conforto della fede religiosa. Paradossalmente persino Lucifero (ed è la prima volta nella letteratura) è presentato con tratti nobili ed eroici, nell’episodio del concilio infernale; quando, con un discorso eloquente e appassionato, esorta i compagni demoni a perseguire quella umanistica “virtù” che già in passato li aveva spinti a ribellarsi contro Dio (IV, 15, 5-8 ➜ T6 OL). Lo schieramento cristiano: tra dovere e attrazione per la deviazione Se gli infedeli sono caratterizzati da una sostanziale coerenza “laica”, significativamente nello schieramento cristiano, al di là della formale obbedienza al principio dell’autorità e alla dichiarata subordinazione alla missione della guerra santa, si manifesta la tendenza a deviare dal proprio dovere e quindi a porsi di fatto nel “campo nemico”, innanzitutto, come si è detto, cadendo vittime dell’attrazione amorosa. Solo Goffredo, perfetto eroe controriformistico dedito, senza cedimenti, all’ideale eroicoreligioso della “guerra santa”, si mantiene immune dalle tentazioni della sensualità e dell’amore; ma proprio quello che viene proposto come eroe esemplare per la cristianità appare, a giudizio unanime dei lettori del poema, un personaggio scialbo, poco realizzato sul piano artistico. I cavalieri “erranti”: Tancredi e Rinaldo Ben diverso è il fascino dei personaggi definiti dal poeta “erranti”, sviati dalle tendenze peccaminose: il malinconico Tancredi, che subordina il proprio impegno di crociato alla passione per la nemica Clorinda e dopo averne provocato la morte vive in una dimensione angosciosa,

984 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


dilaniato dai sensi di colpa; e soprattutto Rinaldo, che solo dopo molteplici errori imparerà a subordinare l’individualismo cavalleresco e le seduzioni amorose all’impegno nella difesa della fede, in una sorta di “romanzo di formazione” che simboleggia il passaggio dall’eroe cavalleresco – con i suoi valori (l’onore, il desiderio di gloria, lo spirito avventuroso) – a quello cristiano. Certamente, comunque, le molteplici defezioni dei guerrieri cristiani nel poema testimoniano in modo indiretto ma eloquente l’attrazione, ancora presente nelle coscienze e fortemente sentita da Tasso, per gli ideali del passato rinascimentale e la difficoltà ad aderire a un ideale etico rigidamente fondato sui princìpi del dovere e della fede cattolica. Un nuovo modo di trattare i personaggi I personaggi della Gerusalemme liberata sono frutto certamente anche di reminiscenze letterarie: ad esempio Rinaldo, personaggio sfaccettato e “dinamico”, all’inizio, quando abbandona il campo cristiano ricorda Achille, quindi per lo spirito “curioso” l’eroe omerico Odisseo, per assumere alla fine, dopo l’ascesa penitenziale al monte Oliveto, i tratti di un novello Dante. Nella figura di Armida confluiscono le “seduttrici” ariostesche (Angelica e Alcina), ma anche, quando la maga viene abbandonata da Rinaldo, le antiche eroine come Didone e Arianna. Se è indubbio il dialogo con la tradizione letteraria, altrettanto indubbi sono gli elementi di novità che il poema di Tasso evidenzia nel modo di trattare i personaggi: mentre nel poema ariostesco i personaggi sono in funzione dell’azione e sono tendenzialmente privi di spessore psicologico, Tasso ne approfondisce l’interiorità (senza far distinzione tra cristiani e infedeli). Spesso inoltre si proietta in essi con una sensibilità nuova, che non a caso sarà particolarmente apprezzata nell’età romantica.

I cavalieri cristiani e i cavalieri musulmani nella Gerusaleme liberata I CRISTIANI

I MUSULMANI

si sottopongono a un ordine gerarchico

assumono di preferenza iniziative individuali

antepongono la fede alle attrattive mondane, ma sono interiormente combattuti

hanno una mentalità laica a cui si mantengono coerenti

sono aiutati da Dio

sono aiutati da Satana

il loro aiutante mago, il mago di Ascalona, pratica la magia bianca

il loro aiutante mago, Ismeno, pratica la magia nera

i loro valori sono quelli della Controriforma: fede, obbedienza, distacco dai piaceri terreni

i loro valori sono quelli del Rinascimento: onore, gloria individuale, coraggio

La Gerusalemme liberata 3 985


Il narratore e il punto di vista Gli interventi del narratore Mentre la voce narrante del poema ariostesco tendeva a intervenire in modo riflessivo, smorzando le tensioni con l’ironia e favorendo la presa di distanza critica, gli interventi del narratore nella Gerusalemme liberata tendono, al contrario, ad accrescere il pathos, a coinvolgere emotivamente il lettore. Inoltre il narratore si rispecchia spesso nei sentimenti e nelle emozioni dei personaggi. E, nella sua partecipazione, non fa distinzione fra gli appartenenti allo schieramento cristiano e musulmano: se anticipa lo strazio di Tancredi, quand’egli, inconsapevole, sta per uccidere Clorinda («Misero, di che godi? oh quanto mesti / fiano i trionfi ed infelice il vanto! / Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) / di quel sangue ogni stilla un mar di pianto» [XII, 59, 1-4]), si rivolge con tono altrettanto partecipe e commosso al grande Solimano, affranto per la perdita del suo giovane paggio («Tu piangi, Soliman? tu, che destrutto / mirasti il regno tuo co ’l ciglio asciutto?» [IX, 86, 7-8]). La focalizzazione narrativa In direzione analoga si pone la focalizzazione narrativa: diversamente da quanto avviene, ad esempio, nella medievale Chanson de Roland, in cui la superiorità dei cristiani sugli infedeli è rimarcata dall’adozione di un unico punto di vista, quello dei paladini cristiani, nella Gerusalemme liberata la focalizzazione si alterna tra i due schieramenti: ad esempio nel passo dell’arrivo dei Crociati a Gerusalemme (➜ T5 OL), la “macchina da presa” si sposta più volte dall’esterno all’interno delle mura di Gerusalemme, dagli assedianti agli assediati. Altrettanto significativo il fatto che la presa finale di Gerusalemme venga mostrata non solo dal punto di vista dei Crociati, ma anche (e con maggior commozione) da quello degli sconfitti, che vedono crollare la città regina della Giudea con un senso di nostalgica e sconsolata malinconia, come emblema di un passato irrevocabilmente al tramonto. Così il musulmano Argante, impegnato nel duello finale con Tancredi in cui avrebbe trovato la morte, apre per un attimo l’animo all’avversario (XIX, 10, 1-4): «– Penso – risponde – a la città del regno / di Giudea antichissima regina, / che vinta or cade, e indarno [invano] esser sostegno / io procurai de la fatal ruina [...]». Similmente il valoroso Solimano, asserragliato nella torre di David per un’ultima, disperata resistenza (XX, 73, 2-8), contemplando dall’alto la battaglia, con una prospettiva che sembra estendersi dallo spazio al tempo, vede nel crollo di Gerusalemme un emblema della tragica condizione umana, immersa nell’oscurità di un destino imperscrutabile («i gran giochi del caso») e senza scampo; una prospettiva molto vicina a quella dell’autore: «salse in cima a la torre ad un balcone / e mirò, benché lunge, il fer [valoroso] Soldano; / mirò, quasi in teatro od in agone [torneo], / l’aspra tragedia de lo stato umano: / i vari assalti e ’l fero [feroce] orror di morte, / e i gran giochi del caso e de la sorte». Se si pensa che, nella realtà storica, Gerusalemme sarebbe stata riconquistata dal Saladino neppure un secolo dopo la crociata, e che ai tempi di Tasso faceva ormai stabilmente parte dell’impero ottomano, si comprende come il pathos per la caduta della città in mani cristiane sia da riferire, più che alla storia, al senso simbolico del poema: al crollo appunto, questo davvero irrevocabile e definitivo, degli ideali ottimistici e antropocentrici del Rinascimento.

La simbologia spaziale Un modello spaziale complesso Il modello spaziale della Gerusalemme liberata è quello di «un vero e proprio “poema del Cosmo”» (Anselmi), in cui si rispecchia un’immagine totale del mondo. Mentre nel poema dantesco era dominante

986 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


nell’organizzazione del modello spaziale la dimensione “verticale” (il viaggio del poeta-narratore si configurava come progressiva ascesa verso la visione di Dio); e in quello di Ariosto, al contrario, prevaleva la dimensione “orizzontale”, laica e terrena, dell’avventura, il poema di Tasso rappresenta «un’originale compenetrazione di piani diversi» (Caretti), in cui sono presenti sia l’organizzazione “orizzontale” sia quella “verticale” dello spazio, a evidenziare in modo simbolico un conflitto che investe tutte le dimensioni del reale. Lo spazio “orizzontale”: tra dimensione centripeta e centrifuga Lo spazio “orizzontale” dell’allontanamento da Gerusalemme, luogo-simbolo del dovere, dell’onore, della subordinazione dell’individuo all’etica della guerra santa, si configura come quello della devianza e dell’“errore”: esempio paradigmatico è lo smarrirsi di Rinaldo, preda del desiderio amoroso per la maga Armida, che lo trattiene nelle Isole Fortunate, lontanissime dal teatro della guerra. Non a caso il ravvedimento del personaggio prevederà non solo il ritorno al “centro”, ma anche un percorso di tipo “verticale”, ispirato ai valori religiosi (l’ascesa penitenziale del monte Oliveto). La dimensione “verticale”, teatro di uno scontro soprannaturale La dimensione spaziale verticale della Gerusalemme liberata ha poi a che fare con il «maraviglioso cristiano» (➜ D1 OL). Il cielo e l’inferno irrompono dilatando lo spazio del poema, con scene dagli effetti grandiosi e “sublimi” che preludono al barocco e che saranno poi imitate da poeti come Milton. Accanto ai guerrieri dei due schieramenti, prendono sovente posto le opposte schiere angeliche e demoniache. A sostegno degli “infedeli” emergono dalle profondità della terra e pervadono lo spazio, oscurando il cielo, innumerevoli presenze demoniache («Mille nuvole e più d’angeli stigi [diavoli] / tutti han pieni de l’aria i campi immensi» [IX, 53, 3-4]), a cui si contrappongono gli interventi delle forze angeliche che discendono dal cielo quando, secondo un’iconografia che avrebbe avuto grande fortuna nelle arti figurative del barocco, accanto ai cristiani combattono angeli armati. Gli interventi angelici segnano i momenti decisivi del poema fino alla grande visione finale concessa al solo Goffredo: nel momento della conquista di Gerusalemme, il condottiero vede spalancarsi gli spazi celesti, con i compagni morti e beatificati e le schiere degli angeli gloriosamente cooperanti all’azione vittoriosa.

I “chiaroscuri” del poema Il “montaggio patetico” Uno degli aspetti più affascinanti della Gerusalemme liberata è il contrasto tra elementi opposti, combinati con una vera e propria «arte del montaggio» (Raimondi), con effetti di “chiaroscuro”: scene epiche si alternano a situazioni patetiche e sentimentali, con una ben calcolata varietà e un effetto contrappuntistico; montaggio di elementi contrastanti che si evidenzia anche all’interno dei singoli episodi, come quello già citato dell’arrivo dei crociati a Gerusalemme, con le opposte emozioni dei personaggi che lo animano: l’esultanza dei cristiani al cospetto dell’agognata meta, lo sgomento dei cittadini inermi, il segreto turbamento amoroso di Erminia, l’estasi di Tancredi alla vista di Clorinda (➜ T5 OL). I contrasti pervadono anche il famoso episodio della morte di Clorinda, con l’opposizione tra la feroce scena del duello e il rivelarsi della bellezza fragile, femminile e sensuale di quella che era stata creduta un feroce guerriero, con la pace dell’abbandono a Dio della morente, in contrasto con la disperazione inconsolabile di Tancredi, che ha ucciso la donna che ama (➜ T9b ). La Gerusalemme liberata 3 987


Gli scenari naturali-temporali Innovativo ed estremamente suggestivo è anche il modo in cui è introdotto il paesaggio che fa da scenario all’azione narrativa: come nelle liriche, anche nella Gerusalemme liberata si crea sovente una corrispondenza tra gli stati d’animo dei personaggi e l’ambiente. Se l’arrivo dei Crociati a Gerusalemme o gli amori tra Rinaldo e Armida si svolgono in pieno sole, la Gerusalemme liberata è soprattutto un poema “notturno”: molti degli episodi più drammatici, come il duello di Tancredi e Clorinda e l’assalto di Solimano al campo cristiano, avvengono su uno sfondo di tenebre, rischiarato da rare luci, con effetti di contrasto che possono essere accostati a quelli della contemporanea pittura manieristica (si pensi ad esempio al Tintoretto). Fortemente simbolica è l’associazione fra l’alba e la rinascita spirituale, come nella scena in cui Rinaldo, purificato nell’animo, ascende sul monte Oliveto, da cui contempla le bellezze celesti, o nella scena della morte di Clorinda, quando il cielo sembra aprirsi alle luci del mattino per accogliere l’anima della giovane, convertita al cristianesimo.

6 Le scelte stilistiche e metriche Un poema all’incrocio tra diversi generi letterari La varietà e l’unità, principi fondanti del poema, ne informano anche lo stile. Nel suo capolavoro, il poeta si muove con maestria tra diversi generi letterari, rifacendosi alla tradizione e al contempo aprendo spazi al nuovo. Come si è detto, il poema eroico di Tasso fonde in sé il poema cavalleresco, rinascimentale e quello epico, ispirato ai modelli dell’antichità, ma dà spesso spazio a momenti lirici negli episodi patetici e amorosi (ed è un’assoluta novità che schiuderà la strada al melodramma) e a episodi riconducibili al genere tragico: l’uccisione di Clorinda da parte di Tancredi è infatti (come osserva il critico Raimondi) una vera e propria tragedia incastonata nel poema, che si rifà al modello codificato dalla Poetica di Aristotele, fondandosi, come l’Edipo re di Sofocle, sull’agnizione, il tardivo riconoscimento della colpa. Uno stile duttile e ricco di sfumature Seguendo il principio classicistico della congruenza dello stile all’argomento, Tasso adotta per le scene epiche ed “eroiche” uno stile elevato e “magnifico”, ricco di figure retoriche – specie similitudini, metafore, antitesi, chiasmi, iperboli – ulteriormente evidenziato da uno studiato rallentamento del discorso (in contrasto con il dinamismo dell’ottava ariostesca). L’effetto di rallentamento è prodotto soprattutto da quello che il poeta definisce «parlar disgiunto»: una disposizione degli elementi del discorso diversa da quella abituale, con inversioni e spezzature di coppie sintagmatiche (come quella fra nome e aggettivo), che innalza lo stile nelle parti epiche ma è anche impiegato per intensificare gli effetti emotivi in quelle liriche e sentimentali. Si può citare ad esempio il momento in cui Erminia, fuggita da Gerusalemme per raggiungere l’amato Tancredi, giunge alla vista del campo cristiano: il verso «O belle a gli occhi miei tende latine!», con la disposizione inusuale delle parole e la separazione del sostantivo tende dal suo aggettivo belle, rende il lettore partecipe della visione soggettiva di Erminia, animata dall’emozione e dalla speranza, che poi si rivelerà vana, di rivedere l’amato (➜ T7 OL).

988 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


Presunto ritratto di Tasso in un dipinto della scuola emiliana, 1590 ca. (Firenze, Galleria Palatina).

online

Per approfondire La Gerusalemme liberata nel tempo

Lessico dell’epos e lessico dell’interiorità In generale il lessico del poema è selezionato all’interno di un registro elevato, con termini raffinati, forme dotte e rare, di latinismi e di preziosismi. In rapporto poi alle diverse situazioni rappresentate, si alternano differenti modalità stilistiche, da quella epica, sostenuta e vibrante, delle scene di guerra, a quella lirica, ricca di sfumature e in grado di rendere le emozioni più profonde. Alle due modalità stilistiche corrispondono differenti scelte lessicali. Al versante epico si possono ricondurre i termini tecnici riferiti alla guerra e alla cavalleria, e gli aggettivi, frequenti nel poema, che suggeriscono idee di magnificenza, altezza. A tali campi semantici (cui si aggiungono quelli della violenza e dell’orrore), si associano figure retoriche come la similitudine e l’iperbole. Il versante lirico dell’ispirazione tassiana si traduce invece in un lessico “interiore”, costituito di termini, soprattutto aggettivi, riferiti ai sentimenti, con una predilezione per quelli che suggeriscono il senso dell’indefinito, come ignoto, infinito, antico, innumerabili, e quelli che alludono alla solitudine, quali ermo, solitario, solingo, deserto. Un lessico capace di suscitare una profonda risonanza intima e tale da affascinare oltre due secoli dopo Leopardi, il quale lo ha attentamente studiato e ripreso nei suoi Idilli: anche per questo aspetto, dunque, Tasso si proietta al di là del suo tempo, anticipando la sensibilità romantica. La metrica: l’enjambement come costante stilistica L’ordito stilistico del poema tassiano, a differenza di quello ariostesco che tende a separare con nettezza i versi, è cadenzato da frequenti enjambement, che ne variano il ritmo e, separando i vocaboli alla fine del verso dai legami grammaticali più stretti e usuali, ne liberano le potenzialità connotative. L’abbondanza degli enjambement è una costante nel poema, ma gli effetti stilistici sono improntati alla varietà che caratterizza la Gerusalemme liberata.

La Gerusalemme liberata GENERE E STRUTTURA

poema eroico in ottave, suddiviso in venti canti

ARGOMENTO

la prima crociata (1096-1099): eventi storici e “maraviglioso cristiano”

TEMI

• la guerra eroica e tragica fra cristiani e saraceni per la riconquista della Terra Santa • l’amore, specie fra guerrieri nei campi nemici • aspetti del mondo e dell’immaginario cristiano rielaborati in senso controriformistico • “maraviglioso cristiano” e magia

OPPOSTE SPINTE CONFLITTUALI

• osservanza delle forme religiose controriformiste e ossequio ai doveri cristiani • richiamo ai valori dell’edonismo rinascimentale e cedimento alla trasgressione (con sensi di colpa)

La Gerusalemme liberata 3 989


Quando l’enjambement ricorre nelle parti epiche, esso tende ad accrescere la grandiosità delle immagini, associandosi a un discorso ampio e solenne che travalica la misura dei versi, spesso articolandosi in tutto lo spazio dell’ottava, mentre negli episodi lirici e sentimentali lo stacco di fine verso, frequentemente interposto tra aggettivo e sostantivo, frammentando il discorso, «viene come a sollevare in primo piano il sentimento che è al di sotto delle parole» (Fubini) enfatizzando i momenti di eccezionale intensità emotiva: si può citare ad esempio il momento in cui Tancredi, vedendo per la prima volta Clorinda, all’istante se ne invaghisce (I, 47, 5-6):

Egli mirolla, ed ammirò la bella sembianza, e d’essa si compiacque, e n’arse. L’enjambement dopo l’aggettivo bella crea una pausa che fa percepire al lettore la forte risonanza emotiva che l’apparizione di Clorinda produce in Tancredi. Lo stile del manierismo Lo stile della Liberata, che riesce a penetrare «in pieghe della coscienza prima poco sondate o taciute» (Fedi), diviene così «duttile strumento di nuove inquietudini, di nuove introspezioni psicologiche», riflettendo l’animo inquieto del poeta ma anche i tormenti del suo tempo, ormai lontano dai caratteri rinascimentali di equilibrio, razionalità, armonia.

L’Orlando furioso e la Gerusalemme liberata ORLANDO FURIOSO

GERUSALEMME LIBERATA

AUTORE

Ludovico Ariosto

Torquato Tasso

GENERE

poema cavalleresco

poema epico-eroico

METRICA

ottave di endecasillabi con schema metrico ABABABCC

ottave di endecasillabi con schema metrico ABABABCC

STRUTTURA

quarantasei canti

venti canti in cinque parti (come la tragedia classica, con i suoi cinque atti)

EDIZIONI

1516 (quaranta canti); 1521 (quaranta canti); 1532 (quarantasei canti)

• prima versione conclusa nel 1575 • prima edizione (incompleta e non autorizzata dall’autore) nel 1580 • altre edizioni (riviste da terzi o in parte da Tasso e non autorizzate dall’autore) nel periodo 1581-1583 • ultima versione (Gerusalemme conquistata, rivista e approvata dall’autore) nel 1593

AMBIENTAZIONE

Europa, VIII secolo

Medio Oriente, prima crociata (1099)

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Torquato Tasso

T4

Il proemio del poema Gerusalemme liberata I, 1-5

T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983

AUDIOLETTURA

Come prevede il genere epico, il proemio della Gerusalemme liberata è suddiviso in proposizione (esposizione dell’argomento), invocazione e dedica. In poche ottave, l’autore delinea i temi fondamentali del poema, il conflitto drammatico che lo contraddistingue ed espone gli elementi fondamentali della propria poetica. Già in queste prime ottave emerge una profonda differenza con il rinascimentale Orlando furioso.

1 Canto l’arme pietose1 e ’l capitano2 che ’l gran3 sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co ’l senno e con la mano4, molto5 soffrì6 nel glorioso acquisto7; e in van l’Inferno vi s’oppose8, e in vano s’armò d’Asia e di Libia il popol misto9. Il Ciel gli diè favore10, e sotto a i santi segni11 ridusse12 i suoi compagni erranti13. 2 O Musa14, tu che di caduchi allori15 non circondi la fronte in Elicona16, ma su nel cielo infra i beati cori17 hai di stelle immortali aurea corona18, tu spira al petto mio celesti ardori19, tu rischiara20 il mio canto, e tu perdona s’intesso fregi al ver21, s’adorno in parte d’altri diletti22, che de’ tuoi, le carte23.

La metrica Ottave con schema delle rime ABABABCC

1

arme pietose: armi usate in difesa della fede cristiana. L’ossimoro arme pietose mette in rilievo il tema della guerra santa. 2 capitano: Goffredo di Buglione. Personaggio storico, duca della Bassa Lorena, fu eletto capo dei Crociati e guidò la conquista di Gerusalemme. 3 gran: è da notare l’aggettivazione del proemio, tendente a sottolineare l’importanza dell’impresa. 4 con la mano: con le azioni (metonimia). 5 molto: l’anafora di molto (vv. 3-4) sottolinea la difficoltà del compito. 6 soffrì: il rilievo dato alla sofferenza di Goffredo evidenzia l’analogia con Enea, altro eroe che agisce più per adempiere alla volontà divina che per desiderio di gloria personale. Anche nell’Eneide si sottolinea la sofferenza di Enea («multa quoque et bello passus», “molto sofferse anche in guerra”: I, 5). 7 glorioso acquisto: la conquista di Ge-

rusalemme. L’aggettivo glorioso assume risalto anche per il suono, rallentato ed evidenziato dalla dieresi vocalica. 8 l’Inferno... oppose: inutilmente i demoni cercarono di ostacolarlo con arti diaboliche. Il conflitto tra Goffredo e gli infedeli coinvolge il Ciel e l’Inferno, ed è presentato come un conflitto cosmico tra bene e male. Emerge già nella prima ottava il «maraviglioso cristiano», l’intervento di forze soprannaturali. 9 s’armò... misto: si unirono nella guerra i popoli musulmani dell’Asia e dell’Africa. 10 Il Ciel... favore: la vittoria dei Crociati è attribuita alla Grazia divina, più che all’azione umana. 11 santi segni: le sacre insegne dei Crociati. L’espressione è sottolineata dal forte enjambement. Prima di conquistare Gerusalemme, i Crociati, guidati da Goffredo, devono ritrovare la purezza della fede e la compattezza dell’esercito. 12 ridusse: ricondusse. 13 erranti: parola chiave del poema; mette in luce come i Crociati, in contrasto con

Goffredo di Buglione, l’unico tutto rivolto al compito religioso di riconquistare Gerusalemme, fossero sviati da molteplici passioni terrene. La parola “errante” assume nel poema una duplice connotazione: spaziale, legata all’errare fisico dei cavalieri che si erano allontanati dal campo cristiano, e morale, a indicare il peccato. 14 O Musa: la seconda ottava è dedicata all’invocazione alla musa, ispiratrice di una poesia di argomento religioso. Tale musa cristiana viene generalmente identificata con Urania, musa dell’astronomia e della poesia epico-religiosa, anche se altri ritengono che il riferimento sia alla Vergine Maria. Nell’ottava ricorrono termini (su, cielo, immortali, celesti, rischiara) che evocano un’atmosfera celeste, elevata e luminosa. 15 caduchi allori: caduchi perché destinati a cadere, effimeri; allori è metonimia per indicare la gloria terrena. Si riferisce a una poesia non religiosamente ispirata. 16 in Elicona: l’Elicona è un monte della Beozia, sacro alle muse. 17 infra i beati cori: tra i cori dei beati. 18 hai... corona: hai una corona d’oro di stelle immortali. La poesia religiosa è contrapposta ai caduchi allori, alla gloria effimera di una poesia non cristianamente ispirata. 19 spira al petto mio celesti ardori: infondi al mio animo un’ispirazione poetica cristiana. 20 rischiara: illumina. 21 tu perdona... ver: perdonami se aggiungo invenzioni fantastiche alla verità storica. Già nel proemio emergono gli scrupoli religiosi del poeta per aver inserito episodi amorosi e romanzeschi in un poema cristiano, come era difficilmente accettabile per i severi dettami culturali della Controriforma. 22 diletti: piaceri. 23 le carte: le pagine del poema.

La Gerusalemme liberata 3 991


3 Sai che là corre il mondo ove più versi di sue dolcezze il lusinghier Parnaso24, e che ’l vero, condito in molli versi, i più schivi allettando ha persuaso25. Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor gli orli del vaso: succhi amari ingannato intanto ei beve, e da l’inganno suo vita riceve26. 4 Tu, magnanimo Alfonso27, il qual ritogli al furor di fortuna28 e guidi in porto me peregrino errante29, e fra gli scogli e fra l’onde agitato e quasi absorto30, queste mie carte in lieta fronte accogli31, che quasi in voto a te sacrate32 i’ porto. Forse un dì fia33 che la presaga penna osi scriver di te quel ch’or n’accenna. 5 È ben ragion, s’egli averrà ch’in pace il buon popol di Cristo unqua si veda34, e con navi e cavalli al fero Trace35 cerchi ritòr36 la grande ingiusta preda37, ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace, l’alto imperio de’ mari a te conceda38. Emulo di Goffredo, i nostri carmi intanto ascolta, e t’apparecchia39 a l’armi. 24 Sai che... Parnaso: Sai che il pubblico accorre più numeroso quando la poesia affascina gli animi con maggiori dolcezze. Il Parnaso, monte consacrato ad Apollo, simboleggia l’ispirazione poetica; Tasso giustifica le invenzioni non strettamente legate alla verità storica, spiegando che il pubblico, attratto dalla bellezza dell’opera, ne accoglierebbe più facilmente il messaggio cristiano.

25 e che ’l vero... persuaso: e che la verità, resa attraente dalla dolcezza dei versi, ha persuaso i più refrattari ad accoglierla. 26 Così... riceve: Così porgiamo al fanciullo malato la tazza con i bordi cosparsi di un liquido dolce: egli ingannato beve l’amara medicina e dall’inganno riceve la vita. La similitudine è ripresa dal De rerum natura (1, 936-942) del poeta latino Lucrezio: per guarire un fanciullo malato, la tazza

che contiene il farmaco viene cosparsa di dolce miele. Si tratta di una dichiarazione di poetica: un’opera moralmente utile deve essere anche piacevole per attrarre un maggior numero di lettori, instradandoli verso un insegnamento salvifico. 27 magnanimo Alfonso: l’ottava contiene la dedica, elemento topico dei poemi epici, rivolta ad Alfonso II d’Este. Il pathos con cui Tasso descrive la propria difficile situazione personale e la protezione accordatagli dal duca, che prega di accogliere favorevolmente il poema, contrasta con il distacco ironico della dedica ariostesca dell’Orlando furioso. 28 ritogli… fortuna: sottrai alla furia della tempesta. 29 errante: me pellegrino errante; l’aggettivo istituisce una significativa connessione tra la situazione morale dei crociati erranti, perché peccatori, e quella dell’autore. 30 absorto: latinismo molto ricercato, significa “inghiottito” ed è riferito alla metafora del mare in tempesta, tradizionale per indicare le difficoltà della vita; il poeta è come un naufrago, guidato a un porto sicuro dalla protezione di Alfonso II. 31 queste mie... accogli: accogli lietamente questi miei versi. 32 sacrate: consacrate (come per un voto religioso). 33 fia: accadrà. 34 s’egli... veda: se avverrà mai (unqua, latinismo) che si vedano i cristiani in pace. 35 al fero Trace: ai turchi crudeli. 36 cerchi ritòr: cerchi di togliere. 37 la grande ingiusta preda: il Santo Sepolcro e la Terra Santa. 38 ch’a te... conceda: nell’ottava viene istituito un collegamento tra la crociata medievale e le guerre del secondo Cinquecento contro i Turchi. Emerge il motivo encomiastico: se la cristianità, finalmente riunita, dovesse intraprendere una nuova crociata, potrebbe affidarne il comando (l’alto imperio), per terra o per mare, al duca estense. 39 t’apparecchia: preparati.

Analisi del testo La prima ottava: una perfetta sintesi del poema Il poema si apre con la proposizione (ott. 1) che preannuncia l’argomento principale del poema, la guerra santa (evidenziato da una sorta di ossimoro: arme pietose) e ne presenta il protagonista, Goffredo di Buglione, il capitano. La figura di Goffredo è modellata sul virgiliano Enea, come è messo in luce da precisi rimandi testuali: il primo verso ricalca l’inizio dell’Eneide, «Arma virumque cano» (“Canto le armi e l’eroe”); pietose sviluppa la qualifica di pius attribuita da Virgilio a Enea; anche molto soffrì (v. 4) richiama il poema virgiliano (cfr. nota 6). Le affinità tra l’eroe di Virgilio e Goffredo di Buglione mostrano come Tasso, diversamente dall’Ariosto, abbia voluto rifarsi a un modello letterario “alto”, a un classico come l’Eneide. Il carattere eroico del poema è rimarcato da espressioni che evidenziano la grandiosità dell’impresa e il ruolo primario di Goffredo: «gran sepolcro», «Molto egli oprò», «molto soffrì»,

992 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


«glorioso acquisto». In relazione a Goffredo, sempre nella prima ottava, ai vv. 7-8 è delineato il sistema dei personaggi: al capitano si contrappongono i compagni, definiti erranti perché tentati dal peccato e sviati da falsi valori. L’ottava mette in luce un altro elemento fondamentale: come appare al v. 5, la lotta è considerata non soltanto nella prospettiva storica di una guerra fra cristiani e musulmani, ma anche in quella metafisica, come uno scontro tra bene e male, Cielo e Inferno, in cui intervengono forze soprannaturali. È così preannunciato il «maraviglioso cristiano» del poema. In questa prima ottava, come evidenzia il critico Sergio Zatti, Tasso fa dunque emergere il triplice conflitto che caratterizzerà la Gerusalemme liberata: – crociati contro musulmani; – Cielo contro Inferno; – Goffredo contro compagni erranti.

