lattine con una storia
indice Prefazione
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Introduzione storica
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Indian tonic water - 1783
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In Russia 2%Vol è senz’alcool
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Da Medicina cinese a soft drink
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Scottish other national drink - 1901
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I colori che dissetarono Cape Town
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Julmust e il Natale - 1910
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Chinotto italiano
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La leggenda del guaranà - 1921
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La bevanda d’oro - 1935
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If life doesn’t give you lemons
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La soda nata sotto il Reich - 1940
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Pepsi vs Coke: soda wars
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La cola del mondo islamico
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Guerra a Mountain Dew - 1964
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Là dove nasce il sole
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La lattina rinasce
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Appendice
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prefazione
Nell’osservare una scena di vita quotidiana ai giorni nostri, in qualsiasi parte del mondo non potrà sfuggirvi che qualche bevanda starà dissetando qualcuno sgorgando da una piccola lattina. Un contenitore “moderno” che solo negli ultimi cento anni ha vissuto una nascita ed una evoluzione fino ad arrivare all’oggetto che conosciamo. Leggera, economica, adatta al mantenimento organoletttico del contenuto e simbolo del recycling. Adatto al trasporto visuale del brand ed immediatamanete riconoscibile; ricopre un ruolo da prima attrice Visualizzata ottimamente nelle pubblicità, visibile in film e eventi di ogni genere. Con la sua presenza amichevole riempie i frigoriferi di tutto il mondo.
In queste pagine è nostra desiderio tramandarvi le storie più belle. Partiremo con una breve contestualizzazione storica, grazie alla quale chiunque potrà apprezzare la grandezza dell’ innovazione tecnologica ormai scontata e vi permetterà inoltre di inquadrare nel tempo i vari aneddoti che vi offriremo successivamente. Si tratta infatti di una raccolta di quindici storie, leggende, scontri ed invenzioni che abbiamo selezionato accuratamente fra tutte quelle che si concludono con un sorso da una lattina. Elisa & Federico
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introduzione storica
1795: l'alba della lattina A che epoca risale la lattina alimentare? Chi la inventò? Per rispondere a questi interrogativi dobbiamo andare indietro di ben 200 anni, fino al 1795: “Sia premiato con dodicimila franchi colui che inventerà le pietanze in scatola!”. Napoleone Bonaparte annunciava così la ricompensa dovuta a chi fosse riuscito ad elaborare un metodo di conservazione del cibo per le provviste delle sue armate. I punti deboli degli eserciti napoleonici erano infatti la fame e le malattie, più che il combattimento. Napoleone stesso notò che un esercito “marcia sul suo stomaco”: il progresso militare e l’espansione coloniale, soprattutto in vista della campagna in Russia, necessitavano l’invenzione di un nuovo modo di conservare incontaminati i viveri e le provviste per lunghi tempi e distanze.
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“At the time, there were no fruits or vegetables on the ships, and food was smoked, dried, fermented, or salted. He got glowing reports from the French Navy.” Joseph Marcy, PhD, Virginia Tech “Appert’s great contribution was that he planned methodical experiments, verified them by exact observations, and drew logical conclusions.” J.C. Graham, H.J. Heinz Co. Ltd.
Nicolas Appert
1809: il prototipo A vincere il premio fu il parigino tuttofare Nicolas Appert, che utilizzò la sua esperienza di produttore di caramelle, vinaio, birraio e produttore di sottaceti per perfezionare la tecnica. Dopo 15 anni di sperimentazioni Appert riuscì a conservare le pietanze cuocendole parzialmente, sigillandole in vasetti di vetro con tappi di sughero e immergendoli in acqua bollente per espellere l’aria. Non si trattava ancora di lattine metalliche, ma con lui ha inizio la nascita del cibo in scatola. Appert ipotizzò che fosse il contatto con l’aria a contaminare il cibo, proprio come accadeva col vino; bisogna puntualizzare che le scoperte di Pasteur sui batteri sarebbero avvenute solo mezzo secolo dopo. Campioni di 18 diversi alimenti così conservati (tra cui pernice, verdure, sughi..) furono spediti per mare con i soldati di Napoleone per oltre 4 mesi; nessun cibo denotò il minimo
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cambiamento, e nel 1810 Appert ricevette il premio designato dall’Imperatore in persona e proclamato ‘eroe nazionale’, Bisogna tener noto che, prima d’allora, i marinai erano soliti tenere a bordo bestie vive per nutrirsene man mano, e questo rendeva l’igiene generale assai scarsa. Appert scrisse un libro: “L’arte di conservare le sostanze animali e vegetabili per molti anni”, che descriveva in modo dettagliato il processo di inscatolamento di più di 50 cibi, destinato a diventare un manuale essenziale per chiunque volesse cimentarsi nella conservazione dei cibi fai-da-te.
“I gave [visitors] a round of English Beef, which was cooked by Messrs. Donkin and Gamble two years and four months before, which, with a glass of wine, made no bad lunch” John Dickson, engineer, 1815 “I think it is a most excellent thing for the ship’s company, and particularly those in a convalescent state. Two men, who were very ill and weak, have considerably recovered from the use of it these last few days” Captain A W Schomberg of HMS York, 1814 Una delle prime fabbriche di lattine, probabilmente la Donkin, Hall & Gamble
1810: il brevetto Nell’agosto dello stesso anno, al mercante inglese Peter Durand fu concesso il brevetto dal re Giorgio III d’Inghilterra per la conservazione di cibi “in vetro, ceramica, alluminio e altri metalli”. Durand prese l’idea di Appert e fece un ulteriore passo avanti, sostituendo le fragili bottiglie di vetro con vere e proprie cilindriche lattine in alluminio, simili a quelle odierne ma fatte a mano e di costosa produzione. Proprio per il costo di produzione e la difficoltà di apertura delle lattine, pesanti e ben sigillate (le istruzioni sul coperchio leggevano: tagliare circolarmente la lattina servendosi di un coltello, martello e scalpello o addirittura una roccia!) il cibo in scatola non prese subito piede, e fu usato inizialmente solo per l’esercito. Inoltre sperimentò ed accertò la conservazione di volumi maggiori di cibo, arrivando a 13 kili in un solo contenitore. Dopo aver ricevuto il brevetto Durand non proseguì l’at-
tività, e vendette l’invenzione a due gentiluomini inglesi, Bryan Donkin e John Hall, i quali misero in piedi la prima fabbrica di cibo in lattine, e nel 1813 cominciarono ufficialmente a produrre viveri per l’esercito inglese. Una forte spinta al consumo del cibo in scatola venne anche dalle grandi esplorazioni polari e dalle spedizioni per la ricerca dei nuovi territori, come il russo Otto Von Kotzebue in cerca del passaggio a Nord-ovest (1815) o William Edward Parry negli anni ‘20. Un aneddoto sulla qualità delle conserve di Donkin si basa proprio su una scatoletta di arrosto di vitello originariamente portata da Parry nella prima delle sue due spedizioni. La lattina in questione venne lasciata nella base artica, quando Parry abbandonò il vascello HMS Fury nel 1825; venne ritrovata 4 anni dopo dal capitano sir John Ross che la riportò a Edimburgo e la usò come
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Esemplari di lattine Donkin, Hall & Gamble
1812: la lattina nel nuovo mondo fermaporte per degli anni. Venne infine aperta da degli scienziati nel 1958, ben 135 anni dopo il suo confezionamento. Le analisi dimostrarono che la carne aveva mantenuto inalterate tutte le sue caratteristiche nutritive. L’unico cambiamento registrato era un forte sapore amaro dovuto alla grande quantità di acidi grassi e la latta e il metallo discioltisi col passare degli anni; quest’episodio sollecitò l’adozione di guarnizioni interne laccate nelle lattine. Il contenuto della lattina venne poi dato in pasto ad un gatto.
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Il padre della produzione di cibo in scatola in America invece fu Thomas Kensett, un immigrato inglese che dall’Inghilterra portò con se l’arte dell’inscatolamento. Sulla New York costiera nel 1812 fondò uno stabilimento, il primo in America ad occuparsi di cibo in scatola, e si specializzò nella conservazione di salmone, aragosta, ostriche, carne, frutta e verdura. Kensett cominciò usando barattoli di vetro, ma ben presto, trovando il vetro costoso e difficile da imballare per la sua fragilità, passò alla latta. Fu insignito del brevetto U.S. per l’inscatolamento in lattina. Un suo avversario fu Charles Underwood, un inglese trasferitosi a Boston per cercare fortuna, che si specializzò nella conservazione di frutta, sottaceti e condimenti in barattoli di terracotta, per poi, anche lui, convertirsi alla lattina.
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Immagine tratta da un articolo di giornale raffigurante una rudimentale macchina per fabbricarsi lattine in casa (1847); nella pagina a fianco, annuncio pubblicitario del latte condensato Gail Borden (1898)
1847: la lattina industriale Nel 1847 le cose ominciano a cambiare: l’americano Allen Taylor brevetta la prima rudimentale lattina fatta a macchina, con i bordi sporgenti (ai quali poi si aggancerà l’apriscatole, che ai tempi non era ancora stato inventato), e le lattine finalmente cominciano ad avere l’aspetto odierno. Nel 1849 Henry Evans giunge ad inventare il ‘pendulum press’, una macchina perfezionata in grado di creare una lattina con un singolo processo; la produzione per singolo operaio viene aumentata, da 5/6 lattine all’ora a 50/60! E questo chiaramente avvantaggiò molto lo sviluppo dell’industria di inscatolamento. Nel frattempo, il desiderio di benessere e di espansione coloniale che animava gli Stati Uniti (il cosidetto Manifest Destiny) portava con se ancora una volta la necessità di lunghi viaggi verso le frontiere da parte dei pionieri, e di conseguenza la richiesta di
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cibo in scatola conobbe un’impennata. Gail Borden si ispirò proprio a questo neonato bisogno di provviste per fondare, nel 1856, la sua fabbrica di latte condensato in lattina; non era certo la prima fabbrica di quel genere, ma divenne presto la più richiesta e la migliore in qualità, anche grazie alla pesante pubblicità che Borden faceva al suo prodotto comparandolo con quelli avversari di evidente minore qualità. Un’altro fattore che rese il cibo in scatola ancora più richiesto fu la Guerra Civile. Il latte condensato di Borden è rinomato per aver salvato diverse vite al fronte; inoltre i reduci, una volta tornati a casa, erano ormai affezionati al cibo in lattina, e continuavano ad acquistarne per uso ordinario. Poi alla loro enorme diffusione contribuì una scoperta, fatta nel 1861 (l’anno in cui iniziò la guerra): venne scoperto che aggiungere cloruro di calcio all’acqua in cui le lattine venivano
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Pescatori con rete sul fiume Columbia, Oregon.
