110066851 gaffney patricia lily

Page 1

Patricia Gaffney

LILY SONZOGNO EDITORE Titolo originale LILY Traduzione di Cristina Pradella © 1991 by Patricia Gaffney © 1999 Euroclub Italia S.p.A. edizione «Tascabili Sonzogno – Best Seller» gennaio 2004


Indice LILY .......................................................................................................................... 3 Capitolo primo: La cameriera ................................................................................... 3 Capitolo secondo ..................................................................................................... 16 Capitolo terzo .......................................................................................................... 23 Capitolo quarto ........................................................................................................ 28 Capitolo quinto ........................................................................................................ 35 Capitolo sesto .......................................................................................................... 41 Capitolo settimo ...................................................................................................... 49 Capitolo ottavo ........................................................................................................ 57 Capitolo nono .......................................................................................................... 68 Capitolo decimo ...................................................................................................... 78 Capitolo undicesimo................................................................................................ 94 Capitolo dodicesimo.............................................................................................. 101 Capitolo tredicesimo ............................................................................................. 113 Capitolo quattordicesimo ...................................................................................... 121 Capitolo quindicesimo........................................................................................... 130 Capitolo sedicesimo .............................................................................................. 141 Capitolo diciassettesimo........................................................................................ 150 Capitolo diciottesimo ............................................................................................ 163 Capitolo diciannovesimo....................................................................................... 169 Capitolo ventesimo................................................................................................ 179 Capitolo ventunesimo............................................................................................ 190 Capitolo ventiduesimo........................................................................................... 196 Capitolo ventitreesimo .......................................................................................... 205 Capitolo ventiquattresimo: Il dono........................................................................ 214 Capitolo venticinquesimo...................................................................................... 220 Capitolo ventiseiesimo .......................................................................................... 228 Capitolo ventisettesimo ......................................................................................... 238 Capitolo ventottesimo ........................................................................................... 250 Capitolo ventinovesimo......................................................................................... 258 Breve Biografia dell’autrice .................................................................................. 266


LILY Capitolo primo: La cameriera «Accidenti!» Lily staccò immediatamente la mano dal manico incandescente dello spiedo e agitò le dita nell’aria satura di fumo. Si lamentò a bassa voce, di modo che i suoi ospiti non la udissero. Tenendosi il polso strettamente con le dita dell’altra mano, strizzò gli occhi pieni di lacrime mentre una sferzata di irritazione la pervadeva, così tagliente da eclissare per un attimo il dolore. Era proprio in momenti come quello che Lily avrebbe desiderato conoscere un maggior numero di imprecazioni. Il maiale che avrebbe dovuto essere arrostito era invece carbonizzato, completamente rovinato e impossibile da servire; persino il sugo era ridotto a uno strato sottile nero come la pece. Manco a dirlo, Fanny era come scomparsa; la dodicenne cameriera tuttofare doveva essersene andata a casa nel momento stesso in cui aveva posto la carne sullo spiedo, immaginandosi evidentemente che girasse da sé. Cameriera nullafacente, sarebbe stato meglio chiamarla, si disse sempre più irata. E ora, cosa diavolo avrebbe dato loro da mangiare? Si avvolse una pezza inumidita attorno al pollice destro e si asciugò gli occhi nella manica della camicia. Era del tutto inutile andare a vedere nella dispensa. Ma lo fece sperando che si fosse verificato un qualche miracolo. No, non era cambiato proprio nulla: due uova e un vaso di limoni in salamoia erano ancora le uniche cose commestibili. Gli ospiti non invitati riescono sempre a svuotare la dispensa di una ragazza, soprattutto se, già in partenza, è quasi vuota. E ora, dopo tre pranzi, due cene e un numero indefinito di tè, anche il portafogli di Lily seguiva il medesimo destino della credenza. Non vi era altro da fare che dire loro la verità. Chissà, magari avrebbero anche potuto invitarla loro a pranzo, per una volta. Tolse la fasciatura sommaria al pollice e soffiò sulla vescica, poi cercò di riavviarsi i capelli rossi legandoli in un nodo scomposto, raddrizzò le spalle e salì i gradini consunti che portavano al salotto. Si fermò sulla soglia, e una rapida ondata dell’antica irritazione l’attraversò. Roger Soames era seduto accanto al camino, nella vecchia poltrona di suo padre, con i piedi, in ciabatte, poggiati su un parafuoco, leggendo il Monitor di Lyme Regis e bevendo un bicchiere di vino delle Canarie. L'ultimo bicchiere di vino delle Canarie, si disse con rabbia; sperava che se lo gustasse fino in fondo, perché non ce ne sarebbe stato più. Si chiese come era possibile che il Dio terribile tratteggiato da Soames nei suoi sermoni riuscisse a chiudere un occhio sulla passione del suo servo per gli alcolici – ma si pentì subito di averlo giudicato. E tuttavia non riusciva proprio a piacerle, anche se era suo... non sapeva esattamente che cosa fosse. Era terzo cugino di suo padre, ma se per lei fosse quarto o terzo cugino, visto che suo padre era morto, o che altro, non lo sapeva proprio. Quello che importava era che quell’uomo era in pratica l’unico parente maschio che le fosse rimasto, l’esecutore testamentario del patrimonio


di suo padre – se un testamento per lo più fatto di debiti poteva a buon diritto essere definito 'patrimonio' - e, per altri tredici mesi, suo tutore. E nemmeno riusciva a definire con chiarezza il legame di parentela con Lewis, il figlio di Soames, che in quel momento era seduto alla scrivania di Lily, intento a scribacchiare qualcosa con una penna. Un sermone? Un nuovo trattato sul comportamento pio e timorato di Dio? Ancora una volta Lily dovette rimbrottarsi da sola: non aveva proprio alcun diritto di prendersi gioco di lui. Soames forse era davvero un ipocrita che fingeva tutto il fervore religioso possibile – non era ancora riuscita a scoprire la verità – ma il figlio era un vero credente adamantino, un uomo di grande devozione. Stranamente, però, non riusciva a farsi piacere neppure lui. Il reverendo sollevò il capo dal giornale. «Ah Lily, la cena è pronta?» «Caro cugino», rispose lei indecisa, incapace di chiamarlo con il nome di battesimo, anche se lui più volte glielo aveva chiesto. «Sono davvero spiacente, ma c’è stato un incidente, in cucina. La cena è completamente bruciata», confessò, spalancando le braccia. I freddi occhi grigi dell’uomo assunsero un’espressione seccata prima di ricomporsi in un sorriso di comprensione. «Non importa, piccola. Entra, vieni, è giunto il momento di fare quattro chiacchiere.» Com’era possibile? Pensò Lily, sul punto di cadere nella disperazione. Ormai erano due giorni che parlavano! Prima, lei non sapeva nemmeno di avere due cugini a Exeter, e tanto meno un tutore. E ora si ritrovava assillata, tormentata, quasi costretta a sposare un uomo per il quale non provava nulla, che non conosceva nemmeno. Era stata forse troppo educata? Quanti modi esistevano al mondo per dire di «no»? Si avvicinò a lui, riluttante, le mani nascoste nelle tasche della vestaglia consunta passandosi nervosamente tra le dita gli scellini che le aveva dato di resto quella mattina l’uomo che le aveva portato il carbone. «Se si tratta ancora di Lewis e me...» Soames si alzò. Era un uomo dalla corporatura robusta e il volto quadrato, le grosse mani quadrate, le spalle quadrate. Il corpo pareva massiccio, come se fosse stato intagliato in un ceppo di legno. No, non intagliato, spaccato con un’accetta o un’ascia. Ma gli abiti che indossava erano chiaramente confezionati da un abile sarto e molto costosi, un’anomalia che secondo Lily la diceva lunga sull’effettiva sincerità del suo impegno verso poveri e derelitti. I capelli color grigio ferro erano ripartiti al centro, arricciati a cavatappo sulle orecchie, raccolti in una coda sulla nuca. Il grosso collo e la mascella massiccia, dalle vene bluastre, gli davano un’aria bovina. Persino i denti erano quadrati. «La timidezza femminile è una qualità veramente lodevole», iniziò con voce tonante, avvolgendola con il tono fluido e imperioso che, immaginava Lily, avesse il potere di far inginocchiare i peccatori, oppure di costringerli a frugare nelle tasche per fare un obolo. «La riservatezza naturale è un tratto del carattere da ammirare e conservare in una giovane donna cristiana. E ti rispetto per questo. Ma la saggezza e l’umiltà sono virtù ancora più grandi, e una giovane anima deve aspirare a esse prima che le porte del paradiso le si schiudano dinanzi. Vieni, mia cara, è tempo di pregare.» Tese verso di lei le mani enormi e ricoperte di peli, chinando il capo. Accidenti! Lily diede un’occhiata di sottecchi a Lewis, che stava alzandosi da dietro la scrivania per


raggiungerli, probabilmente per pregare con loro. La ribellione si insinuò lentamente in lei, come un soldato che si sveglia dal sonno prima di una battaglia impari. Tenne le braccia distese lungo i fianchi. «Cugino Roger, mi spiace ma temo che, del tutto inconsapevolmente – lo giuro – vi ho portato fuori strada. L’onore di cui mi fate segno proponendo un matrimonio tra me e Lewis», e qui si rivolse al cugino più giovane offrendogli un sorriso che sperava affascinante ma al contempo schivo, «non potrà mai divenire realtà!» «Perché?» Soames lo chiese asciutto, irato. Forse che finalmente quella sua bonarietà così seccante lo stesse abbandonando? Avrebbero avuto il coraggio di gettare la maschera delle buone maniere e dire veramente quello che pensavano? «Perché è un matrimonio inadeguato...» «Perché?» Ecco, finalmente ci stavano arrivando. Ma l’educazione era troppo connaturata in lei perché riuscisse a disfarsene così facilmente. «Perché non ne sono degna. Lewis mi è superiore in tutto, ma soprattutto... spiritualmente. Merita una moglie che possa integrare e incoraggiare il suo lato spirituale. Una donna alla sua altezza, una donna che...» «Lily, Lily... Parli dei ‘bisogni’ di Lewis come se sapessi la risposta meglio di Dio stesso. Ma tu, di cos’hai bisogno?» Di soldi, rispose immediatamente, ma senza farsi sentire. Di soldi per poter andare avanti fino ai ventun’anni quando fosse entrata finalmente in possesso della sua minuscola «eredità». Poi, se l’avesse voluto, avrebbe potuto vivere per sempre indipendente anche se più povera, senza dover a tutti i costi sposarsi! «Capisco, non sai cosa rispondere. Ma io so di che cosa hai bisogno.» «Davvero?» Per la prima volta, nella sua voce si insinuò una sottile nota di irriverenza. La percepì immediatamente, ma giurò a se stessa di non ripeterla mai più. Non bruciare tutti i ponti, era stata una delle massime preferite di suo padre, una delle poche a carattere pratico. Se lei avesse permesso alla stanchezza e alla esasperazione di farle perdere l’autocontrollo, allora lo scopo non sarebbe mai stato raggiunto. E lo scopo era di far uscire quegli uomini dalla propria casa, ma con educazione e grazia, tanto da non far loro capire di essere stati mandati via. Voleva che se ne andassero, ma le serviva che lo facessero contenti di farlo. «Quello di cui hai bisogno, Lily, è una guida. Una cosa che hai avuto pochissimo nella tua breve vita, temo. Tuo padre è stato un esempio scioccante. Quando la tua caparbietà mi induce a perdere la pazienza, penso alla vita che hai condotto, e allora la mia. Rabbia svanisce e ti perdono.» Le dita di Lily si serrarono per la rabbia. Asino accondiscendente! E come osava parlare di suo padre in quel modo? «D’ora in poi, voglio essere la tua guida in ogni senso, ma soprattutto in campo spirituale.» Ancora dovette fare uno sforzo tremendo per non perdere il controllo. «Vi ringrazio molto. Siete molto gentile, davvero, e sono certa che alla mia anima possano essere utili qualsiasi guida o aiuto. Ma tornando al fatto che io sposi Lewis, davvero, è semplicemente impossibile. Ci conosciamo a malapena, ci siamo appena


presentati...» «Permettimi di affermare che la mia saggezza in queste questioni è maggiore della tua, mia cara bambina. Ma abbiamo già perso troppo tempo a parlare. Ho un grande gregge di anime da seguire, donne e uomini che dipendono da me per avere una guida morale e spirituale. Dopodomani devo assolutamente tornare a casa.» Cercò di non dare troppo a vedere la sua gioia. «Non vedo alcuna ragione nel voler posticipare ancora il matrimonio. Verrai con noi domani, nella nostra casa di Exeter: dopo tutto, l’affitto di questa casa ti scade fra un mese. Nell’arco di tre settimane potremo far affiggere le pubblicazioni, e quindi potrà aver luogo il matrimonio. A casa mia, e ovviamente sarò io a officiare. Tu e Lewis verrete a vivere con me e mia moglie, per lo meno per i primi tempi, fino a quando non sarai...» «Cugino, vi prego... evidentemente non mi sono spiegata! Non ho accettato di sposare Lewis!» Lo sguardo di arrogante benevolenza si dissolse, ma soltanto per un istante. «Pensaci, Lily», riprese Soames a bassa voce. «Che altro puoi fare? Non hai mezzi sufficienti a mantenerti, e pertanto non hai alternative...» Ipocrita, fariseo, falso... Cercò di riprendersi, stringendo con forza le mani, fissando il pavimento. «Ovviamente avete ragione. Ma speravo che avreste trovato un altro modo per aiutarmi. Le mie necessità sono davvero poche, ho bisogno di pochissimo. E so che siete un uomo davvero generoso. Se poteste farmi un piccolo prestito, nella veste di tutore e scegliendo la formula che maggiormente vi soddisfi, soltanto fino a quando entrerò in possesso della piccola eredità di mio padre...» «Aha!!» Lily sollevò repentinamente lo sguardo e credette di leggere negli occhi di Soames una cinica consapevolezza... come se avesse d’improvviso capito che quella cugina da poco conosciuta non era poi così diversa da lui. Ma anche quell’espressione spari improvvisamente. «Non siamo qui per saggiare la mia generosità», le disse. «Stiamo parlando della volontà del Signore.» Batté le palpebre per nascondere il fastidio. Era troppo scorretto! «Ma sicuramente la volontà del Signore in argomenti simili è un vero e proprio enigma per gli uomini, una cosa ambigua.» «Spesso lo è, ma non in questo caso...» «E perché? Perché?» «Perché ho avuto una visione. Il Signore mi ha donato un’immagine della Sua volontà, e ho visto con grande chiarezza quanto sia saggia e perfetta l’unione tra te e Lewis. Vieni, Lily, preghiamo insieme.» Si tese nuovamente in avanti per afferrarle le mani e gliele allontanò con forza dai fianchi. Pose una delle mani di Lily tra quelle di Lewis e quindi si inginocchiò. Lewis lo imitò immediatamente, e Lily si ritrovò costretta a porsi tra di loro, in ginocchio sul tappeto dinanzi al caminetto. La stretta di Soames attorno alla sua mano bruciata era una tortura, ma quando cercò di liberarsi da essa, l’uomo la strinse ancora di più. «Dio onnipotente, noi ti preghiamo! Abbassa il Tuo sguardo pietoso sulla Tua misera serva, Lily Trehearne, e concedile la saggezza di conoscere la Tua volontà e


l’umiltà di accettarla. Dalle coscienza della tremenda follia del suo orgoglio e del peccato della sua arroganza, e nella Tua misericordia infinita concedile il perdono. Rivela a questa donna, a questa Tua figlia indegna, il prezzo del peccato e il costo dell’egoismo.» E poi seguì un vero fiume di parole, parole su parole, ma Lily si turò le orecchie per non sentirle. Alla fine, l’uomo si interruppe. Lily diede un’altra occhiata a Lewis: il giovane teneva la testa china, gli occhi serrati; come suo padre, dava l’impressione di offrire una preghiera segreta. Che cosa aveva in mente? Si chiese cupamente, esaminando il suo volto privo di espressione, la bocca dura. Era un uomo alto e robusto, come suo padre; la somiglianza tra i due era incredibile, sebbene Lewis portasse i capelli corti come all’epoca li portavano gli operai – un operaio del Signore. Nel brevissimo lasso di tempo della loro conoscenza, le aveva parlato direttamente soltanto in poche occasioni, solo per ribadire le frasi del padre. Capì che anche quel giovane era favorevole a quel matrimonio assurdo, e tuttavia non aveva dimostrato alcun tipo di interesse nei suoi confronti, sia come amica, sia come donna. Perché mai allora i due erano così fissati su quelle nozze? Il padre di Lily le aveva lasciato pochissimo, lo stretto indispensabile per condurre una vita decorosa, e quindi non poteva essere per motivi economici. Possibile che Soames avesse davvero avuto una visione? Supponeva che cose simili fossero possibili, e tuttavia, non sapeva nemmeno lei perché non ci credeva. Iniziava a sentire dei brividi percorrerle la schiena, che le doleva; i muscoli tra le scapole le mandavano fitte brucianti. La grossa mano di Soames si strinse attorno alle sue. Lei trasalì, ma si sforzò di farsi coraggio: ormai stava sicuramente per alzarsi. E invece no. «O mio Signore, che sei la fonte primigenia e la nostra sorgente di forza...» riattaccò, e la litania dei suoi peccati riprese. Di tanto in tanto si fermava, e ogni volta Lily sperava che avesse davvero finito; e invece riprendeva, con un’energia indomita che la demoralizzava sempre di più. Udì la pendola sul caminetto battere due volte, e alla fine non ce la fece più. Era come se le ossa delle ginocchia le si stessero per fratturare. E aveva anche paura di scoppiare a piangere. Alla fine di uno dei tanti silenzi prolungati di Soames, prima che lui potesse pronunciare più di: «Mio Signore, ascol...» Lily si liberò con uno strattone della stretta umidiccia delle mani dei due e si raddrizzò a fatica. «Vi prego, vi scongiuro, è tutto inutile», disse stringendo la mano dolente al seno e lottando contro le lacrime di dolore, frustrazione e imbarazzo. Entrambi la stavano fissando con la stessa aria incredula, e Lily fece faticosamente un altro passo indietro per frapporre più distanza tra sé e loro. «Mi spiace, ma è impossibile. Non posso sposarti, Lewis... Non provo nulla per te e tu non provi nulla per me. Vi prego, cercate di capirmi, non voglio essere irrispettosa nei vostri confronti, e... e certamente non nei confronti di Dio. Ma la visione era vostra, cugino Roger, non mia, e tutte le vostre preghiere non potranno mai farmi cambiare idea.» Si alzarono lentamente, ancora fissandola, e lei si sentì in obbligo di continuare a parlare. «Sicuramente come uomini di Dio voi credete che il matrimonio sia un sacramento, non una cosa da prendere alla leggera. E non siete anche voi d’accordo sul fatto che un uomo e una donna dovrebbero avere quanti più elementi in comune prima di compiere un passo simile? Ma io e Lewis, a parte la stima, che spero reciproca, non...»


«Lewis, esci e lascia me e Lily da soli.» La giovane spalancò gli occhi, e anche Lewis parve sorpreso, ma dopo un attimo di esitazione obbedì chiudendo la porta dietro di sé. Soames la guardò. Lily sentì tutta la forza di quella personalità e cercò di non tremare. Le venne in mente l’immagine di Davide e Golia; di rado le venivano in mente delle metafore religiose, ma quello era proprio il giorno adatto. Osservò espandersi la cassa toracica del cugino e focalizzò l’attenzione sulla spilla d’oro e diamanti fissata tra le pieghe del pizzo del suo cravattone. La stravaganza di quell’oggetto lo faceva apparire più umano, meno simile alla voce vivente della divinità, e lei era ben conscia del fatto di dover per forza di cose affidarsi a quella sensazione per sopravvivere nella battaglia di volontà che stava per aver luogo. Ma quando alla fine parlò, la sua voce era bassa e leggera, come se stesse dilettandosi in una normale conversazione. E la cosa rendeva le sue parole tanto più inquietanti. «Devi sposare Lewis, Lily. È la volontà del Signore. Se ti rifiuti, farò sì che tu te ne penta. Per tutta la vita.» Lily sapeva che cosa fosse una minaccia. «Che cosa farete?» chiese, sforzandosi di tenere le mani immobili anche se aveva la tentazione di portarsele alla gola. «Ti do' un’ultima possibilità. Sposerai mio figlio?» «Vi prego...» «Lo sposerai?» Lily inspirò profondamente e cercò in tutti i modi di riuscire a non distogliere lo sguardo da quello scuro e penetrante dell’uomo. «Non posso», disse a bassa voce. Senza smettere di fissarla, lui mise una mano nella tasca del panciotto. In quel momento, nella mente di Lily si affastellarono mille orrende possibilità prima che l’altro ne estraesse un portafogli piatto di cuoio. Quando lo aprì e ne estrasse tutte le banconote, lei proruppe: «Non prenderò quel denaro, non potete corrompermi». Sorrise freddamente e si volse, chinandosi sulla grata del camino. Smosse i tizzoni ardenti per ravvivarli con un attizzatoio e quindi, mentre lei lo fissava stupita, senza capire, gettò il mucchietto di banconote nel fuoco. Si incendiò immediatamente. «Fermatevi, cosa state...? Il vostro denaro! Reverendo Soames, che cosa avete fatto?» Stupefatta, si avvicinò all’uomo. Le banconote al centro non avevano ancora preso fuoco, e forse avrebbe anche potuto salvarle. Ma lui prontamente le spostò con l’attizzatoio, e si incendiarono in un istante, con una fiammata luminosa. Poi non rimase più nulla, nemmeno il fumo. E l’unica cosa che Lily riuscì a fare, fu quella di fissare l’uomo con la bocca spalancata. «Lewis!» Quasi in quello stesso istante la porta si aprì e comparve la figura massiccia del cugino. «Sì, padre?» «Ha rubato tutto il denaro che avevo con me, più di settanta sterline.» «Accidenti!» Lewis non si mosse, dimostrando la medesima sorpresa che mostrava anche Lily. «Ma... padre, come è possibile? Ne sei sicuro?» «So' che è stata lei. Ho lasciato il mio portafogli sul ripiano sopra il caminetto, questa mattina. E ora è vuoto, guarda. Nessun altro è stato qui, quindi non può essere


stata che lei.» Lily e Lewis iniziarono a parlare contemporaneamente. «Vai!», tuonò Soames, zittendoli entrambi. Lewis uscì immediatamente. È un sogno, anzi un incubo, pensò Lily. Udì la porta d’ingresso aprirsi e richiudersi subito dopo. Non può essere, si disse. Il reverendo nel frattempo si era spostato per mettersi tra lei e la porta. «E ora è venuto il momento di cambiare idea Lily, non trovi? Se lo farai, mi limiterò a dire al poliziotto che mi sono sbagliato.» «Ma non potete fare una cosa del genere!» «Altrimenti gli dirò di metterti in prigione. E lo farà immediatamente, ne sono sicuro, basandosi soltanto sulla mia parola. Dopo il processo, ti dovrai ritenere fortunata se ti rinchiuderanno in prigione, ma è molto più probabile che ti impicchino.» «Possibile che sia questa la volontà di Dio?» urlò Lily, mentre la furia sopraffaceva la sua paura anche se solo per un secondo. «Dovete essere pazzo!» «Certo che è la volontà di Dio. Pentiti, Lily Trehearne. Orgoglio e vanità sono peccati per i quali dovrai giustamente ardere nel fuoco dell’inferno per l’eternità.» Mentre profferiva queste parole, gli occhi ardevano e macchioline di saliva si disperdevano nell’aria. «Pentiti! Inginocchiati e prega per ricevere il perdono di Dio.» Prima che potesse muoversi la afferrò per le spalle e la costrinse di nuovo a inginocchiarsi. Poi, accanto a lei, e tenendole le mani, iniziò nuovamente a pregare. Erano parole di follia, pronunciate con voce convulsa. Lily cercò disperatamente di liberarsi dalla stretta, ma lui non l’avrebbe mai lasciata andare. Senza più connettere, agendo soltanto d’istinto, gli morse il dorso di una delle sue enormi mani. Gli sfuggì una bestemmia irreligiosa e lasciò finalmente la preda, che riuscì ad alzarsi in piedi, ma l’uomo le afferrò una caviglia, la strattonò e la fece così cadere indietro, quasi su di sé. Quando Lily urlò, le tappò la bocca con una mano e lei, ancora una volta, usò i denti per liberarsi. Poi lo spinse lontano con entrambe le mani, facendo leva con tutta se stessa contro il petto dell’uomo. La spinta gli fece perdere l’equilibrio: ricadde di lato con un rumore sordo, e una parte di quel corpo massiccio colpì il caminetto. Lily vide una possibilità di fuga, si alzò barcollando e fece per raggiungere la porta. Si fermò un attimo, voltandosi per vedere se l’uomo la seguiva, sorpresa che così non fosse. Lo vide disteso in modo scomposto sul focolare, immobile e con gli occhi spalancati. La tempia sinistra era segnata da un rivolo di sangue. Urlò. L’impulso di scappare era irresistibile, ma cercò di dominarlo e riattraversò la stanza, costringendosi a chinarsi accanto all’uomo. Fece per toccargli il collo, ma le mani le tremavano talmente che per fermarne una dovette bloccarne il polso con l’altra. Tastò il polso dell’uomo, forte ma irregolare, e il suo cuore riprese a battere. Le gambe di Soames erano ripiegate sotto la schiena, in modo del tutto innaturale. Lily si fece forza e le raddrizzò, sconvolta dalla loro inerzia di piombo. Notò che respirava, anche se il volto era cinereo. Lo scosse leggermente per le spalle. «Cugino! Reverendo Soames!» Nessuna risposta. Si sarebbe ripreso? Sarebbe morto? In entrambi i casi, avrebbero tutti pensato che lei avesse cercato di ucciderlo. Si alzò, stringendosi le braccia attorno al corpo per cercare di controllare il tremito. Che fare? Un poliziotto stava per arrivare da lei. Gli avrebbe detto quello che era


successo, naturalmente. Sicuramente non avrebbe mai creduto che avesse cercato di uccidere il cugino. O no? Se solo avesse avuto amici o parenti, persone che la conoscessero e potessero parlare in suo favore! Asciugò le lacrime che avevano iniziato a rigarle le guance. «Oh, mio Dio», disse con voce rotta dall’ansia, sentendo il panico crescere dentro. Si richinò sul corpo del cugino. «Vi prego, vi prego, vi prego...» Quattro colpi violenti alla porta d’ingresso la fecero alzare di colpo. «Aprite!» tuonò una voce maschile, forte e imperiosa. Non sarebbero mai potuti entrare se non avesse aperto loro la porta, che era chiusa a chiave dall’interno. Uscì lentamente dalla stanza, tenendo sempre gli occhi fissi su Soames, come se persino in quel momento egli potesse balzare in piedi e afferrarla. Nell’anticamera buia si fermò, ascoltando i colpi alla porta che si facevano più forti, più imperiosi. Si immaginò gli uomini in divisa dietro la porta e si bloccò immediatamente, raggelata. «Polizia! Aprite subito questa porta, in nome della legge!» Lily si volse, sollevò la lunga gonna, e iniziò a correre. D’un solo balzo scese i gradini fino al piano terra, attraversò la cucina e raggiunse l’ingresso di servizio, udendo il ticchettio delle scarpe sulle pietre del lastricato. Fuori, attraversò il minuscolo giardino fino alla strada. La frangia dello scialle si impigliò nel cardine del cancello, e dovette fermarsi e liberarla, trattenendo un grido d’impotenza. Un gruppetto di bimbi smise di giocare per fissarla mentre sfrecciava dinanzi a loro. «Miss Trehearne...» disse un piccolo dai capelli neri, che non aveva mai veduto quella graziosa vicina senza un sorriso sulle labbra. Ma questa volta Lily non si fermò, non si voltò. Quando fu sicura di non essere più vista, iniziò a correre. L’intrico buio di viuzze vicino al porto le era del tutto sconosciuto, e si perse nell’arco di pochi minuti. I cani le abbaiavano e ringhiavano contro, inseguendola per farla uscire dal loro territorio. Gli uomini la fissavano, e lei proseguì la sua folle corsa con il capo chino. Alla fine si ritrovò in una via ampia e trafficata che riconobbe. Il sole pomeridiano le ferì gli occhi. Sollevò lo scialle per coprirsi i capelli e riprese il cammino, allontanandosi dall’acqua, guardando fisso dinanzi a sé e cercando di darsi un contegno, come se avesse una meta molto importante da raggiungere. Ma dentro di lei il cuore batteva all’impazzata, quasi assordandola. Vide in fondo alla via una grande carrozza, dinanzi a una locanda. Quando la raggiunse, comprese che si trattava della carrozza di posta. Il conducente, un uomo dai capelli bianchi, gettò l’ultimo sacco sul tetto della vettura e sbatté lo stivale contro il paraurti di legno. «Aspettate!» L’uomo si fermò e si voltò a guardarla. «Avete ancora posto per una persona?» «Sì, se non avete bagaglio.» «No, nessun bagaglio.» Improvvisamente si sentì raggelare. Era anche senza soldi! Ma poi si ricordò improvvisamente e si mise una mano in tasca. «Ho tre scellini e mezzo. Fino a dove potete portarmi?» L’altro si grattò per un attimo la barba, rimanendo perplesso. «Tre e mezzo? Direi fino a Bridgwater.»


«Bridgwater? È nel Somerset?» «Sì...» L’uomo scoppiò in una breve risata sorpresa. «È a circa metà strada tra qui e Bristol, dove sono diretto.» Non esitò un altro istante. «Bene, andrò a Bridgwater.» Dandogli le monete, fece un passo indietro, così che l’uomo potesse aprire la porta della carrozza. Fece scendere la scaletta, l’aiutò a salire i gradini sorreggendola per il gomito, e richiuse la porta dietro di lei. Nell’oscurità Lily ebbe l’impressione che alcuni uomini si spostassero per farle posto. Si ritrovò seduta vicino al finestrino, si sistemò le gonne e fissò l’edificio di mattoni dinanzi a sé. La carrozza sussultò e si mise in marcia. «Gradite una tazza di tè e un biscotto, mia cara, mentre attendete?» Lily finse si pensarci per un attimo. «Oh... no grazie, penso di no. Grazie molte. Ho pranzato all’incirca un’ora fa.» Mrs Bickle, proprietaria della locanda White Cow, le fece un cenno con il capo e un sorriso, poi si allontanò tutta indaffarata per servire gli altri clienti. Lily si appoggiò contro lo schienale della panca. Aveva mangiato soltanto un pezzo di pane e burro quella mattina, null’altro e, se non avesse stretto le braccia attorno allo stomaco, Mrs Bickle lo avrebbe sentito gorgogliare. Perché non si era tenuta qualcosa dei soldi che aveva, invece di dare tutto al cocchiere? Almeno qualche scellino... Tanto, ormai, era troppo tardi. Uno degli uomini seduti in carrozza con lei la stava fissando, con insistenza, da almeno un’ora; aveva sperato che la breve sosta a Chard lo avrebbe distratto, ma evidentemente non era stato così. Si volse leggermente per guardare fuori dalla finestra, distogliendosi così da quello sguardo rapito e furtivo, proprio nel momento in cui un’altra carrozza entrava fragorosamente nel cortile della locanda. Poiché non aveva nient’altro da fare, osservò i passeggeri scendere dal veicolo. Solamente dopo che furono tutti giù, le venne in mente che uno, o più, di loro avrebbe anche potuto essere sulle sue tracce. Si sentì pervadere da un brivido di paura, che le fece venire la pelle d’oca, e le mani sudate. Ma era così palese che i cinque passeggeri che entrarono nel locale non fossero uomini della legge – anzi, uno o due parevano esattamente l’opposto – che lei si rilassò. Presero posto accanto agli altri, e Mrs Bickle chiamò un giovane cameriere affinché l’aiutasse a servire i nuovi arrivati. Due di questi, una donna e un giovane, si sedettero a un tavolino vicino alla panca di Lily. Lei si mise a osservarli, colpita dalla durezza che traspariva dai loro volti così simili. Madre e figlio? Zia e nipote? Qualsiasi fosse il grado di parentela che li univa, davano l’impressione che non fosse mai accaduto loro nulla di buono. O che, in caso contrario, non l’avrebbero mai ammesso. Erano ben vestiti, puliti e in ordine: la povertà non era certamente la causa del loro malumore. I suoi pensieri vennero interrotti da Mrs Bickle, che si era avvicinata al loro tavolo. «Volete un po’ di te, vero signori? Poveri cari, avete ancora minimo una mezza giornata di viaggio prima di raggiungere Penzance...» Lily ammirava molto la professionalità della donna: quella coppia dai lineamenti tirati era sicuramente tutto tranne che «poveri cari»; sicuramente i meno «poveri cari» che avesse mai incontrato. La donna era robusta, con spalle ampie e praticamente senza collo. Due strisce completamente bianche nei capelli scuri partivano dalle


tempie e disegnavano due bande sino allo chignon grosso e rigido, tanto da apparire a Lily simile a una moffetta, o un serpente. Persino la cordialità di Mrs Bickle non riuscì a strapparle nemmeno un sorriso. «Noi non andiamo a Penzance», ribatté. «Siamo diretti a Trewyth e vi giungeremo per mezzanotte. Ora desidereremmo avere panini dolci e tè, non biscotti, e fate attenzione che siano caldi, altrimenti non vi darò un soldo.» Il giovane, vera e propria replica massiccia della donna, con gli occhi neri, guardò in direzione di Lily, e lei si affrettò a guardare altrove, fingendo di non avere origliato. Fu vagamente confortante rendersi conto di non aver sbagliato nel giudicarli: erano proprio sgradevoli quanto se li era immaginati. Appoggiò il capo all’alto schienale della panca, cercando di pensare al da farsi. Non aveva mai sentito parlare di Bridgwater, che sarebbe stata la sua destinazione di lì a poche ore. Era ormai senza un soldo, e con ogni probabilità era ricercata, almeno per furto, se non per aggressione, e forse anche per omicidio. Non aveva famiglia, non aveva amici – l’esistenza da vagabonda che aveva condotto con suo padre negli ultimi dieci anni non le aveva consentito di stringere legami duraturi. Mrs Troublefield era la cosa più simile a un’amica che avesse, ma un’ora prima Lily aveva lasciato Lyme Regis e quindi anche la sua gentile vicina di casa. Continuava a chiedersi se avesse fatto bene a fare quello che aveva fatto. Se fosse rimasta, forse avrebbero anche potuto crederle. Era una donna rispettabile, e non aveva mai avuto problemi con la giustizia. Suo padre si era invece talvolta fatto conoscere dai tutori della legge per infrazioni minori, ma sicuramente non sarebbe stata un’accusa a suo carico. Ormai, tuttavia, era troppo tardi. La decisione di fuggire la metteva automaticamente dalla parte del torto, e ormai l’unica cosa da farsi era cercare di sfruttare al meglio la situazione. Ma come? Come avrebbe fatto a... Improvvisamente, interruppe quella catena di pensieri. Tenne gli occhi fissi nel vuoto, fingendo di osservare qualcosa, ma in realtà ascoltando la parte finale di una conversazione che aveva attirato la sua attenzione. «...mi spiace di non avere, al momento, nessuno da proporvi», stava dicendo Mrs Bickle. «Ma perché volete trovare domestici così lontano dalla vostra casa? Non vi sono ragazze adatte vicino a voi? Se la casa del vostro padrone è in Cornovaglia, perché non cercate...» «Perché la proprietà è isolata, ed è difficile trovare una ragazza che non sia la solita contadinotta che si ferma soltanto per un mese o due. Il mio padrone è un tipo esigente, e non vuole avere a che fare con sciattone. Era solo un’idea», disse la donna con fare acido, «anche se sapevo che non avrei potuto aspettarmi che voi conosceste la persona giusta.» Alla fine Mrs Bickle smise di sorridere, e il suo inchino risultò solo un lieve piegar di ginocchia prima di voltarsi e lasciare la stanza. Era appena uscita quando Lily la seguì e la raggiunse. Trovò la donna nel salottino privato della locanda, mentre versava del tè a un uomo anziano intento a leggere il giornale dinanzi al camino. Quando vide Lily, il sorriso le fiorì nuovamente sulle labbra. «Il bagno è dietro la casa, cara, proprio al di là del...» «Mrs Bickle, debbo chiedervi un favore. Non ho denaro, né ne avrò nel giro di pochi giorni, così non fingerò di essere sul punto di chiedervi solo un prestito. Vorrei


scrivere una lettera. Ed è piuttosto... piuttosto urgente. Non ho bisogno di francobolli, ma solo di penna e inchiostro, e forse di una busta se...» «Volete soltanto un foglio di carta e una penna?» «Io... sì.» «Oh mio Dio!» esclamò la donna con aria evidentemente sollevata. «Venite qui, mia cara», disse raggiungendo una scrivania posta nell’angolo del salotto. «Riuscite a vedere qui al buio? Posso accendere una candela, se volete.» «No, va benissimo così. Grazie molte, non so come...» «Sciocchezze, prendetevi le cose e il tempo necessari.» Diede due leggeri colpetti sul braccio di Lily e uscì. La giovane si sedette. La carta era semplice, ma di qualità sorprendentemente buona, una fortuna davvero insperata. Scelse la penna dall’aspetto più nuovo e la intinse nel calamaio posto sulla scrivania. Dopo breve riflessione, iniziò a scrivere. «Lily Tr...» si fermò immediatamente, sorpresa dalla sciocchezza che stava per fare. Come si sarebbe chiamata, allora? T-r e poi? Un lieve sorriso le increspò le labbra mentre posava di nuovo la punta della penna sulla carta. «Lily Troublefield è stata al mio servizio per un anno e mezzo. In tutto questo periodo si è rivelata una giovane obbediente, onesta, capace, rivestendo il ruolo di donna tuttofare nella mia casa. Lascia l’impiego perché – si fermò ancora un istante battendo pensosa la penna sulle labbra – perché sto per partire per un viaggio lungo almeno un anno nel Continente Europeo e Lily non vuole lavorare lontano da casa per un periodo così lungo. Ha un buon carattere ed è di natura allegra; è molto diligente nel lavoro e di intelligenza fuori dal comune, per una ragazza della sua estrazione sociale. La raccomando in tutto e per tutto.» Aveva forse esagerato? Probabilmente, ma non poteva fare a meno di dirsi che quel «di intelligenza fuori dal comune» le piaceva molto. Con un ghirigoro molto elegante, firmò la lettera: Lady Estelle Clairton-Davies, Marchesa di Frome. Esisteva veramente quella donna – possedeva una casa di campagna fuori Lyme, e una volta Lily aveva veduto una grande carrozza con quattro cavalli dinanzi alla vetrina di un gioielliere, in città. Ma si era abilmente liberata della gentildonna spedendola in Europa, così che la possibilità che qualcuno le scrivesse per verificare la veridicità delle referenze era minima, un rischio, quindi, che valeva la pena di correre. Sparse un poco di sabbia sulla carta, attese un momento e quindi la soffiò via, ripiegò la lettera e la infilò nella busta. Poi, notando che appariva troppo nuova, troppo pulita, si passò più volte la busta tra le dita per alcuni secondi, la ripiegò a metà, la riaprì, quindi la ripiegò di nuovo. Ecco, ora andava meglio. Se la infilò in tasca e si alzò. Che aspetto aveva? Il suo abito di cotone blu scuro era abbastanza trasandato, ma nonostante tutto troppo bello per appartenere a un’umile donna tuttofare? Forse sì, o forse no, se si pensava che lei, dopo tutto, era stata al servizio della marchesa di Frome. In ogni caso, non avendo altro da indossare, era veramente una questione di poco conto. E poi, c’erano altri modi per convincere la signora dal volto arcigno del fatto che lei fosse davvero una cameriera. Raddrizzò le spalle, prese coraggio e si diresse verso la parte pubblica del locale. Non c’era più! Lui la cercò disperatamente con lo sguardo. Quella donna non c’era più!


«Avete scritto la lettera, mia cara?» «La signora con il mantello nero, quella che è arrivata qui con la carrozza successiva alla nostra, c’era un uomo con lei, più giovane...» «Sono usciti, cara. La carrozza per Penzance sta per partire. Puoi raggiungerla se...» Si interruppe quando Lily si girò di colpo e schizzò verso la porta. A metà strada, la giovane si ricordò di fermarsi e gridò, volgendosi un poco: «Grazie della carta. Arrivederci!» La donna, esterrefatta, sollevò una mano in segno di saluto, ma Lily era già scomparsa. Il giovane stava già aiutando la donna a salire in carrozza. «Oh, signora... signora! Mi scusi!» urlò, attraversando di corsa il cortile sporco. Li raggiunse, senza fiato. Gli sguardi ostili che le lanciarono ebbero l’effetto di indebolire la sua sicurezza. Inspirò profondamente e continuò. «Ci chiedo perdono, signora, ma per caso ho ascoltato quello che c’avete detto a quella donna pochi minuti fa, e mi sono chiesta se potevo andar bene come cameriera, ecco. C’ho un bellissimo carattere, come mi ha detto la mia vecchia signora, me l’ha detto lei, sì, e sono pulita e ordinata per natura e lavorerò molto per voi. Non volete farmi provare?» Sì, si disse, era una lingua abbastanza sgrammaticata da poter sembrare quella di una cameriera. O almeno così sperava. Senza attendere la risposta della donna, estrasse la lettera e gliela mise in mano, con un grande sorriso colmo di rispetto. La donna si limitò a rispondere con uno sguardo sospettoso, ma Lily si disse che evidentemente si trattava della sua espressione naturale, che non ce l’aveva con lei. Non ancora... Scrollò una spalla, con fare irritato, e aprì la lettera. Lily attese, sperando ardentemente che l’inchiostro si fosse asciugato. Si arrischiò anche a osservare il giovane. Dovevano essere evidentemente madre e figlio; la somiglianza era troppo forte per dimostrare un altro grado di parentela. Ma stava sorridendo, cosa che sua madre non aveva mai fatto. Non era un bel sorriso. La madre finì di leggere e sollevò lo sguardo. Aveva piccoli occhi neri, leggermente sporgenti, ora socchiusi in due minuscole fessure che dimostravano tutto il suo scetticismo. Lily parlò velocemente. «È una buona lettera, vero? Sapete, non sono granché a leggere...» proseguì con un risolino imbarazzato. «Ma la mia vecchia signora mi diceva che anche quel poco mi servirà in futuro.» Forse stava esagerando nell’ostentare la propria ignoranza, si disse con un fremito. In ogni caso, ormai aveva iniziato a parlare con quel tono, e avrebbe dovuto proseguire così, per non insospettire ulteriormente la donna. «Se è tutto vero, può andare.» «O signora, ma certo che è vero, per Dio, e Gesù mi è testimone che...» disse spalancando gli occhi per protestare la propria innocenza. «Stai zitta un attimo! Quante volte hai intenzione di sbattermi in faccia il nome di Dio? Ma come osi?» L’espressione della donna si fece ancora più torva, e sbatté più volte le palpebre per dimostrare tutta la sua indignazione. «Se entrerai al mio servizio, questo tipo di linguaggio non sarà tollerato. Che tipo di casa era, questa della grande dama di Frome? Una casa senza Dio, mi sembra, se questo è il


risultato.» «Oh no, signora, ma cosa pensate! Sono una brava ragazza, veramente, solo che qualche volta la lingua mi tradisce. A causa del mio povero padre... Era proprio un bravo diavolo, di cuore, ma bestemmiava sempre. Così, quando sono preoccupata, mi ci escono fuori anche le brutte parole, proprio le stesse che io gli dicevo di non dire.» «Allora sei preoccupata... Di cosa?» «Io...» Cercò di pensare il più rapidamente possibile. «Non preoccupata... come voi dite, ma più che altro ansiosa. Mi sono fermata ad Axminster per andare a trovare una mia vecchia amica, Fanny, che lavora come serva per la moglie del pastore, e mentre giravamo per il mercato, in città, mi ci hanno rubato il portafoglio! Così le mie vacanze si sono tanto accorciate, potete capirmi, e mi ci hanno costretta a trovare subito un altro lavoro, prima di quando pensavo. E ora, prenderete in considerazione di assumermi?» Il grasso cocchiere si avvicinò loro guardandole con rabbia mal celata: «Dovreste salire subito, signore, perché non posso più attendere». Lily guardò con sguardo supplichevole quella sua probabile futura datrice di lavoro, ma non era certamente tipo da farsi intenerire da uno sguardo di supplica, né tanto meno da farsi metter fretta da un cocchiere qualsiasi. «Se ti darò un lavoro, dovrai iniziare dal retrocucina. Sono tre scellini al mese, e devi acquistare tu cuffia e grembiuli. Lavorerai molto e avrai libera solamente la domenica mattina, per andare in chiesa, non a messa – oltre a un pomeriggio al mese. Sono Mrs Howe, governante di un visconte; Devon Darkwell è il suo nome, Lord Sandown. Questo è il tuo solo vestito?» «Sì, signora...» «Andrà bene, per ora. Puoi pagare la corsa fino a Trewyth?» «No, signora.» «Allora ti verrà trattenuta dallo stipendio.» Batté un angolo della busta contro la V formata dal pollice e dall’indice e guardò con sguardo penetrante la giovane. «Però, non mi sembri molto robusta.» «Oh sì che lo sono. Da non credere...» «E se ti sentirò ancora pronunciare una bestemmia o una parola sacrilega, ti darò una bella punizione prima di rimandarti indietro.» «Prometto che non...» «Allora entra, svelta. Stai facendo aspettare tutti i passeggeri.»


Capitolo secondo Nonostante preoccupazione e nervosismo, per non parlare della incertezza, rappresentata dal suo futuro, Lily riuscì lo stesso a dormire, anche se a tratti, per gran parte del viaggio sino in Cornovaglia. La stanchezza aveva il sopravvento sull’angoscia; e il sonno – scoprì – serviva a un duplice scopo: le permetteva di astenersi per un po’ dal parlare quell’orrendo linguaggio sgrammaticato – che idea stupida aveva avuto! - e le dava una tregua rispetto ai lunghi silenzi snervanti degli Howe, madre e figlio, come aveva a suo tempo correttamente ipotizzato. All’inizio del viaggio aveva cercato di sapere qualcosa sulla sua nuova sistemazione, ma con scarso successo. La loro destinazione, aveva scoperto, era un luogo di nome Darkstone Manor, e Mrs Howe parlava solo per brevi accenni del «padrone» o di «sua signoria», ma, oltre a queste, Lily non ebbe altre informazioni sul suo nuovo datore di lavoro. Il profumo del mare diventava sempre più forte, e tuttavia non aveva ancora idea di dove si trovassero o persino verso quale costa della Cornovaglia fossero diretti, se verso la Manica o l’Atlantico. Fu solo dopo mezzanotte, e la luna era già alta, che raggiunsero Trewyth; tutto ciò che Lily riuscì a notare del villaggio avvolto nel silenzio furono le minuscole dimensioni e la pulizia. Scese dalla carrozza pubblica, le membra stanche per la fatica e l’inattività, e attese, tremando un poco nel freddo umido della notte, mentre il conducente prendeva i bagagli dal tetto. Notò che avevano con sé una grande quantità di colli, considerando anche che erano rimasti via da casa solamente tre giorni, durante i quali Mrs Howe aveva fatto visita alla sorella, a Bruton. Lily udì il suono degli zoccoli, si volse e vide un’altra carrozza, una bella carrozza nera che necessitava di un buon lavaggio, e che si dirigeva verso di loro lungo la strada non lastricata. La carrozza di Lord Sandown, pensò, inviata per proseguire il viaggio fino alla casa padronale. Si sentiva stanca al di là di ogni dire. Mentre saliva in carrozza, si chiese quanto sarebbe ancora durato il viaggio, e se avrebbe avuto la forza di percorrere un altro miglio prima di crollare. Per fortuna, poco dopo la nuova vettura passò attraverso gli alti cancelli che delimitavano un parco fitto di alberi e percorse lentamente un tortuoso viottolo di ghiaia. Dimenticò la stanchezza e guardò con curiosità fuori dal finestrino, ma c’era ben poco da vedere a eccezione delle ombre nere degli alberi che passavano quasi rasente alla vettura, su entrambi i lati. L’odore salmastro del mare ora era più forte di prima, e dominava il silenzio assoluto di quella notte senza vento. Le parve di scorgere una luce dinanzi a sé, ma la strada curvò improvvisamente e tutto ripiombò nell’oscurità. «Ci sarà posto per te nella camera da letto di Lowdy Rostarn, in soffitta», disse improvvisamente Mrs Howe. «Ora vai subito a dormire, senza parlare con alcuno. Siamo intesi?» «Sì, signora», rispose subito Lily. Non era abituata a prendere ordini e non aveva risposto abbastanza velocemente. Mrs Howe aveva già posato la mano grassoccia sulla maniglia della porta. Dopo un solo minuto, la carrozza si fermò e lei spalancò la porta, abbassò la scaletta e scese, senza attendere alcun aiuto.