L’invocazione alla musa cristiana e la poetica Nelle ott. 2-3 si colloca l’invocazione alla musa, canonica nei poemi epici, accompagnata da una precisa dichiarazione di poetica. A evidenziare l’ispirazione religiosa dell’opera, Tasso invoca infatti il sostegno di una musa celeste, ma fa anche trasparire la preoccupazione (tu perdona) per aver intessuto fregi al ver, cioè introdotto episodi d’invenzione, ricchi di situazioni fantastiche e immaginose, per rendere più affascinante il proprio scritto. A giustificare tale libertà, l’autore osserva che l’utilità morale, fine del suo poema, deve coniugarsi alla piacevolezza, per attrarre il lettore verso gli insegnamenti salvifici. Tale messaggio è reso attraverso una similitudine ripresa dal De rerum natura di Lucrezio, in cui il lettore è paragonato a un fanciullo malato, che guarisce grazie ai succhi amari delle medicine, sorbiti in una tazza cosparsa di liquido dolce, per invogliarlo ad assumere la bevanda salutare.

La dedica e l’autorappresentazione del poeta Anche la dedica evidenzia la distanza tra il poema tassiano e quello ariostesco. Alla distaccata ironia dell’Ariosto nella dedica del Furioso si contrappone l’orgogliosa celebrazione tassiana (ott. 4-5) del ruolo eccelso della poesia, ispiratrice di nobili imprese, come un’auspicata nuova crociata contro i turchi, che il poeta immagina capeggiata dal suo signore Alfonso II. All’altissimo valore assegnato all’opera si contrappone però l’umana debolezza confessata dal poeta, che prega il signore di proteggerlo nelle angoscianti traversie della vita, rappresentata come un mare in tempesta, in cui egli annegherebbe senza l’intervento del potente protettore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi in 3 righe il contenuto del Proemio, suddividendo il tuo testo in tre sequenze (relative ai tre temi principali) e dando a ognuna un titolo. COMPRENSIONE 2. Individua e spiega i versi relativi alla proposizione dell’argomento e all’invocazione alla Musa. 3. In cosa consiste la terza parte del Proemio, relativa alla dedica? ANALISI 4. Dove, nel testo, compare la parola erranti? Quali significati assume? 5. Dopo aver analizzato la seconda ottava, e in particolare la similitudine presente nella terza ottava, spiega i caratteri della poetica del «maraviglioso cristiano». STILE 6. Già nel Proemio si evidenzia l’elevato livello stilistico del poema. Indica in proposito: a. i periodi in cui si evidenzia una disposizione latineggiante delle parole; b. le figure retoriche; c. gli enjambements più notevoli, indicandone l’effetto; d. le scelte lessicali proprie di un registro elevato; e. gli aggettivi che sottolineano la grandiosità dell’impresa.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. Quale nuovo significato, derivato dalla cultura della Controriforma, assume l’aggettivo pietose riferito alle armi? In che senso si può stabilire un collegamento con la pietas, virtù peculiare di Enea, l’eroe virgiliano?

La Gerusalemme liberata 3 993


8. A differenza del poema ariostesco, nel proemio tassiano non si accenna agli amori. Ti sembra che siano comunque presenti allusioni a tale tematica? 9. Confronta il Proemio della Gerusalemme liberata con quello dell’Orlando furioso, analizzando gli elementi indicati: argomento principale; fatti narrati e periodo storico; temi; personaggi; rapporto con il signore dedicatario dell’opera; registro linguistico e stile. 10. Metti a confronto il Proemio della Gerusalemme liberata, quello dell’Orlando furioso e l’incipit dell’Eneide di Virgilio, analizzando in particolare i seguenti aspetti: a. aderenza tematica e stilistica al modello latino; b. analogie e differenze tra due eroi: Enea e il capitano Goffredo; c. Roma e Gerusalemme: centri della cristianità. Alla luce dell’analisi svolta, individua chi tra Ariosto e Tasso sembra essere più vicino al modello latino e spiegane le ragioni in una breve trattazione (max 15 righe). COMPETENZA DIGITALE – SCRITTURA ARGOMENTATIVA 11. Svolgi in Internet una ricerca sul tema del rapporto fra intellettuali e potere nella storia della letteratura. Dopo esserti documentato, sviluppa un testo argomentativo chiedendoti se gli spunti di riflessione che il testo tassiano propone sono attuali.

online T5 Torquato Tasso

Un poema d’amore o di guerra? I Crociati alle porte di Gerusalemme Gerusalemme liberata III, 1-13; 16-23

online

online T7 Torquato Tasso

La fuga di Erminia innamorata di Tancredi Gerusalemme liberata VI, 54-67; 90-93; 102-106; 109-110

online

Collabora all’analisi

Sguardo sulla letteratura straniera

T6 Torquato Tasso

Il concilio infernale e il piano di guerra di Satana Gerusalemme liberata IV, 1-4; 8-18

Echi di Tasso in John Milton

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da: Franco Cardini, Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Jouvence, Roma 1993

Miti e mistificazioni [...]: l’accostamento dei due sostantivi potrebbe suonare come generico, e al tempo stesso apparir sottintendere un troppo duro e sbrigativo giudizio. Rimane il fatto che – al di là del valore proprio del termine “mito” come narrazione di eventi accaduti in età cosmogonica1 quale ce lo indicano in modo convincente taluni antropologi e storici delle religioni – quanto nella crociata c’interessa oggi è appunto la diversificazione da essa subita nel tempo e nelle varie forze che se ne sono fatte portatrici, nonché l’attività “mitopoietica”2 nel senso che il termine “mito” ha assunto nel linguaggio comune, attività in funzione propagandistica e quindi mistificante, svolta da tali forze. 1 2

cosmogonica: riferita all’origine e formazione dell’universo. “mitopoietica”: l’attività di creazione dei miti.

Nel passo relativo alla crociata, lo storico Franco Cardini parla di “miti” e di “mistificazioni”, alludendo alla trasfigurazione che un evento storico di così grande portata ha subìto nel corso del tempo e nelle varie temperie storico-culturali, diventando simbolo ed espressione di valori e ideologie diverse, fino a essere utilizzato in funzione propagandistica. Ti sembra che un processo analogo abbia interessato eventi storici attuali o comunque recenti? Che cosa, a tuo avviso, concorre a determinare l’assunzione di un evento storico a “mito”? E in che senso, in questo caso, si può parlare di “mistificazione”? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

994 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


Torquato Tasso

T8

EDUCAZIONE CIVICA

La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6

Gerusalemme liberata, VII, 1-22 T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983

Dopo aver assistito al duello fra Tancredi e Argante dalle mura di Gerusalemme, la principessa Erminia (segretamente e infelicemente innamorata del guerriero cristiano) esce dalla città con indosso l’armatura di Clorinda, nel tentativo di recarsi al campo crociato per curare il suo amato; tuttavia viene avvistata dalle sentinelle e messa in fuga, mentre Tancredi la insegue credendo che si tratti della donna da lui amata. Dopo un allontanamento precipitoso, che ricorda in parte quello di Angelica in apertura del Furioso, Erminia capita in un villaggio abitato da pastori che vivono lontani dalla guerra in uno spazio idilliaco, dove chiede e ottiene di essere ospitata per qualche tempo nella speranza (vana) di dimenticare il proprio amore infelice.

1 Intanto Erminia infra l’ombrose piante d’antica selva1 dal cavallo è scòrta2, né piú governa il fren3 la man tremante, e mezza quasi par tra viva e morta. Per tante strade si raggira4 e tante il corridor5 ch’in sua balia6 la porta, ch’al fin da gli occhi altrui7 pur si dilegua8, ed è soverchio9 omai ch’altri la segua.

3 Fuggí tutta la notte, e tutto il giorno errò senza consiglio e senza guida, non udendo o vedendo altro d’intorno, che le lagrime sue, che le sue strida. Ma ne l’ora che ‘l sol dal carro adorno scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida16, giunse del bel Giordano17 a le chiare acque e scese in riva al fiume, e qui si giacque.

2 Qual dopo lunga e faticosa caccia tornansi10 mesti ed anelanti i cani che la fèra11 perduta abbian di traccia, nascosa in selva da gli aperti piani12, tal pieni d’ira e di vergogna in faccia13 riedono14 stanchi i cavalier cristiani. Ella pur fugge15, e timida e smarrita non si volge a mirar s’anco è seguita.

4 Cibo non prende già, ché de’ suoi mali solo si pasce18 e sol di pianto ha sete; ma ‘l sonno, che de’ miseri mortali è co ‘l suo dolce oblio posa e quiete, sopí19 co’ sensi20 i suoi dolori21, e l’ali22 dispiegò sovra lei placide e chete; né però cessa Amor con varie forme la sua pace turbar mentre ella dorme.

La metrica Ottave con schema delle rime ABABABCC

1 2 3 4 5 6 7

antica selva: bosco antico. scòrta: condotta. il fren: le briglie. si raggira: vagabonda. corridor: in corsa. in sua balia: in suo potere. da gli occhi altrui: dalla vista degli inseguitori. 8 si dilegua: sparisce. 9 soverchio: inutile.

10 tornansi: fanno ritorno. 11 fèra: animale feroce, preda. 12 aperti piani: pianura aperta. 13 tal pieni... in faccia: con espressioni cariche di rabbia e di mortificazione.

14 riedono: ritornano. 15 pur fugge: nonostante tutto, continua a scappare.

16 Ma ne... s’annida: Ma nell’ora in cui il sole scioglie i cavalli dal suo carro dorato e si tuffa nel mare (lunga perifrasi per indicare il tramonto). 17 Giordano: fiume dell’Asia occidentale

– che bagna Israele, Libano, Cisgiordania, Siria e Giordania – dove fu battezzato Gesù; per gli ebrei è il luogo da cui il successore di Mosè, cioè Giosuè, portò il popolo ebraico nella Terra Promessa. 18 si pasce: si nutre. 19 sopí: placò, acquietò. 20 co’ sensi: insieme al corpo (sensi). 21 i suoi dolori: le sofferenze del cuore. 22 l’ali: il Sonno, ovvero Hypnos, che nella mitologia classica viene raffigurato più giovane di Thanatos (Morte) e dotato di ali sulle spalle.

La Gerusalemme liberata 3 995


5 Non si destò fin che garrir23 gli augelli non sentí lieti e salutar gli albori, e mormorar il fiume e gli arboscelli, e con l’onda scherzar l’aura24 e co i fiori. Apre i languidi lumi25 e guarda quelli alberghi solitari de’ pastori, e parle voce udir tra l’acqua e i rami26 ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.

8 Soggiunse poscia: «O padre39, or che d’intorno d’alto incendio di guerra arde il paese, come qui state in placido soggiorno senza temer le militari offese?40» «Figlio,» ei rispose «d’ogni oltraggio e scorno41 la mia famiglia e la mia greggia illese sempre qui fur, né strepito di Marte42 ancor turbò questa remota parte.

6 Ma son, mentr’ella piange, i suoi lamenti rotti da un chiaro suon ch’a lei ne viene, che sembra ed è di pastorali accenti27 misto e di boscareccie inculte avene28. Risorge, e là s’indrizza29 a passi lenti, e vede un uom canuto a l’ombre amene tesser fiscelle a la sua greggia a canto30 ed ascoltar di tre fanciulli il canto.

9 O sia grazia del Ciel che l’umiltade d’innocente pastor salvi e sublime, o che, sí come il folgore43 non cade in basso pian ma su l’eccelse cime44, cosí il furor di peregrine spade45 sol de’ gran re l’altere teste opprime46, né gli avidi soldati a preda alletta47 la nostra povertà vile e negletta48.

7 Vedendo quivi comparir repente31 l’insolite32 arme, sbigottír33 costoro; ma li saluta Erminia e dolcemente gli affida34, e gli occhi scopre e i bei crin d’oro35: «Seguite,»36 dice «aventurosa gente al Ciel diletta, il bel vostro lavoro, ché non portano già guerra quest’armi a l’opre vostre37, a i vostri dolci carmi.»38

10 Altrui vile e negletta, a me sí cara che non bramo tesor né regal verga49, né cura50 o voglia ambiziosa o avara51 mai nel tranquillo del mio petto alberga52. Spengo la sete mia ne l’acqua chiara, che non tem’io che di venen53 s’asperga54, e questa greggia e l’orticel dispensa cibi non compri a la mia parca mensa.

23 garrir: cinguettare. 24 l’aura: il vento. 25 lumi: occhi. 26 parle voce udir tra l’acqua e i rami: le sembra che abbiano una voce lo scrosciare delle onde del fiume e il fruscio delle fronde. 27 pastorali accenti: canti di pastori. 28 boscareccie inculte avene: semplici zampogne. 29 s’indrizza: si dirige. 30 tesser fiscelle a la sua greggia a canto: vede intrecciare ceste di vimini accanto al gregge. 31 repente: d’un tratto. 32 insolite: rare a vedersi.

33 sbigottír: sgomenti. 34 gli affida: li tranquillizza. 35 bei crin d’oro: bei capelli biondi. 36 Seguite: Continuate. 37 opre vostre: i vostri lavori. 38 vostri dolci carmi: vostri canti armoniosi.

39 O padre: O pastore anziano. 40 or che d’intorno… militari offese?: mentre intorno a voi arde l’incendio della guerra, come potete voi vivere in così quieto soggiorno senza temere i pericoli della guerra? 41 scorno: pericolo. 42 strepito di Marte: il rumore della battaglia. Marte è il dio della guerra.

996 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso

43 folgore: fulmine. 44 eccelse cime: le vette più alte. 45 peregrine spade: armi degli stranieri. 46 opprime: colpisce. 47 alletta: invita. 48 vile e negletta: semplice e modesta. 49 regal verga: scettro regale. 50 cura: preoccupazione. 51 voglia ambiziosa o avara: desiderio di onori o danaro.

52 nel tranquillo del mio petto alberga: vive nella tranquillità del mio animo. 53 venen: veleno. 54 s’asperga: si contamina.


11 Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro bisogno onde la vita si conservi55. Son figli miei questi ch’addito e mostro, custodi de la mandra, e non ho servi. Cosí me ‘n vivo in solitario chiostro56, saltar veggendo i capri snelli e i cervi, ed i pesci guizzar di questo fiume e spiegar57 gli augelletti al ciel le piume.

14 Mentre ei cosí ragiona70, Erminia pende da la soave bocca intenta71 e cheta; e quel saggio parlar, ch’al cor le scende, de’ sensi in parte le procelle acqueta. Dopo molto pensar, consiglio prende72 in quella solitudine secreta insino a tanto almen farne soggiorno73 ch’agevoli fortuna il suo ritorno.

12 Tempo già fu, quando piú l’uom vaneggia ne l’età prima58, ch’ebbi altro desio e disdegnai di pasturar la greggia; e fuggii dal paese a me natio, e vissi in Menfi59 un tempo, e ne la reggia fra i ministri60 del re fui posto anch’io, e benché fossi guardian de gli orti61 vidi e conobbi pur l’inique corti62.

15 Onde al buon vecchio dice: «O fortunato, ch’un tempo conoscesti il male a prova74, se non t’invidii75 il Ciel sí dolce stato, de le miserie mie pietà ti mova; e me teco raccogli in cosí grato albergo ch’abitar teco mi giova76. Forse fia77 che ‘l mio core infra quest’ombre del suo peso mortal parte disgombre78.

13 Pur lusingato da speranza ardita soffrii lunga stagion63 ciò che piú spiace64; ma poi ch’insieme con l’età fiorita65 mancò la speme66 e la baldanza audace, piansi i riposi di quest’umil vita67 e sospirai la mia perduta pace, e dissi; `O corte, a Dio.’68 Cosí, a gli amici boschi tornando, ho tratto69 i dí felici.»

16 Ché se di gemme e d’or, che ‘l vulgo adora sí come idoli suoi, tu fossi vago79, potresti ben, tante n’ho meco ancora, renderne il tuo desio contento e pago.» Quinci, versando da’ begli occhi fora umor di doglia80 cristallino e vago, parte narrò di sue fortune81, e intanto il pietoso pastor pianse al suo pianto.

55 poco... si conservi: molto poco necessario a noi per sopravvivere. 56 chiostro: luogo appartato. 57 spiegar: aprire. 58 quando... prima: quando l’uomo, in età giovanile, insegue vane illusioni. 59 Menfi: città dell’Egitto; anticamente era la capitale. 60 ministri: servi. 61 orti: giardini. 62 inique corti: ambienti cortigiani: qui l’autore, attraverso la voce del padre pasto-

re, esprime la sua critica alla vita nelle corti. 63 lunga stagion: per molto tempo. 64 ciò che piú spiace: continue umiliazioni. 65 età fiorita: la giovinezza. 66 speme: speranza. 67 piansi i riposi di quest’umil vita: rimpiansi la pace di questa vita umile. 68 a Dio: addio. 69 tratto: vissuto. 70 ragiona: parla. 71 intenta: rapita, attratta.

72 consiglio prende: decide. 73 farne soggiorno: di rimanere in quel luogo.

74 a prova: per esperienza personale. 75 non t’invidii: non privarti. 76 mi giova: mi piace. 77 fia: avverrà. 78 disgombre: si liberi. 79 vago: desideroso. 80 umor di doglia: pianto di dolore. 81 fortune: eventi avversi.

La Gerusalemme liberata 3 997


17 Poi dolce la consola e sí l’accoglie come tutt’arda di paterno zelo82, e la conduce ov’è l’antica moglie che di conforme cor gli ha data il Cielo. La fanciulla regal di rozze spoglie83 s’ammanta84, e cinge al crin ruvido velo; ma nel moto de gli occhi e de le membra non già di boschi abitatrice sembra.

20 Indi dicea piangendo: «In voi serbate questa dolente istoria, amiche piante; perché se fia ch’a le vostr’ombre grate92 giamai soggiorni alcun fedele amante, senta svegliarsi al cor dolce pietate de le sventure mie sí varie e tante, e dica: ‘Ah troppo ingiusta empia mercede diè Fortuna ed Amore a sí gran fede!’93

18 Non copre abito vil la nobil luce85 e quanto è in lei d’altero e di gentile, e fuor la maestà regia traluce per gli atti ancor de l’essercizio umile. Guida la greggia a i paschi e la riduce86 con la povera verga al chiuso ovile, e da l’irsute mamme87 il latte preme e ‘n giro accolto poi lo strige insieme88.

21 Forse averrà, se ‘l Ciel benigno ascolta affettuoso alcun prego mortale, che venga in queste selve anco tal volta quegli a cui di me forse or nulla cale; e rivolgendo gli occhi ove sepolta giacerà questa spoglia94 inferma e frale, tardo premio conceda a i miei martíri95 di poche lagrimette e di sospiri;

19 Sovente, allor che su gli estivi ardori giacean le pecorelle a l’ombra assise, ne la scorza de’ faggi e de gli allori segnò l’amato nome89 in mille guise, e de’ suoi strani ed infelici amori gli aspri successi90 in mille piante incise, e in rileggendo poi le proprie note91 rigò di belle lagrime le gote.

22 onde se in vita il cor misero fue, sia lo spirito in morte almen felice, e ‘l cener freddo de le fiamme sue96 goda quel ch’or godere a me non lice.97» Cosí ragiona a i sordi tronchi, e due fonti di pianto da’ begli occhi elice98. Tancredi intanto, ove fortuna il tira lunge da lei, per lei seguir99, s’aggira.

82 come... zelo: allo stesso modo di come un padre arde di paterna compassione. 83 rozze spoglie: vestiti semplici. 84 s’ammanta: indossa. 85 Non... luce: L’abito semplice e contadino non è sufficiente a nascondere lo splendore delle nobili origini. 86 riduce: riconduce. 87 irsute mamme: mammelle pelose delle pecore.

88 e ‘n giro accolto poi lo strige insieme: comprime in forme rotonde (‘n giro accolto); operazione per fare il formaggio. 89 amato nome: il nome dell’amato Tancredi. 90 aspri successi: dolorosi episodi. 91 note: parole. 92 grate: gradite. 93 Ah troppo ingiusta… gran fede: Ah, una ricompensa troppo ingiusta e crudele,

998 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso

hanno dato la Fortuna e l’Amore per una così grande fedeltà. 94 spoglia: corpo. 95 martíri: dolori. 96 fiamme sue: amore. 97 a me non lice: per me non è possibile godere. 98 elice: fa uscire. 99 per lei seguir: per inseguirla (è convinto che fosse Clorinda).


Analisi del testo Una parentesi idilliaca: il topos del locus amoenus La principessa Erminia, sfinita ed impaurita, durante una fuga precipitosa (durante la quale ha persino perso il controllo del cavallo) giunge in una comunità di pastori, suscitando all’inizio preoccupazione e sgomento; ma poi, dopo aver rassicurato gli umili abitanti sulle sue miti intenzioni, instaura con loro un’armoniosa relazione di pacata conversazione e addirittura di condivisione della quieta vita pastorale. Infatti, dopo che l’anziano patriarca della comunità ha spiegato ad Erminia il senso della loro vita, e cioè il fatto che la guerra non li coinvolge perché è un affare dei potenti (distanti e indifferenti alla modesta ma profonda e arricchente vita dei campi) a quel punto Erminia, principessa d’Antiochia, depone l’armatura, indossa umili vesti e si convince a condurre (purtroppo per breve tempo) quella semplice vita pastorale. Si tratta di una parentesi idilliaca assai significativa; non solo per la caratterizzazione della protagonista (indimenticabile figura elegiaca e suggestiva, emblema di un amore tenero e sofferto, proteso verso un ideale di vita appartata), ma anche perché il luogo ha tutte le caratteristiche del locus amoenus: prati sempreverdi, una brezza leggera che addolcisce la scena, il cinguettio degli uccelli, il fruscio delle fronde degli alberi, il ritmato scrosciare delle acque di ruscelli (ott. 5); un’idea che poi si ripete nella ottava 9, quando il saggio padre della comunità paragona il luogo alle alte cime non colpite dai fulmini, permettendo all’autore di sviluppare una riflessione sulle perfide e spietate dinamiche della guerra e anche della vita di corte. Non a caso, quando Erminia tenterà di integrarsi nella vita dei pastori, non riuscirà tuttavia a nascondere le sue origini nobili (ott. 18), che traspaiono dagli atteggiamenti anche sotto i rozzi panni che indossa mentre porta le bestie al pascolo e munge le capre. È qui che Tasso esprime la propria polemica, che aveva già manifestato attraverso la voce del padre pastore, contro la vita delle corti (ott. 12 e 13), in cui la principessa, e lui stesso, sono imprigionati, impossibilitati a condurre l’esperienza libera nella comunità agreste.

Riferimenti letterari e scarto tassiano Questa situazione elegiaca è peraltro intrisa di riferimenti letterari, i cui modelli principali sono le Georgiche e Bucoliche di Virgilio (in particolare Georgiche II, vv. 458 sgg.), nelle quali si celebra la vita rurale come prosecuzione della primitiva età dell’oro; tema che Tasso aveva già toccato nel coro dell’Aminta, O bella età de l’oro (➜ T3 ). Vi sono poi riferimenti letterari alla tradizione poetica precedente al Tasso, umanistica e rinascimentale, da Petrarca ad Ariosto. La fuga disperata di Erminia, che non governa i fren e si lascia trasportare dal cavallo in un disordinato vagabondare, richiama l’errare di Angelica all’inizio dell’Orlando furioso. Tuttavia Tasso realizza un forte scarto rispetto al precedente ariostesco, perché l’eroina del Furioso, Angelica, denota una personalità determinata, astuta, scaltra, ben diversa dalla tenera ingenuità e dalla trepida debolezza di Erminia (che fugge dai nemici, mentre Angelica fugge da coloro che sono invaghiti di lei). Inoltre anche dal punto di vista strutturale le due fughe hanno una funzione ben diversa: la fuga di Angelica è strumentale, nel corso di tutto il poema di Ariosto, a tenere vivo l’intreccio, in un dinamico e concitato ritmo narrativo; al contrario, la fuga di Erminia, che apre la parentesi nel locus amoenus dei pastori, crea una sospensione dell’intreccio e insinua una nota patetica e sentimentale nella vicenda (riflesso dell’anima tassiana), che è del tutto assente nel gioco dell’ironia, del dinamismo, della rapidità dell’Orlando furioso. Nell’ambito di citazioni e rimandi letterari, possiamo osservare che le incisioni che Erminia lascia sulla corteccia degli alberi, in cui rammenta il suo amato Tancredi, in un lacerato amore non corrisposto, richiamino il passo del Furioso in cui Orlando legge i nomi di Angelica e Medoro sugli alberi, e da qui inizia a impazzire (➜ C14 T14 ). Un’altra citazione ariostesca si può riconoscere nel passaggio in cui Erminia si rivolge alle piante pregandole di offrire riparo ai viandanti e di raccontare la sua storia, che richiama alla memoria i versi incisi da Medoro all’ingresso della grotta. Infine si possono rinvenire imitazioni dal Canzoniere di Petrarca (➜ C7 T11b OL), quando Erminia si augura di essere sepolta dopo la morte in quel luogo e che Tancredi, attraversando quei luoghi, possa piangere sulla sua tomba.

La Gerusalemme liberata 3 999


Esercitare le competenze comprendere e analizzare

sIntesI 1. Riassumi in 5 righe il contenuto della conversazione che avviene fra Erminia e l’anziano padre (uom canuto) della comunità di pastori, suddividendo il tuo testo in tre sequenze e dando ad ognuna un titolo. coMPRensIone 2. Quale reazione suscita, all’inizio, Erminia ai pastori? Perché? 3. Che cosa risponde Erminia ai pastori dopo la loro prima reazione? 4. Di cosa si stupisce Erminia di fronte alla comunità agreste? AnAlIsI 5. Nella ottava 9 è presente una similitudine: «sí come il folgore non cade». A cosa si riferisce il poeta? In cosa consiste tale similitudine? 6. L’isolamento nella comunità di pastori è sufficiente a Erminia per dimenticare le sue pene d’amore? lessIco 7. Con quali aggettivi e sostantivi viene descritto il luogo in cui si viene a trovare Erminia? 8. Quale immagine emerge del potere politico e militare dalle parole del pastore?

Interpretare

testI A conFRonto 9. Il tema della vita appartata e semplice, all’insegna del rapporto con la natura e del valore delle cose essenziali, che danno stabilità e serenità all’uomo, è un tema che troviamo anche nel coro dell’atto primo dell’Aminta. Metti a confronto i due testi, individuando e commentando analogie e differenze. scRIttuRA ARGoMentAtIVA 10. Svolgi una ricerca sul tema del progresso e delle forme di sviluppo alternativo, nel rispetto all’ambiente. Dopo esserti documentato, sviluppa un testo argomentativo che dimostri la necessità di cambiare abitudini per salvaguardare il mondo nel quale viviamo.

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5, 6

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

scRIttuRA 11. Nel brano, Tasso celebra la qualità di una vita legata al rapporto con la natura, quieta e lenta, lontana dal frastuono della guerra. Oggi viviamo in un mondo rumoroso, sempre più frenetico, all’interno del quale spesso si sono complicate le relazioni umane. Ritieni che il testo tassiano possa offrire, in tal senso, spunti di riflessione per le scelte di un giovane d’oggi? Secondo te come bisognerebbe vivere? Vivere lentamente, appartato e in solitudine, presenta solo aspetti negativi o ha anche un suo valore?

Guercino, Erminia e il pastore, olio su tela, 1619-1620 (Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery).

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T9

online T9a Torquato Tasso

La storia di Clorinda Nella Gerusalemme liberata Clorinda, donna guerriera dell’esercito musulmano, è un personaggio “dinamico”, che subisce una trasformazione interiore. Audace e valorosa, addirittura “famelica” nella sua ricerca dell’onore, arriverà a ideare e realizzare con il compagno Argante l’impresa più ardita dei saraceni, che procurerà difficoltà quasi insormontabili per i cristiani: bruciare la loro più alta torre d’assedio. Nonostante primeggi per valore nell’esercito musulmano, la guerriera è destinata a morire però cristianamente, battezzata da Tancredi che, senza riconoscerla, l’ha colpita a morte.

Clorinda, coraggiosa donna guerriera Gerusalemme liberata, XII, 1-9, 18-32, 39-41

Torquato Tasso

T9b

Il duello di Tancredi e Clorinda Gerusalemme liberata, XII 52-70

T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983

Clorinda e Argante riescono nella temeraria impresa di distruggere la torre d’assedio cristiana. Mentre stanno rientrando attraverso una delle porte di Gerusalemme, aiutati dai compagni, Clorinda si slancia nuovamente all’esterno per inseguire un guerriero cristiano che l’aveva colpita e resta così chiusa fuori dalle mura. Potrebbe salvarsi soltanto dissimulandosi tra i Crociati ma, per un crudele scherzo del destino, proprio Tancredi ha notato le sue mosse e, pur senza riconoscerla, la insegue, avendo compreso che appartiene all’esercito nemico.

52 Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima degno a cui sua virtù si paragone1. Va girando colei l’alpestre cima2 verso altra porta, ove d’entrar dispone3. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avien che d’armi suone, ch’ella si volge4 e grida: – O tu, che porte5, che corri sì? – Risponde: – E guerra e morte. – 53 – Guerra e morte avrai; – disse – io non rifiuto darlati, se la cerchi –, e ferma attende6. Non vuol Tancredi, che pedon veduto ha il suo nemico, usar cavallo, e scende7. E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto, ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende; e vansi a ritrovar non altrimenti che duo tori gelosi e d’ira ardenti8. La metrica Ottave con schema delle rime ABABABCC

1 a cui... paragone: con cui mettere alla prova il suo valore. Tancredi non riconosce Clorinda a causa dell’armatura mutata ma, vedendo come ha colpito il guerrie-

ro crociato contro cui si era slanciata, ha potuto constatarne il valore; perciò egli sfida a duello quello che crede soltanto un nemico. 2 l’alpestre cima: la cima del colle su cui si trova Gerusalemme. 3 dispone: pensa.

4 Segue... si volge: Egli la rincorre così impetuosamente (a cavallo) che molto prima di raggiungerla lei sente il frastuono delle armi, cosicché si volta. 5 che porte: cosa porti, quali sono le tue intenzioni. 6 darlati... attende: di dartela (la morte) se la cerchi e, fermandosi, lo aspetta. Clorinda è abbastanza lontana da Tancredi e forse potrebbe ancora salvarsi rientrando da un’altra porta, ma l’etica cavalleresca non le consente di fuggire; perciò si ferma e ricambia la sfida. 7 Non vuol Tancredi... scende: Tancredi, che ha visto il suo nemico a piedi, non vuole usare il cavallo e scende. Come nei poemi di Matteo Maria Boiardo e di Ludovico Ariosto, durante il duello emergono i valori cavallereschi dei due combattenti; per non essere avvantaggiato contro un nemico a piedi, Tancredi, lealmente, scende dal cavallo. 8 vansi... ardenti: si scagliano l’uno contro l’altro non diversamente da due tori gelosi e infuriati. La similitudine sottolinea il carattere brutale e all’ultimo sangue del duello ed evidenzia quanto Tancredi sia all’oscuro della vera identità del nemico.