Pubblicità raffigurante la lattina trapezoidale di Libby, Mc Neill & Libby (1898)
1866: sulla via dell'evoluzione bollite alzava la temperatura dell’acqua velocizzando tutto il processo di inscatolamento. Venne poi finalmente inventato l’apriscatole (1865), che rese i prodotti in lattina più convenienti che mai. E, dato che le risorse richeste dalla guerra in corso competevano con quelle richieste dall’industria conserviera, vennero sviluppate lattine dal foglio di metallo più sottile, quindi prodotte consumando meno latta, ma ugualmente solide. Alla fine della Guerra Civile la produzione di cibi in scatola annuale era aumentata da 5 milioni a 30 milioni.
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Nel 1866 E. M. Lang brevetta un nuovo modo di sigillare le lattne, saldandone le estremitò a fusione. È un periodo di benessere economico e di rapida crescita dell’industria, e i nuovi territori sono occupati da impianti conservieri di frutta e verdura. Nel 1864, sul fiume Sacramento viene inscatolato per la prima volta il salmone del Pacifico. Il numero degli impianti conservieri cresce da meno di un centinaio nel 1870 a quasi 1800 alla fine del secolo! Nel 1901 infine nasce la American Can Company dall’unione di 123 fabbriche. Nel 1875 Libby e Wilson creano la storica lattina conica trapezoidale per la carne in scatola, tutt’ora convenzionalmente utilizzata. Nel 1875 le lastre di ferro vengono sostituite con l’acciaio, e nello stesso anno si iniziano ad inscatolare le sardine. Tra il 1880 e il 1890 si ha un significativo aumento della produzione con la prima macchina semi-automatica. Con l’aumento
Settori di stampa della fabbrica Carnaud nel distretto di Boulogne Billancourt (primi del ‘900).
Coda della stessa catena di montaggio in Francia (primi del ‘900).
Capo di una catena di montaggio in Francia (primi del ‘900).
Settori di stampa di una fabbrica francese (primi del ‘900).
Varie esempi di marchi di sardine in scatola di produzione Norvegese distrubuiti in Australia.
1914: guerra e dopoguerra della produzione aumentava anche la quantità di prodotti commerciati. Nel 1899 fanno il loro ingresso sul mercato le economiche zuppe Campbell, rese poi iconiche da Andy Warhol. Si cominciò a inscatolare anche il tonno, nel 1909, quando uno stabilimento che produceva sardine in sactola restò temporaneamente a secco di materia prima. A quell’anno erano già disponibili 63 tipi diversi di carne; i succhi di agrumi e di pomodoro comparvero invece solo nel 1920. Ormai un’infinita varietà di cibi era diventata disponibile tutto l’anno.
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Al tempo della Grande Guerra, le lattine erano ormai parte integrante della vita di tutti gli americani. E, se le truppe francesi e inglesi avevano beneficiato dell’innovazione apportata dal cibo in scatola, le truppe americane che combattevano in Europa e in Asia dipendevano proprio da esso. I soldati portavano un apriscatole appeso al collo, insieme alla targhetta: era un vitale strumento di sopravvivenza. Poi, col boom del dopoguerra, l’America cambia drasticamente. Il benessere si spande con i nuovi supermercati, le lattine e le conserve sono ovunque. Una nuova era del consumismo americano si apre. La progettazione del packaging resa possibile dalle lattine e da altri contenitori ha profondamente cambiato il rapporto tra consumatore e acquisto dei prodotti: i prezzi fissati, le dosi prestabilite, le marche raccomandate. Ormai ogni cliente poteva vedere e sce-
Fotografie ritraenti fabbriche di salmone in scatola; a sinistra un lotto di lattine viene riscaldato, a destra i lotti completati vengono impilati dagli operai nel magazzino della fabbrica. (1913 circa)
gliere da se i prodotti tutti in un unico posto. Le etichette sulle lattine ne raffigurano il contenuto, cercando di renderlo il piu appetibile possibile e creando cosi una sorta di democratica competizione fra marchi. Nasce la “brand loyalty”. A&P fu la prima catena di supermercati veri e propri ad aprire negli USA; la compagnia esisteva già dal 1849. In un era marchiata dall’avvento dell’economia domestica e dall’aumento demografico, le pietanze in scatola diventarono i migliori amici delle casalinghe, essendo il cibo in scatola non solo più economico, ma anche più conveniente per preparare gustosi pasti alle famiglie. Spopolavano anche le ricette che prevedevano l’uso di conserve, così da quel momento chiunque avrebbe potuto essere una brava massaia. A&P aveva spianato la strada alle grandi catene di alimentari: nel 1916 fu la volta di Piggly Wig-
gly, e nel 1930 di King Kullen, Kroegers, Safeway e Jewel. Nel 1937 viene inventato il carrello pieghevole, e gli acquisti sono facilitati. Nel 1907, viene fondata la National Canners Association, alle cui radici c’è un episodio accaduto nel 1894, quando uno scienziato della Wisconsin University scoprì la causa delle misteriose esplosioni di alcune conserve in un magazzino: dei microrganismi rimasti all’interno delle lattine. Per prevenire altri incidenti viene alzata la temperatura d’ebollizione durante l’inscatolamento, e l’associazione nacque proprio per perfezionare il processo.
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Birre in lattina degli anni ‘30; nella pagina a fianco, esempio di lattina di Pepsi-cola. Nella pagina successiva, annuncio pubblicitario per la nuova tecnica di saldatura.
1930: soda e birra Già dal 1930 le industrie manufatturiere cominciavano ad esplorare le possibilità di confezionare in lattina le bibite gassate. Le compagnie birraie e di soft drink studiavano da tempo il modo di vendere più materiale nel modo più efficiente possibile, e le lattine erano più infrangibili delle bottiglie di vetro e la loro forma le rende più efficientemente accatastabili. Ma la lastra di metallo delle lattine al tempo era troppo sottile, e rischiava di deformarsi con la pressione interna dell’anidride carbonica, specialmente durante i caldi mesi estivi. In più, le bibite in lattina non sarebbero durate molto: anche solo una minuscola quantità di latta o acciaio disciolto nella bevanda avrebbe compromesso la qualità del sapore. Il problema non si poneva con la birra, naturalmente poco acida e quindi non corrosiva, e dalla breve durata (tre mesi circa) in qualsiasi
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contenitore. Ma gli acidi carbonico, fosforico e citrico presenti nei soft drink rappresentavano un rischio di rapida corrosione delle pareti della lattina esposte. Per ovviare a questo problema le pareti interne delle lattine vennero ricoperte con rivestimenti organici più resistenti. Il primo soft drink a venire prodotto in lattina (modello “cone top”) fu il Cliquot Club ginger ale, ma ci furono problemi con il rivestimento interno: perdeva e alterava il sapore della bibita. Ci vollero diversi anni per aggiustare il difetto, e finalmente, nel 1948 uscirono le prime storiche bibite in lattina, della Continental Can Company e Pepsi-cola, 35 cl a 10 centesimi. Nel 1955, la James Vernor Company of Detroit lancia la sua ginger ale in lattina con il nome di “Vernor Picnic Can”, vendendola in cartoni da 6 lattine per 79 cent. Nel 1940 invece Coca-cola testava le sue prime bibite in lattina: sulla confe-
Lattina di Coca-cola ‘‘Harlequin’ design (1966); a destra e nall’altra pagina, 4 fotografie di negozi con esposizioni pubblicitarie della Royal Crown Cola negli anni ‘40/’50.
zione recitavano: “Prettamente per uso casalingo o in gita”. Nel 1955 cominciò a vendere alle forze armate all’estero, e nel 1959 vendeva già in 5 città americane. Ma nel 1960 era già un altro il leader produttore di bevande in lattina: Royal Crown. La nascente competizione spinse finalmente Coca-cola a promuovere le sue lattine su grande scala, e ad introdurre un nuovo design di provato appeal per il consumatore, l’Harlequin. Il diffondersi delle lattine per le bevande gassate fu comunque ritardato dalle limitazioni di materiale mandato dal governo durante la guerra in Korea. Quando, dopo la guerra, le restrizioni finirono, le bevande in lattina si diffusero in tutta la nazione. Spuntò ben presto anche un nuovo materiale, conveniente sia per quantità di utilizzo che per il costo: l’alluminio. La prima lattina per bevande in alluminio fu prodotta dalla Reynolds Metals
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Company nel 1963 per una bevanda dietetica, la Slenderella. Royal Crown adottò la nuova lattina in alluminio nel 1964, e nel 1967 la adottarono Pepsi e Coke. Era una grande innovazione per l’industria di lattine, perchè la lattina in alluminio era formata da soli due pezzi: un corpo e un’estremità; questo rese possibile stampare a 360° su tutta la lattina, rendendola più esteticamente attraente. Ora ogni lattina poteva pubblicizzare il suo contenuto con grafiche colorate e acchiappanti, e ‘fidelizzare’ maggiormente i clienti. Un ulteriore elemento pubblicitario fu il packaging dei multi-pack fino a 12 lattine; la possibilità di progettare design pubblicitario su di essi avvantaggiò le case produttrici. Inoltre la vendita dei multi-pack venne incrementata, i clienti tendevano ad accumulare nei frigoriferi scorte della loro bibita preferita. Le bevande in lattina vennero introdotte nelle macchinette nel
Dettaglio di lattina Krueger del 1935 con istruzioni.
