Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi

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Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi Una storia italiana

Progetto didattico Anno scolastico 2013 - 2014 Con il supporto del


In copertina: Tano D’Amico, Foto di gruppo del Movimento, Roma, marzo 1977.


Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi

Il ventennio che ha insanguinato l’Italia tra il 1969 e il 1988, negli anni cosiddetti “di piombo”, ha lasciato profonde ferite nella nostra società. Quell’epoca è ormai passata al rango di storia, divisa tra una verità incompleta sancita dalla giustizia e un’altra riconosciuta dagli studiosi, ma spesso divisa dalle ideologie. Che traccia ne è rimasta nei ragazzi di oggi? Che cosa sanno di quel tempo in bianco e nero con i jukboxe nei bar, le strofe arrabbiate dei cantautori “impegnati” e le cabine telefoniche con gli elenchi degli abbonati? Come spiegare loro che in quegli anni si poteva morire ammazzati per strada perché appartenenti allo schieramento politico avverso, o perché considerati simboli di uno Stato che si voleva “abbattere”, o peggio perché ci si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato? C’è stata una guerra, in quegli anni, frutto di tentazioni reazionarie e follie rivoluzionarie che hanno mietuto centinaia di vittime. Persone normali con la propria vita e il proprio lavoro, che avevano mogli e fidanzati, fratelli e soprattutto figli, di colpo orfani della lunga notte della nostra Repubblica. Il progetto didattico “Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi” rivolto alle scuole secondarie di secondo grado, sceglie di illustrare quell’epoca attraverso la prospettiva di alcuni bambini e ragazzi di allora, vittime a loro volta di quei tempi tragici. I figli della “notte della Repubblica” incontreranno in 11 città italiane (Torino, Genova, Venezia, Padova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Catania, Milano e Brescia) alcuni studenti, per svelare un po’ dell’Italia di allora, per raccontare a chi non c’era, ai giovani di oggi, figli di un'altra Italia, un periodo che ha cambiato la storia di un intero Paese. Raccontare la memoria recente, la storia contemporanea non è facile. Quando si cerca poi di raccontare un periodo difficilissimo per il nostro Paese, e ancora molto vicino nel tempo, può sembrare quasi impossibile superare ideologie di destra e sinistra, o dare risposte a questioni non risolte. Per questo motivo il progetto didattico che proponiamo cerca di raccontare, non ricostruire, la storia at1


traverso le vicende e le sensazioni personali di uomini e donne seduti davanti ad una platea di giovani studenti: storie di ragazzi e ragazze di allora raccontate ad altri giovani di oggi. Racconteremo di figlie che hanno asciugato per strada il sangue del padre poliziotto, o che sono dovute andare a chiedere a parenti e amici, molti anni dopo, per provare a conoscerlo un po’ meglio; di un magistrato che condivideva col figlio l’amore per i fumetti e il calcio, e di un ragazzino che aiutava il padre a tenere la contabilità in un quaderno, distrutto con la sua esistenza nell’esplosione di piazza Fontana. Attraverso le storie di quei ragazzi, questo percorso esperienziale nelle scuole italiane, propone ai ragazzi di oggi lo shock immediato della violenza di quei giorni, per capire com’è cambiata un’ intera generazione. Un progetto per saperne qualcosa di più. Semplicemente. Nella speranza di essere utili a chi quella “lunga notte della Repubblica” non l’ha vissuta, ma non per questo può permettersi di non conoscerla.

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Quando si moriva di politica di Giovanni Bianconi

C’erano una volta i telefoni a gettone. E c’erano le cabine telefoniche, complete di elenchi con i numeri degli abbonati, rilegati in apposite strutture in ferro che permettevano di consultarli senza poterli portare via. C’è stato un periodo, in Italia, in cui i giornalisti o chi per loro - avvisati da una chiamata effettuata da una cabina pubblica, per l’appunto - andavano a frugare tra le pagine di quegli elenchi, in cerca di fogli battuti a macchina e stampati col ciclostile. E puntualmente li trovavano. Erano i volantini di rivendicazione di omicidi e ferimenti commessi dalle Brigate rosse e altri gruppi armati, che in quegli anni detti «di piombo» (dal fortunato titolo di un film tedesco sul terrorismo nella Germania Ovest, ché all’epoca di Germanie ce n’erano due) facevano parte della quotidianità. Come il traffico nelle grandi città, o la crisi economica. Come i telefoni a gettone, le macchine da scrivere e i ciclostili a inchiostro; oggetti comuni di una stagione durata quasi vent’anni, con una curva prima ascendente e poi discendente che ha raggiunto il picco più alto a metà del suo percorso, tra il 1978 e il 1980. Era un’altra Italia, quella in cui il terrorismo rosso e nero ha mietuto centinaia di vittime, tra stragi indiscriminate e delitti mirati. Nomi noti e meno noti, persone importanti e sconosciute. Ma tutte persone: uomini e donne che coltivavano la propria vita e il proprio lavoro, sentimenti e affetti, circondati da genitori, mogli, mariti, figli, fratelli e sorelle, fidanzati e fidanzate che un giorno non li hanno più visti tornare a casa. Perché qualcuno li aveva uccisi in nome della lotta per l’abbattimento o il rafforzamento del potere. Anche quando non c’entravano niente con il potere. Le vittime del terrorismo furono ridotte a simboli da abbattere non per quello che erano e che facevano ma, nella gran parte dei casi, per ciò che rappresentavano. A volte occupando i gradini più alti delle istituzioni, ma spesso e volentieri a livelli molto più bassi, divenute bersagli per la carica che ricoprivano o la divisa che indossavano. Oppure (come nelle stragi, ma non solo) vennero colpiti semplici passanti capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Cittadini 3