«Dopo di te», disse il figlio, il cui nome era Trayer, e nonostante l’oscurità Lily gli scorse sulle labbra un ghigno insolente. Scese e si ritrovò nel semicerchio di ghiaia dinanzi alla sagoma scura e opprimente di una casa enorme. Tre piani e mezzo di granito di Cornovaglia pesavano su di lei, come un falco scuro, dalle ali spiegate, ottenebrando la luce delle stelle nel cielo del sud. Darkstone, cioè pietra scura... sussurrò quel nome, rimanendo immota dinanzi alla sua austera immensità. Probabilmente c’erano delle torri ai lati, ma nell’oscurità non ne era sicura. Le vennero le vertigini guardando verso l’invisibile demarcazione tra tetto e cielo notturno. Da qualche parte, da ogni parte, il rumore dell’acqua che si frangeva sulla scogliera era continuo, sibilante. Mentre osservava i dintorni, le falesie immerse nel buio che formavano una sorta di muro le diedero l’impressione di estendersi ed espandersi fino ai margini estremi del suo raggio visivo, come per circondarla. Sarà la stanchezza, si disse, stringendo attorno a sé lo scialle sottile. Nonostante tutto, l’impressione era quella. La luce delle candele oscillava sui gradini di pietra consunta che conducevano all’entrata, dominata da una porta di quercia con i cardini di ferro e un enorme anello come maniglia. Gli Howe erano di nuovo intenti a controllare il bagaglio. Senza riflettere, e attratta dalla luce, Lily si diresse verso quella porta. Aveva appena posato il piede sul primo gradino quando udì uno scricchiolio di ghiaia dietro di sé. Mrs Howe la prese per il gomito e la fece voltare. «Stupida ignorante! Piccola insolente! Ma dove pensi di andare?» «Oh... dimenticavo, non pensavo...» «Dimenticava!» Per un secondo, Lily pensò che la donna la volesse picchiare. Ma con uno sforzo possente questa riuscì a dominarsi e a indicare l’estremità orientale della casa. «Le scale dei domestici sono da quella parte, dietro a quell’angolo. Forse la tua gran signora di Lyme lasciava che i servi utilizzassero l’ingresso principale, ma qui non si usa proprio così. Faresti meglio ad apprendere velocemente qual è il tuo posto, Lily Troublefield, o te ne farò pentire.» «Sì, signora, chiedo scusa.» Fece la voce contrita, ma dentro di sé ardeva d’indignazione. Con la testa chinata, lasciando Trayer e il cocchiere intenti a occuparsi del bagaglio, seguì Mrs Howe lungo il viottolo che, girando intorno alla casa, portava a un piccolo cortile e quindi a dei gradini di pietra. La governante aprì la porta ed entrò veloce. Lily, invece, andava più lentamente, cercando nell’oscurità la via giusta. Si ritrovò in un corridoio, in fondo al quale brillava una luce fioca, verso cui anche la governante si dirigeva con passo pesante. La luce si rivelò provenire dalla cucina, una stanza enorme e rumorosa la cui parete di fondo era interamente occupata dal più grande focolare in mattoni che Lily avesse mai visto. «Dorcas!» Una ragazzina, una bambina pallida e magra che non doveva avere più di dodici o tredici anni, si svegliò di colpo, sussultando su uno sgabello posto vicino al camino. «Ooh, signora, siete tornata... non dormivo mica!» sbottò tutta d’un fiato, nervosamente, alzandosi dallo sgabello. «Hai lasciato che la lampada si estinguesse, vero? Ragazza ignorante! Nient’altro che una candela ad accoglierci, e ti avevo detto a che ora saremmo tornati. Vai di sopra. Faremo i conti domani mattina.»


Dorcas mormorò: «Sissignora», assumendo un’aria terrorizzata. Era una ragazzina piccola, dai capelli spenti e la carnagione grigiastra, con una piaga su un labbro. Uscendo dalla cucina, si limitò a gettare a Lily uno sguardo rapido colmo di curiosità. «Aiuterai Dorcas nelle faccende domestiche, domattina», disse Mrs Howe, indicando con le spalle massicce una porta che conduceva al retrocucina immerso nell’oscurità. «Pulirai quella grata e accenderai il fuoco prima che Mrs Belt ritorni... è la cuoca. Inizia a preparare la colazione alle cinque. Ora su, di corsa a letto.» Prese Lily per un gomito e la rispinse nel corridoio buio. «Le scale della servitù sono in fondo, sempre dritto. La camera di Lowdy è in soffitta, la prima porta a sinistra. Ora vai.» Lily aveva già percorso metà corridoio quando Mrs Howe le urlò: «E ricordati di farti dare una cuffia per i capelli, domani mattina, altrimenti te li taglierò con le mie mani!» Procedendo a tentoni nell’oscurità sempre più fonda, Lily dovette lottare per ricacciare indietro le lacrime. Mormorò: «Dannazione», mentre il gomito urtava il rivestimento a pannelli di legno con un rumore sordo. Trovò poi i gradini inciampando nel primo, e rimettendosi in piedi prima di andare a sbattere contro il quarto. 'Dannazione', disse nuovamente, aggrappandosi al muro, poi si fermò, bloccata da un rumore che proveniva da sopra. Una voce? Sì, forte e irata, la voce di un uomo... e poi un tonfo terribile, attutito. Salì l’ultima rampa di scale che portava al pianerottolo e rimase immobile, osservando tutta la lunghezza di un vastissimo locale dall’alto soffitto. Scorse una porta all’estremità opposta, di grandi dimensioni e di foggia imponente, e immaginò si trattasse del portone d’ingresso che Mrs Howe le aveva proibito di utilizzare. Un altro locale lo intersecava, giusto a metà strada dalla porta; le voci, che ora riconobbe essere due – una infuriata, l’altra pacata. - provenivano da destra. Vide inoltre due ombre allungate dalla luce intermittente delle candele poste in un candelabro sulla parete, e stava per ritrarsi verso la scala buia dietro di lei, quando udì di nuovo la prima voce, quella infuriata. Le parole erano confuse, incomprensibili, ma dietro quella rabbia Lily percepì la presenza chiara, straziante di una angoscia selvaggia. La crudezza di quel suono la colpì nel più profondo, era come se non si potesse muovere. Appiattendosi con la schiena alla parete, trattenne il respiro e attese. «Mio Dio, Cobb, se l’è preso lei. Perché? Perché se l’è preso?» Devon Darkwell, Visconte di Sandown, proprietario di Darkstone Manor, si liberò dalla stretta dell’amministratore e si diresse con passo malfermo, da ubriaco, verso la luce dell’entrata. Ondeggiando, si fermò sotto il grosso candelabro non acceso e bevve quattro sorsate di brandy da una caraffa di cristallo che teneva in mano. Brandy francese, visto che suo fratello contrabbandava solamente i prodotti migliori. Questo, poi, scendeva nello stomaco liscio e morbido come seta. Ma, quella notte, le cose non stavano andando per il verso giusto. Aveva cominciato a bere nel primo pomeriggio e non era ancora ubriaco. O non ubriaco abbastanza. Arthur Cobb allungò il braccio sano verso il visconte – l’altro terminava infatti in un moncherino completamente privo di mano – e mormorò: «Venite qui, va tutto bene, non è giusto che andiate in giro in questo stato. Vado a prendere...» Devon si allontanò, irritato, e quindi fissò con perplessità sanguinaria la pistola d’argento che giaceva nella palma della sua mano. Non riusciva a ricordare quando


l’aveva presa dal cassetto della sua scrivania. La visione di quell’oggetto, in ogni caso, gli fece tornare alla mente i suoi progetti perversi. «Vorrei tanto che non fosse morta», disse con voce roca, lo sguardo vacuo. «Almeno, se non fosse morta, potrei ucciderla io stesso.» Cobb si irrigidì e cercò ancora una volta di prendere la pistola. Ma Devon strinse con più forza la mano attorno all’arma, mostrando i denti, ormai preda del caos di amarezza e violenza che regnava in lui, quando un suono, un lieve respiro, distrasse la sua attenzione. Si volse di colpo, guardando verso l’oscurità, e vide i contorni pallidi di un volto allontanarsi. «Fermati!» Il volto si fermò per un attimo, per poi riprendere a indietreggiare. «Fermati, ho detto!» Il visconte fece tre passi malfermi verso di lei. Era una donna? «Tu, laggiù, vieni avanti», le ordinò. Passò un istante che parve un’eternità. Poi la figura si avvicinò, e la paura e la totale voglia di non ubbidire a quell’ordine erano evidenti a ogni passo. Vide che si trattava di una donna, una ragazza coi capelli scuri e gli occhi chiari. Non l’aveva mai vista prima. Lily si fermò di nuovo, e qualcosa fece capire chiaramente a Devon che non avrebbe fatto un altro passo. Mise in tasca la rivoltella e si avvicinò a lei, afferrando una candela dal candelabro a parete. «Chi sei?» chiese quando la raggiunse. Tenne la candela in alto e la osservò con attenzione. Lily strinse le mani con forza, sopprimendo l’impulso di sollevarle a mo’ di scudo tra sé e quel gigante che la stava fissando, che puzzava di alcool e che pareva capace di tutto. I capelli lisci e castani gli scendevano fino al colletto, selvaggi e scomposti; la giubba era spiegazzata, il cravattone bianco era slacciato e macchiato di vino. Quel volto le parve pericoloso, e l’espressione negli occhi azzurri, spenti, la spaventò. Si fece coraggio e disse a voce bassa: «Mi chiamo Lily», attendendo quello che sarebbe accaduto poi. Lo sguardo di Devon si fece più attento. La giovane era alta e snella nel suo abito scuro. Il volto, pallido e gentile. Gli occhi verdi, o forse grigi. La bocca appariva morbida, una bocca gentile e indulgente. Non riusciva però a capire di che colore fossero i capelli. Mentre la guardava, un poco della furia che aveva dentro di sé si placò, dinanzi alla fermezza di quello sguardo. «Ah, sì?» chiese, e si stupì nel notare che il tono della sua voce pareva avere finalmente ritrovato un poco di calma. Voleva toccarla, scoprire se la sua guancia pallida fosse morbida come sembrava. Lily. Ma aveva una bottiglia in una mano, una candela nell’altra. «Cosa ci fai in casa mia, Lily?» Avrebbe potuto rispondergli tutto quello che voleva, si disse, non importavano le parole: voleva solo risentire la sua voce. Lily da parte sua notò con sorpresa di non essere spaventata. Ora, sul volto dell’uomo, non vi era più rabbia; solo dolore, e una bizzarra gentilezza. «Sono la vostra nuova cameriera, signore», spiegò a bassa voce. Poi, esterrefatta, vide l’espressione del volto di lui cambiare di nuovo, lentamente, divenendo di puro disprezzo. Devon fece un passo indietro. «Ma certo», disse, atteggiando le labbra a un sorriso sgradevole. Fece cadere la candela per terra e si mise una mano in tasca. Il sussulto spaventato della ragazza gli diede solo piacere. Dietro di lui, Cobb mormorò qualcosa, ma si interruppe quando Devon si volse sollevando la pistola con entrambe


le mani. Socchiudendo gli occhi, premette il grilletto e fece fuoco. Il grande candelabro di cristallo della stanza cadde come un masso e si infranse sul pavimento di legno con un rumore assordante. Lily urlò, allontanandosi da schegge di cristallo che volavano ovunque. Il padrone si volse nuovamente verso di lei, e Lily vide quel volto cupo e sconvolto e non poté fare a meno di ritrarsi. Fece un passo verso di lei, e in quello stesso momento l’uomo con la barba nera che rispondeva al nome di Cobb gli tolse la pistola dalle mani. Devon ringhiò, e Cobb si preparò a difendersi. Ma invece di attaccare, Devon si appoggiò nuovamente alla parete, battendovi le spalle con un rumore sordo e imprecando a bassa voce, con tono privo di emozioni. La mano tremava quando si portò la caraffa del brandy alle labbra. Cobb si voltò verso Lily. «Vai in camera, ragazza», consigliò a bassa voce. «Perché?» Devon si ripulì la bocca con la manica della camicia e la fissò con sguardo sardonico. «Lei non è forse una maledetta cameriera E allora che pulisca questa roba...» Le ginocchia di Lily non smettevano per un momento di tremare. Guardò prima un uomo e poi l’altro, confusa, non riuscendo a capire se il padrone parlasse seriamente oppure no. «Vai, su», ripeté Cobb. «Dov’è la tua stanza?» «Io... dovrei dormire con una persona che si chiama Lowdy.» «Allora devi andate su. Non dire nulla di tutto questo a Lowdy o a chiunque altro, mi hai capito? Tienti tutto per te.» «Sì, va bene», promise. Ma notò un’espressione di scetticismo negli occhi scuri dell’uomo. Lanciò un’ultima occhiata a Devon Darkwell, che nel frattempo era scivolato sul pavimento. Gli avambracci gli pendevano senza vita tra le ginocchia, mentre la caraffa vuota gli ciondolava tra le- mani. Teneva lo sguardo fisso sul nulla, il capo contro il muro, e nei suoi occhi cupi non vi era altro che il vuoto. Lily sollevò leggermente le gonne e corse via. «Il mio vero nome è Loveday. Loveday Rostarn. Carino, non è vero? Ma mi chiamano Lowdy da una vita, così ci devo dire che mi sono abituata. C’hai solo quello per dormire, vero?» Lily guardò la sottoveste consumata. «Sì, solo questo.» «Bene, dicono che l’inverno è finito, anche se qua fa freddo fino all’estate. Non c’hai altri vestiti, e nemmeno scarpe? Che fretta c’avevi?» «Io... a me mi hanno rubato tutto, a una fiera. Tutti i soldi e tutto quello che avevo.» Era quasi impossibile per Lily parlare in modo sgrammaticato con Lowdy Rostarn; il suo cervello era infatti troppo impegnato a cercare di capire quello che diceva la compagna di stanza, che parlava in modo strano. Che bella coppia! «E sembri proprio distrutta, poveretta. Spegni la candela e vieni qui. Mrs Howe ci da una candela a settimana per ogni camera, di domenica, e così per quattro notti almeno dobbiamo stare con quel piccolo pezzetto. Ma è buio pesto là fuori, senza la luna, stanotte. Hai fame? Avevo un po’ di biscotti rotti, ma a me mi era venuta fame, e allora li ho mangiati.» «L’avevo prima. Penso di essere stanca morta.» Lily diede un’ultima occhiata alle


pareti scrostate e alle assi nude del pavimento, ai mobili spaiati, allo specchio macchiato e al catino sbreccato. La stanza era fredda: come sarebbe stata in pieno inverno? Si immaginò di svegliarsi tremante, trovando del ghiaccio sulla superficie dell’acqua della brocca, l’asciugamano irrigidito perché gelato. Spense la candela con un soffio e scivolò tra le lenzuola del letto in ferro che un tempo era stato a baldacchino, e che ora era stato invece privato di due colonne per poterlo incuneare sotto la grondaia. Tutto puzzava di umido e muffa. Il materasso era pieno di dislivelli e incredibilmente sottile. Lowdy spinse metà del cuscino duro verso Lily, che la ringraziò e si mise a pensare alla nuova compagna di stanza. Se Lily fosse stata al suo posto, probabilmente non avrebbe accolto un’intrusa dall’aspetto così patetico nella sua piccola camera e nel suo minuscolo letto, a quell’ora del mattino. Ma Lowdy era sembrata sinceramente contenta di avere compagnia, inducendo Lily a pensare che, forse, la vita da domestica in quella grande casa doveva essere molto solitaria per una giovane. Lowdy aveva diciassette anni, e lavorava a Darkstone da due anni. Con le gambe corte, il seno piccolo e i fianchi larghi, aveva un corpo che appariva molto più robusto di quello di Lily. Aveva dei bei capelli neri e corti, e un viso espressivo. Ma ogni volta che sorrideva, cosa che capitava spesso, faceva capolino un dente rotto, e allora il suo viso assumeva un’espressione giocosa e anche astuta. Il suo accento marcato era del tutto sconosciuto a Lily. Fortunatamente Lowdy parlava con lentezza, con una deliberata flemma che solitamente consentiva a Lily di decifrare per lo meno il significato di una frase prima di passare a quella successiva. «Com’è lavorare qui?» sussurrò Lily nell’oscurità. Ma in verità quello che avrebbe voluto sapere era come fosse «il padrone» e se la scena cui aveva appena assistito fosse una rarità o un episodio normale. Lowdy, però, aveva il sonno molto pesante, e non sapeva nulla di pallottole e di candelabri in frantumi; e poiché Lily aveva promesso a quell’uomo chiamato Cobb di non dire nulla dell’incidente, non vedeva come fare la domanda direttamente. «Oh, né meglio né peggio di tanti altri luoghi.» Lowdy sbadigliò e si voltò su un fianco. «È da Mrs Howe che ti devi guardare. Cattiva e meschina come una vecchia scrofa. Preferirei trovare un toro sulla mia strada, piuttosto che lei.» «Che cosa?» «Picchia, ecco cosa fa. Enid, l’ultima ragazza prima di te, l’ha picchiata così tanto da romperle un braccio. E Sidony, la sguattera che è arrivata qui in settembre, due anni fa, prima di me ma me l’hanno detto, è caduta sul gradino del caseificio ed è quasi morta. Niente si è saputo ai piani alti, ma sotto tutti sapevano che era stata la Howe. E la ragazza era poco più di una bambina all’epoca, una bimbetta di tredici anni.» Lily rimase zitta, sconvolta. I racconti e le fandonie proliferavano solitamente tra i domestici, si disse; e il pettegolezzo cresceva e cresceva. Sicuramente Lowdy stava esagerando. «E stattene lontana anche da Trayer, perché quello fa di peggio che picchiare». Quelle parole suonavano vere. Udì Lowdy sbadigliare di nuovo e disse veloce, prima che la nuova compagna di stanza, si addormentasse completamente: «Che tipo è il padrone? A lavorarci assieme, intendo. Mrs Howe dice che è molto esigente con


le cameriere». Lowdy sbuffò. «No, questa è proprio una balla. Il padrone non sa neanche che siamo vive, bada soltanto al suo lavoro» «Il suo lavoro?» «Sì, è un gran signore, possiede una miniera e terreni e pecore e non so cos’altro. Mrs Howe dice che lui è 'esigente' per giustificare la perdita di tante ragazze. Non riesce lei a tenerle, ecco tutto.» «Perché tu stai qui, Lowdy?» «Che diavolo, e dove andrei?» «Non hai una famiglia?» «No. Sono stata presa subito qui, direttamente dall’orfanotrofio.» Rimasero entrambe in silenzio per un po’. Lily pensò che Lowdy si fosse addormentata, così parlò a bassa voce: «Il padrone è mai violento?» «Il padrone? No, mai. Solo nell’aspetto è un po’ severo. Non parla quasi mai, non con noi, non con gli altri. Sua moglie è scappata via abbandonandolo, mi hanno detto. È morta.» «Quando? Quanto tempo fa?» «Non so. Prima di quando ci sono arrivata io. Ha un fratello, il giovane padrone, ma vive da qualche altra parte. Nel Devon con la madre, credo. Viene qui solo quando c’è del contrabbando da fare. Dicono che verrà domani. Fa il contrabbandiere e il comandante della propria nave.» A questo, poi, Lily si rifiutava proprio di credere. Mentre rimaneva in silenzio pensando alla domanda seguente, Lowdy iniziò a russare. Chiuse gli occhi e si lasciò scivolare sul materasso duro, scomodissimo. Almeno non c’erano cimici. La finestra a battente doveva guardare sul mare, perché nel silenzio totale poteva sentirne il respiro sommesso. Cercò di rimettere ordine nei suoi pensieri, ma i ricordi si affastellavano e cozzavano tra loro. Con gli occhi della mente vide il cugino sorseggiare il vino delle Canarie dinanzi al fuoco, le lunghe gambe robuste appoggiate al parafuoco. Vide i volti dei piccoli sulla strada, mentre fuggiva. Vide lo sguardo insistente di Trayer Howe, e gli occhi neri e astiosi della madre, con quelle due bande bianche tra i capelli neri. Quindi il volto amaro, duro, di Devon Darkwell le colmò la mente. La strana gentilezza di quando le aveva chiesto: «Cosa ci fai in casa mia, Lily?» Ma poi l’aveva chiamata maledetta cameriera. Si sarebbe ricordato di lei se si fossero rivisti? Per quanto la riguardava, lei era sicura che anche se se ne fosse andata il giorno dopo, non l’avrebbe mai dimenticato.


Capitolo terzo La mattina seguente, alle quattro e trenta, semi addormentata e ancora in preda alla stanchezza della sera prima, Lily si bagnò il volto con l’acqua fredda e cercò gli abiti nella gelida oscurità. Trovò le scale, quasi cadendovi, e riuscì a scendere tre rampe di gradini stretti tastando continuamente il muro. Dorcas era già al lavoro nella cucina illuminata dalla luce delle candele. Disse a Lily di accendere il fuoco nel camino della cucina, con un tono che rivelò immediatamente come la giovane non avesse mai dato ordini a nessuno prima di quel momento, e quindi di altri due camini al piano superiore, perché quella mattina faceva freddo, cioè in sala da pranzo e nella biblioteca del padrone. Lily ripulì il focolare, prese il carbone dal suo recipiente e si mise all’opera. «Non vuoi per prima cosa pulire il cestino?» chiese Dorcas timidamente, avvicinandosi a lei. «Devi farlo, perché Mrs Howe dice che bisogna farlo, per ogni camino, ogni mattina.» «Oh sì, mi... mi sono dimenticata,» Lily si accovacciò sulle caviglie e osservò la grata fuligginosa, annerita dal fuoco. Lei e suo padre avevano avuto periodi di povertà, ma non erano mai stati tanto poveri da non poter tenere almeno un domestico. Così era in grado di accendere un fuoco, anche con grande facilità, ma non aveva mai pulito una grata. «Beh, ehm... Dorcas, come devo...» «Non sai come fare?» gli occhi indifferenti si spalancarono per la sorpresa. «Nell’altro posto servivo a tavola, e perciò non l’ho mai fatto.» Una scusa ridicola, ma era tutto quello che le era venuto in mente lì per lì. Il volto di Dorcas esprimeva, contemporaneamente, ammirazione e incredulità. Nonostante tutto, si limitò a spiegare a Lily come dovesse fare per strofinare e lucidare la grata e gli utensili da camino, e per far risplendere le parti in acciaio con la carta smerigliata. Era un lavoro schifoso e noioso, che richiedeva tempo e fatica. Mentre passava da un camino all’altro, ripetendo l’operazione, riusciva a comprenderne sempre meno l’utilità. Che senso aveva? Si chiese quando giunse al terzo camino. Lo fai brillare, poi accendi il fuoco e in un istante rovini tutto. Perché non farlo un giorno sì e l’altro no? E perché non una volta alla settimana? Ma, ovviamente, non c’era nessuno a cui rivolgere quella domanda sciocca. In ogni caso, anche nel corso di altri lavori, durante quella stessa mattina, se ne chiese più e più volte l’utilità, mentre le ore passavano. Perché si doveva strofinare il pavimento di pietra nel retrocucina ogni giorno prima di colazione? Che senso aveva sbiancare i gradini del retrocucina ogni mattina? Possibile che tutte le finiture di ottone dovessero essere lucidate tutti i giorni? Quando furono le sette e mezzo, Lily ormai tremava per la fame, ed era stanca come se avesse lavorato un giorno intero. Ma la colazione dei domestici consisteva solo in un po’ di formaggio e dolci avanzati dalla sera prima, il tutto innaffiato da un boccale di birra. Ogni boccone era per lei delizioso e lo gustò come se fosse l’ultimo. Mrs Howe era seduta a capotavola di un lungo tavolo di legno, sul quale un’insegna dipinta sulla parete recava il motto 'La pulizia viene subito dopo la Devozione', e la sua presenza severa influenzava il tono di quel poco di conversazione tra domestici.


Stringer, il maggiordomo, era all’altra estremità del tavolo, silenzioso e distaccato. Tra di loro c’erano gli altri domestici: la cuoca, il valletto del padrone, la cameriera che serviva a tavola, le donne di servizio, le addette alla cucina e al retrocucina, lo stalliere e due ragazzi di stalla, il cocchiere, tre lacchè, le addette al caseificio e alla lavanderia – tutti disposti secondo un certo ordine gerarchico che per Lily era difficile da comprendere. Comprese tuttavia di essere l’ultima ruota del carro. C’era di buono che praticamente nessuno le rivolgeva la parola, così il suo modo di parlare fintamente sgrammaticato poteva starsene un po’ tranquillo. L’unico che le prestava attenzione era lo stalliere, un giovane dall’espressione furba coi capelli arancione. Il suo nome era Galen MacLeaf, e, secondo quanto le stava dicendo, in tutta la Cornovaglia non c’era un uomo più bravo di lui coi cavalli, e i suoi occhi parevano ammiccare, con le donne. Lily trovava quel corteggiamento stravagante e innocuo. Era piccolo ma forte, con belle mani e una macchia in un occhio – difetto che non diminuiva affatto il suo fascino, anzi lo enfatizzava. Era davvero molto affascinante. Ascoltando le sue millanterie, Lily aveva quasi iniziato a divertirsi quando per caso diede uno sguardo dall’altra parte del tavolo, verso Lowdy. L’espressione della sua compagna di stanza non era più dolce e amichevole, ma piena di rabbia e gelosia. Al che, Lily si mise a fissare il piatto ostentatamente e con la bocca chiusa. Il resto della mattina fu occupato da svariati lavori in cucina. Ricevette altri ordini timidi da parte di Dorcas e molto meno timidi da parte della cuoca, Mrs Belt, una donna dal volto appuntito e i capelli bianchi. A mezzogiorno circa, Mrs Howe trovò Lily nel retrocucina e la informò, con una rabbia stizzita decisamente sproporzionata rispetto al danno, che non aveva pulito bene la grata del camino della biblioteca e che avrebbe dovuto ripulirla. Stanca e debole, ritornò con passo pesante nella biblioteca e si rimise al lavoro. Lowdy la trovò laggiù un quarto d’ora dopo. «Buon Dio, ma guarda che faccia hai. Sei più nera del lacchè nero di Lady Alice. Tieni questo...» Lily prese dalle mani di Lowdy il fazzoletto ripiegato e lo passò sulle guance, esterrefatta dalla quantità di fuliggine nera e unta che riuscì a togliersi. «Chi è Lady Alice?» mormorò, ripulendosi anche le braccia, nere fino al gomito. «Una gentildonna amica del padrone, che una volta ogni tanto viene qui con la madre di lui. Prenditi anche questa, su...» «Oh Lowdy.» Era una cuffia ingrigita per i troppi lavaggi, con i lacci sbrindellati. «Ti pagherò quando potrò, prometto che lo farò.» «Ma va... Vieni giù, ora, prima che il padrone ritorni.» I compiti di una cameriera al piano nobile dovevano essere conclusi prima di pranzo, così che nessuno «sopra» fosse costretto a posare gli occhi su un qualcosa di così sgradevole come un’umile serva, dopo l’una del pomeriggio. «Howe dice che devi pulire di nuovo i gradini, che non l’hai fatto bene, e poi devi tornare qui a finire.» Guardò Lily infilarsi la cuffia e poi nascondervi i capelli rossi. «C’hai dei capelli proprio belli», disse con un triste tono di invidia, passandosi le dita tra i corti riccioli scuri. Lily si ricordò di come Galen MacLeaf avesse flirtato con lei quella mattina, a colazione. «È proprio quello che mi dice il mio fidanzato», disse d’impulso, e


improvvisamente si ricordò di dover parlare in modo più sgrammaticato. «C’hai uno, allora?» «Sì, siamo fidanzati.» Il largo sorriso di Lowdy, sbarazzino per via del dente rotto, le illuminò il volto. «Beh, è stupendo, no?» disse guidando Lily fuori dalla stanza con delicatezza. Il pranzo fu un altro pasto triste, silenzioso; tra l’altro, dopo essere rimasta seduta per un poco, Lily non era più sicura di avere la forza di alzarsi. Era diventato impossibile pensare a quello che le stava accadendo come se fosse un’avventura. Era tormentata dalla paura di sdraiarsi in qualche angolo, in qualsiasi angolo, e chiudere gli occhi per alcuni minuti. Ogni muscolo anelava al riposo; la pelle delle palme era dura e irritata, le unghie annerite e rotte. Il cibo non aveva più il potere di ridarle forza, tanto profonda era in lei la spossatezza. Ma c’erano ancora gradini da pulire, pollame da spennare, piselli da sgusciare, pentole da strofinare, e un altro centinaio di lavoretti vari che dovevano essere eseguiti per qualsiasi altro servo che fosse a lei superiore – praticamente tutti. L’unico momento felice di quella giornata tremenda e stancante fu quando finalmente tutto finì e lei poté fare un bagno, nell’ultima grande vasca di acqua bollente usata per lavare i panni nella lavanderia. Cercò di sfruttare al meglio quell’occasione, lavandosi i capelli e stando nell’acqua fumante quanto più possibile, sapendo che sarebbe stata l’unica possibilità di lavarsi completamente in tutta la settimana. Quando finalmente si giunse all’ora di cena – una ciotola di zuppa acquosa e una sardina su un pezzo di pane – aveva ormai perduto l’appetito e dovette farsi forza per ingoiare il pesce salato. Anche allora non era ancora giunto il momento di andare a letto. La servitù si riuniva un’ora ogni sera, per chiacchierare e rammendare. Lowdy le disse sottovoce che non poteva andare in camera anche se aveva finito di fare tutto, poiché Mrs Howe doveva prima dire le preghiere serali, e queste non iniziavano mai prima delle nove. Lily si addormentò a tavola, seduta su una dura sedia, il mento sul petto. «Rose è ammalata», furono le parole con cui Mrs Belt l’accolse una mattina, una settimana dopo, indicando due vassoi coperti sul tavolo della cucina. «Prendili e portali dal padrone e dal giovane padrone, poi torna qui subito per aiutarmi a fare il pane.» «Intendete dire... nelle loro camere?» «No, nella tua. Poi devi andarli a chiamare e farli salire a mangiare...» Lily arrossì. La cuoca era nota per il suo sarcasmo, e la giovane era spesso la sua vittima preferita. Raccolse i vassoi e uscì di corsa. Mentre saliva le due rampe di scale che portavano al primo piano – scale nobili, che lei non aveva mai avuto il permesso di salire – sentì nascere dentro di sé un brivido di trepidazione, e si rimproverò. Non aveva più visto il padrone dalla notte del suo arrivo. Ma sicuramente non sarebbe stato ubriaco e delirante alle otto e mezzo del mattino, e quindi il suo nervosismo era assolutamente immotivato, sciocco. Continuò a ripeterselo per tutto il percorso che portava alla porta della camera che, secondo quanto le era stato detto, apparteneva al più giovane dei Darkwell. Deponendo un vassoio sul tavolo accanto alla porta, bussò timidamente. «Sì!»


«La colazione, signore», disse, cercando nel frattempo di raddrizzarsi la cuffia. «Sì, portala dentro!» Allora si presupponeva che lei entrasse? La voce dell’uomo era risuonata impaziente. Aprì la porta ed entrò. E si bloccò immediatamente, bocca aperta, occhi spalancati. Esterrefatta, incapace di distogliere lo sguardo dalla vista affascinante del dorso virile nudo. Il giovane guardò il riflesso di Lily nello specchio dell’armadio, dinanzi al quale era in piedi a sbarbarsi il mento. «Sul letto va benissimo», disse guardandola da sopra una spalla nuda. Le ci volle almeno un minuto perché le parole assumessero un qualche significato. E l’ebbero nel medesimo momento in cui l’uomo si voltò completamente per guardarla in viso, perplesso dalla sua esitazione. Le sfuggì un suono, involontariamente. Certamente non un urlo, e non un grido – come avrebbe più volte ripetuto più tardi a se stessa – solamente un suono. Poi fece l’unica cosa che potesse fare: depose il vassoio sulla più vicina superficie piana – il letto, per sua fortuna – e si allontanò in direzione esattamente opposta a Mr Darkwell, e uscì di corsa. Proprio nel momento in cui chiuse la porta, udì l’uomo che iniziava a sghignazzare. Rimase attonita nell’anticamera silenziosa, guardando fisso davanti a sé, il volto imporporato, rivivendo tutto. Non le sfuggiva nemmeno l’ironia del fatto che lei, per tutta la settimana, aveva sperato di vedere almeno per un attimo il giovane padrone, senza alcun successo, e ora che aveva potuto dargli più che un’occhiata, non ne aveva scorto il volto. Tentò di capire il lato divertente di quella situazione, per lo meno di ridere di se stessa. Cercò anche di vederla come un’esperienza educativa, visto che non aveva mai veduto prima un uomo nudo. Ma non le fu possibile provare qualcosa che non fosse nervosismo o ansia, poiché lo scherzo o la lezione non erano ancora terminati. Doveva portare il secondo vassoio. E se, proprio in quel momento, il padrone fosse stato allo stesso punto del fratello? Perché il solo pensiero la rendeva ancora più nervosa di prima? Non riusciva a darsene una spiegazione, sapeva soltanto che era così. Percorrendo l’atrio fino all’altro lato della scala, riuscì in qualche modo a riprendersi. Si stava comportando come una bambina, si disse. Eppure, le ci volle lo stesso parecchio sforzo per ricomporsi e bussare alla porta. Nessuna risposta. Bussò nuovamente, con un suono a malapena udibile persino da se stessa. Si innervosì e si impose di bussare con forza. «Avanti!» Fece un balzo, e, impietosi, tazze e cucchiai tintinnarono con forza. Tenendo gli occhi chiusi, spinse la porta per aprirla e rimase immobile. «Ebbene?» Aprì un occhio e diede una rapida occhiata in giro, poi, incredibilmente, si sentì sollevata, perché il padrone era seduto alla scrivania, completamente vestito con un sobrio abito nero, e la fissava da dietro un paio di occhiali d’acciaio. «Ah, buongiorno, signore», disse lei tutto d’un soffio, sforzandosi di rivolgergli un sorriso che sperava risultasse amichevole. Non rispose. Lily nel frattempo osservò che quella stanza, arredata con pochi mobili, era perfettamente a posto. Depose il vassoio sul letto, dove le lenzuola spiegazzate erano l’unico elemento in disordine di un tutto perfetto – e probabilmente era questa la ragione per cui la loro vista la


sconvolgeva tanto – e si volse per uscire. «Non là, qua», le disse indicando la superficie della scrivania, sopra le carte che stava scribacchiando. Nell’insieme aveva un’aria molto formale, seduto nella propria camera da letto in giacca e panciotto e camicia bianca dal collo increspato, la schiena diritta e le spalle rigide. «Oh, ma certo, signore.» Fece un inchino alquanto goffo, raccolse il vassoio e lo portò verso di lui. Quando lo depose con un tintinnio di piatti e tazze, la guardò cupo. Pensando di risollevare un poco le proprie sorti, fece per prendere la teiera, così da versargli la prima tazza, ma il braccio di Devon si mosse proprio nello stesso momento, e le mani di entrambi si urtarono. La teiera si capovolse per un istante prima che lui la raddrizzasse prontamente. «Maledizione!» disse togliendosi bruscamente gli occhiali. Si alzò continuando a imprecare, muovendo le dita nell’aria per rinfrescarle. Lily pensò che quel giorno aveva i capelli perfettamente pettinati, legati in una coda. Aveva un volto orgoglioso, con le ossa fini e sporgenti. Un viso molto espressivo, si disse Lily, che però in quel momento era chiuso e cauto; le labbra serrate, gli occhi verde-azzurro torvi. Ma l’amarezza dell’espressione proveniva da due profonde linee verticali, che partendo dagli zigomi, raggiungevano gli angoli delle labbra. Sebbene il fisico alto, dalle ampie spalle, apparisse robusto e deciso, notò che si muoveva con un’agilità attenta e silenziosa, che suggeriva un’incredibile autodisciplina, come se dovesse tenere sotto controllo una qualche emozione imprevedibile. Strinse le labbra, sgomenta. «O, signore, mi spiace tanto! È che sono proprio una bestia goffa. Fa molto male?» Devon, allora, la riconobbe. Si ricordò persino il suo nome, e notò quella stessa dolce gentilezza negli occhi grigio-verdi che aveva notato quella notte, e si sentì ugualmente attratto da lei. Poi, provò lo stesso impulso di allontanarsi quanto prima. «Sei irlandese, vero?» chiese freddamente. Lei scrutò quel volto e vi lesse solo un’espressione aggrottata. «Sì.» Le era difficile anche dire soltanto una parola; non se la sentiva d’imbrogliare quell’uomo. Perché? Ma perché quell’uomo era astuto, e si sarebbe accorto dell’inganno. Ma non solo per quello. E allora? La verità era – se ne rese conto con sorpresa – che non voleva mentirgli. «Hai paura di me?» «No, signore,» e anche quella era una sorprendente verità. La sua risposta non lo soddisfece: non era interessato ad avere la fiducia di questa ragazza, in fondo era una cameriera. Eppure le rispose: «Bene», con un sorriso amaro. «I colpi di arma da fuoco sono una rarità da queste parti, e nemmeno io ci sono abituato.» «Ma certo, signore...», mormorò. A Devon parve di cogliere una nota di scetticismo nella voce di lei, e inarcò un sopracciglio. Il vestito della ragazza era trasandato, notò, le scarpe rotte e consunte, la cuffia indecorosa. Eppure, nonostante tutto, non sembrava una cameriera. C’era qualcosa in quel volto, la pelle forse? Troppo liscia, troppo bianca, troppo... troppo sana. O gli occhi, chiari occhi grigio-verde e molto belli, con un’espressione che


rivelava immediatamente come nel suo cervello c’erano altri pensieri, che quello di servirgli la colazione. Si allontanò improvvisamente da lei. «Ebbene? Non hai nulla da fare?» «Oh sì...» «E allora vai avanti a fare quello che devi...» L’irritazione latente nella sua voce lo sorprese. Lily inspirò profondamente, lo guardò per un altro secondo, lunghissimo, quindi raggiunse la porta e la chiuse delicatamente dietro di sé. Devon si sedette alla scrivania e bevve un sorso di tè tiepido, mentre una quantità di pensieri si affastellavano nella sua mente, come pesci catturati dalla rete che tentano inutilmente di liberarsi. Uno, comunque, continuava a venire a galla, indubbiamente perché, tra i molti, era l’unico chiaro: quella ragazza di nome Lily era tutto fuorché una cameriera.

Capitolo quarto Clayton Darkwell si attaccò con forza alla corda del campanello per la seconda volta, e quasi immediatamente una cameriera entrò affannata nella biblioteca. «Caffè!» ordinò il giovane padrone. «Subito, e in grande quantità.» La ragazza abbozzò un inchino e si affrettò verso la porta. «Ebbene? Che cosa stai guardando?» Devon osservò il fratello mentre si lasciava andare sul divano e si copriva gli occhi con una mano. «Quando non rientri prima dell’alba», ribatté in tono asciutto, «è per me sempre un sollievo sapere che ti sei limitato a una bella sbronza.» Quanto sono ipocrita, si disse con un sorriso non divertito. Una settimana prima egli stesso si era ubriacato, e molto, freddamente e deliberatamente. Il quinto anniversario della morte di sua moglie gli era parso un’occasione come un’altra per prendere la pistola e iniziare a sparare qua e là per la casa. Clay si strinse con due dita il dorso del naso e gemette: «Giuro che è stato il rum bevuto da John Poltrae. E aveva persino pagato la dogana per quella brodaglia. Ma l’ho battuto a carte vincendogli ben venti ghinee, e quindi vuol dire che c’è un po’ di giustizia a questo mondo». Devon non rispose a quel sogghigno a un tempo divertito e dolente. «E poi, non riesco proprio a capire perché te la devi prendere tanto. Ho visto che avevi ancora la luce accesa quando sono rincasato, questa notte. L’unica differenza tra te e me, è che io bevo con i miei amici, e tu da solo.» Il volto del fratello maggiore, già fosco, si rabbuiò ancor più, e Clay distolse subito lo sguardo, subitamente pentito di quelle parole. «Avresti dovuto venire con noi», riprese poco dopo, con tono leggero. «E dopo, sai, siamo andati all’Hornet’s Nest...» Devon si limitò a mormorare qualcosa, senza alcun interesse. «C’è una nuova ragazza, Dev, e devi proprio vederla. Penso che pesi più di me... Si chiama Eulalia. Non sto scherzando!» Rise contento vedendo che, finalmente, il volto di Devon si rischiarava in un sorriso stentato. «Dai, vieni con noi la prossima volta, perché no? Sai che John e Simon mi chiedono sempre di te? Ti divertiresti, ne sono sicuro.» Lord Sandown si alzò dalla scrivania ricoperta da cataste di carte e si diresse verso un paio di porte-finestre che interrompevano gli scaffali colmi di libri della parete


dietro di lui. Aprì le finestre e, immediatamente, il mormorio sordo del mare colmò la stanza. «No, non credo che verrò...» disse rimanendo in piedi, ben diritto, a godersi la luce brillante del giorno. Quando la cameriera che aveva portato il caffè per Clay se ne andò, Devon aspettò che il fratello si allungasse sul divano, con una tazza di caffè in mano e il piattino appoggiato sul petto. «Hai ripensato alla nostra ultima conversazione?» L’espressione cauta di Clay fece assumere a Devon un’aria ironica: «Non si direbbe». «Ho avuto molto da fare.» L’espressione divenne ancora più ironica. «Dannazione, Dev. Sono troppo giovane per seppellirmi in una miniera!» «Ma non ti ho chiesto di andarci a lavorare. Soltanto di occuparti della gestione.» «Sono troppo giovane anche per quello.» «Ma non troppo giovane per rischiare stupidamente l’osso del collo contrabbandando brandy via mare.» Clay sollevò le ginocchia e incrociò le braccia sul petto. «Per l’amor di Dio, Dev, non iniziamo di nuovo con questa discussione. Lo sai che è una battaglia che nessuno dei due riesce mai a vincere.» Devon sospirò lentamente. «No, nemmeno io voglio litigare.» Poiché sapeva bene che se l’avesse fatto, se si fosse spinto troppo in là, Clay se ne sarebbe andato a continuare quel suo contrabbando idiota in un qualche altro porto della costa. Almeno il fatto che Clay abitasse a Darkstone gli consentiva di esercitare un poco di influenza su di lui. Soltanto un poco, però. Clay cercò di assumere un tono conciliante. «Quello che faccio non è affatto pericoloso, te lo assicuro. I miei uomini sono abili e fedeli, il mio sloop è il più veloce di tutta la Manica.» Gli sorrise con quel suo sorriso infantile, affascinante. «E mio Dio, Dev, mi diverto tanto...» «Mi domando se ti divertirai tanto anche quando ti impiccheranno.» «Ah, ma non mi prenderanno mai.» «Sei uno stupido, Clay. Stai soltanto aspettando che la luna cali, vero?» «No», cercò di negare, ma dal tono si intuì chiaramente che si sentiva in colpa. «Sono venuto qui a trovare te, il mio unico fratello.» Devon sbuffò. «Se avessi bisogno di denaro, la cosa avrebbe più senso...» «Forse non io personalmente, ma ci sono molte persone, qui intorno, che ne hanno bisogno», rispose con grande dignità. «Oh sì, dimenticavo... lo fai solo per spirito caritatevole...» «Sì, è proprio così. O per lo meno, è in parte così. Oh, dannazione», ammise poi ridendo, «lo faccio perché lo trovo eccitante...» «E per la gloria.» «Beh, devo ammettere che le donne mi continuano a ripetere che sono un diavolo in questi ultimi tempi.» Quel briciolo di pazienza che era rimasto a Devon si disintegrò completamente. «Diavolo, Clay, hai ventitré anni! È una cosa stupida, infantile, e un giorno o l’altro ti prenderanno – è solo questione di tempo...» «No che non lo faranno. I cutter della finanza si muovono come vecchie vacche nell’acqua, dovresti vederle... Non riusciranno mai a raggiungere lo Spider. E l’ho


nascosto dove...» «Per l’amor di Dio, non dirmelo!» Devon lo interruppe. «Non voglio proprio saperlo.» Scrollò la testa con aria lievemente disgustata. «Ti piglieranno a terra, dove sei più debole. Gli uomini del dazio sono ovunque in questi giorni, così come lo sono i loro informatori ben pagati. Non puoi fidarti di nessuno. Dimmi, come fai a tramutare il contrabbando in denaro per i poveri? Ed è proprio qui che ti beccheranno», lo ammonì, minacciandolo con il dito indice, «proprio nel bel mezzo di quel riciclaggio. Già una buona metà della regione sa delle tue attività... aspettano solo una prova, per arrestarti.» «Ma non l’avranno nemmeno qui, sulla terraferma» Clay ribatté sicuro di sé. «Ho un uomo che si occupa di tutta la faccenda.» «E chi sarebbe? No, non dirmelo, non voglio saperlo.» Sorrise, nonostante tutto, quando Clay scoppiò in una risata. Dopo una pausa, tuttavia, gli chiese: «Ma puoi davvero fidarti di questo... di questo mediatore?» «Sì, naturalmente. Senza alcun dubbio. Ascoltami, non preoccuparti per me, Dev. È una perdita di tempo.» Devon si appoggiò allo stipite di una finestra. «Vorrei che tu rinunciassi, davvero. Vieni a lavorare per me. Ti do' la miniera, se la vuoi.» Clay fece una smorfia. «Diglielo a Francis Morgan.» «Lavora per me... potrebbe farlo anche per te.» «Penso proprio di no, Dev. Non ci sopportiamo.» «Sì, lo so. E non ho mai capito perché.» «È uno stupido damerino effemminato...» «Non è vero. E poi, anche se lo fosse? C’è sotto qualche altra cosa...» «La nostra è una conversazione senza alcun senso, mio caro. Inoltre, non avevi detto che volevi vendergli una quota?» «Tutto è ancora in fase di discussione. Se tu volessi occuparti della miniera, te la darei domani stesso, tutta quanta.» Clay si alzò, stiracchiandosi. «Ma come hai appena osservato, non ho bisogno di denaro.» Il volto del fratello si irrigidì. «Un uomo ha bisogno di lavorare...» «Tu lavori troppo», ribatté Clay, abbandonando l’atteggiamento sulla difensiva che aveva tenuto fino a quel momento. «Stai esagerando nel senso opposto. Non vai mai da alcuna parte, non lasci mai Darkstone. Quando è stata l’ultima volta che sei stato nella nostra casa di Londra? Ed è da Natale che non vai a trovare la mamma, nel Devonshire. Guarda che questo posto andrebbe avanti benissimo anche senza di te. Cobb potrebbe cavarsela egregiamente se ti allontanassi per un po’.» Si ficcò le mani in tasca vedendo che Devon non rispondeva. «So' perché stai qui», disse, caparbio. «Sei proprio come nostro padre.» «Davvero?» rispose Devon, inespressivo. «In che senso?» «Vuoi rimanere qui per via del mare. La mamma dice sempre che lui ne aveva bisogno per stare calmo, per non impazzire.» Devon volse lentamente il capo, fissando al di là del giardino terrazzato la scogliera frastagliata e la pacata luminosità dell’acqua e del cielo. Sì, aveva bisogno del mare, per raggiungere una meta quanto mai modesta, l’equilibrio mentale. Dopo


tutto, non era poi chiedere molto alla vita. «A proposito della mamma», disse Clay con tono eccessivamente allegro, parlando troppo velocemente. «Minaccia di piombare qui da un giorno all’altro. E questa volta porterà con sé anche Alice.» Devon sospirò e incrociò le braccia. «Ma perché non te la sposi? In questo modo le due donne si metteranno tranquille.» «E perché non la sposi tu?» «Io?» Clay lo guardò orripilato. «Ma devi sposarti prima tu, sei il maggiore.» Poi, ricordando improvvisamente il passato, arrossì e abbassò lo sguardo. Devon strinse la mascella, ma si sforzò di mantenere un tono allegro e immutato. «Mi spiace, ma ho già avuto una moglie. E se aspetti che me ne prenda un’altra, morirai vecchio e solo...» «E allora moriremo assieme, da vecchi scapoli rachitici. Non sarebbe poi così malaccio.» «Immagino di no.» Una fiamma fugace di calore illuminò per un istante quello sguardo cupo, e Clay gli rispose con un lieve sorriso colmo di affetto. Un movimento alla porta attirò la loro attenzione. «Avanti, Cobb», Devon disse, rivolgendosi all’alto uomo dalla barba nera che rimaneva, esitante, sulla soglia. «Non volevo disturbarvi.» «Niente affatto. In tutti i casi, io e Clay avevamo già finito.» «Come stai, Cobb?», chiese Clay, salutando l’amministratore del fratello con un cenno del capo. «Molto bene, grazie, signore.» «Puoi venire con me a Luxulyan oggi?» chiese Devon. «Vorrei che dessi un’occhiata al gregge di Audie Trevithick. Vuole vendere metà dei suoi montoni.» «Ma certo.» Cobb mosse leggermente i piedi, passando le dita dell’unica mano che aveva lungo la larga tesa del suo cappello. «Ci sono problemi da Ross Menethorp», disse poi. «Che genere di problemi?» «Le sue pecore sono scappate attraverso la siepe a nord, stanotte. Due dozzine sono cadute dalla scogliera, e per fortuna il cane ha salvato le altre.» «Era ubriaco?» «Non posso saperlo con sicurezza.» «Capisco. Gli parlerò questa mattina stessa...» «Come preferite. L’essiccatoio per il luppolo deve essere riparato, così per lo meno mi ha detto Fletcher. La settimana scorsa, con tutta quella pioggia, le tegole del tetto...» «Buongiorno, Devon.» Devon si volse. «Francis... pensavo che ci dovessimo vedere solo per cena. C’è qualcosa che non va alla miniera?» Francis Morgan entrò lentamente nella stanza, tenendo l’elegante bastone da passeggio in ebano appoggiato sulla spalla. «No, no. In effetti, il motore della pompa nel nuovo filone sta lavorando alla perfezione, davvero. Erano i cuscinetti, come ti avevo detto. No, volevo parlarti dell’asta di questa sera a Truro. Oh, salve, Clay, non


ti avevo visto...» Clay non fece nemmeno finta di alzarsi. «Francis», disse a denti stretti, osservando l’alta figura elegante dell’agente minerario del fratello. Notò gli stivali lucidissimi, il cravattone candido, la parrucca incipriata; poi, con uno sguardo leggermente sprezzante, si rimise a leggere il giornale. «C’è qualche problema?», chiese Devon, avvicinandosi a Francis. «Spero di no, ma vorrei parlarti della strategia da seguire nel momento in cui si dichiarerà aperta l’asta.» «Aspetta un istante, Cobb, abbiamo finito per ora?» «Sì, penso di sì. Verrò con voi a Menethorp, se lo desiderate. Va bene alle dieci?» «Benissimo, Cobb. Ci vediamo al cancello.» «Aspettami, Cobb, vengo con te», intervenne Clay alzandosi dal divano. «A più tardi, Dev», disse al fratello, dedicando a Francis Morgan un breve cenno del capo, che l’agente minerario restituì. Clay e Cobb si diressero alle stalle rimanendo in silenzio, un silenzio rilassato. Laggiù si separarono, e Cobb si diresse verso l’essiccatoio per il luppolo. Clay, invece, entrò nel fienile e chiamò lo stalliere. «MacLeaf! Sei qui? Galen, dove sei, ragazzo mio?» Si volse udendo un rumore proveniente dalle ampie porte della stalla. Era Lily. La giovane arrossì quando, nell’improvvisa oscurità, riconobbe la figura dell’uomo, e il sorrisetto ironico sul volto di lui non fece nulla per diminuire il suo imbarazzo. Poi, ricordando il suo atteggiamento idiota nella camera di Clay, quella stessa mattina, sentì le guance bruciarle. Si sentì sollevata quando MacLeaf uscì dal suo angolino, accanto alla stanza dei finimenti, e salutò Clay, attirando così su di sé l’attenzione del giovane padrone. L’unico desiderio di Lily era quello di andarsene, ma il messaggio che Lowdy le aveva incaricato di portare allo stalliere era molto importante – almeno per la sua compagna di stanza. E doveva anche essere riferito senza altre persone presenti. Così arretrò fino al recinto più vicino e cercò di rendersi invisibile mentre il giovane Darkwell ordinava a MacLeaf di andare a prendere Tamar, il suo cavallo. Mentre aspettava, osservò il giovane con attenzione. Sebbene avessero alcuni tratti in comune, i fratelli Darkwell non potevano di certo dirsi molto simili, si disse. A parte il fatto che il minore dei due era più basso e snello, e i suoi capelli erano di un castano più chiaro, l’elemento che li distingueva di più era certamente il contegno. Il volto di Clayton era aperto e diretto, il modo di fare sciolto, persino indolente. Devon Darkwell, invece, era rigido e controllato, lunatico, privo di spirito e tutt’altro che indolente. Il volto non era affatto aperto. La bocca era segnata da due solchi profondi, incisi da un’amarezza acida, e dietro i begli occhi lei aveva scorto una volta un lampo di desolazione. Quando Clay passò accanto a lei con andatura lenta, sorridendole, lei si rese conto che l’aveva fissato per tutto quel tempo. «Ribuongiorno», la salutò lui cordialmente. «Buongiorno, signore», salutò Lily; poi – ma troppo tardi, si disse con apprensione – accennò un inchino. «Vedo che ti sei ripresa dallo shock.» Lily era certa che stava arrossendo, e la cosa le seccava molto.