1961, e alla fine degli anni 60 dominavano ormai il mercato. Nel 1985 le lattine di alluminio erano il packaging più popolare per le bevande e, ancora oggi, le bibite in lattina vengono acquistate 4 volte di più di quelle in bottiglie di plastica, e 38 volte più di quelle in bottiglie di vetro. Passiamo ora ad una produzione contemporanea a quella delle sode, ma sviluppatasi in modo abbastanza differente: l’industria della birra. Per qualche ragione le vecchie lattine di birra sono molto ambite dai collezionisti, soprattutto le marche meno famose. La prima lattina di birra risale al 1935, è d’acciaio, della American Can Company, e venduta dalla Krueger Beer e richiede un apriscatole. Ma già nell’agosto di quell’anno il maggior produttore di birra in lattina era Pabst. Poco dopo, due birrifici, Schlitz Lager e Heilman Lager introducono nel mondo del packaging della birra la cone top
can, che aveva il vantaggio di assomigliare ad una bottiglia e poter essere quindi imbottigliata nelle già esistenti catene di montaggio. Il passaggio da bottiglia a lattina fu lento e difficoltoso per i birrifici, ma vennero presto ripagati dai crescenti guadagni: i camion di trasporto potevano portare il doppio delle lattine rispetto alle bottiglie, e trasportarle per maggiori distanze. Tra il 1942 e il 1946 le lattine di birra venivano usate principalmente dai militari in guerra, e venivano addirittura colorate di verdone grigiastro per cammuffarle ed evitare che riflettessero la luce. Come accadde col cibo in scatola, i soldati si affezionavano alle bibite in lattina, e portavano quest’abitudine a casa dopo la guerra. Uno studio del 1947 dimostra che le famiglie dei veterani avevano un tasso di acquisto di birra in lattina più alto del 32% della media nazionale. Non ci volle molto, comunque,
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Schema del brevetto dell’apertura a strappo (1969).
perchè la birra in lattina si diffondesse e diventasse popolare. Se le lattine costituivano solo il 26% del packaging della birra nel 1950, nel 1970 la percentuale è lievitata al 52%. Questo aumento era certamente dovuto all’avvento delle lattine in alluminio (1958) e all’invenzione dell’apertura a strappo, di Ermal Fraze nel 1963, che ebbe talmente tanto successo da mandare fuori produzione la cone top. Nel 1984 venne invece ritirata dal commercio la lattina di acciaio a tre pezzi: l’alluminio l’aveva soppiantata. L’apertura a strappo andava intanto migliorandosi, e nel 1975 fu introdotta dalla Falls Brewing Company quella che hanno tutt’ora molte birre. •
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lattine che meritano di essere raccontate
INDIAN
TONIC
WATER
Sul finire del diciottesimo secolo incontriamo Joseph Priestley, considerato uno dei maggiori chimici di tutti i tempi per aver condotto esperimenti su varie sostanze e gas, nonchè riconosciuto come scopritore dell’ossigeno nel 1774. Fra i suoi vari lavori, inventò un metodo per dissolvere diossido di carbonio in acqua. Questa invenzione ebbe molto seguito, come possiamo immaginare nel momento in cui le diamo il nome più familiare di ‘gassificazione dell’acqua’, ed in particolare folgorò la mente scientifica e creativa di un orefice svizzero di nome Johan Jacop Schweppe. La notizia lo colpisce ed ispira: decide di perfezionare questa macchina in grado aggiungere anidride carbonica all’acqua allo scopo di produrre a livello industriale quella che gli pare essere una bibita innovativa. La sua nuova macchina, rinominata ‘Machine de Geneve’ (Ginevra, la seconda città Sopra, ritratto di Johan
Jacop Schweppe; sotto, progetto per la ‘Machine de Geneve’. Nella pagina seguente, veduta del Crystal Palace.
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più popolata della Svizzera), viene inizialmente utilizzata in campo medico. Jacob Schweppe la propone infatti ai medici per offrirla gratuitamente ai malati di reni, di vescica, di gotta o ai quali avevano avuto un’indigestione. La carbonazione dell’acqua restituiva vigore e benessere a queste persone. Successivamente dovette decidere di applicare alla sua bevanda un prezzo, giusto per pagare i costi di produzione. Nasce così la ‘Schweppe’s soda water’ appena nel 1783. Jacob ed il suo neonato brand si trasferiscono in Inghilterra, dove presto le bibite Schweppe’s diventeranno il fornitore ufficiale dei reali inglesi, che nel 1831 sottotitolava: “Soda and Mineral Water Manufacturers to Their Ma jesties and the Royal Family “. Insieme col inestimabile merito di primo soft drink della storia, è ancora Schweppes ad inventare lo sponsoring, divenendo fornitore
esclusivo al Crystal Palace durante l’Esposizione universale del 1851, mentre fu invece all’Esposizione universale di Parigi che la bevanda venne premiata con la Medaglia di bronzo, d’argento e d’oro come alto riconoscimento per le acque minerali. Negli stessi anni gli Inglesi avevano conquistato le Indie pezzo per pezzo. Al di là delle conseguenze culturali, storiche ed economiche, una in particolare è di vitale importanza in questa storia. Le truppe inglesi in India incontrarono un nemico nella dilagante malaria ed un alleato in un estratto della pianta della china. La leggenda dice che fu la moglie del vicerè del Perù, la contessa Ana Chinchón, a dare il proprio nome alla pianta dopo essersi curata dalla malaria proprio grazie ad essa e decidendo poi di promuoverla e distribuirne le bacche ed il siero nel mondo. Questo estratto di china, denominato chinino, dai tali
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più o meno sopravvalutati benefici sulla salute, veniva mescolato con acqua zuccherata per via del suo pessimo ed amarissimo sapore, finchè la Schweppe’s soda water non divenne disponibile anche fra le truppe inglesi in India. Non solo l’assunzione del chinino a prevenzione della malaria fu resa sopportabile dalla diluizione nella soda, ma ne nacque un soft drink a sè stante, apprezzatissimo dai soldati che se lo riportarono poi in Europa dove venne accolto anche grazie alla sua adeguetazza come base per molti cocktail. La Schweppes Indian Tonic Water, dall’incrocio fra un medicinale indiano ed il perfezionamento di una macchina per l’acqua gasata inglese ad opera di uno svizzero, nasce così nel 1870, quando gli inglesi, che in India avevano usato il chinino per proteggersi dalla malaria, fanno ritorno in patria portando con sé il celebre ingrediente.
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IN RUSSIA
2%VOL è SENZA ALCOOL
Mentre i ragazzi americani facevano la fila al furgoncino dei gelati nei caldi giorni estivi, i ragazzi in Russia storicamente ambivano a qualcosa di diverso: il furgone del KBAC (‘kvas’). Kvas è un drink di grano fermentato, una specie di birra tradizionale lievemente alcolica. In estate veniva servita da grossi barili mobili e ognuno attendeva in fila il suo turno. Potrebbe sembrare una cosa distante anni luce dai ghiaccioli e i gelati, ma i russi ne hanno parecchi ricordi. “Da piccoli non avevamo la soda nell’Unione Sovietica; a malapena si poteva comprare l’acqua per strada. Quindi kvas praticamente ci salvava la vita!” ricorda Eugenia Glivinski.
Per ottenere quel forte sapore fermentato, i produttori di kvas utilizzano, se non barbabietole o altri frutti, il pane nero russo. Viene imbevuto nell’acqua, e poi vi viene aggiunto del lievito e a piacere uva, miele, menta. Il tutto viene lasciato fermentare per qualche giorno; il processo creerà una carbonazione naturale e il classico sapore aspro. Secondo lo scrittore russo Alexander Genis, quell’asprezza di sapore è molto amata nella regione. “L’aspro è il sapore della Russia. Tutto dovrebbe essere aspro per i russi. Come la sour cream per esempio, o i cetrioli sottaceto. Cavoli, funghi.”. Non sorprende che i russi abbiano un debole per i sottaceti. La fermentazione aiutava a preservare ricchi di vitamine frutta e verdura in vista del lungo e freddo inverno. E l’acido che risulta dalla fermentazione ha più di un semplice buon sapore. È in grado di abbassare il pH abbastanza da uccide-
Nelle pagine precedenti: pubblicità di Kvass; botticella di distribuzione. In questa pagina, boccale tipico di kvass artigianale. Nella pagina seguente, furgoncino di kvass e due lattine commerciali.
re i batteri nocivi; ciò significava che bere il kvas era più igienicamente sicuro del bere acqua. Di conseguenza, il kvas è stato popolare per secoli; i soldati erano riforniti con razioni di kvas, e portarono il suo consumo anche oltre i confini della Russia (Genis chiamava scherzosamente questo fenomeno ‘l’imperialismo del kvas’). Aggiunge: “Al giorno d’oggi è quasi impossibile bere del vero kvas in America; perché non è ‘vivo’. È come la differenza tra la birra alla spina e quella imbottigliata. Tutto il kvas imbottigliato è principalmente acqua e zucchero”. Ma, mentre c’è questo kvas Coca-Cola mainstream, ci sono anche alcuni nuovi produttori che cercano di far rivivere i metodi tradizionali. In Pennsylvania Beaver Brewing ha cominciato a produrre kvas, e anche scritto un libro a proposito. E a Brooklyn Gefilteria produce un kvas alla barbabietola con brillanti note di
zenzero. La stessa ditta sta lavorando ad un nuovo kvas alla menta e segale, usando gli avanzi di pane di una gastronomia locale. “Stiamo cercando di ricreare qualcosa che ha davvero un grande significato nel mondo, e reintrodurlo in commercio”, dice Jeffrey Yoskowitz, uno dei co-fondatori di Gefilteria. Yoskowitz e i suoi partner realizzano che i drink dal sapore aspro e fermentato sono un mercato difficile in America. Ma Yoskowitz guarda al kombucha tea, virtualmente sconosciuto nei negozi americani solo qualche anno fa e ora facilmente reperibile in molti supermercati. E sperano che con il crescente interesse nell’inscatolamento e nel birrificio casalingo – senza menzionare il fascino slavo da vecchio mondo del kvas – riusciranno a trovare nuovi fan per questo vecchio drink.
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DA MEDICINA
CINESE A SOFT DRINK
Nella pagina precedente, pacchetto per l’infuso. Cartina geografica del Guandong; nella pagina a fianco, erbe contenute nell’infuso di Lao. Nella pagina successiva, veduta di Guangzhou e Wang Lao
La Cina è il maggior produttore mondiale di tè, seguita da India, Kenya e Sri Lanka. Questo perchè il culto di ogni genere di infusione è una tradizione millenaria ancora rispettata e condivisa in ogni regione del paese. Basandosi sulla medicina cinese ma anche su concetti trascendentali come l’equilibrio fra sostanze calde e sostanze fredde, in Cina durante i giorni afosi d’estate o come rimedio per malesseri legati alla respirazione o all’alimentazione, è buona abitudine bere un po’ di Liangcha che letteralmente significa Tè alle erbe. Nella fiorente e parzialmente occidentalizzata regione del Guangdong, affacciata sul mare, ne consumano come fosse un bene primario. Proprio nella capitale di questa regione, la città di Guangzhou, dove ai tempi della dinastia Qing le persone vivevano vite frenetiche di mercanti e rickshaws sotto il sole cocente e non riu-
scivano a variare molto la loro dieta a base di cibo fritto ed alcoolici, un vecchio dottore conosciuto come Wong Laoji decise di escogitare una variante di Liangcha come rimedio. La leggenda dice che questo dottore stava aprendo una farmacia di medicine cinesi quando un alto ufficiale venne mandato in quella regione con l’ordine di bandire l’oppio. Si trattava di Lin Tse-Hsu, un uomo che pur essendo di famiglia povera era diventato un diplomatico di spicco conosciuto col rispettabile soprannome di ‘Cielo limpido’ dopo aver superato il Jinshi, il più alto grado di esame imperiale di valutazione, e verrà ricordato come eroe nazionale per aver difeso la Cina contro le umiliazioni straniere e proprio per il suo contributo morale ed esecutivo nella guerra dell’oppio. Egli tuttavia non si acclimatò immediatamente e si ammalò. Gli uomini che lo avevano accompagnato si rivolse-
ro così alla farmacia di Wong la quale fornì una cura efficace. Una volta guarito completamente, Lin desiderava ricompensare di persona Wong, ma dopo aver chiesto quale fosse la preziosa sostanza che lo aveva curato, il dottore spiegò che si trattava di un suo semplicissimo infuso a base di erbe. Il grande eroe, piacevolmente stupito, suggerì a Wong di produrne in grande quantità perchè tutto il popolo della regione potesse beneficiarne. Il vecchio dottore seguì il consiglio, e grazie alla sua miracolosa e deliziosa ricetta nonchè alla promozione fatta da Lin, presto la distribuzione di tale bevanda raggiunse la Cina intera, con il nome del suo inventore: Wang Lao Ji.