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comuni di un Paese dove era comune morire ammazzati per ragioni politiche. Per scelte operate da chi ha inteso fare politica, o influenzare la politica, con le armi e con le bombe. La degradazione degli esseri umani a simboli è una delle caratteristiche più tragiche e devastanti del terrorismo, che ha riguardato non solo le vittime ma anche i carnefici. I quali, nel momento in cui uccidevano, non si consideravano più essi stessi persone bensì il braccio armato di entità o interessi considerati superiori, per conto dei quali sparavano o facevano esplodere ordigni. In un terribile processo di disumanizzazione collettiva. Tutto è accaduto tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli Ottanta del Novecento, il secolo della Rivoluzione d’Ottobre e della vittoria degli Alleati contro i nazifascisti nella seconda guerra mondiale, quando ancora il mondo era diviso in due blocchi contrapposti, ideologicamente ed economicamente. Dal dopoguerra in Italia governava la Democrazia cristiana, il partito di ispirazione cattolica scelto dagli Stati Uniti d’America come principale referente, che doveva vedersela con il più forte partito comunista d’Occidente, dai legami ancora solidi con l’Unione sovietica. Il 1968 seguito al boom economico aveva portato alla ribalta le proteste e le rivendicazioni studentesche, il ’69 quelle operaie. Accompagnate da attentati e manifestazioni di violenza che destavano allarme e inquietudine, ma senza preoccupare oltre un certo limite. Fino alla bomba alla Banca nazionale dell’Agricoltura, il 12 dicembre. La prima strage. La violenza politica in Italia c’era già, la Repubblica nata dalla Resistenza - e quindi dalla lotta armata, in un certo senso - l’aveva conosciuta fin dall’inizio. Ma dopo quella bomba divenne una componente costante del panorama politico, una variabile del gioco che si sommava e interagiva con le altre. Fosse spontanea o indotta, genuina o strumentale. E finì per condizionare non solo le strategie dei partiti e la formazione dei governi, ma la vita di tutti. Anche di chi non era interessato e non partecipava alle mutazioni della politica e del potere. I giovani crebbero con la percezione che morire ammazzati in mezzo alla strada per questioni che avevano a che fare con la politica costituiva la normalità (dalla definizione del vocabolario Treccani: «Carattere, condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia a un indi-

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viduo, sia a situazioni politiche, sociali, ecc.»). Poteva succedere, e se succedeva non c’era da stupirsi. Così come era normale che la mattina, davanti alle scuole, prima di entrare o dopo l’uscita, si facesse a botte per distribuire i volantini del proprio gruppo politico, o impedire che venissero distribuiti quelli della fazione avversa. Di questa «normalità» molti giovani furono testimoni. E più di tutti coloro che videro arrivare la morte in casa; per mano di sicari sbucati dall’ombra nella guerra dichiarata ai simboli di uno Stato da abbattere, o di anonimi dinamitardi dagli oscuri disegni. Sono i figli delle vittime degli attentati, le cui vite di bambini e bambine, ragazzi e ragazze sono state capovolte d’un colpo, deformate, deviate. Sono i figli della «notte della Repubblica», come l’ha definita Sergio Zavoli nella sua straordinaria inchiesta televisiva, che sarebbero cresciuti in maniera diversa se il terrorismo non avesse bussato alle loro porte, e insieme alle proprie storie individuali hanno visto cambiare la storia di un intero Paese. Attraverso le esperienze di alcuni di loro, disseminate nell’arco del quasi-ventennio che va dal ’69 all’88, ho provato a raccontare l’Italia degli «anni di piombo» per i giovani di oggi che in quell’epoca non c’erano, o erano troppo piccoli per comprendere quel che stava accadendo. Ricostruendo vicende e sensazioni personali che da un lato aiutano a restituire la dignità di persone ai simboli abbattuti, e dall’altro s’intrecciano con quelle collettive in un’incredibile catena di delitti e avvenimenti che hanno segnato in maniera pressoché indelebile più di una generazione. Del resto, se i principali esponenti dei movimenti giovanili dei partiti di allora - da Massimo D’Alema a Walter Veltroni, da Marco Follini a Pierferdinando Casini a Gianfranco Fini - sono diventati protagonisti di primo piano dei partiti e delle istituzioni nella cosiddetta seconda Repubblica, c’è da ritenere che quella stagione abbia avuto qualche peso anche nell’Italia dei decenni successivi. Nel Paese dei telefoni a gettone e dei volantini stampati col ciclostile, è accaduto che le stragi in cui morirono 139 persone e altre centinaia vennero ferite siano rimaste tutte pressoché impunite (sebbene di quasi tutte sia stata svelata in maniera abbastanza chiara la matrice), e che tutte le indagini su quegli attentati siano state deviate e depistate da apparati cosiddetti «di sicurezza». È accaduto anche che un’organizzazione rivoluzionaria - nata tempo addietro sulle pulsioni sovversive dell’estrema sinistra, e che aveva già 5