«Mi pare proprio di sì», rispose con tono brusco. Quella sua intonazione lo fece sorridere. «Come ti chiami?» «Lily Troublefield.» Clay rise, e la guardò incantato quando si accorse che rispondeva al suo sorriso, complice. «Da dove vieni, Lily Troublefield?» «Da Lyme Regis. Originariamente, dalla contea di Kildare, ma non ci sono rimasta per molti anni.» «Kildare, hai detto?» «Sissignore.» La guardò come se avesse qualcosa da dirle o, peggio ancora, da chiederle, e allora lei prese a parlare forsennatamente, per distrarlo. «Quello è il vostro cavallo? Davvero una bellezza, signore.» La cosa funzionò. Clay allontanò il proprio sguardo da lei per fissare MacLeaf che stava sellando il suo orgoglioso cavallo bigio di tre anni. «Lo è davvero. Voglio farlo correre a Epsom il mese prossimo.» «Nell’uno e un quarto?» «Forse sì. O in quella gara, o nel miglio e mezzo.» «Dovrà stare attento alla curva del Tattenham Corner, non è così? E la discesa che segue potrebbe essere una prova molto dura per un cavallo giovane. Ma mi sembra in grado di farcela.» Poi, si ricordò di dover parlare in modo sgrammaticato. «Ma sì, mica mi sbaglio io, è un bell’animale.» Clay la fissò sorpreso. E anche MacLeaf si volse a guardarla, con il morso infilato per metà nella bocca dell’animale. Lily si schiarì la gola, imbarazzata. «Il mio papà, lui era un uomo delle corse, e qualche volta mi portava con lui. Doncaster e Newmarket e altri.» «Un uomo delle corse?» «Più che altro gli piaceva scommettere, sarebbe meglio dire così. E riusciva bene soprattutto a perdere», ammise candidamente. «Ma una volta la sua cavalla, aveva due anni, ha vinto a St. Leger. Venticinque ghinee, una bella sommetta.» Sorrise, ricordando quel giorno. Aveva cercato, inutilmente, di convincerlo a pagare una parte dei suoi debiti con quella vincita, ma senza alcun successo: lui aveva preferito invitare gli amici a una grande festa e aveva speso tutto, fino all’ultimo centesimo, nella taverna di Parkhill. Clay e MacLeaf si scambiarono un’occhiata. Lo stalliere condusse il cavallo all’esterno, in cortile. Non prendendo nemmeno in considerazione lo sgabello che serviva per montare a cavallo, Clay balzò in sella. Si volse a guardare Lily, che lo osservava, ferma sulla soglia. «Mi recherò alla Tattersall in agosto, Miss Lily Troublefield. Verresti con me a scegliere un paio di bei cavalli da caccia robusti?» Rise. «Chiedetemelo più vicino a quella data, Mr Darkwell. Non posso fare programmi così in là nel tempo.» «Lo farò sicuramente.» Poi, guardandola con un ultimo sorriso ironico e ammiccando, volse il cavallo e lo spinse al trotto e poi, quasi immediatamente, a un elegante piccolo galoppo. MacLeaf si avvicinò a lei, sorridendo con quel suo simpatico sorriso che svelava i due denti davanti molto separati. Lei gli restituì il sorriso: spesso aveva grandi


difficoltà nel decidere su quale occhio concentrarsi quando parlava con lui. Di solito, era il suo occhio destro a tendere un po’ di lato, ma non appena lei si concentrava sull’occhio sinistro, come per magia pareva proprio quello a spostarsi all’esterno, mentre il destro si raddrizzava. Era una cosa stranissima e quasi imbarazzante, e talvolta si chiedeva se, per caso, il giovane non lo facesse di proposito. «Come va, Galen?» gli chiese in tono allegro. «Oh, sto molto bene, grazie. E tu, Lily?» «Bene, grazie. Ho un messaggio da parte di Lowdy.» Finse di sembrare deluso. «Speravo che fosse tuo, sai?» Lily sollevò una spalla, scherzosamente. «Lowdy dice che può vederti questa sera dopo cena vicino al lago, ma solo per un’ora.» Il volto espressivo si illuminò. «Dille che ci sarò sicuramente.» Poi ricordò di essere un mascalzone. «Verrai anche tu, Lily?» chiese con uno sguardo impertinente. «No, certo che no, Mr MacLeaf.» «Ah, peccato, ci saremmo divertiti molto, noi tre.» Appoggiò una mano sulla parete accanto a lei e si chinò con grande familiarità. «E che cosa mi cucina per cena quella cuoca dalla faccia da gufo, dolcezza?» Sorrise appena. Le sarebbe anche piaciuto scherzare con Galen MacLeaf se non avesse scoperto che a Lowdy piaceva tanto. «Cotolette di vitello per Mrs Howe, da portarle in camera, e noi, invece, pasticcio di sgombri e patate.» «Dici niente!» Rise sonoramente per l’espressione comica del giovane. Vide in lontananza due uomini avvicinarsi alla stalla, provenienti da casa. Uno era Francis Morgan, l’altro il padrone. D’istinto si spostò di lato, allontanandosi così dalla barriera formata dalle braccia di MacLeaf, contro la porta della stalla. Poi, ripensandoci, si disse che quel brusco movimento avrebbe anche potuto essere interpretato negativamente. Gli uomini passarono oltre: Francis Morgan continuò a parlare, senza nemmeno accorgersi della loro presenza, ma lo sguardo severo del padrone la sconvolse per via dell’espressione che a lei, agitata, parve di disprezzo. Sicuramente Devon Darkwell pensava che stesse amoreggiando con lo stalliere. Ma ciò che la sorprese di più fu l’intensità dell’impulso che ebbe di slanciarsi dietro di lui e dirgli la verità. Ovviamente non lo fece, ma interruppe MacLeaf che stava parlando e disse che doveva tornare subito al lavoro per evitare che la governante la sgridasse. Poi si mise a correre verso casa. Quel pomeriggio, Mrs Howe la costrinse a lavare le pareti del retrocucina come punizione per aver fatto tardi.


Capitolo quinto «Per Giove, che caldo!» disse Lowdy battendo i pugni e i talloni contro il materasso, innervosita dal calore soffocante, poi si alzò di colpo. «Non c’è mica un soffio di vento in questa maledetta contea. Mio Dio, come odio giugno!» Lily si terse il sudore da sotto il naso e assentì mugugnando, troppo esausta per parlare. Era seduta sul letto, appoggiata con la schiena alla testiera, stanchissima ma senza alcuna voglia di sdraiarsi perché le lenzuola umide puzzavano di muffa e si appiccicavano alla pelle. Attraverso la finestra aperta della biblioteca due piani sottostanti, proveniva il rintocco dell’orologio che stava scoccando la mezzanotte. Lowdy si mise in ginocchio sulla sedia, dinanzi alla finestra, e, tenendo i gomiti appoggiati sul davanzale, fissò la luna piena. «Pensi che Galen stia guardando anche lui in su, in questo momento, fissando anche lui la luna?» chiese con voce sognante. Lily cercò di immaginare una scena simile, ma non poté fare a meno di chiedersi con quale occhio la stesse guardando. «Penso che stia dormendo, ora, da due ore e passa. Cosa che dovremmo fare anche noi.» Da qualche giorno, quando era con Lowdy, aveva smesso di lottare con quella lingua-dialetto forzatamente impostasi; la storia che le aveva raccontato, e cioè che era scappata da uno zio violento e aveva finto di essere irlandese per dare di più l’idea di cameriera esperta, non le pareva poi molto convincente, ma sembrava che Lowdy l’avesse bevuta. Sentì lo stomaco brontolare. Dall’altra parte della stanza, anche Lowdy sentì quel rumore. «Lily! Mi ero completamente dimenticata. Ho preso una mela rossa da uno scaffale della dispensa questa mattina», disse con aria soddisfatta. «Mio Dio, Lowdy, ma cosa aspetti? Vai subito a prenderla prima che svenga per la fame», le rispose con tono fintamente drammatico. La cameriera tirò fuori dal grembiule il frutto rubato e lo portò sul letto. Un mese prima, Lily sarebbe addirittura morta di fame senza dire una parola prima di accettare qualcosa dal suo peggior nemico. Ora, il furto di una mela o di un pezzo di pane, che Lowdy compiva abitualmente, pareva un atto logico per sopravvivere, di cui non ci si doveva sentire più in colpa di quanto non si dovesse sentire un soldato per avere risposto al fuoco del nemico. Affondò i denti nella mezza mela, perfettamente divisa, assaporando il gusto acidulo del succo ed emettendo brevi sospiri di soddisfazione. «Penso che abbiano un sapore migliore quando sono rubate», sussurrò, con gli occhi chiusi dal piacere. «Beh, in effetti è così», Lowdy confermò con la bocca piena. «In ogni caso, corri un rischio terribile. Se Mrs Howe dovesse coglierti sul fatto, sono certa che perderesti il posto.» «Non preoccuparti per me, non mi beccherà mai. Le hai parlato oggi? Di quell’anticipo?» «Sì.» «E lei ha rifiutato, vero? Come ti avevo detto io?» «Sì.» «Ah.» Lily si appoggiò al cuscino, ricordando il momento in cui aveva incontrato Mrs Howe, quel pomeriggio. Aveva scelto accuratamente il momento, sperando che


la governante fosse di buonumore dopo una cena a base di salmone freddo, collo di montone alla griglia con capperi, piselli freschi in salsa di limone – che differenza rispetto alla zuppa d’orzo e sformato di fegato serviti ai domestici! «Che cosa vuoi?» le aveva chiesto Mrs Howe con quel suo tono acido, comodamente seduta nel suo salotto. Lily le aveva espresso la sua richiesta: un piccolo anticipo sul salario che avrebbe iniziato a guadagnare quando i suoi debiti fossero stati finalmente saldati, in modo da poter iniziare a mettere da parte qualcosa per sé. Ma come Lowdy le aveva predetto, avrebbe potuto risparmiarsi il fiato. «Pensi di essere migliore di noi tutti, vero? Non vedi l’ora di andartene così da poterti dare tutte le arie del mondo in case più raffinate, è così?» Gli occhi neri e sporgenti della donna erano saturi di veleno. «Ti dirò io come guadagnare abbastanza da andartene, cara la mia giovane ignorante. Puoi guadagnarti il pane come noi, nel modo che ci ha indicato Dio, con il sudore della fronte e la fatica delle mani.«‘Colui il quale si arricchisce in fretta non potrà rimanere innocente’». Un sorriso astuto comparve su quel volto ostile dopo quella frase. «Ma, guarda, potrei anche aiutarti. Ti darò dei lavori extra, se è quello che vuoi. Puoi iniziare con i tappeti del pianoterra. Alla fine della giornata, quando hai fatto tutto, puoi arrotolarne uno, portarlo fuori, appenderlo a una corda e batterlo finché sarà lindo e pulito. Alla fine, controllerò personalmente, e se sarò soddisfatta ti pagherò mezzo penny a tappeto.» «Mezzo penny! Ma... non riuscirei nemmeno a sollevarne uno, da sola.» «È un problema tuo. E non pensare di chiedere a un’altra ragazza di aiutarti. Devi farlo tu, solo tu e nessun’altra. Pensaci, perché è l’unica possibilità che ti posso dare. Che cosa ne dici? E rispondi velocemente, perché ho ben altro da fare.» Lily lottò per trattenere le lacrime di frustrazione. «Lo sapete bene che non ci riesco.» «Bene, allora il discorso è chiuso. Smettiamola di perder tempo e torniamo al lavoro. E ricordati che il compito dei servitori è quello di seguire la volontà di Dio sin nel profondo del proprio cuore, ‘non badando a far piacere agli uomini, bensì con paura e tremanti, come al cospetto di Cristo.’» «Brutta vecchia scrofa», commentò Lowdy, mangiando l’ultimo pezzetto di mela e leccandosi le dita. «Te l’avevo detto, io, di non perdere tempo con quella.» «Non le piaccio, Lowdy.» «Non gli piace nessuno, te lo dico io.» «Sì, è vero, ma penso che mi odi proprio.» Lowdy fece una smorfia, ma non rispose. Lily tirò indietro il copriletto, sentendosi prendere dal peso ormai consueto della frustrazione. Oramai era a Darkstone da parecchie settimane, ma non era di certo vicina alla soluzione dei suoi problemi. Il salario del primo mese era in pratica ammontato a pochissimo, e ora era in debito non solo nei confronti di Mrs Howe ma anche di Lowdy, per quanto riguardava sapone, polvere dentifricia, cuffietta e grembiuli. Avrebbe dovuto scrivere a Mrs Troublefield, la sua vicina di Lyme, e chiedere notizie. Per prima cosa, infatti, voleva sapere che cosa ne era stato di Roger Soames, se era vivo o morto e, nel primo caso, che cosa provava nei suoi confronti. Aveva per caso convinto le autorità a cercarla? Affermava ancora che lei era una


ladra? Oppure, per un qualche miracolo, era tornato in sé e l’aveva perdonata per pura carità cristiana per quanto era avvenuto quel giorno, per gli avvenimenti che l’avevano condotta in quel luogo? Quest’ultima ipotesi le pareva comunque molto improbabile. Ma Lily era, fondamentalmente, ottimista; e considerò anche questa possibilità. E tuttavia esitava a scrivere a Mrs Troublefield perché odiava l’idea di coinvolgere quella gentile signora mettendola in una posizione oltremodo scomoda, nel caso in cui in futuro fosse stata interrogata dalla polizia e fosse stata costretta a mentire per il bene di Lily dicendo che non sapeva dove si trovasse. Per l’ennesima volta si diede della stupida per essere fuggita. Ora il tempo era il suo unico alleato, e tutto quello che poteva fare era affidarsi alla speranza infantile che un giorno o l’altro, in un modo o nell’altro, le cose si sarebbero sistemate. «Oh», mormorò Lowdy improvvisamente, sedendosi sul letto. «Il diavolo potrebbe sciogliersi come sugna in questo forno. Lily...» «Che cosa?» «Andiamo a fare un bagno.» «Non possiamo.» «Perché no? Non in mare, ma nel lago. A Pirate’s Mere, non sei mai stata là? Nessuno ci vedrebbe, potremmo arrivarci indisturbate.» «È troppo pericoloso; se qualcuno ci scoprisse saremmo subito licenziate.» Ma anche con tutti quei timori, non poteva fare a meno di pensare come sarebbe stato bello poter nuotare nell’acqua fresca. «Beh, con te o senza di te, signorina fifona, io ci vado.» E nel dire quelle parole Lowdy si tolse la camicia da notte e iniziò a infilarsi il vestito dalla testa.«Non mi metterò biancheria né busto. Oh, pensa a come mi sentirò fresca e pulita tra dieci minuti. Poi tornerò e ti dirò com’era, Lily, nei minimi particolari.» «E va bene», borbottò Lily, alzandosi e cercando a tentoni nel buio il vestito. «Ma se ci prenderanno, sarà colpa tua.» «Non ci prenderanno. Sgattaioleremo fuori dalla biblioteca del padrone e scenderemo giù per i gradini nella roccia, senza che nessuno se ne accorga. Sbrigati, ora!» Darkstone Manor dava a nord, lontano dal mare, sulla sommità di un promontorio ampio e verdeggiante. Giardini terrazzati ricoprivano il pendio per un centinaio di metri, prima di raggiungere il bordo della scogliera, ingentilendo così l’aspetto minaccioso del luogo. Lungo tutto il promontorio un sentiero serpeggiante si dipanava per un paio di chilometri in entrambe le direzioni. In fondo a una serie di scalini ripidi che conducevano al mare, un altro sentiero si curvava verso destra e quindi risaliva di nuovo costeggiando una pineta ombrosa, per poi terminare vicino a un lago interno, Pirate’s Mere. Era una stranissima meraviglia naturale, le cui acque basse erano divise da quelle marine soltanto da una vasta striscia di sabbia bianca. Quella sera la distesa d’acqua era buia, tranquilla e silenziosa, in aspro contrasto con le acque della Manica, mosse, crestate di bianco. Lily e Lowdy si spogliarono accanto a una fila di massi tondeggianti alti e neri, che dividevano la stretta spiaggia. «Ma non farai il bagno con la biancheria, vero?» Lily guardò la robusta nudità di Lowdy. Rabbrividì. «E tu, non indossi proprio nulla?»


«Accidenti, che possa affogare se lo farò! E che cosa indosserai domani, eh? Non si asciugherebbe neppure in tempo. Vieni, Lily, lascia da parte le tue fisime e andiamo in acqua.» Lily esitò ancora qualche secondo, pensosa. Si tolse lentamente la lunga camicia logora e rammendata, con movimenti cauti, non sapendo cosa avrebbe provato. Non si era mai spogliata, se non a casa. Ma non successe nulla: dozzine di teste non sbucarono dagli alberi fitti della foresta urlandole di coprirsi, come si era in parte aspettata. E l’aria tiepida della notte sulla pelle era veramente deliziosa. Guardandosi i seni bianchi e pieni, il ventre e le cosce, rabbrividì con un fremito illecito. Aveva pensato che rubare le mele fosse un peccato eccitante, ma scompariva divenendo veramente insignificante di fronte al fatto di farsi un bagno nuda, a mezzanotte. Camminò verso il bordo del lago facendo molta attenzione sulle pietre lisce e la sabbia morbida, pensando che non aveva nemmeno mai camminato a piedi nudi fuori di casa. Le onde le lambivano delicatamente le dita dei piedi; proseguì cautamente nell’acqua. «Entra in una volta sola», la consigliò Lowdy, già distante. «Diventa calda e piacevole in un istante.» «Ma non so nuotare.» «Nemmeno io; rimango in piedi.» Fattasi coraggio, Lily entrò in acqua fino alla vita, trattenendo il fiato dinanzi a quella frescura inaspettata. Ma in effetti, nel giro di pochi secondi, percepì una sensazione di calore e piacere, fletté le ginocchia e lasciò che l’acqua le raggiungesse le spalle. «Oh, ma è meraviglioso, è bellissimo!» rise, allargando le braccia. Si avvicinò ancor più a Lowdy, dove l’acqua era più profonda. Il fondo fangoso era freddo e scivoloso. «Oh, ma riesci a stare a galla», disse con invidia. «Tutti ci riescono.» «Io no.» Ma nonostante quelle parole, si lasciò andare all’indietro sollevando le gambe, godendo del freddo sulla nuca quando il capo toccò l’acqua, poi cercò di imitare Lowdy in quella posizione che pareva così rilassante. Affondò. «Inspira profondamente e rimani immobile. Non fare un solo gesto, è questo il trucco», disse Lowdy quando Lily riapparve in superficie e smise di tossire. Dopo qualche altro tentativo, Lily riuscì a galleggiare in superficie. Fissò la luna argentea, tenendo gambe e braccia divaricate, inspirando con delicatezza, soprattutto contenta di avere imparato qualcosa di nuovo. Si disse che in momenti simili era quasi possibile considerare le circostanze attuali come una vera e propria avventura: se avesse potuto vedere la fine di quel periodo, - un’interruzione di ciò che considerava ancora, speranzosa, la sua vera vita. - avrebbe anche potuto essere contenta, di tanto in tanto. Ma, a dire il vero, non riusciva a vederne la fine. Decise tuttavia di continuare a essere ottimista: invece di rimuginare sulla tristezza della sua situazione, iniziò a giocare con Lowdy spruzzandola d’acqua. «Che cosa c’è?» Devon per un istante smise di asciugarsi le gambe con la camicia e ascoltò. «Che cosa? Non sento nulla.» Si infilò i pantaloni, poi si fermò di nuovo. «Ora lo sento. Mi è parso come un urlo.» Gettò la camicia nell’erba e si spostò verso quel suono – un urlo di donna, stridulo. Lo sentì nuovamente, e accelerò il passo. Clay lo seguiva dappresso, cercando nel frattempo di allacciarsi i pantaloni e lottando per


infilarvi la camicia bagnata. La luce della luna piena illuminava il sentiero sabbioso che costeggiava il lago. Quando si ritrovò a una dozzina di passi dai massi tondeggianti, Devon si fermò. Clay quasi gli andò addosso. Lily e Lowdy uscirono dall’acqua camminando sulla sabbia fitta, dirigendosi verso i vestiti, ancora ridendo. Proprio in quel momento, compresero di essere uscite sulla riva sbagliata. Poi, improvvisamente, videro i due uomini. Lowdy gettò un urlo e si slanciò in avanti. Lily la seguì, senza pensare, sentendosi mancare quando scoprì che non vi era alcun nascondiglio: davanti alle alte rocce c’era un intrico impenetrabile di erbe e rododendri selvatici. Sarebbe stato meglio che fossero rientrate in acqua! Ma ora era troppo tardi, e cercar rifugio nel lago avrebbe significato esporre ancora i loro corpi nudi a quegli sguardi. Stringendosi le braccia al seno, Lily rimase accanto a Lowdy dinanzi al masso più alto, la schiena rivolta verso i due Darkwell, aspettando che se ne andassero. Ma non lo fecero. «Mio Dio», sussurrò Clay. «Ma sono due sirene.» Lanciò a Devon uno sguardo pieno di speranza. «Non penso proprio che abbia intenzione di parlare con loro, vero? Sono due cameriere; riconosco quella alta, è...» «Lo so benissimo chi è.» «Oh.» Quell’affermazione lo sorprese. «Ebbene, stavo solo pensando, beh... insomma, si tratta di un incontro fortunato, loro sono in due, noi pure, sembra quasi che il destino sia dalla nostra, se tu...», ma si interruppe subito, sorpreso nel vedere che suo fratello si stava allontanando da lui, diretto verso le due giovani che si stringevano alle rocce, «...se tu credessi in questo genere di cose.» Si affrettò a seguirlo. È impossibile, pensò Lily, sentendo che stavano dirigendosi verso di loro; non vorranno venire a parlare con noi! Fece uno sforzo assurdo per farsi più piccola. Quanto più si avvicinavano, tanto più forte cresceva in lei il desiderio di infilarsi nel masso e scomparire. Lowdy iniziò a ridacchiare come una scema; avrebbe voluto prenderla a schiaffi. Ora i due uomini erano proprio dietro di loro: Lily se ne accorse poiché persino l’aria circostante pareva diversa da prima. Le sembrava addirittura di sentirli respirare. Ma pur essendo più che cosciente della situazione, trasalì quando sentì una voce maschile salutarle, vicinissima a loro: «Buonasera, signore». Riconobbe immediatamente quel tono affabile, allegro e impertinente e si disse che era stato il più giovane dei due padroni a parlare. Ma era la presenza del fratello maggiore che percepiva più intensamente, immaginando persino di sentire sulla schiena lo sguardo freddo, blu-verde dell’uomo. «Buona sera a voi», rispose Lowdy, con una risatella sciocca che irritò ancor più Lily. «Ma che piacere inaspettato, incontrare a quest’ora della sera due belle giovani come voi. Io e mio fratello ci stavamo chiedendo se, per caso, vorreste venire con noi a fare una passeggiata lungo la riva del lago. Potremmo anche fare il bagno assieme, se siete d’accordo. Eh? La cosa vi interessa anche solo un pochino?» Lowdy disse subito di sì, e Lily la fissò stupefatta e incredula, pensando di avere capito male. E invece la sua amica aveva proprio accettato quell’invito, e ora


continuava a ridacchiare in modo idiota e irritante, tenendo un poco la testa di lato, tanto da far provare a Lily il desiderio di prenderla per le spalle e scuoterla fino a farle scricchiolare i denti. «Beh, allora è tutto a posto», disse Clay, ridendo. «E tu?» chiese poi rivolgendosi a Lily. «No! Vi prego, andatevene.» Ogni muscolo del suo corpo trasalì quando Devon Darkwell disse con voce bassa, imperiosa, che lei percepì più con il corpo che con le orecchie: «Sì, Clay, penso che sia meglio». Il fratello lo guardò incerto, e allora Devon chiarì quanto aveva appena detto. «Lasciaci soli, Clay. Tu e la tua amica fatevi una bella passeggiata.» Clay tacque, più sorpreso che dispiaciuto. Lowdy si volse e lo fissò senza arrossire minimamente; lui le prese automaticamente la mano, quasi senza guardarla. «Non ricordo più, Dev, l’ultima volta che hai fatto pesare su di me la tua autorità di fratello maggiore», gli disse sorpreso, guardandolo di sottecchi mentre si allontanava con Lowdy, che non smetteva di ridere. Poi scomparve alla vista, e Lily rimase sola con il visconte di Sandown. Devon si sforzò di non chiedersi più cosa avesse intenzione di fare; se ci avesse pensato ancora per un solo minuto si sarebbe allontanato dalla ragazza senza nemmeno voltarsi a guardarla. Ma non voleva andarsene, e soprattutto non voleva smettere di guardarla. Avrebbe voluto toccarla. Il vestito logoro che aveva indossato quel giorno quando era entrata nella sua camera aveva perfettamente celato la bellezza della giovane sotto il cotone blu ormai stinto. Senza quasi accorgersene, tese una mano verso Lily, ma si trattenne a pochi centimetri dalla spalla. Il suo braccio gettava un’ombra scura sulla pelle resa argentea dalla luna, e sulla massa di capelli scuri che ricadeva abbondante. Vide le bianche dita di Lily strette forte alle braccia. Avrebbe voluto sentire ancora la sua voce. «Non ti volti?» Scrollò il capo. «No?» insistette. «No.» «Ma devi farlo. Hai mai sentito parlare del droit du seigneur?» mormorò con una nota insolita in lui, quasi parlando a se stesso. Senza pensarci nemmeno un istante, Lily sbottò. «Ma era un’abitudine normanna, non della Cornovaglia, e, in ogni caso, sono ormai seicento anni che non esiste più.» «La mano di Devon, che era rimasta sospesa a mezz’aria, trasalì. «E tu come fai a saperlo?» chiese sorpreso. Lily si morse la lingua. «Vi prego, vi prego... Non posso parlare con voi in questo stato!» «E perché? Sei imbarazzata?» Gli sembrava quasi una statua marmorea raffigurante una dea, alta e diritta e snella. Sentì l’impulso di accarezzare ogni fragile vertebra di quel corpo con la punta delle dita, lentamente, scendendo lungo la vita sottile fino alle natiche piene. «Ma sei troppo bella per provare imbarazzo.» Poi, d’impulso, le chiese: «Vieni da me, questa notte. Vieni nella mia stanza». Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, se ne pentì. Lily era così tesa che avrebbe voluto piangere. «No, non posso. Non posso. Vi siete


sbagliato mio signore, io non sono, non sono come Lowdy.» «La tua amica?» Annuì. «No, l’ho capito subito», mormorò. «Non sei affatto come lei.» Il pentimento lo abbandonò immediatamente. Ormai, gli era impossibile non toccare quella pelle morbida; i suoi scrupoli erano svaniti: dopo tutto, era solo una cameriera. Ma quando allontanò la massa di capelli umidi e passò le dita lungo la linea delicata della spina dorsale, lei sussultò e iniziò a tremare dalle spalle fino alle lunghe cosce bianche. «Dovete lasciarmi andare», Lily lo pregò con un sussurro. «Ma non ti sto trattenendo.» «Vi prego. Non capite.» Quello che capiva era invece che lei aveva bisogno di maniere più delicate. Con profonda riluttanza, allontanò la mano; quando, nell’atto, le sfiorò un fianco, lei tremò di nuovo, irrigidendosi. «Vieni da me domani, allora», le suggerì in un sussurro. «Nel pomeriggio. Andremo assieme a fare una passeggiata.» Disse la prima cosa che le veniva in mente. «Devo pulire il pavimento della cucina, domani pomeriggio.» Accennò un sorriso. «Ammiro la tua diligenza, ma penso che potresti anche fare uno sforzo e rimandare quell’impegno, non trovi? Alle quattro, vicino al cancello del giardino.» Lily inspirò profondamente. «Una passeggiata?» Lui annuì solennemente. «Una passeggiata.» «E se verrò, ora ve ne andrete?» «Stai cercando di fare un patto con me?» Sentendo che lei non rispondeva, assunse un tono solenne nell’accettare la proposta di lei. «Sì, me ne andrò.» «Molto bene, allora. Io... io verrò.» «Ne sono veramente contento.» Chissà se quella ragazza aveva davvero pensato che lui potesse anche accettare un rifiuto da parte sua? Ci fu una lunga pausa. «Ebbene?» chiese Lily alla fine. Non sarebbe riuscita ancora a lungo a sopportare quella situazione. «Ah, sì, avevo dimenticato. Il patto.» Fece un passo indietro, guardandola per l’ultima volta. Poi, complimentandosi per la sua rinuncia da santo, si allontanò lasciandola sola.

Capitolo sesto Ma quando vennero le quattro del giorno seguente, Lily era in ginocchio su uno strato di soda caustica, intenta a pulire il pavimento di piastrelle della dispensa con una spazzola di setola. Devon la trovò alle quattro e venti. Era palesemente irritato, e questo, per due ragioni: in primo luogo, incapacità di capire, alla luce del giorno, che cosa mai gli fosse apparso così impellente la sera precedente; e poi sorpresa, sbigottimento in quanto lui era andato veramente a quell’appuntamento, aveva aspettato come un giovane paggio innamorato – e lei aveva avuto il coraggio di non presentarsi! Clay aveva ragione, si disse con rabbia; avrebbe dovuto uscire di più. La


prossima volta che suo fratello fosse andato a Truro a puttane, decise che l’avrebbe accompagnato. Allora, forse, non si sarebbe più fatto trattare da stupido in casa sua. Mentre era intenta a pulire e sfregare con forza, Lily vide comunque la sua lunga ombra nera sul pavimento. Sobbalzò, e la spazzola le sfuggì dalle dita sottili. Rimase accovacciata, ma si stirò nervosamente la gonna. Il grembiule che indossava era zuppo, ma aveva legato il bordo della gonna con dei nastri in modo da tenerla sollevata dalle piastrelle bagnate. Si sentiva sciatta e spettinata, completamente priva di fascino. «Non sono potuta venire», sbottò immediatamente prima che lui potesse dire qualcosa. «Mrs Howe dice che devo assolutamente finire con questo pavimento e poi aiutare un’altra cameriera a lucidare. Mi spiace. Avrei voluto venire ma... non ho potuto.» «Alzati.» Lily lo fissò in volto. Ora l’espressione di Devon era più che seria e lontana: era arrabbiata. Non se l’aspettava. Si alzò a fatica, pulendosi le mani nel grembiule di tela grezza. «Pare che tu non abbia capito. Tu non lavori per Mrs Howe, tu lavori per me. Se hai intenzione di continuare a farlo, dovrai imparare a obbedire ai miei ordini non ai suoi – almeno non quando i suoi contraddicono i miei. Sono stato chiaro?» Lily alzò il mento, drizzando le spalle. «Sì, mio signore, è perfettamente chiaro.» Vedendo che lei si sforzava di controllarsi, Devon sentì in parte svanire la propria rabbia. «Bene. Allora ricominciamo. Ti aspetto al cancello del parco tra dieci minuti.» La guardò sollevando le sopracciglia. «Sì, mio signore.» E fece un inchino molto sarcastico. Le sopracciglia si alzarono ancor più, ma non disse una parola, limitandosi a voltarsi e a uscire con passo sicuro. Lily pensò tra sé e sé a tutte le imprecazioni che conosceva. In questo modo riuscì a placare la propria rabbia, ma non riuscì a calmare i nervi. Quando Mrs Howe aveva rifiutato di concederle un’ora di libertà quel pomeriggio – per imbucare una lettera in paese, aveva inventato – la sua prima reazione era stata di sincero sollievo: almeno non avrebbe dovuto incontrare il padrone, e non per colpa propria, e non per vigliaccheria. Non aveva mai immaginato che lui sarebbe venuto a cercarla. Ma che cosa voleva poi da lei? Una «passeggiata», le aveva detto. Ma possibile che la prendesse per una sciocca ingenua? Una passeggiata era stata certamente l’ultima cosa che avesse in mente la sera precedente; e non riusciva a vedere alcun motivo per cui avesse dovuto cambiare idea proprio ora che il sole splendeva. Bene, l’avrebbe ben presto scoperto. E indipendentemente da quello che lui aveva in mente, una passeggiata sarebbe stata davvero l’unica cosa che avrebbe ottenuto da lei. Oggi non era priva di difese, vulnerabile e nuda e l’imbarazzo intenso che aveva provato non sarebbe più stata un’arma che lui avrebbe potuto usare contro di lei. Uscì, slacciandosi i lacci che tenevano sollevate le gonne, cercando di lisciare le pieghe. Inutilmente. E scioccamente pure: se avesse voluto piacergli – cosa che non voleva affatto – le ci sarebbe voluto ben più di una veste priva di pieghe. O molto meno, si disse acidamente, sapendo che era stata proprio la mancanza di abiti della sera precedente ad attirare l’interesse dell’uomo. E allora, che importava: che il padrone la vedesse alla luce del giorno con l’unico abito che aveva, con ogni toppa e


ogni piega bene al suo posto; che le vedesse le mani rosse e screpolate dal lavoro e il naso lentigginoso; i capelli spettinati raccolti alla bell’e meglio nella vecchia cuffietta grigia di Lowdy. Così conciata avrebbe raffreddato l’interesse di quell’uomo nei suoi confronti, e poi la sua vita avrebbe potuto riprendere normalmente, o almeno nel modo che in quel momento era costretta a ritenere normale. Si rimise a posto la cuffietta con piglio combattivo e si incamminò verso il parco dei cervi. Devon la vide sopraggiungere da una notevole distanza. Era più alta della media, e il suo passo era insolitamente sciolto, aggraziato e deciso al contempo. Si accorse di quando lei lo vide, perché rallentò prontamente il passo, guardando di lato come se qualcosa avesse attirato la sua attenzione. Notò che il profilo della giovane era delizioso, e il suo malumore scomparve e si disse che allora non era uscito del tutto di senno la sera precedente, quando le aveva dato quell’appuntamento. Nel momento in cui lei lo raggiunse, si fermò a una certa distanza e fece un altro inchino – questa volta superficiale, non sarcastico – mormorando: «Signore», con voce bassa. «Smettila una buona volta con quel ‘signore’», ribatté. «Nessuno mi chiama così, tranne il mio cameriere personale e la governante.» «Perché?» «Perché li fa sentire importanti.» In preda al nervosismo, Lily dovette combattere contro il forte impulso di ridere. «Volevo dire, perché nessuno vi chiama ‘signore?» «Perché non voglio.» Ma il suo aspetto era così altero, la sua voce si adeguava perfettamente alla freddezza degli occhi turchesi, il suo naso era severo, arrogante, che questa volta lei rise. Si fece immediatamente di nuovo seria, quando l’uomo la fissò, per nulla divertito. «Come mai oggi non parli più in modo sgrammaticato, con quello strano accento? Anzi, ora che ricordo, anche ieri sera hai dimenticato le tue origini...» Stupida, Dio mio che stupida! Si disse Lily, maledicendo almeno per la centesima volta la sciocca idea che aveva avuto e che fino a quel momento non le aveva procurato che guai. Anche se si era aspettata, prima o poi, una reazione simile, l’immediatezza di quella domanda la sorprese. Non sapendo che rispondere, iniziò a camminare, e lui la seguì, mettendosi al suo fianco, con le mani strette dietro alla schiena. Biancospino e noccioli selvatici orlavano il sentiero. Un tordo poco distante cinguettò, seguito da un’allodola. «Ebbene, signore, ero alla disperata ricerca di un lavoro», rispose con sincerità. «Quando vidi Mrs Howe, nella locanda di Chard, io... io pensai che fosse irlandese.» «Mrs Howe? Pensavi che la mia governante fosse irlandese?» «Sì, beh, un’irlandese scura di capelli. Veramente, signore, pensavo proprio che lo fosse, e in lontananza mi pareva persino che parlasse con quell’accento. E allora ho deciso di dirle che ero irlandese, in modo da esserle simpatica, e sono ricorsa all’accento di mio padre. Lui... lui era irlandese», concluse. Aveva pensato che quello che aveva detto a Lowdy potesse sembrare poco credibile, ma paragonata a questa spiegazione, sembrava quella del Vangelo. Ma, ovviamente, non poteva raccontare al suo datore di lavoro di non aver mai fatto la cameriera e di avere falsificato le referenze! «Comunque, tutto il resto è vero, signore, lo giuro, e la mia ultima padrona


mi ha permesso di farmi una buona esperienza. Sono una brava ragazza, davvero, e lavoro sodo. Non avreste mai il coraggio di licenziarmi per avere mentito in modo da farmi assumere, vero?» Lo guardò attraverso le ciglia, il capo leggermente reclinato in modo civettuolo. Devon inarcò ancora una volta le sopracciglia, e sotto di esse, il suo sguardo freddo aveva la chiara espressione dello scetticismo. «No, non per quello», rispose con un tono che a Lily parve minaccioso. Immediatamente pensò a tutti gli altri motivi di licenziamento. O di arresto. «Da dove vieni?» chiese improvvisamente, interrompendo i pensieri della giovane. «Da Lyme Regis, come ultima tappa.» «E prima?» «Oh, un po’ qua e un po’ là. Mio padre era un girovago.» «E tua madre? Lo era anche lei?» «No, a lei non piaceva. Ma morì quando avevo dieci anni.» «Mi spiace. Qual è il tuo cognome, Lily?» Mormorò quel nome scioccamente preso a prestito. «Che cosa?» «Troublefield», ripeté distintamente, guardandolo diritto negli occhi. Era conscio del fatto che lei lo stesse sfidando, ma a che scopo non ne era sicuro. Per ridere? Per farsi dare della bugiarda? «Un nome serio e onesto», disse lui seriamente. «Non molto irlandese, a dire il vero...» «No, la madre di mio padre era una O’Herlihy.» Almeno quello era vero, si disse. Quando passò un lungo, interminabile minuto senza che Devon le facesse qualche altra domanda, sperò che il discorso sulle sue origini fosse chiuso definitivamente. Stavano attraversando un fitto boschetto di abeti e ontani i cui rami ricurvi bloccavano gli ultimi raggi del sole pomeridiano facendo piombare l’intero sentiero nella semioscurità. Lily notò che il parco di Devon Darkwell non era particolarmente ben tenuto. Evidentemente era più interessato ai terreni coltivati, ai pascoli e agli allevamenti, oltre alle miniere di rame, piuttosto che a una ricca e nobile dimora. Molto di lui la affascinava, e avrebbe voluto porgli tante domande, ma ovviamente non poteva osare tanto. Sarebbe stato un errore troppo grave quello di dimenticare il proprio ruolo e cercare di parlargli quasi allo stesso livello, come una nobildonna avrebbe parlato a un gentiluomo. Una cameriera doveva sapere qual era il suo posto in qualsiasi circostanza e che non doveva chiedere al padrone qualcosa circa la sua vita privata. Era frustrante, specialmente perché lui poteva chiederle tutto quanto voleva circa la sua vita privata, e lei avrebbe dovuto sempre rispondere, pena essere ripresa, o licenziata anche, per impertinenza! Proprio in quel momento lui allungò una mano verso di lei e le prese il braccio, trascinandola verso lo stretto sentiero che si dipartiva da quello principale. Prima che gli alberi le occludessero la vista, riuscì a scorgere, sul sentiero principale, un uomo che si stava avvicinando. «Ma... ma non era Mr Cobb?» «Sì...» Il suo tono era brusco e imperioso; Lily si zittì. Qualche minuto dopo, uscirono dalla foresta e si ritrovarono in una radura sulla sommità di una scogliera. Il vento salmastro che le sollevava le gonne aveva un profumo fresco, selvaggio. Uccelli marini si abbassavano stridendo sull’acqua pallida, verde opale, e di lontano scorse


un paio di pescherecci che si muovevano come navi giocattolo. La spiaggia sottostante, con molti massi ben visibili, era stretta e raggiungibile scendendo gradini rozzamente scolpiti nella roccia. Devon indicò la roccia più grossa. «Lo vedi quel masso laggiù, con gli anelli di ferro su un lato?» Lily si schermò gli occhi con una mano e li strizzò. «Sì, lo vedo.» «Si chiama la ‘roccia degli annegati’. E questa è la ‘baia degli annegati’. Anni fa, nelle serate tempestose, così per lo meno si racconta, gli uomini che abitavano qui vicino erano soliti accendere delle lampade in questo punto in modo da richiamare l’attenzione delle navi che transitavano. Se erano nei guai, le navi si dirigevano prontamente verso quello che pensavano fosse un porto sicuro. Ma le rocce qui sono invisibili e pericolosissime, e le navi vi si incagliavano, per poi affondare nella risacca.» «Ah sì, i saccheggiatori. Ne ho sentito parlare.» «E i marinai che avevano la sfortuna di sopravvivere venivano legati a quella roccia laggiù e lasciati ad annegare quando fosse tornata l’alta marea. Nel frattempo, i saccheggiatori depredavano le navi naufragate.» Lily rabbrividì, immaginandosi quelle scene. «Ho sentito storie del genere sulle coste della Cornovaglia, ma non ci avevo mai veramente creduto.» «Perché no?» «Beh... perché legare i marinai a una roccia e lasciarli annegare? Perché non ucciderli direttamente in un modo più veloce? E non potrebbe darsi che quegli anelli di metallo fossero stati posti laggiù semplicemente per legarvi le barche?» Lui sorrise leggermente. «Vedo che sei un tipo cinico.» «No, signore. Penso che sia molto più cinico credere che gli uomini possano trattarsi tra loro in modo tanto crudele.» Ma Devon stava invece pensando quanto quella giovane fosse graziosa con le lunghe ciglia e gli occhi di un verde sorprendente, ora che il suo volto era illuminato dalla dolce luce del tramonto. Quando Devon non le rispose, Lily chiese: «Ma credete alla storia?» L’uomo fissò lo sguardo sulle onde frangiate di spuma candida, ricordando quando lui e Clay giocavano ai pirati in quella baia. Erano soliti esplorare le caverne che si aprivano sul pendio roccioso e quindi fingere di legarsi a vicenda alla roccia quando c’era la bassa marea. Anni prima, quando non avevano un pensiero al mondo. La ragazza stava ancora aspettando una risposta, ma improvvisamente Devon aveva perduto la voglia di parlare. Voleva vedere il colore dei capelli di Lily alla luce del sole. Senza dirle nulla, le tolse la cuffia, così che una massa di riccioli rossi le ricadde sulle spalle. Lily era così sorpresa che si portò subito le mani alla testa, come se le avesse tolto la parrucca. «Signore!» urlò prima che lui la attirasse, sempre senza parlare, tra le sue braccia. Lei cercò automaticamente di divincolarsi, ma lui la trattenne fermamente e la baciò sulla bocca. Lily rimase perfettamente immobile. Devon si ritrasse, aggrottando la fronte. «Vorrei baciarti.» Lei si disse che la richiesta arrivava un po’ in ritardo. «Credo che l’abbiate già fatto.» L’espressione corrucciata lasciò il posto a un cauto sorriso. «Vorrei baciarti


ancora.» Se avesse detto: «Posso?» lei avrebbe risposto subito di no. Ma lui non chiese nulla, e lei perse l’occasione di rifiutare. Si avvicinò lentamente, questa volta, e sebbene lei avrebbe voluto rimanere ancora immobile, come prima, senza accorgersene iniziò a cedergli, abbandonandosi contro di lui. Le labbra di Devon erano calde, e la cosa la sorprese. Sfiorarono le sue con una pressione leggerà, carezzevole, e quando le baciò gli angoli della bocca produssero anche un suono delicato, indescrivibile, che la fece tremare. Lily si ritrasse quando sentì la punta bagnata della lingua scivolarle tra i denti, mentre Devon le posava una mano sulla nuca, tenendola ferma. Disse nuovamente: «Oh», ma non parve affatto una protesta. Per alcuni istanti Lily provò a rimanere distaccata, a stabilire le proprie reazioni nei confronti di questo nuovo e più intimo modo di baciare. Poi dimenticò tutto. Il respiro dell’uomo sulla sua guancia era piacevole e seducente; i suoi occhi chiusi la spingevano a chiuderli a sua volta. Sentì propagarsi in tutto il corpo un calore delizioso, che scivolava denso e lento, come miele. Passarono alcuni istanti, poi cedette e aprì la bocca quando le labbra virili lo richiesero, appoggiandosi alle sue spalle robuste nel momento in cui le ginocchia iniziarono a tremarle. Si allontanò da lei così improvvisamente che quasi cadde contro di lui. Disorientata, lo guardò senza capire, mentre si toglieva il mantello di panno marrone e lo distendeva sul terreno, a pochi passi di distanza. Comprese le sue intenzioni nel momento stesso in cui lui le prese la mano. Ma Lily si ritrasse, raccolse la propria cuffia e gli voltò la schiena, fissando le acque buie della Manica. In cielo, un gabbiano solitario emetteva urla stridule, con furia meccanica. Devon sfruttò quel momento per riprendere fiato. Fissava la schiena rigida di Lily, ricordando con estrema precisione come le era apparsa la notte precedente, nuda e bagnata. Poi sentì che la sorpresa si stava tramutando in ira. Ormai, aveva perso troppo tempo a corteggiare quella ragazza, si disse. Avrebbero già dovuto essere arrivati al dunque. L’aveva portata sin lì con un solo scopo: una rapida cavalcata, come avrebbe detto suo fratello. Il fatto che quella improvvisa timidezza fosse vera o finta non lo interessava; voleva solo giungere a una spiegazione con lei, in un modo o nell’altro, ma in fretta. Le girò attorno in modo da trovarsi dinanzi a lei. «Che cosa ti succede?» le chiese senza alcuna gentilezza. «Vuoi stare con me o no?» Lily era sconvolta. Si sforzò di rispondere, ancora tremante per quel bacio, lottando contro il proprio orgoglio e le emozioni ferite, contro una rabbia sorda che la stava pervadendo. «No, non voglio», riuscì a rispondere senza piangere. Devon la fissò per un lungo minuto, tenendosi le mani sui fianchi. «Bene. Allora, andiamo.» Raccolse il mantello e si incamminò a passo rapido, ripercorrendo il sentiero percorso qualche istante prima. Lei lo seguì automaticamente per un paio di minuti, senza pensare. Poi si fermò. La rabbia stava avendo il sopravvento, e riprese a tremare. Qualche metro più in là, Devon si volse a fissarla; poi, lasciando da parte tutte le esitazioni, ritornò da lei. «Perché no?» chiese riluttante. «Ma non vi conosco nemmeno!» Facendo uno sforzo tremendo, si ricordò che lei avrebbe dovuto comportarsi come una cameriera, come Lowdy. «E io... ho un