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SCOTTISH
OTHER NATIONAL
DRINK La famiglia Barr produceva bevande gassate in Scozia dal 1875, ma fu nel 1901 che lanciarono la loro ricetta ultima e originale, il rinvigorente e rinfrescante drink chiamato Iron-Brew, che, grazie al successo della ditta Barr divenne velocemente il n.1 in scozia; usciva in bottiglie di vetro da restituire alla ditta dopo l’uso, ed era pesantemente pubblicizzato usando famosi sportivi scozzesi come testimonial. Il logo originale rappresentava l’atleta Adam Brown. Dal 1930 al 1970 sui giornali scozzesi sono uscite le vignette pubblicitarie di Ba-bru, il personaggio mascotte della bevanda: ancora oggi detiene il record di cartoon pubblicitario di pubblicazione più longeva. Dal 1942 al 1947 però Iron Brew viene tolto dal mercato, per via della guerra e della conseguente carenza di materiali. Le industrie di soft drink vennero ridotte, numerate per classificarle e il loro range di prodotti venne
ristretto a 6 ‘standard drink’, che dovevano avere ricette classiche. Nel 1946 il controllo sulle industrie si stava affievolendo, e il governo stipulò che i nomi delle bevande dovessero rispecchiare fedelmente il loro contenuto: Iron Brew non era ammesso, dal momento che la bibita conteneva sì ferro, ma non era fermentata (brewed)! Urgeva quindi una modifica del nome, e nacque così IRNBRU, dallo spelling fonetico del vecchio nome. Più avanti il decreto venne abrogato, ma ormai IRNBRU era sulla cresta dell’onda. Nel 1959 la Barr si consolidò come azienda e si espanse in Inghilterra. Nel 1967 IRN-BRU cominciò ad uscire anche in lattina, nel 1985 uscì anche la versione low calorie. Quest’anno invece, in occasione dei Glasgow Commonwealth Games, la lattina di IRN-BRU tornerà al suo design originale in edizione limitata.
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Fotografie d’epoca di Glasgow; è possibile vedere le storiche insegne luminose di Irn Bru. A lato, vignette pubblicitarie. Nella pagina a fianco, la bandiera scozzese e un lotto di lattine Irn Bru. Nella pagina precedente, il logo originario.
È famoso per il suo colore arancione brillante, che si credeva fosse dovuto al fatto che la bevanda contenesse ferro. In verità Iron-Brew, insieme a 32 aromi diversi di frutta e zucchero, caffeina e chinino conteneva solo lo 0.002% di ferro! L’attore comico e musicista Billy Connolly dedicò ai Barr, i creatori della bevanda, addirittura un’ode, contenuta nell’album ‘Cop Yer Whack For This’ (1975): “for saving my life on so many Sunday mornings”; IRN-BRU è conosciuta appunto anche per i suoi ‘magici’ poteri curativi dei postumi di serate ‘brave’. è inoltre uno dei pochissimi soft drink che, localmente, riesce a superare Coca-cola in popolarità e vendite.
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IRN-BRU è un drink comunque particolarmente associato al patriottismo scozzese e al distaccamento orgoglioso degli stessi scozzesi dagli americani; il suo advertising al giorno d’oggi punta o sulla virilità dei suoi testimonial (seguendo la linea di pensiero originale delle sue vecchie pubblicità, che raffiguravano energici atleti) , oppure su un umorismo a volte nero, spesso controverso e criticato, soprattutto le più recenti. Come ultima cosa, è curioso sottolineare che l’azienda dello ‘Scotland’s other national drink’, la Barr, sta contemplando un alleanza con quella dell’originale Scotland’s national drink, il whisky, (Bell) per creare l’Irn-Bru Whisky.
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I COLORI
CAPE
CHE DISSETARONO
TOWN
Nella primavera del 1899 la zona di Green Point, a Cape Town era un confusionario accampamento generale. Era scoppiata la guerra del Sud Africa,e centinaia di truppe si riversavano a Cape Town spingendosi verso Nord. Era un estate particolarmente calda, e molti di quei soldati non avevano mai sperimentato un’afa così pesante. Sotto le tende nell’accampamento provvisorio si soffocava, e non c’era riparo dalla polvere alzata dai cavalli in movimento. Tra i tanti beni che dovevano essere forniti ai soldati dai locali c’erano anche acqua gassata e drink alla frutta. Due giovani fratelli, Marx e Harry Bashews, sapevano il procedimento per creare queste bevande, e strinsero con successo un accordo con l’esercito. Nel novembre del 1899 affittarono un locale di una dozzina di metri quadri a Cape Town e ci fondarono il loro primo impianto manufatturiero, che consisteva in
Fotografia della fabbrica Bashew’s a Cape Town.
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un piccola macchina per riempire manovrata a mano e una larga vasca di metallo per lavare le bottiglie. Lavoravano 24 h su 24 per assecondare le insaziabili richieste dei clienti (i soldati). I due fratelli al tempo erano probabilmente troppo occupati per pensare al futuro della loro azienda, e mai avrebbero immaginato di stare creando un futuro business cosÏ fiorente. Il loro tratto distintivo era il servizio di consegna porta a porta che svolgevano a Cape e nella campagna: consegnavano casse di legno piene di bottiglie trasparenti restituibili che rivelavano i variopinti drink al loro interno. Lo stesso servizio perdura fino ai giorni nostri, e le loro storiche bottiglie restituibili hanno recentemente compiuto i 40 anni di servizio! La guerra finÏ nel 1902, e i due fratelli si spostarono sul mercato civile del tempo di pace; l’azienda continuò ad ingrandirsi, pur restando
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nell’ambito famigliare. Soprattutto, fin dai primi tempi i dirigenti di Bashew’s hanno sempre fatto del sereno e amichevole rapporto con gli operai la loro politica. Ad un lungo servizio presso l’azienda conseguiva un trattamento di favore da parte della dirigenza; non a caso la maggior parte del centinaio di lavoratori di Bashew’s rimaneva impiegata da loro per tutta la vita lavorativa. Per la maggior parte dei cittadini di Cape Town, i colorati drink di Bashews rappresentano una vita intera di ricordi da festicciole dell’infanzia, picnic e lieti momenti trascorsi con amici e famiglia. È diventato un marchio iconico del Sudafrica che, pur non competendo in scala internazionale, ha un importanza locale non tralasciabile. Nelle pagine precedenti: vedute di Cape Town nel periodo bellico e lattine di Bashew’s. In questa pagina, le tipiche casse di bottiglie Bashew’s.
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JUL
MUST E IL NATALE
Intorno al periodo natalizio tutto l’occidente si veste di rosso e di luci colorate. Anche i prodotti esposti nei supermercati cambiano: aumentano vini e spumanti, dolci tradizionali fanno capolino da ogni angolo, festoni e decorazioni natalizie compaiono sugli scaffali. In Svezia invece, un prodotto in particolare domina gli scaffali: il julmust (dallo svedese jul, Natale, e must, nettare). Si tratta di un soft drink venduto in Svezia (e in alcuni paesi nordici) solamente nel periodo natalizio. Durante il resto dell’anno è molto difficile da trovare, anche se qualche volta è venduto in altri mesi con il nome di must e a Pasqua come påskmust. La ricetta è la stessa, malgrado i diversi nomi di marketing, ma il must è tradizionalmente natalizio: solo in Dicembre vengono consumati 45 milioni di litri di julmust, che è praticamente la metà del totale di soft drink venduti a Dicembre e
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il 75% delle vendite annuali di must! Il must nasce nel 1910; è stato inventato da Harry Roberts e suo padre Robert Roberts come un’alternativa non alcolica alla birra. Il nettare di partenza è tuttora prodotto esclusivamente da Roberts AB a Örebro. La ricetta originale rimane un segreto. Lo sciroppo della famiglia Roberts è venduto a diverse industrie manufatturiere di soft drink che da esso partono per creare i loro prodotti finali: questo comporta che il must di due diverse compagnie non ha lo stesso sapore, anche se fatto dello stesso sciroppo, perché ogni ditta usa una propria ricetta personale. Gli ingredienti base principali tuttavia sono: acqua frizzante, zucchero, estratti di luppolo, estratti di malto, 30 diverse spezie, colorante al caramello, acido citrico e conservanti. Il sapore del julmust è simile a quello della birra di radice, ma molto più dolce. Può essere lasciato
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invecchiare e fermentare solo in bottiglie di vetro: certa gente compra il julmust a Dicembre per poi berlo solo l’anno successivo. Il julmust è inoltre a rischio di venire bandito dall’Unione Europea, dal momento che sono proibite le bevande al malto contenenti colorante al caramello; ma potrebbe salvarsi, dato che nonostante in origine fosse fatto con vero malto, al giorno d’oggi ne contiene solo l’aroma. In Svezia, il julmust vende addirittura di più della Coca-cola durante il periodo natalizio. Il consumo della coca cola cala del 50% in quel periodo. L’accanita competizione natalizia è proprio uno dei motivi che spinse la compagnia a rompere il contratto con la birreria locale Pripps e creare la Coca-Cola Drycker Sverige AB. Quest’ultima ditta produce anonimamente il proprio julmust, con il marchio Coca-cola occupante solo un minuscolo spazio dell’etichetta. Il loro
Tra i tanti marchi di julmust esistenti in Svezia, Apotekarnes è di certo uno dei più conosciuti e competenti. L’azienda si è formata quando, nel 1874, i farmacisti di Stoccolma si unirono a formare Apotekarnes Mineralvattens AB, che commerciava 37 verità diverse di acqua e gassose, per poi lanciarsi sul mercato delle sode e limonate. Il Julmust di Apotekarnes venne lanciato nel 1910, come alternativa analcolica alla birra, ed ebbe subito un enorme successo, tale da venire venduta a Pasqua come Paskmust.