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dato prova di mirare al «cuore» delle istituzioni - abbia sequestrato e ucciso il principale leader del principale partito di governo, già primo ministro e destinato a diventare con ogni probabilità presidente della Repubblica, dirottando in maniera irreversibile il corso della politica nazionale. Prima e dopo quel delitto, tra il 1970 e il 1988, le Brigate rosse e altre formazioni armate della stessa parte politica hanno provocato la morte di 128 persone e il ferimento di alcune centinaia. È inoltre accaduto che sedicenti rivoluzionari neofascisti abbiano potuto assassinare senza alcuna difficoltà i magistrati che in solitudine indagavano sulle loro gesta, insieme a qualche altra decina di vittime. Ed è accaduto che sul finire di quelle esperienze, quando non c’era più alcuna possibilità di innescare qualsivoglia miraggio insurrezionale, si sia continuato ad ammazzare prendendo di mira chi tentava di attutire o risolvere i conflitti sociali attraverso la mediazione e il confronto. Tutto questo ho tentato di ripercorrere con gli occhi giovani di alcuni figli di quella lunga notte, per svelare un po’ dell’Italia di allora ai giovani di oggi, figli di un’altra Italia. Dove peraltro - tra il 1999 e il 2003, in piena «seconda Repubblica» - qualche ex giovane ha tentato di riproporre la strategia della lotta armata come se nel frattempo niente fosse cambiato. I nuovi brigatisti hanno fatto in tempo a uccidere tre persone prima di essere arrestati, processati e condannati. Loro non usavano gettoni né ciclostili, ma schede telefoniche, cellulari e computer palmari grazie ai quali sono stati individuati e debellati. Sono stati gli epigoni di un fenomeno che per intensità, durata e conseguenze non ha avuto eguali nel resto del mondo occidentale. E che ha provato a riprodursi in una fase politica completamente diversa dalla precedente, quando nessuno riteneva possibile che potesse accadere di nuovo. Anche per questo può essere utile per chi è arrivato dopo quella stagione di tritolo e di piombo, o non ne conserva memoria, saperne qualcosa in più. Dall’introduzione a “Figli della notte” Dalai Editore, 2012

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Gli anni di piombo 1969 - 1988 Le parole dei ragazzi di allora


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Strage di Piazza Fontana Milano, 12 dicembre 1969 - 17 morti e 90 feriti

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Omicidio del Commissario di Pubblica Sicurezza Luigi Calabresi Milano, 17 maggio 1972

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Quel giorno in più concesso a mio padre di Mario Calabresi

(…) La sera prima avevamo giocato a nascondino. Era stato un regalo del destino. Aveva avuto un giorno in più con sua moglie e i suoi figli. Ancora una cena, qualche pagina del libro che aveva sul comodino, Krusciov ricorda, letta all’alba prima di fare il caffè, e la possibilità di scegliersi quella cravatta bianca. Fu il caso ad allungargli la vita di ventiquattro ore esatte. In questa occasione il caso aveva le sembianze di un parcheggio. Non aveva un box dove mettere ogni sera la Cinquecento, tanto che stava quasi sempre in strada. Sulla rampa che portava in garage c’era però lo spazio per parcheggiare una piccola vettura: chi arrivava prima tra i condomini lo occupava. Mio padre era sempre l’ultimo a rientrare e per lui non c’era possibilità, anche se ci provava sempre, specie perché questo li faceva sentire più tranquilli. Il 15 maggio però rientrò presto e riuscì a conquistarsi lo spazio sulla discesa. La mattina dopo, poi, fece tardi. La somma di queste due circostanze ci regalò una serata di giochi. Lo abbiamo scoperto durante il primo processo. Leonardo Marino raccontò che l’omicidio era stato preparato per il 16 maggio, che si appostarono sotto casa molto presto, ma dopo alcuni giri di ricognizione non trovarono la Cinquecento blu. Aspettarono oltre l’ora prevista, si fermarono mezz’ora in più, fino alle 9.30. Poi pensarono che era troppo tardi, che probabilmente doveva essere uscito all’alba e decisero di riprovare il giorno dopo. Sembrava un particolare non riscontrabile in alcun modo, finché non venne il giorno dell’interrogatorio di mia madre. Durante la sua testimonianza raccontò come alcuni mesi prima dell’omicidio avesse cominciato a tenere un diario con gli orari di mio padre. Li scriveva su una piccola agenda, omaggio dell’Ente del turismo olandese; sulla copertina c’era scritto « Holland ’72 ». Aveva cominciato a farlo un po’ per gioco, un po’ per polemica. Sosteneva che a mio padre non venivano pagati tutti gli straordinari che faceva. Così annotava sull’agenda l’ora in cui usciva la mattina e quella di rientro, spesso nel cuore della notte. Le venne chiesto di leggerla in aula. Quando arri10