fidanzato», aggiunse immediatamente. «Non gli andrebbe giù.» Devon annuì lentamente. Adesso il conto tornava. Lily si volse appena per rimettersi la cuffia, infilandovi tutta la sua gloria di capelli fiammanti. Rimase sconvolto dal senso di perdita e dalla tristezza che lo invase di fronte a ciò che stava per perdere. Quando tutti i capelli furono in ordine, si volse di nuovo, tenendo bassi gli occhi verdi. Non riuscì a trattenersi. «Ma a lui non importa se ci baciamo, vero?» «Che cosa?» La prese di nuovo tra le braccia. «Al tuo giovane fidanzato non importa se facciamo così», sussurrò baciandola con forza. La resistenza di Lily si dissolse al primo contatto delle sue labbra. Era come se non avessero mai smesso di baciarsi, come se quella lunga pausa fosse stata un grave errore di cui si erano pentiti, e che ora erano pronti a rimediare. Lily strinse le braccia attorno al collo di Devon, premendosi a lui, ogni senso eccitato e vinto dalla bocca di lui e dalle carezze sulla schiena. Le tolse di nuovo la cuffia e le affondò le dita tra i capelli, senza mai interrompere il bacio, mentre Lily mormorava la più totale arrendevolezza sulle sue labbra, nella sua bocca. Mentre lasciava scivolare le mani sulla schiena fino alle natiche, Devon mormorava parole sconnesse, di desiderio e gioia. Quella parte del corpo di Lily era soda e morbida come se l’era immaginata, e si rammaricava che non fossero nudi. Ma si poteva comunque sempre rimediare alla cosa. Che lei avesse un innamorato lo trattenne per meno di un secondo, e poi iniziò subito a sollevarle le gonne, denudando prima i polpacci, poi le ginocchia, poi le cosce sottili. Lily sussultò quando comprese cosa stava avvenendo e cercò di allontanarlo da sé. Devon dovette lasciare le gonne di Lily per cingerla in vita e attirarla di nuovo a sé, baciandola ancora, senza sosta, gioiendo perché la sentiva farsi di nuovo arrendevole. «Lily, Lily», mormorò, seducendola anche con l’intensità del proprio desiderio. Poi trovò i bottoni del corpetto e iniziò a slacciarli: compito troppo lungo per lui che non aveva pazienza. A metà dell’opera, vi rinunciò e preferì infilare dentro una mano, afferrando un seno pieno, morbido. Con un urlo mozzato, di autorinuncia e di spavento, Lily si divincolò nuovamente. Si volse, respirando affannosamente, quasi piangendo, trattenendo con le mani tremanti due lembi del vestito. Devon chiuse gli occhi e ascoltò il battito impazzito del suo cuore, più forte del rombo del mare, più forte di qualsiasi cosa. Con filosofia, ecco come doveva accogliere questo secondo rifiuto. Ed era un rifiuto, non civetteria o falso pudore. Anche Lily si sentiva frustrata – e soltanto questa considerazione gli dava un poco di sollievo. Quando lei si voltò, Devon provò l’insolito impulso di chiederle scusa, ma lo represse prontamente. Lei sembrava così triste... «Devo credere, Lily», chiese con tono volutamente ciarliero, «che con ogni probabilità non cambierai idea?» Lei arrossì furiosamente. Era davvero l’uomo più esplicito che avesse mai conosciuto. Avrebbe voluto che la risposta le si materializzasse sulle labbra più velocemente. Con sforzo, riuscì a dirgli: «No, signore, non cambierò idea». «Ah, peccato.» Il suo dispiacere era sincero. «Penso che ti sarebbe piaciuto, davvero. Sono certo che mi sarebbe piaciuto.» Lei arrossì di nuovo, facendolo quasi sorridere. «E allora, forse è meglio che torni a casa. Ti seguirò tra qualche istante.» Improvvisamente, lei comprese. Capì perché lui le aveva detto di raggiungerlo nel


parco, perché l’aveva costretta ad allontanarsi dal sentiero al passaggio di Cobb, perché ora voleva che lei tornasse nella grande casa senza di lui. Si vergognava di farsi vedere con lei. Quella constatazione la fece ammutolire. Si sentì umiliata nel più profondo, e dovette fare uno sforzo enorme per non scoppiare in un pianto dirotto dinanzi a lui. Ma prima che potesse spostarsi o parlare, udì dei passi veloci sul sentiero dinanzi a loro. Anche Devon li sentì nello stesso momento, e subito si volse per affrontare l’intruso, il corpo che già assumeva una posizione combattiva. Era Clay. Di umore diverso, Lily avrebbe anche potuto trovare quella sorpresa comica. Percepì l’imbarazzo di Devon e lo condivise, pur godendo in piccola parte di una maligna soddisfazione al pensiero che il suo vergognoso segreto, cioè lei stessa, fosse stato ormai scoperto. Gli vide il volto indurirsi ancor più, come a sfidare il fratello a dire o anche solo pensare qualcosa di divertente. Ma Clay non vedeva l’ora di riferirgli delle notizie. Trasse Devon di lato, in modo che Lily non potesse sentirlo, e gli parlò eccitato. La giovane non fece alcuno sforzo per sentire, ma non poté fare a meno di guardare: era chiaro che stessero litigando. Clay stava chiedendo qualche cosa, e Devon continuava a rifiutare senza alcuna esitazione. Lily si disse che avrebbe aspettato che avessero finito, così che il suo padrone potesse congedarla. «Se non ci proveremo questa notte, sarà troppo tardi! Ve ne sono solo sei, ora; entro domani altri uomini della Finanza verranno qui, e allora sarà veramente impossibile.» «Già ora è impossibile. L’hanno preso, Clay, hanno lo Spider, è loro ormai. È soltanto questione di tempo, ore magari, prima che lo confischino formalmente. Doveva succedere prima o poi.» «Non, se lo riportiamo qui, stanotte! Ho tre uomini già pronti; ne potrei trovare di più, ma non c’è tempo. Se ci aiuterai, Dev, potremmo soffiarglielo sotto il naso. Io potrei poi andare in Francia, questa notte stessa, non se ne accorgerebbero nemmeno!» «Ma lascialo perdere, quel maledetto sloop! Per l’amor di Dio, è ora che la smetti con questa sciocchezza.» Clay strinse le mascelle, con aria cocciuta. «No. Non lo lascerò morire in questo modo, non lascerò che un gruppo di bastardi governativi incompetenti lo porti docilmente a Londra. Diavolo, probabilmente se lo terranno e ne faranno uno dei loro cutter. Piuttosto preferisco farlo affondare con le mie mani prima che lo facciano loro!» «Oh, per...» «Dannazione, se non mi aiuterai, ci andrò da solo.» Devon non fu nemmeno sfiorato dal dubbio che non l’avrebbe fatto. Ma improvvisamente gli venne un’idea. «E va bene, verrò.» Si tolse nervosamente la mano che Clay gli aveva posato sulla spalla. «Ma alle mie condizioni. Se riprenderemo quella maledetta barca, devi promettermi che la venderai o l’affonderai o farai qualsiasi altra cosa, ma in un modo o nell’altro te ne libererai. Siamo d’accordo?» Clay assunse immediatamente un’aria triste e sofferta. Non riusciva nemmeno a parlare. «Accidenti, va bene», riuscì a dire alla fine, volgendosi verso il sentiero.


«Benissimo!» disse Devon battendogli su una spalla, sorridendo soddisfatto. Lily, con la bocca spalancata, li seguì con lo sguardo. Il padrone non si era mai voltato nemmeno una volta; evidentemente si era dimenticato di lei. Si sentì nuovamente gelare, era furiosa e umiliata al contempo. Ma era stanca di sentirsi umiliata e offesa. Seguendoli a una certa distanza, lentamente, cercò di trovare il lato divertente della faccenda, ma non riuscì a scorgerne nemmeno uno. Specialmente quando, più tardi quella sera, Mrs Howe le fece saltare la cena perché si era assentata dal lavoro.

Capitolo settimo Finite le preghiere, era ora di andare a letto. Lily, tuttavia, preferì attardarsi quando vide che Lowdy si fermava ad aspettarla in corridoio. «Vai pure avanti», le disse. «Voglio finire questo rammendo. Ti raggiungerò fra un minuto.» Ma quando Mrs Howe le ordinò di andare a letto, circa mezz’ora dopo, Lily non si sentiva ancora di affrontare il caldo di quella minuscola camera, di sdraiarsi su quel materasso scomodo e bitorzoluto e ascoltare il russare calmo e soddisfatto di Lowdy per un’ora o più. Era stanca, ma il temporale che stava sopraggiungendo la rendeva inquieta e tesa. Augurò alla governante una brusca buonanotte, ma invece di continuare a salire le scale, quando raggiunse il pianerottolo del primo piano, si diresse silenziosamente verso la biblioteca, percorrendo il corridoio buio come la pece. Le porte-finestre erano chiuse a chiave: lei le aprì e scivolò fuori. Il vento sibilava selvaggiamente, ora. Fece appena in tempo a togliersi la cuffia prima che le volasse via, e la infilò in qualche modo nella tasca del vestito. Le nuvole passavano dinanzi alla luna in lembi irregolari, oscurando di quando in quando il cammino e facendola inciampare un paio di volte sul sentiero che circondava la casa e portava alla strada principale. Voleva raggiungere il cancello e tornare indietro: forse, poi, sarebbe riuscita a dormire. A metà strada, tuttavia, venne presa dalla bellezza suggestiva del momento. I tuoni rumoreggiavano fragorosamente ovunque, e ora il vento stava soffiando con una violenza forte e selvaggia che Lily non aveva mai visto prima. Gocce di pioggia acuminate come aghi le colpivano il volto, avvisandola che la tempesta che aveva minacciato di abbattersi sulla zona per tutta la sera stava per scatenarsi. Ma era quell’atmosfera selvaggia, forte e possente che la attirava, che la invitava a proseguire, spaventata ed eccitata al contempo, a spingersi sempre più avanti nel nero rumoreggiare della notte. Si scostò i capelli dal viso e li trattenne con il pugno chiuso, anche se ormai importava ben poco, visto che l’oscurità era veramente totale e cercare di vedere ancora il sentiero era un puro sogno. Il potere temibile del temporale le diede la consapevolezza della propria nullità e dell’assoluta mancanza di importanza di tutte le cose con cui riempiva la propria vita – non una visione del tutto nuova, e nemmeno del tutto spiacevole, perché dietro a essa c’era la consapevolezza che nel giro di mezz’ora sarebbe stata al sicuro nel suo letto.


Il primo lampo la fece trasalire; nella sua fiammata, blu-biancastra, vide il cancello dinanzi a sé, più vicino di quanto avesse immaginato. Il suo lato concreto e timoroso le disse di tornare indietro e rientrare in casa; quello più testardo, invece, le disse che il cancello era la meta che si era prefissa e che, quindi, avrebbe dovuto raggiungerlo prima di fare il cammino a ritroso. La pioggia si era fermata, per ora, ma il vento selvaggio continuava a soffiare, sollevandole le gonne o facendole aderire alle gambe, come le vele di una goletta sorpresa dalla tempesta. Raggiunse finalmente il cancello. Come al solito, era aperto, e quelle volute delicate in ferro battuto servivano ormai più per ornamento che per protezione. Per testimoniare a se stessa di avere raggiunto la propria meta, ma anche per sentire qualcosa di solido tra le dita, tese una mano per toccare uno dei pilastri di mattoni e malta. Per via della furia del vento e del rombo dei tuoni, non aveva udito il rumore di zoccoli, del tutto attutito. Improvvisamente, sentì il nitrito disperato di un cavallo, vide le zampe fendere l’aria a pochi centimetri dal suo volto, poi scorse un cavaliere che cadeva. Si ritrasse cercando rifugio contro la pietra fredda, nella più fonda oscurità, come pietrificata, aspettandosi da un momento all’altro di essere ferita e calpestata. Ma il vento si placò di colpo, e nella relativa quiete che ne seguì il rumore degli zoccoli risuonò dietro di lei, sempre più soffocato, sempre meno intenso. Un secondo dopo, un altro lampo illuminò sul terreno la forma di un uomo che si stava contorcendo, vicinissimo a lei. Nella rinnovata oscurità si diresse verso di lui a braccia tese. Lo toccò con le caviglie nel momento in cui il fulmine illuminò di nuovo la scena. Era il padrone. «Vai a prendere quel cavallo! Il cavallo, dannazione! Fermalo!» Devon pensò di vedere quel bagliore candido di sottane allontanarsi da lui nell’oscurità. Si premette il fazzoletto zuppo contro la ferita alla spalla e gemette, digrignando i denti, pregando di non svenire. Il dolore era comunque diminuito, da quando era a terra; comprese che la caduta non aveva provocato alcuna rottura, che in pratica la situazione non era affatto peggiorata rispetto a mezzo minuto prima. Il che non significava granché. Il pilastro del cancello era dietro di lui – lo vide chiaramente in un bagliore di lampo – e si trascinò a fatica fino ad appoggiarvisi contro. Gli parve di sentire il suo cavallo nitrire. Che la ragazza lo avesse già ritrovato? Oppure era tornato da solo? Lily non aveva esperienza di cavalli spaventati. Quello di Devon, le dette la possibilità di fare una felice scoperta: aveva una innata capacità nel domare cavalli. Quell’incontro fortuito sorprese lei e il cavallo. Inconsapevolmente allungò una mano e afferrò le briglie. Il cavallo si ritrasse nervosamente, ma lei riuscì in un modo o nell’altro a tenerlo fermo; dopo un momento l’animale si calmò al punto che riuscì a portarlo verso quella che sperava fosse la giusta direzione. Alla fine trovò, il padrone del cavallo. Era ancora per terra, e temette che si fosse ferito cadendo. «Siete ferito?» «No, vattene.» Lei si chinò su di lui, trattenendo le redini del cavallo. «Ma se siete ferito...» «Sto bene.» «Lasciate che...» «Vai!» Invece, si inginocchiò dinanzi a lui. «Avete bisogno di aiuto, siete...» Si interruppe di colpo quando vide, alla luce di un altro lampo, la macchia di sangue che


si allargava sulla giacca. Riuscì solo a emettere un suono angosciato, più un gemito che un urlo, e Devon appoggiò di nuovo il capo contro il pilastro della cancellata, chiudendo gli occhi. E tutto questo, per avere voluto tornare a casa senza farsi notare. «Aiutami ad alzarmi.» «Vado a chiamare qualcuno per...» «Dannazione, no! E non dirmi ancora quello che farai. Aiutami ad alzarmi; è un ordine. Hai capito?» «Sì, penso di sì.» «Bene.» Inginocchiata, gli passò le braccia attorno al corpo per cercare di sollevarlo. Un mormorio sordo che proveniva dalla gola le fece capire che gli stava facendo male. L’operazione riuscì meglio quando lui le passò un braccio attorno alle spalle. Insieme si sforzarono di alzarsi, e poi Lily dovette poggiare tutto il suo peso contro di lui per farlo stare in piedi; altrimenti, sarebbe caduto su di lei come un sacco. Rimasero immobili per un paio di minuti, con la schiena dell’uomo contro la cancellata e il peso della giovane contro di lui. Il profumo di cuoio bagnato che proveniva dalla giacca di pelle scamosciata era pungente. «Il cavallo se ne è andato.» Lily guardò dietro di sé. «Deve essere tornato alla sta...» Una serie di imprecazioni la interruppe; fu colpita dalla loro volgarità. Era infuriato. Poi, giunse anche la pioggia. In pochi secondi furono bagnati fino alle ossa. Gocce pesanti, fendenti, li colpivano con la forza di pietre lanciate attaccando gli abiti alla pelle, i capelli al volto. Il vento soffiava di nuovo con un’intensità incredibile, sferzandoli con una ferocia che li spingeva a stringersi l’uno all’altra, proteggendosi il volto l’uno contro il corpo dell’altra. I tuoni si susseguivano fragorosi, i lampi fendevano incessantemente l’oscurità. Lily sentiva la mano di Devon sulla nuca, calda contro la pelle bagnata, che la teneva ferma. Dopo un lungo attimo di violenza inaudita, quando parlare sopra il vento e l’acqua era cosa veramente impossibile, la pioggia smise di colpo, improvvisamente come era iniziata. Ma entrambi sapevano che probabilmente avrebbe ricominciato a cadere, forse in brevissimo tempo. Lei si sciolse da quell’abbraccio, fissando la sagoma dell’uomo, una macchia solo un poco più scura rispetto all’oscurità più chiara dietro di lui. «Vi prego, perché non mi fate andare in cerca di aiuto?» chiese, cercando di mantenersi calma, allontanandosi i capelli grondanti acqua dagli occhi. Devon si limitò a scrollare il capo, e lei si ritrovò a dover soffocare una sequela di imprecazioni. «Potete camminare?» «Certo che posso.» «E allora dobbiamo muoverci ora, prima che inizi di nuovo a piovere. Passate un braccio attorno alle mie spalle. Ho almeno il permesso di chiedervi dove siete ferito?» Si limitò a mormorare qualche parola biascicata, seccato dal suo tono sarcastico, ma alla fine pronunciò un laconico: «Spalla». Lei si portò alla sua destra, così che potesse appoggiarsi a lei con il braccio sano. Meno male che quella ragazza era alta, si disse mentre si mettevano in cammino, a passo di lumaca, lungo il sentiero che conduceva alla casa, a circa un chilometro di distanza.


Dovettero comunque fermarsi qualche minuto dopo, e ancora una dozzina di volte dopo quella, quando ricominciava a piovere oppure quando la debolezza lo costringeva a fermarsi, sotto qualsiasi sorta di rifugio cui fossero vicini. La sua incapacità persino di pensare coerentemente lo sorprendeva; il suo modo di vivere quel momento era in pratica di ignorarlo totalmente, ed era proprio Lily che doveva invitarlo a fermarsi. Devon non si sedeva mai per paura di non riuscire più ad alzarsi, così lei doveva aiutarlo ad appoggiare quel corpo esausto al tronco più vicino, tenendolo in piedi grazie al peso del suo corpo, mentre lui cercava di riprendere le forze per camminare. Alla luce di un lampo, Lily vide una macchia rosa sul suo abito: il sangue di Devon; si chiese quanto ne potesse aver perso. Se fosse svenuto lì, che cosa avrebbe fatto? Se non aveva ancora capito fino a quel momento che quello che lui chiedeva era la più totale segretezza, lo comprese nel momento in cui si avvicinarono al sentiero che conduceva al cottage dell’amministratore. «Lasciatemi andare a chiamare Mr Cobb», lo pregò. «Potrebbe aiutarvi meglio di me.» «No.» Soltanto il pronunciare quella parola gli prosciugò le ultime forze che aveva. Si fermò, afferrandosi a lei con entrambe le braccia per combattere quella nuova vertigine che lo spaventava. Passò, lentamente, e quando se ne fu andata sentì tremare il corpo della ragazza, snello e minuto. «Stai bene?» mormorò tenendo il volto celato tra i suoi capelli bagnati. «Sì, certo.» Sforzandosi, si raddrizzò e strinse con più forza la vita dell’uomo, imponendosi nuova forza nelle gambe indebolite dallo stress e dalla fatica. Se Lily avesse potuto vedere il volto di Devon nell’oscurità, sarebbe rimasta sorpresa di notarvi il lampo di un sorriso. Aveva il suo stesso tono impetuoso e spaccone. Che coppia formavano! «Sono contento di sentirtelo dire. Ma che non ti venga in mente di metterti a correre, comunque. Non mi sento molto in vena.» Lily sorrise. «Forse, un’altra volta», ribatté cercando di imitare il tono asciutto. Alla fine raggiunsero la casa, entrando dalla stessa porta-finestra da cui Lily era uscita qualche ora prima. I primi due piani non erano abitati, quindi non era necessario stare zitti. Ma l’improvvisa pace dopo la furia assordante del temporale era insolita, metteva a disagio; ogni passo, ogni asse di legno che scricchiolava, pareva un’esplosione, e salirono la lunga scala che portava al secondo piano cercando di non far rumore. Nella sua stanza, Devon crollò ai piedi del letto e si appoggiò alla spalliera. Ottenebrato dal dolore e dalla stanchezza, udì il rumore di pietra focaia e acciarino e vide Lily accendere due candele. Nella luce dolce che illuminò improvvisamente la stanza, pensò che lei assomigliasse a un gattino fradicio. Ma lui doveva avere un aspetto ancora peggiore, poiché quando lei si volse, con in mano una candela, impallidì di colpo e spalancò gli occhi spaventata. «Che Dio ci aiuti», mormorò. Devon pareva un cadavere. Gli occhi, l’unico elemento colorato in tutto il viso, erano stralunati e senza vita, forse febbricitanti. Le labbra esangui erano strette in una smorfia di dolore, il corpo infagottato, così vivo e forte pochi istanti prima, ora appariva spossato, quasi inanimato. La giacca di camoscio era ormai nera di sangue rappreso, la camicia macchiata di rosso vivo. «Per


favore», lo pregò, «per l’amor di Dio, dovete lasciare che vada a chiamare un medico.» Pensò che non avrebbe risposto, che il suo sguardo intontito sarebbe stato la risposta. Ma alla fine, con sommo sforzo, parlò, lentamente, cercando di conservare le poche forze rimastegli. «Penso che sembri peggio di quanto sia in realtà. Potendo, non l’avrei voluto, ma temo che tu sia l’unica che possa aiutarmi. Mi spiace.» Lo fissò per alcuni istanti, senza parlare. «E allora, così sia», disse con un’allegria che era ben lungi dal provare, quindi depose la candela. Cercò di aprirgli la giacca con delicatezza, ma i suoi occhi chiusi e il respiro stentato le fecero capire che tutto in lui doleva. Riuscì comunque a sbottonargli la camicia, iniziando poi a sfilargliela dalle spalle. Devon non si muoveva, né apriva bocca. La vista del suo volto la indusse a fermarsi, spaventata, impallidendo quasi quanto lui. «Ci sono delle forbici nella stanza?» «Scrivania. Cassetto.» Le trovò. Seduta accanto a lui, tagliò il tessuto dal polsino al collo, e la camicia, finalmente, cadde. Entrambi respirarono di sollievo. Lily con una mano gli lisciò i capelli bagnati. «Tutto bene?» mormorò. Lui annuì lentamente. La ferita si rivelò un taglio – di coltello? O forse di spada? - nella parte carnosa della spalla, sopra la clavicola. Era profonda, ma per quanto lei riusciva a vedere aveva interessato soltanto carne e muscolo. Se l’arma avesse colpito un poco più a destra, avrebbe reciso la vena giugulare. Trovò brocca e catino sul lavandino e li portò vicino al letto con una manciata di asciugamani. Mentre lui stringeva le dita attorno alla spalliera del letto, per sopportare meglio il dolore, lei pulì il sangue ormai raggrumato e lavò la ferita meglio che poteva. Riusciva a non svenire soltanto grazie alla forza di volontà e alla consapevolezza che non c’era proprio nessun altro che potesse aiutarla. L’avrebbe disprezzata, lei stessa si sarebbe disprezzata, se fosse svenuta ai suoi piedi poiché la ferita era brutta e la vista del sangue la faceva star male. Senza contare che, quando fosse rinvenuta, avrebbe dovuto ricominciare. E allora strinse i denti, soffocò la nausea e il panico che le bloccavano lo stomaco, ed eseguì il suo lavoro nel modo più pulito ed efficiente possibile. «Avrebbe bisogno di punti», lui disse. Lei proseguì intenta il proprio compito, tenendo la testa bassa. «Mi hai sentito?» Passò un angolo bagnato di un asciugamano pulito sulle macchie di sangue sull’ampio torace, sui muscoli addominali, tesi, asciugando con cura la parte subito dopo. Sentiva la gola riarsa. Alla fine si costrinse a sollevare gli occhi. Sussurrò un «Vi prego», quasi senza farsi sentire, e provò una gran vergogna quando sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime. Devon appoggiò la tempia alla testiera del letto. «Va bene», disse sospirando esausto. «Lascia perdere. Fasciala con delle bende, quanto più stretta possibile.» Ubbidì in silenzio, tenendo le spalle chine, passando strisce pulite di tessuto sulle spalle e sotto l’altro braccio, facendo una fasciatura ben stretta. Poi lo aiutò ad alzarsi e lo accompagnò a letto. Gli tolse gli stivali, poi le calze. Avrebbe anche dovuto


sfilargli i pantaloni bagnati, lo sapeva perfettamente, ma un secondo dopo si ritrovò a rimboccargli le coperte. Ecco qui un’altra lezione non richiesta, pensò rabbiosamente, di vigliaccheria. «Vado a prendervi qualcosa da mangiare.» L’aveva sentita? Teneva gli occhi serrati e non rispose. Gli passò leggermente la punta delle dita sui lati del volto e sussurrò: «Adesso starete meglio. Siete al sicuro. Tornerò presto». Ancora nessuna risposta. Uscì silenziosamente dalla stanza. «Dove sei stata?» gli chiese nel momento stesso in cui ritornò, con voce imperiosa, gli occhi troppo brillanti. «Vi ho portato un po’ di minestra. Non è calda, non volevo accendere il...» «Non andare via senza dirmelo.» «No, d’accordo», promise a voce bassa, mentre un brivido di paura l’attraversava. Si sedette sul bordo del letto e prese la tazza di brodo dal vassoio. Guardò corrucciato il cucchiaio che gli teneva vicino alle labbra. «Non lo voglio.» «Avete bisogno di mangiare.» «Ho bisogno di brandy. Vai a prenderlo.» «Non prima che abbiate mangiato la minestra.» La fissò con rabbia. «Su», lo pregò, sforzandosi di sorridere. «Solo un poco.» Inarcò le sopracciglia e attese, paziente, fino a quando lui aprì la bocca e iniziò a mangiare. Si addormentò prima di finire la minestra, così che Lily poté rilassarsi un poco, notando che il suo volto stava assumendo un po’ di colore. Ma forse era febbre... Prese una sedia, l’avvicinò al letto e si sedette. Il vento si era un po’ placato, ma la pioggia scendeva ancora a dirotto. La sentiva picchiettare contro i vetri della finestra, e pensò che avrebbe dovuto alzarsi e avvolgersi in una coperta. Aveva gli abiti zuppi, e quello non era certo il momento di prendersi un raffreddore. Tra un minuto, si disse stremata; mi alzerò tra un minuto. Si addormentò udendo il rumore della pioggia, e il respiro calmo e pacato di Devon. Quando si svegliò, l’uomo la stava fissando. Quanto avevano dormito? Non aveva idea. «Hai un aspetto orribile.» Non si offese, dopo tutto, anche lui non era al massimo dello splendore. «Grazie molte. Come vi sentite?» Si alzò e lo fissò. Aveva gli occhi più presenti e la bocca meno tirata. Non le rispose nemmeno. «Ascoltami. Ti devo chiedere ancora un favore. Vorrei poterlo fare da me ma non posso, e non c’è nessun altro.» Si sorprese quando vide che l’uomo le prendeva un polso e lo teneva ben stretto. «Voglio che mi trovi il cavallo e che gli togli la sella, e poi lo porti nella stalla. Probabilmente si sarà già fermato sotto la pioggia accanto alle stalle. Normalmente ha un carattere tranquillo, quindi non dovrebbe crearti problemi se lo tratterai con dolcezza. Accompagnalo nel suo box e spazzolalo bene, poi dagli da mangiare e asciugalo. Se ci fosse del sangue, puliscilo. Fai sempre tutto con molta calma. C’è MacLeaf, e anche un ragazzo che dorme in un soppalco lì nella stalla. Non portare con te nessuna luce. Ce la fai?» «Sì, ce la faccio.» Gli occhi di Devon indugiarono sul sottile corpo di Lily, notando le spalle curve per la fatica e la tensione, l’abito informe che, bagnato, rimaneva ancora aderente al


corpo. Il volto era terreo, spento per la spossatezza, e lui avrebbe tanto voluto non doverle chiedere altro. Ma non era così. «Dopo, vorrei che seppellissi i miei vestiti. Dove vuoi, purché lontano da casa.» Aprì la bocca per fargli una domanda, poi la richiuse: in ogni caso, non le avrebbe mai risposto. Avrebbe fatto quello che le veniva chiesto perché era importante per lui; dopo, in tutta calma, si sarebbe chiesta per quale motivo era importante anche per lei. «Quando tornerai, Lily, desidererei anche che ti cambiassi d’abito. Asciugati e mettiti un altro vestito. Ti prenderai un... Se ti ammalassi, ne andrebbe a mio discapito.» Avrebbe potuto rispondergli in molti modi. Invece, raccolse gli indumenti macchiati di sangue prendendoli tra le braccia. «Non avrete bisogno di me? Non so quanto tempo mi ci vorrà. Nella brocca c’è dell’acqua se...» «Starò benissimo.» «Siete sicuro?» «Sì.» «Bene. Rimettetevi a dormire. È la cosa di cui avete più bisogno, ora.» «D’accordo.» «Tornerò presto.» Riluttante, stranamente restia ad abbandonarlo, riuscì alla fine a rompere il filo che teneva legati i loro sguardi e ad andarsene. Devon rimase a fissare un angolo della stanza avvolto nel buio, ascoltando i passi leggeri allontanarsi. Il vento spinse una bordata violenta di pioggia contro la finestra, e lo fece sentire a disagio pensando a quella giovane che doveva affrontare di nuovo la furia del temporale. Se avesse avuto altre possibilità, non le avrebbe mai chiesto di andare; ci sarebbe andato lui stesso, o mandato qualcuno. Ma non aveva altra scelta. Non riusciva a spiegarsene il motivo, eppure si fidava molto di quella giovane. Il dolore alla spalla ferita giungeva a ondate. Una stava arrivando proprio in quel momento e, per distrarsi, pensò all’ultima volta che si erano visti nel parco, prima che Clay li interrompesse. Lei avrebbe voluto far l’amore con lui, ne era certo, ma aveva resistito. Perché mai? La cosa l’aveva di molto sorpreso: normalmente le giovani appartenenti a quella classe sociale non si facevano molti scrupoli. E così l’aveva allontanata da sé, e lei l’aveva fissato con uno sguardo, che non sarebbe mai riuscito a cancellare dalla memoria. Si era sentita umiliata, ma perché? Che cosa si era aspettata da lui? Il dolore era un po’ diminuito. Cancellò Lily dalla memoria e pensò al fratello. Quel maledetto stupido era rimasto fortunatamente illeso. E la sua dannata nave era ormai in navigazione nella Manica, sicuramente; molto a sud, quindi, se tutto era andato secondo le previsioni, probabilmente aveva evitato anche la tempesta. E lui invece era rimasto ferito, anzi era mezzo morto, debole come un cucciolo appena nato, costretto a mettersi nelle mani di una cameriera per non essere arrestato per avere assalito una pattuglia a cavallo degli ufficiali reali. Quando Clay fosse tornato, si disse, avrebbero dovuto scambiare quattro chiacchiere. Si passò stancamente una mano sulla fronte, facendo una smorfia. In effetti, se si eccettuava la ferita, neanche tanto profonda, dovuta alla punta di una baionetta, le cose nella Baia di St. Remy erano andate esattamente come aveva desiderato. Nessuno era stato ucciso, per quanto ne sapeva. Clay non era stato riconosciuto e ora probabilmente era al sicuro in terra di Francia. E, cosa più importante di tutte, quando


Clay fosse tornato a casa, avrebbe dovuto mantenere la promessa fatta: finalmente, suo fratello l’avrebbe smessa di giocare al contrabbandiere. Quel periodo pazzo e sconsiderato era alla fine, e la paura con cui Devon aveva dovuto convivere per ben due anni, cioè che suo fratello venisse preso, processato e impiccato, era anch’essa alla fine. Ora Clay avrebbe dovuto organizzarsi una vita più normale. Se questo significava occuparsi della miniera oppure no, sarebbe stata una decisione solo sua. Devon non gliel’avrebbe mai imposto, non avrebbe nemmeno potuto, anche volendo. Ma almeno Clay sarebbe stato al sicuro e con un lavoro che, per lo meno, non era illegale. Ora il dolore stava avendo il sopravvento, a ondate profonde e brucianti, tanto intense da bagnarlo di sudore. Sperava che la ragazza si ricordasse di portare con sé del brandy. Un dottore l’avrebbe curato col laudano, ma non c’era un dottore. C’era soltanto Lily Troublefield. Chiuse gli occhi sentendo pulsare la ferita, e cercò ancora di concentrarsi sulla giovane, di pensare alla passeggiata del giorno prima, quando lui l’aveva baciata, e lei era stata quasi sul punto di accondiscendere a fare l’amore sull’erba con lui. Stava ancora dormendo quando, più di un’ora dopo, Lily tornò. Depose quanto aveva in mano, un secchio d’acqua e uno colmo di carbone, e si avvicinò a Devon. Una delle candele si era completamente consumata, e l’altra stava terminando. Le sostituì entrambe con altre nuove che trovò nel comodino, e ne tenne una in alto, per vederlo meglio. Era pallido, non rosso di febbre, e quando lo toccò, la fronte era calda ma non bollente. Era divenuta bravissima ad accendere il fuoco, da quando si trovava a Darkstone; nel giro di pochi minuti riuscì a disporre i carboni e a far scaturire la fiamma. La camera era ora rischiarata da una luce vivace. Devon dormiva. Lily si spogliò di abito e sottogonna, scarpe e calze, lanciandogli frequenti occhiate e sentendosi sciocca. Il caldo del fuoco sulla pelle le diede una sensazione meravigliosa; si volse lentamente dinanzi a esso, scaldandosi, scrollando i capelli umidi vicino alle fiamme. Che cosa avrebbe indossato? Non c’erano altre coperte lì attorno e certamente nemmeno altri vestiti sparsi in quella stanza così ordinata e austera che sarebbe diventata anche la sua per un paio d’ore. Esitò un solo istante, poi andò verso l’armadio. E improvvisamente si fermò dinanzi allo specchio, una mano sul pomolo dell’armadio, ipnotizzata nel vedersi nuda da quando, per la prima volta, aveva lasciato Lyme. C’era qualcosa di diverso in lei, ma all’inizio non seppe dirsi cosa. Poi, lentamente, comprese... Era un qualcosa nella sua figura, nelle linee del suo corpo. Si era fatta più muscolosa, e questo le dava una forma diversa. Differenza sottile, ma chiaramente percepibile. Aveva un aspetto forte. La cosa avrebbe anche potuto dispiacerle – le donne, dopo tutto, non dovevano avere un aspetto forte – ma dopo alcuni secondi di attenta analisi, decise di avere ancora un aspetto femminile. Aveva ancora seni e fianchi e cosce, e nessuno di essi aveva un aspetto minimamente maschile. Era tutto a posto, quindi. Resistette all’impulso di voltarsi e cercare di vedere anche lei quello che Devon Darkwell aveva trovato così affascinante due sere prima, sulla spiaggia del lago. Invece aprì l’armadio e prese la prima cosa che trovò: una vestaglia appesa su un gancio nell’anta interna. Era color porpora, di morbidissima seta. Non avrebbe mai


dovuto indossarla, avrebbe dovuto scegliere qualcosa di meno personale, ma non resistette alla tentazione di infilarla e di allacciare in vita la cintura. Evidentemente usava della colonia speziata; posò il naso nella stoffa morbida, aspirando un poco di quel profumo, con gli occhi chiusi. Il tempo passava. Sentendosi in colpa, si accinse a lavare le macchie di sangue sul suo abito e sulle gonne. Dopo, spinse due sedie vicino al fuoco, il più vicino possibile alle fiamme, e con cura vi appoggiò gli abiti bagnati e le calze. Dovevano essere asciutti per la mattina seguente, assolutamente. Abbassandosi, rigirò un’altra volta i tizzoni del fuoco con l’attizzatoio. E ora, non restava che aspettare. Fortunatamente c’era un’altra sedia nella stanza, quella di pelle, della scrivania. Era la stessa sedia su cui era seduto quella mattina in cui gli aveva portato in camera la colazione, quando l’aveva scottato con il tè bollente. Avvicinò la sedia al letto e vi si lasciò andare, spossata. L’odore della pelle le era familiare, in un certo senso la tranquillizzava, e la sedia era sufficientemente larga da permetterle di appoggiarvi anche le gambe ripiegate. Si rannicchiò assonnata, le braccia ripiegate, la fronte premuta contro il bracciolo di pelle morbida, e chiuse gli occhi.

Capitolo ottavo Doveva proprio trattarsi di un’allucinazione! Non si sentiva la febbre, eppure... che altra spiegazione avrebbe potuto darsi? C’era una dea nuda in piedi, vicino al caminetto. La vedeva chiaramente, di profilo, mentre si spettinava con le dita una criniera selvaggia di capelli ricci, scuri, dinanzi alle fiamme. In quella posizione un po’ china in avanti, la schiena formava una lunga linea delicata contro la fiamma rossa incostante, e i seni bianchi apparivano sodi e pieni. Braccia lunghe, gambe lunghe e snelle, pelle color avorio liscia come il marmo. In quel momento, si raddrizzò e si voltò, proprio dinanzi a lui. I capelli scendevano a coprire un seno, mentre l’altro si mostrava in tutta la sua bellezza, roseo per il calore della fiamma. Aveva fianchi stretti ma ben formati, forte come Diana, bella come Venere. E lui, invece, stava delirando, poiché proprio in quel momento lei tese una mano verso la veste misera e la infilò dalla testa; in quel momento, la riconobbe. Non era una dea, ma Lily Troublefield. Lei vide gli occhi spalancati, estasiati, fissi su di lei, nel momento in cui il capo sbucò dallo scollo dell’indumento. Represse un gemito di spavento e si volse immediatamente, dando le spalle al fuoco. «Voi mi stavate guardando!», lo accusò senza fiato. «Non guardate!» Udì un fruscio di coperte e gettò uno sguardo al di sopra delle proprie spalle. Si era coperto il volto con il lenzuolo. In gola le si formò una risatella nervosa. Si infilò di corsa le calze e poi l’abito, vagamente conscia del fatto che le prime erano asciutte, il resto no, e la biancheria era in una fase intermedia. Mentre si abbottonava le maniche fece qualche passo esitante verso il letto. «Sono vestita», disse cautamente, fermandosi a pochi passi da lui. E allora vide le dita afferrare il lenzuolo e abbassarlo lentamente: comparvero prima i


capelli scarmigliati, poi le sopracciglia, la punta del naso e le labbra. Per un momento le parve di vedere la medesima luce febbrile negli occhi, ma poi comprese che si trattava di uno sguardo divertito. Lo fissò, attonita: aveva visto mille e mille espressioni mutare in quegli occhi turchesi, così espressivi, ma mai di divertimento. Poi quel breve istante finì, e nello sguardo ricomparve la consueta espressione fredda. «Che ore sono?» «Non so. Ma deve essere ancora presto. Le cinque o giù di lì. Devo andare.» «Andare?» «Devo iniziare a lavorare.» «Perché?» Lo guardò, sorpresa, senza parlare. «E allora vai», le disse con un breve movimento della mano, capendo, seppur in ritardo, quello che lei intendeva. Per un istante si era dimenticato di quanto fosse importante che si comportassero normalmente. «Che cosa farete? Ci vorrebbe qualcuno per aiutarvi. Vi prego, se solo mi lasciaste...» «Non ricominciare, Lily. Non ci deve essere nessun altro, solo tu.» Irrigidendosi, cercò di mettersi seduto, ma il dolore era foltissimo, e imprecò. «Soprattutto Trayer, tienilo lontano da qui», disse a denti stretti. «Come?» «E come diavolo faccio a saperlo?» Strinse gli occhi e cercò di calmarsi. «Ti lascio libertà di azione, basta che lo tieni lontano. Tieni tutti lontani. Di’ loro che sono ammalato, e vieni tu a portarmi la colazione.» Quando aprì gli occhi, vide che lei si stava tormentando le mani guardandolo come se le avesse chiesto di attraversare a nuoto la Manica. «Ebbene? L’hai già fatto, no? Che problema c’è?» Sospirò, dicendosi che, evidentemente, il padrone non aveva alcuna idea di come andassero le cose al piano di sotto, che cosa significasse nella gerarchia dei domestici portare la colazione al padrone, che compito difficile le avesse riservato. Riuscire a riportare nella stalla quel focoso stallone era stato un gioco da ragazzi, se paragonato a quanto le stava chiedendo. «Nulla.» Raggiunse la testiera del letto e prese il campanello. «Aspettate cinque minuti e poi suonate», gli disse mettendogli in mano la corda intrecciata. «Cinque minuti. Non addormentatevi.» Poi si ricordò del suo ruolo «Signore». Raggiunse la porta e si volse. «Che cosa desiderate per colazione?» «Brandy.» «Null’altro?» «No.» La guardò mentre faceva uno dei suoi inchini ironici e scivolava leggera fuori della porta. Null’altro? Ma che modo di esprimersi era per una cameriera? La ragazza era stata ben educata, anche se, per un motivo che lui non capiva ancora, non voleva ammetterlo. Chiuse gli occhi e si appoggiò ai cuscini, facendo una smorfia di dolore. Un’altra questione interessante era che lei non aveva affatto l’aspetto consueto di una cameriera, pensò mentre si sforzava di non ricadere nel sonno, ricordandola nuda dinanzi al fuoco, bella e desiderabile come nessun’altra donna che avesse mai visto.


Persino rispetto a Maura. Forse erano dello stesso stampo. Entrambe provenienti dalla classe, ma troppo intelligenti per vivere tra la gente cui la sorte le aveva destinate. Entrambe avevano volti e aspetto franchi, sguardo innocente. Ma Maura aveva un cuore da traditrice. Che fortuna che il cuore di Lily Troublefield non lo interessasse affatto! Invece, il suo corpo lo attraeva, e molto. Prese tra le mani i fili dorati della nappa in cui terminava la corda del campanello mentre fissava i carboni ancora accesi. Un minuto dopo, diede alla corda un colpo deciso, poi altri quattro, a intervalli irregolari, ognuno più forte del precedente. Negli occhi non gli era rimasta nemmeno una briciola di quel divertimento che li aveva illuminati per un momento. Senza fiato, Lily entrò di corsa in cucina circa mezzo minuto prima che il campanello suonasse. Ebbe appena il tempo di salutare la cuoca, la sguattera e un paggio che stava sbadigliando, gli unici che si alzavano a quell’ora, quando la campanella sulla parete sopra la porta suonò e tutte le teste si voltarono. La numero 4, la camera del padrone. Tutti assunsero un’aria molto sorpresa. «Andrò io», disse Lily subito, sicura che nessuno l’avrebbe contraddetta: dopo tutto, in quel momento, non c’era nessun altro che potesse andarci. Corse lungo il corridoio, ma ai piedi delle scale si volse su se stessa, poi girò a destra entrando nella porta aperta dell’ufficio dell’amministratore. Raggiunse l’estremità della stanza, piccola ma ordinata, lontano dalla porta e da chiunque passasse nel corridoio. Poi attese, contando i minuti che secondo lei ci sarebbero voluti per salire le scale, ascoltare gli ordini del padrone e ridiscendere. Si passò le palme umide sulla gonna, chiedendosi se quella notte Lowdy si fosse accorta della sua assenza. La sua compagna non le aveva detto nulla quando Lily era rientrata per prendere un grembiule pulito, ma si era appena, alzata, e sapeva che non era in grado di formulare parole coerenti così presto alla mattina. Quando le parve che fosse passato un lasso di tempo sufficiente, Lily tornò in cucina. «Mr Darkwell vuole immediatamente la colazione», disse alla cuoca. «Non si sente bene. Ha chiesto brodo caldo e pane tostato e un uovo. Ah, una brocca di birra.» Mrs Belt la guardò sorpresa, ma non esitò un istante. «Dorcas, vai a prendere un uovo nella credenza e fai in fretta», disse mentre prendeva la griglia per scaldare il pane. Il maggiordomo e alcuni domestici ancora addormentati stavano entrando in quel momento, mormorando un buongiorno stentato. Lily osservava con apprensione la preparazione della colazione del padrone, pregando che tutto fosse pronto prima dell’arrivo della governante. L’argomento del giorno era la «malattia» di Mr Darkwell, e si azzardavano le ipotesi più disparate sull’orario in cui fosse tornato a casa. «Ecco, è pronta.» Mrs Belt appoggiò un tovagliolo sul vassoio e fece un gesto a Lily per dirle che poteva prenderlo. «Che cos’è? Che cosa stai facendo con quel vassoio?» Mrs Howe era comparsa sulla soglia della porta, una massa possente vestita di nero, impenetrabile come un enorme masso. Dietro a lei, Lily vide Trayer, con il suo volto ostile, una replica beffarda del viso di sua madre. «È... è la colazione del padrone», balbettò. «Ha chiamato molto presto e mi ha


detto di portargliela in camera. Non sta bene.» «Ha detto a te di portargli la colazione in camera?» Trayer era entrato nella stanza assieme a sua madre, ponendosi di fronte a Lily, i pugni chiusi stretti ai fianchi. «Ma questo è compito di Rose. Andrò io, visto che lei non è ancora arrivata.» Lily strinse le dita attorno al vassoio, quasi presa dal panico. Era proprio quello che aveva temuto sin dall’inizio! «Ma Mr Darkwell ha detto a me di portargliela», ribatté cercando di restare calma. «Dammi il vassoio.» «No. Quello che volevo dire, è che vuole che sia io a portargliela. Lui... lui non vuole nessun altro. E soprattutto non vuole che tu vada da lui oggi. Non vuole, davvero.» La cucina era piombata nel più assoluto silenzio. Lily tenne lo sguardo fermo su Trayer, ma sentiva su di sé gli occhi di tutti gli altri. Che la osservavano, la giudicavano. «Stai mentendo», sibilò Trayer. Scrollò il capo, e quel silenzio pesante avvolse nuovamente tutto e tutti. Infine, fu Mrs Howe a interromperlo. «Allora, dai», disse con voce tranquilla che spaventò Lily ancor più che se avesse urlato. «Non vuoi che diventi tutto freddo, vero? Vai su, in fretta, poi torna ad aiutare la cuoca a cuocere il pane.» Lily mormorò «Sì, signora», e scappò via, con la testa china e priva di espressione, facendo attenzione a non guardare nessuno. Ma udì dietro di sé il sussurro burbero dei pettegolezzi prima ancora che fosse a metà del corridoio. Quando spalancò la porta della camera di Devon, lo trovò chino contro l’alta scrivania, bianco come il gesso, intento a radersi. «Oh mio Dio!» Depose il vassoio sulla scrivania e corse verso di lui. «Ma cosa diavolo state facendo?» Gli prese il rasoio e lo accompagnò con mano ferma e sicura verso il letto. «Pensavo che aveste più buon senso», lo rimbrottò quasi senza fiato per lo sforzo. «Davvero. Sedetevi prima di svenire. Come vi sentite? Siete pallido come un cencio. Che diavolo pensavate...» «Lily.» La voce era severa, ma Devon stesso pensò di non avere di certo un aspetto imponente indossando solo i pantaloni, con le mani tremanti e il volto ricoperto di sapone da barba. «Vorrei ricordarti che non sta a te dirmi quello che devo e non devo fare. Il tuo compito è quello di fare esattamente quello che io ti dico. Sono stato chiaro?» «Sì, chiarissimo. Vi chiedo perdono, mio signore, me ne ero scordata. Che cosa vorreste che facessi?» Impossibile stabilire se quel pentimento fosse genuino. Studiò quegli occhi grigioverde, limpidi, la bocca seria, le mani strette con modestia, e si disse che non lo era. Per una qualche strana ragione, la cosa gli fece piacere. «Vorrei che tu mi aiutassi a finire di radermi», le disse con tono accondiscendente. «Non penso di farcela da solo.» Il cattivo umore di Lily scomparve di colpo. «Benissimo. Sedetevi.» Corse alla scrivania per riprendere l’occorrente. «Il sapone si è asciugato», mormorò mentre si bagnava la mano nella bacinella e inumidiva la schiuma sul viso, disegnando lievi cerchi con la punta delle dita. Intinse il rasoio nella bacinella, lo scrollò leggermente, e iniziò a passare la lama sulla mascella, mentre l’altra mano poggiava sulla gola.