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julmust non venne pubblicizzato fino al 2004, quando uscì sotto il nome di Bjäre Julmust. Lo sciroppo se lo procuravano comunque da Roberts AB, che era ed è tutt’ora l’unico fornitore! Nel 2007 però il Bjäre Julmust veniva venduto solo nei McDonalds per poi scomparire completamente dalla lista di prodotti Coca-cola. Riapparve solo nel natale 2011. Altre bevande create appositamente dalle grandi compagnie per competere sul mercato del julmust (ma meno celatamente della Coca-Cola) sono Pepsi Holiday Spice, della Pepsi, una varietà ad edizione limitata che la compagnia cominciò a vendere nel Novembre 2004 negli U.S.A. e Canada per un periodo di 8 settimane, e successivamente nel Natale 2006. È insaporito con un pizzico di cannella, che lo rende in qualche modo simile al julmust svedese. C’è poi Christmas Pepsi: quasi uguale a Pepsi Holi-
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day Spice, con l’aggiunta di cacao e noce moscata, e fu immesso nel mercato nei natali del 2007 e 2008. Il Natale in Svezia è dunque uno dei rari momenti in cui le enormi multinazionali di Pepsi e Coca-cola soccombono di fronte ad un avversario che, forte della tradizione svedese, sembra imbattibile.
Luppolo
CHINOTTO
ITALIANO
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Nella pagina precedente: frutto del chinotto. In questa pagina, esempi datati e recenti di lattine di chinotto (Brio e San Pellegrino). Nella pagina dopo, slogan pubblicitario Chinò.
Nel mondo delle sode c’è un prodotto prettamente italiano che risalta per le sue peculiarità. Grazie all’intuizione di qualche mercante viaggiatore in Cina nel sedicesimo secolo, arriva in Italia uno strano agrume chiamato chinotto (nonostante alcuni sostengano che la pianta si sia originariamente sviluppata nella regione mediterranea, dato che al giorno d’oggi non si hanno notizie della sua coltivazione in Asia). Si presenta come un piccolo frutto tondo di aspetto e colorazione simile all’arancia. Al gusto è però intensamente amaro, tanto che si è quasi indotti ad evitarne il consumo. Nonostante ciò veniva tradizionalmente impiegato per farne confetture, canditi e sciroppi. Più tardi, negli anni ‘20, qualcuno in Liguria pensa di crearne una bevanda rinfrescante. Perciò con i soliti ingredienti e infusioni di frutti viene generata una scura bevanda che ha il co-
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lore della cola ma un gusto molto tipico, amarognolo ma fresco, che rende unica la bevanda e divide molto la gente tra estimatori e non. San Pellegrino, storico marchio italiano di fama internazionale attivo nella vendita di acque minerali, ne coglie l’opportunità commerciale e, nel 1932 inizia la vendita del nuovo prodotto Chinò diffondendolo nella penisola. Alcuni sostengono che sia stata addirittura la prima azienda ad inventarlo e commercializzarlo. Ma non si tratta dell’unica: questo frutto è stato elevato a soft drink anche da vari altri produttori: il ‘chinotto di Savona’ ad esempio, reso commerciale dal marchio Lurisia, è oggi presidio Slow Food! vÈ anche interessante notare che, con l’eccezione di Malta, dove la bevanda, conosciuta con il nome di Kinnie, è molto diffusa (importata anche in Italia), all’estero il chinotto è consumato soprattutto dalla comunità
italiana! In Canada la bevanda viene commercializzata con il marchio Brio, mentre in Australia il chinotto viene venduto con il marchio Bisleri, e non è difficile trovarlo nei ristoranti italiani e nei supermercati di Perth, Melbourne o altre città australiane a forte presenza italiana. Nella maggior parte degli altri paesi esteri è reperibile solo in negozi specializzati in cibi e bibite italiane. Intorno agli anni ’50 comunque, il chinotto più diffuso era quello prodotto dalla Recoaro. Tra le altre marche c’è la Spumador, un nome che richiama alla mente un mondo di spume alla frutta o simil cole, che tanto andavano di moda negli anni 50 e 60 in alternativa alle sode americane. Ad oggi, il nostro chinotto si trova ancora in lattina mantenendo intatti gli originali profumi e ricordi. Resta una tipica bevanda rinfrescante per l’estate, più zuccherata rispetto alle versioni originali ma
leggermente corroborante per l’elevato contenuto di caffeina, quasi un antesignano degli ormai più diffusi energy drink. Lo stesso Chinò San Pellegrino ha creato una sua versione energy, aggiungendo stimolanti come il ginseng e la pappa reale, che però non ha avuto grande successo, tant’è che oggi non è più prodotto.
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L
Il guaranà alle orecchie di un Europeo potrebbe sembrare soltanto un frutto esotico, uno dei possibili ingredienti per una bibita energetica. Si tratta invece di una pianta straordinaria: del culto del Guaranà è profondamente intrisa la cultura dell’intero popolo Brasiliano. Prima di diventare la base per la bevanda nazionale nonchè di molti energy drink disseminati per il mondo, già da sempre le tribù amazzoniche raccoglievano i suoi frutti e la rispettavano in nome dei suoi effetti sul corpo e la mente e delle leggende che le stavano dietro. Ecco la più conosciuta:
A LEGGENDA DEL
GUARANÁ
Dopo interminabili scontri fra due tribu dell Amazzonia, nella prima nacque un bambino dagli occhi grandi e belli la cui venuta, per vie inspiegabili, riportò la pace fra queste tribù; in virtù di questo suo potere benefico, la giovane creatura era sempre protetta e amata da tutti. Comunemente a quasi tutte le leggende sull’argomento tuttavia, un giorno uno spirito cattivo di nome Jurapari, invidioso e infastidito da tanta bontà, si trasformò in serpente ed uccise il piccolo. Lo sciamano della tribù, colto da ira e sconforto, prese gli occhi del ragazzo e li seppelì. Bagnato dal pianto delle madri, da quello stesso terreno nacquero poi due piante: il guaranà selvatico dall’occhio sinistro e quello domestico dal destro. Guaranà è infatti la contrazione delle parole wara e na che significano ‘dalle forme umane’ a sottolineare la somiglianza tra i frutti e gli occhi del bambino.
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Successivamente poi il bambino, secondo alcune varianti della leggenda, resuscitò dando formalmente inizio alla tribù dei Maués, destinata poi a dare il nome alla cittadina amazzonica che costituisce il centro della produzione odierna di Guaranà, la cui fama viene annualmente celebrata con il Maués summer festival ed il Festival del Guaranà. Degna di nota era inoltre una variante della leggenda che più di tutte si separa dall’originale e che per certi versi incontrerebbe meglio i gusti occidentali. All’origine troviamo ancora due tribù rivali, ma in questa versione un membro di una ed una donna dell’altra si innamorano e decidono di fuggire insieme per non essere ostacolati dalle rivalità fra le genti di appartenenza. Lunga la via della fuga tuttavia, la fanciulla celebre per la sua purezza e bontà, si ferma per curare un serpente ferito. I due tuttavia erano
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inseguiti dai guerrieri delle tribù di provenienza, e l’eccezionale gesto di lei li rallentò al punto di essere raggiunti. Un’azienda autoctona di nome Antartide, all’inizio del Novecento, decide finalmente di industrializzare la creazione e distribuzione delle bevande a base di questo incredibile frutto tradizionale. Il primo prodotto rinominato ‘Guaranà Champagne Antarctica’ viene lanciato nel mercato brasiliano nel 1921. Fin dalla creazione di questa bibita rinfrescante dal sapore unico, Antartide acquistava i frutti di guaranà dai fornitori della regione stessa di Maués per produrre l’estratto successivamente in uno stabilimento di San Paulo. Sul finire degli anni 40 il successo del prodotto e l’aumento conseguente della domanda spinsero Antartide a creare filiali in ogni regione e finalmente ad attivare un impianto di estrazione del succo nella città di Maués stessa.
Nei primi anni 70 allo scopo di assicurare una materia prima di buona qualità, la compagnia ha avviato nuove piantagioni in Santa Helena, dove approfondì lo studio della cultura ma anche delle possibili tecnologie legate alla coltivazione del guaranà. Quelli di Santa Helena sono diventati laboratori rinomati che, pionieri nell’argomento delle loro ricerche, hanno permesso poi un incremento della qualità ed una riduzione dei prezzi in tutta la produzione di guaranà limitrofa. Oltre a ricercare il terreno e i trattamenti ottimali per questa pianta, sbalorditiva per i coltivatori autoctoni è stata la scoperta che non si trattava di una rampicante, ma bensì erano state le circostanze in cui cresceva precedentemente a spingerla verso l’alto alla ricerca della luce.
Sul finire del secolo, come si auspicava, Guaranà Antarctica è la seconda bibita più bevuta in Brasile (battuta ovviamente dal titano CocaCola, ma tuttavia qualche passo avanti a Pepsi) e, anche grazie alle nuove sedi in Giappone ed in Portogallo, ha un posto di onore a livello mondiale fra i 15 maggiori soft drink brand.
Nelle pagine precedenti: pubblicità di Guaranà Antarctica e francobollo commemorativo della leggenda. Nella pagina a fianco, la raccolta del guaranà. Sotto, coreografie dalla festa del guaranà.