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54 Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno teatro, opre sarian sì memorande. Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti e ne l’oblio fatto sì grande, piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno a le future età lo spieghi e mande. Viva la fama loro; e tra lor gloria splenda del fosco tuo l’alta memoria9. 55 Non schivar, non parar, non ritirarsi voglion costor, né qui destrezza ha parte10. Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi: toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte11. Odi le spade orribilmente12 urtarsi a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte13; sempre è il piè fermo e la man sempre in moto, né scende taglio in van, né punta a vòto. 56 L’onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l’onta rinova; onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s’aggiunge e cagion nova14. D’or in or più si mesce e più ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova: dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi15. 57 Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia, ed altrettante da que’ nodi tenaci ella si scinge, nodi di fer nemico e non d’amante16. Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge con molte piaghe; e stanco ed anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira17. 9 Notte... memoria: Notte, che hai avvolto nelle tue oscure profondità e nella dimenticanza una così grande impresa, accetta che io la tragga fuori (dall’oscurità) e la narri in piena luce alle età future. Rimanga viva la loro fama e tra i motivi della loro gloria risplenda il ricordo dello sfondo oscuro in cui avvennero le loro imprese. Nell’ottava l’azione è sospesa, lasciando spazio all’intervento diretto del narratore, che, con un’apostrofe, chiede alla notte di poter tramandare le grandi

gesta compiute senza che nessuno le potesse ammirare. 10 Non schivar... parte: Costoro non vogliono né schivare i colpi, né pararli, né indietreggiare, né in questo duello trova posto l’abilità nella scherma. Non è una sfida a regola d’arte, da torneo, ma uno scontro all’ultimo sangue. 11 toglie... arte: l’oscurità notturna e la furia dei duellanti fanno dimenticare le raffinatezze dell’arte della scherma. 12 orribilmente: l’avverbio acquista rilievo

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per la posizione al centro del verso ed è parola chiave dell’ottava. 13 il piè... parte: il piede non si stacca dal suolo. I due guerrieri colpiscono rimanendo fermi nella loro posizione, senza indietreggiare. 14 L’onta... nova: La vergogna (di essere stati colpiti) provoca lo sdegno e invita a vendicarsi; ma la vendetta offende l’avversario (che, a sua volta, sdegnato, si vendica) cosicché sempre nuovi incitamenti e motivi accrescono il desiderio di ferire e la furia dei due contendenti. Viene descritto il crescendo della battaglia, sempre più ravvicinata e furiosa. 15 si mesce... scudi: la battaglia si fa più stretta e confusa e non è più possibile usare la spada: si colpiscono coi pomi (delle spade) e, inferociti e crudeli, fanno cozzare insieme gli elmi e gli scudi. Infelloniti sta per “dimentichi delle leggi cavalleresche”. 16 si scinge... amante: si libera (si scinge) dagli stretti abbracci di nemico inferocito e non d’amante. Per la prima volta, e per un attimo, il narratore abbandona il punto di vista “dall’esterno” e la focalizzazione con il personaggio per mettere in luce ciò che il lettore sa e che Tancredi ignora: l’odiato nemico è in realtà la donna amata. Il lessico (cavalier, donna) evoca la situazione che Tancredi avrebbe desiderato: un abbraccio amoroso e non quello tragico e mortale del duello. 17 Tornano... respira: Dopo lo stretto corpo a corpo, i duellanti riprendono lo scontro alla normale distanza infliggendosi numerose ferite (piaghe).


58 L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue18 su ’l pomo de la spada appoggia il peso. Già de l’ultima stella il raggio langue al primo albor ch’è in oriente acceso19. Vede Tancredi in maggior copia20 il sangue del suo nemico, e sé non tanto offeso21. Ne gode e superbisce22. Oh nostra folle mente ch’ogn’aura di fortuna estolle23! 59 Misero, di che godi24? oh quanto mesti fiano25 i trionfi ed infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) di quel sangue ogni stilla26 un mar di pianto. Così tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro27 alquanto. Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perché il suo nome a lui l’altro scoprisse: 60 – Nostra sventura è ben che qui s’impieghi tanto valor, dove silenzio il copra. Ma poi che sorte rea vien che ci neghi e lode e testimon degno de l’opra28, pregoti (se fra l’arme han loco i preghi29) che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra, acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o la vittoria onore30. – 61 Risponde la feroce: – Indarno chiedi quel c’ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi un di quei due che la gran torre accese31. – Arse di sdegno a quel parlar Tancredi, e: – In mal punto il dicesti32; – indi riprese – il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta, barbaro discortese, a la vendetta33. – 18 essangue: indebolito per aver perso molto sangue. 19 de l’ultima... acceso: il raggio dell’ultima stella impallidisce alla prima luce dell’alba che si è accesa da oriente. Si sta concludendo la notte che ha visto il duello mortale fra Tancredi e Clorinda. 20 copia: quantità (latinismo). 21 offeso: colpito, ferito. 22 superbisce: insuperbisce. 23 ogn’aura... estolle: ogni soffio di vento favorevole rende superba. L’intervento del

narratore, come spesso avviene nella Gerusalemme liberata, è volto a intensificare l’effetto emotivo della narrazione, e perciò è espresso in una proposizione esclamativa. La prima persona plurale accomuna tutti gli uomini nella cecità di fronte al destino che spesso induce a commettere errori irreparabili senza avvedersene, anzi esaltandosene come per un trionfo. È da notare il ritmo rallentato dell’esclamazione, per l’enjambement, nei due versi che chiudono l’ottava in cui, dopo l’incalzare

del duello, l’azione è sospesa, in una sequenza descrittiva e meditativa. 24 Misero... godi: Infelice, di cosa gioisci. In un crescendo di emozione il narratore entra in scena e si rivolge al personaggio. 25 fiano: saranno. 26 stilla: goccia. 27 cessaro: si fermarono. 28 sorte... opra: ma poiché la cattiva sorte ci nega fama e un testimone degno delle nostre gesta. 29 han loco i preghi: trovano posto le preghiere. 30 onore: onora. Il discorso di Tancredi, che occupa l’intera ottava, evidenzia i nobili ideali cavallereschi del personaggio: la vittoria e la morte sarebbero ugualmente motivo d’onore con un avversario di cui riconosce il valore. 31 Indarno... accese: Chiedi invano quello che ho l’abitudine di non rivelare. Ma chiunque io sia, vedi davanti a te uno dei due che hanno bruciato la grande torre d’assedio. Alla cortesia cavalleresca di Tancredi, Clorinda (la feroce) risponde in modo offensivo e provocatorio, rivelando di essere l’artefice della distruzione della torre cristiana. La dura risposta chiude la fase dei rapporti cortesi e cavallereschi tra i guerrieri nemici, aprendo la fase finale e più drammatica del duello. 32 In mal... dicesti: L’hai detto nel momento sbagliato. 33 il tuo dir... vendetta: barbaro scortese, le tue parole (riguardanti l’incendio della torre) e l’aver taciuto il tuo nome mi incitano ugualmente alla vendetta. Non rivelare il proprio nome, quando richiesto, è una violazione del codice cavalleresco. Perciò, lontanissimo dalla verità (chiama barbaro discortese l’ignoto nemico), Tancredi si adira ulteriormente, non potendo immaginare che la donna amata celi il suo nome proprio perché la lealtà e il coraggio la spingono a rifiutare un modo troppo facile di salvare la vita, dato che scoprire la propria identità avrebbe certo impedito l’esito mortale del duello.

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62 Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta, benché debili34 in guerra. Oh fera pugna35, u’36 l’arte in bando37, u’ già la forza è morta, ove, in vece, d’entrambi il furor pugna38! Oh che sanguigna e spaziosa porta39 fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna40, ne l’arme e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita41. 63 Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto cessi, che tutto prima il volse e scosse, non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto ritien de l’onde anco agitate e grosse, tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto quel vigor che le braccia a i colpi mosse, serbano ancor l’impeto primo, e vanno da quel sospinti a giunger danno a danno42. 64 Ma ecco omai l’ora fatale43 è giunta che ’l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli44 il ferro nel bel sen di punta che vi s’immerge e ’l sangue avido beve; e la veste, che d’or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l’empie d’un caldo fiume45. Ella già sente morirsi, e ’l piè le manca egro e languente46. 65 Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine47 minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; parole ch’a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme48: virtù ch’or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella49. 34 debili: deboli. 35 fera pugna: crudele battaglia. 36 u’: dove (dal latino ubi). 37 l’arte in bando: l’arte della scherma è bandita, non è utilizzata.

38 u’ già... pugna: dove la forza si è già spenta, dove, al posto di entrambe (tecnica e forza) combatte il furore. 39 sanguigna... porta: sanguinosa e larga apertura (ferita). 40 giugna: giunga. 41 se la vita... unita: se la vita non ne

esce, è perché lo sdegno la tiene attaccata al petto. 42 Qual l’alto... danno: Come il profondo mar Egeo, per quanto si calmino i venti Aquilone (vento freddo di Tramontana) o Noto (vento proveniente dal sud), che lo avevano prima mosso e agitato, non si calma per questo, ma mantiene (ritiene) il rumore e il movimento delle onde, ancora agitate e gonfie, così – anche se, per il sangue versato, in loro manca quella forza che aveva mosso le braccia a colpire – essi

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conservano ancora il precedente slancio e, sospinti da quello, vanno ad aggiungere ferita a ferita. L’ampia similitudine è tipica dello stile epico in cui, per accrescere la grandiosità degli eventi, sono spesso evocati maestosi spettacoli naturali, paragonati al comportamento dei combattenti: il senso è che, come il mare continua ad essere agitato anche dopo che è cessato l’impeto dei venti, così Tancredi e Clorinda continuano a combattere anche se sono ormai privi di forze. 43 l’ora fatale: il momento predestinato della morte; fatale perché il destino di Clorinda era stato annunciato da molteplici presagi. 44 Spinge egli: il verbo spinge sottolinea la forza con cui Tancredi trafigge Clorinda; il soggetto egli è messo in risalto dalla posposizione. 45 la veste... fiume: un caldo fiume di sangue (caldo si riferisce alla sensazione di Clorinda, mutando per un attimo la focalizzazione) inonda la veste trapunta di bei ricami d’oro che, leggera e morbida (tenera), le stringeva il seno. Nell’immagine non c’è più nulla di guerriero, ma solo la femminilità di Clorinda, prima celata dall’armatura. 46 egro e languente: debole e vacillante. Anche in questa ottava vi è un significativo mutamento del punto di vista: la focalizzazione passa dal personaggio al narratore onnisciente, che rivela la delicatezza e la femminilità di Clorinda; ella cela, sotto l’armatura, una veste leggera e ornata d’oro, aderente al suo bel corpo femminile. Gli aggettivi (bel, vago, tenera e leve, egro e languente) evocano un’immagine di dolcezza e di fragilità, in contrasto con l’ingannevole aspetto esteriore di feroce guerriero. 47 la trafitta vergine: l’enjambement sottolinea ancora la fragilità femminile della fanciulla, ormai in punto di morte. 48 parole... speme: parole che uno spirito cristiano di fede, di carità, di speranza (virtù teologali), per lei nuovo, sembra dettarle. 49 se rubella... ancella: se in vita fu ribelle (rubella, cioè ostile al cristianesimo), in morte (Dio) la vuole sua seguace. La Grazia di Dio ispira Clorinda, che ritrova la fede cristiana dei suoi genitori.


66 – Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave50, a l’alma51 sì; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch’ogni mia colpa lave52. – In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave53 ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza54, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza55. 67 Poco quindi56 lontan nel sen del monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio57. Tremar sentì la man58, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio59. La vide, la conobbe, e restò senza60 e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! 68 Non morì già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, e premendo il suo affanno61 a dar si volse vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise62. Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise63; e in atto di morir lieto e vivace, dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace.» 69 D’un bel pallore ha il bianco volto asperso64, come a’ gigli sarian65 miste viole, e gli occhi al cielo affisa66, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e ’l sole67; e la man nuda e fredda alzando verso il cavaliero in vece di parole gli dà pegno di pace68. In questa forma passa69 la bella donna, e par che dorma. 70 Come l’alma gentile uscita ei vede, rallenta70 quel vigor ch’avea raccolto; e l’imperio di sé libero cede al duol71 già fatto impetuoso e stolto72, ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede la vita, empie di morte i sensi e ’l volto73. Già simile a l’estinto il vivo langue al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue74.

50 nulla pave: non può temere nulla. 51 l’alma: l’anima. 52 lave: lavi, purifichi. 53 flebile e soave: flebile è ciò che commuove e induce al pianto (dal latino fleo, “piango”); soave: dolce. 54 ammorza: addolcisce. 55 e gli occhi... sforza: e induce e costringe gli occhi a versare lacrime. 56 quindi: di lì. 57 al grande ufficio e pio: al battesimo, compito (ufficio) grande e santo (pio). 58 Tremar sentì la man: Tancredi, già commosso dalla dolcezza delle parole dell’ignoto avversario, percepisce forse un oscuro presentimento sull’identità di colui che ha ferito a morte. 59 la fronte... scoprio: sciolse dall’elmo e scoprì il viso (fronte è metonimia) ancora sconosciuto. La parola tronca ancor, accentata sull’ultima e seguita da una forte pausa, sottolinea il momento di sospensione e di tensione emotiva. 60 senza: il forte enjambement crea una pausa angosciosa. 61 ché... affanno: perché raccolse tutte le sue forze (virtuti) in quell’atto e le volse a rafforzare il suo cuore e, tenendo a freno la sua angoscia. 62 a dar... uccise: si accinse a dare la vita eterna con l’acqua battesimale a colei che aveva ucciso con le armi. Il chiasmo sottolinea i contrasti della situazione: Tancredi uccide il corpo di Clorinda, ma dona all’anima la vita eterna con il battesimo. Alla disperazione del vincitore si contrappone la serenità di colei che è stata sconfitta, ma ha ritrovato pace nella fede in Dio. 63 egli... rise: egli pronunziò le parole sacre del battesimo, lei si trasfigurò per la letizia e sorrise. 64 asperso: cosparso. 65 sarian: sarebbero. 66 affisa: rivolge. 67 in lei converso... sole: il sole e il cielo sembrano volti verso di lei per la pietà. Sta nascendo la luce dell’alba: la natura sembra partecipe degli eventi umani, secondo un motivo tipico della poesia tassiana, presente anche nelle Rime. 68 pegno di pace: segno di pace. La scena violenta e fragorosa del duello si spegne nel silenzio e nella pace del raccoglimento religioso. 69 passa: trapassa, muore. 70 rallenta: viene meno. 71 l’imperio... al duol: abbandona il controllo di sé al dolore. 72 stolto: folle. 73 ch’al cor... volto: che pone ogni forza vitale nel cuore e, mentre la vita è concentrata in un piccolo spazio, riempie i sensi e il volto di morte (cioè, impallidisce e sviene). 74 Già simile... sangue: Il vivo giace senza forze, già simile a un morto per il colore, il silenzio, l’atteggiamento, il sangue (che lo ricopre).

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Analisi del testo Il canto di Clorinda Il XII della Gerusalemme liberata è il canto di Clorinda: si apre con l’iniziativa della guerriera di bruciare la torre cristiana; racconta la storia del personaggio, dai toni favolosi, propri del «maraviglioso cristiano» teorizzato da Tasso, facendoci scoprire che la giovane musulmana, che ha avuto come balia una tigre, è di origine cristiana e protetta da san Giorgio (➜ T9a OL) e si chiude con il tragico duello in cui Tancredi la uccide senza riconoscerla.

Il tema del destino Il dramma di Tancredi, inconsapevole artefice della propria rovina, appare come un emblema della cecità degli uomini nei confronti del proprio destino (come sottolinea il narratore: «Oh nostra folle / mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!» 58, 7-8). Cecità simboleggiata dalle tenebre in cui si svolge il duello: i cupi sfondi notturni, squarciati da luci, del poema di Tasso – simili a quelli della coeva pittura manieristica – si contrappongono agli ameni sfondi del poema ariostesco, per lo più in piena luce. La luminosità del poema di Ariosto è simbolo di un controllo razionale sul mondo, mentre l’oscurità notturna, comune ad alcuni dei più importanti episodi della Gerusalemme liberata, appare come il simbolo dell’impossibilità di dominare razionalmente il reale, propria di un’epoca lontana dall’ottimismo rinascimentale.

I due punti di vista della narrazione Il tema della cecità inconsapevole degli uomini è evidenziato dall’alternarsi nel passo di due prospettive diverse che, come in altri episodi del poema tassiano, sembrano preannunciare il montaggio cinematografico: la prospettiva di Tancredi, ignaro di chi sia l’ignoto nemico, e quella consapevole del narratore. Al punto di vista “cieco” di Tancredi si associano termini epici e similitudini guerresche, come quella per cui i due combattenti sono paragonati a due tori «gelosi e d’ira ardenti» (53, 8). Ma a tale punto di vista si contrappone quello onnisciente del narratore che – come il lettore – sa che nell’armatura è celata Clorinda e descrive il precipitare drammatico degli eventi. Il narratore onnisciente evidenzia più volte il fatale errore di Tancredi, ad esempio quando suggerisce che l’abbraccio mortale della lotta corpo a corpo tra i due avversari, in altre circostanze, avrebbe potuto essere un dolce abbraccio amoroso («nodi di fer nemico e non d’amante» 57, 4).

La rivelazione della femminilità di Clorinda Il divario fra il punto di vista onnisciente del narratore e quello inconsapevole del personaggio culmina nell’immagine finale, quando colei che Tancredi ritiene ancora un feroce guerriero si rivela una fragile e bellissima donna («la trafitta / vergine» 65, 1-2), ferita da un colpo mortale nel bel sen, e rivestita sotto l’armatura di una leggerissima veste «d’or vago trapunta» (65, 5), particolare del tutto improbabile e perciò ancora più suggestivo. Gli aggettivi dell’ottava (vago, tenera, leve, egro, languente) evocano una sensazione di tenerezza e di fragilità femminile.

La prospettiva religiosa dell’episodio Dal punto di vista di Tancredi, l’episodio è tragico: come osserva il critico Ezio Raimondi, la morte di Clorinda è come una tragedia classica incastonata nel più vasto organismo epico e fondata su un motivo topico del dramma attico, centrale già nell’Edipo re: il mancato riconoscimento (quando Edipo uccide il padre e giace con la madre ignora la loro identità). Dal punto di vista della guerriera musulmana, l’episodio non è così funesto, anzi segna per lei la rivelazione di un’identità più profonda e vera. Un’identità non solo femminile, ma cristiana: perciò Clorinda muore serena e in pace. Il mutamento del paesaggio, non più notturno, ma rischiarato dalle prime luci dell’alba, è specchio della trasfigurazione dell’anima della giovane donna, illuminata dalla grazia divina, che le suggerisce parole per lei ancora ignote «di fé, di carità, di speme» (65, 6) e il gesto di pace con cui si congeda fraternamente da Tancredi.

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La conclusione paradossale: la fede cristiana di Clorinda, la disperazione di Tancredi La conclusione è paradossale: Tancredi, guerriero crociato, non trova conforto nella fede per il suo tragico errore; nelle ottave seguenti del canto, infatti, è tentato dal suicidio e ne viene distolto soltanto dagli aspri rimproveri di Pietro l’Eremita, che gli ricorda come in tale caso sarebbe incorso in un «morir doppio»: la morte del corpo e la dannazione dell’anima (XII, 84-89). Clorinda, invece, guerriera musulmana, muore rasserenata dalla fede cristiana: un motivo preannunciato quando è esclusa dalle mura di Gerusalemme (esclusione che prelude a quella dalla vita, ma anche al passaggio dall’appartenenza musulmana a quella cristiana): per Clorinda si chiudono le mura della Città Santa, ma «s’apre il cielo»; si spegne la vita terrena, ma si preannuncia la vita eterna.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi l’episodio in 10 righe, dividilo in sequenze e dai a ognuna un breve titolo. COMPRENSIONE 2. Quali sono le fasi del duello? Schematizzale, indicandone le sequenze. 3. Quali ragioni rendono lo scontro fra Tancredi e Clorinda particolarmente feroce? ANALISI 4. Indica i casi in cui nell’episodio è seguito il codice cavalleresco e quelli in cui invece vi si contravviene, e per quali ragioni. 5. Riconosci i termini e le espressioni (lessico, figure retoriche) che: a. fanno percepire il duello come uno scontro tra feroci guerrieri; b. sottolineano la femminilità di Clorinda. 6. Individua gli interventi del narratore, spiegando la funzione di ciascuno. Indica quando essi tendono a far riflettere il lettore e quando sono invece rivolti a farlo immedesimare emotivamente nella narrazione. IMMAGINE INTERATTIVA 7. Riconosci i casi in cui il punto di vista (rivelato anche da elementi testuali minimi, come aggettivi, similitudini ecc.) sia quello “cieco” di Tancredi e quelli in cui invece sia messo in risalto il punto di vista di un narratore onnisciente. Spiega quali effetti il poeta ricavi dall’alternarsi dei due punti di vista opposti. STILE 8. Clorinda è un personaggio dinamico: evidenzia le fasi del suo mutamento e gli elementi testuali che più chiaramente lo mettono in luce.

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 9. Considera le testimonianze pittoriche, a partire dal quadro di Domenico Tintoretto Battesimo di Clorinda (1585), a cui, con una ricerca sul web, potrai aggiungere le opere che ti appaiano più adatte a esprimere il senso dei versi tassiani, motivando le ragioni della tua scelta.

In un suo dipinto dedicato al battesimo di Clorinda (Tancredi battezza Clorinda), Domenico Tintoretto (1560-1635) interpreta lo spirito dell’episodio, ponendo Tancredi nella zona oscura del quadro, fuori dall’alone di luce, simbolo della Grazia, che brilla sul volto di Clorinda e sull’elmo, contenitore dell’acqua battesimale (Houston, Museum of Fine Arts).

online T10 Torquato Tasso

La magia demoniaca della selva incantata Gerusalemme liberata, XIII, 17-28; 32-46

online

Sguardo sulla letteratura straniera Come Goethe scopre la propria vocazione teatrale grazie alla storia di Clorinda

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Torquato Tasso

T11

Il giardino di Armida: traviamento e riscatto di Rinaldo Gerusalemme liberata, XVI, 1; 8-23; 26-35

T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983

L’episodio ha una funzione fondamentale nel poema, in quanto determina il ritorno di Rinaldo, l’eroe predestinato a infrangere l’incantesimo della selva. Trova così compimento l’accenno del Proemio della Gerusalemme liberata in cui Tasso sottolinea come, prima di conquistare Gerusalemme, Goffredo di Buglione debba ricondurre i «compagni erranti» sotto i «santi / segni» della croce. Rinaldo è infatti doppiamente “errante”, sia perché, seguendo il modello di vita avventuroso degli antichi cavalieri, si era allontanato da Gerusalemme, giungendo fino alle lontane Isole Fortunate, sia perché, dimentico del suo dovere di crociato, si era lasciato sedurre dalla maga Armida. I guerrieri cristiani Carlo e Ubaldo ricevono dal mago di Ascalona i mezzi per vincere gli incantesimi di Armida: una mappa dell’edificio labirintico in cui si trova Rinaldo, una verga aurea per cacciare gli animali feroci che custodiscono il giardino interno ad esso e uno scudo adamantino in cui Rinaldo, specchiandosi, possa riprendere coscienza dei propri doveri.

1 Tondo è il ricco edificio, e nel più chiuso grembo di lui, ch’è quasi centro al giro1, un giardin v’ha ch’adorno è sovra l’uso di quanti più famosi unqua fioriro2.

D’intorno inosservabile e confuso ordin di loggie i demon fabri ordiro3, e tra le oblique vie di quel fallace ravolgimento impenetrabil giace4.

[I crociati Carlo e Ubaldo entrano nel giardino.] 8 Qual Meandro5 fra rive oblique e incerte scherza e con dubbio corso or cala or monta, queste acque a i fonti e quelle al mar converte6, e mentre ei vien, sé che ritorna affronta, tali e più inestricabili conserte son queste vie, ma il libro in sé le impronta (il libro, don del mago) e d’esse in modo parla che le risolve, e spiega il nodo7.

La metrica: Ottave con schema delle rime ABABABCC

1

nel più... giro: nella parte più interna, che è quasi nel centro della circonferenza. Dato che il cerchio è simbolo di perfezione, la collocazione non centrale del giardino suscita disorientamento e un senso di sospetto. 2 unqua fioriro: mai fiorirono (unqua è latinismo). 3 D’intorno... ordiro: Intorno al giardino i demoni, suoi artefici, costruirono una

9 Poi che lasciàr gli aviluppati calli8, in lieto aspetto il bel giardin s’aperse: acque stagnanti9, mobili cristalli10, fior vari e varie piante, erbe diverse, apriche11 collinette, ombrose valli, selve e spelonche in una vista offerse12; e quel che ’l bello e ’l caro accresce a l’opre, l’arte, che tutto fa, nulla si scopre13.

serie di logge, impossibile da cogliere con uno sguardo d’insieme per il suo aspetto confuso. 4 tra... giace: (il giardino) si trova tra le vie tortuose di quell’ingannevole labirinto, in modo tale che è impossibile penetrarvi. 5 Meandro: fiume dell’Asia Minore famoso per il suo corso tortuoso. 6 converte: rivolge. 7 il libro... nodo: il libro (donato dal mago di Ascalona) raffigura queste vie e le descrive in modo da risolvere ogni difficoltà del cammino.

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8 gli aviluppati calli: i sentieri tortuosi. 9 acque stagnanti: piccoli laghi. Il chiasmo evidenzia l’armonia prodotta dalla ben calcolata varietà del giardino. 10 mobili cristalli: ruscelli di acqua cristallina. 11 apriche: soleggiate. 12 in una... offerse: mostrò a uno sguardo d’insieme. 13 e quel... scopre: e, cosa che accresce la bellezza e la preziosità del luogo, non si scorge per nulla l’artificio con cui (il giardino) è stato costruito (dai demoni).


10 Stimi (sì misto il culto è co ’l negletto) sol naturali e gli ornamenti e i siti14. Di natura arte par, che per diletto l’imitatrice sua scherzando imiti15. L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto16, l’aura che rende gli alberi fioriti: co’ fiori eterni eterno il frutto dura17, e mentre spunta l’un, l’altro matura.

13 Vola fra gli altri un che le piume ha sparte di color vari ed ha purpureo il rostro26, e lingua snoda in guisa larga, e parte la voce sì ch’assembra il sermon nostro27. Questi ivi allor continovò28 con arte tanta il parlar che fu mirabil mostro29. Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti, e fermaro i susurri in aria i venti.

11 Nel tronco istesso e tra l’istessa foglia sovra il nascente fico invecchia il fico; pendono a un ramo, un con dorata spoglia, l’altro con verde, il novo e ’l pomo antico18; lussureggiante serpe alto e germoglia la torta vite ov’è più l’orto aprico19: qui l’uva ha in fiori acerba, e qui d’or l’have e di piropo e già di nèttar grave20.

14 – Deh mira – egli cantò – spuntar la rosa dal verde suo30 modesta e verginella, che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa, quanto si mostra men, tanto è più bella. Ecco poi nudo il sen già baldanzosa dispiega31; ecco poi langue32 e non par quella, quella non par che desiata inanti fu da mille donzelle e mille amanti.

12 Vezzosi augelli infra le verdi fronde temprano a prova lascivette note21; mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde garrir che variamente ella percote22. Quando taccion gli augelli alto risponde23, quando cantan gli augei più lieve scote24; sia caso od arte, or accompagna, ed ora alterna i versi lor la musica òra25.

15 Così trapassa al trapassar d’un giorno33 de la vita mortale il fiore e ’l verde34; né perché faccia indietro april ritorno, si rinfiora ella mai, né si rinverde. Cogliam la rosa in su ’l mattino adorno di questo dì, che tosto il seren perde; cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando esser si puote riamato amando35. –

14 Stimi... siti: Tu stimeresti (tanto l’artificio è commisto alla naturalezza) che i luoghi e le loro bellezze siano soltanto naturali. 15 Di natura... imiti: Sembra che la natura, per gioco, imiti quella che solitamente è la sua imitatrice (cioè l’arte). 16 L’aura... effetto: A parte il resto, l’aria è creata dalla maga. 17 co’ fiori... dura: con i fiori che non sfioriscono durano eternamente anche i frutti. Nel giardino non vi è l’avvicendarsi delle stagioni, per cui i fiori primaverili coesistono con i frutti estivi. Questa caratteristica ricorda il regno di Venere delle Stanze di Poliziano, ma assume un significato opposto: là rappresentava il regno ideale, qui un luogo demoniaco. 18 un con dorata... antico: il frutto appena spuntato e quello già maturo, uno con la buccia verde, l’altro dorata. 19 lussureggiante... aprico: dove il giardino (orto) è più soleggiato, la vite serpeggia verso l’alto e germoglia lussu-

reggiante. La disposizione dei termini riproduce l’andamento tortuoso e irregolare dei tralci della vite; le linee serpeggianti del giardino ricordano quelle della contemporanea pittura manieristica in cui è frequente la «linea serpentinata» (Praz). 20 qui l’uva... grave: qui (la vite) ha l’uva ancora in fiore, acerba, là dorata e già ripiena di un dolce succo, di colore rosso. Il piropo è una pietra preziosa rossa. 21 temprano... note: modulano a gara canti sensuali. 22 e fa... percote: e fa stormire le foglie e le onde colpendole in vario modo (con soffi ora più lievi, ora più forti). 23 alto risponde: risponde con un suono più alto. 24 più lieve scote: colpisce più lievemente (le foglie e l’acqua). 25 or accompagna... òra: e l’aria (òra) musicista ora accompagna ora fa da contrappunto ai canti degli uccelli. La rima equivoca (ora : òra) sottolinea l’impressione di artificiosità.

26 un che... rostro: uno che ha le piume variopinte e il becco color porpora. È un pappagallo. 27 lingua... nostro: snoda agilmente, con ampi giri, la lingua e articola la voce in modo che assomigli al nostro linguaggio. 28 continovò: continuò. 29 mostro: prodigio. 30 dal verde suo: dal suo stelo. 31 Ecco... dispiega: Ecco che poi già più sicura di sé apre i suoi petali. Secondo un motivo topico, la rosa è personificata come simbolo della bellezza femminile ed è colta in tre momenti: quando è ancora in boccio, quando è nel pieno del suo splendore e quando sfiorisce. 32 langue: sfiorisce. 33 al trapassar d’un giorno: rapidamente. 34 il fiore e ’l verde: la giovinezza; come più sotto «’l mattino... di questo dì». 35 amiamo or... amando: amiamo quando amando si può essere riamati.

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16 Tacque, e concorde de gli augelli il coro, quasi approvando, il canto indi ripiglia. Raddoppian le colombe i baci loro, ogni animal d’amar si riconsiglia; par che la dura quercia e ’l casto alloro36 e tutta la frondosa ampia famiglia37, par che la terra e l’acqua e formi e spiri dolcissimi d’amor sensi38 e sospiri.

19 e i famelici sguardi avidamente in lei pascendo46 si consuma e strugge. S’inchina, e i dolci baci ella sovente liba47 or da gli occhi e da le labra or sugge48, ed in quel punto ei sospirar si sente profondo sì che pensi: «Or l’alma fugge e ’n lei trapassa peregrina49.» Ascosi50 mirano i duo guerrier gli atti amorosi.

17 Fra melodia sì tenera, fra tante vaghezze39 allettatrici e lusinghiere, va quella coppia40, e rigida e costante se stessa indura a i vezzi del piacere41. Ecco tra fronde e fronde il guardo inante penetra e vede, o pargli di vedere, vede pur certo il vago e la diletta42, ch’egli è in grembo a la donna, essa a l’erbetta.