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varono al 15 maggio lei capì. C’era scritto: «Gigi oggi rientra presto». Significava che aveva conquistato il posto sulla rampa del garage, la macchina era nel cortile interno, non si poteva vedere dalla strada. Il 16 maggio poi c’era l’annotazione: «Gigi esce alle 9.30». Su quella pagina, in fondo, c’erano altre due righe : «Gigi rientra con cioccolatini e caramelle e giochiamo a nascondino con Mario». Il 17 maggio una sola riga, quella mattina era stato più puntuale: «Gigi esce alle 9.10». L’unico ricordo che ho di mio padre è quello dell’ultima domenica mattina passata insieme. La data l’ho ricostruita grazie all’agenda olandese: «14 maggio. Gigi porta Mario a vedere la sfilata degli Alpini. Rientra con paste, gelato e rose». Mia madre conserva ancora una rosa di quel mazzo. È secca, ma si intuisce il colore rosa screziato di rosso. La tiene in un cassettone, insieme alle migliaia di lettere ricevute negli anni. Alla data ci siamo arrivati insieme, dopo che quel diario aveva ripreso vita per fare la sua parte nei processi. Ma di quella mattina ne avevamo parlato la prima volta solo due o tre anni prima, quando ero al ginnasio. Dopo essermelo tenuto per me per anni, un pomeriggio, in cucina, le dissi: «Io ho un ricordo di papà Gigi, è fortissimo, è una bellissima sensazione, ma non so cosa sia, se te lo racconto mi puoi aiutare a capirlo? ». E le raccontai di una folla, di una piazza, di una banda musicale. Io ero sulle sue spalle, ero un po’ spaventato dalla calca e dal rumore, ma ero incredibilmente attratto dalla grande apertura dorata di un trombone. Lui mi chiese se volevo toccarlo, ero timido, e poi nessuno si avvicinava, la gente stava tutta lungo il bordo della strada, ad assistere alla sfilata. Nessuno superava la linea immaginaria. Lui invece scavalcò qualcosa, superò delle transenne, io mi attaccai ai suoi capelli, lui mi stringeva le gambe, io avevo timore, sentivo che stavamo facendo qualcosa fuori dalle regole, ma lui mi dava fiducia. Ci avvicinammo alla banda, lui parlò con qualcuno, chiese qualcosa, si piegò sul trombone e me lo fece toccare, solo per un attimo. Tornammo indietro, io ero felice, mi sentivo grande, forte, orgoglioso di stare sulle sue spalle, mi sembrava avessimo fatto una cosa coraggiosissima. Non avevo più paura della folla, mi sembrava tutto solare e caldo. Era una sensazione fortissima, che sento ancora oggi, viva, netta, pulita. Una sensazione di pienezza. Ci ho pensato

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tante volte, a scuola, nella calca all’uscita dallo stadio, a Montecitorio nei giorni concitati della caduta di Prodi o dell’elezione di Ciampi, a New York davanti alla sede dell’Nbc al Rockefeller Center, mentre la gente scappava perché avevano trovato una busta con le spore d’antrace, mentre organizzavamo gli inviati da mandare a Madrid pochi minuti dopo le bombe ai treni dell’11 marzo 2004, o durante la notte dell’edizione straordinaria per l’inizio della guerra in Iraq. Ho sentito quella sensazione calda e ho pensato a lui. È l’eredità che mi ha lasciato. Mi ha regalato la tranquillità in mezzo al disordine una specie di pace che mi prende quanto tutto intorno accelera, più accelera e più dentro di me le cose si fermano, si chiarificano, sembrano semplici. Era solo una banda degli Alpini, ma me la porto dentro da quasi trentacinque anni. Quando finii di raccontare, mamma sorrise, scuotendo la testa: «Non è possibile che ti ricordi… Ma perché non me lo hai mai detto? Per giorni non avevi fatto altro che raccontare del trombone e bisognava sempre ascoltarti da capo, raccontavi che l’avevi toccato. È incredibile che ti sia rimasto il ricordo».

Tratto da Spingendo la notte più in là Storie della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo 2007, Mondadori

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Strage di Piazza della Loggia Brescia, 28 maggio 1974 - 8 morti e 100 feriti

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Omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola Padova, 17 giugno 1974

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Il salto del fosso delle Brigate rosse di Silvia Giralucci

(…) Del piombo degli anni Settanta ricordo pochissimo: il sequestro di Aldo Moro e una scritta sul muro: FUORI I COMPAGNI DEL 7 APRILE. Capivo che quel «fuori» si riferiva alla galera, ma non perché i rinchiusi fossero «compagni». Non capivo, ma non facevo domande. Sapevo, infatti, che non sarebbero state gradite, che avrebbero provocato imbarazzo intorno a me perché in qualche modo riguardavano la ferita profonda della mia famiglia, la morte di papà. «Capirai quando sarai più grande». E, d’altronde, quali altre parole si potevano trovare per spiegare? Ho impiegato anni e tanta fatica a capire che quel papà sparito nel nulla, senza lasciami neppure un ricordo, quando avevo tre anni, era stato ucciso. Ucciso dalle Brigate rosse perché era di destra. «Fascista», come si diceva allora. La mattina del 17 giugno 1974 era andato a salutare l’amico Giuseppe Mazzola, custode della sede del Msi a Padova, quando cinque brigatisti vi fecero irruzione. Papà reagì, tentò di impossessarsi della pistola di uno di loro e fu ucciso assieme a Mazzola. Freddati senza pietà quando erano già a terra, centrati da un primo colpo, senza possibilità di reagire. Le Br rivendicarono il duplice omicidio, spiegando che si era trattato di un «incidente» durante una perquisizione proletaria. Al processo, conclusosi quando ero all’università, anche i giudici ritennero che entrare di mattina a volto scoperto con le pistole silenziate in una sede del Msi, custodita, frequentata, in pieno centro cittadino, non fosse una modalità di perquisizione proletaria, bensì una scelta strategica per alzare il livello dello scontro: «L’omicidio di Mazzola e Giralucci» è scritto nelle motivazioni della sentenza della Corte d’assise «non è stato determinato né dalla necessità per gli esecutori di assicurarsi l’impunità degli altri delitti fino a quel momento compiuti, né più genericamente dalla necessità di assicurarsi una via di fuga: si è trattato di un atto immotivato e privo di scopo e - per converso - cinico e crudele, cui non pare neppure applicabile l’etichetta di una ideologia, per quanto distorta e faziosa».