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L’ANTICA BEVANDA
D’ORO In Perù, come soltanto in un altro paio di posti in tutto il globo, non è CocaCola a dominare il mercato del soft drink. Chiunque visitasse questo paese, giunta l’ora di pranzo, si ritroverebbe a chiedersi : ‘Che cosa sarà questo liquido dorato che tutti stanno bevendo?’ Si tratta di qualcosa che per ogni peruviano ha assunto un valore culturale incredibile, un significato iconico. Questa storia inizia più di un secolo fa’ quando nel 1910 una giovane coppia inglese, Don José Robinson Lindley e Martha Stoppanie de Lindley, si trasferisce a Lima, la capitale del Perù. Lì avviano la Lindley Corporation e la loro ‘Fabrica de Aguas Gaseosas La Santa Rosa’ la quale, entro il 1918, sarà una ditta autosufficiente dotata di tutti i macchinari necessari. Nel 1935, in occasione del quarto centenario della fondazione della città di Lima, la coppia decide di commemorare l’evento
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producendo un drink speciale: Josè aveva imparato da un produttore locale una preparazione dalle origini antichissime a base di Erba Luisa e Verbena Limoncina, così cominciò a fare degli esperimenti su come perfezionarla per i gusti e le capacità tecnologiche del tempo, aggiungendo differenti dosi di zucchero, anidride carbonica ed altri ingredienti finchè non giunse ad una formula ottimale. Forse ancora non lo sapeva, ma aveva appena inventato qualcosa di inaspettatamente grande. La neonata Inca Kola così si presentava come bevanda tutta peruviana, continuazione di una ricetta ancestrale, pregna persino nel packaging di iconografia nazionale ed indigena, e caratterizzata da un sapore dolcissimo. Questo le permise nel giro di cinque anni di essere la bevanda più consumata nella capitale, e nei seguenti cinque anni di espandersi su tutto
il territorio nazionale, anche grazie al costo inferiore alle concorrenti straniere e alle migliorie tecnologiche apportate dal figlio di Josè, Isaac. Nel 1970 quasi metà dei peruviani beveva ormai Inca Kola. Per anni, i due colossi del settore, Coca e Pepsi, tentarono di conquistare il mercato Peruviano, ma nonostante le loro enormi risorse, non riuscirono mai a superare Inca Kola nel cuore dei cittadini. Negli anni ottanta poi accadde qualcosa che segnò il mondo dominato da queste tre famiglie: El Reto Pepsi. Si trattava dell’allestimento di centri di degustazione in tutto il paese dove le bevande erano sottoposte ad una valutazione comparativa alla cieca. Dopo aver bevuto due bibite diverse senza poterle identificare, Pepsi uscì sconfitta in quanto nessuno dei Peruviani, abituati alla forte dolcezza, l’aveva preferita alle altre e molti scelsero Inca Kola per principio senza
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Nelle pagine precedenti, da sinistra: veduta di Lima, lattina di Inca Kola e pianta di verbena. In questa pagin, veduta di Machu Picchu.
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nemmeno effettuare seriamente il test. Da questo momento in poi Pepsi verrà relegata ad un misero ventesimo dei consumi totali in Perù, mentre CocaCola nonostante le aggressive campagne e le pesanti sponsorizzazioni, non riuscì mai a ribaltare le statistiche. Così si scese a compromessi e nel 1999 Coca Cola e Lindley Corporation strinsero un’alleanza strategica in cui la seconda cedeva metà delle quote alla prima per centinaia di milioni di dollari ma da cui entrambe traevano i vantaggi che desideravano. Addirittura per un certo periodo, il McDonald’s peruviano fu l’unico al mondo a vendere un’altra bibita oltre alla Coca. Sembra che il CEO della Coca Cola giunto a Lima per concludere gli accordi, assaggiando la Inca Kola si lamentò del suo sapore di chewing gum; ma quanto vale il giudizio di una persona contro quello di trenta milioni di Peruviani?
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WHEN
LIFE DOESN'T GIVE YOU
LEMONS
…make a calamansi-ade! Il calamansi, ‘arancia cinese’ o calamondin è un agrume indigeno delle Filippine, ampiamente coltivato nel Sudest asiatico e in grado di crescere anche in Europa centrale e nord America. È largamente utilizzato in cucina nelle Filippine, dove sostituisce appunto il limone (che è considerato un lusso) e rappresenta uno dei maggiori raccolti di frutta annuali. Simile ad un piccolo lime (2-5 cm di diametro), appena colto dall’albero è di colore verde; vira all’arancione quando lasciato maturare, anche se in cucina è maggiormente utilizzato nella sua fase acerba. È un frutto particolare, perché il suo gusto unico non può essere riprodotto miscelando succhi di altri agrumi o aceti delicati, come accade per l’arancia di Seville: il calamansi ha un gusto completamente unico e complesso, con note di amaro, dolce e aspro che si intrecciano fra
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loro. Nelle Filippine è molto amato sia il succo di calamansi, che si può trovare in commercio sia in bottiglia che in lattina, che la soda al calamansi. Di quest’ultima la marca più diffusa e conosciuta è senza dubbio la Zest-O, market leader e una delle più grandi compagnie di drink nelle Filippine; la sua Calamansi Fruit Soda con l’aggiunta di miele è reputata la migliore bevanda al calamansi sul mercato. La Zest-O Corporation venne fondata come azienda famigliare nel 1981, con il nome di Semexco marketing corporation. Adottò il nome Zest-O nel 1995, in seguito al fenomenale successo della sua catena di succhi di frutta Zesto. Nata con l’idea di diventare la leading company filippina nel campo del food e beverage, Zest-O è sempre stata attenta all’innovazione: fu la prima azienda nelle Filippine a sperimentare il succo di frutta in confezioni Doypack (buste
di plastica flessibili). Nel 1979, ancora prima di fondare l’attività, l’imprenditore sinofilippino Alfredo Yao scoprì la tecnologia Doypack durante un viaggio in Europa. Provò a brevettarla nel suo paese, ma nessuna compagnia era interessata; fu questa la spinta a fondare la sua propria azienda. Fu un successo. Adesso Zest-O è entrata a far parte della cultura filippina, offre succhi di frutta e sode in bottiglia e lattina in 11 diversi gusti e si sta preparando a competere anche sul mercato internazionale, permettendo al resto del mondo di conoscere questo frutto estremamente tradizionale e dissetante: il calamansi.
Pagine precedenti: veduta di una costa filippina, lattina di succo di calamansi. In questa pagina, fasi della maturazione del calamansi e lattina di soda Zesto.
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LA SODA NATA SOTTO IL REICH Tutti sappiamo cosa sia Fanta, un nome molto conosciuto che ci richiama alla mente una bevanda gasata, dolciastra aromatizzata, in genere al gusto di arancia e soprattutto sottomarca della Cocacola. Ma in questo caso non si tratta di un prodotto escogitato dal colosso per una certa fascia di consumatori, bensì di una bibita con una storia molto curiosa dietro. In africa è il primo soft drink, in tutto il mondo è ai primi posti nelle classifiche di consumo. La storia di questo prodotto è piuttosto stravagante. Torniamo indietro nel tempo: siamo agli inizi della seconda Guerra mondiale, quando Cocacola ha giù un mercato florido in Europa con diversi stabilimenti di produzione. Uno dei paesi europei di maggior interesse per Cocacola è la Germania, alleata con Italia e Giappone contro il mondo. Fino al 1940 gli Usa osservano l’evolversi della situazione eu-
ropea in attesa di decidere il da farsi. Una notevole spinta all’azione viene data agli americani con l’attacco giapponese improvviso alle basi navali di Pearl Harbor nel 1940. Ecco che all’evento bellico indirettamente si collega la nascita della Fanta. Ovviamente gli americani, strattonati dal trio alleato, decidono di intervenire nel conflitto. Tra le varie mosse strategiche, il governo federale Usa interrompe gli scambi commerciali coi paesi nemici. Il più grosso imbottigliatore europeo, il tedesco Max Keith, patriotticamente schierato con il regime nazista, si trova con gli stabilimenti bloccati a causa dell’embargo americano di sciroppo necessario a produrre Cocacola. L’intraprendente tedesco opta per una conversione verso una bevanda che fosse possibile produrre con ciò che in Germania era facile da trovare in tempo di guerra. Si inventa in modo alchemico una
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mistura da fermentare composta da avanzi di lavorazioni dei formaggi e marmellata, polpa di mele residuata dalla produzione di sidro, avanzi di frutta dell’alleato italiano e saccarina. Questo composto improbabile viene battezzato alla tedesca con la parola Fanta da ‘Phantasie’(immaginazione) poichè secondo il suo stesso inventore c’era bisogno di immaginazione per sentire al suo interno il sapore dell’arancia. Tale fantasia pare particolarmente apprezzata, sia per il gusto dolce, sia per la fede nel Fuhrer ma decisamente di più per l’ovvia mancanza di ragionevoli alternative legate ai razionamenti alimentari che anche in Germania erano ben presenti durante la Seconda Guerra mondiale.
Nelle pagine precedenti: fotografia dell’attacco a Pearl Harbor e veduta della città di Essen; in questa pagina: esempi di lattine Fanta in ordine storico e, nella pagina a fianco pubblicità moderna della bevanda.
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La produzione va a pieno ritmo fino al 1945, finchè gli americani tornano a prendere il controllo di produzione in Germania. A questo punto, intorno al 1950, già esistevano bevande al gusto di frutta e Pepsi aveva un proprio bacino di clienti che chiedevano soda ai gusti agrumati. Ovviamente la risposta Cocacola non si fece attendere, dato che la ricetta della futura celeberrima Fanta si era appena materializzata nelle loro mani.
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La più grande competizione fra brand alimentari della Storia, quella tra Coca Cola e Pepsi ( le cosiddette ‘Cola Wars’), cominciò negli anni ’30 ed ebbe un ruolo importante nella politica americana così come nel consumismo mondiale; è una guerra commerciale diventata politica. Coca-Cola e Pepsi si identificano come le due bevande a base di cola più popolari al mondo; solo negli Stati Uniti però i colori delle lattine assumono un connotato di appartenenza ad un determinato schieramento. Con alterne fortune, il consumo di tali bevande negli Usa e in seguito nel mondo intero ha fatto in modo che enormi potenziali economici facessero gola ai politici. L’uso propagandistico dei marchi ha favorito nel tempo sia la parte democratica che quella repubblicana. Citando il giornalista Eben Shapiro nel New York Times: “Secondo la tradizione dell’industria di be-
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vande, la Coca-Cola prospera sotto un amministrazione democratica, mentre PepsiCo ha successo sotto il G.O.P. (partito republicano)”(1992). Kurt Eichenwald inoltre notò, nel 1985 che “come accade con i partiti politici, ci sono solo due grandi avversari: Coca-Cola, il drink dei Democratici, e Pepsi-Cola, la bevanda dei Repubblicani. Certamente ci sono delle bibite di terzi partiti ma, proprio come i piccoli partiti non emergono in politica, le bevande secondarie non hanno successi notevoli sul mercato.” L’immaginario collettivo che ha identificato la Coca-cola con i democratici e la Pepsi con i repubblicani ha radici lontane, tuttavia ci sono recenti eccezioni alla ‘regola’: l’elezione del democratico presidente Obama ha visto un forte dispiegamento di mezzi pubblicitari supportati dalla PepsiCo. Sui mezzi pubblici campeggiavano gli slogan presidenziali
PEPSI VERSUS
COKE: SODA WARS
in sintonia con i colori Pepsi, ed in più occasioni pubbliche fu la bevanda ufficiale della campagna democratica (“yes we can”). Se all’inizio questa ‘guerra’ tra sode parve sottile, è con l’avvento della Seconda Guerra mondiale e in seguito, con l’evolversi dei rapporti tra USA e mondo intero che l’aspetto strategico di appartenenza assume una valenza primaria. Ad esempio quando il brillante presidente della Coca-Cola Robert W. Woodruff ordinò ad una gruppo speciale di 148 impiegati Coca-Cola nell’esercito americano di vendere lattine della bibita per 5 centesimi a qualsiasi soldato, ovunque si trovasse, e senza preoccuparsi del costo per la compagnia. Più di 5 miliardi di lattine vennero dunque distribuite ai soldati in tempo di guerra. Fu dunque inevitabile un confronto fra le due grandi marche di soda, che venne esteso anche al lato politico, identifi-
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cando ogni marca con una linea di governo. Durante la II Guerra Mondiale Coca-Cola convinse il governo Roosevelt che la sua bevanda era vitale per un buon esito della guerra, e nel 1942 ottenne dalla War Production Board un esenzione dal razionamento dello zucchero nelle bevande destinate ai militari. Il presidente della PepsiCo, Walter Mack, si lamentò dei vantaggi concessi alla Coca-cola, ma venne ignorato dal governo. CosÏ La PepsiCo comprò una piantagione di zucchero cubana e fece costruire tre grandi centri Pepsi-cola che fornivano Pepsi gratis ai soldati insieme ad altri servizi gratuiti come barberia e docce. Oppure quando, in piena guerra fredda, il leader sovietico Kruschev viene fotografato mentre beve una Pepsi in compagnia del vicepresidente USA Nixon e del presidente PepsiCo. Una possibile espansione verso nuovi mercati per la
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Pepsi non poteva avere migliore pubblicità; difatti anni dopo, nel 1972, quando Nixon diviene presidente, PepsiCo discusse una franchigia esclusiva per vendere la Pepsi a 200 milioni di russi. Restando in tema di espansioni di mercato, nel 1979 ad Hong Kong ci fu la prima spedizione di Coca-Cola in Cina, 280000 bottiglie e lattine, sotto nientemeno che il governo democratico Carter. In occasione della celebrazione del Capodanno Cinese, Coca-Cola apparve in tutte le maggiori città cinesi. Lo slogan: “Tastes good, tastes happy”. Nel 1985 arriva in Cina anche Pepsi, con la benedizione del vicepresidente George Bush.