«Mi spiace che l’acqua sia fredda; probabilmente il vostro cameriere la scalda.» «Mmmm.» Stava pensando a quanto fosse bella la sua bocca. «Trayer ti ha creato qualche fastidio?» «Oh...» Scrollò le spalle. «Ti ha creato qualche problema o no?» «Nulla di importante. Fate così.» Strinse il labbro superiore tra i denti. La imitò, e lei iniziò a sbarbarlo sotto il naso. Quando ebbe finito, le chiese.- «L’hai già fatto, vedo. Al tuo fidanzato?» Lily era concentrata a passare il rasoio sulla guancia sinistra. «Ma certo che no. Quando mio padre era vivo, qualche volta aveva bisogno d’aiuto.» «Perché?» Ma quante domande le stava facendo! Decise infine di dirgli la verità. «Qualche volta beveva troppo. E, se si fosse rasato da solo la mattina seguente, si sarebbe sicuramente tagliato la gola. Ecco.» Poi gli inumidì il volto con un panno umido e gli deterse le ultime tracce di sapone. «Fatto. La vostra colazione si sta raffreddando. Perché non vi sdraiate... se la cosa vi fa piacere», si ricordò poi di aggiungere. «Lasciate che vi porti qui il vassoio. Pensate di poter...» «Non preoccuparti. Vorrei che mi aiutassi a vestirmi.» «E perché?» Lo sguardo che le lanciò, ostile e al contempo di superiorità, le fece trattenere il respiro. «Vi chiedo nuovamente perdono», gli disse in tono asciutto. Ma non poteva lasciar cadere la cosa. «Perdonate la mia franchezza, ma siete gravemente ferito. Secondo la mia,» non sarebbe mai riuscita a dire umile, «opinione, dovreste rimanere a letto. Non c’è nessun medico che vi possa dare dei punti. Se la ferita dovesse aprirsi di nuovo e iniziare ancora a sanguinare...» «Dannazione, lo so benissimo.» Vide che Lily aggrottava la fronte e stringeva le labbra per non farsi sfuggire qualche altro consiglio. Qualche saggio consiglio. Sospirò. «Ascoltami. Molto probabilmente verranno delle persone, oggi. Devo prepararmi per loro. Per ragioni che non ti riguardano, è estremamente importante che la natura del mio incidente non venga risaputa. Capisci quello che voglio dire?» «Comprendo solo che non volete che questi ‘visitatori’ sappiano che ieri notte siete stato ferito a una spalla. E non capisco perché.» «Ma non c’è nemmeno bisogno che tu lo capisca. E ora, vorrei tanto una camicia pulita. Ti prego», soggiunse con magnanimità. «Ditemi una sola cosa. Vostro fratello è al sicuro?» Si irrigidì. «Non sono cose che ti riguardano.» Lily non si mosse. Attese con il rasoio in una mano, la ciotola di acqua e sapone nell’altra, e sostenne il suo sguardo con aria ferma, sicura. Devon scrollò il capo. Se voleva la camicia, avrebbe dovuto dirle la verità su Clay; quella donna era come un cane da caccia all’inseguimento di una volpe. «Clay sta bene. Non si è fatto neanche un graffio. Il fortunato sono stato io.» Ma è vero che ha una nave e che guida un gruppetto di contrabbandieri? Avrebbe voluto chiedergli. Ma il momento di estrema sincerità era ormai terminato, ne era certa, e così preferì limitarsi a chiedergli dove tenesse le camicie. Lo aiutò a infilarsi una camicia pulita e una giacca di velluto, ignorando ancora una volta l’esistenza dei pantaloni. Ma questa volta la sua fortuna non durò.


«Lily», disse pazientemente, seduto sul bordo del letto e appoggiandosi a una colonnina. «Questa tua timidezza è molto affascinante, veramente, ma anche irritante, viste le circostanze. Non penso di poter più indossare questi pantaloni di pelle di daino. Indipendentemente da tutto, stonano con la giacca di velluto. Ne rimarrebbe offeso persino Trayer, che non mi sembra poi così ferrato in fatto di gusto.» Appoggiò poi la tempia al legno della testiera, esausto per il lungo discorso, segretamente sorpreso per la leggerezza del suo tono. «Tirami fuori un paio di pantaloni», concluse poi a occhi chiusi. «Escogiteremo un modo per poterli indossare senza per questo offendere la tua sensibilità.» Alla fine ci riuscirono con estrema facilità, aiutati soprattutto dal fatto che la sua camicia di tela bianca scendeva fino quasi a metà coscia, risparmiando così a Lily la vista di qualcosa di tanto virile da poterla disturbare. Anche la sua ironia lieve contribuì a rendere non troppo gravoso il compito; lei era ben conscia di comportarsi da stupida, ma la manifestazione aperta del suo nervosismo in un certo senso la aiutò. «Penso che ora dovreste sdraiarvi», gli disse inginocchiandosi dinanzi a lui per aiutarlo a infilare calze e scarpe. «Se arriveranno i vostri ‘ospiti’ avrete tutto il tempo di mettervi a sedere prima che entrino.» «Li accoglierò giù.» «Ma è assurdo!» Vide l’espressione sul volto di Devon e chinò il capo. «Intendevo dire, mio signore, che voi...» «Ti avevo già detto di smetterla di chiamarmi mio signore...» «Sì, signore. Volevo soltanto dire che secondo me non sarebbe cosa molto saggia.» «E chi ti da il diritto di pensare che m’importi della tua opinione?» Lily finì di allacciargli le scarpe e si alzò lentamente. «Nessuno. Perdonatemi. Non riesco a capirmi nemmeno io.» Teneva gli occhi bassi, ma le sue labbra erano serrate per la rabbia. Devon notò che strinse le dita due, tre volte, prima di essere sufficientemente calma da sollevare il mento e guardarlo. Ammirò quell’autocontrollo: ora, infatti, il volto era tranquillo, gli occhi sereni e distesi. Ma, dietro quella superficie, notò anche delle fiammelle di ribellione. L’inchino in cui si profuse fu questa volta perfetto, senza alcuna strana connotazione. Se non aveva più bisogno di lei, mormorò, chiedeva di potersene andare. Ma si tradì quando si voltò verso la porta senza attendere il suo permesso. «Lily.» «Mio signore?» Per un lunghissimo istante si sfidarono con lo sguardo. Lily si corresse subito: «Signore?» Passò un altro lungo istante. Poi Devon disse: «Forse hai ragione. Forse li vedrò proprio qui. Seduto alla scrivania». «Molto bene, signore.» Ma quello che avrebbe veramente voluto dirgli era Chi ti da il diritto di pensare che m’importi della tua opinione! Sarebbe stata per lei un’enorme soddisfazione, anche se non era vero. «Riuscite a fare colazione da solo?» chiese impassibile. «Sì. Grazie.» La sua voce era pacata, ora, quasi gentile. Una specie di tregua. «Allora me ne vado. Mrs Howe mi starà cercando. Se volete, tornerò. Appena potrò.» Annuì. I loro


sguardi rimasero allacciati per un altro istante, poi lei se ne andò. Pareva a Lily di non essersi poi allontanata da molto, ma quando entrò nella sala dove si ritrovavano i domestici scoprì che la colazione era già terminata e che non c’era ormai più nessuno intorno, tranne Dorcas e un’altra ragazza, che stavano pulendo il tavolo. Il volto solitamente scialbo di Dorcas era in quel momento roseo per l’eccitazione. «Mrs Howe dice che devi andare da lei», disse a Lily non appena la vide. «Quando, Dorcas? Quando vuole che vada da lei?» «Ora, subito. Non l’avevo mai vista così arrabbiata!» I suoi occhi spenti brillavano, e Lily non sapeva dirsi se fosse per paura o in attesa di eventi interessanti. Osservò il lungo tavolo per cercare qualche avanzo della colazione – un pezzo di biscotto, una tazzina di tè freddo – ma non vi era nulla: voraci cavallette non avrebbero potuto fare una pulizia migliore. Venne sommersa da un’ondata di stanchezza fisica e depressione. E ora Mrs Howe era arrabbiata, e indubbiamente l’avrebbe punita affidandole qualche lavoro sgradevole poiché era in ritardo e non poteva fornirle una scusa plausibile. La camera della governante era all’estremità del corridoio stretto, a forma di elle. Essere convocata in quel luogo sinistro era già di per sé un’esperienza stressante, qualcosa da temere. Non era mai accaduto a Lily, ma era già successo a Norah Penglennan, una cameriera sedicenne che era stata a Darkstone solo per pochi mesi, prima dell’arrivo di Lily. Secondo i pettegolezzi dei domestici la sua colpa era stata quella di dimenticarsi di cambiare le lenzuola del giovane Mr Darkwell durante il giorno di bucato. Il fatto che fosse svenuta per ben due volte quel giorno – per una malattia non diagnosticata – non era valso evidentemente a scagionarla. Quello che era avvenuto tra la ragazza e Mrs Howe non si era mai saputo; Norah era tornata da quell’incontro tremante e pallida in volto, ma non aveva voluto dire nulla. Alcuni giorni dopo, però, era fuggita. Non ho paura di Mrs Howe, si disse Lily mentre percorreva tutto il corridoio. Non aveva alcuna intenzione di correre, anzi una testimone imparziale avrebbe persino detto che stava rallentando il passo. Inspirò e prese una postura diritta, quasi di sfida. Non la temo perché non sono come Norah Penglennan, una povera ragazza priva di educazione che può essere intimidita dalle minacce e dalle male parole di una piccola despota. Sono Lily Trehearne. Mia madre era una signora e mio padre era un gentiluomo. Quasi sempre. Sì, doveva lavorare per sbarcare il lunario, e alcune delle sue occupazioni potevano anche non essere del tutto rispettabili nel senso più stretto del termine. In tutti i casi era stato bene educato, nei principi della gentilezza e della tolleranza, e, per quanto Lily ne sapeva, non aveva mai fatto nulla di disonesto. Oh, ma che sciocchezze! La rispettabilità di suo padre non era certamente la cosa che più la preoccupava in quel momento. Avrebbe dovuto sostenere un incontro con una tiranna meschina, ecco tutto. Ma... e se, dopo avere recitato la parte di una domestica per più di due mesi, avesse iniziato a pensare e a sentirsi come una domestica? Sciocchezze, pensò ancora. Si scosse, strinse la mano a pugno e diede alla porta di Mrs Howe tre colpetti brevi, decisi. «Avanti.» Aprì la porta ed entrò. Il profumo del dolce appena fatto persisteva nell’aria-, senza


dubbio proveniva dai dolcetti che quella stessa mattina aveva preparato Mrs Beh, e che nessun altro domestico aveva potuto assaggiare – con la possibile eccezione di Trayer, ovviamente. La governante era seduta alla propria scrivania, meditando su una lista di conti. Non fece un gesto, e Lily si disse che l’ignorarla era la prima freccia che Mrs Howe le scoccava contro. Lily si strinse le braccia al seno e assunse un atteggiamento, probabilmente esagerato, di gentile sottomissione. I secondi passavano e iniziava quasi a divertirsi; si era aspettata una tattica più sofisticata, meno infantile, da parte dell’avversaria. Ma qualcosa nella postura delle mani appoggiate sulla scrivania di Mrs Howe – tozze e non curate, all’apparenza prive di vene e tendini, mani fortemente maschili – la induceva a pensare che la sensazione di divertimento fosse del tutto inappropriata. Del tutto irrilevante. Nonostante tutto, il senso di disagio stava aumentando. Alla fine Mrs Howe appoggiò la penna e sollevò lo sguardo. La fissò senza parlare per un periodo così lungo che Lily temette di stare per mettersi a ridere, oppure confessare un qualche peccato mai commesso, solo per riempire quel vuoto. È soltanto un trucco, si disse, al solo scopo di attaccare e spaventare delle ragazzine. Ma nonostante tutto, era difficile immaginare che quegli occhi brillanti e neri, da bull-dog, si lasciassero sfuggire qualche cosa. Forse in quel momento stavano fissando qualche punto ancora umido della gonna di Lily o, peggio, avevano localizzato le sbiadite macchie di sangue che ancora si intravvedevano sotto il grembiule. In un modo o nell’altro riuscì a reggere tranquillamente quello sguardo, senza cedere. Ma avrebbe voluto guardare altrove, ed era certa che anche Mrs Howe voleva che lo facesse. La governante si alzò, lentamente, con il grosso mazzo di chiavi fissato alla cintura lasciato ostentatamente tintinnare. Per essere una donna molto pesante, si disse, si muoveva con grande leggerezza, e la cosa stupì Lily al punto da considerarla quasi grottesca. «Non sei venuta per colazione», osservò la donna, rimanendo in piedi dinanzi alla scrivania, con una voce troppo bassa e troppo gentile per essere sincera. «Sì, signora.» Lily chinò la testa, pentita. «E questo è contro le regole, giusto?» «Sì, signora.» «Perché ti ci è voluto così tanto tempo per portare al padrone il vassoio della colazione?» «Non lo so.» «Non lo so? E perché non lo sai?» Per il panico, Lily non riusciva più a formulare un pensiero coerente. «Io... io sono tornata in camera mia dopo... per... mi ero dimenticata di... dovevo cambiarmi le calze.» «Cambiare le calze? E perché?» «Io... non lo so.» «Forse per stupidità? Perché sei una stupida, Lily?» «No, signora... è solo che le ho cambiate.» Mio Dio, quanto odiava tutto ciò! La rabbia le si stava insinuando dentro, tendeva tutti i suoi muscoli. «Ma ti avevo detto di tornare subito ad aiutare la cuoca a cuocere il pane. Non è forse vero?» Parlava ancora a voce bassissima.


«Sì, signora.» «Mi hai disobbedito?» «Io... sì.» «E perché?» Strinse i denti. «Non so. Mi sono dimenticata.» Mrs Howe le si avvicinò. Erano esattamente alte uguali, e ora i loro volti erano a pochi centimetri l’uno dall’altro. Per evitare quello sguardo, Lily fissò gli occhi sul taglio severo della bocca della nemica. Le labbra erano sottilissime, perfettamente divise come un panino tagliato con il rasoio. «Dimenticato?» mormorò. «Forse perché sei stupida?» Lily non riusciva a rispondere. «Sei stupida, Lily?» «No, no, signora.» «No? E allora perché non hai fatto quello che ti era stato chiesto?» «Io... non pensavo.» «Perché sei stupida?» Si sentiva la gola talmente chiusa da non riuscire nemmeno a parlare. «Dillo.» La voce della donna era sempre più penetrante, come un ronzio di gola. «Dillo.» Lily sentiva il petto bruciarle. «Vi prego», sussurrò. «Dillo.» «No, non sono stupida». Ma una lacrima traditrice, gelida e bollente al contempo, le scese lungo le guance, e quello fu peggio di un’ammissione. Lily chinò il capo, sconfitta. La governante arretrò in silenzio. Su un tavolo accanto alla scrivania si trovavano due secchi di metallo. Li raccolse, con un movimento divenuto ora molto brusco, gli occhi non più colmi di forza, solo più crudeli. «La stupidità è una delle forme con cui si manifesta Satana. Deve essere punita, perché la malvagità vi si nasconde, sotto la pancia del serpente, in attesa degli innocenti e dei puri. Deve essere punita.» Le si avvicinò e diede a Lily i secchi, uno per mano. Erano molto piccoli, tanto che ognuno doveva contenere al massimo mezzo litro. «Non abbiamo più sabbia per sfregare i pavimenti, Lily. Voglio che tu riempia entrambi i bidoni che si trovano nel cortile dietro le cucine. Fino all’orlo. Usando soltanto questi due secchi. Non fermarti fino a quando non saranno colmi. Se lo farai, dovrò punirti di nuovo. Sono stata chiara?» «Sì, signora.» Il senso di impotenza si era tramutato in rabbia, la sconfitta si era rappresa in odio. Avrebbe voluto ferire Mrs Howe con le proprie mani. «Riusciremo ad allontanare il diavolo da te, Lily. Ringraziami per l’aiuto che ti do», disse, avvicinandosi. «Ringraziami.» «Gra... grazie.» «Grazie...?» Lily chiuse gli occhi per un istante. «Signora.» La governante sorrise e Lily vide in fondo ai suoi occhi pura malvagità. Tremando, si voltò e se ne andò. Il sole alto del mezzogiorno era un disco accecante, color giallo limone, al centro di un cielo senza colore. Batteva senza pietà sulle rocce possenti che emergevano dal


mare come grossi animali preistorici. La marea si era ormai ritirata, ma la sabbia era ancora umida e ricoperta di schiuma fino al limitare delle dune di sabbia e della scogliera di granito. Lily si accovacciò sull’ultimo dei gradini di pietra della scogliera e colmò di sabbia i due piccoli secchi che le aveva dato la governante. Rialzandosi, fissò lo sguardo sulle onde lunghe scintillanti lungo la linea sottile dell’orizzonte. Sulla schiena, il suo abito era già bagnato di sudore, e anche il volto ne era imperlato. Qui, nei pressi della costa, il vento salmastro soffiava, anche se debolmente; ma vicino alla casa, protetta dalle varie dépendance, non si muoveva un filo d’aria. Utilizzò le estremità del grembiule da ambedue i lati per proteggersi le dita dai sottili manici di metallo dei secchi, anche se la cosa non migliorò di molto la situazione. Già da qualche ora, infatti, si erano formate delle vesciche, e ora le piaghe si attaccavano al tessuto così da provocarle un dolore fortissimo quando arrivava alla fine del percorso e doveva staccare il manico del secchio. Con la testa china, e le spalle ricurve, iniziò a risalire i gradini della scogliera. Settantadue, erano i gradini, e al ventisettesimo c’era un piccolo ballatoio in legno. Vi si fermò per riposarsi un poco e riprender fiato, ma l’improvvisa interruzione del movimento le fece girare la testa, tanto che si appoggiò con una mano alla balaustra, gli occhi chiusi e il cuore che batteva. Svenire sarebbe stato troppo facile, si disse. Non avrebbe mai dato a Mrs Howe quella soddisfazione. Ma uno dei bidoni nell’orto era ancora vuoto, l’altro era solo mezzo pieno. Facendo due conti a spanne, le rimanevano all’incirca sette ore di lavoro. Avrebbe voluto piangere: e ora, che era sola e nessuno poteva vederla, avrebbe potuto concedersi almeno quello. Ma, curiosamente, non riusciva a piangere, le lacrime non sgorgavano, trattenute assieme alla rabbia e alla frustrazione. O forse stava punendosi per quel momento di debolezza, di vergognoso cedimento quando aveva pianto dinanzi a Mrs Howe. Talvolta pensava a Devon, chiedendosi cosa stesse facendo, se stesse bene, se quella «visita» che aspettava fosse già arrivata. Ma per la maggior parte del tempo soffriva troppo per pensare a qualche cosa: Mrs Howe aveva scovato in lei un punto molto vulnerabile: orgoglio e sicurezza di sé, rispetto della propria persona, e l’aveva colpito. Era ferita, e soffriva. Raccolse di nuovo i secchi e riprese a salire. I muscoli tra le spalle le bruciavano inesorabilmente, e non c’era alcun modo per far diminuire le fitte dolorose che le dilaniavano la spina dorsale. Il sole brillava, e sentiva la gola arsa e asciutta come la sabbia che stava trasportando. A circa una dozzina di gradini dalla sommità, sollevò lo sguardo e in un primo momento non riconobbe l’uomo che era in piedi in cima, appoggiato con le mani ai due corrimani, in modo da bloccarle il passaggio. Poi, strizzando gli occhi per ripararsi dalla luce accecante, lo mise a fuoco, e lo riconobbe subito: era Trayer. Ma certo, era venuto per godere alle sue spalle. Anche se sentiva le gambe pesanti come se fossero avvolte nel piombo, affrettò il passo, raddrizzò le spalle, sollevò il mento. Cercò anche di assumere un’espressione serena, ma sapeva che il suo volto era sudato e rosso, probabilmente con qualche chiazza – e poi, improvvisamente, l’idea di fingere per il solo beneficio di Trayer Howe le ripugnò: non le importava proprio nulla di quello che pensava di lei.


Continuò a salire fino a quando si ritrovò a tre gradini da lui, e si fermò. «Scusami», disse chiaramente, chiedendosi nel frattempo per quanto tempo ancora avesse intenzione di tormentarla, quanto tempo doveva passare ancora prima che lui la lasciasse passare. La sua smorfia irridente si allargò ancor più. Non si mosse. «Che giornata calda», osservò poi in tono da conversazione. «Forse avresti bisogno di una mano per portare quei secchi.» Sollevò le sopracciglia ma non staccò le mani dalla ringhiera di metallo. «No, grazie. Ti prego, lasciami passare.» Un lampo di malizia gli attraversò lo sguardo, simile a quello di sua madre, tanto da farla rabbrividire. «No, grazie. Ti prego, lasciami passare», ripeté prendendola in giro, ancheggiando in modo esageratamente femminile. Lily distolse lo sguardo, disgustata. «Anche mentre stai raccogliendo la sabbia, pensi di essere la regina d’Inghilterra. Eppure, ora non lo sembri proprio. Ora sembri proprio quella serva che sei.» «Togliti di mezzo.» «Pensi di essere in una botte di ferro, vero? Perché hai allargato le cosce dinanzi al padrone, pensi che tutto sarà più semplice.» Lily cercò di passargli accanto, ma lui spostò leggermente il peso di lato, sbarrandole la strada. «Non funzionerà, non per molto. Ma ti posso dire quello che potrebbe funzionare, invece...» «Trayer...» «Se concedessi anche a me un posticino morbido per una cosa rigida, allora sì che le cose potrebbero migliorare sensibilmente per te. Che ne dici, regina Lily?» Era in preda alla rabbia, troppo furiosa per parlare. Lo colpì con una spallata, cercando di usare tutta la forza che aveva, ma era come voler spostare una roccia. Improvvisamente Trayer allungò entrambe le mani e le afferrò i seni. Con un grido di rabbia, Lily lasciò cadere i secchi e tolse immediatamente quelle mani. «Bastardo!» urlò, mentre la risata cattiva dell’uomo le penetrava nelle orecchie. Sentendo le ginocchia molli, fece un passo indietro e lo fissò, appoggiandosi alla staccionata. «Oh, ma che peccato! Hai perso i secchi, vero?» Guardò in basso, giù sulla spiaggia, dove i due secchi vuoti erano mezzi sepolti dalla sabbia, e scrollò il capo, fingendo comprensione. «E ora dovrai iniziare tutto daccapo. Volete che vi dia una mano, vostra altezza?» Fece un passo avanti, allungando una mano e guardandola con derisione. Lily pensò che l’avrebbe seguita gradino per gradino, lentamente, continuando a ridere. Si mise bene in equilibrio, poi si afferrò alla balaustra con una mano, stringendo l’altra a pugno e alzandola. «Miss Lily.» Trayer si volse. Era Galen MacLeaf, sulla sommità della brughiera sopra di loro, le gambe divaricate, e gli occhi azzurri e vivaci che guardavano Trayer con lampi di sfida. «Mi hanno detto di venirti a cercare. Lowdy ha detto che il padrone vuole che tu vada subito da lui.» Trayer si girò. Lily volse il volto per evitare lo sguardo dell’uomo, ma mentre gli passava accanto, udì che mormorava: «Alla prossima, puttana». Un brivido le corse lungo tutta la spina dorsale.


«Grazie Galen», fu tutto quello che riuscì a dire a MacLeaf, ma la gratitudine che le colmò gli occhi gli fece capire quanto fosse stato tempestivo il suo arrivo. «Gli do' un calcio e lo butto in mare, se vuoi, Lily», le disse a bassa voce, toccandole un braccio. «Non è successo nulla, davvero. Meglio lasciar perdere.» La guardò sorridendo. «Come preferisci, ma questa è l’offerta, sempre pronta, ogni volta che ne avrai bisogno.» Si sforzò di sorridere, ma non vi riuscì. Separandosi da Galen, si diresse verso la casa, conscia di avere lasciato dietro di sé un amico fidato e un nemico pericoloso.

Capitolo nono Devon uscì dal sonno leggerissimo quando udì aprirsi la porta e vide Lily che entrava in punta di piedi. «Dove diavolo sei stata?» le chiese subito. I suoi occhi la fissarono con attenzione. Si sollevò su un gomito con grande fatica e le fece un’altra domanda, con voce più dolce: «Che cosa diavolo hai fatto?» Ignorandolo deliberatamente, Lily si avvicinò al comodino, dove la brocca di birra era ancora mezza piena. Ne versò la maggior parte in un bicchiere, nel bicchiere di Devon, e la bevve avidamente, senza fermarsi. «Che cosa volete da me?» chiese senza mezzi termini, portando il dorso della mano alla fronte sudata. Con una velocità sorprendente, di cui non l’avrebbe mai creduto capace, le prese il polso con una mano. La tirò delicatamente per un braccio, e lei incespicò contro il bordo del letto. Girandole la mano, fissò la carne viva, ricoperta di vesciche, della palma. Sollevò lo sguardo, sorpreso, poi volle prendere anche l’altra mano. Ma lei fu più veloce, e la nascose dietro la schiena. «È uguale», disse con forza. «Che cosa volete da me?» Lasciando cadere la mano di lei, Devon si appoggiò di nuovo al cuscino. «Voglio che tu ti sieda.» «Bene.» Lily inspirò, quindi si lasciò andare sulla sedia accanto al letto. I muscoli le dolevano di fatica. Ma era tutto così calmo e buio, e c’era tanto silenzio, in quella stanza. Quando passò un lungo istante senza che nessuno dei due parlasse, Lily si rilassò e chiuse le palpebre: avrebbe persino potuto addormentarsi in quello stesso momento. Più tardi, dopo un secondo? Un minuto?, si riprese, spaventata. Devon la stava ancora guardando. «Come vi sentite?» gli chiese, sentendosi in colpa. Le pareva comunque che lui avesse un aspetto migliore, forse non pallido come prima. «Che cosa fai, Lily? Che lavori ti fanno fare?» Quella domanda sorprese entrambi. «Pulisco la vostra casa», rispose semplicemente. «Sì, lo so... ma cosa fai, esattamente?» Sospirò e appoggiò il capo contro lo schienale della sedia. «Lucido i mobili, lavo i pavimenti e batto i tappeti. Spolvero, metto in ordine, aiuto in cucina, faccio il bucato, qualche volta aiuto a mungere e fare il formaggio.» Le palpebre si abbassarono nuovamente; con sforzo enorme le sollevò per vedere se lui la stesse ancora ascoltando. «Faccio quello che mi dicono di fare», concluse poi stancamente. «Perché lo fai?»


«Perché?» ripeté ridendo, ma senza divertimento. «Per vivere.» Lo fissò, posando lo sguardo su quel volto severo. La conversazione aveva preso una piega strana, pericolosa. Temeva che il suo volto tradisse qualcosa, e lentamente si alzò, cercando di assumere un tono allegro. «Avete già cenato?» «Non voglio nulla.» Aprì la bocca per protestare quando sentì un leggero bussare alla porta. Ebbe appena il tempo di allontanarsi dal letto e di impegnarsi a rimettere a posto piatti e bicchieri sul vassoio prima di aprire. Era Stringer, il maggiordomo. A Lily diede l’impressione che l’uomo non la guardasse di proposito. «Ci sono delle persone che vogliono vedervi, signore. Finanza, hanno detto.» «Falli entrare, Stringer. Parlerò con loro in questa stanza.» «Molto bene, signore.» Appena si chiuse la porta, Lily si avvicinò ancora al letto. «Siete sicuro che state facendo la cosa giusta?» chiese ansiosa, aiutandolo a sedersi sul letto, poi ad alzarsi. Assieme raggiunsero la scrivania, con lei che gli teneva un braccio attorno alla vita. Si sedette a fatica. Il volto aveva già assunto un aspetto sofferente, l’incarnato era grigiastro e stava già sudando. «Non dovreste fare una cosa del genere», mormorò, accorgendosi che comunque era come se stesse parlando a se stessa. «Avete un aspetto orrendo.» Gli passò le dita di una mano tra i capelli per pettinarli, mormorando: «Scusatemi». Poi lo fissò, critica. «È meglio che apra le tende? Avete un aspetto malato, ma con le tende chiuse pare di essere proprio nella camera di un moribondo. Non sono sicura...» «Sì, aprile.» Con una mano sollevò il pesante libro mastro e lo aprì su quel giorno. «Passami una penna, in fretta.» Aprì il calamaio, poi prese il coltello che le aveva passato e affilò una delle penne che si trovavano in un contenitore sulla scrivania. «Per fortuna non siete mancino», mormorò distratta, passandogli la penna così preparata. «Preferite alzarvi quando arriveranno?» «Certo che no. Il Visconte di Sandown non si scompone per la visita di un paio di insignificanti azzeccagarbugli.» L’umorismo asciutto che traspariva dal suo tono le ridiede un po’ di sicurezza e buonumore. D’impulso, allungò una mano e gli pizzicò le guance. «Per farvi prendere un po’ di colore», gli disse quando vide che il visconte spalancava gli occhi azzurri. Per un lungo istante le dita sottili di Lily indugiarono sulla guancia di Devon, ma trasalì quando udì altri colpi lievi alla porta. «Buona fortuna!» Raggiunse la porta proprio nel momento in cui si apriva. Due uomini entrarono precedendo Stringer. Devon riconobbe in uno dei due Polcraven, il ricevitore delle dogane di Fowey; l’altro invece gli era sconosciuto. Devon strinse le braccia al petto e si chinò un poco in avanti sulla sedia. Facendo quell’inconsulto movimento, sentì una fitta dolorosissima alla spalla, ma si costrinse a non trasalire. «Signori», esordì con quello che sperava paresse un tono di sdegnata indifferenza. «A cosa debbo questo piacere inaspettato?» chiese. Poi, rivolgendosi a Lily, che era ancora in piedi e si martirizzava le mani, «Grazie, è tutto....» Lei fece un breve inchino e uscì, ma Devon notò che lasciò la porta aperta. «Vostra signoria», iniziò Charles Polcraven con un lungo inchino, mettendo in


serio pericolo la posizione della sua parrucca. «Perdonatemi questa intrusione, vi prego, ma non ci metteremo più di due minuti. Dobbiamo farvi un paio di domande semplicissime. E vi posso assicurare che non è stata di certo un’idea mia quella di venire qui e disturbarvi in questo modo così incivile, senza preavviso o...» «No, è stata mia.» Devon intrecciò le dita sulla bocca, e guardò in su verso quell’uomo alto, dal volto deciso, in uniforme, che era in piedi accanto a Polcraven. «Davvero? E voi siete...?» «Luogotenente della Finanza Edward Von Rebhan, comandante del cutter Royal George» Fece un perfetto inchino militare. «Luogotenente.» Devon assunse una espressione di bonaria sorpresa. «Cosa posso fare per voi?» «Potreste dirci dove siete stato la notte scorsa», rispose con sicurezza Von Rebhan, mentre Polcraven spostava continuamente il peso del proprio corpo da un piede all’altro, emettendo ogni tanto qualche lieve suono di nervosismo e scusa. «Davvero? E perché mai, mi chiedo?» «Poiché la pena per aggressione a un ufficiale della Finanza è l’impiccagione.» «Ma signore!» urlò Polcraven, fendendo l’aria con le mani e balzellando qua e là. «Vi chiedo perdono, lo faccio con la massima umiltà, non era affatto questo che eravamo venuti a dirvi!» «No? E allora cosa volevate dirmi?» Il tono freddo, tranquillo della voce del visconte fece impallidire ancor di più Polcraven, togliendogli per qualche istante la completa facoltà di parola. Il luogotenente Von Rebhan si portò una mano al cappello, che calzava sulle ventitré. «Mi scuso se sono stato troppo diretto», disse seccamente. «Permettetemi di spiegarvi le circostanze della nostra visita, signore.» «Non vedo l’ora.» Devon accavallò le gambe e batté con impazienza due dita sulla superficie della scrivania, un modo per distrarre gli altri dalla mano che si passò sul volto per tergersi il sudore che gli imperlava il labbro superiore. Era perfettamente lucido, ma il dolore pulsante alla spalla era senza tregua. Von Rebhan si schiarì la gola. «Ieri mattina, mio signore, durante una perlustrazione di routine al largo di Fowey, il mio cutter ha incrociato uno sloop che si trovava in una insenatura nascosta.» «Una insenatura nascosta?» chiese, lasciando che la sua voce si velasse con una nota di divertimento. «Proprio così, signore, una insenatura nascosta. Una delle molte lungo il fiume, in quella zona dove le imbarcazioni dei contrabbandieri vengono attraccate per scaricare le merci contrabbandate. Quello sloop era deserto, e noi l’abbiamo confiscato immediatamente.» «Sono contento di sentirvelo dire. Sono certo che i vostri superiori saranno soddisfatti di voi.» Gli occhi grigi di Von Rebhan si indurirono. «Lo dubito molto, signore. Dodici ore dopo, mentre i miei uomini aspettavano rinforzi dalla Guardia costiera di Falmouth, sono stati aggrediti.» «Aggrediti?» «Da più di una dozzina di bricconi, che avevano pistole, spade e coltellacci. I miei


uomini sono stati circondati, sospinti in acqua e lasciati annegare.» Devon si passò una mano sulla bocca per celare un sorriso: in realtà, erano stati solamente cinque «bricconi». «Lasciati annegare?» chiese incuriosito. «Ma pensavo che lo sloop fosse attraccato in una ‘insenatura nascosta’.» Il luogotenente arrossì leggermente e iniziò ad accarezzarsi i baffi, imbarazzato. «Avrebbero anche potuto annegare», disse ostinatamente. «Due non sono in grado di nuotare.» «Ah.» «In quel momento, il mio cutter si trovava alla foce del Fowey, in attesa dei supporti da Falmouth. Lo Spider era...» «Il che?» Gli occhi astuti di Von Rebhan si strinsero, osservandolo con attenzione. «Lo Spider», ripeté lentamente, e questa volta era la sua voce a essere satura di derisione. «Sarebbe l’imbarcazione dei contrabbandieri?» chiese Devon gentilmente. «Esattamente. Hanno visto lo Spider avvicinarsi alla costa, poi ne è sceso un passeggero, e quindi l’imbarcazione ha ripreso il largo. Il Royal George gli si è messo all’inseguimento.» Devon si sfregò le mani, «Luogotenente, immagino che ci sia un motivo particolare per cui mi state raccontando tutta questa storia, ma nel frattempo debbo dire che mi sto divertendo molto. E mi pare si stia facendo sempre più eccitante.» Von Rebhan arrossì di nuovo, e si tormentò i baffi nervosamente, come se volesse avvitarli. «Lo Spider portava venti cannoni fissi e venti cannoni girevoli», proseguì. «E aveva pure una carronata. Si avvicinò a noi e ci cannoneggiò per più di un quarto d’ora. Alla fine, il mio cutter ha riportato trenta fori nelle vele, due dozzine nello scafo, e l’albero maestro e l’albero di mezzana sono stati abbattuti.» «Avete perso degli uomini?» «No.» Devon mascherò il senso di sollievo con un moto di impazienza. «Bene, bene. Allora è tutto a posto?» «Non del tutto. Pensavo potesse interessarvi sapere cosa successe al passeggero dello Spider sbarcato vicino a Polruan, mio signore.» «No, non mi interessa. Ma se la cosa serve ad arrivare al dunque, proseguite pure e ditemi tutto.» «Evidentemente quell’uomo aveva lasciato già pronto un cavallo. Così, nell’oscurità, iniziò a dirigersi a ovest. Verso Trewyth.» Devon sorrise. «Trewyth? Verso St. Austell, Mevagissey e Portloe, allora. Per non parlare di Truro, Redruth, Hayle, Penzance...» «Grazie, signore, avete ragione. In ogni caso, proprio a nord di Dodman Point è stato superato dalla Guardia a cavallo mandata da Falmouth per supportare la confisca dello Spider. Erano in quattro.» Almeno quel dato era giusto, si disse. «E hanno catturato quell’uomo?» «No, non ci sono riusciti. Ha avuto la meglio.» Devon lo fissò inarcando le sopracciglia. «Mi stupite, luogotenente. Com’è possibile che sia accaduta una cosa del genere?» «Io non c’ero, mio signore», Von Rebhan rispose tra i denti. «Non so spiegarlo.


Tutti gli ufficiali sono stati disarmati, e due di loro sono stati feriti alla testa.» «Incredibile. E quest’uomo se ne è andato illeso?» «No, tutt’altro. Un ufficiale mi ha assicurato che è stato ferito gravemente, forse mortalmente.» «E tuttavia non l’avete trovato?» Esitò per un lungo istante, poi rispose sinceramente. «No, mio signore. Non ancora.» «Mi spiace davvero. E perché mai mi avete raccontato questa storia?» Ora che era giunto il momento culminante della visita, il luogotenente parve perdere del tutto coraggio. Polcraven si fece forza e parlò in sua vece. «Ho detto e ridetto al luogotenente Von Rebhan che i suoi sospetti sono del tutto infondati, vostra signoria, ma non ha voluto ascoltarmi. Si è convinto che vostro fratello sia il capitano dello Spider, e che voi stesso eravate con gli uomini che sono riusciti a strapparlo agli ufficiali della Finanza la notte scorsa!» Maledetto ipocrita, pensò Devon; non aveva dubbi sul fatto che Polcraven fosse uno dei finanzieri che Clay pagava regolarmente in cambio della promessa di chiudere un occhio e non parlare. Scoppiò in quella che sperò essere una risata incredula molto convincente. «Ma è vero, luogotenente?» «Si tratta di una supposizione su cui mi hanno chiesto di investigare», rispose Von Rebhan in tono tornato sicuro. «Chi?» «L’ispettore degli Sloop di Exeter. Che, tra l’altro, prende gli ordini direttamente dal Ministro degli Interni.» «Molto interessante, davvero. E devo desumere che voi credete che io sia l’uomo ‘mortalmente ferito’ poche ore fa dagli ufficiali della guardia a cavallo?» Von Rebhan rimase in silenzio, palesando tutto il suo imbarazzo. «Ebbene? È questo quello che pensate, luogotenente?» Devon si alzò improvvisamente e attraversò il breve spazio che lo separava dai due uomini. Polcraven indietreggiò, mentre il luogotenente rimase coraggiosamente al suo posto. «Vi sembro un uomo mortalmente ferito?» chiese a bassa voce. Provava solamente una vertigine momentanea, nient’altro, ma avrebbe voluto essersi alzato più lentamente. «Sto solamente facendo il mio dovere, signore. Non era affatto mia intenzione insultarvi. Tutta questa sgradevole faccenda sarebbe risolta in pochi istanti se voi foste così gentile da dirci dove siete stato la notte scorsa.» «E io vi dico che non sono affari che vi riguardano.» «Alcuni domestici ci hanno detto che non eravate a casa per cena, né che voi...» «E voi avreste osato interrogare i miei domestici?» Devon urlò. Il tono della sua voce costrinse Polcraven a indietreggiare ancor più, fino alla porta. Ma Von Rebhan non si fece intimidire. «Sì, signore», ammise risolutamente. «Né voi né vostro fratello eravate in casa ieri sera.» «Mi state dicendo, luogotenente, che la dimora dei miei antenati non è altro che un covo di ladri, un ritrovo di tagliagole e contrabbandieri, colmo di vizi e violenza?» «Non ho alcuna opinione in merito, signore; sto soltanto facendo un’inchiesta. Sareste così gentile da dirmi dove si trovava vostro fratello ieri sera?» Devon sospirò con aria sconfitta, e tornò alla scrivania, sedendosi sul bordo e sperando di non dare l’impressione di stare per crollarvi sopra. «Benissimo, ve lo


dirò, così da liberarmi di voi. Clay si sta recando a Londra, passando per il Devonshire, a far visita a sua madre. Poi vuole passare per Epsom, Petworth, Newmarket, spendendo un po’ di denaro qua e là. Non so proprio quando arriverà in Russel Square; penso che dipenda dal tipo di cavalli che sceglierà per il viaggio. E ora, andatevene.» Il luogotenente lo guardò con aria risoluta. «Non vorrei mai mancarvi di rispetto, ma vi spiacerebbe dirci dove eravate voi?» «Sì, mi spiacerebbe molto. State mettendo a dura prova la mia pazienza, signore. Venite qui, in casa mia, non invitati, vi mettete a fare domande ai miei domestici. Avete la sfrontatezza di dirmi che assalire ufficiali della Finanza è un peccato punibile con la morte, e l’impudenza di citare il nome del Ministro degli Interni nel patetico tentativo di minacciarmi. Io sono un membro della Camera dei Lord, signore, e il Ministro degli Interni è stato ospite qui, in casa mia. Anch’io potrei iniziare a minacciarvi, ma mi parete un uomo di giudizio. Quindi spero vivamente che avrete il buonsenso di allontanarvi da questa stanza nei prossimi secondi, luogotenente, di portare con voi anche Polcraven e di andarvene entrambi all’inferno, fuori da casa mia.» Il volto di Von Rebhan era paonazzo. «Allora non volete rispondere?» Devon lo fissò con freddezza. «In questo caso, non c’è più molto da dire. Ma prima di lasciarvi è bene che sappiate un paio di cose, e vi assicuro che non si tratta di una minaccia: questa faccenda è ben lungi dall’essere chiusa, e avrete notizie mie o dei miei superiori tra brevissimo tempo. Buongiorno a voi.» Per Dio, Devon non poteva fare a meno di ammirare quel bastardo. Non invidiava ovviamente quel lavoro ingrato, sottopagato, ed era pronto a scommettere che Edward Von Rebhan fosse uno dei pochi rappresentanti della Finanza corretti che ci fossero in Cornovaglia. «Buongiorno», gli rispose, e lo osservò mentre usciva. Polcraven lo seguì immediatamente, camminando all’indietro come un granchio, cercando di inchinarsi e di fuggire al contempo. Devon si alzò dalla scrivania dirigendosi alla finestra, dove si chinò sul parapetto tamponandosi il volto imperlato di sudore con un fazzoletto. Almeno era riuscito a non svenire, e la cosa gli faceva ovviamente molto piacere. Ma, diavolo! Von Rebhan non era affatto uno stupido e non stava fingendo: sarebbe certamente tornato. E la prossima volta non sarebbe stato dissuaso da un tono irridente o eccessivamente indignato. L’ufficiale, o qualcun altro al suo posto, avrebbe certamente insistito, con gentilezza ma insistito, nell’ottenere quelle risposte. Devon doveva inventare qualcosa in pochissimo tempo, e poi avrebbe dovuto fornire delle prove. «Fornire delle prove» significava corrompere qualcuno affinché mentisse. Che Clay sia dannato! Pensò. Indubbiamente avrebbe trovato tutta la storia molto divertente, quando fosse tornato e avesse saputo i dettagli. Devon avrebbe voluto strozzarlo; ma, come al solito, il suo cattivo umore sarebbe stato rallegrato dal dannato fascino fanciullesco di Clay. Eppure, a ventitré anni, suo fratello era ben lontano dalla fanciullezza. L’unica cosa buona in questo stupido affare dello Spider era che avrebbe distolto Clay dai suoi sogni, facendogli finalmente toccare con mano qualcuna delle realtà più semplici della vita. Nel frattempo, Devon si sentiva costretto a utilizzare tutta la sua astuzia per fermare un’inchiesta che altrimenti avrebbe lui


stesso favorito. Era sicuramente dalla parte di Von Rebhan: aveva votato atti tesi a finanziare l’assunzione di un numero maggiore di uomini simili a lui! Che situazione intollerabile: più ci pensava, più si arrabbiava. Appoggiò la fronte al vetro, fissando lo sguardo sulla distesa rocciosa che terminava nel mare. Dov’era Lily? Si sentiva malissimo, e lei avrebbe dovuto essere al suo fianco, prendendosi cura di lui. Forse non si era spiegato bene su quello che desiderava da lei. L’avrebbe fatto subito, non appena lei... Sentì bussare con decisione alla porta. Balzò subito in piedi, asciugandosi il volto con un fazzoletto. «Avanti!» Si rilassò quando vide Lily, ma si agitò di nuovo quando intravvide dietro di lei Von Rebhan e Polcraven. Stava per sbottare, quando notò che tutti avevano sul volto le medesime espressioni di imbarazzo. Dei tre, Lily era certamente la più imbarazzata. Che cosa stava succedendo? Riuscì a incrociare le braccia senza trasalire, e attese. Von Rebhan guardò Polcraven, e quest’ultimo ricambiò lo sguardo tenendo ostinatamente la bocca chiusa. Von Rebhan si schiarì la gola e fece per parlare, poi ci ripensò e tornò alla porta, per richiuderla. «Ebbene? Che diavolo succede ora?», domandò Devon interrompendo il silenzio che era calato nella stanza, pesante come un sipario. Lily si stava tormentando le dita, il volto rosso per la vergogna, e pareva che volesse scomparire sotto il tappeto. Il luogotenente si riprese prontamente. «Ebbene, mio signore, questa ragazza mi ha appena raccontato tutta la storia, ma sono costretto a chiedervi di confermarla.» Le mani di Devon si strinsero convulsamente, celate nelle tasche. Gli pareva che una bomba gli fosse deflagrata nel petto. Ma la sua voce aveva una tonalità miracolosamente casuale quando rispose: «Davvero? E che cosa vi ha detto?» Un qualcosa nel tono di Devon fece rialzare repentinamente il capo a Lily. Mio Dio, pensa che abbia detto loro tutta la verità. Immediatamente gli occhi le si riempirono di lacrime, chinò il capo per nasconderle, soffrendo per il dolore sordo che le faceva dolere la gola. Ma come può pensare una cosa simile, anche per un solo istante? Com’è possibile? Von Rebhan riprese a tormentarsi i baffi. «Ci ha detto, signore, che ha trascorso tutta la notte scorsa a partire dalle dieci, circa, nella dépendance per gli ospiti. Con voi.» Si schiarì con forza la gola. «Ha detto che vi siete rimasti fino a poco dopo l’alba. Ah, e poi ha aggiunto che non avete alcuna ferita su... sulla vostra persona.» Guardò Devon negli occhi, nonostante il rossore diffuso sulle guance. «Sta dicendo la verità?» Lily sollevò timidamente lo sguardo. Il volto di Devon era un vero mistero, impossibile decifrare quello che stava pensando. Sentì che le guance le bruciavano sempre di più, e abbassò ancora lo sguardo. Quella tensione le era insopportabile, si chiese che cosa stesse pensando, che cosa mai avrebbe risposto. Dopo un’eternità parlò, e il suo tono era freddo e tanto tranquillo da farla rabbrividire. «Sì, sta dicendo la verità. Ma vi avviso che se verrò mai a sapere che questa notizia è stata diffusa al di fuori delle quattro mura di questa stanza, farò in modo che i vostri incarichi presso la Dogana abbiano immediatamente termine e che


non ne troviate altri qui in Cornovaglia per il resto della vostra vita. Potete prenderla anche come una minaccia, se preferite. Io, invece, la considero una promessa. Ci siamo capiti?» «Sì, certamente, mio signore, assolutamente, senza alcun dubbio», balbettò Polcraven. Devon lo guardò con disprezzo, perché non aveva alcun dubbio sul fatto che, nel giro di qualche ora, tutta la zona avrebbe risaputo quella storia. La reazione di Von Rebhan, invece, fu più complessa; a Devon pareva quasi di udire la lotta che stava avvenendo nella mente dell’uomo, che cercava disperatamente di separare verità e finzione. Alla fine parve giungere a una conclusione. «Considerato quanto voi e questa donna ci avete appena confermato, pare proprio che non ci sia più alcun motivo di proseguire l’indagine. Non riesco a vedere alcuna ragione per cui... l’argomento che abbiamo discusso debba essere risaputo anche da altri oltre a noi stessi. Come gentiluomo – e sono certo di interpretare anche il punto di vista di Polcraven – sono obbligato a rispettare i vostri affari privati, signore, e posso dirvi che i rapporti che dovrò stilare saranno il più vaghi possibile in merito, così da assicurarvi che la vostra privacy non venga lesa.» «Giusto, giustissimo», mormorò Polcraven. «Allora posso considerare chiuso questo argomento?» Dopo una lievissima esitazione, Von Rebhan rispose «Sì, mio signore. Penso proprio che non verremo più a disturbarvi.» «Bene, allora vi auguro buon pomeriggio.» Devon piegò impercettibilmente il capo in segno di congedo e li osservò mentre uscivano, cercando di nascondere quanto più possibile un senso di sollievo. Quando Lily fece per seguirli, la chiamò per nome, a bassa voce. Si fermò. «Devo... tornerò, ma ora Mrs Howe mi ha dato un incarico e ho già...» «Chiudi la porta e torna qui...» Sospirò, ma fece ugualmente quanto gli era stato chiesto. Tenendo la schiena appoggiata alla porta, lo osservò mentre percorreva tutta la camera, da un lato all’altro, e si chiese chi avrebbe parlato per primo. Lo fece lui. «Perché l’hai fatto?» E allora le parole sgorgarono. «So che non avrei dovuto... mi spiace se vi ho causato altri guai, ma sapevo che non vi credevano ed è stata l’unica cosa che mi è venuta in mente di dire. So di avervi creato imbarazzo, e vi chiedo scusa. Comunque, penso che non lo riferiranno a nessuno, non dopo quello che avete detto loro. Non dovete preoccuparvi che qualcuno lo venga a sapere, non penso proprio. Davvero, non credo che parleranno, siete stato così chiaro...» «Lily, ma pensi che sia arrabbiato con te?» Strinse le braccia per cercare di bloccarne il fremito. «Non so, sì, penso che potreste esserlo. Lo siete?» «No, certo che no. Mi hai salvato la pelle, perché dovrei essere arrabbiato?» «Oh», si sentiva ridicolmente felice. «Ma vi ho messo in imbarazzo.» «È questo quello che pensi?» Forse quella ragazza era davvero molto ingenua. «Volevo che Von Rebhan lo pensasse, in modo da fargli capire per quale motivo non gli avevo voluto raccontare sin dall’inizio la storia che poi gli hai raccontato tu. Ma viviamo in un mondo malvagio, mia cara; nessuno dei miei conoscenti, con


l’eccezione di mia madre, sarebbe scandalizzato se venisse a sapere che ho avuto una storia con una delle cameriere.» «Oh, capisco... Ma sì, certo.» Troppo tardi comprese che non erano queste le parole che avrebbe dovuto usare. Le guance di Lily erano rosso porpora, come se l’avesse schiaffeggiata, e fissava con sguardo vitreo qualcosa dietro le spalle di Devon. Mio Dio, era proprio suscettibile! Chiederle scusa, però, gli pareva eccessivo, non sapendo bene cosa dire. Invece, si limitò a farle una domanda. «E tu, Lily?» Si costrinse a guardarlo. «Io? Che cosa intendete dire?» «Se il tuo fidanzato venisse a saperlo, cosa penserebbe? Si arrabbierebbe, no?» «Sì, penso di sì, credo di sì.» Devon aggrottò la fronte. La risposta non gli era piaciuta affatto. «E allora ti sono doppiamente grato, per rischiare di dargli un dispiacere per colpa mia. Vorrei ricompensarti. Vieni qui... vieni.» Lei gli si avvicinò riluttante. Devon teneva la mano tesa verso di lei. Lily avrebbe voluto essere lontana da lì, essere sola. E invece, con grande riluttanza, pose la sua mano in quella di lui. Devon la trattenne delicatamente, stupito nel vedere quanto fosse ruvida per il troppo lavoro, con le unghie corte e spezzate, e accarezzò quella palma ferita con il dito indice, in lievi movimenti circolari. «Qualsiasi cosa Howe ti costringa a fare», disse aspro, «voglio che tu smetta immediatamente di farlo.» Prima che potesse dire qualcosa, lui le chiese: «Che sorta di ricompensa desideri?» Lei sollevò lo sguardo, stupita. «Ma io non voglio alcuna ricompensa. Penso che voi dovreste coricarvi.» «E dove sarebbe l’incentivo? Mi sembra ormai di avere capito che tu non ti coricheresti mai con me.» Pur essendo scomposta e avendo un’aria stanchissima, era ancora bella. I suoi occhi erano veramente straordinari, la bocca morbidissima. «Avete la febbre.» «Sì, è così. Sto bruciando.» Le cinse con una mano la nuca e l’attirò a sé, ma lei si allontanò immediatamente. Lui emise un involontario gemito di dolore. Nascondendo la preoccupazione sotto un’aria severa, Lily gli prese un braccio e cercò di guidarlo verso il letto. «Non vorrei mancarvi di rispetto, ma vi sta bene», lo riprese. Ma lui improvvisamente le passò una mano attorno alla vita e l’attirò ancora a sé. «Vedo che non state poi male come pensavo», osservò con voce malferma, rimanendo immobile così da non fargli male. «Non è vero. Ho un dolore tremendo e c’è una medicina soltanto.» «Chissà quale. Andate a letto, su, altrimenti...» «Non fino a quando troverò la cura. Ah, ecco, l’ho trovata. È qui.» Le toccò la bocca con la punta delle dita. «Proprio qui.» «Devon... Mister Dark...» «Sshh, sto prendendo la medicina.» Le diede un lieve bacio sulle labbra, stupito dalla propria voglia di scherzare. Era proprio quello che voleva fare, scherzare un poco con lei, toccarla. Ma lei sospirò, e quel dolce suono sorpreso lo affascinò. Aveva quasi dimenticato quanto fosse dolce. Il bacio si fece profondo, in modo naturale, e il puro piacere che ne derivò fu incantevole: per il tempo che durò, gli parve davvero di


essere guarito. Ma poi quel magico momento finì, la ragione tornò, e si allontanarono l’uno dall’altra, ben consci del proprio ruolo e delle proprie differenze. «Siete abbastanza in forze per trovare il letto da solo, vedo», disse Lily senza fiato. Indietreggiò verso la porta. «Più tardi vi porterò la cena. Ora mettetevi a dormire.» «Aspetta, Lily, non puoi andartene.» «Devo andare.» «Dannazione!» Ora che non la stava baciando, si sentiva veramente molto male. Si spinse fino al letto, sedendosi a fatica, con il braccio ferito tenuto ben stretto al petto. «Ma dove diavolo devi andare?» «Sapete, sono qui per lavorare.» Lo fissò, aspettando, e alla fine gli spiegò la situazione, sebbene le pesasse molto farlo. «Mrs Howe mi ha dato un lavoro da fare. Devo finirlo.» «Non voglio che tu finisca questo ‘lavoro’.» «Se io non lo finisco, me ne darà un altro.» «Che cosa ti obbliga a fare, Lily?» Distolse lo sguardo, poi lo fissò nuovamente. «Qualcosa... ma che differenza fa? Qualcosa che debbo fare.» Perché non riusciva a dirgli la verità? Non aveva alcun senso mantenere questo segreto. Ma dirglielo sarebbe stato come ammettere che aveva bisogno di aiuto, perché si sentiva sconfitta. «È una punizione?» Il volto della giovane lo affascinava; emozioni fugaci, complesse si susseguivano così velocemente che era quasi impossibile interpretarle. Quando non gli rispose, fu lui stesso a darsi una risposta. E ora intuiva il motivo per cui era stata punita. «Hai dormito un po’ stanotte?» Alzò una spalla. «Tanto quanto voi, suppongo.» «No, ne dubito. Hai mangiato?» Non gli rispose. Strinse gli occhi, poi le ordinò: «Vai a dormire». Lei rise, amara. «Vi ho detto che...» «E io ti ho anche detto che lavori per me, non per la mia governante. E poiché in questo momento non ho bisogno di te, ti ordino di andare a letto. Immediatamente.» Si soffermò sul pensiero di andare a letto, nella camera scura e silenziosa, sdraiarsi, dormire... Chiuse gli occhi e tremò. «Vai.» «Ma...» «Vai.» «Ma lei...» Come spiegargli la verità? «Se voi poteste...» No, non gli avrebbe mai chiesto una cosa simile. Nascose le mani strette sotto il grembiule. Devon prese la corda del campanello e diede uno strattone. «Ora la mando a chiamare. Le spiegherò quello che voglio. E quello che voglio è che tu ti dedichi solamente a me per i prossimi giorni.» «Oh, ma lei penserà...» «Non mi importa un accidenti di quello che lei pensa.» A me sì. Ma ovviamente la cosa non gli importava molto. Lui era convinto di essere molto generoso, in quel momento. «Vai a letto, Lily», ripeté, questa volta con voce molto gentile. «Non voglio vederti


prima che sia buio.» «Va bene», accettò dopo una lunga pausa. «Andrò. Ma tornerò tra un’ora, più o meno.» Continuò, anche se lui stava sbuffando: «Vi porterò qualcosa da mangiare. Sì, lo farò. Ora andate a dormire anche voi, signore». Per un brevissimo momento entrambi sorrisero. Poi lei se ne andò. E Devon si arrabbiò con se stesso per non avere almeno pensato di proporle di dormire nel suo letto. Il padrone