20 Dal fianco de l’amante (estranio arnese51) un cristallo52 pendea lucido e netto53. Sorse54, e quel fra le mani a lui sospese a i misteri d’Amor ministro eletto55. Con luci56 ella ridenti, ei con accese, mirano in vari oggetti un solo oggetto57: ella del vetro a sé fa specchio, ed egli gli occhi di lei sereni a sé fa spegli58.

18 Ella dinanzi al petto ha il vel diviso, e ’l crin sparge incomposto43 al vento estivo; langue per vezzo44, e ’l suo infiammato viso fan biancheggiando i bei sudor più vivo: qual raggio in onda, le scintilla un riso ne gli umidi occhi tremulo e lascivo. Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle le posa il capo, e ’l volto al volto attolle45,

21 L’uno di servitù, l’altra d’impero si gloria59, ella in se stessa ed egli in lei. – Volgi, – dicea – deh volgi – il cavaliero – a me quegli occhi onde beata bèi60, ché son, se tu no ’l sai, ritratto vero de le bellezze tue gli incendi miei61; la forma lor, la meraviglia a pieno più che il cristallo tuo mostra il mio seno62.

36 ’l casto alloro: l’alloro è definito casto per il mito di Dafne, che si mutò in quella pianta per sfuggire all’amore di Apollo. 37 e tutta... famiglia: e tutta la numerosa serie delle piante. 38 spiri... sensi: emani dolcissimi sentimenti amorosi. 39 vaghezze: piacevolezze. 40 quella coppia: i crociati Carlo e Ubaldo. 41 se stessa... piacere: si rende insensibile alle seduzioni del piacere. 42 tra fronde... diletta: lo sguardo rivolto in avanti penetra tra le fronde e vede, o crede di vedere, poi vede con certezza l’amante (il vago) e l’innamorata. 43 ’l crin... incomposto: sparge i capelli sciolti. L’aggettivo incomposto aggiunge una connotazione di sensualità e di disordine morale. 44 langue per vezzo: si mostra languida e sensuale.

45 attolle: solleva. 46 pascendo: saziando. 47 liba: gusta. 48 sugge: succhia, assapora. 49 e ’n lei... peregrina: e, mutando di luogo, passa in lei.

50 Ascosi: Nascosti. 51 estranio arnese: oggetto poco usuale per un guerriero.

52 un cristallo: uno specchio di cristallo. È una metonimia. 53 netto: pulito, senza macchia. 54 Sorse: (Armida) Si alzò in piedi. 55 quel... eletto: sollevò quello (lo specchio), scelto come sacerdote dei misteri d’amore, tra le mani di Rinaldo. Lo specchio è detto ministro dei misteri d’amore perché indica alla maga come rendersi più seducente. 56 luci: occhi, sguardi. 57 mirano... oggetto: ammirano in due oggetti (Armida nello specchio, Rinaldo di-

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rettamente nel volto di Armida) un oggetto solo (la bellezza della donna). Sarà ricorrente nel barocco il motivo dello specchio, che produce una molteplicità di punti di vista. 58 gli occhi... spegli: si specchia (fa spegli: fa specchi) nei suoi occhi sereni (nel senso che Rinaldo non riesce a distogliere lo sguardo da Armida). 59 L’uno... gloria: L’uno (Rinaldo) è fiero di essere schiavo della donna, l’altra (Armida) si gloria del suo potere su di lui. Servitù è parola chiave ed esprime una condanna morale per Rinaldo, asservito a una donna. 60 onde beata bèi: con cui tu, donna angelica, infondi beatitudine. 61 gli incendi miei: la mia passione amorosa. 62 la meraviglia... seno: il mio animo innamorato mostra più pienamente del tuo specchio la tua meravigliosa bellezza. seno è metonimia per “cuore”, “animo”.


22 Deh! poi che sdegni me63, com’egli è vago mirar tu almen potessi il proprio volto64; ché il guardo tuo, ch’altrove non è pago, gioirebbe felice in sé rivolto65. Non può specchio ritrar sì dolce imago, né in picciol vetro è un paradiso accolto66: specchio t’è degno il cielo, e ne le stelle puoi riguardar le tue sembianze belle. –

23 Ride Armida a quel dir, ma non che cesse dal vagheggiarsi e da’ suoi bei lavori67. Poi che intrecciò le chiome e che ripresse con ordin vago i lor lascivi errori68, torse in anella i crin minuti69 e in esse, quasi smalto su l’or, cosparse i fiori; e nel bel sen le peregrine rose giunse a i nativi gigli70, e ’l vel compose.

[Armida continua ad adornarsi, per essere sempre più seducente.] 26 Fine alfin posto al vagheggiar71, richiede a lui commiato, e ’l bacia e si diparte72. Ella per uso il dì n’esce73 e rivede gli affari suoi, le sue magiche carte. Egli riman, ch’a lui non si concede por orma o trar momento74 in altra parte, e tra le fère spazia e tra le piante, se non quanto è con lei, romito amante75.

28 Qual feroce destrier ch’al faticoso onor de l’arme vincitor sia tolto, e lascivo marito80 in vil riposo fra gli armenti e ne’ paschi81 erri disciolto, se ’l desta o suon di tromba o luminoso acciar, colà tosto annitrendo è vòlto, già già brama l’arringo82 e, l’uom su ’l dorso portando, urtato riurtar nel corso83;

27 Ma quando l’ombra co i silenzi amici rappella a i furti lor gli amanti accorti traggono le notturne ore felici sotto un tetto medesmo entro a quegli orti76. Ma poi che vòlta a più severi uffici77 lasciò Armida il giardino e i suoi diporti78, i duo, che tra i cespugli eran celati, scoprirsi79 a lui pomposamente armati.

29 tal si fece il garzon, quando repente84 de l’arme il lampo gli occhi suoi percosse. Quel sì guerrier, quel sì feroce ardente suo spirto a quel fulgor85 tutto si scosse, benché tra gli agi morbidi languente, e tra i piaceri ebro e sopito86 ei fosse. Intanto Ubaldo oltra87 ne viene, e ’l terso adamantino scudo ha in lui converso88.

63 sdegni me: non ti degni di guardarmi. 64 com’egli... volto: tu almeno potessi vedere come è bello il tuo volto. 65 il guardo... rivolto: il tuo sguardo, che contemplando altri oggetti non è appagato, gioirebbe felice se potesse vederti. 66 Non può specchio... accolto: Uno specchio non può ritrarre un’immagine così dolce, né un piccolo oggetto di vetro può contenere un paradiso. Le parole di Rinaldo ricordano le concettose immagini della lirica manieristica del tempo: la bellezza di Armida è troppo grande per riflettersi in un piccolo vetro. 67 non che cesse... lavori: non smette di ammirarsi e di farsi bella. 68 ripresse... errori: ricompose in un ordine aggraziato il loro sensuale disordine. 69 torse... minuti: inanellò i fini capelli. 70 le peregrine rose... gigli: unì le rose tratte dall’esterno (quelle del giardino) ai gigli naturali (il bianco seno). Con l’or-

namento dei fiori, Armida esalta la sua naturale bellezza. 71 al vagheggiar: ad ammirarsi. 72 si diparte: Si allontana. 73 Ella... n’esce: Abitualmente, di giorno, ella esce dal giardino. 74 a lui... momento: a lui non è concesso andare (por orma “porre il piede”) o trascorrere un momento. 75 tra le fère... amante: si aggira tra gli animali e le piante, a meno che non sia con lei, amante isolato (dagli altri uomini). I versi evidenziano la degradazione di Rinaldo, escluso dal genere umano e posto insieme ad animali e piante, non a esseri razionali. La situazione ricorda quella dei compagni di Ulisse, trasformati in animali dalla maga Circe. 76 Ma quando... orti: Ma quando l’oscurità notturna, con i silenzi complici, induce gli amanti prudenti ai loro amori furtivi, loro trascorrono felicemente le ore notturne

sotto uno stesso tetto, dentro quei giardini. 77 a più severi uffici: a compiti più impegnativi (le sue magie). 78 diporti: piaceri. 79 scoprirsi: si mostrarono. 80 lascivo marito: come stallone. 81 fra gli armenti... paschi: fra i branchi di cavalli e nei pascoli. 82 l’arringo: il campo di battaglia. 83 riurtar nel corso: urtare a sua volta nella corsa. 84 repente: d’improvviso. 85 fulgor: il brillare delle armi lucenti. 86 ebro e sopito: stordito (come per ubriachezza) e addormentato. Inizialmente nell’animo di Rinaldo c’è una lotta tra valore e mollezza. 87 oltra: avanti. 88 ’l terso... converso: ha rivolto verso di lui il lucido scudo di diamante. Lo scudo, dono del mago di Ascalona, è simbolo della coscienza e della ragione.

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30 Egli al lucido scudo il guardo gira, onde si specchia in lui qual siasi e quanto con delicato culto adorno89; spira tutto odori e lascivie il crine e ’l manto90, e ’l ferro, il ferro aver, non ch’altro, mira dal troppo lusso effeminato a canto: guernito è sì ch’inutile ornamento sembra, non militar fero instrumento91.

33 Qual sonno o qual letargo ha sì sopita100 la tua virtute101? o qual viltà l’alletta102? Su su; te il campo e te Goffredo invita, te la fortuna e la vittoria aspetta. Vieni, o fatal guerriero103, e sia fornita la ben comincia impresa104; e l’empia setta, che già crollasti105, a terra estinta cada sotto l’inevitabile106 tua spada. –

31 Qual uom da cupo e grave sonno oppresso dopo vaneggiar lungo in sé riviene, tal ei tornò nel rimirar se stesso, ma se stesso mirar già non sostiene92; giù cade il guardo, e timido e dimesso93, guardando a terra, la vergogna il tiene. Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro il foco per celarsi, e giù nel centro94.

34 Tacque, e ’l nobil garzon restò per poco spazio confuso e senza moto e voce. Ma poi che diè vergogna a sdegno loco, sdegno guerrier de la ragion feroce107, e ch’al rossor del volto un novo foco successe, che più avampa e che più coce108, squarciossi109 i vani fregi e quelle indegne pompe110, di servitù misera insegne111;

32 Ubaldo incominciò parlando allora: – Va l’Asia tutta e va l’Europa in guerra: chiunque e pregio brama95 e Cristo adora travaglia in arme or ne la siria terra96. Te solo, o figlio di Bertoldo97, fuora del mondo, in ozio, un breve angolo serra98; te sol de l’universo il moto nulla move, egregio campion d’una fanciulla99.

35 ed affrettò il partire, e de la torta confusione uscì del labirinto112. [...]

89 onde... adorno: per cui si specchia in esso (e vede) cosa sia diventato e come sia adornato con delicata ricercatezza. 90 spira... manto: i capelli e l’abito emanano profumi sensuali. 91 ’l ferro... instrumento: a parte tutto il resto, vede la spada che ha accanto, troppo lussuosa da essere effeminata; è così adorna che sembra un ornamento inutile, non un temibile strumento militare. 92 ma... sostiene: ma non riesce più a sopportare di guardarsi. 93 giù cade... dimesso: lo sguardo gli cade a terra, timido e basso. 94 nel centro: nel centro della terra. L’ottava, introdotta dalla similitudine con un uomo che si risvegli vaneggiante dopo un lungo sonno, mostra come Rinaldo, vedendosi immerso nel vizio, provi prima di tutto un sentimento di vergogna, per cui vorrebbe sprofondare sotto terra, nel mare, o nel fuoco. 95 pregio brama: desidera onore e gloria. 96 travaglia... terra: sopporta rischi e fa-

tiche in guerra nelle regioni della Siria (del Medio Oriente, dove si trova Gerusalemme). 97 figlio di Bertoldo: Ubaldo ricorda a Rinaldo la sua nobile stirpe. 98 un breve... serra: un breve angolo esclude dal mondo esterno. 99 te sol... fanciulla: lo sconvolgimento di tutto l’universo in questa guerra te solo non coinvolge per nulla (poiché ti accontenti di essere) il valoroso campione di una fanciulla. 100 sopita: addormentata, annullata. 101 la tua virtute: il tuo valore. 102 qual... l’alletta: quale viltà l’attrae. 103 fatal guerriero: guerriero destinato dal fato a risolvere la guerra (vincendo la selva di Saron). 104 sia fornita... impresa: sia conclusa l’impresa bene iniziata. 105 l’empia... crollasti: gli infedeli (l’empia setta), che già facesti vacillare. 106 inevitabile: infallibile. 107 diè vergogna... feroce: alla vergogna

1012 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso

subentrò lo sdegno, fiero difensore della ragione. Lo sdegno di Rinaldo è dettato da una giusta ragione. Nel passo vi è un ricordo della tripartizione dell’anima nella Repubblica di Platone (che verrà in seguito ampiamente illustrata a Rinaldo dal mago di Ascalona): una parte razionale, una irascibile, una concupiscibile. La parte irascibile dell’anima dovrebbe essere posta a difesa della ragione. 108 al rossor... coce: al rossore della vergogna subentrò il nuovo fuoco dell’ira, che più arde e brucia. 109 squarciossi: si strappò. 110 pompe: segni di lusso. 111 di servitù... insegne: segni di una misera schiavitù (quella della passione amorosa). 112 de la torta... labirinto: uscì dalla confusione tortuosa del labirinto. La costruzione sintattica irregolare sottolinea la tortuosità del labirintico giardino di Armida, simbolo del traviamento di Rinaldo.


Analisi del testo Il giardino di Armida come locus diabolicus In queste ottave, Tasso ci descrive i caratteri del magnifico e lussureggiante giardino di Armida, una sorta locus amoenus in chiave pagana e peccaminosa, prodotto di arti diaboliche, luogo di tentazione e di piaceri carnali. Nel giardino di Armida, infatti, si gode di una artificiosa eterna primavera in cui i frutti maturi pendono dallo stesso albero su cui pendono i frutti acerbi e tra gli uccelli che cantano spicca un pappagallo prodigioso (mirabil mostro) che imita il linguaggio umano. Non a caso è stato osservato che questo giardino rappresenta una sorta di trasformazione da locus amoenus in locus diabolicus, perché la natura apparentemente perfetta, ma invece ingannevole e piena di lusinghe, in una sorta di negazione della realtà dove i frutti maturi convivono assieme ai frutti acerbi, induce gli eroi crociati – in questo caso Rinaldo – ad abbandonarsi ai piaceri lascivi e sensuali. In tal senso Rinaldo, da paladino cristiano, qui si trasforma in un personaggio negligente e superficiale, opposto al senso del dovere e del rigore morale incarnato dai due inviati di Goffredo, Carlo e Ubaldo. Nel giardino di Armida, ben diverso dal locus amoenus in cui trova momentaneo ricovero Erminia fra i pastori, aleggia un’atmosfera stregata che ha emulato, oltraggiandola, la purezza della natura e lo ha reso un paradiso pagano.

Il pappagallo e la rosa All’esotico e colorato pappagallo, che incarna in modo significativo l’immobilismo ingannevole di questo universo, Tasso affida un “elogio della rosa”, ossia il tema del carpe diem, dell’invito a cogliere l’attimo contro la fugacità della vita. La voce del pappagallo è quindi l’emblema di questo mondo dove tutto è finzione e allettamento, ingannevole copia dove il vero cede all’apparenza: quel canto del pappagallo che è in grado di imitare la voce umana è lo specchio di Armida che allo stesso modo è in grado di imitare, stravolgendola, la natura creata da Dio. Al pappagallo umanizzato Tasso fa pronunciare ironicamente parole da cui emerge il senso della precarietà della vita, della giovinezza e del piacere, un’elegia sulla fugacità della vita, raffigurata dalla rosa che trapassa al trapassar d’un giorno (v. 1, ottava 15). Allo stesso modo la rosa è simbolo della perfezione della natura ed emblema della fugacità della bellezza, della giovinezza e del piacere, rievocando così il topos catulliano della vergine rosa, fiore bellissimo, simbolo dell’eros femminile e della purezza della donna, ma effimero perché minato dalla caducità.

Giambattista Tiepolo, Rinaldo incantato da Armida, 1742-1745 (Chicago, Art Institute).

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Lo stile Il brano è intessuto di numerose figure retoriche e raffinate forme stilistiche, intese a creare un effetto di musicalità, per rendere l’impressione di piacevolezza e incanto del magico ambiente: il che pone Tasso come maestro e rappresentante significativo del manierismo stilistico. Si rinvengono allitterazioni (lussureggiante serpe, v. 5, ott. 11 – allitterazione in s per rappresentare il procedere sinuoso della vite; «infra le verdi fronde», v. 1, ott. 12; «cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando / esser si puote riamato amando», vv. 7-8 dell’ottava 15 – l’allitterazione in am che trasmette con intensità crescente la tematica dell’abbandono amoroso ); anadiplosi («non par quella, / quella non par», vv. 6-7, ott. 14); anafore (l’aura… / l’aura, vv. 5-6, ott. 10; quando… / quando, vv. 5-6, ott. 12; cogliam la rosa …/cogliam … la rosa, vv. 5-7, ott. 15); antitesi (acque stagnanti – mobili cristalli, v. 3, ott.9; apriche collinette – ombrose valli, v. 5, ott. 9); chiasmi («acque stagnanti, mobili cristalli», v. 3, ott. 9; «fior vari e varie piante», v. 4, ott. 9; «fiori eterni eterno il frutto», v. 7, ott. 10; «spunta l’un, l’altro matura», v. 8, ott. 10; «tronco istesso e tra l’istessa foglia», v. 1, ott. 11; torta vite … orto aprico, v. 6, ott. 11; «pendono a un ramo, un con dorata spoglia, / l’altro con verde, il novo e ‘l pomo antico», vv. 3-4, ott. 11; «non par quella, / quella non par», vv. 6-7, ott. 14) e una metafora («spuntar la rosa / dal verde suo modesta e verginella», vv. 1-2 ott. 14, per indicare bella fanciulla).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. L’episodio del giardino di Armida rappresenta un momento di svolta fondamentale in relazione alla figura di Rinaldo. Riassumi l’episodio in 5 righe sottolineando il punto di svolta narrativo con un titolo appropriato. COMPRENSIONE 2. Descrivi l’atteggiamento di Rinaldo prima e dopo il momento di cambiamento. 3. Descrivi quale comportamento e carattere mostrano Carlo e Ubaldo. ANALISI 4. Evidenzia gli elementi testuali che caratterizzano il giardino di Armida come luogo di traviamento. 5. Spiega quali due opposte visioni del mondo si contrappongano in questo episodio, facendo riferimento, più in generale, alla poetica del Tasso. LESSICO 6. Ricerca i termini che evidenziano la natura sensuale dell’amore tra Rinaldo e Armida.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 7. Confronta la descrizione del giardino di Armida con il regno di Venere descritto nelle Stanze di Poliziano (➜ C1 T2 ), evidenziando affinità e differenze e illustrandone i rispettivi significati. 8. Confronta temi e messaggio dell’episodio di Rinaldo con quelli del coro dell’Aminta (➜ T3 ). SCRITTURA ARGOMENTATIVA 9. Nel testo si fa riferimento in più passaggi alla figura del labirinto. Quale valore simbolico assume, a tuo parere, nel brano? Sviluppa un testo argomentativo su questo spunto di riflessione e allarga il ragionamento, se lo ritieni opportuno, parlando anche del valore simbolico che la stessa immagine del labirinto assume nella poetica di Ariosto.

1014 Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso


INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

Lanfranco Caretti Il “bifrontismo” di Tasso L. Caretti, Ariosto e Tasso, Einaudi, Torino 2001

Nel saggio Ariosto e Tasso (1961), il critico Lanfranco Caretti (1915-1995) studia il rapporto fra la Liberata e l’epoca di composizione e conia la fortunata formula di «bifrontismo spirituale» per definire la situazione psicologica di Tasso, diviso tra l’adesione alla Chiesa controriformistica e il rimpianto per gli ideali rinascimentali, ormai appartenenti al passato.

Questo significa che la storia della poesia tassiana rispecchia piuttosto l’intero arco della crisi e ne riflette tutto il cammino variamente accidentato: dal momento vivo e positivo, che nei suoi aspetti drammatici e intensi era già stato suggestivamente espresso dall’opera di Michelangelo, al momento della chiusura più rigida della 5 restaurazione cattolica. Ciò che conta perciò è tenere d’occhio non l’atto ultimo della resa, quando la voce del Tasso si confonde e veramente si annulla nei colori grigi del tempo, ma il lungo e generoso periodo della resistenza attiva al disgregarsi d’un mondo che era pur sembrato tanto saldo e sicuro di sé. In questo periodo, che giunge almeno sino al compimento della Liberata, il Tasso offre l’esempio d’una 10 singolare autonomia intellettuale, di un impegno umano ed artistico commovente, di una ostinazione orgogliosa, di una applicazione intrepida, di una perspicua lucidità critica, di una buona fede schietta e fervida. È il periodo in cui la poesia tassiana riflette il caldo riverbero dell’eredità rinascimentale, ancora operante nelle coscienze dei suoi contemporanei, e viene arditamente innestandovi lo spirito 15 nuovo e inquieto d’una età percossa dall’urto violento della Riforma e intimamente desiderosa d’una sincera renovatio [in latino “rinnovamento”] morale. In questo generoso tentativo di conciliazione del classicismo con la moderna ansietà religiosa, il Tasso non muoveva però da una posizione già chiara e sicura, come era accaduto all’Ariosto, ma stava egli stesso nel mezzo della corrente perigliosa e 20 partecipava così, di volta in volta, a tutti gli slanci e alle speranze, ma anche alle incertezze e confusioni sentimentali che caratterizzarono quell’epoca di rottura, di autentico bifrontismo spirituale.

Sergio Zatti I musulmani e i valori del Rinascimento S. Zatti, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, Il Saggiatore, Milano 1983

Nel saggio L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, Sergio Zatti sviluppa l’impostazione critica di Caretti con l’apporto di metodologie di scuola strutturalistica e psicoanalitica, riconoscendo nella Gerusalemme liberata un conflitto fra due codici culturali: l’uno umanistico-rinascimentale, di cui nel poema sono interpreti i musulmani, l’altro controriformistico, rappresentato dai crociati.

Fondata su queste premesse e vincolata a una precisa prospettiva di metodo, la mia analisi è rivolta a verificare la legittimità di una chiave di lettura figurale dello scontro militare tra Cristiani e Pagani, che costituisce la materia narrativa del poema. Secondo tale prospettiva, la guerra per la conquista di Gerusalemme 5 rinvierebbe ad una lotta per l’egemonia che si instaura fra due codici diversi, fra

La Gerusalemme liberata 3 1015


INTERPRETAZIONI A CONFRONTO

due sistemi di valori antitetici. Dell’uno sono campioni i Pagani e, potremmo dire, schematizzando, che esso si richiama agli ideali di un umanesimo laico, materialista e pluralista; l’altro, di cui sono portatori i Crociati, dà voce alle istanze religiose autoritarie della cultura della Controriforma. 10 Se la materia storica della narrazione, che il Tasso desume dai cronisti delle Crociate, propone lo scontro tra due religioni e culture contrapposte, è un fatto che, nella concreta vicenda poetica, lo scontro assume piuttosto i connotati di un conflitto tra due codici, divenuti incompatibili, che si genera all’interno di una medesima cultura e di una medesima società, entrambe occidentali e cristiane: tanto è vero 15 che a misurarsi nella guerra, parallela a quella terrena, che si combatte in cielo non sono Dio e «Macometto» bensì Dio e Satana, la verità cristiana trovando come proprio antagonista non già una verità pagana ad essa alternativa, bensì piuttosto i principi di negazione ad essa connaturati, cioè l’errore, il male, l’eresia. Proprio come tali, infatti, cioè come negativi, erronei o quantomeno insufficienti, si confi20 gurano nella GL [Gerusalemme liberata] quei valori cavallereschi che la tradizione recente del genere aveva rifondato in senso umanistico: ovviamente secondo uno soltanto dei codici, anche se si tratta di quello ideologicamente privilegiato – è il punto di vista di Dio, dei Cristiani, di Goffredo – e di fatto storicamente vincente. Ed è per questo che soltanto sulla bocca di personaggi pagani è possibile ascoltare 25 l’affermazione degli ideali eroici di virtù e di onore, fatta con orgogliosa fierezza e in assenza di qualsiasi ottica religiosa o soprannaturale, sia pure pagana [...]. E non manca un richiamo a questi ideali neppure nel discorso in cui Satana rievoca la ribellione degli angeli caduti al Dio cristiano [...]. Sono dichiarazioni in cui ritornano motivi tipici di un sistema di valori storicamen30 te definiti: mito dell’homo faber, antagonismo fortuna/virtù; e sono dichiarazioni che invano cercheremmo di ritrovare sul versante cristiano, e non già perché tra le file dei crociati manchino grandi eroi, ma perché essi ispirano (o dovrebbero ispirare) la loro azione a un complesso di moventi e di ideali entro cui la dimensione umanistica individuale, quando non è assente, è purtuttavia subordinata alle 35 finalità di una collettiva missione di fede. Nei discorsi dei guerrieri cristiani il riconoscimento della positività dei valori cavallereschi si accompagna invariabilmente a un principio superiore che tali valori integri, senza il quale non è lecito sperare nella vittoria.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Individua e sintetizza le tesi sostenute dai due critici. 2. Con quali argomenti Zatti sostiene la propria tesi? 3. In che senso si può individuare una continuità tra le due interpretazioni? 4. La complessa situazione psicologica di Tasso e il conseguente ambivalente spirito che informa il suo poema sono anche il riflesso delle lacerazioni spirituali e ideologiche del tempo. Tenendo conto delle argomentazioni di Caretti e di Zatti, presenta la Liberata come espressione della crisi religiosa e culturale del secondo Cinquecento. Elabora le tue riflessioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo, in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

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4 Epistolario e Dialoghi 1 L’epistolario I turbamenti interiori Il corpus delle lettere di Tasso è molto vasto (circa 1700). Parzialmente pubblicate quando l’autore era in vita, sono indirizzate ad amici e a vari personaggi della società del tempo. In particolare, le lettere scritte durante la penosa reclusione a Sant’Anna forniscono molti elementi autobiografici. Tasso ritrae in esse la sua vita tormentata, il suo rapporto contradditorio con l’ambiente della corte, la sua sofferenza psichica, ma evidenzia anche la consapevolezza della propria genialità di poeta. I modelli letterari L’esperienza vissuta è però filtrata attraverso modelli letterari e mediata attraverso il controllo retorico tipico di un letterato del secondo Cinquecento.

2 I Dialoghi Una complessa elaborazione retorica In particolar modo durante la prigionia a Sant’Anna Tasso si dedicò alla stesura di dialoghi in prosa, componimenti tra poesia e filosofia che avevano come modello i dialoghi di Platone. I dialoghi di Tasso sono ventotto testi scritti tra il 1578 e il 1594 e pubblicati in modo sparso. I temi sono morali, filosofici, civili, ma ospitano anche aspetti autobiografici, in una prosa raffinata. I dialoghi infatti presentano una complessa elaborazione retorica, con citazioni letterarie e riferimenti culturali; si comprende quindi come Tasso, recluso a Sant’Anna, volesse offrire un’immagine delle proprie doti intellettuali e della propria cultura. I più noti sono Il messaggero e Il padre di famiglia, entrambi a sfondo autobiografico (➜ T13 OL). • Il messaggero Il primo descrive il colloquio del poeta con uno spirito apparsogli in carcere utilizzando toni cupi e sofferti. • Il padre di famiglia Scritto nel 1580 durante la reclusione a Sant’Anna e dedicato all’amico Scipione Gonzaga, il dialogo dal titolo Il padre di famiglia si riferisce ad un episodio realmente avvenuto: un incontro, nell’autunno del 1578, fra lo stesso Torquato Tasso, in fuga da Ferrara, e un saggio padre di famiglia. Tasso, infatti, nelle sue peregrinazioni inquiete, dopo un breve soggiorno a Urbino presso i della Rovere (occasione nella quale scrisse la Canzone al Metauro), si diresse in Piemonte nella speranza di ottenere la protezione del duca Emanuele Filiberto di Savoia; mentre viaggiava da Novara a Vercelli, nell’impossibilità di superare il fiume Sesia, molto ingrossato, ricevette l’ospitalità di un gentiluomo nella sua residenza di campagna. È questa la situazione rappresentata nel dialogo, di cui riportiamo l’inizio, in cui il viandante, in una notte di tempesta, trova ricovero nell’accogliente dimora di campagna presso Vercelli di un saggio “padre di famiglia” e con lui inonline trattiene una conversazione attorno al modo di governare la casa, T12 Torquato Tasso Le persecuzioni del folletto i possedimenti agricoli, la servitù. L’opera, tra le più interessanti Lettera LXV a Maurizio Cataneo nella produzione in prosa di Tasso, è ricca di valori simbolici perché testimonia la necessità dell’autore di trovare un rifugio sicuro online e protettivo, di pace e stabilità, e allo stesso tempo afferma il riT13 Torquato Tasso Il perfetto cortigiano e padre di famiglia tratto del perfetto uomo di corte e intellettuale secondo il modello Dialoghi, il padre di famiglia rinascimentale, con importanti riferimenti alla cultura classica. Epistolario e Dialoghi 4 1017


Ludovico Ariosto e Torquato Tasso

CONTESTO E PERSONALITÀ

POETICA

Ludovico Ariosto

Torquato Tasso

vive e scrive nel periodo di maggior splendore delle corti italiane

vive e scrive nel momento di crisi della civiltà cortigiana

temperamento placido, distaccato e sottilmente ironico

temperamento inquieto e insicuro

profondo e continuo legame con Ferrara e la sua corte

continui spostamenti, lungo tutta la vita, tra città e città, corte e corte, alla ricerca di stabilità e serenità

i punti di riferimento sono Virgilio, Ovidio, Catullo, Dante, Petrarca, i romanzi del ciclo bretone e il Boiardo

i punti di riferimento sono Omero, Aristotele, Virgilio, il teatro tragico del Quattrocento e del Cinquecento, Ariosto e Trissino

centrale, nell’Orlando furioso, è il fantastico, metafora dell’incertezza della vita

centrale, nella Gerusalemme liberata, è il verosimile, la rilettura della storia necessaria per fare emergere verità

il poema serve a intrattenere piacevolmente il pubblico

il poema serve a educare il pubblico

l’Orlando furioso è policentrico e labirintico

la Gerusalemme liberata è unitaria e armonica

online T14 Johann Wolfgang von

Goethe Tasso eroe romantico, pazzo per amore Torquato Tasso, atto IV, scena IV

online T15 Charles Baudelaire

Tasso in prigione, o l’«Anima... che il Reale soffoca fra i suoi muri» Sul Tasso in prigione di Eugène Delacroix, I relitti, Epigrafe XVI

online

Video e Audio Claudio Monteverdi, Il combattimento di Tancredi e Clorinda (1624)

Fissare i concetti Torquato Tasso 1. Perché la Canzone al Metauro del 1578 può considerarsi una chiave autobiografica del Tasso? 2. Perché la figura del Tasso ha costituito un tema di grande suggestione per la cultura romantica? 3. Quale rapporto ebbe Tasso prima con il cardinale Luigi d’Este e poi con il duca Alfonso II d’Este? 4. In cosa consiste la novità dello sperimentalismo stilistico delle Rime del Tasso? 5. In cosa consiste la vicinanza della favola pastorale Aminta ai madrigali del Tasso? 6. Qual è l’occasione “mondana” della composizione dell’Aminta? 7. In cosa consiste la trama della pastorale Aminta? 8. Quali sono le ragioni dell’intimo conflitto dei due protagonisti della pastorale, Aminta e Silvia? 9. Perché l’Orlando furioso e la Gerusalemme liberata presentano due opposte visioni del mondo? 10. Quale teoria letteraria, molto precisa e lucida, esprime Tasso nei Discorsi dell’arte poetica, che poi sarà alla base della composizione del poema? 11. In cosa consiste l’irruzione delle forze demoniache sulle dinamiche della guerra crociata e, allo stesso tempo, la presenza del magico e del meraviglioso nella Liberata? 12. Quali caratteristiche presenta l’avventura di Erminia fra i pastori nella Liberata? 13. In cosa consiste il dramma d’amore di Tancredi per Clorinda nella Liberata? 14. Quali caratteristiche ha la storia d’amore di Rinaldo e Armida nella Liberata? 15. Per quale motivo viene usata la categoria critica di “bifrontismo” tassiano per indicare un carattere tipico della Gerusalemme liberata? 16. In cosa consiste la differenza fra il narratore che interviene nell’Orlando furioso rispetto a quello della Gerusalemme liberata? 17. Perché è stata osservata l’abilità di Tasso nella cosiddetta “arte del montaggio”?