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Quel che per le Br fu il «salto del fosso», dalle azioni dimostrative agli omicidi, per me fu l’inizio di un vuoto affettivo, materiale e sociale. Un vuoto che per anni mi ha paralizzata, tenendomi lontana dalla politica, dall’impegno civile e da qualsiasi cosa avesse a che fare con un’«appartenenza». Non molto tempo fa, qualcosa è cambiato. Oltre trent’anni dopo la morte di papà e Mazzola, il comune di Padova ha capito che le prime due vittime delle Brigate rosse, benché di destra, meritavano una commemorazione istituzionale. Quella cerimonia, voluta da un sindaco di sinistra, Flavio Zanonato, è stata l’inizio della mia riconciliazione con la città in cui sono nata. La targa ricordo, che da un decennio era appesa a un palo perché i condomini del palazzo dove papà e Mazzola erano stati uccisi rifiutavano di mettere a disposizione il muro, è stata affissa, avvitata alla parete grazie a un’ordinanza del sindaco che l’ha definita un’opera di pubblica utilità. Ed è stato così che le commemorazioni con le croci celtiche, circondate da polizia in assetto antisommossa, sono diventate negli ultimi anni cerimonie più sobrie, dove finalmente partecipano non solo militanti di destra, ma cittadini che vogliono ricordare un pezzo di storia di questa città, e dove posso portare anche i miei figli. Dopo trentacinque anni mi è venuta la voglia di capire e di superare. Se non ho potuto iniziare l’elaborazione del lutto con un funerale che non ero in grado di capire, ora la memoria diventa la risposta a un bisogno profondo di cercare, nella storia, le ragioni della mia ferita. Più che sapere che cosa è successo quella mattina nella sede missina di via Zabarella, sento la necessità di comprendere lo spirito del periodo in cui per la politica valeva la pena morire o rischiare di rovinarsi la vita.

Tratto da L’inferno sono gli altri Cercando mio padre, vittima delle Br, nella memoria divisa degli anni Settanta 2011, Mondadori

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Omicidio del Procuratore Generale della Repubblica Francesco Coco e degli agenti di scorta Giovanni Saponara e Antioco Deiana Genova, 8 giugno 1976

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Come cambia la mia vita adesso? di Massimo Coco

(…) «Dobbiamo andare a salutare il papà», la mamma ha detto così, e quel tizio che le si è appiccicato chi diavolo è? Parlava solo e continuamente di faccende legali, riconoscimento, autopsia, deposizione, testimoni, sarà qualche magistrato, qualcuno della Prefettura, io non riconosco più nessuno, ma dobbiamo andare per forza? Io ho paura perché non ho mai visto un morto da vicino, penso però che se quello è mio padre, perché dovrebbe farmi paura? Deve essere ora di cena, sento attraverso le stradine intorno a casa la pietra che butta fuori ancora il calore, attorno rondini a pioggia, piatti e pentole, odore di cibo, televisioni accese dappertutto, c’è il telegiornale, dicono le notizie, ma già la notizia siamo noi adesso. Penso a tutti i compagni di classe con cui ero stamattina, ora saranno tutti lì davanti al televisore a sentire, ma che mi frega. Ancora e ancora pensieri a vuoto, e che fastidio il costume ce l’ho indosso da tutto il giorno, sembra ancora bagnato, forse è il sale del mare, oppure sono solo sudato. Sì, io ero al mare, solo stamattina ero al mare, incredibile, sembra tre giorni fa. Poi ci hanno chiamato, avevo visto quella gente raccolta intorno a due fogli di giornale, forse qualche edizione straordinaria, o forse i soliti volantini, manifesti, chissà. Invece c’era il titolo con scritto «Coco» enorme, e allora ho capito che c’entrava mio padre, ancora una volta. Ho pensato che l’avessero accusato di qualcosa, ancora uno scandalo, un casino, mah. «Venite a casa, dai, venite subito a casa». Dovevamo andare tutti da quella nostra compagna, Silvia, quella che abita proprio lì a due passi dal mare. Quanta fretta, però, stai a vedere che stavolta è capitato veramente un guaio. E poi sì: «Vieni, Massimo, ti accompagniamo, la mamma ti aspetta a casa». Sì, è successo qualcosa, però è successo al papà, è la mamma che mi aspetta, quindi… Quindi saluto tutti, no tranquilli, non vi voglio imbarazzare ragazzi. Faccio finta di non aver capito niente, mamma mia quanto siete pallidi tutti quanti, manco si direbbe che torniamo dalla spiaggia.