Capitolo decimo «Perché i malati si chiamano pazienti, quando sono le infermiere a dover avere tutta la pazienza del mondo?» «Ha, ha», rispose Devon senza sorridere. «Allora, avete intenzione di berlo o no?» «No, sa di concime bollito.» «È una camomilla speciale; dovrebbe essere calmante.» «Sono sicuro che calma solo gli scarafaggi che si trovano nel concime.» Lily fece schioccare la lingua per esprimere il proprio disappunto e pose la tazza sul comodino, rovesciando un poco dell’infuso sul piattino. «Siete veramente impossibile. Vi farà sicuramente bene. Cabby Dartaway mi ha spiegato come prepararlo.» «Ah, ma allora questo spiega tutto. Cabby Dartaway è una strega.» «Una strega! Che sciocchezza. Mi ha anche insegnato a preparare quell’impiastro che voi stesso avete detto avervi alleviato tanto il dolore alla spalla.» «Quella cosa che aveva odore di furetto morto?» «No», obiettò Lily, reprimendo un sorriso. «Quelle erano radici di consolida. Parlo delle foglie di bardana essiccate. Avete detto che avevano l’odore della poltiglia sporca che si forma negli stagni alla fine di luglio.» «Peggio ancora.» «Sì, beh, è colpa vostra. Se aveste chiamato subito un medico, io non avrei dovuto cimentarmi come apprendista strega. Penso che sia giunto il momento di smettere di lamentarvi e dire piuttosto una preghiera di ringraziamento perché siete ancora vivo.» «È quello che pensi?» Mise le mani sui fianchi: «Sì». Gli era ormai quasi impossibile intimidirla, anzi vi aveva proprio rinunciato. E trovava molto più interessante cercare di provocarla, e vederne poi la reazione. Ma la sua pazienza pareva davvero senza limiti: era proprio una infermiera perfetta. Poteva essere particolarmente severa, ma più spesso utilizzava una gentilezza disarmante per trattare con lui. E doveva ammettere che vi erano stati momenti negli ultimi quattro giorni in cui aveva avuto bisogno di tutta la sua pazienza per poterlo curare. «Vi lascio un po’ solo, così potrete fare un pisolino.» «Non ho sonno.» «Vi verrebbe sonno se aveste bevuto quell’infusione.» «Ma poiché non l’ho fatto, potresti anche rimanere.»


«Devo andare giù e dire a Mrs Belt quello che vi deve preparare per cena.» «Chiama un domestico e manda un messaggio.» «Io... preferirei non disturbare; preferirei andare personalmente.» «E io preferirei che tu restassi.» Lily scrollò il capo, indecisa tra esasperazione e divertimento, sapendo che queste prove di volontà a cui lui la sottoponeva continuamente erano appositamente studiate per irritarla nella speranza di provocare una qualche reazione fuori posto. Quest’ultima prova era stata particolarmente dura, ma dubitava che lui potesse comprenderne il motivo. Non poteva infatti immaginare – e di certo la cosa non lo interessava poi così tanto – quanto la reputazione di Lily fosse peggiorata, ora che tutti i domestici erano convinti che fosse diventata l’amante del padrone. «Bene», disse in tono pacato, non abboccando all’esca. «Chiamerò Dorcas e parlerò con lei in corridoio.» Prese il cordone del campanello appeso alla parete, proprio in corrispondenza della spalla di Devon. In quel medesimo istante, lui le cinse la vita con le mani e strinse. Abbassando lo sguardo, Lily vide il bagliore divertito nei suoi occhi. Un tempo una simile libertà di comportamento l’avrebbe scioccata, ma adesso, che simili atteggiamenti si ripetevano quotidianamente – anzi ogni ora, da quando gli stavano tornando le forze – la cosa le provocava solo un leggero fastidio. E qualche volta nemmeno quello. «Grazie, ma non ho proprio bisogno di aiuto», mormorò mentre dava alla corda il numero esatto di strattoni per chiamare la sguattera. «Sicura?» Gli lanciò uno sguardo severo, ma una parte di lei si disse che avrebbe fatto veramente di tutto per ravvivare e tenere ben desta quella rara scintilla di buonumore nel freddo sguardo, blu-verde. Allontanò le mani di Devon dalla vita con aria sicura e si strinse le braccia al petto. «Volete che vi legga qualcosa? Ci mancano solo poche ore alla fine del romanzo di Fielding.» «Leggi molto bene per essere una cameriera priva di educazione, Lily.» «Grazie. Penso che Bridget, la sorella di Mr Allworthy, riuscirà ad avere la meglio, non trovate?» sbottò in fretta, ansiosa di distrarlo da quell’argomento spinoso. «Se c’è qualcuno che può convincerlo che Tom è buono e Blifil è un maleducato è proprio lei, non credete? Come va la spalla? Vi fa ancora male? Se non volete bere l’infuso, magari potrei prepararvi un Cromwell.» «Un che?» «Una specie di ponce.» Devon pensò che si trattava di un’enorme concessione, visto che di solito Lily nel servire il brandy era restia, come una vecchia cameriera zitella. «Che cos’è un Cromwell?» «Non ne avete mai sentito parlare? Si prepara con brandy, sidro e un poco di zucchero. La sua variante è il Cromwell con il cappello.» «Che cosa sarebbe?» «La stessa cosa, solo che si raddoppia il brandy.» Ridacchiò. «Ti piacciono molto i Cromwell?» «Oh, non ne ho mai bevuto uno. La cosa più alcolica che ho bevuto è il vino. Ma i Cromwell piacevano molto a mio padre.»


«Ah.» «Allora non vi interessa sapere la fine di Mister Jones?» «No, non credo. E penso che non berrò nemmeno un Cromwell.» «Carte?» «Ah, ora capisco. Volevi farmi ubriacare per poi potermi battere a picchetto.» Lily fece una smorfia divertita. «Senza volervi mancare di rispetto, Mr Darkwell, non c’è bisogno di farvi ubriacare per battervi a carte.» «Ah, è così? Tirale fuori subito, allora. A rischio di perdere anche l’ultimo stoppino di candela in questa casa, accetto questa tua sfida inopportuna.» Lei prese il mazzo di carte sul tavolo e trascinò la sedia più vicino al letto; Devon si spostò leggermente, lasciando lo spazio per giocare. «Oh, non pensate di dover giocare per forza per me; dovrei anche rammendare. A che punteggio ci eravamo fermati?» chiese poi con aria innocente. «Come se non lo ricordassi perfettamente. Cinquantanove a sette, stavolta. Si arriva a cento.» «Penso che abbiate ragione.» Mescolò le carte, poi gliele porse affinché le alzasse, e quindi iniziò a distribuirle. «Credo che sareste d’accordo di alzare la posta, no?», soggiunse. «A quanto?» «Beh... oh... che ne dite di rocchetti di filo? Qualcosa che potrei usare davvero.» «Ma io non ne ho.» «No, ma penso che potreste averne suonando il campanello.» «Lily, se preferisci possiamo giocare a soldi.» «Molto generoso da parte vostra, ma odio l’idea di ripulire le tasche di un visconte e fargli perdere tutta la sua fortuna mentre è ammalato; sarebbe imbarazzante per entrambi.» A quelle parole, Devon scoppiò in una fragorosa risata. Era la prima volta che Lily lo sentiva ridere; si dimenticò di quello che stava facendo e lo fissò, sorridendo contenta. La risata era roca e insolita, incerta, come se facesse degli esperimenti. A lei piacque moltissimo, e giurò segretamente a se stessa che avrebbe fatto di tutto per indurlo a ridere più spesso. Ancora sorridente, Devon si riappoggiò ai cuscini, osservando l’abilità con cui lei sistemava le carte con le lunghe dita sottili, scartando e pescando dal mazzo. Aveva proprio un corpo elegante, grazioso, leggiadro. Guardandolo, si distrasse completamente, e questo fu il motivo per cui perse la maggior parte delle partite. Ma solo in parte: la ragione principale era che Lily era la miglior giocatrice di carte che avesse mai conosciuto. Il suo intuito nello stabilire quando essere cauta e quando audace era sempre corretto e mai troppo avveduto. Anche il suo volto lo confondeva: per quanto ci tentasse, non era mai in grado di scoprire come stesse valutando le carte che aveva in mano, indipendentemente dal gioco che stavano facendo. Di solito, infatti, conservava un’espressione piacevole, abbastanza divertita, che non rivelava proprio nulla, ma qualche volta sollevava un sopracciglio che dava l’impressione che fosse soddisfatta delle proprie carte, qualche altra pareva aggrottare la fronte, scontenta. Solo che, quando lui alzava la posta o si ritirava giudiziosamente basandosi su quelle espressioni fugaci, perdeva quasi sempre. Pensando di


confonderla, decise poi di basare il gioco sul contrario di quanto lei sembrasse lasciar trasparire – ma senza alcun risultato. «Chi ti ha insegnato a giocare a carte?» chiese alquanto irritato quando lei riuscì a fare punto e poi tris senza mai cambiare quell’espressione vaga, indecifrabile. Non era la prima volta che le faceva quella domanda, ma Lily non aveva mai voluto rispondere, non sapendo quanto rivelargli di se stessa. Di suo sarebbe stata portata a raccontargli tutto, ma l’esperienza le aveva insegnato l’amara saggezza del fare sempre attenzione. E tuttavia era tanto che non parlava spontaneamente e sinceramente a un’altra persona... «Mio padre», rispose. In fondo, che male avrebbe potuto fare quella confessione? «Giocava molto?» «Qualche volta.» «E che faceva quando non giocava?» «Mah... altre cose.» «Che cosa?» Aggrottando la fronte, Lily fissò lo sguardo sulle carte, passando distrattamente il dito indice sui bordi. «Faceva l’inventore», rispose alla fine. «Inventava delle cose.» «Che cosa?» «Niente di speciale.» «Non ha avuto successo come inventore?» Non poté fare a meno di sorridere a quella affermazione. «Potete ben dirlo.» «Dimmi che cosa ha inventato.» Proprio in quel momento Lily chiuse la mano e annunciò il punteggio raggiunto: ottantasette a diciassette, usando un tono così volutamente neutrale e del tutto privo di vanteria, da dargli terribilmente sui nervi. Mentre mescolava con calma le carte per un’altra mano, Lily pensò tra sé e sé: «E perché non dirglielo? Che male potrebbe fare?» Lasciò che tagliasse il mazzo, poi distribuì le carte, dodici per uno. «Beh, innanzitutto il coltello che si autoaffila. Poi...» «Il che?» «Il coltello che si autoaffila.» «E come funzionava?» Resistette alla tentazione di dargli la risposta più scontata: «Non funzionava affatto». Cercò, invece, di spiegargli il meccanismo. «Si basava su una sua teoria che, diciamo così, era più metafisica che fisica. Pensava che se avesse posto il coltello in un modo ben preciso su pietre particolari, alla fine si sarebbe affilato da solo.» «Particolari come?» «Pietre. Pietre particolari. Con poteri fuori dalla norma. Come ho già detto, non fu un grande successo. La mobilia portatile e pieghevole godette di maggior successo, ma fu giudicata troppo pesante da sollevare. In modo particolare il letto. A proposito, ho fatto repique 1 – trentuno.» Ridendo, Devon gettò le proprie carte. «Ci rinuncio.» «Mio padre ha anche inventato una versione di whist a due mani; volete che ve la insegni?» 1

Nel gioco del picchetto, quando si segnano trenta punti di mano prima di cominciare a giocare le carte


«No, grazie. Mi hai già portato via tutti gli stoppini delle candele.» «Sono pronta a prendere il vostro punteggio», si offrì magnanima. «Spostatevi un poco più in là, abbiamo bisogno di più spazio per le carte.» Ubbidì sbuffando. Il dolore alla spalla era ormai sopportabile, ma si sentiva ancora molto rigido. Si spostò e la guardò mescolare le carte in quel suo caratteristico modo veloce, quasi mascolino. «E che altro ha inventato?» «Lo stira-abiti scaldabile. Per stirare i vestiti nel giro di qualche secondo, tutti in una volta.» «Funzionava?» «Qualche volta. Ma più spesso il vestito all’interno della pressa andava in fiamme. Poi ha inventato l’apriporta automatico, per la padrona di casa molto indaffarata che non ha una cameriera. Era un meccanismo molto complicato, mi ricordo bene, con un numero enorme di corde, carrucole e ganci alle pareti. Se ci si trovava di sopra e qualcuno suonava il campanello, si poteva aprire la porta tirando le corde. Per poco non venne impiccato un gatto.» E Lily continuò a raccontare degli aneddoti sulle invenzioni di suo padre, qualche volta esagerando sulla loro bizzarria per cercare di farlo ridere di nuovo. Una volta ci riuscì così bene che lui gemette di dolore, tenendosi stretta la spalla, e le ordinò di smettere. Subito dopo, la cameriera bussò, e Lily si alzò per andarle a parlare in corridoio. «Lily, dille di portarmi qualche cosa da mangiare. Cibo vero, questa volta, non quella dannata brodaglia che continui a farmi ingoiare.» Gli lanciò uno sguardo indulgente. «Non guardate le mie carte mentre sono fuori», lo ammonì uscendo. Scrollò il capo, sorridendo ancora. Negli ultimi quattro giorni gli aveva fatto veramente tutto: curato la ferita, lavato e sbarbato, dato da mangiare. Non sapeva ancora se si trattasse di fortuna, della bravura di Lily, o delle pozioni sgradevoli di Cabby Dartaway, ma la ferita alla spalla stava guarendo perfettamente, senza bisogno di punti di sutura, e negli ultimi due giorni non aveva nemmeno avuto la febbre. Ora che stava decisamente meglio, non riusciva proprio a immaginare quello che avrebbe fatto senza di lei. Pensò alla visita della governante quattro giorni prima, dopo che Polcraven e Von Rebhan se ne erano andati e lui aveva costretto Lily ad andarsene a riposare. Prima che riuscisse a dire alla donna quello che voleva, lei stessa gli aveva annunciato con aria di tronfia sicurezza che sarebbe stata lei a curarlo da quel momento in poi, avendo saputo dalla «ragazza irlandese» che non stava bene. L’aveva guardata con avversione, ringraziata e detto che la sua sollecitudine non era necessaria. «Lily si prenderà cura di me per un certo periodo di tempo, ditelo pure a Trayer. Nel frattempo, non datele altri incarichi.» «Ma mio signore...» «Perché ha solamente un vestito? Procuratele qualcosa da mettersi, Mrs Howe.» «Sì, mio signore, ma...» «E dite a Stringer di portarmi una bottiglia di brandy. Immediatamente. Il Nantes che mio fratello ha recentemente... acquistato. Questo è tutto. C’è altro?» Aveva stretto le mani robuste, maschili, e l’aveva fissato con i suoi duri occhi neri.


«Mio signore, mio compito solenne è quello di ubbidire a tutti i vostri desideri, ma la mia lealtà non mi permette di stare in silenzio. Sento che debbo parlare.» Maledizione! Si disse. «E allora, parlate.» «Questa ragazza... ho qualche sospetto su di lei. Devo dire che fa il suo lavoro abbastanza bene, ma non penso che sia quello che sembra.» «Ah no? E cosa volete dire?» «Tanto per cominciare, penso che sia irlandese quanto lo sono io. E poi è ambigua, non ci si può davvero fidare di lei. Non l’ho ancora colta sul fatto, ma sono più che convinta che sia abituata a rubare dalla dispensa. E non credo nemmeno che il carattere che dimostra corrisponda a realtà. Penso che dovreste scrivere a questa ‘Marchesa di Frome’ e scoprire se ha davvero lavorato per lei.» Il primo impulso di Devon era stato di respingere quel consiglio con un cenno del capo e una parola secca. Ma dopo averci pensato un istante, aveva risposto: «Forse lo farò, sì, penso che lo farò». L’espressione di compiaciuta soddisfazione che vide nella donna l’aveva molto infastidito. «Questo è tutto, Mrs Howe. E non dimenticate di dire a Stringer di venire qui con il brandy.» Non aveva ancora avuto occasione di scrivere alla marchesa, ma sicuramente l’avrebbe fatto. Era davvero interessato a sapere la verità su Lily Troublefield, tanto quanto la governante. Non credeva affatto che la giovane fosse ambigua e dubitava molto che rubasse dalla dispensa, ma era certo che stesse nascondendo qualcosa. Le aveva posto molte domande negli ultimi giorni, direttamente e anche facendo finta di niente, cercando di scoprire che tipo di vita avesse condotto prima di comparire come dal nulla a Chard e chiedere a Howe, in un falso dialetto irlandese, un posto da cameriera. Ma aveva sempre eluso le sue domande. Da dove veniva? Oh, non aveva una vera casa, aveva viaggiato molto con suo padre. Quando era morto? Non molto tempo prima. E sua madre? Da molti anni. Come si era fatta un’istruzione? Ah, un po’ qua e un po’ là, da un precettore che il padre aveva assunto quando era piccola, o su qualche libro occasionale. Come aveva imparato quei modi da signora? Aveva finto di essere molto lusingata da quell’asserzione. Era una brava imitatrice, gli aveva detto, e aveva semplicemente cercato di emulare lo stile e i modi di chi le dava lavoro e apparteneva all’alta società. Ma allora il suo primo impiego non era stato presso la marchesa? Oh no, ce ne erano state altre prima di lei. Chi? Dove? Ah, molti altri, in vari luoghi. Ora erano tutti morti, o stavano viaggiando, o si erano trasferiti. Non aveva creduto a una sola parola. Lily ritornò proprio allora nella stanza. Il suo nuovo abito grigio in tessuto di cotone stampato era molto semplice, ma almeno pulito e senza rammendi. Avrebbe però voluto vederla con qualche cosa di più elegante addosso, in seta o velluto, o morbido raso. O meglio ancora, pensò maliziosamente, con nulla addosso. La sua espressione la confuse. «Stavate guardando le carte?» «Sì, e mi pare ovvio che mi batterai ancora, così rinuncio in partenza al gioco. Lily, mi sento rigido come un’asse dì legno: strofinami la schiena.» Con un’espressione seria, e mentre raccoglieva le carte, Lily si mise a bofonchiare, tre sé e sé, che non riusciva a sopportare un imbroglione. Ma si trattava solamente di diversivi per nascondere il nervosismo che quella richiesta gli aveva provocato. Ultimamente, le chiedeva di strofinargli la schiena o le spalle più volte al giorno, e


l’intimità di quella richiesta la turbava molto. No, non era affatto così: quello che la turbava era il piacere che provava nel farlo. Gli ultimi giorni erano stati per Lily un vero e proprio sogno idilliaco, una tregua deliziosa alla pesantezza dei lavori domestici e alla solitudine della sua vita spersonalizzata. Con grande sorpresa, aveva compreso quanto le mancasse anche la più semplice delle conversazioni con qualcuno con cui potesse essere quasi se stessa. Devon, sebbene molto più in alto di lei e assolutamente non un suo pari, era almeno più vicino in educazione, stile di vita e capacità di stare in società di quanto non lo fosse Lowdy. Lily era in tutto simile a suo padre, di compagnia, naturalmente amante della vita sociale, e le settimane di silenzio e isolamento a Darkstone le avevano oppresso lo spirito. Lo stare con Devon, in quegli ultimi giorni, le aveva risollevato il morale. Poteva essere freddo e distante, e spesso era lunatico e melanconico. Ma dietro quella parete di riservatezza che lo circondava, talvolta coglieva lampi di gentilezza, persino di calore. Che lui si fidasse di lei era fonte di profonda soddisfazione, e le pareva che, in un modo stranissimo e fatto di esperimenti, fossero quasi divenuti amici. Ma c’era sempre un limite, una barriera, alla loro amicizia, una consapevolezza fisica – beh, diciamolo pure, sessuale – che non era mai assente, indipendentemente dalla conversazione lieve o dalla normalità della situazione. Talvolta la prendeva in giro, e allora era un vero sollievo poiché la tensione diveniva, più o meno, evidente. Ma di solito rimaneva celata sotto la superficie, dando una tonalità di colore a tutto, cedendo al più fugace contatto fisico, una consapevolezza elettrizzante che era per Lily tanto inquietante quanto eccitante. «E allora voltatevi», gli disse in tono brusco mentre si sedeva sul bordo del letto, la schiena ben diritta, il volto severo. «Che cosa... che cosa state facendo?» «Mi sto sbottonando la camicia da notte. Mi fa prurito la pelle; puoi darmi una bella grattatina?» Era ridicolo, lo sapeva, sentirsi così agitata: l’aveva visto almeno una dozzina di volte completamente nudo. Lo aiutò ad abbassarsi la camicia sulle ampie spalle, sorpresa della varietà di emozioni che si scatenavano in lei solo alla vista del petto muscoloso, ricoperto di peli scuri. Spostò di lato i cuscini e si volse lentamente a pancia in giù, incrociando le mani sotto le guance. Pose le palme delle mani sulle sue scapole, e il gemito di esagerata estasi la fece sorridere. «Sciocco, non ho nemmeno iniziato.» E poi incominciò, partendo dalla nuca e scendendo lentamente con movimenti lievi, premendo i pollici lungo ogni vertebra, come gli piaceva tanto. Come al solito, la sua forza fisica la stupì. Amava sentire la morbidezza della pelle sottile su fasci di muscoli duri e sodi come metallo forbito. Il corpo possente si snelliva ai fianchi, e qualche volta la tentazione di sollevare le coperte e vedere le natiche nude era veramente molto forte. Certamente non avrebbe mai fatto una cosa simile. Ma qualche volta temeva che non sarebbe riuscita a resistere, ed era la medesima sensazione che aveva provato sulla sommità del promontorio – cioè che avrebbe potuto improvvisamente e senza alcun motivo perdere il controllo e cadere nel vuoto. Anche stavolta vinse la tentazione, come aveva sempre fatto, ma le mani indugiarono più del necessario su quella striscia intrigante di carne nuda sotto la cintola e sopra la camicia abbassata. «Non dimenticarti di grattarmi la schiena», mormorò poi, con gli occhi chiusi,


atteggiando la bocca a un sorrisetto sognante. Passò delicatamente le unghie sulla schiena e sulle spalle, e di nuovo il mormorio di puro piacere che uscì dalle labbra di Devon la fece sorridere. Naturale che fosse forte e robusto, si disse, osservando quei muscoli possenti che guizzavano e si flettevano sotto le dita. Aveva saputo sin dall’inizio che non si trattava di un pigro signorotto di campagna, ma negli ultimi tempi aveva scoperto che era impegnato nella gestione della sua proprietà quanto qualsiasi suo dipendente, e questo periodo di forzata inattività doveva seccarlo e frustrarlo molto. Dagli incontri cui aveva assistito in quella stanza o quando le aveva chiesto di portare messaggi a Mr Cobb, Francis Morgan e altri, aveva appreso che la sua autorità era assoluta, e tuttavia i suoi impiegati lo rispettavano per il rigore morale, l’affidabilità e l’ampiezza di vedute, non soltanto perché era «il padrone». Lowdy le aveva detto che era un uomo infelice, pieno di problemi, in lotta con il mondo intero. Ma anche se era vero, Lily aveva scoperto che Devon non lasciava che i problemi personali interferissero nella vita lavorativa. Riusciva a controllarli, e ogni tanto lei si chiedeva a quale costo. Le sue riflessioni le fecero venire in mente una cosa. «Mi spiace, mi sono dimenticata di dirvelo; Mr Morgan vorrebbe venire qui oggi pomeriggio per discutere con voi alcune questioni sulla miniera. Ha mandato un biglietto, chiedendo se vi andrebbe bene oggi alle quattro.» «Va bene», borbottò lui, girandosi sulla schiena. «Tanto non sarei andato da nessuna parte.» Gli spiumacciò i cuscini e li sistemò dietro di lui, poi lo aiutò a sedersi. Prese anche i lembi della camicia da notte arrotolata attorno alla vita e lo aiutò a infilarsela di nuovo, ma improvvisamente lui le prese le mani e se le portò al petto. Quell’atto la costrinse a chinarsi su di lui fino a quando i loro volti furono molto vicini. Sapeva ormai di uscire invariabilmente perdente da qualsiasi incontro che assomigliasse a una lotta fisica, e che quindi l’unica difesa possibile era il trincerarsi dietro una facciata di imperturbabilità. Ma lui stava aprendole le mani e premendosele al petto.il fitto vello scuro che incontrarono le dita la sorprese. Così come il forte battito regolare del cuore. La voce di Lily risultò tutt’altro che stabile quando disse: «Dovrei proprio andare a dire al maggiordomo di far arrivare a Mr Morgan il messaggio. Che allora vi va bene incontrarlo alle quattro...» Ma dovette interrompersi quando lui le pose due dita sulle labbra. «Sei bella, Lily, molto. Oggi sei più bella di ieri, o dell’altro ieri.» Devon era inebetito, eppure quello che diceva corrispondeva alla verità: un colore sano illuminava le guance, e i bellissimi occhi sembravano più luminosi, più verdi. Lily era consapevole di arrossire. «Mangio meglio», rispose stupidamente. E... e dormo molto di più da quando mi occupo di voi.» «Allora dobbiamo fare in modo che continui a occuparti di me.» Le passò una mano dietro il collo per attirarla a sé. Aveva un profumo completamente diverso da quello di qualsiasi altra donna che avesse mai conosciuto: sapeva di saponata. La bocca virile era molto bella, e stava per baciarla, e lei lo desiderava talmente tanto da esserne spaventata. «Penso che non abbiate più bisogno di me», ribatté con voce roca. «Non credo che siate molto malato.»


«Ti sbagli», la contraddisse, scrollando lentamente la testa. «Non ho mai avuto bisogno di te come in questo momento.» Le circondò le mani con le proprie facendole scivolare lungo tutto il torace, poi sul ventre piatto. Lily comprese le sue intenzioni soltanto quando lui mormorò: «Lascia che te lo mostri». Allontanò immediatamente le mani e si alzò di scatto. Il cuore le batteva all’impazzata e si sentiva senza fiato, sollevata e delusa al contempo. Non sapeva proprio cosa dirgli. Come osate? No, aveva un’aria poco spontanea; dopo tutto, quella poteva essere l’unica conseguenza cui poteva giungere quel gioco intimo di attacchi e ritirate che avevano condotto per quattro giorni. Ed era difficile rimanere arrabbiata con lui che la guardava sorridendo, con quel barlume impertinente e del tutto privo di scuse negli occhi. Strano, ma tutto quello che avrebbe voluto fare era scoppiare a ridere. Invece, atteggiò il volto a estrema severità e iniziò a sistemare piatti e bicchieri al suo capezzale. Voltandosi, si diresse alla porta con il vassoio, con l’intenzione di andarsene senza una parola, ma lui la fermò. «Dove credi di andare?» Lei si voltò appena verso di lui. «Dabbasso.» «E va bene. Hai il mio permesso.» Notò immediatamente il modo in cui Lily serrava le labbra e lo sguardo aspro che gli lanciò. «Ma torna tra mezz’ora. Voglio che mi aiuti a vestirmi, poi vorrei fare una passeggiata. E tu mi accompagnerai.» Si costrinse a fissarlo, mentre la preoccupazione si sostituiva momentaneamente all’irritazione. «Siete sicuro di essere abbastanza in forze da poter fare una passeggiata?» «Oh sì», disse stringendosi le braccia sul petto e sorridendo invitante. «Sono sufficientemente forte da poter fare molte cose.» Un sordido doppio senso, pensò Lily, ma non poté fare a meno di arrossire, il che, ovviamente, era proprio quello che lui voleva. «Benissimo, signore», rispose tra i denti. E la cosa non fece che rendere ancora più ampio il sorriso di Devon. Poi Lily si voltò di scatto, facendo tintinnare piatti e tazzine. Un suono che stranamente assomigliava a una risatina sommessa la seguì fuori dalla porta. «È davvero necessario che vi appoggiate tanto?» mormorò Lily, fingendo un tono adirato. «Ma certo. Sto riprendendomi da una grave malattia, e sono tremendamente debole. Se dovessi cadere, potrei farmi molto male.» Gli lanciò uno sguardo di sottecchi. Lui si passò una delle mani di Lily sotto il braccio così che a un osservatore – e lei pensava che ce ne fossero molti, poiché mentre percorrevano il sentiero nel parco potevano essere visti da ogni finestra che dava sul retro della casa – poteva sembrare che lo stesse sostenendo. Ma poiché sapeva che Devon era perfettamente in grado di mantenere quell’andatura lenta senza alcun aiuto, era ben consapevole che si trattasse solamente di uno dei suoi trucchi, una scusa per toccarla. Avrebbe dovuto essere seccata, ma quella sensazione era ben lontana dalla sua mente. Non poteva fare a meno di chiedersi che cosa stesse pensando. Fino a non molto tempo prima era particolarmente attento a non farsi vedere con lei da nessuno, in modo veramente insultante, persino dagli altri domestici.


Ma pareva che i loro ruoli si fossero invertiti, poiché ora era lei a preoccuparsi delle apparenze e della sconvenienza che l’intimità della loro nuova relazione creava. Poiché non era originaria della Cornovaglia, non era mai stata accettata di buon grado dagli altri domestici, e ora si sentiva più isolata che mai. Nessuno aveva il coraggio d’insultarla apertamente, ma solamente perché, supponendola l’amante di lui, la consideravano sotto la protezione del padrone, per lo meno per quel periodo. L’insolenza di Trayer aveva assunto forme più sottili, mentre sua madre la trattava con disprezzo silenzioso, pericoloso. Le cameriere chiacchieravano e spettegolavano quando pensavano che non le sentisse; i domestici invece la guardavano di nascosto scambiandosi poi occhiate di intesa. Soltanto Lowdy, dalla mente aperta e ben lontana dallo scandalizzarsi, pareva del tutto indifferente alla nuova posizione assunta dall’amica, alla sua caduta in disgrazia con gli altri, sebbene la tormentasse continuamente per sapere come procedevano le cose. Quando Lily le rispondeva: «Lui è malato e io lo sto curando, ecco tutto», Lowdy sollevava le sopracciglia con una comica aria saputella e diceva: «Sì, sì», con palese scetticismo. «Hai mai visto la corsa delle sardine, Lily?», chiese improvvisamente Devon, interrompendo le sue riflessioni. «No, che cos’è?» «Uno spettacolo strepitoso. Giungono dalle acque profonde a ovest delle Scilly e percorrono la costa in branchi numerosi. Quando ero bambino, ne ho visto un branco che si estendeva da Mevagissey fino a Land’s End. E sono più di centocinquanta chilometri, se calcoliamo anche le curve della costa. Mio padre mi aveva portato a vederle.» Lo guardò di nuovo, interessata. Era la prima volta che Devon le parlava della sua famiglia, o per lo meno faceva un cenno a qualcosa che lo riguardava personalmente. «La città si svuota perché tutti vengono qui a godersi lo spettacolo dalla scogliera. L’acqua pare essere viva, piena com’è di branchi di pesci, cacciati da orde di naselli e merluzzi, gabbiani e uomini. Tutti vengono presi da una vera e propria mania. I pescatori sulla riva o nelle barche lungo tutta la costa dispongono le reti, e le sardine lottano per fuggire, e non si riesce nemmeno a sentire la propria voce, per il rumore delle grida e delle risate.» «E quando avviene?» «Inizia a luglio: la vedrai.» A luglio mancavano solamente due settimane. Sì, probabilmente l’avrebbe vista, sperava di vederla: e quel pensiero la sorprese. «Ma allora siete cresciuto qui?» gli chiese timidamente, dicendosi che soltanto alcuni giorni prima non avrebbe mai osato rivolgergli quella domanda. «Quando venivo a trovare mio padre. Gli altri mesi vivevo nel Devonshire con mia madre.» Attese che proseguisse, ma non lo fece, e a lei mancò il coraggio di chiedergli per quale motivo i suoi genitori non vivessero assieme. Si limitò invece a chiedergli se avesse altri fratelli, oltre a Mr Darkwell. «No, ma ho una sorella che vive nel Dorset e che non vedo di frequente.» Quando raggiunse la sommità della scogliera, smise di camminare e la guardò. Il sole pomeridiano brillava alle sue spalle, incendiando alcune ciocche dei folti capelli rosso scuro, così da creare una sorta di alone attorno all’ovale delicato del volto. Gli


occhi erano di una pura tonalità verde-grigio, seri e intelligenti, e lo guardava con enorme interesse, come se tutto quanto dicesse la affascinasse. Era veramente molto bella, e lui ormai ne aveva abbastanza di parlare. Il nuovo sguardo che Lily lesse negli occhi di Devon la fece agitare, costringendola a cercare affannosamente qualche nuovo argomento con cui distrarlo. «Pensate che vostro fratello tornerà presto?» «Sì, molto presto. Andiamo giù fino all’acqua, Lily.» «Ma... ne siete sicuro? Non dovreste stancarvi il primo giorno che uscite.» Si limitò a sorriderle, e con grande senso di cavalleria la precedette giù per i ripidi gradini. Dopo un istante di esitazione, lo seguì. Un gruppo di rocce frastagliate si protendeva alla base della scogliera rocciosa, interrompendo la passerella di legno che raggiungeva la spiaggia. C’era la bassa marea, e il sole baluginava sui frangenti, danzava sulle minuscole onde, gettando ombre scure sui lati dei grossi massi che parevano sonnecchiare nella sabbia cedevole. Mi mancherà tutto questo, pensò Lily improvvisamente, respirando l’aria salmastra. Quell’idea la spaventò, sorprendendola, in quanto non era mai stata felice laggiù. In ogni caso, dovette ammettere, quello che aveva inconsciamente pensato era vero, perché quel remoto splendore, la bellezza e la solitudine del mare, il fascino di quella terra selvaggia e inospitale le sarebbero mancati. Devon la condusse lungo la spiaggia fino a un cerchio silenzioso di rocce che in quel momento affiorava, perfettamente asciutto, dalla bassa marea, a una distanza sicura rispetto alla linea schiumosa dove le onde si frangevano. Si fermarono voltando la schiena a un masso frastagliato che le arrivava alla vita, fissando senza parlare la Manica. Mentre il silenzio calato tra loro si protraeva, Lily guardò l’uomo di sottecchi, fissando quel profilo deciso, che come al solito non le rivelava nulla di sé. Aveva davvero una strana personalità, sotto molti punti di vista, e il suo istinto le aveva suggerito, molto tempo prima, che quell’uomo avrebbe anche potuto ferirla. Tuttavia ne sentiva tremendamente la mancanza quando non era con lei, e si sentiva inspiegabilmente felice quando erano assieme. Distolse lo sguardo, arrossendo quando lui, voltandosi, scoprì che lo stava osservando. «Come vi sentite?» gli chiese per celare il suo nervosismo. «Soffro, Lily. Ho dolori molto forti.» L’apprensione che lesse nelle pupille verdi, tuttavia, lo indusse ad aggiungere precipitosamente, sorridendo: «Ho di nuovo bisogno di quella medicina, e tu sei l’unica che possa darmela». Sollevata, non poté fare a meno di ridere. Devon le toccò le guance con le nocche delle dita, soffocandole in gola qualsiasi battuta salace. Dentro di lei il calore aumentava velocemente, tanto da lasciarla spaventata. L’uomo si avvicinò ancor più a lei, costringendola a indietreggiare fino a quando le gambe non toccarono la solida roccia. «Voi... pensavo che voi voleste fare un po’ di esercizio, Mr Darkwell.» «Proprio così, Miss Troublefield.» Si chinò per baciarla, e per un attimo lei si irrigidì, poiché il nome con cui non l’aveva mai chiamata prima risvegliava in lei ricordi sgradevoli. Ma la gentilezza di quel bacio la fece rilassare immediatamente, allontanando da lei qualsiasi pensiero che non fosse relativo a quel momento e alla dolcezza delle labbra maschili sulle sue.


La gentilezza di Devon la disarmò completamente e con una mano, inconsciamente, gli accarezzò una guancia, mentre l’altra si apriva sul torace, toccandolo timidamente. Trattenendo il respiro, lasciò che le mordicchiasse le labbra. Spostava la testa lentamente da un lato all’altro, e la bocca aperta le accarezzava le labbra a ogni passaggio. Le braccia di Lily si strinsero attorno al corpo virile, e il bacio divenne profondo e sensuale mentre tutto attorno le scivolavano via tutti i confini e i freni. «Oh no», mormorò quando sentì le mani di Devon scendere delicatamente a toccarle i seni. Ma non lo fermò: non avrebbe mai potuto farlo. Devon mormorò: «No?» E attraverso la tela dell’abito iniziò a tracciare lenti cerchi attorno alla dolce rotondità del seno. Avrebbe dovuto fermarlo, era del tutto sbagliato e la cosa, lo sapeva, avrebbe portato solo rovina, ma era come drogata, del tutto privata di ogni barlume di consapevolezza a eccezione di quello che stava seguendo il progredire lento e graduale delle dita virili verso i suoi capezzoli. «Lascia che io ti ami, Lily», le sussurrò. «Dimmi di sì, devo amarti.» Cercò di scuotere il capo, ma la stava baciando di nuovo, e non vi riuscì. Era come bloccata sul margine di qualcosa di indescrivibile, e ogni secondo era separato dal passato o dal futuro, ogni momento era un qualcosa di nuovo. Non sapeva che cosa avrebbe fatto, e allora preferì rimanere del tutto immobile, a occhi chiusi, lasciando che quelle deliziose carezze proseguissero, dimenticandosi persino di ricambiare il bacio. Si staccò per un momento dalle labbra di Lily per mormorarle tutto il suo bisogno di lei, sottolineando il messaggio con la carezza morbida e persuasiva della lingua. Lily stava sciogliendosi nell’abbraccio, si sentiva sempre più debole, desiderava soltanto donarsi a lui. Furono, infine, l’intensità del proprio desiderio e la paura di perdersi, a metterla in guardia e a darle la forza di fermarlo. «No, non posso», mormorò, mentre si divincolava dalle sue mani e si allontanava da lui. Attonito, Devon la guardò allontanarsi, le mani strette al petto, fissando l’acqua luccicante. Chiuse gli occhi, solo per un secondo, e disse, a denti stretti: «Ma vuoi farmi impazzire? Perché se è questo quello che vuoi, ci stai riuscendo perfettamente». Lily si volse. «Mi spiace... mi sono sbagliata.» «No, ho sbagliato io.» «No, io. Non avrei dovuto lasciare che questo accadesse.» La voce di Lily tremava. «Mi scuso per avervi indotto a pensare che ci potesse essere qualche cosa tra noi. È impossibile.» «Perché?» «È solo che... è impossibile. Non posso proprio fare quello che volete.» Quello che vorrei. «Perché?» insistette Devon. Scrollò il capo, senza sapere cosa dire, cosa fare. «Vi prego, non rendete la situazione ancora più difficile. Non posso... non posso vedervi più, come ora. E in ogni caso non avete più bisogno di me. Debbo tornare al mio vecchio lavoro. Vi prego!» urlò quando lui imprecò e fece per interromperla. «Siete un gentiluomo, non approfittereste mai della mia situazione, ne sono certa. Lasciatemi andare, Devon, signore...» Strinse le mani a pugno e sospirò dolorosamente.


La gran parte del dilemma era proprio contenuta nelle ultime due parole, perché a dire il vero non sapeva cosa quell’uomo rappresentasse per lei, o cosa lei per lui. Notò comunque che la sua spiegazione non aveva affatto sistemato le cose: lui la stava ancora guardando con occhi accesi di passione. Le venne un’idea: aveva già funzionato con lui una volta, avrebbe potuto funzionare ancora. «È... è per via del mio fidanzato. Non vorrebbe di certo che io... che noi...» Maledizione! Come avrebbe fatto a convincerlo di avere un amante se non era in grado di dire quelle semplici parole? «Che gli fossi infedele», riuscì alla fine a dirgli, sentendosi come una bambina. Fece un passo indietro quando vide che le si stava avvicinando, poiché il fuoco che notò nei suoi occhi la spaventò. Ma la voce di Devon era bassa e controllata. «Dimmi del tuo fidanzato, Lily. Come si chiama?» Per un lungo, terrificante istante lei non riuscì a pensare a un solo nome maschile. «John», disse poi, con un ritardo enorme. «John. E dove vive?» «A Lyme.» «È il tuo amante?» «No... sì...» «Sì o no? Siete fidanzati ufficialmente?» «No, noi...» «Da quanto tempo non lo vedi?» «Due mesi.» «Gli scrivi?» «Sì!» «Che lavoro fa?» «Lui fa...» Ancora una volta il vuoto. «Ma non sono affatto costretta a dirvelo. Perché me lo chiedete?» «Perché non ti credo, Lily. Non credo che tu abbia un fidanzato», rispose mentre le stringeva le mani attorno alle spalle. «Penso che ti sia inventata tutto. Solo che non riesco a capirne il perché.» «Fa lo scalpellino! Costruisce chiese e cattedrali, case ed edifici. Fa l’apprendista, anzi no, è un operaio pagato a giornata, lo è diventato qualche...» Del tutto spazientito, le diede uno strattone. «Ma perché mi stai mentendo?» Poi, improvvisamente, comprese, e si chiese come aveva potuto essere così stupido. Aveva sempre pensato che quegli eccessi di ingenuità fossero ormai retaggio del passato. Addolcendo un poco la stretta, sorrise leggermente. «Mi spiace, Lily, avrei dovuto chiarire subito le cose sin dall’inizio. Non ti sto assolutamente chiedendo di darmi qualcosa senza avere nulla in cambio. Ti posso assicurare che ne varrà la pena, per te.» Interpretando male quelle parole, arrossì e rise, isterica. «Ah, ma certo, non ne ho alcun dubbio.» «Bene, e allora?» Volse il volto dall’altra parte e non rispose. «Che cos’è che vuoi, Lily? Dimmi una cifra. Quanto, Lily? O è una casa tutta tua, quella che vuoi? Dimmelo.»