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Il secondo Cinquecento 19 Torquato Tasso

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

L’esistenza di Torquato Tasso, nato nel 1544 (un anno prima dell’inizio del concilio di Trento) è condizionata, come tutta la cultura italiana del tempo, dalla religiosità controriformistica, che condanna i valori edonistici e mondani in cui si era formato. La sua educazione è infatti raffinata, in quanto perfezionata nelle diverse località in cui si sposta a seguito del padre, gentiluomo di corte: tra esse spiccano Urbino, Venezia e Padova. Come poeta cortigiano, Tasso si pone dal 1565 al servizio degli Estensi, a Ferrara, dove compone i suoi capolavori: l’Aminta, rappresentata nel 1573, e la Gerusalemme liberata. Il poema sulla crociata è terminato verso il 1575: subito il poeta lo sottopone di propria volontà al giudizio di revisori ecclesiastici e accademici, ricevendone anche giudizi sfavorevoli per la scarsa conformità ai dettami controriformistici e per la prevalenza di episodi di contenuto amoroso o incentrati sulla magia rispetto a quelli di ispirazione propriamente religiosa. Quando Torquato, a partire dal 1579, comincia a manifestare disturbi psichici, almeno in parte dovuti alla severità delle critiche rivolte al suo capolavoro, viene rinchiuso nell’ospedale ferrarese di Sant’Anna; qui continua comunque la propria attività letteraria (scrive versi, i Dialoghi e rimaneggia, fino a concludere, una nuova versione della Gerusalemme) mentre una versione più recente del poema è pubblicata e diffusa contro la sua volontà. Liberato dal Sant’Anna nel 1586, preda di gravi disordini mentali e ossessionato da scrupoli religiosi, Tasso intraprende una vita errabonda per l’Italia in cui è spesso ospite di conventi, come quello di Sant’Onofrio a Roma. Qui muore nel 1595, un anno dopo aver pubblicato la Gerusalemme conquistata, la versione del suo poema rivista e resa più conforme all’ortodossia: ma, forse proprio per questo, per giudizio unanime artisticamente inferiore alla Liberata.

2 La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo

Le Rime: verso il superamento del modello petrarchesco Alla vita cortigiana possono essere ricondotte molte fra le numerose rime di Tasso (più di 1700), dedicate a molteplici temi (l’amore, la vita di corte, la religione) e realizzate tra il 1567 e il 1593. Si tratta di una poesia innovativa sia per la forma delle raccolte (non più organizzate come canzoniere, ma suddivise secondo un criterio tematico), sia per l’intensa musicalità, ottenuta attraverso un frequente uso degli enjambements e mediante l’ideazione di frequenti e complicate metafore (aspetti che rinnovano profondamente il modello petrarchesco); ma anche per le tematiche, tra cui emerge l’amore sensuale. Anche le rime a tema sacro, considerate meno ispirate rispetto a quelle della prima produzione, diventano un modello, nel Seicento, per la poesia religiosa.

L’Aminta Alle Rime può essere accostata l’opera teatrale Aminta (1573), favola pastorale di argomento amoroso, i cui personaggi, in particolare i protagonisti Aminta e Silvia, giovani e ingenui, rappresentano la semplicità della vita secondo natura. Nell’opera, in cinque atti, si alternano endecasillabi e settenari liberamente rimati, che la avvicinano metricamente ai madrigali e la caratterizzano come un precedente del melodramma. Contenutisticamente, altro elemento comune alla lirica è il prevalere delle parti dedicate all’espressione dei sentimenti su quelle utilizzate per narrare l’azione drammatica. Sintesi Il secondo Cinquecento

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Raccontando l’amore e la crescita di Aminta e Silvia, Tasso introduce numerosi temi. Il principale è quello della natura e dell’amore, fra loro strettamente collegati: il sentimento pervade l’universo e unisce esseri umani ed elementi naturali. Altro tema è il passaggio dall’infanzia all’età adulta, che coinvolge i due personaggi principali e avviene attraverso una difficile iniziazione. Questi due contenuti evidenziano la compresenza, nei due protagonisti, di onore e amore, come emergerà anche nella Gerusalemme liberata. Un altro tema, infine, è quello del tempo: l’azione si svolge in un solo giorno, secondo le indicazioni aristoteliche, ma la prospettiva temporale da cui la guardano i personaggi è molto più ampia. Il Re Torrismondo L’opera (1586) è una cupa tragedia ispirata all’Edipo re di Sofocle che riprende le norme della tragedia classica e racconta il dramma interiore (un conflitto tra opposti tipicamente tassiano) di Torrismondo, principe dei Goti, ambientandolo in un contesto nordico e spettrale.

3 La Gerusalemme liberata

Storia della Gerusalemme liberata Poema epico cristiano in venti canti, elaborato idealmente da Tasso a partire dall’adolescenza (attraverso l’esperienza della Gierusalemme e del Rinaldo) e fino agli ultimi anni di vita, la Gerusalemme liberata, il suo capolavoro, è un’opera di argomento eroico, che esprime una visione religiosa e controriformistica. Molto diversa, dunque, dal laico e cavalleresco Orlando furioso, con cui spesso viene confrontata e a cui resta comunque legata da altri aspetti, seppur non così significativi. Una prima composizione ha luogo dal 1565 circa al 1575. L’autore ne spedisce alcune parti a revisori scelti per verificare la possibile accoglienza delle autorità ecclesiastiche; viste le severe critiche ricevute, però, Tasso considera necessario un lungo processo di riscrittura, che termina solo nel 1593. Nel frattempo, durante la successiva carcerazione del letterato, alcuni editori stampano senza consenso alcune copie parziali della prima versione; un gruppo di amici dello scrittore, dunque, cura nel 1581 un’edizione più corretta e attendibile, che è ancora alla base di quelle odierne. La Gerusalemme conquistata, risultato in ventiquattro canti della riscrittura nel 1593, è molto diversa dalla Liberata: i pagani e i cristiani sono più nettamente contrapposti; il tema epico-guerresco prevale, mentre lo stile diventa uniformemente alto e solenne; l’opera non è apprezzata, però, dal pubblico, che preferisce continuare a leggere la Gerusalemme liberata. La riflessione teorica sul poema: i Discorsi dell’arte poetica Per comporre la Gerusalemme liberata, Tasso si dedica a molti studi di poetica, sintetizzati nel trattato in tre libri Discorsi dell’arte poetica (poi rielaborati e pubblicati come Discorsi del poema eroico). Per Tasso, la poesia deve tendere anzitutto a un fine educativo e perciò presentare esempi di condotta nobile e virtuosa. A tal fine, il poeta sceglie come argomento una vicenda storica, quindi credibile, ricca di valori morali e religiosi: la riconquista cristiana del Santo Sepolcro nella prima crociata (1096-1099). Consapevole che l’attrattiva di un poema, come aveva mostrato l’Orlando furioso, consista in una varietà che lasci spazio alla fantasia e all’immaginazione, ma deciso ad attenersi per quanto possibile al vero o al verisimile, il poeta teorizza l’intervento nella sua opera del «maraviglioso cristiano», un soprannaturale credibile per i fedeli, grazie a cui gli eventi straordinari e miracolosi sono dovuti all’apporto di forze angeliche e divine e, nel campo opposto, di aiutanti demoniaci al fianco degli infedeli. Tasso si focalizza anche sul rapporto tra varietà e unità. Per conciliare l’unità teorizzata da Aristotele con la varietà del Furioso, lo scrittore adotta l’idea neoplatonica del poema come un “picciolo mondo”, armonizzando varietà e unità. Inoltre, l’autore sceglie di utilizzare uno stile alto e sublime, distante dal colloquialismo ariostesco e caratterizzato da scelte lessicali

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raffinate, figure retoriche, sintassi complessa e legami impliciti tra le frasi, senza nessi logici sempre esplicitati (“parlar disgiunto”). La trama Un intervento divino ispira il capo della spedizione cristiana, il pio Goffredo di Buglione, a ridare slancio ai suoi soldati per conquistare la Città Santa. Tuttavia, durante l’assedio di Gerusalemme, molte tentazioni di natura diabolica distolgono i guerrieri cristiani dal dovere: la maga Armida attira diversi Crociati nel suo castello; il cavaliere ed eroe cristiano Rinaldo, responsabile di un omicidio dovuto a un attacco d’ira, viene cacciato dal campo, mentre il commilitone Tancredi è gravemente ferito in duello. La principessa musulmana Erminia, innamorata di Tancredi, cerca allora di soccorrerlo, senza però riuscirci; e la situazione si complica quando i pagani Argante e Clorinda incendiano la torre d’assedio necessaria per espugnare le mura gierosolimitane: Tancredi, senza riconoscere Clorinda, la affronta in combattimento e la ferisce mortalmente; la consapevolezza di aver ucciso il suo oggetto d’amore lo prostra fino a metterlo fuori gioco. Inoltre, la selva incantata da cui si dovrebbe prendere il legno per costruire una seconda torre d’assedio si rivela infestata da forze demoniache e, per concludere, un’ondata di siccità crea sofferenza e malcontento tra le truppe e verso i comandi. Ma un intervento divino ribalta la situazione: Goffredo, guidato da un sogno profetico, invia guerrieri a liberare Rinaldo dal fascino di Armida. Rinaldo, purificato, vince gli incantesimi della foresta e consente la ricostruzione degli strumenti d’assedio. La storia culmina con l’entrata in Gerusalemme, la liberazione del Santo Sepolcro, l’uccisione di Argante e la conversione di Armida al cristianesimo. I temi e le caratteristiche generali Tema principale dell’opera è il conflitto tra infedeli e cristiani: della lotta è mostrata senza sconti la violenza, secondo un’impostazione, dunque, diversa da quella dell’Orlando furioso. Importante è anche la magia: strumento di cui si servono entrambe le fazioni, può essere bianca o nera a seconda degli scopi che si prefigge chi l’utilizza; essa è realizzazione visibile di un conflitto cosmico tra Bene e Male (rappresentati sulla Terra dalle due fazioni opposte) che continua anche nella coscienza dei Crociati: Tasso, infatti, descrive approfonditamente, e con intuizione assai moderna, l’interiorità perennemente scissa dei personaggi. Principale motivo di peccato e altro fulcro tematico del poema è l’amore, che nell’opera tassiana lega per lo più gli appartenenti ai diversi eserciti: così il crociato Tancredi ama la nemica Clorinda che, senza riconoscere, finirà per uccidere, ed è a sua volta amato da Erminia, figlia del re di Antiochia. Anche Rinaldo, irretito dalle arti magiche e dalla sensualità della maga Armida, trascura le armi e solo in ultimo ritorna al suo dovere di crociato, mosso dall’intervento dei compagni Carlo e Ubaldo, inviati da Goffredo. La guerra santa trova così un triplice campo d’azione: in primo luogo quello propriamente bellico fra i due eserciti nemici; in secondo, il conflitto interiore dei crociati erranti, divisi tra valori rinascimentali, edonistici e valori controriformistici, religiosi; infine lo scontro cosmico tra le forze di Dio e quelle di Satana, originalmente presentato da Tasso come campione di libertà eroica. L’attrazione presente tra avversari ha sempre suscitato interrogativi, che inevitabilmente hanno condotto a chiedersi cosa rappresentino le due schiere nel sistema simbolico del poema e chi siano gli “infedeli” secondo Tasso. Alla ricerca di una spiegazione, alcuni critici hanno introdotto il concetto di “bifrontismo spirituale”, evidenziando una permanente ambivalenza valoriale del poema; si è suggerito che dietro all’opposizione tra musulmani e cristiani non ci sia solo un conflitto ideologico, ma un contrasto interno alla cultura del tempo di Tasso. Questo conflitto riflette la lotta tra il codice culturale rinascimentale e i principi controriformistici, rendendo il poema un campo di tensioni tra valori opposti.

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La medesima opposizione si riscontra in Tasso stesso, che è deciso a proporre i valori controriformistici ma vive un’opposta attrazione per i valori considerati “devianti”, dimostrata dalla riuscita della loro rappresentazione artistica nel poema. Le modalità narrative In effetti l’autore mostra una certa simpatia per gli “infedeli”, di cui adotta spesso il punto di vista, anche aderendo in modo non troppo nascosto ai loro valori. Gli avversari non sono semplici esponenti della cultura musulmana, ma incarnazione di valori rinascimentali, opposti al mondo monolitico e gerarchico dei Crociati. Addirittura anche Lucifero viene presentato con tratti nobili ed eroici. Nel campo cristiano, al contrario, emerge un contrasto tra il rispetto del dovere e le deviazioni da esso, con Goffredo unico modello di eroe controriformistico. Tuttavia, proprio costui risulta, al gusto dei lettori, scialbo artisticamente rispetto ai personaggi “erranti” come Tancredi e Rinaldo, che rappresentano la difficoltà a bilanciare l’attrazione esercitata dai valori cavallereschi e il rispetto di quelli della fede. Questo scenario è reso magistralmente da Tasso curando, con particolare sensibilità, la resa del lato psicologico dei personaggi, innovativa rispetto allo stile dei predecessori. Dal punto di vista narrativo, nella Gerusalemme liberata il narratore non si serve delle ironiche riflessioni ariostesche ma, al contrario, intensifica il pathos per coinvolgere emotivamente il lettore, riflettendosi e volendo far immedesimare nei sentimenti dei personaggi senza distinzioni tra cristiani e musulmani. La focalizzazione si alterna tra i due schieramenti, anche nell’episodio culmine della presa di Gerusalemme: un accadimento particolarmente partecipato dai protagonisti della storia e che evidentemente simboleggia il crollo irreversibile degli ottimistici ideali rinascimentali. Per quanto riguarda il modello spaziale, la Gerusalemme liberata è un “poema del Cosmo”, in quanto capace di ambientare l’azione sia su una dimensione “orizzontale” sia su quella “verticale”, offrendo quindi un’immagine completa del mondo ed evidenziando simbolicamente un conflitto che attraversa tutte le realtà. Lo spazio orizzontale rappresenta l’allontanamento da Gerusalemme, simbolo del dovere e dell’onore; il ritorno al “centro” implica anche un percorso “verticale”, ispirato ai valori religiosi e collegato al “maraviglioso cristiano”, con le sue scene grandiose anticipatrici del Barocco. Il fascino della Gerusalemme liberata è legato anche al contrasto tra elementi opposti, connessi con un esercizio di montaggio di stile quasi cinematografico. Scene epiche si alternano a situazioni patetiche e sentimentali, creando un effetto chiaroscurale. A ciò si accompagna una resa innovativa del paesaggio, che risulta sempre correlato agli stati d’animo dei personaggi. Il poema è principalmente notturno, con episodi drammatici che si svolgono tra le tenebre, illuminati da rare luci, richiamando la pittura manieristica. Ma anche le scene diurne presentano un significato simbolico: l’associazione tra alba e rinascita spirituale, ad esempio, è evidente. Le scelte stilistiche e metriche La varietà e l’unità, che sottolineano i tormenti di Tasso e del suo tempo, si rilevano anche nello stile. Il poeta si muove tra diversi generi letterari, fondendo poema cavalleresco, rinascimentale ed epico, dando comunque spazio a momenti lirici negli episodi patetici e amorosi e a episodi riconducibili al genere tragico. Seguendo il principio classicistico della congruenza dello stile all’argomento, Tasso adotta per le scene epiche ed “eroiche” uno stile elevato e “magnifico”, evidenziato da uno studiato rallentamento del discorso. Questo effetto è prodotto soprattutto da quello che il poeta definisce «parlar disgiunto»: una disposizione degli elementi del discorso diversa da quella abituale, con inversioni e spezzature di coppie sintagmatiche. Il lessico è selezionato all’interno di un registro elevato. In rapporto, poi, alle diverse situazioni rappresentate, si alternano differenti modalità stilistiche, da quella epica a quella

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lirica. Alle due tipologie stilistiche corrispondono differenti scelte lessicali. Al versante epico si possono ricondurre i termini tecnici riferiti alla guerra e gli aggettivi che suggeriscono idee di magnificenza. Il versante lirico si traduce invece in un lessico “interiore”, costituito di termini riferiti ai sentimenti, capace di suscitare un profondo coinvolgimento con il lettore. L’ordito stilistico è cadenzato da frequenti enjambements, che ne variano il ritmo, accrescono la grandiosità delle immagini epiche ed evidenziano il sentimento delle sezioni liriche; ma gli effetti stilistici sono improntati alla varietà.

4 Epistolario e Dialoghi

L’epistolario Tasso scrive circa 1700 lettere, che forniscono molti elementi autobiografici (la sua vita tormentata, il suo rapporto con la corte, la sofferenza psichica, le sue idee sulla letteratura) anche se filtrati da modelli illustri ed elaborati con un sapiente uso della retorica. I Dialoghi Durante la prigionia, Tasso elabora ventotto raffinati dialoghi in prosa (15781594), componimenti tra poesia e filosofia che avevano come modello i dialoghi di Platone e contenuti morali, filosofici, civili, ma anche autobiografici. I più celebri sono Il messaggero e Il padre di famiglia (una tra le più interessanti opere tassiane: profondamente simbolica e testimone della necessità dell’autore di trovare un rifugio sicuro, ma anche un ritratto del perfetto uomo di corte e intellettuale rinascimentale).

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Immagina un dialogo tra Ariosto e Tasso in cui ciascuno presenti sé stesso, il contesto a cui appartiene, il proprio pensiero, il sistema di valori; metti soprattutto in evidenza le possibili differenze e analogie. 2. Presenta in chiave moderna una tua personale riscrittura della vicenda di Erminia, inserendola in un contesto narrativo contemporaneo. 3. Prova a riscrivere in prosa l’episodio di Tancredi e Clorinda o un altro episodio della Gerusalemme liberata a tua scelta, in cui sia introdotto qualche mutamento rispetto alla narrazione tassiana.

Intervista

4. Immagina di far parte della redazione delle pagine culturali di una rivista. Devi realizzare un’intervista immaginaria con il poeta Torquato Tasso su queste tematiche: · rapporto tra intellettuale e potere (politico e religioso); · analogie e differenze con l’opera di Ariosto; · verisimile e maraviglioso; · le figure femminili e la rappresentazione dell’amore; · il fascino del magico; · il conflitto tra cristiani e pagani.

Recensione

5. Dopo aver ascoltato Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi (OL), uno dei Madrigali del musicista Claudio Monteverdi (1567-1643), scrivi una recensione da pubblicare su un blog di musica classica, cercando di evidenziare i rapporti tra la musica e il testo scritto.

Competenze digitali

6. Scegli un’applicazione nel web e rendi interattivo un quadro che ti appaia adatto a esprimere un episodio della Gerusalemme da te scelto.

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Torquato Tasso

Erminia sotto lo «stellato velo» della notte Gerusalemme liberata VI, 102-106 T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983

Erminia ha mandato a Tancredi il suo scudiero per annunciargli l’arrivo di una donna (di cui non svela il nome) che lo ama e vuole curarlo. Eccola mentre sta aspettando ansiosamente il ritorno del messaggero.

102 Ma ella intanto impaziente, a cui troppo ogni indugio par noioso e greve1, numera fra se stessa i passi altrui2 e pensa: «or giunge, or entra, or tornar deve». E già le sembra, e se ne duol, colui men del solito assai spedito e leve3. Spingesi al fine inanti4, e ’n parte ascende onde comincia a discoprir le tende5. 103 Era la notte, e ’l suo stellato velo chiaro spiegava e senza nube alcuna e già spargea rai luminosi e gelo di vive perle la sorgente luna6. L’innamorata donna iva co ’l cielo le sue fiamme sfogando7 ad una ad una, e secretari8 del suo amore antico fea i muti campi e quel silenzio amico. 104 Poi rimirando il campo ella dicea: – O belle a gli occhi miei tende latine9! Aura spira da voi che mi ricrea10 e mi conforta pur che m’avicine11; così a mia vita combattuta e rea qualche onesto riposo il Ciel destine12, come in voi solo il cerco, e solo parmi che trovar pace io possa in mezzo a l’armi13.

1 noioso e greve: angoscioso e insopportabile. 2 numera… altrui: conta fra sé e sé i passi dello scudiero.

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3 spedito e leve: veloce e agile. 4 inanti: avanti. 5 ’n parte… tende: sale in un luogo da cui comincia a vedere (le tende del campo cristiano).

6 spargea rai… luna: già la luna appena sorta spargeva raggi lucenti e freschezza di viva rugiada (gelo di vive perle: le gocce di rugiada, illuminate dalla luna, risplendono come perle). 7 iva… sfogando: andava sfogando i suoi sentimenti amorosi (fiamme) con il cielo. 8 secretari: confidenti. 9 O belle… latine: l’aggettivo latine, in rilievo alla fine del verso, in questo caso equivale a “cristiane”. 10 mi ricrea: mi rincuora. 11 mi conforta… avicine: mi invita ad avvicinarmi. 12 così a mia vita… destine: così alla mia vita tormentata e dolorosa (combattuta e rea) il Cielo possa destinare qualche giusta tregua. 13 come in voi… a l’armi: come in voi solo lo cerco (il riposo) e mi sembra che possa trovar pace solo fra le armi.


105 Raccogliete me dunque, e in voi si trove14 quella pietà che mi promise Amore e ch’io già vidi, prigioniera altrove, nel mansueto mio dolce signore15. Né già desio di racquistar mi move co ’l favor vostro il mio regale onore16; quando ciò non avenga, assai felice io mi terrò se ’n voi servir mi lice17. – 106 Così parla costei, che non prevede qual dolente fortuna a lei s’appreste. Ella era in parte ove per dritto fiede l’armi sue terse il bel raggio celeste, sí che da lunge il lampo lor si vede18 co ’l bel candor che le circonda e veste, e la gran tigre ne l’argento impressa fiammeggia sì ch’ognun direbbe: «È dessa19.» 14 si trove: si trovi. 15 prigioniera… signore: Erminia ricorda il tempo in cui era stata prigioniera di Tancredi. 16 Né già… onore: Né mi spinge il desiderio di riacquistare il mio

Comprendere e analizzare

Interpretare

onore di regina col vostro sostegno (dei cristiani). 17 assai felice... lice: mi considererò assai felice se mi sarà concesso di servire voi (nelle tende latine).

18 era in parte… si vede: era in un luogo dove il bel raggio della luna (celeste) colpiva direttamente le sue lucidate armi, cosicché da lontano se ne vede la lucentezza. 19 È dessa: È lei.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Riassumi il contenuto delle ottave in 10 righe. 2. Qual è il motivo dell’impazienza di Erminia? Dove si svolge la vicenda narrata? 3. Per quale ragione l’accampamento nemico è per Erminia il luogo più dolce? 4. Per chi viene scambiata Erminia? Sintetizza in tre righe l’ottava 106. 5. Fai la parafrasi dell’ottava 103. 6. Quale figura retorica presenta il verso «O belle a gli occhi miei tende latine!» (104, 2)? Spiega se, e nel caso in che modo, il ricorso a questa figura retorica sia funzionale al significato. 7. Riconosci i termini e le espressioni (lessico, figure retoriche) che: a. esprimono l’antitesi tra pace e guerra; b. descrivono il dissidio interiore di Erminia. 8. Spiega l’espressione «mansueto mio dolce signore» (105, 4). 9. Spiega il sintagma dolente fortuna (106, 2). 10. Individua i punti in cui sono presenti interventi del narratore: quale funzione svolgono? La vicenda di Erminia presenta alcune analogie con la storia amorosa di Angelica, quando incontra Medoro: quali? Quali differenze, invece, si riscontrano? Svolgi un confronto tra le due eroine, Erminia e Angelica, e prova a mettere in evidenza: a. il diverso temperamento; b. la necessità di fuggire; c. la visione dell’amore. Erminia sembra condannata a vivere la dimensione di profonda solitudine propria di altre eroine tassiane. In un breve scritto (max 15 righe) fai alcune osservazioni in merito, partendo dalla descrizione dei tratti distintivi della solitudine di questo personaggio.

Verso l’esame di Stato

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Indice dei nomi A Achille, 844, 847 Adimari (famiglia), 218 Agostino d’Ippona, 25, 26, 34, 54, 223, 254, 294, 306, 310, 311, 317, 321, 323, 326, 329, 330, 337, 343, 351, 362, 365, 383, 384, 398 Agrippa, Heinrich Cornelius, 604 Alberti, Leon Battista, 528, 531, 534, 538, 547, 548, 568, 574, 598, 772, 828 Alberto Magno, 13, 187, 216, 254 Alessandro Magno, 629, 631 Alessandro VI, 814, 838, 845, 847, 936 Alfani, Gianni, 173, 215 Alfieri, Vittorio, 863 Alfonso X di Castiglia, 122 Alighieri, Dante, 8, 9, 11, 12, 21-23, 27, 3237, 39, 43-45, 50, 52, 53, 55, 68, 71, 82, 86, 100, 103, 107, 116, 120, 123, 124, 138, 148, 151, 153-155, 163, 168, 172-175, 178-180, 182, 185, 186, 190, 194, 195, 203, 210, 212, 214-233, 235, 237-240, 242-249, 251-262, 264, 266-269, 271275, 280-291, 293, 295, 296, 298, 304, 310, 311, 321, 323, 331, 332, 334, 335, 337, 340, 343, 347, 357, 362, 370, 373, 374, 381, 386, 393, 397, 400, 404, 409, 415, 423, 461, 490, 509, 510, 528, 560, 563, 585, 638, 698, 700, 710-712, 769, 812, 847, 855, 886, 951, 970, 985 Alighieri, Pietro, 214 Alighiero II, 214 Almansi, Guido, 710 Altieri Biagi, Maria Luisa, 793 Ambrogini, Angelo, 584 Ambrogio di Milano, 25 Angiolieri, Francesco detto Cecco, 33, 39, 160, 202, 203, 205-209, 245, 669, 679 Annibale, 893, 894 Anselmi, Gian Mario, 905, 974, 986 Antonello da Messina, 567 Apuleio, Lucio, 392 Aragona, Alfonso d’, 594 Aragona, Beatrice d’, 604 Aragona, Federico d’, 594 Aragona, Ferdinando II detto il Cattolico, 834, 846 Archimede, 554, 575 Ardinghelli, Pietro, 820 Aretino, Pietro, 545, 577, 558, 564, 566, 614, 615, 617-619, 634, 791, 793, 798, 799, 809 Ariosto, Ludovico, 395, 396, 527, 539, 545, 559, 563, 566, 606, 665, 666, 672, 673, 684, 687-700, 702-705, 707-711, 713-

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Indice dei nomi

716, 718, 719, 721, 722, 729, 732, 733, 735, 736, 739, 740, 745, 746, 748, 749, 752, 755, 756, 761, 766-769, 771-775, 777-779, 785, 789, 791, 808, 912, 949, 960, 974, 977, 987, 992, 993, 999, 1001, 1006 Ariosto, Niccolò, 690 Ariosto, Virginio, 692 Aristotele, 13, 27, 29, 53, 54, 183, 186, 200, 216, 254, 255, 257, 274, 521, 550, 562, 575, 579, 633, 789, 841, 946, 949, 955, 959, 977, 988, 1020 Arnaut, Daniel, 82, 232, 251, 294 Arpino, Giovanni, 793 Arriaga Flórez, Mercedes, 192 Arrigo VII, 6, 219, 271, 293 Artaserse, 629 Asburgo, Massimiliano I d’, 813 Asor Rosa, Alberto, 654, 913, 917 Auerbach, Erich, 34, 65, 284, 285 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, 285, 545 Avalos, Ferdinando Francesco d’, 646 Averroè, 183 Avicenna, 185 Azalais de Porcairagues, 90-92

B Bachtin, Michail Michajlovič, 15, 60, 199, 628, 631 Bacone, Francesco (Francis Bacon), 861, 913 Balducci, Ernesto, 105 Bandello, Matteo, 505, 559, 653-656, 658, 659, 663, 664 Baratto, Mario, 413 Battaglia Ricci, Lucia, 393, 394, 397, 411, 656 Battisti, Eugenio, 614 Bellarmino, Roberto, 946 Belli, Giuseppe Gioachino, 160 Bellini, Giovanni, 606 Bellini, Niccolò, 606, Bellonci, Maria, 606 Belo, Francesco, 791 Bembo, Pietro, 43, 340, 414, 521, 539, 545, 557, 559, 561-564, 576, 577, 584, 598, 600-604, 614, 615, 617-619, 633, 635, 636, 638, 640-642, 651, 675, 684, 690, 693, 705, 715, 778, 791, 792, 800, 831, 873, 906, 944 Bendidio, Lucrezia, 959 Benedetto da Norcia, 5, 15 Benedetto XI, 107 Bentivoglio (famiglia), 851

Benucci, Alessandra, 692, 693 Benvenuti, Paolo, 938 Berlinghieri, Bonaventura, 51 Bernardo di Chiaravalle (Clairvaux), 66, 225 Bernart de Ventadorn, 81 Berni, Francesco, 160, 577, 615, 638, 640642, 651, 873 Béroul, 70 Bertran de Born, 81 Bertrando del Poggetto, 267 Bezzola, Guido, 353 Bibbiena, Bernardo Dovizi detto, 557, 602, 785, 791, 792, 794, 809, 876 Bigi, Emilio, 585 Boaistuau, Pierre, 663 Boccaccio, Giovanni, 8, 15, 21, 23, 32, 39, 43, 47, 50, 52, 54, 55, 125-127, 136, 142, 150, 182, 198, 200, 210, 215, 216, 218, 219, 264, 272, 301, 302, 306, 307, 309, 331, 388-402, 404-411, 413-416, 419, 420, 423, 424, 426, 434-436, 439, 440, 443-445, 451-453, 462-464, 467, 468, 470, 472-476, 479, 481, 488, 490, 491, 497, 503, 505, 507-511, 513, 521, 562, 563, 601, 621, 653-656, 664, 666, 679, 707, 716, 739, 792, 797, 812, 875, 885, 951 Boezio di Dacia, 183 Boezio, Severino, 216, 223, 253, 254, 294, 316, 317, 384 Boiardo, Matteo Maria, 539, 558, 560, 562, 601, 636, 641, 665, 668, 669, 671-673, 675, 680, 682, 684, 686, 687, 693, 703705, 713, 714, 716, 718, 719, 727, 743, 772, 778, 960, 974, 1001 Bologna, Corrado, 698, 704 Bonaventura da Bagnoregio, 29, 100, 123, 216, 225 Bonifacio VIII, 7, 102, 107, 123 Bonnà, Febo, 961, 975 Bonvesin de la Riva, 22, 23, 122, 124, 146 Borges, Jorge Luis 11, 413 Borgia (famiglia), 862 Borgia, Cesare detto il Valentino, 606, 814, 816, 845, 850, 852, 854, 857, 888, 892, 936 Borgia, Lucrezia, 604, 640 Borsellino, Nino, 285, 474, 614, 886 Bosco, Umberto, 966 Botero, Giovanni, 862, 943, 950 Botticelli, Sandro, 357, 443, 529, 550, 586, 588, 590 Braca, Vincenzo, 798 Bracciolini, Poggio, 528, 529, 531, 532, 655, 872