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«Perché dobbiamo passare da un’altra parte? Per andare a casa mia è più breve di là, per quella via lì invece c’è da fare un bel pezzo a piedi, di quelli che non finiscono più». Ma va bene, non mi ascoltano nemmeno, passiamo pure di là, fate un po’ come vi viene, tanto…Tanto sono a casa, e piangono un po’ tutti, io no che non piango, non piango, non piango perché mi guardano, qui c’è un casino di gente e mi dà fastidio, magari dopo, adesso mi trattengo. Quanta gente, però, metà non li conosco nemmeno, manco pensavo che potessero starci tutti questi a casa mia, non si riesce nemmeno a camminare. «Li hanno presi?» è la sola cosa che chiedo, non è che poi mi serva sapere altro. Invece non risponde nessuno, guardano tutti in terra o dove possono. «Coraggio», mi dice un tizio, scoprirò poi che era un giornalista, «rileggendomi» su un quotidiano: «Mi sono trovato a faccia a faccia con Massimo, avrei voluto dirgli tante cose, mi è uscito solo ‘coraggio!’ Lui mi ha guardato e mi ha detto: ‘Adesso non resta che il coraggio’». Possibile, ma io non mi ricordo nemmeno di avergli risposto. (...) E adesso cosa cambia? Oggi cambia la mia vita, cambia tutto, studio ancora violino oppure no? Magari smetto per il trauma, sto impazzendo e certo non me ne posso accorgere, mi daranno medicine, psicofarmaci, non sarò più la stessa persona, cambierò carattere. Dopodomani c’è ancora lezione, il violino, devo avvisare che non vado, ma che cretino, figurati se non lo sanno. Già, il corso di agosto, con chi ci vado quest’anno a Salisburgo? Pensieri stupidi, ancora, e cosa può importare adesso? Non l’ho salutato stamattina il papà, ieri l’ho visto vivo l’ultima volta, in quella stanza mi pare, cosa gli ho detto? Quali sono state le ultime parole che gli ho sentito dire da vivo? Quali le mie? C’era un significato? Ho perso qualche segno, qualcosa, una premonizione? Forse sono pensieri stupidi anche questi, inutili, magari li fanno tutti uguali, è così quando muore qualcuno, ma adesso a che servono? O forse sono io, sono solo io a farli perché sto impazzendo davvero. Se lo aspettava di morire? Se lo sentiva? Tratto da Ricordare stanca. L’assassino di mio padre e le altre ferite mai chiuse 2012, Sperling & Kupfer

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Rapimento di Aldo Moro e omicidio degli agenti di scorta, Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi Roma, 16 marzo 1978

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Omicidio del Maresciallo di Pubblica Sicurezza Mariano Romiti Roma, 7 dicembre 1979

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Omicidio del Sostituto Procuratore Mario Amato Roma, 23 giugno 1980

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Omicidio del Giudice Istruttore Guido Galli Milano, 19 marzo 1980

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Omicidio di Roberto Peci, fratello del brigatista “pentito� Patrizio Peci Roma, 3 agosto 1981

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Omicidio dell’economista e docente universitario Ezio Tarantelli Roma, 27 marzo 1985

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Il funerale pubblico di papà di Luca Tarantelli

(…) Piazza del Verano mi parve una distesa enorme gremita di gente, quando ci fu il funerale di Stato. Il Paese tutto aveva reagito all’evento con un enorme abbraccio collettivo al nostro dolore, attraverso la partecipazione alla camera ardente in università e al grande funerale che si celebrò nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura. L’evento fu trasmesso in diretta televisiva, poi commentato per alcuni giorni sui principali giornali italiani. Mio cugino Alessandro, che era sceso da Milano, la ricorda così: «Una piazza sterminata, come se fosse uno stadio pieno, a perdita d’occhio». A rivederla ora, ampia sì ma non immensa, mi accorgo di quanto fossimo piccoli allora. I giornali parlarono di alcune migliaia di persone, forse 7000. Il sindaco di Roma, Ugo Vetere, fu coinvolto nell’organizzazione del funerale e intervenne dal palco, insieme a Federico Caffè e a Pierre Carniti, quest’ultimo in nome di tutti e tre i sindacati. Gli autobus e le metropolitane di Roma si fermarono per due ore, dalle 14.30 alle 16.30, «proprio per permettere ai lavoratori autoferrotranvieri di partecipare ai funerali». Centinaia di pullman da tutta Italia confluirono su piazza del Verano mentre, migliaia di telegrammi arrivavano all’università, alla Cisl e agli altri sindacati, e a casa nostra, in continuazione, per giorni: da tutte le autorità di ogni genere, presidenti e sindaci di tutta Italia. Mio cugino Marco si stupì che l’unico che non avesse mandato un telegramma fosse il Papa (e ancora non ne so la ragione). Sul palco sfilavano i politici: Natta, Chiaromonte e Reichlin, seguiti da Scalfaro, Forlani, Benvenuto e Signorello; poi Martelli, e infine Pertini, salirono sul palco dove c’erano Lama, Del Turco, Iotti, Cossiga, De Mita, Carniti. «Solo la Confindustria non è rappresentata ai massimi livelli» scrisse un giornale. Gli altri bambini non erano autorizzati a salire sul palco vicino ai politici e vicino a me: dovemmo insistere per farli passare: Alessandro, che mi ha messo la mano sulla spalla e ce l’ha tenuta per tutto il funerale, mio cugino Marco, Ombretta, Michele. E sotto, gli striscioni, le bandiere, la folla. Carniti,