Piccolo aneddoto pubblicitario: Coca-cola prese come mascotte natalizia un pacioso Babbo Natale bianco e rosso, e per ripicca Pepsi adottò come testimonial natalizio un Santa Claus estivo che in spiaggia si dissetava con una Pepsi. Le immagini di marketing dei due avversari sono comunque rimaste prevalentemente le stesse nel tempo: per Coca-Cola quella di bevanda di tradizione, adatta ad amicizie, famiglia e quadretti teneri. Per Pepsi quella di marchio di opposizione, sfidante, giovane e sempre alla rincorsa dei propri ideali.
Nella pagina a fianco: sopra, uno spot Pepsi; sotto, Bill e Hillary Clinton bevono Coca Cola. In questa pagina: confronto tra l’evoluzione dei loghi della Pepsi 2007 e 2009 (ai lati) e il logo di Obama 2008 al centro. Sotto, a sinistra: Kruscev beve Pepsi. A destra, il presidente Coca Cola Donald M. Kendall e Richard Nixon.
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Veduta della Mecca; nella pagina dopo, lattine di Mecca Cola.
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La Mecca Cola è un interessante esempio di marketing strategico di una bevanda gassata clone della Coca-Cola. Ispirandosi al recente successo della Zam Zam Cola, un furbo imprenditore francese di origini musulmane, Tawfik Mathlouthi, si è occupato di incanalare ogni sentimento anti-americano e anti-ebraico presente in particolari zone del mondo, utilizzando un prodotto destinato a largo consumo che fosse simile a quello degli odiati nemici nel gusto e nel packaging, ma con un’etica indirizzata alle proprie credenze religiose. Ecco nascere la Mecca Cola, un nome che riconduce completamente all’essenza dell’islamismo: Makkah. Nei mercati dedicati è subito un successo di vendite, tale da impensierire le posizioni dominanti dei colossi del beverage.
SCOPRIAMO
LA COLA
DEL MONDO
ISLAMICO
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In seguito l’espansione delle vendite nei paesi non islamici grazie all’immigrazione ed al consumo “patriottico” ha fatto conoscere la Mecca Cola al mondo. In questa bevanda si identificano una scelta di appartenenza, una fidelizzazione del consumatore e una riconoscibilità del prodotto, tutte caratteristiche proprie di un successo commerciale, attualmente distribuito in 64 nazioni nel mondo. È anche notevole l’impegno sociale del marchio, che devolve importanti percentuali degli introiti al sostenimento dei movimenti islamici ed aiuto ai musulmani nei territori occupati da Israele.
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Altrettanto notevole è il fatto che la vendita non passi dalla grande distribuzione, ma attraverso i centri specializzati nel servire gli immigrati nelle grandi città straniere. Pare che in Francia però sia sotto osservazione per motivi fiscali il gruppo proprietario, e alcuni episodi non chiariti abbiano fatto discutere la stampa. Nel caso di Mecca cola la connotazione politica del brand è fondamentale; fuori dai mercati locali l’acquisto e il consumo di Mecca Cola è visto come confronto e scontro con le multinazionali. Il successo di Mecca Cola ha ispirato la creazione della Qibla Cola nel Regno Unito, Arab Cola e Muslim Up in Francia.
GUERRA A
MOUNTAIN
DEW
Urge e Surge: c’è una storia dietro questi due soft drink dal nome, packaging e atmosfera generale quasi identica, emblemi degli anni 90 americani. Torniamo alle radici della loro storia: la chiave che fece scattare tutto fu il brand americano di soft drink Mountain Dew, comprato da PepsiCo nel 1964. La Pepsi scelse di trasformare Mountain Dew, che era un drink dall’atmosfera tranquilla il cui merchandising si rifaceva alla tradizione campagnola/montanara irlandese, in un prodotto nuovo teso ad attrarre le nuove generazioni. Cambiò il logo, e nel corso dei decenni lo ‘modernizzò’, ne cambiò il packaging fino a rendere il prodotto irriconoscibile dagli esordi, con grafiche molto hardcore e accattivanti agli occhi dei giovani. Da Mountain Dew partì quindi una reazione che coinvolse tutte le grandi catene di bevande, dalla Dr Pepper alla Coca-Cola; vennero creati
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Nella pagina a fianco, grafica pubblicitaria di Urge (2008); in questa pagina, esempi di lattine Surge, Vault, e uno sperimentale Mello Yello.
nuovi prodotti accattivanti che potessero competere sullo stesso piano di Mtn Dew. Dr Pepper creò Sun Drop, e Coca Cola lanciò Mello Yello e Surge. Però prima nasce Urge, come prodotto sperimentale, prodotto dalla Coca Cola in Norvegia e lanciato poi in Svezia e Danimarca. Viene introdotto nel 1996; l’intenzione di Coca-Cola è quella di usare la Norvegia come ‘prova di mercato’ per vedere, in scala ridotta, quanto successo avrebbe potuto avere un prodotto simile commerciato invece in America. L’anno dopo viene lanciato Surge (il suo nome sul libro bianco era Montain Dew Killer!) che grazie all’impeto della novità e alla massiccia campagna pubblicitaria ebbe inizialmente successo. Il suo marketing lo associava agli sport estremi, a slogan provocativi come “Feed the rush”, “Life’s a scream”, “A fully loaded citrus soda”, e poneva l’accento sul suo alto con-
tenuto di caffeina e carboidrati che lo rendeva più di una normale soda, quasi un energy drink. Dal suo predecessore Urge differiva solo per la colorazione verde fluo, che in Norvegia era gialla. Le vendite però calarono dopo qualche anno, e nel 2002 Coca-Cola ritirò Surge dal commercio. Anche Urge, dopo un picco di popolarità, venne ritirato. Entrambi i fallimenti però scatenarono massicce reazioni da parte dei fan, e sia per Surge che per Urge cominciarono delle campagne su internet per ottenere la loro rimessa in commercio. In America Coca-Cola introdusse un nuovo drink come risposta alle proteste, Vault , dalla ricetta simile a Surge che rimase in commercio per 6 anni ed ebbe molto successo in Australia. Gli slogan: “Drinks like a Soda, Kicks like an Energy Drink”, “Chug & Charge”, “Get to It!”. Conteneva il 50% in più di caffeina del suo predecessore
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Surge. Venne però interrotto anch’esso nel 2011 e le pressioni dei fan ricominciarono più insistenti che mai su Facebook, con valide motivazioni annesse. Invece in Norvegia Urge fu reintrodotto nel 2008, con un nuovo packaging e una versione energetica, Urge Intense, e ancora adesso è reperibile soltanto lì. Ma fu il neozelandese Mello Yello, l’altro drink targato Coca-Cola, il vero vincitore tra gli antagonisti di Mtn Dew. Introdotto nel 1979, continua tutt’ora a combattere la sua battaglia. Il merito della sua longevità si potrebbe attribuire ad una grafica vincente.
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La sua arma contro Mountain Dew non era più il packaging simile (come per Urge e Surge): nonostante agli inzi, come grafica e atmosfera fosse rimasto sulla stessa linea di Mtn, ha ben presto cominciato a delineare un proprio stile, diverso dai suoi antagonisti. Così, distaccandosi maggiormente da Mountain Dew di come avessero fatto Urge e Surge, è riuscito a farsi conoscere come se stesso, con caratteristiche diverse da Mtn: tratto cartoonesco e tondeggiante, un packaging simpatico che ‘non si prende troppo sul serio’.
L’idea di bere intere lattine di concentrati di zucchero e caffeina non ci suona strana al giorno d’oggi, eppure è un’abitudine che la civiltà occidentale ha da soltanto un quarto di secolo. Oltre ad alcuni precursori inglesi comparsi ai primi del Novecento, come Irn Bru o Lucozade (contrazione del nome dell’antecedente medicina Glucozade a base di glucosio), la storia dell’energy drink come lo intendiamo oggi ha la sua alba nello stesso paese in cui sorge il sole: il Giappone. Sul finire degli anni ‘40, l’azienda Taisho Pharmaceuticals cominciò a vendere al grande pubblico l’estratto di taurina come ricostituente generico.
LÀ DOVE NASCE
IL SOLE 93
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Di questa speciale sostanza, scoperta nella bile di toro (come si deduce dal nome) ma successivamente risintetizzata in laboratorio, ne aveva fatto uso la Marina Imperiale Giapponese durante la Seconda guerra mondiale per sopportare meglio la fatica fisica e mentale. Ventanni dopo la Taisho decise di inserire quest’estratto all’interno di un prodotto piÚ articolato a cui diede il nome di Lipovitan. Si trattava comunque di una medicina venduta nei classici flaconcini marroni ben distante dalle lattine energetiche che conosciamo. Discorso a parte va fatto per Bacchus, un prodotto koreano contemporaneo e clone di Lipovitan persino nella grafica esterna, che ha scelto tuttavia come confezione la lattina.