Brahe, Tycho, 536, 945 Branca, Vittore, 225, 393, 402, 412, 413, 415, 488, 499 Brandano, 13 Brooke, Arthur, 663 Bruegel, Pieter il Vecchio, 621 Brunelleschi, Filippo, 528, 534, 568 Bruni, Francesco, 474 Bruni, Leonardo, 529, 547, 548, 872 Bruno, Giordano, 44 Bruscagli, Riccardo, 673 Bruto, Marco Giunio, 630 Buonarroti, Michelangelo, 544, 546, 559, 637, 638, 643, 644, 646, 947, 952, 953 Buondelmonti, Zanobi, 869 Burchiello, Domenico di Giovanni detto 160, 638, 651, 669 Burke, Peter Ulick, 542, 605 Buzzati, Dino Traverso, 11

C Cabani, Maria Cristina, 713 Cacciaguida, 214, 490 Calvino, Italo, 79, 133, 413, 705, 735, 774, 775 Campanella, Tommaso, 44 Campanile, Achille, 536, 655 Canova, Gianni, 508 Capella, Galeazzo Flavio, 604 Cappellano, Andrea, 69, 82, 85, 86, 89, 157, 172 Caprara, Antonia, 671 Carandini, Andrea, 787 Cardini, Franco, 128, 938 Caretti, Lanfranco, 693, 703, 712, 714, 968, 982-984, 987, 1015 Carlo Magno, 5, 47, 669, 718 Carlo V, 524, 601, 603, 617, 646, 901, 918, 928, 952, 958 Carlo VIII, 523, 671, 694, 824, 828, 849, 903, 907, 909 Carne-Ross, Donald, 713 Carpaccio, Vittore, 567 Casavecchia, Filippo, 817 Cassio Longino, Gaio, 630 Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio, 33 Castellani, Renato, 663 Castelloza, 90 Castelvetro, Ludovico, 979 Castiglione, Baldesar (o Baldassarre) 539, 545, 557, 561, 574, 577, 601-603, 606610, 614, 615, 617, 634, 645, 646, 654, 959, 698, 707, 792, 831, 944 Cato, Ercole, 960 Catullo, Gaio Valerio, 527, 606, 693, 971 Cavalca, Domenico, 119 Cavalcanti, Guido, 33, 39, 86, 107, 146, 151, 153, 173, 174, 179-187, 189, 190, 194, 195, 215-217, 219, 221-223, 225, 229, 230, 245, 247, 251, 261, 293, 294, 334, 357 Cecco d’Ascoli, 301

Celestino V, 102 Cellini, Benvenuto, 559, 577, 615, 616, 634 Cerchi (famiglia), 218 Cerrato, Daniele, 192 Cervantes, Miguel de, 505, 603, 776, 780 Cesare, Gaio Giulio, 364 Ceserani, Remo, 862 Chabod, Federico, 863 Chatwin, Bruce, 134 Chaucer, Geoffrey, 142, 150, 505-508 Cherchi, Paolo, 339 Chirone, 844, 847 Chrétien de Troyes, 68-71, 93 Cicerone, Marco Tullio, 27, 28, 33, 53, 126, 147, 216, 253, 280, 306, 308, 311, 312, 316, 317, 324, 384, 392, 534, 537, 548, 557, 630, 827, 841, 844, 847 Cielo d’Alcamo, 153, 164, 167 Cimabue, Cenni di Pepo detto, 50 Cino da Pistoia, 39, 173, 181, 194, 261, 305, 391 Ciro il Grande, 629, 631, 837, 854, 855, 857 Clemente V, 301 Clemente VI, 313 Clemente VII, 615, 815, 872, 901, 902, 905, 909, 918, 920, 926-928 Cola di Rienzo, Nicola di Lorenzo Gabrini detto, 307, 324 Collalto, Collatino di, 646 Colocci, Angelo, 153 Colombo, Cristoforo, 524, 535 Colonna, Fabrizio, 871 Colonna, Vittoria, 645-647, 651 Commandino, Federico, 959 Compagni, Dino, 38, 146, 147, 150, 301 Compiuta Donzella, 169, 170 Contessa di Dia, 90 Contini, Gianfranco, 109, 239, 240, 249, 340, 356, 493, 716 Copernico, Niccolò, 44, 536, 574, 945, 955 Cornaro, Alvise, 799 Cornaro, Caterina, 599, 604 Corradino di Svevia, 475 Corti, Maria, 183, 188, 216, 252, 333 Costantino I il Grande, 533 Cromwell, Thomas, 603 Cukor, George Dewey, 663 Cutinelli-Rèndina, Emanuele, 827 Cybo, Francesco, 908

D D’Angeluzzo, Giovanni, 958 D’Annunzio, Gabriele, 136, 366 D’Azeglio, Massimo, 856 Daniele da Volterra, Ricciarelli Daniele detto, 940 Dante da Maiano, 154 Dario, 629, 631 Davanzati, Chiaro, 168, 172 Davico Bonino, Guido, 695, 876, 877 De Andrè, Fabrizio, 207

De Mauro, Tullio, 291 De Robertis, Domenico, 242 De Sanctis, Francesco, 154, 312, 354, 863, 876, 913, 921, 923 Debenedetti, Santorre, 697 Degli abati, Gabriella (Bella), 213 Della Casa, Giovanni, 557, 577, 604, 605, 611, 613, 634, 635, 637, 638, 651, 963 Della Genga, Leonora, 192, 193 Della Rovere (famiglia), 601 Della Rovere, Francesco Maria, 792, 959 Della Rovere, Guidobaldo II, 959 Della Scala, Bartolomeo, 663 Della Scala, Cangrande, 219, 271-273, 295 Demostene, 630 DiCaprio, Leonardo Wilhelm, 663 Diderot, Denis, 862 Diogene, 630, 631 Dionigi di Borgo San Sepolcro, 326, 330, 391 Dionisotti, Carlo, 641 Doglio, Federico, 799 Dolce, Ludovico, 272 Domenichi, Ludovico, 604 Domenico di Guzmán, 7, 100, 123 Donatello, Donato Bardi detto, 568 Donati (famiglia), 218 Donati, Forese, 33, 214, 216, 217, 245, 294 Donati, Gemma, 214, 218 Donne, John, 945 Donzelli, Carmine, 836 Dotti, Ugo, 309 Dreyer, Carl Theodor, 938

E Eco, Umberto, 101, 132, 200 Eginardo, 66 Elia da Cortona, 101 Enzo di Svevia, 153 Epaminonda, 630 Epicuro, 527, 531, 537 Epitteto, 630, 631 Eraclito, 339 Erasmo da Rotterdam, 545, 547, 562, 627, 711 Ermete Trismegisto, 550 Erspamer, Francesco, 646, 652 Esiodo, 972 Esopo, 698 Este (famiglia), 671, 674, 686 Este, Alfonso I d’, 691, 692, 704, 777 Este, Alfonso II d’, 960-962, 975 Este, Beatrice d’, 604 Este, Eleonora d’, 959, 960, 963 Este, Ercole I d’, 606, 690, 788, 789 Este, Ippolito d’, 691, 696, 704, 777 Este, Isabella d’, 567, 604, 606, 704, 707 Este, Lucrezia d’, 960, 961, 963, 975 Este, Luigi d’, 959, 960 Euclide, 30 Euripide, 585, 798

Indice dei nomi

1027


F Fabio Massimo, Quinto, 630, 894 Facciotti, Guglielmo, 962 Federico II di Prussia, 862 Federico II di Svevia, 39, 152, 153, 165, 167, 168, 253, 261, 263 Fedi, Roberto, 969, 990 Fedro, 698 Fenoglio, Giuseppe detto Beppe, 109 Ferroni, Giulio, 621, 646, 694, 859 Ficino, Marsilio, 521, 529, 532, 543, 548551, 575, 580, 584, 586, 591, 669, 851, 939 Fiennes, Joseph, 663 Filippo II, 935, 959 Firenzuola, Agnolo, 656 Florimonte, Galeazzo, 604 Floro, Lucio Anneo, 375 Folengo, Girolamo detto Teofilo, 577, 615, 619-623, 625, 626, 634 Fornasiero, Serena, 365 Fortini, Franco, pseudonimo di Franco Lattes, 290 Foscolo, Ugo, 160, 382, 863 Foucault, Paul-Michel, 973 Francesco d’Assisi, 7, 24, 40, 54, 99-101, 104, 105, 123, 127, 817, 900 Francesco da Barberino, 409 Francesco I, 617, 658, 952 Franco, Veronica, 645 Fregoso, Cesare, 658 Fregoso, Federico, 602 Fregoso, Ottaviano, 609 Freud, Sigmund, 655, 945, 973, 981 Fromm, Erich, 973 Fubini, Mario, 990

G Gadda, Carlo Emilio, 109, 335, 413 Galeazzo di Tàrsia, 637, 638 Galeno, 186, 555 Galilei, Galileo, 44, 536, 554, 556, 776, 827, 945 Galli, Antonello, 959 Gama, Vasco de, 524 Gambara, Veronica, 604, 645 Garzoni, Tommaso, 566 Genga, Gerolamo, 792 Gentillet, Innocent, 862 Getto, Giovanni, 713 Giacomino da Verona, 122, 124 Giamboni, Bono, 126 Giano della Bella, 218 Giasone, 847 Gilbert, Felix, 863 Gilio, Giovanni Andrea da Fabriano, 192 Gioacchino da Fiore, 100 Gioberti, Vincenzo, 827 Giorgione, Giorgio da Castelfranco detto, 707

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Indice dei nomi

Giotto di Bondone, 50, 51, 286, 568 Giovanni Battista, 301 Giovanni Paolo II, 29 Giovenale, Decimo Giunio, 696 Giraldi, Giambattista Cinzio, 656, 950 Girolamo, 25 Giulio II, 691, 851, 852 Giulio Romano, Giulio Pippi de’ Jannuzzi detto, 947 Giustiniano I, 266 Goethe, Johann Wolfgang von, 83, 981 Goffredo di Monmouth, 68 Golding, William, 973 Gonzaga (famiglia), 601, 633, 658 Gonzaga, Elisabetta, 602, 604, 606 Gonzaga, Francesco II, 606, 704 Gonzaga, Francesco, 570, 584, 587, 790 Gonzaga, Guglielmo, 959 Gonzaga, Ludovico II, 570 Gonzaga, Margherita, 961 Gonzaga, Scipione, 960, 962 Gonzaga, Vincenzo, 962 Gorni, Guglielmo, 243, 247 Gostanza da Libbiano, 938 Gramsci, Antonio, 861, 863 Gran Khan, Qubilai detto, 129, 131, 134 Gregorio Magno, 14 Griffo, Francesco, 562 Guardati, Tommaso, 655 Guarini, Giovan Battista, 606, 950, 960 Guarino Veronese, 547, 567, 575, 606 Guarino, Battista, 789 Guglielmino, Salvatore, 807 Guglielmo d’Aquitania, 81, 87 Guglielmo di Ockham, 310 Guicciardini, Francesco, 539, 815, 816, 845, 866, 872, 888, 899-907, 909, 911918, 920-922, 926-928 Guido da Polenta, 219 Guido delle Colonne, 152, 153, 155, 159 Guillaume de Lorris, 246 Guinizzelli, Guido, 33, 39, 86, 151, 163, 172175, 177-182, 194, 214, 215, 221, 223, 225, 235, 239, 243, 245, 251, 253, 293, 294, 323, 357 Guinizzello di Magnano, 173 Guittone d’Arezzo, 39, 151, 168, 169, 172, 174, 180, 182, 194, 232, 245 Gutenberg, Johannes, 562, 565

H Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 861, 863 Hobbes, Thomas, 973 Howard, Leslie, 663 Hume, David, 913

I Ignazio di Loyola, 937, 939, 940, 943 Imai Messina, Laura, 134, 135 Ingegneri, Angelo, 975

Inglese, Giorgio, 827, 830 Innocenzo III, 7, 9, 13, 17, 101, 530 Innocenzo VIII, 551 Ippocrate, 186, 555

J Jacopo (o Giacomo) da Lentini, 152, 153, 155-160, 163, 167, 214, 594 Jacopone da Todi, 15, 34, 38, 54, 99, 100, 107-111, 113, 123, 166, 786, 808 Jaufré, Rudel, 81, 156, 157 Jean de Meung, 246 Johnson, Ben, 862 Joyce, James, 335

K Kant, Immanuel, 44 Keplero, Giovanni, 536, 945 Kerouac, Jack, 134

L Landino, Cristoforo, 537, 550 Landolfi, Tommaso, 11 Lapo Gianni, 173, 194, 215, 247 Lascaris, Costantino, 563 Latini, Brunetto, 21, 33, 126, 138, 147, 148, 174, 214, 253 Laura, 305 Lauriello, Giuseppe, 170 Le Goff, Jacques, 10, 24 Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 44 Leonardo da Vinci, 554-556, 571, 572, 575, 601, 606, 654, 659, 664 Leone III, 718 Leone X, 691, 692, 814, 817, 820, 823, 855, 901, 920, 926 Leonzio Pilato, 392 Leopardi, Giacomo, 163, 338, 364, 776, 945, 989 Leto, Pomponio, 543 Levi, Primo, 627 Lippo di Benivieni, 497 Livio, Tito, 280, 310, 311, 315, 384, 812, 864, 867, 870, 890 Locke, John, 913 Lorenzetti, Ambrogio, 50, 51 Lotario da Segni, 17 Luca, 472 Lucano, Marco Anneo, 27, 280 Luciano di Samosata, 772 Lucrezio Caro, Tito, 186, 531, 532, 812, 992, 993 Luhrmann, Mark Anthony, detto Baz, 663 Luigi da Porto, 654, 663 Luigi XII, 813 Luigi XIII, 594 Lutero, Martin, 506, 525, 526, 921, 952


M Machiavelli, Niccolò, 338, 374, 377, 529, 545, 557, 561, 562, 567, 654, 657, 664, 712, 785, 792, 798, 809, 811-824, 826836, 838, 841-852, 854-859, 861-866, 868-878, 881, 882, 888-890, 892, 899, 901, 902, 904-906, 912-914, 917, 918, 921, 926, 936, 943 Madden, John, 663 Maestro Torrigiano, 169 Magellano, Ferdinando, 524 Magris, Claudio, 134, 135 Maier, Bruno, 862 Malato, Enrico, 291 Manetti, Giannozzo, 528, 530, 531 Manfredi di Svevia, 261 Mantegna, Andrea, 546, 570, 606 Manuzio, Aldo, 528, 543, 562, 563, 565, 567, 599, 603, 606, 633, 636, 651, 949 Manzoni, Alessandro, 423 Maometto, 10 Marcabru, 81 Marcuse, Herbert, 973 Maria d’Aquino (Fiammetta), 391 Maria di Champagne, 68, 82 Marlowe, Christopher, 862 Marti, Mario, 181 Marx, Karl, 861 Marziale, Marco Valerio, 606 Masaccio, Tommaso di ser Giovanni di Mone di Andreuccio detto, 568, 569 Mastro Rinuccino, 169 Masuccio Salernitano, Tommaso Guardati detto, 653, 655, 656, 658, 663, 664 Medici (famiglia), 668, 814, 815, 817, 820, 821, 829, 830, 854, 855, 857, 858, 871, 872, 888, 889, 901, 902, 905, 908, 918, 926, 928, 939 Medici, Cosimo I de’, 544, 615, 669, 872, 902, 926 Medici, Giovanni de’, 691, 814, 817, 901, 926 Medici, Giuliano de’, 580, 584, 585, 588, 602, 633, 819-823 Medici, Giulio de’, 815, 872, 901, 926 Medici, Lorenzo de’ detto il Giovane, 819 Medici, Lorenzo de’ detto il Magnifico, 398, 443, 523, 544, 545, 550, 578, 580, 581, 583-585, 633, 669, 814, 815, 819, 823, 832, 833, 858, 872, 888, 889, 891, 902, 905, 908, 909, 927, 940, 971, 972 Medici, Piero de’, 580, 584 Meneghetti, Maria Luisa, 670 Mengaldo, Pier Vincenzo, 261 Milton, John, 987 Molière, pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin, 505, 512 Montaigne, Michel Eyquem de 536, 547, 567, 603, 939, 941, 943 Montale, Eugenio, 366 Monte Andrea, 168

Montecatini, Antonio, 960 Montefeltro, Guido da, 847 Montefeltro, Guidobaldo da, 606 Moravia, Alberto, 388 Moretti, Walter, 967 Morra, Isabella di, 645, 646, 650 Mosè, 26, 837, 854, 855, 857 Mostacci, Iacopo, 153 Mussolini, Benito, 861 Muzio, Girolamo, 959

N Natali, Giulio, 399 Navarra, Margherita di, 505, 512 Nerone, Claudio Cesare Augusto Germanico, 629 Niccoli, Niccolò, 544 Niccolò V, 544 Nina Siciliana, 153, 154, 161, 169 Nobili, Flaminio, 960 Novalis, pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardenberg, 83 Numa Pompilio, 629

O Omero, 122, 392, 798 Onorio III, 101 Orazio Flacco, Quinto 27, 28, 33, 53, 280, 338, 527, 562, 578, 583, 606, 671, 693, 696, 698, 778 Orbicciani, Bonagiunta, 168, 169, 172, 174, 215, 235 Ossola, Carlo, 964 Ovidio Nasone, Publio 27, 28, 287, 323, 338, 357, 371, 372, 395, 397, 398, 510, 562, 578, 585, 587, 588, 596, 671, 972

P Pacca, Vinicio, 329 Padoan, Giorgio, 400, 488 Paltrow, Gwyneth, 663 Palumbo, Matteo, 904 Panezio, 537 Panofsky, Erwin, 535, 569 Paolo da Certaldo, 22 Paolo di Tarso, 273 Paolo Diacono, 453 Paolo III, 615, 905 Paolo IV, 861, 959 Pascal, Blaise, 945 Pasci de’ Bardi, Lippo, 247 Pasolini, Pier Paolo, 508 Pasquati, Giulio, 966 Passavanti, Jacopo, 119, 120, 124, 436, 440, 451 Patrizi, Giorgio, 603 Pazzi (famiglia), 580, 584, 585 Pellegrino, Camillo, 776 Peperara, Laura, 959

Persio, Aulo Flacco, 280 Perugino, Pietro di Cristoforo Vannucci detto, 606 Peruzzi (famiglia), 218 Pessoa, Fernando António Nogueira, 134, 135 Petignoni, Rinaldo, 966 Petrarca, Francesco, 8, 21-23, 39, 43, 50, 52, 53, 55, 83, 155, 163, 264, 302-317, 321-326, 328-340, 342-344, 346, 347, 349, 350, 353, 354, 356, 359, 364-367, 369-371, 373-375, 378-381, 383-387, 390-394, 396, 399, 400, 402, 408, 414, 416, 509, 511, 521, 526, 532, 534, 537, 545, 559, 560, 562, 563, 567, 573, 576, 585, 606, 633, 635-638, 640-645, 647649, 651, 671, 693, 695, 777, 812, 816, 817, 855, 857, 858, 951, 999 Petrarca, Gherardo, 305, 326 Petrocchi, Giorgio, 216 Petronio, Giuseppe, 264, 415 Piccolomini, Alessandro, 604 Piccolomini, Enea Silvio, 535, 545 Pico della Mirandola, Giovanni, 544, 550, 551-553, 562, 584, 586, 601, 851, 939 Pier della Vigna, 152, 153, 159, 371 Piero della Francesca, 546, 569 Pietro Abelardo, 299 Pietro Bernardone, 101 Pigna, Giovan Battista, 960 Piissimi, Vittoria, 966 Pio II, 535 Pirandello, Luigi, 109, 136, 335, 945 Pisano, Giovanni, 50 Pisano, Nicola, 50 Pisone, Gaio Calpurnio, 629 Platone, 311, 317, 543, 548, 550, 551, 557, 562, 575, 826, 841, 1012, 1017, 1023 Plauto, Tito Maccio, 557, 657, 694, 777, 788, 789, 791-793, 808, 818, 873 Plutarco, 812 Pole, Reginald, 861 Polibio, 537, 865 Poliziano, Angelo, 528, 544, 545, 550, 558, 560, 577, 578, 584-587, 590-592, 595, 597, 633, 654, 664, 669, 790, 1009 Polo, Marco, 38, 125, 126, 129-134, 149 Pontano, Giovanni, 594 Pontormo, Jacopo Carucci detto, 947, 952 Popper, Karl, 556 Porta, Carlo, 160 Portinari (famiglia), 218 Portinari, Beatrice detta Bice, 215, 293 Praloran, Marco, 713 Praz, Mario, 1009 Properzio, Sesto Aurelio, 606, 671, 693 Prosperi, Adriano, 937 Proust, Marcel, 134 Pugliese, Giacomino, 153 Pulci, Luigi, 619, 626, 665, 667-669, 670, 671, 676, 679, 686, 716, 772

Indice dei nomi

1029


Q Quatela, Antonio, 898 Quintiliano, Marco Fabio, 532

R Rabelais, François, 505, 512, 626-629, 631, 632, 634 Raffaello Sanzio, 707, 792, 947, 952 Raimbaut d’Aurenga, 92 Raimondi, Ezio, 875, 979, 987, 988, 1006 Rajna, Pio, 712 Rebora, Clemente, 108, 109 Renata di Francia, 960 Riccardo di San Vittore, 225 Ridolfi, Roberto, 810 Rinaldo d’Aquino, 153, 170 Ristoro d’Arezzo, 126 Roberto d’Angiò, 308, 315, 383, 390, 391, 475 Rodolfo il Glabro, 128 Romei, Annibale, 960 Romolo, 629, 837 Ronconi, Luca, 745, 746 Rossellino, Bernardo, 535 Rosso Fiorentino, Giovan Battista di Jacopo di Gasparre detto, 947 Rougemont, Denis de, 77 Rousseau, Jean-Jacques, 973 Rucellai (famiglia), 218 Rucellai, Cosimo, 869 Rustichello da Pisa, 129, 130, 149 Rustico Filippi, 202-204, 208 Ruzante, Angelo Beolco detto, 558, 595, 615, 785, 793, 798-802, 806, 807, 809

S Saba, Umberto, 160 Sacchetti, Franco, 142, 143, 145, 150, 426, 497 Salutati, Coluccio, 392, 529 Salviati, Leonardo, 951 Salviati, Maria, 900 Sanese, Francesco, 959 Sanguineti, Edoardo, 745, 746 Sannazaro, Jacopo, 397, 558, 560, 577, 594, 595, 597, 633, 636, 800, 950, 967 Sanseverino, Ferrante, 958 Sanseverino, Roberto, 669 Sansovino, Francesco, 944 Santagata, Marco, 332, 334, 342-344, 350, 351, 374 Sapori, Armando, 515 Savoia, Emanuele Filiberto di, 1017 Savonarola, Girolamo, 812, 814, 838, 928 Schiaffini, Alfredo, 225 Scipione, Publio Cornelio detto l’Africano, 893, 894 Segre, Cesare, 145, 716

1030

Indice dei nomi

Seneca, Lucio Anneo, 27, 28, 310, 311, 316, 324, 338, 365, 366, 383, 384, 398, 585, 790 Sepúlveda, Luis, 134 Ser Petracco, pseudonimo di Pietro di Parenzo di Garzo, 304 Serse, 629 Sette, Guido, 305 Sforza (famiglia), 658 Sforza, Francesco I, 834, 855 Sforza, Ludovico detto il Moro, 554, 601, 604, 659, 907 Shakespeare, William, 559, 654, 656, 658, 663, 862, 945 Shearer, Norma Edith, 663 Sigieri di Brabante, 183 Sigonio, Carlo, 959 Silla, Lucio Cornelio, 629 Silvestro I, 533 Silvio Antoniano, 960 Simon Bolognese, 966 Singleton, Charles Southward, 225 Socrate, 549 Soderini, Piero (Pier) di Tommaso, 814, 820 Sofocle, 562, 949, 961, 969, 988, 1020 Speroni, Sperone, 959, 960 Spinoza, Baruch, 44, 861 Stampa Gaspara, 645, 646, 648, 649, 651 Stazio, Publio Papinio, 280, 396, 397 Stefano Protonotaro, 153, 154 Stierle, Karlheinz, 335 Surdich, Luigi, 494 Svetonio Tranquillo, Gaio, 315 Svevo, Italo, 335

T Tacito, Publio Cornelio, 392, 812 Tarquinio Prisco, 629 Tasso, Bernardo, 960 Tasso, Cornelia, 961 Tasso, Torquato, 395, 539, 666, 687, 780, 790, 948, 950, 955-960, 962-966, 968970, 972, 974-979, 982-989, 992-995, 999, 1001, 1006-1008, 1013, 1014, 1017, 1019, 1020-1022, 1024 Temistocle, 629 Tempier, Stefano, 183 Teocrito, 594, 790, 967 Terenzio Afro, Publio, 557, 694, 777, 788, 789, 791, 793, 808, 873, 875 Terzani, Tiziano, 134, 135 Teseo, 837, 854, 855, 857 Testori, Giovanni, 109 Thomas, 70, 74 Tibullo, Albio, 972 Tintoretto, pseudonimo di Jacopo Robusti, 947, 948, 955, 988 Tiziano Vecellio, 572, 707 Tolkien, John Ronald Reuel, 78 Tolomeo, 13, 30

Tommaso d’Aquino, 13, 29, 123, 216, 254, 310, 946, 955 Tornabuoni, Lucrezia, 580, 669 Tozzi, Federigo, 11 Trissino, Gian Giorgio, 950 Tucidide, 812 Tugdalo, 273 Turoldo, 60 Turoldo, David Maria, 108, 109

U Ubertino da Casale, 100 Ugo di San Vittore, 10, 11

V Valerio Massimo, 316, 384 Valla, Lorenzo, 527, 531, 533, 537, 560, 564, 594 Valois, Carlo di, 217 Varrone, Marco Terenzio, 392 Vasari, Giorgio, 497, 499, 546, 559, 568, 574, 947, 952 Vassalli, Sebastiano, 937 Verga, Giovanni, 136, 801 Vergerio, Pier Paolo, 547 Vesalio, Andrea, 555 Vespucci, Simonetta, 585 Vettori, Francesco, 567, 815-817, 821, 823, 888 Vettori, Paolo, 817 Villani, Giovanni, 21-23, 38, 146-148, 150, 219, 490 Vincenzo di Beauvais, 436 Virgilio Marone, Publio, 27, 28, 53, 122, 214, 274, 280, 306, 310, 311, 315, 316, 338, 384, 558, 562, 578, 585, 587, 594, 606, 748, 790, 800, 886, 967, 972, 992, 999 Viroli, Maurizio, 810 Visconti, Filippo Maria, 834 Vitruvio Pollione, Marco, 532, 789 Vittorino da Feltre, 528, 547 Voltaire, pseudonimo di François-Marie Arouet, 862

W Warburg, Aby, 586 Wilkins, Ernest Hatch, 332 Wind, Edgar, 586 Wittgenstein, Ludwig, 556

Z Zancan, Marina, 645 Zanette, Emilio, 691 Zanzotto, Andrea, 160, 382 Zatti, Sergio, 983, 984, 993, 1015 Zeffirelli, Franco, 663 Zorzi, Ludovico, 801


Glossario A Acefalo Detto di manoscritto mancante della prima o delle prime pagine.

Adynaton (dal gr. “cosa impossibile”) La formulazione di un’ipotesi o di una situazione impossibile il cui avverarsi è subordinato a un altro fatto ritenuto irrealizzabile. Ad es.: «S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo» (Cecco Angiolieri).

Aferesi Caduta di una sillaba all’inizio di una parola. Ad es.: verno per “inverno”.

Agnizione Riconoscimento (special-

siste nella ripetizione di una lettera o di un gruppo di lettere in una o più parole successive. Ad es.: «Il pietoso pastor pianse al suo pianto» (Tasso, Gerusalemme liberata VII).

Allocuzione ➜ Apostrofe Anacoluto Costrutto in cui la seconda parte di una frase non è connessa alla prima in modo sintatticamente corretto. Ad es.: «Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro» (Manzoni, I promessi sposi XXXVI).

Anacronia Sfasatura nella successione temporale dei fatti (➜ analessi, ➜ prolessi).

mente nel teatro classico) della vera identità di un personaggio. Il riconoscimento risolve così, alla fine, le complesse vicende dell’intreccio.

Anacrùsi Aggiunta di una o due sillabe

Alessandrino Verso della tradizione

Anadiplòsi Figura retorica che con-

poetica francese. È composto di dodici sillabe divise in due emistichi di sei sillabe. L’omologo italiano è il verso martelliano formato da due settenari (prende il nome dal poeta drammatico Pier Iacopo Martello che lo creò a imitazione dell’esempio francese).

Allegoria Figura retorica tramite la quale il riferimento a immagini complesse o narrazioni richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo (in genere un’entità astratta come un vizio, una virtù, un evento ecc.). A differenza della ➜ metafora, l’allegoria richiede un’interpretazione alla quale si può giungere solo conoscendo il contesto culturale del testo: il significato infatti non è deducibile da un immediato processo intuitivo. Per quanto complessa, l’allegoria è sempre costruita razionalmente e per tanto è decifrabile una volta compreso il criterio con cui è stata formata. Ad es.: nella Divina commedia le tre fiere che ricacciano Dante nella selva oscura sono un’allegoria; inoltre il senso allegorico può anche essere “trovato” dai lettori a dispetto delle intenzioni dell’autore: la IV egloga di Virgilio fu interpretata come un’allegoria della venuta di Cristo.

Allitterazione Figura retorica che con-

fuori battuta, all’inizio di un verso o di una sua parte, eccedente la normale misura metrica. siste nella ripresa all’inizio di frase o di verso, della parola conclusiva della frase o del verso precedente al fine di dare maggior efficacia all’espressione. Ad es.: «Ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi» (If IV 65-66).

Anàfora Ripetizione di una o più parole all’inizio di versi o frasi successive. Ad es.: «Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (If III 1-3).

Analessi (anche ➜ flashback) In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi passati. È l’opposto della ➜ prolessi.

Analogia Procedimento stilistico che istituisce un rapporto di somiglianza fra oggetti o idee semanticamente lontani. È diventato un procedimento tipico delle tendenze poetiche moderne in cui la soppressione degli espliciti legami comparativi (“come”, “così” ecc.) dà luogo a immagini molto ardite e sintetiche. Ad es.: «Le mani del pastore erano un vetro / levigato da fioca febbre» (Ungaretti).