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dal palco: «Il senso di assurdità è totale. Hanno spezzato una vita, calpestato una famiglia, ferito un movimento, per sparare su un’idea. La cultura dell’omicidio torna di fronte a noi a ricordarci che prima di ogni altro impegno, di qualsiasi linea politica, c’è la vita dell’uomo, l’unica cosa che mai va considerata un mezzo, uno strumento». Fu allora che pronunciai la famosa frase: «Le Brigate Rosse si sono fatte migliaia di nemici», che venne riportata da vari giornali. Tra la nostra vita privata, mia e della mia famiglia, e quella pubblica si era sfaldato ogni confine. (…) A volte ho la sensazione che il presente del nostro Paese sia iniziato quel giorno, con il funerale di mio padre. Certamente è la confusione tra pubblico e privato di cui soffro ancora le conseguenze, oltre venticinque anni dopo. Ma non mi aiutano a districarmi le testimonianze di quanti, nel ripercorrere quegli eventi, rimangono come me intrappolati nelle difficoltà di comprendere, di decidere, di prendere posizione. Perché è stato ucciso? Senz’altro le mani che hanno sparato sono quelle di un gruppo di deliranti senza coscienza né vera appartenenza, convinti di poter sopravvivere come gruppo solo attraverso la celebrazione periodica di un rituale di sangue: scegliendo un capro espiatorio, poco più che casuale, per affermare la propria necessità di esistere. Eppure questa risposta non è sufficiente (…)

Tratto da Il sogno che uccise mio padre Storia di Ezio Tarantelli che voleva lavoro per tutti 2013, Rizzoli

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Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi

Omicidio del Senatore democristiano Roberto Ruffilli ForlĂŹ, 16 aprile 1988

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Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi

Bibliografia essenziale Sulla strategia della tensione e l’eversione di destra

Licia Pinelli - Piero Scaramucci Una storia quasi soltanto mia Feltrinelli, Milano 2009

AA.VV. La strage di Stato, la controinchiesta La nuova sinistra-Samonà e Savelli, Roma 1970

Eugenio Occorsio Non dimenticare, non odiare Dalai editore, Milano 2011

AA.VV. Eversione di destra, terrorismo, stragi Franco Angerli, Milano 1986

Nicola Rao La fiamma e la celtica Sperling & Kupfer, Milano 2006

AA.VV. Le bombe a Milano Rizzoli, Milano 2009

Nicola Rao Il sangue e la celtica Sperling & Kupfer, Milano 2008

AA.VV. A onor del vero Il Margine, Trento 2012

Adriano Sofri La notte che Pinelli Sellerio, Palermo 2009

Gianni Barbacetto Il grande vecchio Rizzoli, Milano 2009

Federico Tesei L’Italicus (4 agosto 1974) Cicorivolta Edizioni, 2010

Paolo Barbieri - Paolo Cucchiarelli La strage con i capelli bianchi Editori riuniti, Roma 2003

Benedetta Tobagi Una stella incoronata di buio Einaudi, Torino 2013

Giorgio Boatti Piazza Fontana Einaudi, Torino 2009

Fortunato Zinni Piazza Fontana: nessuno è Stato Maingraf, Mlano 2009

Mario Consani Foto di gruppo da piazza Fontana Melampo, Milano 2005

Sulle Brigate rosse e l’eversione di sinistra

Franco Ferraresi Minacce alla democrazia Feltrinelli, Milano 1995 Giancarlo Feliziani Lo schiocco Limina, Arezzo 2006 Marco Fini - Corrado Stajano La forza della democrazia Einaudi, Torino 1977 Mimmo Franzinelli La sottile linea nera Rizzoli, Milano 2008 Luciano Lanza Bombe e segreti Elèuthera, Trento 2009 Carlo Lucarelli Piazza Fontana Einaudi, Torino 2007

Barbara Balzerani Compagna Luna Feltrinelli, Milano 1998 Giovanni Bianconi Mi dichiaro prigioniero politico Einaudi, Torino 2003 Andrea Casalegno L’attentato Chiarelettere, Milano 2008 Stefano Caselli - Davide Valentini Anni spietati Laterza, Bari 2011 Maurizio Clementi Storia delle Brigate rosse Odradek, Roma 2007 Massimo Coco Ricordare stanca Sperling & Kupfer, Milano 2012

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Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi

Renato Curcio (con Mario Scialoja) A viso aperto Mondadori, Milano 1993

Vincenzo Tessandori Qui brigate rosse. Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009

Giovanni De Luna Le ragioni di un decennio Feltrinelli, Milano 2009

Benedetta Tobagi Come mi batte forte il tuo cuore Einaudi, Torino 2009

Enrico Fenzi Armi e bagagli Costa&Nolan, Genova 1987

Luca Tarantelli Il sogno che uccise mio padre Rizzoli, Milano 2013

Alberto Franceschini (con Piervittorio Buffa e Franco Giustolisi) Mara, Renato e io Mondadori, Milano 1988 Prospero Gallinari Un contadino nella metropoli, Bompiani, Milano 2006 Silvia Giralucci L’inferno sono gli altri Mondadori, Milano 2011 Vincenzo Guagliardo Di sconfitta in sconfitta Edizioni Colibrì, Torino 2012 Mario Moretti (con Carla Mosca e Rossana Rossanda) Brigate rosse: una storia italiana Anabasi, Milano 1994 Valerio Morucci La peggio gioventù Rizzoli, Milano 2004 Patrizio Peci Io, l’infame Mondadori, Milano 1983 Lorenzo Ruggiero (a cura di) Dossier Brigate rosse 1969-1975 Kaos edizioni, Milano 2007 Lorenzo Ruggiero (a cura di) Dossier Brigate rosse 1976-1978 Kaos edizioni, Milano 2007 Progetto Memoria La mappa perduta, Sguardi ritrovati, Le parole scritte, Le torture affiorate, Il carcere speciale Sensibili alle foglie, Roma 1994, 1995, 1996, 1998, 2006 Vincenzo Tessandori Imputazione banda armata Garzanti, Milano 1975