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Fra gli anni ‘70 ed ‘80, una nuova bevanda energetica ispirata a Lipovitan si fa conoscere in Thailandia sponsorizzando gli incontri di Muay Thai, uno sport di combattimento dalle radici antiche noto come Boxe thailandese. Si tratta della Krating Daeng, che letteralmente significa toro rosso, anche se in effetti quelli raffigurati nel logo nell’atto di caricarsi sono bisonti indiani. Un giorno del 1962, l’imprenditore austriaco Dietrich Mateschitz che era appena giunto per lavoro in Hong Kong, chiedendo al barista dell’hotel in cui alloggiava qualcosa che lo aiutasse a superare il jet lag, si imbattè in quella stessa bibita a base di taurina dal nome in qualche modo promettente. Egli si innamorò del sapore e degli effetti della Krating Daeng e decise di contattarne il produttore, un uomo nato in una famiglia povera nella provincia settentrionale di Phichit che si era trasferito a
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Bangkok per fondare una compagnia farmaceutica. I due divennero partner commerciali e la traduzione della bibita secondo i gusti nonchè la lingua occidentale condusse ad una diffusione del prodotto nel mercato mondiale. Red Bull oggi è il leader mondiale del mercato degli Energy drink e, come il suo prototipo, tiene viva la sua presenza nella gente sponsorizzando numerosi eventi sportivi. Spesso la troviamo anche in manifestazioni culturali frequentate dai giovani appartenenti a quella fascia di età a cui Red Bull è ora destinato. Partito da un utilizzo militare e medico, passando attraverso quello di corroborante per lavoratori, Red Bull è finito per essere il carburante per le notti sfrenate delle nuove generazioni.
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INFINE, LA LATTINA
RINASCE La lattina di alluminio fu integrata facilmente nel mercato dei packaging grazie alla sua duttilità, la sua resistenza alla pressione dell’anidride carbonica, la sua leggerezza e la resistenza alla corrosione. Ma il fattore più importante fu senza dubbio il suo valore di riciclaggio, che la fece vincere contro la sua rivale d’acciaio, non rinnovabile. Nel 1962, col sistema easy open di Fraze la diffusione della lattina ebbe un momento di spicco; ma c’era l’inconveniente delle linguette, che una volta staccate venivano gettate dappertutto senza attenzione per l’ambiente. Solo nel 1978 si comincia ad acquisire una maggiore coscienza ecologica, e nasce la lattina ‘stay on tab’: la linguetta non si asporta più. Intanto il reciclaggio dell’alluminio stava diventando una pratica comune, che ben rispondeva alle esigenze della nuova società sempre più responsabile rispetto all’ambiente e
alla paura della stessa di divenire troppo consumistica. Prima del 1970, le lattine, sia di acciaio che di alluminio erano fatte con materie prime non-reciclate, con l’eccezione di piccoli pezzetti ricavati dal processo di manifattura. Entrambe le industrie però presto capirono l’importanza di ridurre il loro impatto sull’ambiente. V’erano inoltre altri incentivi ad iniziare il reciclaggio, primo fra tutti il problema dello smaltimento rifiuti. La campagna consumatori “ban the can”, verso la fine degli anni ‘60, fu un ulteriore ragione per ritirare le lattine dal flusso di rifiuti. Le compagnie di alluminio e i produttori di lattine crearono un’imponente catena di infrastutture delegate al riciclo ed al ‘buy-back’: pagare i consumatori per motivarli a riportare indietro le lattine vuote. Il reciclaggio delle lattine di alluminio è ormai diventato un business da miliardi di dollari, e una delle più riuscite imprese ambien-
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In questa pagina e nella successiva: un impianto di riciclo di alluminio; nella pagina dopo: installazione dell’opera di Andy Warhol “Campbell’s Soup Cans” (1968).
tali nel mondo. Col passare degli anni la lattina di alluminio ha conquistato la fama di packaging più riciclabile, con più del 60% della produzione riciclata annualmente! Dei 51,9 miliardi di contenitori di soft drinks reciclati nel 1998, 44 miliardi erano lattine, in confronto ai 7 miliardi di bottiglie di plastica e ai 300 milioni di bottiglie di vetro. Inoltre produrre nuove lattine con l’alluminio riciclato risparmia il 95% dell’energia necessitata invece per estrarre alluminio puro dalla bauxite. Il risparmio energetico, nel 1998, fu tale da poter ipoteticamente illuminare una città come Venezia per 6 anni. Grazie agli sviluppi nel processo di produzione, oggi, le nuove lattine sono fatte con una percentuale del 54% di materiale riciclato; e le vecchie lattine sono raccolte, reciclate e riportate in vita come nuove lattine nel giro di circa 60 giorni. Da quando mettiamo in pratica
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il reciclaggio dell’alluminio, i consumatori hanno guadagnato in totale più di 10 miliardi di dollari riportando le loro lattine usate ai più di 10000 centri di buy-back della nazione (americana). Più di 9300 città inoltre offrono servizi di raccolta porta a porta no profit (scuole, scout, club 4-H, ecc) che semplificano la raccolta dell’usato. Avanzamenti dell’industria manufatturiera hanno portato anche a lattine più leggere; le prime lattine a due pezzi in alluminio pesavano circa 85 grammi, mentre adesso arrivano a pesare solo poco più di 10 grammi, con uno spessore di foglio di soli 50 micron! Anche le lattine di acciaio vengono riciclate, con un rate del 58%; ogni anno vengono riciclati 17 miliardi di lattine, risparmiando tanto acciaio quanto ne occorrerebbe per costruire 20 volte il Golden Gate Bridge! Al giorno d’oggi la lattina è versatilissima, più che mai presente nella nostra
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vita quotidiana,; ci sono più di 1500 varietà di cibi in scatola, e la società moderna si regge molto sulla loro versatilità e convenienza. Le statistiche dimostrano che le famiglie americane impiegano 1/7 del tempo per preparare un pasto negli anni 90, di quanto ne impiegassero solo due decenni prima. Gli americani acquistano più spesso le bevande in lattina che in qualsiasi altro packaging, per la loro leggerezza e praticità di immagazzinamento. E, sempre parlando di riciclo dell’alluminio, l’Italia è nientemeno che prima in Europa e terza nel mondo, preceduta da Giappone e Stati Uniti: il 72% dell’alluminio in circolazione nella nostra nazione (46.500 tonnellate ) proviene dal riciclo di imballaggi (2010). E non solo; i lingotti ottenuti dalla fusione dei vecchi imballaggi in Italia vengono richiesti all’estero, ad esempio dalle aziende automobilistiche tedesche, e quindi
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esportati. Inoltre, raccolta differenziata e riciclo di 46.500 tonnellate di imballaggi in alluminio significano anche emissioni di gas serra evitate, per un totale di 371 mila tonnellate di CO2 e risparmio di energia per oltre 160 mila tep (Tonnellate Equivalenti Petrolio). Il riciclo (e più in particolare, in Italia, quello dell’alluminio) si è rivelato essere una fonte importantissima di energia per il nostro paese, storicamente carente di materie prime. ¬¬ ¬¬
appendice
Abbiamo scritto questo libro mossi anche da nostre passioni e curiosità personali: la vasta collezione di lattine di energy drink e il vecchio negozio di alimentari che da più di ottant’anni possediamo in un paesino del cremonese, rimasto intatto e tale e quale a 40 anni fa con gli scaffali pieni di vecchie scatole e lattine, usate in passato come materiale espositivo. La casa nella quale si trova è disabitata da più di 10 anni, e la zona del negozio non è mai stata cambiata; il tempo dunque sembra essersi fermato.
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Breve storia del negozio della famiglia di Elisa i ll negozio di alimentari (e inizialmente anche merceria, profumeria e tabaccheria) è stato aperto nei primi anni ‘20 (1922), da Pietro Stefano, mio bisnonno, per passare dall’attività di agricoltore a quella di commerciante. Aveva 35 anni. Stefano si occupava degli ordini delle merci, mentre la moglie serviva in negozio. La bisnonna si è poi intestata direttamente nella licenza dopo che è mancato il bisnonno nel 1964: il negozio è quindi rimasto attivo per altri cinque anni. Nina dunque si è impegnata con dedizione al negozio per oltre 47 anni (a quell’epoca non c’erano giorni di chiusura settimanale e neanche oraio pausa per pranzo se non negli anni più recenti, e d’inverno in negozio non c’era neanche il riscaldamento). Nel 1968, arrivata l’età della pensione, la bisnonna chiude il negozio
per la prima volta (la cessazione dell’attività avviene effettivamente solo nel 1972) e il 20-12-1969 riceve l’attestato di benemerenza con medaglia d’oro della Camera di Commercio di Cremona. Mio nonno Giacomo (e con lui moglie e figli) ha mantenuto la residenza in quella casa fino a circa il 1982 o 83, cioè fino a quando mia zia si è iscritta all’Università e mio padre era prossimo ad essere chiamato al servizio di leva, e quindi la residenza a Milano per tutti si “imponeva” per rendere più semplici ed agevoli tutte le varie procedure. Ora la casa e il nostro negozio necessitano di una profonda ristrutturazione per essere riportati a nuova vita, ma sempre mantenendo l’impronta delle epoche passate ed il rispetto per chi, proprio lì, ci ha preceduto.
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Breve storia della collezione di Federico: Durante la mia prima gita scolastica in terza superiore, in seguito ad aver attraversato l’intera Firenze a piedi mi ritrovai di fronte ad un baracchino da snack. I professori ci avevano autorizzato una sosta per dissetarci ed io stavo giusto scegliendo una bibita adatta allo scopo. Le bottigliette d’acqua non erano mantenute al fresco e non mi andava proprio di bere le solite bibite. Mi cadde l’occhio quindi su una lattina che pareva quasi un’opera d’arte. Per valorizzare ciò che stava all’interno, il contenitore era al tempo stesso così strano e così magnetico! Decisi di acquistarla, e dopo averne apprezzato il contenuto fruttato, non riuscii a separarmi da quella lattina meravigliosa. Da allora, in qualunque angolo del mondo mi conduca la vita, do sempre un’occhiata
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allo scaffale delle bibite o al frigorifero nei bar, e mi capita a volte di scovare qualche packaging che mi manca. Nel giro di un paio d’anni avevo già messo insieme un centinaio di lattine. Il loro design mi affascina, e le storie che nasconodo mi hanno appassionato al punto da non poter fare a meno di raccoglierle in questo libro.
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sitografia • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •
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