Anàstrofe (o inversione) Figura retorica che consiste nel disporre parole contigue in un ordine inverso a quello abituale. È affine all’➜ iperbato. Ad es.: «O anime affannate,

/ venite a noi parlar» (If V 80-81); «Allor che all’opre femminili intenta / sedevi» (Leopardi, A Silvia vv. 10-11).

Anfibologìa Espressione che può prestarsi a una doppia interpretazione a causa della sua ambiguità a livello fonetico, semantico o sintattico. Ad es.: “Ho visto mangiare un gatto”. Può essere sfruttata per ottenere effetti comici come nei casi di frate Cipolla (Boccaccio, Decameron) o fra’ Timoteo (Machiavelli, la Mandragola).

Annominazione ➜ Paronomasia Antìfrasi Figura retorica che lascia intendere che chi parla afferma l’opposto di ciò che dice. Ad es.: «una bella giornata davvero!» (detto quando sta piovendo), «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive» (Leopardi, La ginestra).

Antonimìa Figura retorica che consiste nel contrapporre parole di senso contrario o in qualche modo opposte. Ad es.: «Pace non trovo e non ho da far guerra, E temo e spero, et ardo e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere 134).

Antonomàsia Sostituzione del nome proprio di una persona o di una cosa con un appellativo che ne indichi un elemento caratterizzante e lo identifichi in modo inequivocabile. Ad es. “il Ghibellin fuggiasco” per indicare Dante, “l’eroe dei due mondi” per Garibaldi. Può anche indicare il trasferimento del nome di un personaggio proverbiale a chi dimostra di avere le sue stesse qualità. Ad es.: un “Ercole” per indicare una persona di gran forza, un “Don Giovanni” per un conquistatore di donne.

Antropomorfismo Tendenza ad assegnare caratteristiche umane (dall’aspetto all’intelligenza ai sentimenti) ad animali, cose e figure immaginarie.

Apocope Caduta di una vocale o di una sillaba al termine d’una parola. Ad es.: fior per “fiore”, san per “santo”.

Apografo Manoscritto che è copia diretta di un testo originale.

Glossario

1031


Apologo Racconto allegorico di gu-

Bozzetto Racconto breve che rappre-

sto favolistico e con fini didatticomorali.

senta con piglio realistico e vivezza impressionistica (ma anche con superficialità) una situazione, un luogo, un carattere, tratti per lo più dalla vita quotidiana.

Apostrofe Consiste nel rivolgersi direttamente a una persona (o cosa personificata) diversa dall’interlocutore cui il messaggio è indirizzato. Ad es.: «Ahi serva Italia, di dolore ostello» (Pg VI 76).

Asindeto Forma di coordinazione realizzata accostando parole o proposizioni senza l’uso di congiunzioni coordinanti. Ad es.: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto» (Ariosto, incipit dell’Orlando furioso).

Assimilazione Fenomeno per cui, nell’evoluzione storica di una parola, due fonemi vicini tendono a diventare simili o uguali: ad es. il passaggio da noctem a notte (dal nesso consonantico ct al raddoppiamento della dentale tt).

Assonanza Rima imperfetta in cui si ripetono le vocali a cominciare da quella accentata, mentre differiscono le consonanti. All’opposto della ➜ consonanza. Ad es.: amòre : sòle; agòsto : conòsco.

Àtona (sillaba) sillaba che non è accentata (al contrario della sillaba ➜ tonica).

Auctoritas Termine latino (“autorità”) con cui si è soliti indicare, soprattutto nella cultura medievale, un autore o un’opera il cui valore esemplare è riconosciuto in modo unanime.

Autografo Manoscritto redatto di suo pugno dall’autore.

B Ballata Forma metrica, destinata in origine al canto e alla danza, usata per componimenti religiosi (laude). È formata da un numero vario di strofe (stanze), con schema identico, precedute da un ritornello (ripresa). Lo schema base è così costituito: le strofe sono divise in quattro parti, tre identiche (mutazioni) e la quarta (volta), legata per una rima alla ripresa. I versi usati sono gli endecasillabi e i settenari.

Bestiario Trattato medievale in cui venivano descritte caratteristiche fisiche e morali di diverse specie di animali reali e fantastici.

Bildungsroman ➜ Romanzo di formazione

Bisticcio ➜ Paronomasia

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Glossario

Bucolica ➜ Egloga

C Campo semantico Insieme delle parole i cui significati rimandano a uno stesso concetto-base.

Canone L’insieme degli autori e delle opere considerati indispensabili per definire l’identità culturale di una società o di un’epoca. Pertanto l’idea stessa di canone è mutevole e influenzata dal mutare della società e del pensiero: il classicismo ha un suo canone, il romanticismo un altro e così via.

Cantare Poema composto per lo più in

➜ ottave, di materia epico-cavalleresca e di origine popolare. Era destinato a essere recitato sulle piazze dai cantastorie. Fu in voga soprattutto nei secoli XIV e XV.

Canzone Forma metrica caratterizzata dalla presenza di più strofe (da 5 a 7) e da una forte simmetria: le strofe (stanze) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema delle rime. Ogni stanza consta di due parti: la fronte (divisibile in due piedi) e la sirma (prima di Petrarca divisa in due volte). Sono usati diversi artifici per creare un legame tra le strofe e rafforzare così l’armonia e la simmetria della canzone (ad es.: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma). La canzone si può chiudere con una strofa detta commiato con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa.

Canzone a ballo ➜ Ballata Capitolo Componimento poetico in

➜ terza rima, esemplato sui Trionfi di Petrarca. Usato per trattare i temi più vari (argomenti politici, morali, amorosi), nel Cinquecento gode di particolare fortuna il capitolo burlesco (o bernesco) a imitazione di quelli di Francesco Berni e dai temi comico-satirici.

Catarsi Secondo Aristotele, la liberazione e la purificazione dalle passioni che la tragedia, in quanto rappresentazione di fatti dolorosi, origina nell’animo dello spettatore. In senso

lato è l’azione liberatrice della poesia e dell’arte che purificano dalle passioni.

Cesura Pausa del ritmo, non sempre corrispondente a una pausa sintattica, fra due ➜ emistichi di un verso.

Chiasmo Figura retorica che consiste nel contrapporre due espressioni concettualmente affini in modo però che i termini della seconda siano disposti nell’ordine inverso a quelli della prima così da interrompere il parallelismo sintattico (da ABAB a ABBA). Ad es.: «Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano» (If IV 90), «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg V 134).

Chiave (o concatenatio) In una

➜ stanza di canzone, il verso che collega il primo gruppo di versi (➜ fronte) col secondo (➜ sirma) mediante una rima identica all’ultima della fronte. Solitamente è connesso alla sirma dal punto di vista sintattico. Chiosa ➜ Glossa Circonlocuzione ➜ Perifrasi Clausola La chiusura di un verso o di un periodo.

Climax Enumerazione di termini dal significato via via sempre più intenso. Ad es.: «la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto» (Pascoli, Il lampo). Se l’intensità è invece decrescente si parla di anticlimax. Ad es.: «E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!» (Pascoli, La mia sera).

Cobla Nella poesia provenzale l’equivalente della stanza o ➜ strofa italiane. Le coblas si dicono capcaudadas quando la rima finale di una cobla è la prima rima della cobla successiva e capfinidas quando una parola dell’ultimo verso di una cobla appare anche nel primo verso della cobla successiva.

Codice In filologia, il libro manoscritto. Codice linguistico Il sistema di segni convenzionali e regole (cioè l’alfabeto e la grammatica) usato per stabilire una trasmissione di informazioni tra emittente e ricevente.

Collazione Confronto sistematico dei

➜ testimoni di un testo, allo scopo di fornirne l’edizione critica oppure di individuarne le fasi di composizione. Commiato ➜ Canzone


Concordanze Repertori alfabetici di tutte le parole usate da un autore in una o più opere, con indicazione dei passi in cui esse ricorrono.

Congedo (o commiato) ➜ Canzone Connotazione Indica il significato secondario, aggiuntivo, che una parola ha in aggiunta al suo significato base (➜ denotazione). Consiste quindi nelle sfumature di ordine soggettivo (valore affettivo, allusivo ecc.) che accompagnano l’uso di una parola e che si aggiungono ai suoi tratti significativi permanenti. Ad es.: le parole mamma e madre indicano lo stesso soggetto ma il primo termine ha una sfumatura affettiva maggiore rispetto al secondo.

Consonanza Sorta di rima in cui si ripetono le consonanti a cominciare dalla vocale accentata, mentre differiscono le vocali. All’opposto della ➜ assonanza. Ad es.: vènto : cànto; pàsso : fòssa.

Contaminazione Nella critica testuale l’utilizzo, da parte di un copista, di ➜ testimoni diversi di una stessa opera al fine di correggere errori o colmare lacune. In senso generale, il mescolare elementi di diversa provenienza nella stesura di un’opera letteraria.

Contrasto Componimento poetico che rappresenta il dibattito o il dialogo tra due personaggi o due entità allegoriche. Ad es.: appartiene al primo caso Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo, al secondo Disputa della rosa con la viola di Bonvesin de la Riva.

Coppia sinonimica (o dittologia sinonimica) Coppia di parole dal significato analogo in cui l’una va a rafforzare il significato dell’altra. Ad es.: «passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere 35); «soperba e altiera» (Boiardo, Orlando innamorato) ma anche in espressioni tipiche del parlato come pieno zeppo.

Corpus L’insieme delle opere di un singolo autore; oppure un gruppo di opere letterarie omogeneo per stile, genere o tema.

Correlativo oggettivo Concetto poetico formulato dal poeta T.S. Eliot all’inizio del Novecento. Consiste in un oggetto, un evento, una situazione che evocano immediatamente nel lettore un’emozione, un pensiero, uno stato d’animo senza

necessitare di alcun commento da parte del poeta.

Cronòtopo Il termine, introdotto nella critica letteraria dal critico russo Michail Bachtin, indica la sintesi delle categorie spazio-temporali entro cui è collocata una narrazione: le scelte di spazio e di tempo si influenzano in modo reciproco nella costruzione di un racconto.

Cursus Nella prosa antica e medievale, la ➜ clausola che chiude in modo armonioso il periodo. A seconda della disposizione degli accenti nelle ultime due parole della frase, consentiva di accelerare o rallentare il discorso (era di tre tipi fondamentali: planus, tardus, velox).

D Dedicatoria Lettera o epigrafe anteposta a un’opera letteraria e indirizzata dall’autore a un personaggio cui l’opera stessa è dedicata.

Deittico Elemento linguistico che indica la collocazione spazio-temporale di un enunciato, decodificabile con esattezza solo grazie al contesto. Ad es.: i pronomi personali (io, tu ecc.) e dimostrativi (questo, quello); gli avverbi di luogo (qua, lì) e di tempo (ora, domani).

Denotazione Indica il significato primario, il valore informativo base, di una parola (per il significato secondario ➜ connotazione). Ad es.: mamma e madre hanno una medesima denotazione ma una diversa connotazione.

Deverbale Sostantivo ricavato da un verbo. Ad es.: lavoratore da “lavorare”.

Diacronia Indica la valutazione dei fatti linguistici secondo il loro divenire nel tempo e quindi l’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ sincronia).

Dialèfe In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sinalefe e solitamente si ha quando l’accento cade su una (o entrambe) le vocali contigue. Ad es.: «restato m’era, non mutò aspetto» (If X 74).

Diegesi Modalità di racconto narrativo indiretto in cui gli eventi, le situazioni, i dialoghi dei personaggi sono raccontati da un soggetto narrante (al contrario della ➜ mimesi).

Dieresi In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sineresi. Ad es.: «Dolce color d’orïental zaffiro» (Pg I 13).

Digressione ➜ Excursus Distico Coppia di versi. Dittologia sinonimica ➜ Coppia sinonimica

E Edizione critica (lat. editio) Edizione che si propone di presentare un testo nella forma più possibile conforme alla volontà ultima dell’autore, eliminando quindi tutte le alterazioni dovute alle diverse redazioni manoscritte o a stampa.

Egloga Nella letteratura classica componimento poetico di argomento bucolico-pastorale che, a partire dal Quattrocento, ebbe fortuna anche nella letteratura volgare e che portò alla nascita del dramma pastorale.

Elegia Nella letteratura classica componimento poetico di tema soprattutto amoroso e malinconico. Dal Medioevo in poi indica un componimento (anche in prosa) caratterizzato dal tono sentimentale, mesto e malinconico.

Ellissi Omissione di un elemento della frase che resta sottinteso. Ad es.: «A buon intenditor, poche parole» dove il verbo “bastano” è sottinteso; «Questo io a lui; ed elli a me» (Pd VIII 94) con ellissi del verbo “dire”.

Elzeviro Articolo di fondo della pagina culturale di un giornale (la cosiddetta “terza pagina”). Di argomento letterario o artistico, è così chiamato per il carattere tipografico in cui un tempo veniva stampato (gli Elzevier erano una famiglia olandese di tipografi del XVII secolo).

Emistichio Ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla

➜ cesura. Enclisi Fenomeno linguistico per cui una particella atona e monosillabica si appoggia, fondendosi, alla parola precedente. Ad es.: scrivimi, sentilo, guardami.

Endecasillabo È il verso di undici sillabe, ampiamente utilizzato nella letteratura italiana. Si presenta in modo vario a seconda del ritmo degli accenti e delle cesure. Sono endecasillabi sciolti quando non

Glossario

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vengono raggruppati in strofe e non sono rimati.

Endiadi Figura retorica che consiste nell’esprimere, mediante una coppia di sostantivi, un concetto che invece sarebbe solitamente espresso con un sostantivo e un aggettivo o con un sostantivo e un complemento di specificazione. In certi casi è simile alla ➜ coppia sinonimica. Ad es.: «O eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza fa men duri», dove ciò che solleva le anime dalle sofferenze è la “speranza di giustizia” (Pg XIX 76-77).

Enjambement (o inarcatura) Procedimento stilistico che consiste nel porre due parole concettualmente unite tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo, così che il senso logico si prolunghi oltre la pausa ritmica. Ad es.: «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi» (Leopardi, L’infinito).

Entrelacement È la tecnica di co-

Epigramma Breve componimento in versi. In origine, presso i greci, aveva carattere funerario o votivo; dai latini in poi mantenne la brevità ma mutò il tono in satirico e mordace, talora caricaturale.

Epìtesi Aggiunta di uno o più fonemi alla fine di una parola. In poesia è usata con fini metrici o eufonici. Ad es.: «che la sembianza non si mutò piùe» (Pd XXVII 39); «Ellera abbarbicata mai non fue» (If XXV 58).

Epiteto Sostantivo, aggettivo o locuzione che accompagna un nome proprio per qualificarlo o anche soltanto a scopo esornativo. Ad es.: Guglielmo il Conquistatore; Achille piè veloce.

struzione tipica dei poemi cavallereschi consistente nell’intreccio di vari filoni narrativi riferiti ai diversi personaggi e che si realizza interrompendo un filone per passare a un altro, poi un altro ancora per poi riprendere il primo ecc. Si può trovare già nei romanzi di Chrétien de Troyes.

Epìtome Riassunto, compendio di

Enumerazione Figura retorica che

Etimologia Disciplina che studia l’ori-

consiste in una rapida rassegna di sostantivi elencati sotto forma di ➜ asindeto o ➜ polisindeto. Ad es.: «e mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141).

Epanadiplòsi Figura retorica che consiste nell’iniziare e terminare un verso o una frase con la stessa parola. In alcuni casi, la presenza di un ➜ chiasmo determina una epanadiplosi. Ad es.: «dov’ero? Le campane / mi dissero dov’ero» (Pascoli, Patria).

Epanalèssi (o geminatio) Figura retorica che consiste nel raddoppiamento di una parola o di un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di una frase o di un verso. Ad es.: «Io dubitava e dicea “Dille, dille!”» (Pd VII 10).

Epifonema Sentenza o esclamazione che conclude enfaticamente un discorso. Ad es.: «è funesto a che nasce il dì natale» (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante v. 143).

Epìfora (o epìstrofe) Figura retorica che

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consiste nella ripetizione delle stesse parole alla fine di più versi o di più parti di un periodo. Ad es.: la ripetizione del nome di “Cristo”, che Dante non fa mai rimare con altre parole «sì come de l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo. / Ben parve messo e famigliar di Cristo: / ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, / fu al primo consiglio che diè Cristo» (Pd XII 71-75).

Glossario

un’ampia opera, realizzato soprattutto a scopo didattico.

Esegesi Interpretazione critica di un testo. gine e la storia delle parole.

Eufemismo Figura retorica che consiste nel sostituire parole ed espressioni troppo crude o realistiche con altre di tono attenuato, di solito per scrupolo religioso, morale, riguardi sociali o altro. Ad es.: andarsene o passare a miglior vita per “morire”.

Excursus (o digressione) Divagazione dal tema principale di un discorso o di una narrazione, con l’inserimento di temi secondari, più o meno marginali rispetto all’argomento generale.

Exemplum Breve racconto a scopo didattico-religioso.

F Fabula La successione logico-temporale degli avvenimenti che costituiscono i contenuti di un testo narrativo e che lo scrittore presenta al lettore in uno specifico ➜ intreccio.

Facezia Breve racconto incentrato su un motto di spirito o una frase arguta; fiorì in Italia nel Quattrocento.

Figura etimologica Accostamento di due parole che hanno in comune lo stesso etimo. Ad es.: «in tutt’altre faccende affaccendato» (Giusti, Sant’Ambrogio).

Filologia (dal greco “amore della parola”) Disciplina che studia i testi per liberarli da errori e rimaneggiamenti al fine di riportarli alla forma originaria, di interpretarli, di precisarne l’autore, il periodo e l’ambiente culturale.

Flashback ➜ Analessi Flusso di coscienza Tecnica narrativa caratteristica del romanzo del Novecento, dall’inglese stream of consciousness, indica una libera associazione di pensieri, riflessioni, elementi inconsci, associazioni d’idee, si traduce liberamente nella scrittura, senza la tradizionale mediazione logica, formale e sintattica che opera lo scrittore. È per molti aspetti simile al ➜ monologo interiore.

Fonema La più piccola unità di suono che, da sola o con altre, ha la capacità di formare le parole di una lingua e al mutare della quale si genera una variazione del significato. Non sempre a una singola lettera corrisponde un fonema. Ad es.: il suono formato dalle due lettere gl nella parola “famiglia”.

Fonetica Indica sia la branca della linguistica che si occupa dello studio dei fonemi dal punto di vista fisico e fisiologico sia l’insieme dei suoni di una particolare lingua.

Fonosimbolismo Espediente stilisticoretorico tramite il quale parte della comunicazione avviene in via evocativa tramite il suono delle parole. Una figura retorica che sfrutta il fonosimbolismo è l’ ➜ onomatopea.

Fonte Ogni tipo di documento o testo dal quale un autore ha tratto ispirazione per un tema o qualsiasi altro elemento della propria opera.

Fronte ➜ Canzone Frontespizio In un libro è la pagina in cui sono riportati il nome dell’autore, il titolo dell’opera e l’editore.

G Geminatio (o Geminazione) ➜ Epanalessi

Glossa Annotazione esplicativa o interpretativa che il copista inseriva a margine di un testo o fra le righe.

Gradazione ➜ Climax


Grado zero In senso generale, indica il

Ipàllage Figura retorica che consi-

livello neutro della scrittura, anche di quella letteraria, privo di caratterizzazione stilistica e/o retorica e di forti connotazioni. La locuzione fu usata dal semiologo Roland Barthes nel suo saggio Le degré zéro de l’écriture [Il grado zero della scrittura, 1953] in riferimento allo stile francese della tradizione classica.

ste nell’attribuire un aggettivo a un sostantivo diverso da quello cui propriamente, nella stessa frase, dovrebbe unirsi. Ad es.: «sorgon così tue dive / membra dall’egro talamo» (Foscolo, All’amica risanata), dove egro è riferito al “talamo”, cioè al letto, anziché alle “membra”.

H Hàpax legòmenon (dal greco “detto una sola volta”) Indica una parola che compare in un’unica attestazione in un’opera o in tutto il ➜ corpus di un autore.

Hýsteron pròteron Figura retorica per cui l’ordine delle parole è invertito rispetto alla logica temporale o ai nessi causa-effetto. Dal greco “ultimo come primo”. Ad es.: «Là ’ve ogne ben si termina e s’inizia» (Pd VIII 87); «Anche il pranzo venne consumato in fretta e servito alla mezza» (Palazzeschi, Le sorelle Materassi).

I

Ipèrbato Figura retorica che consiste nel collocare le parole in ordine inverso rispetto al consueto; diversamente dalla ➜ anastrofe, che riguarda la disposizione delle parole di un sintagma, l’iperbato consiste nell’inserire in un sintagma elementi della frase da esso logicamente dipendenti. Ad es.: «e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi» (Petrarca, Erano i capei d’oro).

Iperbole Figura retorica che consiste nell’esagerare un concetto, un’azione o una qualità oltre i limiti del verosimile, per eccesso o per difetto. Ad es.: «risplende più che sol vostra figura» (Cavalcanti, Avete in voi li fiori e la verdura); è anche molto usata nel parlato “è un secolo che aspetto!”.

Ipèrmetro Verso con un numero ec-

Iato Fenomeno per cui due vocali contigue non formano dittongo e fanno parte di sillabe distinte. Ad es.: paese. Sono casi di iato la ➜ dieresi e la ➜ dialefe.

Ictus ➜ Accento ritmico Idillio Presso i greci, breve componimento, di genere bucolico e agreste (corrisponde alla ➜ egloga latina). In seguito ha preso a indicare ogni componimento in cui si rifletta questo ideale di vita, anche senza riferimenti campestri.

Idioletto La lingua individuale, ovvero l’uso particolare e personale che un autore fa della lingua.

Inarcatura ➜ Enjambement In folio Il formato massimo di un libro, si ottiene piegando una sola volta il foglio di stampa. Se il foglio viene piegato due volte si parla di formato “in quarto”, se piegato tre volte “in ottavo” e così via. Più il foglio viene piegato, più è piccolo il formato del libro.

Inquadramento ➜ Epanadiplosi Intreccio La successione degli eventi così come sono presentati dall’autore e non necessariamente seguendo l’ordine logico-temporale (come la ➜ fabula).

Inversione ➜ Anastrofe

cessivo di sillabe rispetto a quella che dovrebbe essere la sua misura regolare. Nel caso opposto si ha l’ipometro.

Ipòmetro ➜ Ipermetro Ipostasi ➜ Personificazione Ipotassi Costruzione del periodo fondata sulla subordinazione di una o più proposizioni alla principale. È il contrario della ➜ paratassi.

Ipotipòsi Figura retorica che consiste nella descrizione viva e immediata di una persona, un oggetto o una situazione, sia attraverso similitudini concrete sia con viva immediatezza e forza rappresentativa. Ad es.: «Ella non ci dicëa alcuna cosa, / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa» (Pg VI 64-66).

Iterazione Ripetizione di una o più parole all’interno di un discorso. A seconda della modalità con cui ciò avviene si hanno ➜ anafora, ➜ anadiplosi, ➜ epanalessi, ➜ epifora.

K Koiné Lingua comune con caratteri uniformi accettata e seguita da tutta una comunità su un territorio piuttosto esteso, si sovrappone ai dialetti e alle parlate locali.

L Lacuna In filologia, mancanza di una o più parole in un testo.

Lassa Strofa caratteristica degli antichi poemi epici francesi, composta di un numero variabile di versi legati da assonanza o monorimi.

Leitmotiv (dal tedesco “motivo guida”) Il tema, il motivo dominante e ricorrente di un’opera.

Lemma Ogni parola cui è dedicata una voce su un dizionario o un’enciclopedia.

Lessema Il minimo elemento linguistico dotato di un significato. Il lessema si riferisce ai significati, così come il ➜ fonema ai suoni.

Lezione (lat. lectio) La forma in cui una parola o un passo di un testo sono stati letti da un copista o da un editore e, di conseguenza, il modo in cui sono stati tramandati nei diversi libri a stampa o manoscritti; la filologia attesta quale lezione sia più attendibile.

Litote Figura retorica che consiste nell’affermare un concetto negando il suo contrario. Ad es.: «Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone», per dire che era un vile (Manzoni, I promessi sposi). È comune anche nel linguaggio parlato: non è un’aquila per dire “è uno stupido”, non brilla per puntualità per dire “è spesso in ritardo”.

Locus amoenus ➜ Topos letterario che consiste nella descrizione di un ideale luogo naturale dove l’uomo vive in armonia con la natura e i propri simili.

M Manoscritto Qualsiasi tipo di testo non stampato, ma scritto a mano dall’autore o da un copista.

Martelliano ➜ Alessandrino Memorialistica Genere letterario di carattere biografico, autobiografico e cronachistico in cui grande spazio è riservato alle osservazioni storiche e di costume.

Metafora Figura retorica che consiste nella sostituzione di una parola con un’altra che abbia almeno una caratteristica in comune con la parola sostituita. È paragonabile a una similitudine abbreviata, cioè senza gli elementi che renderebbero esplicito il paragone. Ad es.: “quell’atleta

Glossario

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è un fulmine” cioè “è simile a un fulmine per velocità”; «Tu fior de la mia pianta / percossa e inaridita» (Carducci, Pianto antico) dove fior e pianta sono metafore per “figlio” e “padre”.

Metanarrativo Aggettivo riferito ai procedimenti con cui l’autore di un’opera narrativa interrompe la finzione per parlare dell’attività stessa del narrare o per spiegare le proprie scelte narrative; cioè, in altri termini, quando la narrativa riflette su sé stessa.

Metapoetico Aggettivo che fa riferimento alla riflessione del poeta sull’attività poetica stessa.

Metaromanzo Romanzo che riflette sull’operazione stessa dello scrivere romanzi. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1970) è un esempio di metaromanzo.

Metateatro Testo in cui la finzione drammaturgica è interrotta per parlare dell’attività teatrale stessa o per spiegare i meccanismi di un’invenzione scenica. Esempi di procedimento metateatrale si trovano nell’Amleto di Shakespeare (in cui viene messo in atto l’artificio di inserire all’interno dell’opera, come parte integrante della vicenda, la messinscena di uno spettacolo); oppure in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (1921), per il “teatro nel teatro”.

Metàtesi Spostamento di fonemi all’interno di una parola. Ad es.: fisolofo per “filosofo”.

Metonìmia Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. Questo rapporto può essere: 1) la causa per l’effetto (e viceversa); 2) la materia per l’oggetto; 3) il contenente per il contenuto; 4) il concreto per l’astratto (e viceversa) ecc. Ad es.: 1) “vivere del proprio lavoro” invece che “del denaro guadagnato con il proprio lavoro”; 2) «fende / con tanta fretta il suttil legno l’onde» (Ariosto, Orlando furioso) dove il “legno” indica la “barca”; 3) «dal ribollir de’ tini» (Carducci, San Martino) dove non sono i tini a ribollire ma il mosto in essi contenuto; 4) “sto studiando Dante” invece delle “opere scritte da Dante”.

Mimesi Secondo la concezione estetica classica, fondamento della creazione artistica in quanto imitazione della realtà e della natura. In senso moderno le forme stilistiche

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Glossario

e letterarie, come il dialogo o la scrittura drammatica, volte a dare l’impressione e l’illusione della realtà. In questo senso si oppone a ➜ diegesi.

Monologo interiore Rappresentazione dei pensieri di un personaggio (riflessioni, frammenti di altri pensieri, elementi inconsci, associazioni d’idee) come un flusso continuo, incontrollato, privo di un ordine logico.

N Neologismo Parola introdotta di recente nella lingua, oppure nuova accezione di un vocabolo già esistente.

Nominale (stile nominale) Particolare organizzazione del periodo in cui gli elementi nominali (sostantivi, aggettivi ecc.) prevalgono su quelli verbali. Ad es.: è spesso usato nei titoli dei giornali “Maltempo su tutta la penisola”.

O Omofonia Indica l’identità di suono tra parole differenti.

Onomatopea Figura d’imitazione volta a imitare un suono (chicchiricchì) o che evochi attraverso i propri suoni ciò che la parola stessa significa (gorgogliare o bisbigliare). Ad es.: «Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle» (Pascoli, La mia sera).

da un participio, un gerundio, una congiunzione come “se”, “quando”, “poiché” ecc.). Ad es.: «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio» (If XXX 116); «E finita la canzone, e ’l maestro disse» (Boccaccio, Decameron).

Parallelismo Il disporre in modo simmetrico parole, concetti, strutture sintattico-grammaticali. Sono casi particolari di parallelismo il ➜ chiasmo, l’➜ anafora, il ➜ polisindeto, l’ ➜ epanalessi ecc.

Paratassi Costruzione del periodo fondata sull’accostamento di proposizioni principali, articolate per coordinazione. È il contrario dell’ ➜ ipotassi.

Parodia Imitazione di un autore, di un testo, di uno stile fatta a scopo ironico o satirico.

Paronomàsia (o bisticcio o annominazione) Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole dal suono simile ma semanticamente diverse. Ad es.: «ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto» (If I 36), «disserra / la porta, e porta inaspettata guerra» (Tasso, Gerusalemme liberata).

Pastiche Tecnica compositiva che accosta parole di registri, stili e lingue diverse. Può avere anche scopo di parodia.

Perifrasi Figura retorica che consiste

ste nell’accostamento di due parole che esprimono concetti contrari. Ad es.: «provida sventura» (Manzoni, Adelchi); «dolce affanno» (Petrarca, Benedetto sia ’l giorno) «Sentia nell’inno la dolcezza amara» (Giusti, Sant’Ambrogio).

nell’utilizzare un giro di parole in sostituzione di un singolo termine. Ad es.: «del bel paese là dove ’l sì suona» per indicare l’Italia (If XXX 80), «chiniam la fronte al Massimo / Fattor» (Manzoni, Il cinque maggio) per indicare Dio; « l’Ospite furtiva / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio» (Gozzano, La signorina Felicita) per indicare la morte.

Ottava Strofa di otto endecasillabi, i

Personificazione (o prosopopea) Fi-

Ossimoro Figura retorica che consi-

primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata. È il metro dei ➜ cantari e dei poemi cavallereschi italiani.

P Palinodia Componimento poetico che ritratta opinioni espresse in precedenza.

Paraipotassi Costruzione sintattica in cui si combinano ➜ ipotassi e ➜ paratassi. Si ha quindi un periodo in cui la proposizione principale si coordina mediante congiunzione (“e”, “così”, “ma” ecc.) a una proposizione subordinata (retta

gura retorica mediante la quale si dà voce a persone defunte o si fanno parlare animali o cose inanimate o astratte. Ad es.: «Pel campo errando va Morte crudele» (Ariosto, Orlando furioso), «Piangi, che ben hai donde, Italia mia» (Leopardi, All’Italia), «Da la torre di piazza roche per l’aere le ore / gemon» (Carducci, Nevicata).

Piede Nella metrica classica la più piccola unità ritmica di un verso, formata di due o più sillabe, con una parte forte (arsi) e una debole (tesi). Nella metrica italiana, ognuna delle due parti in cui in genere si suddivide la fronte della strofa di una ➜ canzone.


Pleonasmo Elemento linguistico superfluo, formato dall’aggiunta di una o più parole inutili dal punto di vista grammaticale o concettuale. È frequente nel linguaggio familiare e talvolta è un vero e proprio errore. Ad es.: “a me mi piace” o “entrare dentro” sono pleonasmi. «Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua» (Pavese, Feria d’agosto); «A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta» (Manzoni, I promessi sposi).