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Sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro AA.VV. Perché Aldo Moro Editori Riuniti, Roma 1988 Giovanni Bianconi Eseguendo la sentenza Einaudi, Torino 2008 Marco Clementi La pazzia di Aldo Moro Rizzoli, Milano 2006 Sergio Flamigni La tela del ragno Kaos edizioni, Roma 1993 Agostino Giovagnoli Il caso Moro Il Mulino, Bologna 2005 Miguel Gotor Il memoriale della Repubblica Einaudi, Torino 2010 Vincenzo Marini Recchia - Giuseppe Zupo Operazione Moro Franco Angeli, Milano 1984 Aldo Moro (a cura di Miguel Gotor) Lettere dalla prigionia Einaudi, Torino 2008 Leonardo Sciascia L’affaire Moro Sellerio, Palermo 1978 Adriano Sofri L’ombra di Moro Sellerio, Palermo 1991


Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi

Su Prima Linea Sergio Segio La prima linea Rizzoli, Milano 2006 Corrado Stajano L’Italia nichilista Einaudi, Torino 1992 Giuliano Boraso Mucchio Selvaggio Castelvecchi, Roma 2006 Sui Nar e lo spontaneismo armato dell’estrema destra Giovanni Bianconi A mano armata Baldini & Castoldi, Milano 1992 Mario Caprara - Gianluca Semprini Destra estrema e criminale Newton Compton, Roma 2007 Giorgio Cingolani La destra in armi Editori riuniti, Roma 1996 Andrea Colombo Storia nera Cairo editore, Milano 2007 Nicola Rao Il piombo e la celtica Sperling & Kupfer, Milano 2009

Pietro Calogero - Carlo Fumian - Michele Sartori Terrore rosso Laterza, Bari 2010 Guido Crainz Il Paese mancato Donzelli, Roma 2003 Paride Leporace Toghe rosso sangue Newton Compton, Roma 2009 Luigi Manconi Vivere con il terrorismo Mondadori, Milano 1980 Luigi Manconi Terroristi italiani Rizzoli, Milano 2008 Achille Melchionda Piombo contro la giustizia Pendragon, Bologna 2010 Giovanni Minoli Eroi come noi Eri-Rizzoli, Milano 2006 Gigi Moncalvo Oltre la notte di piombo Edizione Paoline, Milano 1984 Diego Novelli - Nicola Tranfaglia Vite sospese Garzanti, Milano 1988

E ancora

Marco Nozza Il pistarolo Il Saggiatore, Milano 2006

AA.VV. La piuma e la montagna Manifestolibri, Roma 2008

Giampaolo Pansa Storie italiane di violenza e terrorismo Mondadori, Milano 1980

AA.VV. Sedie vuote - Gli anni di piombo dalla parte delle vittime Il Margine, Trento 2008

Angelo Ventura Per una storia del terrorismo italiano Donzelli, Roma 2010

Adalberto Baldoni - Sandro Provvisionato A che punto è la notte? Vallecchi, Firenze 2003

Sergio Zavoli La notte della Repubblica Eri-Mondadori, Milano 1992

Nanni Balestrini - Primo Moroni L’orda d’oro Feltrinelli, Milano 1997 Mario Calabresi Spingendo la notte più in là Mondadori, Milano 2007

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Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi

Filmografia Anni di piombo, regia di Margarethe Von Trotta, 1981 Colpire al Cuore, regia di Gianni Amelio, 1982

Segreti segreti, regia di Giuseppe Bertolucci, 1984 ll caso Moro, regia di Giuseppe Ferrara, 1986,

Gli invisibili, regia di Pasquale Squitieri, 1988

Una fredda mattina di maggio, regia di Vittorio Sindoni, 1990 La seconda volta, regia di Mimmo Calopresti, 1995 La mia generazione, regia di Wilma Labate, 1996 Le mani forti, regia di Franco Bernini, 1997

La meglio gioventĂš, regia di Marco Tullio Giordana, 2003 Buongiorno, notte, regia di Marco Bellocchio, 2003

Piazza delle cinque lune, regia di Renzo Martinelli, 2003 Guido che sfidò le BR, regia di Giuseppe Ferrara, 2005 Arrivederci, amore ciao, regia di Michele Soavi, 2006 La prima linea, regia di Renato De Maria, 2009

Romanzo di una strage, regia di Marco Tullio Giordana, 2012

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Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto didattico “Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi. Una storia italiana” realizzato dall’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Giorgio Ambrosoli” di Roma in collaborazione con Ellesse Edu


“Persone normali con la propria vita e il proprio lavoro, che avevano mogli e fidanzati, fratelli e soprattutto figli, di colpo orfani della lunga notte della nostra Repubblica. Il progetto didattico Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi rivolto alle scuole secondarie di secondo grado, sceglie di illustrare quell’epoca attraverso la prospettiva di alcuni bambini e ragazzi di allora, vittime a loro volta di quei tempi tragici.�


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