Spalancò gli occhi, fissandolo attonita. «Denaro? Mi state chiedendo di prendere del denaro?» O non voleva davvero denaro oppure era un’attrice straordinaria. «No? E che cosa, allora?» Era troppo sconcertata per essere arrabbiata. Dopo, si disse, solo dopo avrebbe potuto arrabbiarsi. «Che cosa voglio?» Ma lei non avrebbe mai potuto dire quello che voleva, perché erano tutti dei segreti – libertà e stima, rispettabilità, amicizia, affetto... E sì, anche denaro. «Nulla! Nulla che voi potreste darmi. Lasciatemi perdere, Mr Darkwell, vi siete sbagliato.» «Non credo.» «Lasciatemi andare!» «Ma che gioco è questo, Lily? Esci allo scoperto. Ti pagherò bene, se è questo quello che...» «Dannazione! Non sto affatto giocando.» «Al diavolo, non ci credo. Non sei una verginella timida, Lily. Che cosa vuoi da me?» «Ma cosa ne sapete di chi sono io veramente? Non sapete nulla di me!» «Lo so perché ho sentito tutte quelle tue bugie. Mi hai detto che quello scalpellino sarebbe il tuo amante. È la verità o no?» «Sì, è la verità.» «Allora non sarò di certo il primo.» La strinse a sé e lei cercò di divincolarsi. «Toccami e sarò di certo la tua ultima!» Quelle parole lo fecero soltanto ridere. «Non baciarmi!» scostò il volto per evitare la sua bocca. «Non farlo!» urlò quando la strinse a sé e nascose il volto nei capelli fiammanti, proprio dietro l’orecchio. «Dannazione, non voglio!» Devon chiuse gli occhi, serrandoli dolorosamente. Per un lunghissimo istante la tenne stretta a sé, sentendo il battito impazzito del suo cuore, percependo i fremiti che la scuotevano. Non aveva mai stretto a sé una donna in quel modo, con rabbia, pretendendo quello che lei non voleva concedere. Provò disgusto per se stesso, anche se sapeva perfettamente che non sarebbe mai riuscito a lasciarla andare via. Si disse che nessuno capiva quel tipo di donna meglio di lui. Stava giocando, alzando quanto più poteva la posta prima di concedergli quello che Clay avrebbe chiamato «l’ultimo favore». Ma c’era una cosa in cui non era simile a Maura, e che avrebbe causato la sua rovina: era davvero una donna passionale. Il desiderio che Lily provava per lui non era mai stato finzione. E lui voleva usare quella sua debolezza contro di lei. Con estremo sangue freddo l’avrebbe sedotta. La difficoltà del piano non lo preoccupò affatto. Inoltre sarebbe stato bravo, tutto sarebbe stato così bello che dopo non se ne sarebbe rammaricata. Poi, finalmente, sarebbe stato libero da lei. Continuando a tenere le braccia strette attorno a lei, allentò un poco quella stretta. «Mi spiace per quello che ho detto», mormorò tenendo le labbra tra i suoi capelli. «Perdonami, Lily. Ti avevo giudicata male. Non vorrei mai ferirti.» «Lasciami andare, Devon, devi farlo.» «Dimmi che mi perdoni. Ero arrabbiato, e quelle parole... non dovevo dirle. Se ti


ho ferita, mi spiace.» Rimaneva rigida, tenendo i pugni stretti contro il petto. «Ma ti volevo tanto. Ti desidero ancora.. Non riesco a non pensare a te, Lily. Mi hai stregato la mente.» Il cuore di lei batteva pazzamente; avrebbe dovuto odiare questo abbraccio indolore ma che non riusciva a spezzare, eppure non ci riusciva. «Non dirmi nulla. Non è cambiato nulla. È impossibile.» «Ma perché?» Con una mano aveva iniziato ad accarezzarle la schiena sottile, dalle spalle alla vita, per poi risalire. «Non vorrei mai ferirti», ripeté, e questa volta era quasi sincero. «Prima ti è piaciuto, Lily, quando ci siamo baciati. Lascia che ti baci di nuovo, Lily, lasciami fare.» Le passò le labbra lungo la linea delicata della mascella, respirando delicatamente, seducendola con la gentilezza. «La tua pelle è così dolce...» Percepì immediatamente il momento in cui lei iniziò a tremare. Premendo le labbra sulla bocca risolutamente chiusa, la costrinse ad aprirla leggermente, riuscendo a infilare la lingua nella fessura minuscola, accarezzandole il palato vellutato. Sospirò, tremò e voltò il viso dall’altra parte. Ma Devon sapeva essere infinitamente paziente. «Sai che profumi di fiori, Lily?» le sussurrò, baciandole le ciglia. «Baciami Lily, sto morendo per te.» Cercò di recuperare le forze per resistergli, ma stavano allontanandosi come soldati in ritirata, sopraffatti da un esercito ben più armato. Non lo stava più allontanando da sé, anzi si teneva stretta alla sua camicia con entrambe le mani, stringendolo. «Non è giusto», gli fece notare, in lacrime. Teneva il volto leggermente spostato, ma ogni senso era concentrato su quanto le stava facendo con la lingua e con le mani, che le accarezzavano i fianchi con desiderio implacabile, sempre più acceso. «Lo so, ma non posso farci nulla, Lily», disse mentre la faceva scivolare lentamente contro la roccia a cui si erano appoggiati prima. Era quasi vero, si disse; probabilmente, in quel momento avrebbe ancora potuto fermarsi, però, tra un minuto, sarebbe stato impossibile. Le toccò le guance morbide. Con una pressione gentile e insistente la costrinse a voltare la testa fino a quando fu costretta a guardarlo. L’inizio del cedimento le aveva scurito gli occhi, da verde-grigio a giada. Meno male, si disse Devon, perché era stanco di chiedere. Calda e dura, la sua bocca si posò su quella di lei, catturandola in un bacio violento privo di qualsiasi gentilezza. Quando barcollò, lui la sostenne, costringendola a passargli le braccia attorno al collo. «La ferita», mormorò lei, con voce soffocata. «Non voglio farti del male!» Devon sollevò la testa e scoppiò a ridere, ma poi tornò alle sue labbra, tormentandole con la lingua e i denti. Dopo pochi secondi, le dita tremanti le slacciarono i nastri dell’abito di cotone e le aprirono il corpetto. Gemette quando sentì l’aria calda sulla pelle, poi le mani ancora più calde che le liberavano i seni dalle pieghe strette della camicia. Smise di baciarla per ammirarli. «Lily, sei bellissima», mormorò allontanandole con forza le mani mentre lei cercava di coprirsi. «Lascia che ti baci. Qui, sì....» La costrinse a girarsi fino a quando la schiena posò contro la roccia, poi si chinò su di lei che era per metà sdraiata sulla pietra. «Devon, oddio!» «Shhh, amore, va tutto bene, va tutto bene.» Le sussurrava parole tenere contro il calore della gola e la fessura tra i seni, mentre con le dita tracciava lenti cerchi attorno ai capezzoli. Inspirò profondamente, e sentì che lei stringeva e poi liberava e poi stringeva di nuovo un lembo della sua camicia, all’altezza delle spalle. «Sei


deliziosa», mormorò toccando con la lingua la punta di un capezzolo eretto, e lei gemette, con forza e dolore, come se la stesse torturando. Lei digrignò i denti e gli passò le dita tra i capelli morbidi e freschi, cercando di allontanarlo da sé, ma in un momento non ben definito tra l’intenzione e l’atto, la volontà l’abbandonò, cedendo al nemico. E le sue dita traditrici lo strinsero, lo accarezzarono, lo attirarono senza alcuna vergogna. Lui le sussurrò parole colme di passione che lei non riusciva quasi nemmeno a sentire, alcune volgari e altre dolcissime, mentre con le labbra le succhiava un seno, e con la palma ruvida si impossessava dell’altro. Il ronzio intenso che sentiva nelle orecchie era troppo forte per poter essere il mugghiar del mare, doveva essere il suono del desiderio, frenetico, che implorava soddisfazione. Le prese di nuovo la bocca, e Lily comprese che stava rinunciando all’ultima briciola di autocontrollo. Stava fluttuando verso un luogo nuovo, alto, spaventoso, una specie di imbuto spiraliforme, privo di pareti, dove vi erano solo sensazioni. In un ultimo tentativo di difesa, gli pose le palme delle mani sul volto, costretta da un improvviso desiderio di vederlo e comprendere che sorta di uomo fosse. Le parole erano inutili, irrilevanti. Cercò i suoi occhi, ardenti di desiderio, tracciò le linee dure agli angoli della bocca, come se potessero rivelarle qualcosa di vero e vitale. Ma l’ultima cosa che Devon voleva era essere capito. Tenendole allacciato lo sguardo, cercò di divaricarle le gambe con le ginocchia. Sentì il tentativo colmo di panico che fece per stringere le cosce, vide che gli occhi le si spalancavano di paura ed eccitazione, e soffocò l’inizio della protesta con un bacio appassionato. Accecato dal desiderio, sollevò le gonne fino a denudarle una lunga coscia sottile, morbida, mio Dio, come era morbida! I lievi sussulti, veloci e disperati, del tutto privi di controllo, lo fecero ardere. Un suono, impossibile e inimmaginabile in quel momento, cercò di penetrare nella parete di pure sensazioni che lo circondava come un’armatura, come una specie di seconda pelle, ma non lo fece entrare. La bocca morbida e umida di Lily sapeva di acqua zuccherata. Posò le dita sul ciuffetto riccio alla sommità delle cosce e cercò di cancellare quel suono facendola gemere. Ma quel suono si sentì di nuovo, e questa volta Lily si irrigidì e distorse le bocca. Gli occhi spaventati cercarono il suo sguardo, implorandolo affinché le dicesse che non aveva udito quello che invece era convinta di avere sentito: il suono di passi sui gradini di roccia sopra di loro. Poi udì Devon bestemmiare come un ossesso. Con un movimento veloce e improvviso la rimise in piedi e fece un passo indietro. «No», la ammonì con voce roca quando fece per voltarsi, a seno nudo. «Mio signore?» Riconobbe subito la voce di Trayer Howe, e le venne il folle pensiero che l’ira bruciante negli occhi di Devon potesse incenerire quell’uomo sgradevole, lì su due piedi. Ma gli occhi di Devon non erano nulla rispetto alla voce, piena di rabbia sorda e controllata a malapena. «Che cosa vuoi?» «Avete delle visite, mio signore. Vostra madre e Lady Alice Fairfax. Vi stanno aspettando in casa.» Parve a Lily che il suono violento del mare si intensificasse ancor più, tramutandosi in un ruggito impetuoso. Notò che il volto di Devon assumeva


un’espressione tesa, rabbuiata, che i muscoli della mascella si contraevano con un movimento lento e pericoloso, diseguale. «Vengo subito», disse chiedendosi come facesse Trayer Howe a udirlo al di sopra del rombo assordante della marea. L’uomo sollevò lo sguardo lentamente, e Lily seppe che Trayer se ne stava andando; ma non riuscì a udire null’altro che il suono del mare. Quando Devon allungò la mano verso di lei, Lily si allontanò istintivamente, volgendo il capo in modo che non potesse vederla in volto. La lasciò andare fino alla linea della marea, le diede il tempo necessario di ricomporsi. Poi la raggiunse. «Lily», le disse mettendole una mano sulla spalla. Lei trasalì come se fosse stata punta da un ago, e lui lasciò subito la presa. Per poterla vedere in volto, avrebbe dovuto camminare nell’acqua con le scarpe. E questo, lui ne era certo, era proprio quello su cui lei contava. Ma Devon lo fece, e lei ne fu così sorpresa che arretrò, tanto da lasciargli un lembo di terraferma su cui stare. Ripeté il suo nome. «Non farmi parlare, Devon, te ne prego. Non posso parlare, davvero.» «Abbiamo solo interrotto il discorso, Lily, lo sai meglio di me. Vieni da me questa notte. Vediamoci qui.» «Ti prego, vattene.» Non aveva mai udito quella disperata nota di sconfitta nella sua voce. «Non è cambiato nulla, Lily», insistette. «Vediamoci, dopo che...» «No, Devon. Mai... Per l’amor di Dio...!» Stava per piangere, ne era certo. Avrebbe anche potuto continuare a metterla alla prova, forzarla, insistere fino a costringerla ad accettare di fare quello che lui voleva. Ne era certamente in grado. Lily continuava a stringere gli occhi e a deglutire, ma non distoglieva lo sguardo e, improvvisamente, Devon non sopportò il pensiero di farla piangere. Non poté, però, fare a meno di dirle: «Non finisce qui, Lily. Non abbiamo ancora finito». «Ti sbagli.» La fissò ancora, mentre un gabbiano strideva sopra di loro. Lontano, sul mare, il sole proiettava sulle onde luccicanti strisce orizzontali di luce e ombra. Poi, era la cosa più gentile che potesse fare, la lasciò sola. E lei, finalmente, poté piangere.

Capitolo undicesimo «Possiamo fermarci soltanto due notti, dobbiamo essere a Penzance venerdì mattina per la festa dei Lynch. Dopo di che, andremo con i Trelawney a Mount’s Bay per tutto il mese di luglio. Non riesco proprio a capire perché mi guardi sorpreso: ti avevo scritto tutto nell’ultima lettera.» «Ricordo perfettamente, madre, e non sono affatto sorpreso.» Baciò la fresca guancia rosata di Lady Elizabeth, sorridendo con affetto a quegli occhi scettici della stessa tonalità verde-azzurro dei suoi, poi si rivolse all’altra ospite. «Alice, che bello vederti. E che coraggio accettare un periodo così lungo in campagna con mia madre. Ma ho sempre saputo che sei una ragazza coraggiosa.» «Ma che figlio spiritoso...» «Ciao Devon», lo salutò Lady Alice Fairfax, stringendogli la mano con affetto.


«Come stai? È tanto che non ti vedo...» «Sì, è vero. Ti ringrazio per l’ultima tua lettera. Non avevo ancora avuto modo di rispondere perché quest’estate c’è un sacco di lavoro...» «Non ti preoccupare, Devon, non ti scrivo mai aspettandomi una risposta. Lo faccio soltanto per mantenermi in contatto con te...» «Cercherò di comportarmi meglio in futuro, lo prometto.» Le due donne tornarono a sedersi nel salotto, descrivendo il viaggio, molto caldo e del tutto privo di avvenimenti interessanti, da White Oaks, la proprietà che Lady Elizabeth aveva nei pressi di Witheridge, nel Devonshire. Rifiutarono l’invito a bere una tazza di tè, che avevano appena preso a Lostwithiel, per non rovinarsi la cena. «Anche se è una precauzione inutile se la cuoca è ancora Mrs Belt», fece notare acidamente Elizabeth. «Ci pensa lei a rovinarla.» «Ma non è poi così male, madre.» «Tu lo dici perché a te non importa affatto quello che mangi. Immagino che Howe sia ancora la tua governante, vero?» «Credo di sì, almeno l’ultima volta che ci ho fatto caso.» «Che donna odiosa: dovresti licenziarla.» «E perché? Si occupa di tutto e mi lascia in pace. Non è perfetta?» Lady Elizabeth fece schioccare la lingua e si guardò attorno, cercando di ricomporre i fili sottili dei capelli castani e argentati che si erano liberati dalle forcine. «Ma com’è triste questa stanza, Devon. Perché non fai reimbiancare i locali? Mi sembra che la casa sia un po’ troppo trasandata, se vuoi sapere la verità. Se la lasci andare, poi ti ci vorrà molto più denaro quando alla fine deciderai di risistemarla.» «Come sta Clay?» intervenne Alice, lanciando a Devon un sorriso amichevole. «Stringer ha detto che non è in casa.» «No, credo che sia andato a Londra», rispose gentilmente. «Ha detto che qui era tutto troppo noioso. Gli spiacerà sicuramente di non averti vista.» «Abbiamo sentito le cose più strane su di lui, sai? È davvero difficile stabilire a che cosa credere.» «Credete a tutto», ribatté con una risata. Ma vedendo il volto preoccupato di sua madre, soggiunse: «Sta molto bene, è in perfetta salute, davvero. Non sarei affatto sorpreso se decidesse di sistemarsi, uno di questi giorni. La cosa vi farebbe senz’altro piacere, Madre». «Mi farà piacere solo quando lo vedrò con i miei occhi. Non riesco a capire quale dei miei figli mi deluda di più.» Devon si strinse le braccia al petto e la guardò con un sorriso divertito, e lei, dopo qualche secondo, cedette e lo ricambiò. «Non mi hai chiesto nulla di Catherine», osservò. «Sì, stavo per...» «Aspetta un altro bambino.» «Mio Dio. Ma sono...» «Sette, ora. Sì, lo so. Non ho mai conosciuto una donna così portata per i bambini. Non ha preso da me e penso che non abbia preso nemmeno da tuo padre. Deve essere un retaggio di un’altra generazione. Mi ha detto di dirti che non ti scriverà più una lettera se prima non risponderai almeno a una delle sue. Davvero, Dev, è l’unica sorella che hai, potresti almeno sforzarti di mantenerti in contatto.» Prima che potesse rispondere, una cameriera apparve sulla porta. Fece un inchino


nervoso, non abituata, evidentemente, ad avere ospiti così importanti, e annunciò: «Mi hanno mandata a dire alle vostre signorie che le camere sono pronte, e ad accompagnarvi di sopra, se preferite riposare prima di cena». Lady Alice si alzò immediatamente. Era una giovane donna sottile, dall’ossatura delicata, con dei bei capelli castano chiaro e gli occhi nocciola. «Credo che andrò di sopra. Così voi due potrete fare una bella chiacchierata in pace. Ci vediamo per cena». Elizabeth fece un cenno di approvazione con il capo, mentre Devon si alzò per accompagnarla fino alla porta. Ma la cameriera aveva un altro messaggio. «Devo anche dire che Midge è stata portata fuori, ha bevuto e ora sta dormendo nella vostra stanza, mia signora», disse a Elizabeth. «Mio Dio, mamma, ma non avrete portato con voi quella roba dal respiro affannoso e dal naso camuso, vero?» «Certamente. Non vado da nessuna parte senza il mio cagnolino. Grazie... come ti...?» Ma la ragazza era già scomparsa, seguendo Alice. «Come si chiama quella ragazza? È nuova, vero?» «Ah, si? Non ne ho proprio idea.» «Onestamente, Devon, dovresti fare più attenzione alla gestione della casa. I domestici potrebbero derubarti e neanche te ne accorgeresti. Alice sta bene, non trovi?» continuò poi, senza interrompersi. «Alcune donne migliorano e fioriscono non più giovanissime, e credo che Alice sia una di quelle.» «Sì, direi che ha ancora qualche anno buono dinanzi a sé. Quanti anni ha, ventiquattro?» «Sì, credo di sì. È molto graziosa, non trovi?» «Sì, madre.» «Ha un temperamento delizioso, molto tranquillo. Ebbene, mi trovo a mio agio con lei proprio come con mia figlia. E poi, ovviamente, erediterà una buona fortuna quando il barone morirà. Immagino che ci saranno molti uomini che le ronzeranno attorno... Non che non ve ne siano ora, certo, ma lei è una ragazza così pudica, del tutto priva di arie...» «Madre...» «Sì, caro?» «Alice è una ragazza intelligente, attraente e molto buona, lo sappiamo entrambi, e qualcuno dovrebbe sposarla. Ma non sarò certamente io.» Lady Elizabeth inarcò le sopracciglia, con aria fintamente innocente. «Mio Dio, ma non ci ho mai pensato!» «Oh, su, madre.» «E va bene», cedette. «Ammetto che mi è passato qualche volta per la mente che voi due sareste veramente fatti l’uno per l’altra. I Fairfax sono vecchi amici; tu e Alice vi conoscete da una vita, e quindi non vi sarebbero sorprese. Non è che non vi piacete, poi. E Alice ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei. Potrebbe anche non essere un matrimonio eccitante, lo posso ammettere, ma sarebbe un legame serio e forte, basato su fiducia e rispetto. E,» soggiunse deliberatamente, «mi sembra che ti sia già divertito abbastanza.» Come si era aspettata, il volto di Devon assunse un’espressione chiusa, cupa. Ma continuò ugualmente, chinandosi verso di lui, lo


sguardo attento e vigile. «Mio caro ragazzo, non vuoi essere felice?» «Non ci penso», tagliò corto lui. «Dite di amare Alice come una figlia, ma ovviamente non avete pensato alla sua, di felicità. Se vi è così cara, come potete augurarle di vivere con uno come me?» «Sciocchezze. Tu potresti essere un bravissimo marito per qualsiasi donna se...» «Vi sbagliate. E questa conversazione non ha alcun senso.» Le volse la schiena e si soffermò a guardare fuori dalla finestra aperta, sul balcone immerso nell’ombra. Il mare era calmo, e il suo rumore insistente gli giungeva velato, lontano. All’orizzonte scorse tre imbarcazioni destinate alla caccia alle aringhe, provenienti da Looe, che ballonzolavano sospinte dall’acqua come piselli su uno scintillante piatto d’argento. A est, nel cielo azzurro, stava comparendo, pallido, il disco della luna. Si voltò. «Mi spiace, madre. Non litighiamo.» Si avvicinò al divano e prese posto accanto a lei. Il sole del tardo pomeriggio la baciava, illuminando il volto leggermente solcato di rughe, facendo brillare più capelli grigi di quanti se ne ricordasse dall’ultima volta. «Ditemi di voi. Come state?» Non si aspettava una risposta sincera, perché, che fosse sana o ammalata, Elizabeth rispondeva sempre: «Benissimo, grazie», seguito poi da una domanda sullo stato di salute della persona che si era rivolta a lei. Si trovava a disagio a parlare di sé, e credeva che descrivere il proprio stato fisico o psicologico ad altri, fosse una cosa volgare. Così Devon fu sorpreso quando la udì dire, dopo un brevissimo attimo di esitazione: «Sono stata molto triste, negli ultimi tempi. Ho cercato di scuotermi, ma non ci sono riuscita». Le tese una mano, e la madre si sforzò di esibire un piccolo sorriso rigido, per la tranquillità del figlio. «Saranno quattro anni in agosto, lo sai.» «Sì.» «Mi manca molto.» «Anche a me.» «Ed è strano, non trovi? Il nostro è stato un matrimonio tempestoso, tanto per non dire di peggio. Ci sono stati momenti in cui mi sentivo felice solo quando eravamo divisi, lui qui, io a White Oaks. Ma darei tutto quello che ho per poterlo riavere, ora. Penso che accetterei persino di vivere qui, solo per essere con lui. Ed è quello che lui aveva sempre voluto.» «Non avrei mai immaginato di sentirvi dire una cosa del genere. Avete sempre odiato questi luoghi.» «Sì, ironia della sorte, non trovi? Ma ti sbagli, non odio questo posto, è che non potrei viverci. Il Devonshire mi ha sempre tenuta legata a sé, proprio come la Cornovaglia faceva con lui.» Gli strinse una mano: «Tu sei proprio come lui, sotto questo punto dì vista. Sai che abbiamo anche litigato per via del nome da darti?» Devon annuì; conosceva molto bene quella storia di famiglia. «Gli avevo detto che avrei accettato di vivere qui tutto l’anno se avesse accondisceso a chiamare il mio primogenito Devon.» «Ma non avete mantenuto la promessa.» «No», sospirò e distolse lo sguardo. «Tuo padre era un uomo molto difficile, sai? E tu sei così simile a lui, molto di più di tuo fratello Clay. Era lunatico, come te, e di forti sentimenti. Amava e odiava con uguale passione, ed era parimenti cauto e


sprezzante del pericolo. Poteva provare attimi di tristezza indescrivibile, e altri di gioia intensa. Come te, amava. Darkstone.» «Per via del mare.» «Diceva che gli consentiva di non impazzire. Io ridevo, a quelle parole, pensando che stesse esagerando, che volesse attirare la mia attenzione.» Chinò il capo. «Non sono stata una brava moglie, Dev. Lo amavo molto, ma non potevo vivere con lui. O così almeno pensavo. Ora...» Sollevò lo sguardo. Con grande sollievo di Devon, la voce della madre perse tutta quella pesantezza malinconica e tornò decisa e forte come al solito. «In ogni caso, i rimpianti sono inutili e sciocchi. Se Edward entrasse da quella porta in questo momento, riusciremmo a essere felici assieme solo per poche ore. Poi, inizieremmo di nuovo a litigare.» Appoggiò il capo allo schienale dell’alto divano. «Ma rimpiango moltissimo di non essere stata con lui nel momento della morte. Avrei dovuto esserci anche io, qui con te.» «Ma non sapevate che stava morendo.» «Non importa. Avrei dovuto esserci. Era mio marito.» Il silenzio cadde tra loro. Entrambi si conoscevano troppo bene per fingere false parole di conforto. Le tragedie avvenivano; le spiegazioni troppo facili ai problemi più crudi della vita non li consolavano più. Entrambi avevano perduto le persone amate, ed erano divenuti esperti nell’arte elaborata della compensazione. «Bene», disse alla fine Elizabeth, tornando allegra. «Penso che andrò su a cambiarmi. Lo sai che ci siamo portate le cameriere? Siamo proprio un bel gruppetto. Immagino che la tua Mrs Howe troverà una sistemazione anche per loro; per il resto, non abbiamo bisogno di nulla. Seguite ancora gli orari di campagna, con la cena alle cinque?» «Le cinque è già tardi, per noi», sorrise il figlio, aiutandola ad alzarsi e notando che non era più sicura e vivace nel passo come un tempo. «A quell’ora moriamo già di fame. Ma, per Dio, per una volta tanto cercheremo di essere alla moda.» Elizabeth rise. «Salgo con voi, madre», disse prendendola gentilmente per un braccio. «Non penserai davvero che ceneremo a quella tavola, con tutti quei sottodomestici, vero?» Lily si fermò, tenendo in mano una manciata di posate d’argento, e sollevò lo sguardo. Era stata Miss Turner a parlare, la cameriera personale di Lady Alice, che si era fermata sulla porta e indossava un abito gonfio di seta color pulce. Miss Kinney, la cameriera di Lady Elizabeth, comparve dietro di lei dopo un secondo, ed entrambe guardarono Lily con la medesima espressione di divertita tolleranza. «Siamo davvero in campagna, Mary», disse Miss Turner alla propria compagna. «Questa ragazza stava per disporre i nostri posti al tavolo dei domestici.» Entrambe si misero a ridere. Lily si raddrizzò lentamente. Avevano più o meno la sua età, forse un anno o due in più. Prima di giungere a Darkstone, non era a conoscenza di questa potente regola di demarcazione, gelosamente seguita, tra i vari gradi della servitù in una grande dimora. Il più alto grado per una domestica era quello di cameriera personale della padrona, ruolo ancor più elevato di quello di governante, e colei che raggiungeva quel posto così eminente non perdeva poi occasione di farlo pesare a chiunque fosse inferiore a lei. Lily disprezzava l’intera faccenda. Odiava quel sistema meschino e


sgradevole secondo cui una ragazza promossa dal retrocucina alla cucina poteva essere salutata dalla cameriera personale con un «buongiorno». Ma almeno aveva appreso che non erano sempre e solo i ricchi a essere arroganti e a badare al rango; era proprio una caratteristica del genere umano, a prescindere dalla ricchezza. La verità era che le rigide distinzioni in classi sociali facevano venire a galla il peggio di ognuno. Sistemò l’ultima forchetta e si sforzò di sorridere gentilmente. «Dove pensate che vi piacerebbe cenare?» chiese, dando alla parola «cenare» la medesima enfasi che le aveva dato la regale Miss Turner. Sospettosa, la donna strinse gli occhi. «Ma nella stanza di Mrs Howe, naturalmente. Evitando però quella brodaglia che la cuoca chiama zuppa di pesce, spero.» «Oh, ma certo che no», affermò Lily. «Se cenate con la nostra stimata governante, sono certa che avrete piatti ben migliori. Ovviamente, sempre tenendo conto che qui siamo in campagna.» Miss Turner sbuffò. Si sentiva insultata, pur non riuscendo a capirne il perché. «Che ragazza impudente. Da dove vieni?» «Dalla Cornovaglia, naturalmente. La terra delle sardine e dei barbari. Scusatemi, ma devo andare ad apparecchiare nella stanza di Mrs Howe.» Passò accanto alle due donne e sentì su di sé gli occhi stupefatti che la seguirono fino a che scomparve. Quando tornò erano ancora là, sedute languidamente allo stesso tavolo che avevano tanto disprezzato, trovando evidentemente maggior gratificazione nel sentirsi importanti dinanzi a un pubblico che non da sole. La compagnia del maggiordomo era considerata degna della loro attenzione, perché mentre fingevano di non vedere gli altri domestici che erano entrati nella stanza, raccontavano al taciturno Stringer dell’incredibile quantità di bagagli con cui le loro padrone viaggiavano. Miss Turner descrisse anche la delusione di Joshua, il lacchè nero di Lady Alice, nell’apprendere che non avrebbe fatto parte del gruppetto che accompagnava in gita la padrona. Joshua era l’orgoglio dei domestici di casa Fairfax, con la sontuosa livrea verde smeraldo, le calze di seta, i capelli incipriati, e Miss Turner sosteneva che qualche volta era più profumato di sua signoria. «Un vero pavone, davvero. Così devoto alla mia signora, che lo porta ovunque, e che stravede per lui. Ma è stata Lady Elizabeth che ha deciso che non sarebbe venuto con noi perché voleva portare con sé il cagnolino, e ha detto che non c’era spazio per due mascotte. Quando Joshua è venuto a saperlo, ha pianto come un bambino, e le lacrime hanno disegnato tante righe nere sulle guance incipriate.» Miss Turner scrutò con soddisfazione i presenti che la stavano ascoltando. Racconti di vita dell’alta società erano ovviamente molto rari a Darkstone, e i domestici bevevano le sue parole come vere e proprie spugne. Incoraggiata, proseguì allora raccontando di un ballo che la famiglia di Lady Alice aveva dato in primavera, fornendo una profusione di particolari sui lunghi preparativi, l’abito che sua signoria aveva indossato, la pettinatura che la stessa Turner aveva aiutato a creare, il cibo e i vini serviti, l’orchestra che aveva suonato. Lily finì di apparecchiare la tavola, ascoltando solo qualche parola qua e là. Ma fu l’improvvisa nota sommessa nella voce di Miss Tumer che attrasse la sua attenzione, ancor prima di riuscire a


comprendere le parole. «Ho sentito dire che ben presto in casa Fairfax ci sarà un’altra grande festa... o forse a Darkstone Manor. Ma probabilmente l’avete sentito anche voi, Mr Stringer.» Ormai aveva attirato l’attenzione di tutti. «Si dice», mormorò, abbassandosi un poco per fingere maggiore segretezza, «che ci sarà un matrimonio tra la mia padrona e il vostro padrone prima che l’anno sia finito.» Lily rimase immobile, le palme premute contro il ruvido canovaccio tessuto in casa, fino a quando quello strano torpore l’abbandonò. Probabilmente era durato solo qualche secondo, perché poi udì l’ondata di mormorii che accolsero là notizia di Miss Turner. Dopo un momento sentì su di sé lo sguardo intento e curioso di alcuni domestici, in attesa della sua reazione. Depose l’ultimo piatto, raddrizzò un cucchiaio ricurvo, cercando di dare quella che sperava fosse un’imitazione credibile di indifferenza. Ma dentro di sé, le pareva di essere stata colpita con un pugno. Stupida, che stupida sono stata! Era stata una giornata ricca di dure lezioni, ma questa era di certo la più dura. Di gran lunga. Lowdy apparve sulla porta, dietro a una cameriera della cucina che portava un vassoio. L’odore della zuppa di pesce le diede la nausea. E improvvisamente non le importò più quello che gli altri pensavano di lei o avrebbero potuto dire alle sue spalle. Raggiunse Lowdy e le parlò a bassa voce, velocemente. «Di’ a Mrs Howe che sono ammalata, Lowdy. Dille che non riesco a mangiare nulla e che tornerò tra un’ora per aiutare a rigovernare.» Poi uscì senza attendere la risposta di Lowdy. Il sentiero del promontorio, pericoloso nelle notti buie, era quasi illuminato a giorno dalla luce argentea della luna, che si distribuiva anche sul mare in un triangolo luccicante il cui vertice fendeva l’orizzonte, mentre i lati si ampliavano verso la costa, fino a quando la luce si frangeva in spruzzi luminosi sulle rocce sottostanti. La voce di Lady Alice Fairfax era fresca e piacevole sul rumore sordo delle onde, la sua conversazione leggera e poco impegnativa. Eppure, Devon doveva fare uno sforzo per seguire. Si erano fermati direttamente sopra il punto in cui, qualche ora prima, era quasi riuscito a sedurre Lily Troublefield. Fece uno sforzo per allontanare dalla mente gli intensi ricordi erotici, ma essi continuavano a fluirgli dentro, irritandolo e mandandogli in frantumi la concentrazione. La cosa più difficile di tutte era cercare di non immaginare una fine molto diversa di quel loro breve incontro. Era stata proprio sul punto di cedergli, ed era stato soltanto il maledetto tempismo di quel domestico a rovinare tutto. Al colmo della frustrazione, quel pensiero gli diede un’ondata di piacere. «Devon? Mi stai ascoltando?» «Alice, perdonami, io... io stavo pensando alla miniera, a problemi che abbiamo avuto», mormorò, poi le prese la mano e ripresero di nuovo a camminare. Non erano andati poi molto lontani quando la giovane si fermò e gli chiese, con espressione seria: «Come stai, Dev? Come ti va la vita? Sei felice?» Sorrise sardonico. Quella domanda gli era stata posta due volte nello stesso giorno. «Credo di non pensare più in questi termini, Allie.» «Non mi chiami così da una decina d’anni», gli disse a bassa voce, toccandogli il braccio. «Mi manchi, Devon. Vorrei che tornassi più spesso a White Oaks, proprio


come facevi in passato. E faresti felice anche tua madre. Ovviamente, la mia famiglia sarebbe contenta di averti a Fairfax House.» «Mi ricordi Clay, che cerca sempre di farmi uscire dalla Cornovaglia.» «Perché ci manchi.» «Ti manco perché non mi vedi spesso. Altrimenti, la mia compagnia ti risulterebbe sgradita dopo poco.» «Non è vero.» La guardò, e fu sollevato nel vedere nei begli occhi nocciola solamente affetto e preoccupazione. Ma Alice era una vecchia amica, e non voleva rischiare di ferirla solo perché era troppo preoccupato di chiarire le cose tra loro. «Mia madre ci vede già sposati, lo sai?» cominciò in tono leggero. «Sì, lo so.» «Sei sempre stata una buona amica, Alice. Spero che lo sarai sempre.» Passò un lungo minuto di silenzio, poi lei lo prese a braccetto. Stava sorridendo, ma c’era una certa fissità in quell’espressione. «Caro Dev», disse, battendogli amichevolmente una mano, «spero che anche tu continuerai a essere mio amico.» «Ci puoi contare.» Continuarono a passeggiare per un poco in silenzio, poi fu Alice che riprese a parlare. «Dimmi tutto su Clay. Le storie che ho sentito sono veramente scioccanti. Ma è vero che è il capitano di una nave pirata che si chiama The Ravager e che mette in salvo emigrati politici francesi per traghettarli nei Paesi Bassi?» Devon scoppiò a ridere. «Oh Dio, questa non l’avevo ancora sentita.» Continuarono a camminare tenendosi per mano, i volti molto vicini. Lily li seguì con lo sguardo dalla panca sulla terrazza illuminata dalla luna, da dove non poteva essere vista. Il suono della risata di Devon continuò a echeggiare nelle sue orecchie anche dopo che i due erano scomparsi. Che fortuna che Alice Fairfax fosse arrivata tempestivamente, si disse, perché quella donna l’aveva aiutata a vedere nella giusta luce lo squallido incontro di quel pomeriggio con il padrone. Le pareva tremendamente volgare e sordido, ora, e trasalì pensando al disprezzo che lui sicuramente provava per lei. Ma era stata una bella lezione, giunta e meritata. La tenne stretta al petto, come un mazzo di spine. Sebbene fosse stato il caldo soffocante a spingerla fuori da quella misera stanzina in soffitta, Lily rabbrividì. Dentro di sé, aveva preso forma una decisione amara e fredda: molto presto, con o senza denaro, avrebbe dovuto trovare il modo di lasciare Darkstone.

Capitolo dodicesimo «Dai, Lily, prendi questi.» «Che cosa sono?» «E cosa ti sembrano, eh? Le lenzuola del padrone?» Enid Gross rise rauca mentre poneva un cesto colmo di biancheria pulita tra le braccia di Lily; la sua amica Ruth si unì alla risata, con le braccia infilate fino al gomito in una grande tinozza colma di acqua e sapone. «La biancheria pulita del padrone?» Le due ragazze erano piegate a metà dal ridere e Lily rimaneva impietrita, in attesa. «Ma no, sono di Cobb», Enid


spiegò quando riuscì di nuovo a parlare. «E tu devi portarle nella sua casa e pulirgliela, ha detto ‘Mrs Howe.» «Devo pulire il cottage di Mr Cobb? Ora?» «Sissignora.» «Ma mi ha detto di aiutare Dorcas a fare il burro quando ho finito qui, e poi di lavare le scale del retro.» «E allora, mia cara, sarà meglio che ti sbrighi», Enid rispose con una smorfia. «Ha aggiunto anche questo compito alla lista.» Lily si volse prima che potessero vederla in volto, non volendo mostrarsi vicina alle lacrime. Obbligandosi a non ascoltare le loro parole colme di astio, salì a fatica gli scalini del locale adibito a lavanderia e si fermò in cortile. Il sole pomeridiano era accecante. Coprendosi gli occhi con una mano, inspirò profondamente, regolarmente, e dopo poco tempo riuscì a riprendere il controllo di sé. Ma un senso di spossatezza la schiacciava, come una malattia latente di cui il suo corpo non riusciva a liberarsi. Lavorava come una sonnambula, silenziosa, obbediente e intorpidita. Prese il cesto con entrambe le mani e si diresse disattenta lungo il sentiero polveroso. L’aria era colma di ondate di baccelli di soffione che si depositavano lungo i lati del sentiero. Due cervi attraversarono senza alcuna fretta il sentiero a una ventina di metri da lei, tra i ciuffi di felce aquilina che ondeggiavano nella brezza, ma Lily non li vide, né udì i corvi gracchiare incessantemente tra gli alberi di nocciolo. L’abitudine di pensare a Devon Darkwell era sempre con lei, anche perché non riusciva ad avere la forza di allontanare il suo ricordo dalla mente. Le due gentildonne se ne erano andate in vacanza, e dopo un paio di giorni la vita a Darkstone aveva ripreso il suo ritmo tranquillo, ordinato, mentre quel breve attimo di eccitazione si era disperso velocemente. La vita di Lily si era nuovamente incanalata nella dura, noiosa routine, perché l’idillio era terminato, l’idea che si erano fatti gli altri domestici che lei fosse sotto la protezione del padrone era un ricordo del passato, e Mrs Howe non aveva perduto di certo tempo nel reintegrarla nel suo status di cameriera sottopagata. Pareva che non ci fosse compito troppo pesante, incarico troppo avvilente per Lily, e lei era ben certa che non si trattasse della propria immaginazione: Mrs Howe si stava vendicando. Eppure, le cose avrebbero anche potuto andare peggio. L’unico conforto per Lily era il pensiero che, se non altro, Mrs Howe e gli altri erano confusi, non in grado di stabilire esattamente quali fossero i rapporti tra lei e Mr Darkwell, perché due volte negli ultimi quattro giorni lui aveva mandato un domestico a chiamarla, e lei per due volte aveva ignorato gli ordini. L’aveva fatto con un sentimento di impunità, certa che il Visconte di Sandown non si sarebbe mai abbassato al punto di andarla a prendere nella minuscola camera in soffitta, o di cercarla tra gli altri domestici. Le sue ipotesi si erano rivelate corrette, perché lui non era mai venuto. Ma oltre a quel senso di sollievo provava un’inquieta premonizione: si disattendevano i desideri del padrone a proprio rischio e pericolo, e Lily aveva una paura intensa e istintiva della rabbia di Devon. Ma qualcos’altro la spaventava ancor più, ed era la totale mancanza di volontà propria quando era con lui. Durante il loro ultimo incontro aveva appreso la tormentosa lezione che lui era più forte di lei, e che il desiderio che lui provava nei


suoi confronti era molto più potente della sua capacità di rifiutarglisi. Nonostante avesse già molte volte ripercorso con la mente gli eventi di quel pomeriggio indimenticabile, le pareva ancora incredibile, impossibile, che fosse stata così pronta a cedere – laggiù, sulla spiaggia, alla luce del sole – a un uomo che non provava nulla per lei. E non era di certo quel tipo di donna! O per lo meno così aveva sempre creduto. Ma, in realtà, non era mai stata messa alla prova. Devon Darkwell era l’unico uomo che l’avesse mai toccata, anche perché non teneva in alcuna considerazione le goffe attenzioni del figlio del padrone della pensione di Portsmouth, dove era vissuta col padre per due anni. Ma nel suo cuore era convinta di non essere una donna di facili costumi; era seria e di sani principi, e la conclusione terribile, ma certa, era che solo Devon riusciva a farle abbandonare ogni scrupolo con un sorriso, o mormorandole dolci parole all’orecchio. O toccandola. Doveva rimanere lontana da lui, si disse. Per salvarsi, avrebbe dovuto stare ben attenta a non incontrarlo. Non ci sarebbe voluto molto, solo fino a quando avesse guadagnato un po’ di soldi e pensato a un posto dove andare. Entro due settimane i suoi debiti sarebbero stati pagati e lei avrebbe iniziato a guadagnarsi lo stipendio. Poi, in poco tempo, sarebbe riuscita ad andarsene. Aveva già superato di qualche metro la casa di Mr Cobb senza accorgersene. Si volse stancamente e si diresse sul sentiero lastricato che curvava verso la piccola casa dal tetto di paglia, interna rispetto al viottolo di ghiaia. Con le braccia impegnate dal cesto della biancheria pulita, riuscì ugualmente ad aprire con una mano il chiavistello della porta, dandole poi un calcio per spalancarla. Un odore strano la accolse, dolce e acidulo al contempo, un odore a lei familiare. Ma il cottage le apparve vuoto; o meglio, non riusciva a vedere nessuno nell’oscurità totale. Trovò il tavolo e depose il cesto. L’odore era ancora più forte. Raggiunse la finestra: il chiavistello era sollevato, ma gli scuri erano chiusi. Li aprì. «Richiudi immediatamente!» Fece un balzo, e quasi si mise a urlare; volgendosi, vide un uomo raggomitolato sul pavimento vicino al fuoco, con le ginocchia raccolte vicino al volto e la schiena premuta contro i mattoni freddi. Dopo qualche secondo riconobbe l’uomo. «Mr Cobb, mi avete fatta spaventare! Pensavo che non foste in casa, io... io sono venuta a pulire.» Fece un passo avanti, confusa, e lo fissò. L’uomo non si era mosso, e teneva le braccia strette attorno alle ginocchia. I capelli e la barba neri avevano un aspetto selvaggio, trasandato, e dietro a essi l’espressione dell’uomo era indecifrabile. Fece un passo avanti. «Siete ammalato? Avete bisogno di aiuto?» Anche nell’oscurità le parve di veder brillare quei fieri occhi neri. «Sei tu che c’hai bisogno d’aiuto», le disse con un suono gutturale, del tutto diverso dalla sua voce abituale. Si sforzò di non trasalire quando Cobb si alzò da quella strana posizione rimettendosi in piedi. «Sei tu che c’hai bisogno di aiuto, signorina. Un Darkwell non è un uomo su cui una giovane possa fare affidamento.» Di nuovo si mise quasi a urlare quando si spinse verso di lei, ma si fermò al centro della stanza, ondeggiando. Improvvisamente comprese che quell’uomo era ubriaco. In tutte quelle settimane che era rimasta a Darkstone, non l’aveva mai visto comportarsi in modo meno che dignitoso e irreprensibile. E comprese anche perché quell’odore dolce-acidulo le era familiare: le ricordava l’odore che respirava nella


camera di suo padre la mattina dopo una delle sue infrequenti baldorie alcoliche. Lily tese una mano. «Su, lasciate che vi aiuti.» I denti bianchi brillarono, creando un forte contrasto con la barba nera. «Ah, vuoi aiutarmi? Vuoi prendermi la mano?» chiese tendendole il braccio sinistro, terminante in un moncherino. Con una risata cattiva, si avvicinò a lei. Lily impallidì. Non aveva mai distolto lo sguardo da quel volto, ma vide con la coda dell’occhio la bianca cicatrice che sbucava dalla manica. Le si avvicinò ancor più, e ora riusciva a leggere negli occhi dell’uomo un’aperta sfida. Provava repulsione e una miriade di altre sensazioni, ma riuscì ugualmente a non indietreggiare e a non abbassare la mano tesa. Quando il braccio di Cobb fu soltanto a pochi centimetri, l’uomo lo spinse indietro infilandolo nella tasca della giacca. Le sopracciglia aggrottate celavano uno sguardo colmo d’ira. «Esci subito di qui. Esci!» Immediatamente, Lily si volse e prese a correre. L’uomo la seguì fin sulla porta. Appoggiandosi a essa, continuò a urlarle dietro: «Vattene! Te ne pentiresti, altrimenti! Vattene, per Dio!» Le grida la seguirono a lungo, ma fuggendo, i polmoni in fiamme per lo sforzo, lei immaginò l’uomo fermo sulla porta, che continuava a urlare a taccole e gabbiani. Quella notte, molto tempo dopo che gli altri domestici avevano recitato le preghiere e se ne erano andati a letto, Lily rimase in cucina, in piedi su una sedia, a pulire i mattoni anneriti del camino con una spazzola. Era la punizione per avere utilizzato la sabbia invece delle conchiglie d’ostrica sminuzzate per pulire il peltro. Mrs Howe disse che in quel modo aveva segnato gli oggetti, ma a dire il vero Lily non riuscì a vedere alcun danno. In ogni caso, quell’atteggiamento non era di certo una novità, e si stava abituando a essere la «prediletta» per punizioni e rimproveri e la prescelta per compiere i lavori più faticosi, semplicemente perché la governante la detestava. «Tu, scendi subito da lì.» Trasalì e quasi perse la spazzola. Nonostante la corporatura robusta, Mrs Howe aveva la capacità di muoversi silenziosamente, materializzandosi all’improvviso, come un rettile. Lily scese subito dalla sedia e la guardò in volto chiedendosi, preoccupata, che cosa fosse successo. La donna teneva in mano qualcosa. «Guarda che cosa ho trovato.» Quel tono, morbido e soddisfatto, avrebbe dovuto già di per sé metterla in guardia. Le si avvicinò esitante, cercando di vedere. Quando fu a pochi passi da lei, Mrs Howe aprì le mani forti, maschili. Sulla palma, c’era un mucchietto di monete d’argento. Lily le guardò senza capire. «Che cosa sono?» La risata di Mrs Howe fu solamente un sospiro gutturale, divertito. «E così hai pure intenzione di mentire...» «Mentire su cosa?» Si rimise le monete in tasca e strinse le braccia al petto. «Ero uscita dalla mia stanza soltanto da cinque minuti. Debbo ammettere che quando vuoi sei veloce.» «Ma di cosa state parlando?» «Tuttavia, avresti dovuto metterle in qualche altro posto, non nel tuo cassetto. È stato il primo luogo in cui ho guardato.» Lily sussultò quando iniziò a capire. «Pensate che abbia rubato il vostro denaro!»