Plurilinguismo L’uso in un testo letterario di diversi registri linguistici ed espressivi (tecnico, gergale, aulico, letterario ecc.) e di idiomi differenti. Ad es.: il plurilinguismo di Carlo Emilio Gadda.

Pluristilismo La compresenza in un testo letterario di diversi livelli di stile.

Poliptòto Figura retorica che consiste nel riprendere una parola più volte in un periodo, mutando caso o genere o numero. Ad es.: «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» (If XIII 25).

Polisemia La compresenza di due o più significati all’interno di una parola, di una frase, di un testo intero. Ad es.: macchina per “automobile” oppure “congegno meccanico”, la Commedia di Dante che ha diversi livelli di lettura (allegorico, letterale ecc.).

Polisindeto Forma di coordinazione realizzata mediante congiunzioni coordinanti. Ad es.: «E mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141), «o selva o campo o stagno o rio / o valle o monte o piano o terra o mare» (Ariosto, Orlando furioso).

R Rapportatio Tecnica compositiva artificiosa tipica della poesia manierista e barocca, consiste nel disporre le varie parti del discorso in modo tale da creare una trama di corrispondenze sia concettuali sia strutturali.

Refrain ➜ Ritornello Registro Il modo di parlare o scrivere, il livello espressivo proprio di una particolare situazione comunicativa (registro formale, familiare, popolare, burocratico ecc.). Un autore sceglie e gestisce i vari tipi di registro in base al genere dell’opera o agli effetti che vuole ottenere.

nel troncare un discorso lasciando però intendere ciò che non viene detto (talvolta più di quanto non si dica). Ad es.: «Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni...» (Manzoni, I promessi sposi).

Significante / Significato Il signifi-

Rimario Repertorio alfabetico di tutte le rime presenti in un’opera poetica o utilizzate da un autore.

Ripresa ➜ Ballata Ritmo In un verso l’alternarsi, secondo determinati schemi, di sillabe atone e accentate (metrica accentuativa) o di sillabe lunghe e brevi (metrica quantitativa). Il termine indica anche componimenti poetici medievali in ➜ lasse monorime (Ritmo cassinese, Ritmo di Sant’Alessio).

Ritornello o refrain Verso o gruppo di versi che, in alcuni generi poetici, vengono ripetuti regolarmente prima o dopo ciascuna strofa.

del discorso rispetto alla normale costruzione sintattica. In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi futuri. È l’opposto dell’➜ analessi. Ad es.: «guarda la mia virtù s’ell’è possente» (If II 11), «la morte è quello / che di cotanta speme oggi m’avanza» (Leopardi, Le ricordanze).

nel quale si segue la formazione morale, sentimentale e intellettuale di un personaggio, dalla giovinezza alla maturità.

Q Quartina È la strofa composta di quattro versi variamente rimati. Le prime due strofe del sonetto sono quartine.

strofe di sei endecasillabi non rimati in cui la parola finale di ogni verso della prima strofa si ripete nelle altre in diverso ordine; è chiuso da tre versi che ripetono le sei parole. Inventata dal provenzale Arnaut Daniel, venne adottata da Dante e Petrarca.

Settenario È il verso composto da set-

Romanzo di formazione Romanzo

cui l’autore espone l’argomento dell’opera.

Sestina Componimento lirico con sei

Repraesentatio ➜ Ipotiposi Reticenza Figura retorica che consiste

Prolessi Anticipazione di un elemento

Prosopopea ➜ Personificazione Protasi Parte iniziale di un poema in

il nome dell’amata con Bon Vezi (Buon vicino); Raimbaut designa una poetessa amica come Jocglar “Giullare”. Sono dei senhal anche gli pseudonimi usati da poeti italiani sul modello provenzale (ad es. il senhal Violetta in una ballata dantesca); e così anche il sintagma l’aura usato da Petrarca.

Rubrica Nei codici medievali il breve riassunto posto in testa a ogni capitolo e che ne indica l’argomento. Il termine deriva dal colore rosso che nei codici medievali caratterizzava titoli e capilettera. Ad es.: il breve riassunto prima di ogni novella del Decameron.

S Senhàl (alla lettera “segno”) Nome fittizio con cui, nella poesia provenzale, il poeta alludeva alla donna amata o ad altri personaggi cui si rivolgeva. Ad es.: Guglielmo d’Aquitania cela

te sillabe, che può presentare vari schemi di rime. È utilizzato nella ➜ canzone e nella ➜ ballata. cante è l’elemento formale, fonico o grafico, che costituisce una data parola, il significato è il concetto al quale l’espressione fonica rimanda. Significante e significato insieme costituiscono il segno.

Sillogismo Tipo di ragionamento, codificato da Aristotele, in cui tre proposizioni sono collegate fra di loro in modo che, poste due di esse come premesse (premessa maggiore e premessa minore), ne segue necessariamente una terza come conclusione. Ad es.: “tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “Socrate è un uomo” (premessa minore) quindi “Socrate è mortale” (conclusione).

Simbolo Oggetto o altra cosa concreta che sintetizza ed evoca una realtà più vasta o un’entità astratta. Ad es.: il sole come simbolo di Dio, la bilancia come simbolo della giustizia.

Similitudine Figura retorica che consiste nel paragonare cose, persone o fatti in modo diretto ed esplicito utilizzando avverbi e vari connettivi (“come”, “tale... quale”, “così”, “sembra” ecc.). Ad es.: «Tu sei come la rondine / che torna in primavera» (Saba, A mia moglie).

Sinalèfe In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi alla stessa sillaba. È opposta alla ➜ dialefe e di norma è obbligatoria se entrambe le vocali sono atone. Ad es.: «Move-

Glossario

1037


si il vecchierel canuto et biancho» (Petrarca). terno di una parola. Ad es.: spirto per “spirito”.

schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate) mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni.

Sincronia Indica lo stato di una lin-

Spannung (ted. “tensione”) termine

Sincope Caduta di una vocale all’in-

gua in un particolare momento a prescindere dall’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ diacronia).

Sinèddoche Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. A differenza della ➜ metonimia (c’è chi la considera una variante di questa) si ha quando la relazione fra i termini implica un rapporto di quantità e di estensione. 1) La parte per il tutto (e viceversa); 2) il singolare per il plurale (e viceversa); 3) la specie per il genere (e viceversa). Ad es.: 1) “una vela solcava il mare” per indicare “una barca solcava il mare” oppure “ho imbiancato casa” per dire “ho imbiancato le pareti di casa”; 2) «l’inclito verso di colui che l’acque» (Foscolo, A Zacinto) dove verso indica i versi (dell’Odissea); 3) “il felino” per dire “il gatto” o “i mortali” per dire “gli uomini”.

Sinèresi In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. È opposta alla ➜ dieresi. Ad es.: «Questi parea che contra me venisse» (If I 46).

Sinestesìa Particolare forma di ➜ metafora che consiste nell’associare due termini che fanno riferimento a sfere sensoriali diverse. Ad es.: «Io venni in loco d’ogne luce muto» (If V 28), «là, voci di tenebra azzurra» (Pascoli, La mia sera).

Sintagma Unità sintattica di varia complessità, di livello intermedio tra la parola e la frase, dotata di valore sintattico compiuto. Ad es.: a casa, di corsa, contare su ecc.

Sirma ➜ Canzone Sirventese Componimento poetico di origine provenzale, di metro vario e di argomento didattico-morale o di ispirazione celebrativa.

Sonetto Forma poetica (forse “inventato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo da Jacopo da Lentini). È costituito sempre da 14 versi endecasillabi, suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo

1038

Glossario

che in narratologia indica il momento culminante di una narrazione.

Stanza ➜ Strofa Stilema Tratto stilistico caratteristico di un autore, di una scuola, di un genere letterario o di un periodo storico.

Straniamento Procedimento con cui lo scrittore, attraverso un uso inconsueto del linguaggio o la rappresentazione insolita di una realtà nota, produce nel lettore uno sconvolgimento della percezione abituale, rivelando così aspetti insoliti della realtà e inducendo a riflettere criticamente su di essa.

Strofa (o strofe o stanza) All’interno di una poesia è l’insieme ricorrente di versi uguali per metro e schema di rime. A seconda del numero di versi prende il nome di ➜ distico, ➜ terzina, ➜ quartina, ➜ sestina, ➜ ottava. Ad es.: un sonetto è formato da quattro strofe: due quartine e due terzine.

Summa Termine con cui nel medioevo si indicavano le trattazioni sistematiche di una determinata disciplina (in origine di teologia, poi anche di filosofia, astronomia ecc.).

T Tenzone Termine derivante dal provenzale che indica un dibattito tra poeti di visioni opposte a tema letterario, filosofico o amoroso.

Terza rima ➜ Terzina a rime incatenate.

Terzina a rime incatenate È il metro inventato da Dante per la stesura della Commedia, per questo motivo è anche detta “terzina dantesca”. Essa è composta da tre endecasillabi, di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva: si parla perciò anche di “terzine incatenate”.

Testimone In filologia ogni libro antico, o manoscritto o a stampa, grazie al quale è stato trasmesso un testo e in base al quale è possibile ricostruire l’originale.

Tmesi Divisione di una parola composta in due parti distinte di cui una alla fine di un verso e l’altra al principio del verso successivo. Ad es.: «Io mi ritrovo a piangere infinita- / mente con te» (Pascoli, Colloquio).

Tònica (sillaba) è la sillaba dotata di accento: la vocale di una parola su cui cade l’accento è quindi vocale tonica.

Tòpos (plur. tòpoi) in greco “luogo” ovvero “luogo comune”. Il termine indica un motivo stereotipato e ricorrente in un autore o in una tradizione (tuttavia i tòpoi più diffusi attraversano più epoche, culture e letterature).

Traslato Espressione o parola il cui significato risulti “deviato”, “spostato” da quello letterale. Sono dunque traslati le figure retoriche come la ➜ metafora, la ➜ perifrasi, la ➜ metonimia ecc.

Tropo ➜ Traslato

V Variante In filologia, ciascuna delle

➜ lezioni che differiscono dal testo originale ricostruito dall’editore o dalla tradizione critica. In linguistica, ciascuna delle diverse forme in cui si presenta un vocabolo (quale che sia il motivo di questa differenza). Ad es.: “olivo” e “ulivo”, “cachi” e “kaki” ecc.

Variatio (o variazione) Artificio retorico che consiste nel ripetere lo stesso concetto usando espressioni verbali, termini e costrutti sempre diversi.

Variazione ➜ Variatio

Z Zèugma Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due o più parole o enunciati dei quali uno solo è logicamente adatto. Ad es.: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (If XXXIII 9) dove vedrai si adatta solo a lagrimar e non a parlare.Ura mordit; nonsil conscres per aur quondum se des compraec fica; nequam


PAROLA CHIAVE

LESSICO

Indice delle rubriche

allocuzione 282 apologo 698 aristotelismo tomistico 280 bestseller 129 canto gregoriano 81 cavalieri erranti 67 chanson de toile 170 concezione provvidenzialistica 25 contrasto 153 dramma satiresco 587 ecloghe 594 eliocentrismo 945 encicliche 44 eterodosso 280 familiare 799 intertestualità 394 inurbamento 6 istituzioni universalistiche 9 metaletterario 949 metanarrativo 714 metatestuale 394 miniature 45

allegoria

35

online arte

ascetismo

misogino 14 mondanizzazione 7 mondanizzazione/secolarizzazione 525 motivo encomiastico 706 ordini mendicanti 100 ordini minori 306 oscurantismo 8 otium 691 ottimati 903 parodia 203 pluristilismo e plurilinguismo 34 politologo 903 potere temporale e potere spirituale 107 priori 217 Scolastica 13 sincretismo 939 stilizzazione 966 Studio fiorentino 584 sublimazione 527 tenzone 153 trovatori 81

incunaboli

565

online intellettuale

15

online canone

cortesia 20 edonismo 527 empirismo 913 errante 979 espressionismo 109 gentilezza/gentile 174 humanitas 537

machiavellico misticismo e ascetismo poema eroico online poetica simbolo/simbolismo sincretismo online stile virtù/fortuna

861 100 974 10 280 828

Indice delle rubriche

1039


PER APPROFONDIRE

online La “buona morte” nel Medioevo online Lo scriptorium

La fede nei miracoli e il culto delle reliquie

15

online I maestri fondatori del sapere medievale online Il vocabolario dell’università

I protagonisti della vita universitaria: il magister e gli studenti

31

online La retorica e l’arte di comunicare ieri e oggi online L’apporto linguistico dei conquistatori al volgare italiano online “Italia”, “italiani”: un mito linguistico-letterario online Il ruolo dei tre grandi trecentisti nella storia della lingua italiana online Il genere epico online Il romanzo cavalleresco medievale e il “romanzesco” online Un’interpretazione sociologica dell’ideologia cortese online La leggenda di re Artù e la sua fortuna online L’enigma della fin’amor

La ballata

107

online Jacopo Passavanti T9 Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima

Lo specchio di vera penitenza, versione in italiano online Immagini dell’aldilà nel mondo antico online La figurazione del diavolo nella cultura medievale online La raffigurazione del mondo ultraterreno La letteratura di viaggio oggi, fra Kerouac, Chatwin, Sepulveda, Terzani, Pessoa, Magris e Imai Messina 134 online Il titolo Novellino online “Le mille e una burla”: la Toscana e la tradizione comica, da Boccaccio... a Benigni Il sonetto 160 La canzone e la canzonetta 162 L’averroismo 183 La malattia d’amore come topos letterario 186 Comico e “carnevalesco” 199 online Un guazzabuglio di definizioni: poeti “comico-realisti”, “burleschi”, “giocosi” Un padre rifiutato, dei padri ideali 214 Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta 216 online Sogni e visioni nella cultura medievale online La questione della lingua online Ricostruire il testo originale della Commedia: un problema filologico ancora aperto La configurazione dell’aldilà dantesco 274 Inferno 276 Purgatorio 277 Paradiso 278 Perché si parla di Dante come “padre” della lingua italiana? 291 online La Commedia nel tempo online Le letture dantesche di Sermonti e Benigni, eventi di massa online Le lecturae Dantis online Una poesia metamorfica online Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis online Ma Laura è veramente esistita? online I libri come amici? La crisi della Scolastica 310 online Una data simbolica per una svolta paradigmatica online Il metodo di allestimento dell’epistolario online Work in progress: la composizione del Canzoniere

1040

Indice delle rubriche


Cos’è un macrotesto? 333 online L’ombra di Dante, un modello “rimosso” I volti di Laura 337 online “Italia”, “italiani”: un mito linguistico-letterario Le parole chiave del Canzoniere 339 online Come si legge la grafia di Petrarca Un nome “segno”: Laura-l’aura-lauro 358 online Il Canzoniere nel tempo online Boccaccio bibliofilo, filologo e copista Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda 393 Il manoscritto autografo del Decameron: la volontà editoriale dell’autore 402 online La peste tra realtà e letteratura online Una comunicazione paritaria: il simbolo del “cerchio” online Un “disegno ascensionale” o piuttosto un mondo “orizzontale”? online Il concetto di realismo Boccaccio, la materia erotica e il “boccaccesco” 474 online Una scena della novella di Calandrino e l’elitropia nelle versioni di Piero Chiara e di Aldo Busi online Le tre edizioni del Decameron «rassettate» dai censori controriformistici online La “sfortuna” del Decameron: da libro censurato a libro incompreso online Pasolini e il Decameron La nascita del collezionismo 532 online La filologia all’opera Il metodo filologico e la ricostruzione dei testi originari 534 Le città ideali 535 online Danzar, festeggiar, cantar e giocare… Il ruolo della festa nella società signorile online L’Accademia platonica di Careggi online Le scuole umanistiche di Guarino e di Vittorino da Feltre online Segrete corrispondenze: l’interesse rinascimentale per la magia Gli studi anatomici e la nascita della medicina moderna 555 Dante e Petrarca di fronte al rapporto latino-volgare 560 Aldo Manuzio: un geniale umanista-editore 562 Il repertorio classicistico: alcuni esempi 578 Dal mito di Orfeo alla Fabula di Poliziano 587 online Dal “giardino paradiso” dell’età umanistico-rinascimentale al “giardino della sofferenza” di Leopardi online Miguel de Cervantes Don Chisciotte e Sancio Panza in Arcadia (Parte II, cap. lxvii) Il libro del Cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei 603 Il mito del paese di Cuccagna 621 Cosa significava essere una “cortigiana”? 645 online Sigmund Freud Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio online La fortuna del repertorio cavalleresco presso il pubblico popolare La fortuna contrastata dell’Orlando innamorato 675 online Ariosto pensava a un “canzoniere”? Gli argomenti delle Satire 697 online Scrivere per polemizzare: la satira fra “genere” e “modo” online L’enigma dei Cinque canti: un materiale rifiutato dall’autore Gli esordi dei canti: uno spazio commentativo per l’autore 715 online L'Orlando furioso nel tempo online L’iconografia della follia online La specificità della comunicazione teatrale online Tragedia e commedia nel mondo classico

Indice delle rubriche

1041


Effetti speciali

787

online I luoghi del teatro online La scenografia prospettica

VERSO IL NOVECENTO

“Comico del significato” e “comico del significante” I rapporti di un acuto osservatore politico online La tradizione della trattatistica politica sul “buon governo” online Il duca Valentino: un modello per Il Principe online La Fortuna tra letteratura e arte online I politici e Machiavelli online La storiografia: da genere letterario a moderna scienza online La complessa elaborazione dei Ricordi online I Ricordi e le forme “brevi” della scrittura: massime e aforismi online Guicciardini nel tempo online Il disorientamento conoscitivo e la perdita delle certezze La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie online Una dissimulata letterarietà: le fonti Il “disagio della civiltà” da Tasso all’epoca moderna Leggere la Liberata o la Conquistata? Un caso unico nella filologia italiana online Le fonti storiche del poema e la rielaborazione fantastica online La Gerusalemme liberata nel tempo

Bestiari novecenteschi

793 816

945 973 976

11

online La fortuna del mito di Tristano e Isotta

La rivisitazione novecentesca della materia epico-cavalleresca John R.R. Tolkien, La riproposta dell’epica medievale per una società prosaica Italo Calvino, Sotto l’armatura niente

78 78 79

online Echi trobadorici nella poesia novecentesca online Umberto Eco, Frate Guglielmo incontra il mistico dissidente Ubertino da Casale online Oltranza mistica ed espressionismo linguistico online Il dramma di Maria alla croce nell’interpretazione di Dario Fo

Il Marco Polo di Calvino: dal progetto cinematografico alle Città invisibili 133 Italo Calvino, Le città invisibili 133 online Il sonetto viaggia nel tempo… online Epifanie femminili novecentesche: due esempi Il pericolo del riso e Il nome della rosa 200 online Lo stilnovismo montaliano e la figura femminile dell’«angelo visitante» online

Eugenio Montale, Ti libero la fronte dai ghiaccioli

online Testimonianze dall’aldilà: l’Antologia di Spoon River online Primo Levi Il canto di Ulisse, antidoto alla barbarie online Due interpretazioni psicanalitiche del personaggio di Laura

Andrea Zanzotto, Notificazione di presenza sui Colli Euganei

382

online Libri “galeotti” online Achille Campanile. Un rovesciamento umoristico dell’eurocentrismo: “La scoperta dell’Europa” online Dalla facezia umanistica alla barzelletta online Gianni Celati racconta ai lettori di oggi l’Orlando innamorato

Ariosto e Calvino: un rapporto privilegiato Italo Calvino Il lamento di Sacripante e la rosa

L’Orlando furioso come fonte e modello Italo Calvino Storia di Astolfo sulla luna

735 735 774 775

online Da Erasmo a Pirandello: il folle “ragionatore”

La chimera di Sebastiano Vassalli

1042

Indice delle rubriche

937


EDUCAZIONE CIVICA

nucleo concettuale Costituzione L’emarginazione dei “diversi” nel Medioevo

24

Sant’Agostino D10 I cristiani devono appropriarsi del sapere ingiustamente posseduto dai pagani De doctrina christiana

26

T1

61

online Marco Polo

T1

secondo le NUOVE Linee guida

Anonimo «Orlando è prode ed Oliviero è saggio» Chanson de Roland, lasse LXXX-LXXXVIII

T7

Il pubblico e il metodo della narrazione Il Milione, Prologo Cielo d’Alcamo Rosa fresca aulentissima

online Guittone d'Arezzo

T8

Ahi lasso, or è stagione de doler tanto

T10

Compiuta Donzella A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora

PARITÀ DI GENERE equilibri

164

#PROGETTOPARITÀ

PARITÀ DI GENERE equilibri

170

#PROGETTOPARITÀ

Donne sommerse: le rimatrici trecentesche online Dante Alighieri

T13 Perché è giusto impiegare il volgare Convivio I, IX, 2-5

PARITÀ DI GENERE equilibri

192

#PROGETTOPARITÀ

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Francesco Petrarca

T15a Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno

373

Canzoniere, 128 online Giovanni Boccaccio

D1

Una ritrattazione del Decameron Epistola XXI a Mainardo Cavalcanti

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Giovanni Boccaccio

T7a Tancredi e Ghismonda: una tragedia feudale Decameron, IV, 1

PARITÀ DI GENERE equilibri

453

#PROGETTOPARITÀ

Giovanni Boccaccio

T7b Lisabetta da Messina: una tragedia borghese Decameron, IV, 5

PARITÀ DI GENERE equilibri

464

#PROGETTOPARITÀ

online Paolo da Certaldo

D2b Come si devono educare le ragazze Libro di buoni costumi

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

online Pietro Abelardo

D3

Eloisa scrive ad Abelardo Storia delle mie disgrazie

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

online Zona Competenze

PARITÀ DI GENERE equilibri

Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este

PARITÀ DI GENERE equilibri

#PROGETTOPARITÀ

T6

T9

T7

Vittoria Colonna Qui fece il mio bel sole a noi ritorno Rime (VI)

PARITÀ DI GENERE equilibri

Isabella di Morra D’un alto monte onde si scorge il mare Rime (III)

PARITÀ DI GENERE equilibri

Matteo Maria Boiardo Orlando difende i valori della cultura e dell’amore Orlando innamorato I, XVIII, 40-48

606

#PROGETTOPARITÀ

647

#PROGETTOPARITÀ

650

#PROGETTOPARITÀ

680

Indice delle rubriche

1043


Ludovico Ariosto Ariosto e la condizione cortigiana 699 Satira I, vv. 85-123 e 247-265 Ludovico Ariosto PARITÀ DI GENERE T7 Rinaldo difensore dei “diritti delle donne” 736 Orlando furioso IV, 51-67 Niccolò Machiavelli T3 La Dedica e la presentazione del Principe 832 Il Principe, Dedica Niccolò Machiavelli PARITÀ DI GENERE T7 Le qualità del principe machiavelliano 841 Il Principe, cap. XV online Riflessioni sulla guerra

T2

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

La caccia alle streghe: una pagina oscura della storia

PARITÀ DI GENERE equilibri

online I regimi che proibiscono i libri

938

#PROGETTOPARITÀ

nucleo concettuale Sviluppo economico e sostenibilità online Ugo di San Vittore

D3 T3 T8

Il mondo naturale è manifestazione della sapienza divina Francesco d’Assisi Cantico di frate Sole Torquato Tasso La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori Gerusalemme liberata VII, 1-22

103 995

nucleo concettuale Cittadinanza digitale Dante Alighieri

T12 L’obiettivo e i destinatari dell’opera

255

LEGGERE LE EMOZIONI

Convivio I, I

Lotario da Segni

D6a Miseria della condizione umana T10 Allor che i giorni sono lunghi in maggio

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

120

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

150

online Jacopone da Todi

T5

Quando t’aliegre, omo d’altura Jacopo Passavanti T9 Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima Lo specchio di vera penitenza online Marco Polo T1 Il pubblico e il metodo della narrazione Il Milione, Prologo Zona competenze Guido Cavalcanti T13 Voi che per li occhi mi passaste ’l core Cecco Angiolieri T3 Tre cose solamente m’ènno in grado online Cecco Angiolieri T4 La mia malinconia è tanta e tale

1044

17

online Jaufre Rudel

Indice delle rubriche

184 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

205


Dante Alighieri EDUCAZIONE Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io ALLE RELAZIONI 247 Rime, 9, LII online Francesco Petrarca EDUCAZIONE D1b La solitudine nel locus amoenus di Valchiusa ALLE RELAZIONI Lettere familiari, VI, 3 Francesco Petrarca T4 L’accidia, il male dell’uomo moderno 319 Secretum, II, 13 Francesco Petrarca EDUCAZIONE T6 Un itinerario simbolico: l’ascesa al monte Ventoso ALLE RELAZIONI 326 Lettere familiari, IV, 1 Francesco Petrarca T10b O cameretta che già fosti un porto 349 Canzoniere, 234 Giovanni Boccaccio T9b La formazione di un mercante: Andreuccio da Perugia 475 Decameron II, 5 online Leon Battista Alberti D6 Il valore del tempo Libri della famiglia, III online Leonardo Bruni EDUCAZIONE D13 Il valore educativo della discussione e del confronto ALLE RELAZIONI Dialogo a Pier Paolo Vergerio Ludovico Ariosto T12 Una storia di amicizia e morte sullo sfondo della guerra: EDUCAZIONE Cloridano e Medoro ALLE RELAZIONI Orlando furioso XVIII, 165-173; 182-192; XIX, 1-15 748 Ludovico Ariosto EDUCAZIONE T14 E cominciò la gran follia sì orrenda ALLE RELAZIONI Orlando furioso XXIII, 100-121; 126-136; XXIV, 1-7 759 online Chrétien de Troyes EDUCAZIONE T1 Il «cerimoniale della follia» ALLE RELAZIONI online Niccolò Machiavelli EDUCAZIONE T1 Lode della varietà di comportamento (e di stile) ALLE RELAZIONI Lettera al Vettori del 31 gennaio 1515 Francesco Guicciardini T4 Il ruolo primario della fortuna nelle cose umane 918 Francesco Guicciardini EDUCAZIONE T6 La Chiesa, il popolo, la politica ALLE RELAZIONI Ricordi 28, 48, 66, 140, 141, 157 920 Torquato Tasso EDUCAZIONE T8 La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori ALLE RELAZIONI Gerusalemme liberata VII, 1-22 995

T9

Indice delle rubriche

1045


I LUOGHI DELLA CULTURA SGUARDO

Il monastero

16

Il castello

19

La città

23

L’università 30 La corte

542

Il cenacolo e l’accademia

543

La biblioteca

544

sulla storia La Firenze di Dante

218

online Ferrara al tempo di Ariosto

La vita politica a Firenze negli anni del segretariato di Machiavelli

814

sull’arte online In polemica con la cultura della penitenza

La novella di Nastagio degli Onesti illustrata da Sandro Botticelli Poliziano e Botticelli: il mondo della bellezza tra poesia, filosofia e arte La fusione del Perseo online La maga Melissa secondo Dossi online La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano online La follia di Orlando online La nave dei folli

443 586 616

sul teatro e sul cinema online I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone online I volti di Francesco online Dante e il cinema

Boccaccio e il cinema. Il Decameron di Pasolini La storia di Giulietta e Romeo: dalla novella al teatro al cinema online La guerra nel Cinquecento online Il cinema sul Rinascimento Streghe, inquisitori, eretici

508 663

938

sulla musica online Fabrizio De André S’i’ fosse foco

sulla letteratura inglese Uno sguardo all’Europa: Chaucer e i Canterbury Tales 507

sulla letteratura e il teatro L’Orlando furioso di Ronconi

sulla letteratura straniera online Echi di Tasso in John Milton online Come Goethe scopre la propria vocazione teatrale grazie alla storia di Clorinda

1046

Indice delle rubriche

745


ORIENTARE E ORIENTARSI

D6

Due visioni opposte del corpo umano

17

Anonimo T1 «Orlando è prode ed Oliviero è saggio» Chanson de Roland, lasse LXXX-LXXXVIII online Jaufre Rudel T10 Allor che i giorni sono lunghi in maggio Azalais de Porcairagues T12 Or siam giunti al tempo freddo online Jacopone da Todi T5 Quando t’aliegre, omo d’altura Jacopo Passavanti T9 Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima Lo specchio di vera penitenza online Marco Polo T1 Il pubblico e il metodo della narrazione Il Milione, Prologo online Anonimo T6 Novellino, Raccontare per un nuovo pubblico Zona competenze Compiuta Donzella T10 A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora Guido Cavalcanti T13 Voi che per li occhi mi passaste ’l core Cecco Angiolieri T3 Tre cose solamente m’ènno in grado Cecco Angiolieri T6 S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo. online Cecco Angiolieri T4 La mia malinconia è tanta e tale Dante Alighieri T9 Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io Rime, 9, LII online Dante Alighieri T18 Lo stile tragico online Dante Alighieri T22d Il viaggio proibito: Ulisse “doppio” di Dante? online Francesco Petrarca D1b La solitudine nel locus amoenus di Valchiusa Lettere familiari, VI, 3 online Ugo Dotti, Il significato della solitudine per Petrarca online Francesco Petrarca T1b I classici come interlocutori viventi Francesco Petrarca T4 L’accidia, il male dell’uomo moderno Secretum, II, 13 online Vinicio Pacca, «Gestire la propria immagine in prima persona»: la funzione dell’Epistolario Francesco Petrarca T6 Un itinerario simbolico: l’ascesa al monte Ventoso Lettere familiari, IV, 1 Francesco Petrarca T10b O cameretta che già fosti un porto Canzoniere, 234

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online D3b Eugenio Montale, Quartetto

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online Giovanni Boccaccio

T9a Il ritmo della fortuna/il ritmo del mare: Landolfo Rufolo Decameron II, 4 Giovanni Boccaccio T9b La formazione di un mercante: Andreuccio da Perugia Decameron II, 5 online Leon Battista Alberti D6 Il valore del tempo Libri della famiglia, III online Leonardo Bruni D13 Il valore educativo della discussione e del confronto Dialogo a Pier Paolo Vergerio Giovanni Della Casa T8b Argomenti di conversazione. Come parlare in società Galateo, capp. XI e XXIV Matteo Maria Boiardo T7 Orlando difende i valori della cultura e dell’amore Orlando innamorato I, XVIII, 40-48 online Ludovico Ariosto Ariosto chiede ad Alfonso d’Este di esonerarlo dall’incarico di governatore Lettera 139 (1-2; 11) Ludovico Ariosto T12 Una storia di amicizia e morte sullo sfondo della guerra: Cloridano e Medoro. Orlando furioso XVIII, 165-173; 182-192; XIX, 1-15 Ludovico Ariosto T14 E cominci. la gran follia sì orrenda. Orlando furioso XXIII, 100-121; 126-136; XXIV, 1-7 online Chrétien de Troyes T1 Il «cerimoniale della follia» online Leon Battista Alberti T2 La libertà del vagabondo online Erasmo da Rotterdam

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Il rovesciamento del rapporto follia-saggezza

online Niccolò Machiavelli

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Lode della varietà di comportamento (e di stile) Lettera al Vettori del 31 gennaio 1515 Niccolò Machiavelli La Dedica e la presentazione del Principe Il Principe, Dedica Francesco Guicciardini Il ruolo primario della fortuna nelle cose umane Ricordi 30, 136 Francesco Guicciardini La Chiesa, il popolo, la politica Ricordi 28, 48, 66, 140, 141, 157 Torquato Tasso La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori Gerusalemme liberata VII, 1-22

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