«Il denaro della cassa, non il mio. E ora, vieni con me.» «Ma non ho fatto nulla! Lo giuro, davvero. È impossibile che l’abbiate trovato nel mio cassetto.» Si spostò velocemente quando Mrs Howe le si avvicinò. «Ascoltatemi, vi dico che non... No!» La mano che le si strinse attorno al braccio era forte e implacabile come una morsa di metallo. «Lasciatemi andare!» La donna le diede uno strattone violento, e lei soffocò a stento un urlo di dolore. Ma peggio del dolore era la vergogna di essere spinta a forza fuori dalla cucina, trascinata lungo il corridoio, su per le scale che portavano al primo piano. Con sempre maggior terrore, comprese che Mrs Howe la stava portando da Devon. Si sentì pervadere dall’umiliazione, bruciante come se la stessero ricoprendo di acqua bollente. Ma quando arrivarono alla porta della biblioteca, dove abitualmente Devon si ritirava dopo cena e prima di coricarsi, vide che la stanza era buia e vuota, e si sentì indebolire da un forte senso di sollievo. Cercò di divincolarsi, ma la presa bruciante della Howe si intensificò. Parve soffermarsi un attimo a riflettere sul da farsi, poi ripercorse il corridoio, alternativamente sospingendo e tirandosi dietro Lily. Lily fece ancora una disperata resistenza all’inizio dell’ampia scalinata di noce. «Non ho rubato il vostro denaro...» riuscì a dire a denti stretti prima che la governante la colpisse in volto con la palma della mano. «Ragazza malvagia. Sfacciata malvagia e spergiura.» La prese per le spalle, scuotendola fino a quando Lily ebbe la sensazione che le si staccasse la testa dal collo. Poi le afferrò ancora il braccio e la costrinse a salire le scale. La porta della camera da letto di Devon era aperta. È un sogno, si disse Lily, un incubo. Tergendosi le lacrime con rabbia e imbarazzo, osservò il mutare dell’atteggiamento di Mrs Howe – da molto cattivo a preoccupato – proprio nel momento in cui bussava delicatamente alla porta. Devon sollevò lo sguardo dal libro che stava leggendo alla luce delle candele. Scrutando l’oscurità, riuscì a scorgere la massa scura e massiccia della governante. «Sì, cosa c’è?» Poi vide chi c’era con lei, e lentamente chiuse il libro. Il suo primo pensiero fu che Lily fosse malata, poiché appariva pallida ed esausta e Howe pareva sorreggerla. Non la vedeva ormai da cinque giorni. Se era stata ammalata, si disse, questo spiegava chiaramente il motivo per cui non era andata da lui quando l’aveva mandata a chiamare. Prima che potesse alzarsi, la governante iniziò a parlare. «Mio signore, vi chiedo umilmente perdono per disturbarvi a quest’ora, ma non volevo aspettare – pensavo che avreste preferito sapere subito la verità.» Diede uno strattone al braccio di Lily facendola avanzare al centro della stanza, più vicina alla luce. «Ho scoperto che questa ragazza ha rubato. Quattordici sterline del denaro per la gestione della casa erano nel suo cassetto, avvolte in un fazzoletto. L’ho colta praticamente sul fatto.» «Io non...» «Zitta, fino a quando non ti verrà dato il permesso di parlare al padrone», ordinò Mrs Howe, dandole un altro strattone. «Ma io...» «Lasciatela andare», disse Devon a bassa voce. Quando Howe la lasciò andare, Lily si tenne il braccio dolorante e fece un passo avanti, cercando di vederlo meglio in volto. Era senza giacca, con le maniche della camicia arrotolate; una bottiglia di rum, una caraffa d’acqua e un bicchiere vuoto erano posti sul tavolo, accanto al


gomito dell’uomo. «Non ho rubato nulla», disse chiaramente, gli occhi seri, fissi sul suo volto. «Lo giuro. Si tratta di un errore.» Devon si appoggiò allo schienale della poltrona, ponendo le mani sui braccioli di pelle. «Si tratta di un’accusa grave, Mrs Howe», disse, senza mai distogliere i freddi occhi azzurri da quelli di Lily. «Abbiate pazienza, ripetetemi ancora quello che è successo. Avete detto che l’avete colta sul fatto?» «Quasi, signore. L’avevo lasciata in cucina, a pulire il camino, e mi ero ritirata in camera. Stavo sistemando un poco i conti, così la scatola dove tengo il denaro per la gestione della casa era fuori e aperta. Enid Gross è venuta a dirmi che Rose aveva mal di denti e che andassi da lei a portarle l’olio di chiodi di garofano, per alleviarle il dolore. Ovviamente, sono andata subito da lei, visto che non mi piace l’idea che una delle mie ragazze stia male se posso fare qualcosa per aiutarla.» Lily si volse e la fissò «Sono andata subito in cucina a prendere l’olio di garofano, e là Enid ha riferito a questa qui quello che era successo. Ecco come ha fatto a sapere che sarei stata impegnata per un po’. Enid è salita con me, così nessuno si trovava al pianoterra, a eccezione di Lily. Non sono stata via più di cinque minuti e, quando sono tornata, la scatola era vuota, se si eccettuavano i pochi scellini sul fondo. Sono andata subito nella stanza dei domestici e mi sono messa a guardare nei cassetti – sapete, ognuno ha un cassetto per riporvi quanto serve per cucire, delle penne o della carta, qualche oggetto personale. All’interno del cassetto di Lily ho trovato il denaro, l’esatto ammontare che mancava, avvolto in un fazzoletto.» Si mise una mano in tasca per prendere le monete e le tese all’uomo, sulla propria palma. Devon non disse nulla. Fissò Lily con intensità snervante, passandosi pensoso sulle labbra un dito indice. Quando Lily non riuscì più a sostenere quel silenzio opprimente, raddrizzò le spalle e disse, con calma: «Non ho rubato quel denaro. Non riesco a spiegarmi come sia entrato nel mio cassetto, ma non ce l’ho messo io». «Sta mentendo. Vuole andarsene da qui, non vede l’ora di andare via. È ancora in debito per abiti e viaggio, e così ha rubato il denaro. Se non l’avessi colta sul fatto, questa sera, se ne sarebbe andata domani.» Una luce diversa comparve negli occhi dell’uomo e, per lo spazio di un istante, Lily pensò di vedervi della rabbia. «E così te ne volevi andare, vero, Lily?», chiese a bassa voce, con gentilezza. Non sapeva il perché, ma qualcosa dentro di sé le diceva che quella gentilezza era ingannevole, che sotto di essa vi era una trappola pronta a chiudersi attorno a lei. Ci fu una lunga pausa, durante la quale cercò di decidere se dire la verità o mentire. Alla fine, decise di essere sincera. «Sì, è vero.» Il volto di Devon non mutò espressione. «Lasciateci soli», disse rivolto a Mrs Howe, senza però smettere di fissare Lily. «Ci penserò io.» «Molto bene, mio signore.» Un lieve sorrisetto di soddisfazione increspò le labbra della governante. Si chinò ossequiosa e uscì dalla stanza. Subito dopo, sentirono i passi pesanti scendere le scale. Devon non parlava, non si muoveva. Lily continuava a fissare la sua espressione chiusa, formale, da cui era scomparsa tutta la rabbia, ma non riuscì a decifrare alcunché. Timorosa e agitata per via di quel lungo silenzio teso, disse, in un soffio:


«Ma le credete? Pensate che abbia rubato quel denaro?» «Non ne ho idea, Lily. Ma, se volevi andartene da Darkstone, penso che ne avresti avuto bisogno.» Chiuse gli occhi per un secondo, cercando di ricacciare la voglia di piangere. «E tu hai detto che volevi andartene, vero Lily?» Intrecciò strettamente le dita sotto il mento e parlò con raggelante freddezza. «Forse posso aiutarti.» Per la tensione, Lily sentì la bocca arsa. Un punto nascosto, dentro di sé, sapeva perfettamente quello che lui avrebbe detto. «Conosco un modo grazie al quale potresti guadagnare molto denaro. Molto velocemente, molto semplicemente...» Tutto si zittì, scomparve, ma lei continuò a sentire nelle orecchie la eco tremenda delle sue parole come se continuasse a ripeterle, ancora e ancora. Quando non riuscì più a sopportarlo, si volse e corse verso la porta. «Fermati!» Batté il pugno con forza sulla scrivania contemporaneamente a quell’ordine urlato. Lily sobbalzò, si fermò ma non si volse. Devon si alzò. «Chiudi la porta», le disse, a voce più bassa ma con la medesima ferocia. Lei non si mosse. «Chiudila!» Vide che Lily spostava una mano appoggiandola allo stipite, come se avesse bisogno di un sostegno, e si avvicinò a lei lentamente. Quando fu a pochi passi, notò che le sue spalle erano scosse da singulti. «Lily?» La giovane aveva la gola serrata e pensava di non riuscire a parlare, ma doveva sforzarsi di dirgli la verità. «Io non ho...» Singhiozzi senza lacrime la soffocarono prima di potere finire la frase. Si sentiva il petto in fiamme, non riusciva più a respirare. Poi, improvvisamente, sentì le mani di Devon stringerle le spalle, e si sciolse in lacrime. «Rubato... il tuo denaro...», sbottò in una serie di rantoli, nascondendo il volto tra le mani. «No, lo so. Su, su, va tutto bene.» L’abbracciò e la tenne stretta, premendo la sua schiena contro di sé, come per assorbire quei singulti. «Su, Lily, va tutto bene, ora.» Cercò di farla voltare, ma lei resistette: non voleva vederlo in volto. Allora Devon si chinò un poco per accostare la propria guancia a quelle di lei. «Non piangere più.» Lei disse qualcosa, ma la sua voce era così flebile che non riuscì a distinguere le parole. Allora poggiò le labbra sulla gola di Lily, assaggiando il sapore delle sue lacrime. «Guardami, Lily». Con estrema delicatezza la voltò tenendola sempre tra le braccia. Il volto della ragazza era distrutto e tragico, e teneva ancora lo sguardo abbassato. Lei parlò di nuovo, e sebbene la voce fosse strozzata, questa volta almeno comprese quello che voleva dirgli. «Mi credi?» «Ma sì, certo. Ti credo.» E in quel momento era effettivamente così anche se, a dire il vero, la cosa aveva poca importanza per lui. Passò le dita sulle sue guance umide. «Non piangere più, amore. Come potrei baciarti se continui a piangere?» Non poté contraccambiare quel sorriso, ma lasciò che le asciugasse il volto con il fazzoletto, e poi che le posasse le labbra delicatamente agli angoli della bocca. «Non l’ho fatto, non l’ho fatto.» «Lo so. Silenzio, ora.» La baciò con tutta la tenerezza che era in lui, un bacio lungo, lento e benefico che interruppe immediatamente, nel momento in cui sentì


crescere in sé la passione. Lily si passò il dorso di una mano sulle guance. «Ma perché avrà inventato una cosa simile?» disse con voce rotta. Ma poi riprese: «Mi credi veramente?» «Ma sì, certo. Non ruberesti, non ne saresti capace.» Con sua grande sorpresa, lei gli passò le braccia attorno al collo, sospirando. «Oh, Dev!» e gli offrì la bocca. Non esitò un solo istante. La baciò avidamente, tenendola ferma con una mano sulla nuca e costringendola ad aprire le labbra, assaporando con la lingua il sapore di lacrime salate. Lily emise un suono dolce, profondo, e fece un passo indietro. Lui la seguì. Tenendo gli occhi chiusi, trovò la porta con una mano e la chiuse. La sentì irrigidirsi e tentare di dire il suo nome, ma la stava baciando troppo profondamente, e la parola uscì soffocata. «Questa è un abominio», mormorò togliendole la cuffia da cameriera. Tenendole le dita intrecciate tra i capelli, la costrinse a piegare un poco indietro la testa, coprendole ancora la bocca e bevendone il sapore intenso, inebriante. Lily iniziò a tremare in modo incontrollabile, e Devon si allontanò a guardarla. Le labbra erano umide e gonfie di baci, lo sguardo era annebbiato, le ciglia brillavano di lacrime ancora trattenute. Molto lentamente, deliberatamente, iniziò a slacciarle il vestito. «Oh», disse Lily, ed era in quel momento l’unica cosa in grado di dire, perché fino ad allora era stato quasi possibile fingere che si stessero solo baciando, che stesse solo coccolandola. Quello che stava facendo ora, invece, metteva in evidenza la fragilità del pretesto. Lily pose le mani attorno ai polsi di Devon, tirandoli leggermente, ma con così poca forza che egli ne sorrise. E in quel momento, nell’istante in cui il suo volto rapito e intento si addolciva e i suoi occhi brillavano di calore, sentì che lo amava. Oramai era riuscito ad aprirle il vestito, le denudò le spalle, le sussurrò sulle labbra dolci complimenti stravaganti. «Devon?». Si chinò per baciarle la gola mentre le accarezzava i seni. «Devon, penso che dovremmo parlare.» Non alzò nemmeno la testa, ma Lily sentì il rumore sordo della sua risata, il suo respiro caldo sulla pelle. Per un solo istante sentì l’impulso di unirsi alla sua risata. Ma poi lui le coprì uno dei seni con la bocca calda, aperta, e lei si dimenticò completamente di che cosa ci fosse di divertente. Poi, con grande attenzione, le sfilò le braccia dalle maniche dell’abito, poi da quelle della camicia. E quando strinse con le dita il tessuto arrotolato attorno alla vita e lo abbassò, Lily riuscì solo ad appogiarglisi alle spalle e cercare di non tremare. Immediatamente la prese tra le braccia e la tenne stretta a sé. Il corpo di Devon era caldo e reale; quando un poco della sua ansia diminuì, lei lo abbracciò stringendosi a lui, godendo della sensazione di forza che le davano il torace e le cosce dell’uomo contro le sue. Gli si strinse al collo, celandovi il viso; si sentì di nuovo terribilmente tesa, e comprese che se avesse dovuto fare una scelta, e non semplicemente lasciarsi andare alla seduzione più deliziosa che potesse immaginare, quello era proprio il momento giusto. Non si era nemmeno accorta che si stavano spostando, e si sorprese quando, posandola al centro del letto e sdraiandosi accanto a lei, Lily sentì la morbidezza della coperta. Fletté le ginocchia, sollevando le gambe. Devon ignorò quel gesto, ma quando lei si strinse le braccia al petto, le disse: «Ah Lily, non farlo», mentre gliele allontanava. Incredibilmente, lei obbedì. Devon sorrise, soprattutto quando si leccò leggermente i pollici, e li portò, facendo rapidi movimenti delicati,


attorno ai capezzoli già induriti. Lily sentì che la testa le stava ricadendo sul cuscino; cercò di non far rumore, ma il suo respiro usciva in rantoli veloci, e quindi non era possibile. La bocca di Devon sostituì uno dei pollici, mentre la sua mano libera scendeva verso il basso. Nonostante gli sforzi di volontà, il morbido movimento della palma nella parte bassa del ventre la fece gemere. Poi Devon fece scivolare una mano tra le cosce strette di Lily. «Devon, aspetta... penso che dovremmo aspettare», vide che il giovane muoveva il capo da un lato all’altro facendo cenno di no, in perfetta sincronia con le morbide ma spietate carezze sui capezzoli, mentre le mani premevano tra le sue gambe per aprirle, con pressione gentile ma ferma. Lily gli afferrò il colletto della camicia, senza più sapere se per spingerlo o per attirarlo. Un pensiero curioso le attraversò la mente. «Ma ho ancora le scarpe.» Devon sollevò gli occhi. Mentre lei lo fissava, l’intensità bruciante del suo sguardo si mitigò e la sua bocca, umida per i tanti baci, si contorse divertita. Rise. Stupita, lei gli sorrise. Il suono della sua risata era così libero e allegro che le sembrò come se un balsamo delicato fosse stato versato su una vecchia ferita, facendola guarire. Ormai sapeva che avrebbero fatto l’amore, che non c’era mai stata una scelta, oppure che lei l’aveva fatta tanto tempo prima. «Perché è così divertente?» chiese. Queste poche parole bastarono a farlo ridere di nuovo, e questa volta lei rise con lui. Si baciarono con abbandono frenetico, mentre lui si strappava la camicia e si toglieva i pantaloni. Le tolse le scarpe, e poi le calze sottili, troppe volte rammendate. Fissò per un attimo, pensoso, una delle giarrettiere consumate, su cui con un filo nero erano ricamate le sue iniziali, L.T. «Hai bisogno di qualche vestito nuovo», le disse. Poi si distese vicino a lei e la prese tra le braccia. Lily non riusciva a capire cosa fosse più eccitante, se la sua nudità o quella di Devon. «Non l’ho mai fatto prima...» gli confidò in un sussurro, toccandogli con mano timida il petto. Era certa che lui pensasse il contrario. Non le credeva, ma poco importava; avrebbe potuto dirgli tutto, in quel momento, tanto lui non vi avrebbe badato. Le tolse delicatamente ciocche di capelli rossi dal volto e la baciò fino a lasciarla senza fiato, poi fece scivolare un ginocchio tra quelle di lei. Immediatamente, Lily spalancò gli occhi e si irrigidì. «Va tutto bene», mormorò. «Non ti farò male.» Un brivido di coscienza si fece strada nell’angolo più lontano della sua mente, come l’ultimo baluginio di una luna calante. «E poi?» Le dita abili di Devon trovarono il suo punto intimo più sensibile. Lei ansimò. «E dopo?» La stava accarezzando intimamente, sempre più profondamente, e con le labbra morbide le succhiava i seni, interrompendosi solo per dirle, con voce roca: «Non c’è un poi. C’è solamente il presente». Le fece scivolare le mani sotto le natiche, e penetrò subito in lei. Era stretta, calda, incredibilmente morbida... E così umida che avrebbe potuto raggiungere immediatamente l’orgasmo, senza aspettarla. Invece, rimase fermo dentro di lei, sentendo la fusione profonda delle loro pulsazioni, Lily aveva girato il volto di lato, nascondendolo nel cuscino. Le appoggiò le labbra a un orecchio e sussurrò parole dolci, e brividi delicati la scossero, inducendola ad accoglierlo ancor più profondamente in sé. Teneva gli occhi serrati. «Va tutto bene?», le sussurrò. Lei


emise un dolce suono, e Devon iniziò a muoversi in lei. Lily giaceva immobile, ma ben viva a ogni sensazione. Il piacere si era placato quando era entrato in lei, ma sottili ondate stavano tornando molto lentamente, dipanandosi a spirale dai lombi al ventre, come un fiore che stesse sbocciando. Girò la testa lentamente sul cuscino, e vide che la stava fissando. Gli accarezzò il volto, passò i pollici lungo le profonde rughe che si disegnavano ai lati della bocca. I suoi capelli scuri, forti e lisci, le toccavano le guance; lei vi passò le dita, attirandolo a sé. Le loro bocche si unirono in un bacio appassionato, e le sensazioni dentro di lei aumentarono, intensificandosi ed espandendosi. Riuscì a trovare il ritmo di Devon, e poi le parve che il mistero dell’atto si stesse sciogliendo. Il suo corpo era teso, affaticato e i muscoli contratti, ma dentro di sé si sentiva priva di peso, aerea. E stava sollevandosi, volando, librandosi nell’aria, il piacere sempre più acuto e intenso, insostenibile, una promessa straziante che doveva essere soddisfatta in quel momento, subito... «Mi segui, amore?» Devon le chiese in un sussurro roco, tenendo il volto nascosto nei suoi capelli. «Sì, sì...» Rispose senza avere capito che cosa intendesse dire. L’uomo fece scivolare una mano tra di loro, per accarezzarla proprio sopra il punto in cui i loro corpi erano intimamente uniti. Lily sollevò la testa e lasciò che dalla sua bocca uscisse un lungo grido soffocato e liberatorio. Mal comprendendo il suo atteggiamento, egli prese a spingersi più profondamente in lei, con forza e intensità sempre maggiori, trattenendola in una stretta forte e possessiva. L’orgasmo di Devon fu silenzioso e lacerante, una liberazione selvaggia. Si perse completamente in lei, dimenticandosi chi fosse, sconvolto dall’intensità di quel piacere, poi, nel momento seguente, sentendosi debole e nuovo. Libero. Spaventato. Si allontanò da lei improvvisamente, girandosi su un fianco. Ma le prese una mano e la tenne stretta alle labbra, senza guardarla. Lily si passò l’altro braccio sulla fronte e fissò la luce delle candele che baluginava sul soffitto. Dopo un minuto, il suo respiro si chetò e il battito cardiaco riprese normalmente. Ma aveva i nervi ancora tesi, il corpo si sentiva ancora nudo, lacerato, vulnerabile. Che cos’era quell’attesa pulsante? Qualcosa le era sfuggito, era tutto quello che sapeva. Eppure, lei aveva apprezzato molto la vicinanza, l’intimità indefinibile che avevano condiviso. Ma aveva significato altrettanto per lui? Lei guardò il profilo di Devon e vide che teneva gli occhi chiusi. Impossibile... era impossibile che stesse dormendo! Aveva tutti i sensi vivi e in tensione, e una voglia disperata di parlare con lui, di ristabilire quel contatto che secondo lei stavano perdendo. Le teneva ancora una mano, ma Lily temeva che si fosse addormentato, lasciandola sola. «Dev?» sussurrò. Il solo pronunciare quel nome la eccitava. «È stato bello, vero?» Un lungo momento passò in silenzio... stava per ripetere la domanda, non volendo farla cadere nel vuoto, quando lui rispose, senza un sorriso e senza guardarla. «Sì.» E basta. Sentì dietro le palpebre chiuse il desiderio intenso e traditore di piangere. Rimase immobile per alcuni minuti, ascoltando il respiro tranquillo dell’uomo. Se non stava dormendo, era comunque chiaro che non aveva voglia di parlare. La sua


presenza nel letto stava diventando sempre più innaturale. Attese un poco ancora, pregando tra sé e sé che iniziasse a parlare, a muoversi, a fare qualcosa. «Bene», disse alla fine, mettendosi a sedere e volgendogli la schiena. «Adesso devo andare.» Devon aprì un solo occhio e rise, di gola, e con una mano le afferrò un polso. Le diede uno strattone e lei ricadde sul materasso con un urlo. Tenendola stretta nella curva del braccio, le passò pigramente una mano sul seno, avanti e indietro, creando una frizione morbida e abrasiva. Lily si spostò, inquieta. Poi lui, come aveva già fatto, si bagnò le dita, gliele passò su un capezzolo, e infine soffiò sulla gemma indurita. La sensazione, fredda e intensa, la fece rabbrividire e le tolse il fiato. Contento dell’esito, le tracciò con l’indice un cerchio attorno all’ombelico, poi lo infilò nel vortice delicato, solleticandolo, facendole inarcare la schiena. Volse il capo e lo guardò. Le loro labbra quasi si toccavano, ma lui non la baciò. La guardò mentre sbatteva le palpebre nel momento in cui lui, lentamente, faceva scendere la mano. Con una gamba la costrinse a divaricare un poco le sue e a tenerle aperte. Le appoggiò una mano sul pube, poi la penetrò con l’indice. Lei inarcò di nuovo la schiena e urlò, un suono forte ma incomprensibile. Devon continuava a far scivolare il dito dentro e fuori di lei, lentamente, molto lentamente, osservando il gioco di emozioni sul suo volto sudato, eccitato. Improvvisamente Lily strinse i denti e smise di respirare, al culmine di una inspirazione profonda. Devon tolse immediatamente la mano. L’incredulità, l’espressione di indignazione che si dipinsero sul suo volto lo fecero quasi ridere di nuovo. «Ah, Lily... sei così bella», le sussurrò sulle labbra, «e voglio essere dentro di te quando ti farò venire.» La voce di Lily era un fremito sottile, un poco rauco. «Quando cosa?» Distendendosi su di lei, la costrinse a divaricare le gambe e a passarle attorno alla sua vita. «Quando ti darò piacere», le spiegò, anche se con voce non più ferma. Entrò subito in lei delicatamente, abbracciandola, sentendo il battito selvaggio del suo cuore. E una nuova tenerezza, insolita e strana, lo invase a ondate. Bevve il gusto dolce della sua bocca, e pensò improvvisamente che, prima di quel momento, non aveva mai baciato una donna mentre faceva l’amore con lei. Lily sospirò contro le sue labbra, e il suo respiro era caldo e umido sulla pelle di Devon, gentile come una benedizione. «Dev», sussurrò, sorpresa. Si sentiva perfetta con quel peso virile sopra di sé. Lo attirò a sé e si baciarono con passione selvaggia e avida fino all’ultimo secondo, poi si tennero stretti l’uno all’altra, mentre il tempo si fermava e insieme raggiungevano il momento tumultuoso di un’identica esplosione. Lily pensò che stava perdendosi, che non avrebbe mai avuto fine, e quel minuscolo brandello di sé ancora intatto conobbe un solo secondo di panico, nient’altro. Ma la tempesta si placò, il tempo riprese la sua corsa, e Devon baciò le lacrime che le rigavano le guance con una tenerezza tale che il cuore di Lily si spalancò e lo amò. Fece per dirglielo, ma l’unica parola che riuscì a pronunciare fu: «Grazie!» Il suo volto era bello, e quanto lo amava! Si girarono assieme su un fianco, tenendosi stretti. La sorprese che potessero amarsi ancora, e poi ancora. Ogni volta, la sua sorpresa aumentava: era tutto troppo bello per essere vero. Pensava che i poveri esseri umani non potessero provare così tanto piacere, così spesso – doveva essere per forza una


sorta di felicità che prometteva soltanto il paradiso, non era possibile provarla sull’umile terra. Assieme al timore, a mano a mano che quella lunga notte passava, Lily sentiva crescere in sé la necessità di dirgli tutto. Ogni volta che iniziava a parlare, tuttavia, lui la costringeva al silenzio baciandola senza sosta, perché Devon non voleva parlare o pensare. Voleva solo tenerla stretta, poiché lei era una donna ed era da molto che non ne aveva una. Lei era carne e pelle, calore, tepore e umore, e lui non voleva pensare a come si sentiva dentro di sé; quella notte contavano le sole sensazioni esterne. Lei era una donna, ecco tutto. Verso il mattino, Lily si addormentò profondamente tra le sue braccia, e lo sognò. Si svegliò al rumore della pioggia che batteva a scrosci violenti contro le finestre mezze chiuse. La stanza era fredda e color grigio perla, e lei era nuda tranne che per un lembo di lenzuolo gualcito che le copriva le caviglie. Rabbrividì e si sedette sul letto. Il medesimo sguardo assonnato che vagava nella stanza e che le aveva detto che Devon non era più accanto a lei, scovò l’uomo al lato opposto della stanza, vicino alla finestra che guardava il mare. E completamente vestito, con pantaloni marroni, giacca e panciotto, cravatta larga bianca, intento a osservarla. Sorrise. «Dev», mormorò, chiedendosi da quanto tempo fosse là, immobile. «È quasi giorno.» «Sì», rispose lei, stordita poiché la sua voce le era giunta strana. Voleva che lui si avvicinasse a lei, la toccasse. «Ormai è ora, Lily.» «Ora?» «Che tu torni nella tua camera.» «Oh.» Lo fissò, incapace di pensare. Ma improvvisamente si vergognò della sua nudità. Si avvolse velocemente nel lenzuolo e si coprì mentre un profondo rossore le imporporava le guance. «Vuoi che io...» Si fermò e deglutì a fatica. «Mi stai mandando via?» Inarcò le sopracciglia e sorrise leggermente. «Che cosa ti aspettavi?» «Nulla, nulla.» In un solo istante aveva conosciuto il peggio, aveva compreso tutto. Scese velocemente dal letto, tirandosi dietro il lenzuolo. Lei vide i suoi abiti ammucchiati accanto alla porta, e parlò velocemente. «Se esci un attimo mi vesto.» «Vergognosa, Lily? E che differenza fa, ora?» «Pochissima. Ma te ne sarei ugualmente grata.» Scrollò casualmente le spalle e uscì. Non appena la porta si chiuse, crollò sul letto. Si sentiva soffocare dalle lacrime, che le colmavano la gola, il petto, tutta se stessa, tranne gli occhi, quasi completamente asciutti. Stupida, Dio mio quanto era stata stupida! L’enormità della sua stupidaggine era insopportabile e tremenda. Ma non doveva pensarci in quel momento, altrimenti sarebbe annegata nel dolore. Più tardi, quando fosse stata sola, allora avrebbe avuto molto tempo per pensare. A fatica, barcollando, si alzò e si infilò gli indumenti con movimenti sconnessi, sgraziati, sentendosi le dita prive di sangue e goffe. Per ultima si infilò la cuffia, nascondendovi sotto tutti i capelli, cercando di non ricordare quello che le aveva sussurrato quando gliel’aveva tolta. Per un istante si vide nello specchio, pallidissima e tragica nel suo dolore senza lacrime. Si volse di scatto, ma quell’immagine ben delineata nella sua mente alla fine le provocò un’ondata di rabbia. Aprì la porta tenendo le spalle dritte, la testa alta.


Lui era appoggiato al muro di fronte, con le mani in tasca. Aveva un’aria annoiata, e lei si disse che non si sarebbe neanche dato la briga di fingere, con parole dolci o baci o promesse che non avrebbe mai mantenuto. Le ceneri nel suo cuore ripresero vita, e in quel momento lo odiò. «Prima non abbiamo parlato di una somma», disse mettendo una mano nella tasca della giacca. «Questo ti basta?» Non era possibile che le avesse detto una frase simile; non credette alle proprie orecchie o ai propri occhi, quando vide il mucchietto di banconote piegate tra le dita. Sentiva che il suo corpo sottile e fragile, era pronto a spezzarsi. «Devon! Tu...» Poi un pensiero le attraversò la mente. «Tu pensi che ti abbia rubato le quattordici sterline.» Era l’unica spiegazione che poteva darsi. «Ma allora... come hai potuto toccarmi?’ «Oh è stato molto facile.» Il sorriso di Devon non raggiunse tuttavia i freddi occhi turchesi. Lily si ritrasse. Due macchie color porpora le segnavano le guance come se avesse ricevuto due schiaffi. «Bastardo», riuscì a dire in un sibilo. «Prendi il denaro, amore. È tutto quanto avrai da me.» «Non è vero, c’è anche la vergogna. E quella è tanta», sussurrò retrocedendo. Poi si volse per non vedere più quella mano tesa e corse via.

Capitolo tredicesimo «Che caldo!» Lowdy si pose le mani sui fianchi e scostò il ciuffetto di capelli incollato alla fronte sudata. «Perché mai quella vecchia megera non ci fa pulire i tappeti in primavera, invece che alla metà di agosto? Per cattiveria, te lo dico io», soggiunse prima di lasciare a Lily il tempo di rispondere. «Cattiveria, pura e semplice. Lo sai meglio di me, e lo sa anche tutto il mondo. È più cattiva di... non so cosa ci sia di più cattivo sulla terra, preferirei coccolare un serpente piuttosto che darle le spalle.» Lily fece un mugugno d’assenso, anche se la stava ascoltando solo distrattamente. Il caldo era veramente opprimente, oramai quell’ora di ombra mattutina proiettata dal camino occidentale della grande casa padronale era un ricordo, e il sole splendeva implacabile senza più ostacoli, e senza essere mitigato da una benché minima brezza. Si accovacciò sui talloni e terse il sudore dal volto con il dorso di una mano, mentre una vertigine le fece impallidire le guance. Sentiva le ginocchia e le braccia dolere per quell’atto meccanico e faticoso di passare foglie di tè secco su un grande tappeto a disegni floreali disteso sul prato. Lì accanto, Lowdy aveva per un attimo interrotto il suo compito di passare un battipanni di metallo contro un altro tappeto appeso a una corda. «E puoi credere quello che vuoi, padronissima, mia cara signorina Facciatriste e Piagnona, ma in tutta la casa non ci troverai quasi nessuno pronto a credere che tu abbia davvero rubato quel suo maledetto denaro. Chiedilo a loro, se non credi a me.» «No, non chiederò proprio nulla», rispose Lily con voce stanca. «E ti sbagli,


Lowdy. Loro non mi conoscono, e non hanno alcun motivo per pensare che non avrei mai preso quel denaro.» «Chiediglielo, allora. Stringer non ci crede, e nemmeno la cuoca, che ha detto che...» «Lasciamo perdere. In ogni caso, non mi importa.» Lowdy scrollò la testa, borbottando disgustata. L’odore della lana calda e delle foglie di tè era soffocante, e dava a Lily un senso di nausea. Rimase seduta, immobile, come istupidita, osservando una goccia di sudore sulla mano posata in grembo. Lowdy continuava a chiacchierare, di Mrs Howe e della promozione di Dorcas da sguattera a cameriera di cucina, di Galen MacLeaf e della festa metodista a cui l’aveva invitata. Le parole di Lowdy erano sottolineate dai colpi violenti e irregolari del battipanni contro il tappeto. Lily chiuse gli occhi, poi li riaprì di colpo un secondo dopo per fissare Lowdy, senza osare nemmeno respirare, le membra raggelate dal timore, dalla speranza e dalla sorpresa. «...e gli ho detto: ‘Forse posso e forse non posso, Mr MacLeaf; devo andare a guardare nella mia agenda, se è la mia mezza giornata libera’,» Lowdy ridacchiò allegramente e diede al tappeto un colpo più violento che fece scaturire una nuvola di polvere. «Guardare nella mia agenda, se è la mia mezza giornata libera», ripeté sempre ridendo, gustando in prima persona la sua arguzia. Poi, le venne improvvisa un’idea: «Forse vorresti venire con noi? Ti farebbe bene prendere una boccata d’aria, Lily, davvero. È domenica prossima, a Truro, alla Coinage Hall.» La voce di Lily parve un soffio rauco. «Come hai detto che si chiamava quel predicatore, Lowdy?» «Reverendo Soames, di Exeter. Fa molto successo a Trewyth, ha detto Galen. Sei mai stata a una festa metodista? No? Ma allora devi venire. Non c’è proprio niente di simile, sai?» «Sei proprio sicura che si trattasse di Soames?» «Sì, cara, Roger Soames. La mia amica Sara, che conosco dai tempi dell’orfanotrofio, e che ora vive a Launceton, l’ha visto a Redruth l’anno scorso e ha detto che riesce davvero a farti venire i brividi, quando lo senti. Anche a me piacciono molto le prediche, perché mi mettono in uno strano stato d’animo, come se Dio e il diavolo stessero lottando sopra di me e non riesco a decidere quale lasciar entrare. Allora, Lily, vuoi venire con noi o no?» «Che cosa? No, Lowdy, davvero, non posso.» «Peccato.» La ragazza più giovane borbottò per un minuto, poi lasciò cadere il battipanni. «Per Giove, ho una sete incredibile. Vado a prendermi un po’ d’acqua, e non mi importa nulla di quello che pensa la Howe. Te ne porto una tazza.» E se ne andò, lasciando oscillare i fianchi rotondi. È vivo! Lily esultò, quasi senza riuscire più a connettere. Non l’ho ucciso! Sentì che la sua anima si liberava di un grande peso; per la prima volta, dopo settimane, si sentì in pace con se stessa, almeno da quel punto di vista. Il reverendo Soames era vivo e vegeto, se aveva in programma di predicare a Truro. Ma che cosa pensava di lei? L’aveva per caso denunciata per aggressione, oppure sotto la falsa accusa di avergli rubato del denaro? Dio, e se non l’aveva fatto, poteva allora uscire allo scoperto?


Doveva scoprirlo, in un modo o nell’altro. Non andando a Truro, ovviamente: sarebbe stato troppo pericoloso. Ma sicuramente poteva arrischiarsi a scrivergli. Avrebbe potuto mandargli una lettera a Exeter e chiedergli di risponderle indirizzando la missiva a Mrs Troublefield, la sua vicina di Lyme. Poi, avrebbe scritto anche a quella gentile signora dicendole di spedirle la posta a Darkstone, raccomandandole tuttavia di non rivelare ad alcuno il suo nuovo indirizzo. Avrebbe tanto voluto lasciare Mrs Troublefield all’oscuro di tutti i suoi problemi personali, ma ora le sembrava di non avere altra scelta. E, in tutti i casi, la possibilità di venire arrestata non la terrorizzava più come prima. Darkstone Manor, rifletté tra sé e sé, era diventata quasi una prigione, come il carcere di Bodmin. «Dov’è Lowdy?» Lily balzò in piedi, sorpresa dall’arrivo di Mrs Howe, col solito passo furtivo, insolitamente silenzioso. «Lowdy? Lei deve... è dovuta andare in bagno.» La governante aveva imposto loro di non fermarsi mai, nemmeno per andare a bere, fino all’ora di cena. Oh, mio Dio. Il cuore di Lily prese a battere forte, poi fissò ancora lo sguardo sul volto rosso e arrabbiato della governante, pregando tra sé e sé che il suo volto non tradisse quello che aveva visto al di sopra delle spalle della donna: Lowdy che veniva lentamente e con passo pesante verso di loro, una brocca colma di acqua in una mano e una mela rubata nell’altra. Invano. Mrs Howe si volse, quasi come se Lily avesse fatto un cenno dietro di lei e avesse urlato: «Eccola!» Lowdy si fermò di colpo, immobile. Un’espressione quasi comica di terrore si diffuse sul volto aperto, sempre allegro, della giovane. Poi Lily non riuscì più a vedere l’amica, nascosta dalla schiena massiccia della governante, che si era spostata con incredibile velocità. Udì la voce di Mrs Howe formulare con rabbia una domanda, quella bassa di Lowdy che dava una risposta impudente, poi il suono che le parve fragoroso della mano di Mrs Howe che colpiva la guancia arrossata di Lowdy. Lily si alzò di colpo e corse verso di loro, urlando: «Basta!» con voce spaventata. Mrs Howe colpì di nuovo, e questa volta Lowdy urlò. La tazza si capovolse, e la mela rotolò via. Lily le raggiunse nel momento in cui la governante si accingeva di nuovo a colpire. «No, non fatelo!» urlò, e Mrs Howe si volse, tenendo un pugno alzato. «Va tutto bene!» urlò Lowdy, portandosi le mani alle guance, mentre il sangue le colava dal naso. «Va tutto bene, va tutto bene... Lily non mi ha fatto proprio nulla!» Mrs Howe guardò alternativamente l’una e l’altra, respirando affannosamente, gli occhi neri che parevano sputare veleno. Lily pensò che le ciocche bianche che le partivano dalle tempie le davano un’aria da pazza, da isterica. «Su, Lowdy, vattene nella tua stanza! Per la tua disobbedienza salterai la cena, e domani passerai tutto il giorno a bagnare gli orti, con quella tazza. E ora, vattene immediatamente, a meno che non voglia una bella battuta. Vattene! Subito!» Lily si irrigidì, attendendo terrorizzata una reazione da parte di Lowdy, il cui volto sanguinante e striato di lacrime aveva un’espressione di pura ribellione. Ma dopo un secondo, Lowdy mormorò: «Sì, signora», tenendo gli occhi bassi per nascondere le lacrime che stavano per sgorgare, e si incamminò verso casa con passo veloce, privo di grazia e diseguale. «Beh?» Mrs Howe si rivolse a Lily. «Torna subito al tuo lavoro o avrai anche tu lo stesso trattamento, se non peggiore. Che cosa stai guardando?»


Lily non cercò minimamente di nascondere il proprio disgusto. Dietro lo sguardo freddo e vacuo di Mrs Howe non poteva vedere null’altro che malevolenza, ma per un momento la rabbia di Lily fu più forte della paura. «Lowdy non se lo meritava, e lo sapete benissimo», la accusò, ignorando il tremito nella sua voce. «Voi l’avete colpita soltanto per pura cattiveria, perché vi piace spaventare la gente più debole di voi. Siete una vera tiranna, cattiva e ipocrita.» Si piantò bene sui piedi, pronta ad accogliere qualsiasi cosa fosse successa, senza però pentirsi di quanto aveva detto. Guardando la grossa mano destra di Mrs Howe stretta a pugno, pensò di dire un’altra cosa. «Non credo che Mr Darkwell sappia del modo in cui trattate i domestici, e io... intendo dirgli quello che avete fatto a Lowdy!» Con sua grande sorpresa, la bocca della donna, simile a una fessura maligna, si aprì in un sorriso repellente. «E così», disse con un sibilo, «racconteresti al padrone quello che ho fatto, vero? Bene, benissimo...» fece un passo indietro, silenziosa. «Eccellente», mormorò, e il tono della voce fece rabbrividire Lily, facendole rizzare i sottili capelli della nuca. «Fallo pure. Fallo subito. E fammi poi sapere la risposta del padrone. E ricordati, Lily: ‘Dio non viene mai ingannato; perché si raccoglie sempre e solo quello che si è seminato’.» Il suo sorriso si ampliò, rivelando due bianchi canini acuminati come zanne. Un momento veramente terribile parve prolungarsi all’infinito. Poi si volse e se ne andò,una grossa massa nera che si muoveva velocemente, i piedi che scivolavano sull’erba silenziosi come aspidi. Era una giornata di sole cocente, eppure Lily rabbrividì. Un brivido di paura, o di premonizione, le passò sulle spalle, lasciandola esausta e coperta di un lieve strato di sudore gelido. Si scosse, ma il senso terrificante di impotenza, di essere imprigionata suo malgrado, non l’abbandonava. Sollevò lo sguardo verso le massicce mura di pietra di Darkstone, il baluardo piatto e implacabile di torre e camini e balaustrate nere contro il cielo limpido, privo di nubi. Per la prima volta dalla notte in cui era giunta a Darkstone, la casa le parve sinistra, maligna, non era una semplice costruzione di pietra e malta inanimate. Ebbe la consapevolezza che all’interno delle spesse mura di granito ci fosse qualcosa che le portava solo cattiva fortuna. Fantasie sciocche, si disse, volgendo il volto verso il cielo terso, sopra il mare luccicante e accecante. Un’immaginazione infantile, si disse, e lei non poteva affatto permettersi di lasciarsi andare a pensieri sciocchi. In un momento particolare aveva osato lanciare una sfida alla donna, e ora se ne pentiva, profondamente e intensamente, ma oramai era troppo tardi. Lowdy meritava da parte sua molto di più di una semplice e codarda accondiscendenza allo status quo. Parlare di quel fatto con Devon sarebbe stata un’esperienza terrificante, tormentosa, un dolore ben maggiore di qualsiasi punizione che Mrs Howe avrebbe escogitato. Ma non aveva altra scelta; aveva fatto una promessa e ora l’avrebbe mantenuta. Sapeva dove trovarlo: nella sua biblioteca. Sapeva anche che lui era solo, intento a lavorare alla scrivania. Il modo preciso in cui conosceva i suoi spostamenti in quasi tutti i momenti della giornata la sorprendeva, spaventandola, ma nonostante tutti i suoi tentativi non riusciva a liberarsi di questa consapevolezza non voluta e distruttiva. Per lei, Devon Darkwell non era proprio nulla-e lei era men che nulla per lui! - e allora perché non riusciva a dimenticarlo? Ci sarebbe riuscita non appena se


ne fosse andata. Roger Soames era vivo, e quella notte gli avrebbe scritto. Sicuramente, si disse, il suo periodo di prigionia stava per terminare, sicuramente! Con la bocca arsa, le spalle ben erette, Lily si passò le mani umide sul grembiule e si diresse velocemente, anche se riluttante, verso la casa. Devon si passò le dita tra i capelli, sciogliendo nell’atto la sua coda ordinata. Si tolse il sottile nastro di velluto e lo gettò sulla scrivania, spazientito nei confronti di tutto e tutti. Era il caldo che non gli permetteva di concentrarsi sul suo libro contabile, si disse, fissando con rabbia la colonna di cifre che stava cercando di sommare da tempo. L’intera operazione era comunque inutile, visto che era Cobb a gestire i conti degli affitti, e poteva contare sulle dita di una sola mano le volte che l’uomo aveva sbagliato. Eppure, era meglio rimanersene seduti tranquillamente da soli, ricopiando i numeri su un foglio del libro mastro, che uscire dalla biblioteca e ricominciare a insultare i dipendenti. Per un uomo che si era sempre vantato del proprio autocontrollo, questa nuova incapacità di trattenersi era veramente sconcertante. E perché la sua rabbia aumentasse, gli bastava ricordare due fatti: che si era sentito così solamente in un altro periodo della sua vita, e che aveva giurato cinque anni prima che non si sarebbe mai più ritrovato in una situazione simile. Non aveva sentito alcun rumore sopra l’incessante mormorio del mare, eppure qualcosa gli aveva fatto sollevare il capo di colpo, allontanando le ciocche di capelli che gli erano ricadute sulla fronte. Lily era soltanto una sagoma scura contro la luminosità del giorno, ma la riconobbe istantaneamente, e sentì nascere in lui una strana, piacevole sensazione. Era rimasta in piedi tra le porte-finestre aperte, in silenzio. Costringendo la propria mano a rilassarsi per non spezzare la penna a metà, pronunciò il suo nome a voce bassa, in tono interrogativo. E Lily, alta e sottile come un giunco, incredibilmente graziosa, fece un passo avanti, esitante, verso di lui. Immersa nell’improvvisa oscurità della stanza, riusciva a distinguerlo a malapena. Era seduto alla scrivania della biblioteca, esattamente come si era immaginata. Nonostante il caldo, indossava ancora la giacca nera, che contrastava con il bianco dello sparato increspato. A mano a mano che gli occhi si abituavano all’oscurità, vide che l’espressione di Devon era paziente e disinteressata, un po’ severa. Meglio, meglio così, si disse, perché se avesse notato nei suoi occhi anche la più vaga espressione che le rivelasse che lui ricordava quella notte, se vi avesse letto un riferimento a quel breve istante in cui – e parevano passati mille anni – erano stati amanti, avevano sospirato e riso assieme, si erano toccati e baciati, allora non avrebbe avuto il coraggio di dirgli nulla, e sarebbe corsa via senza nemmeno parlargli. Eppure, perché quella totale indifferenza le faceva tanto male al cuore? Si schiarì la gola e si costrinse a fare un altro passo avanti verso di lui. «Vi chiedo perdono per essere qui a disturbarvi, ma devo dirvi qualcosa di molto importante, qualcosa che riguarda Mrs Howe.» Non aveva la benché minima idea di quello che lei voleva dirgli, ma certamente non si era aspettato una cosa simile. Si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia, consapevole dell’improvvisa sensazione di delusione che l’aveva colpito, e prese ad accarezzare la piuma della penna con una indifferenza solo apparente. «Mrs Howe? E che diavolo mi dovresti dire della mia governante?» A Lily non era sfuggito il tono accondiscendente, e prese un po’ di coraggio. «Non


potete immaginare come si comporta. Non potete proprio, altrimenti l’avreste già licenziata.» Deglutì a fatica; accidenti, quello non era proprio il modo in cui avrebbe voluto iniziare la frase! «Ah, davvero? E che cosa ha fatto? Dal tuo aspetto, Lily, direi che ti ha costretta a scendere nel pozzo a riprendere il secchio.» Si passò la penna sulle labbra, atteggiate a un lieve sorriso, lasciando che lo sguardo corresse sul povero vestito sudato e malconcio, sul grembiule spiegazzato. Le sue guance, già rosee, si imporporarono ancor più per l’imbarazzo, e lei si allontanò dal volto una ciocca di capelli rossi con imbarazzo e rabbia, usando il dorso di una mano. «Non ha fatto niente a me, si tratta di Lowdy. L’ha schiaffeggiata.» Devon aggrottò la fronte. «Perché? Che cosa ha fatto?» «Nulla!» «Nulla? Ma dai, Lily, proprio nulla?» «Ha smesso un attimo di lavorare sotto il sole cocente per andare a bere un po’ d’acqua.» Avrebbe tanto voluto fermarsi a quel punto della confessione, ma non era proprio in grado di mentire. «E ha ru... ha preso una mela dalla dispensa.» «Ha rubato?» «Ma una mela!» «Capisco. E che cosa ti aspetti che faccia?» Allargò le braccia, fissandolo senza speranza. «Qualcosa!» «Che cosa?» Si spostò impaziente sulla sedia, stringendosi le braccia al petto. L’idea di doversi spiegare lo irritò, e riprese con tono nervoso: «Mrs Howe lavora qui da quattro anni. È una donna molto esperta, e le lascio piena libertà di gestione della casa, senza mai interferire. Ci lasciamo vicendevolmente in pace...» «Non riesco a crederci.» Lily lo interruppe, arrabbiata e incredula, dimenticando il suo imbarazzo. «Lei ha colpito Lowdy, lo giuro. Le ha fatto male. E Lowdy non è certo la prima. Accettate una cosa simile?» «Dipende», rispose Devon freddamente, mentre il colore dei suoi occhi si era tramutato in un blu glaciale. «Da che? Da che cosa potrebbe dipendere?» «Se mi stai dicendo la verità...» Sussultò, sentendosi oltraggiata. «E perché dovrei mentire? Ascoltatemi, è molto importante...» «Perché dovresti mentire? Non lo so. Ma non credo che la mia governante picchierebbe una persona solo per aver rubato una mela.» «L’ha fatto, è vero. E non farete nulla per una cosa simile!» «Farò quello che è giusto, non tollererò alcun abuso in casa mia.» Impallidì di rabbia sentendola scoppiare a ridere, emettendo un suono duro, incredulo, che alla fine rivelò anche un’ombra di derisione. «Ma se stai mentendo, entrambi sappiamo che non sarebbe certo la prima volta.» Lily chiuse la bocca, spaventata dalla precisa accuratezza di quel colpo. Devon fece un sorriso sgradevole. «Non mi rispondi, eh?» Poi ci fu un momento di assoluto silenzio. «Parlerò con Mrs Howe», concesse alla fine. «No!» urlò Lily, «dovete parlare con Lowdy, per l’amor di Dio! Lei vi dirà la ver...» «Basta così!» Ancora una volta, si rallegrò notando l’ira che stava sconvolgendo Lily. «Ti ho già detto che non sono cose che mi riguardano. Non tratto mai...»


Lei non pianse, non distolse lo sguardo, ma dinanzi ai suoi occhi si formò un velo strano, opaco, che la accecò. Quelle parole rimasero a lungo nell’aria, non pronunciate, fino a quando lei, non potendone più, finì la frase al suo posto: «... con i domestici». Devon si alzò. «Lily...», cominciò, non sapendo come andare avanti. Ma non importava più, ormai: lei si era già voltata ed era corsa via, attraverso le porte aperte sul terrazzo, scomparendo nella luminosità accecante prima che lui potesse pronunciare un’altra parola. Uscì lentamente da dietro la scrivania, urtando un ginocchio contro uno spigolo appuntito. Imprecando, diede un forte calcio con lo stivale contro una delle pesanti gambe di quercia. «Ecco, è così che si fa. Quel figlio di puttana non ti farà più male!» Devon si volse, e il volto aggrottato si distese in un sorriso contento. «Clay, fottuto bastardo. Grazie al cielo sei tornato.» Si incontrarono al centro della stanza. Clay ignorò la mano che gli veniva tesa e gettò le braccia al collo del fratello, stringendolo in un forte abbraccio, e battendogli sulla schiena amichevolmente. Devon si lamentò per il dolore, tanto che Clay si staccò subito da lui. «Mio Dio, Dev, ma che cosa c’è? Sei ferito?» «No, no, sto bene.» «No, c’è qualcosa che non va.» «Un graffio. Nient’altro.» E stava facendo esattamente quello che si era ripromesso di non fare: minimizzare le conseguenze di una delle tante pazzie idiote di Clay per non farlo sentire in colpa. «Che cos’è, la spalla?» «Ormai è guarita; si fa sentire solo quando qualche stupido mi si butta addosso.» Beh, comunque poteva spiegargli quello che era successo. «Una delle guardie a cavallo di Falmouth si è avvicinata un po’ troppo con la sua baionetta. Ma io l’ho mandato al Creatore», non poté fare a meno di aggiungere, al diavolo una volta tanto la modestia. «Ho molto da dirti, figlio di puttana che non sei altro...» Gli occhi azzurri di Clay brillarono, arguti. «Anch’io ho molto da dirti.» Stava evidentemente scoppiando dalla voglia di raccontare qualche novità segreta, ma torse la bocca: «Il problema è che non posso raccontarti proprio nulla. Non vuoi mai sapere che cosa ho fatto.» «Clay... dannazione. Hai detto che avresti smesso, mi avevi fatto una promessa...» «Ma ho smesso. Se togli Wiley Falk, tutto il resto della banda non c’è più, se n’è andato. E poi, la mia nuova attività non ha nulla a che fare con il contrabbando. Non esattamente. Si tratta di qualcosa di molto importante. Non ho alcuna intenzione di dire di cosa si tratta, ma...» «Grazie...» «...ma ti posso assicurare che è una cosa sicura, è ormai finita, è la mia ultima avventura, e se non fossi già ricco di mio, lo sarei ora!» Rise, poi, in parte ripensando a quell’eccitante novità, in parte vedendo l’espressione costernata del fratello. Devon imprecò a lungo e, ricorrendo al repertorio più volgare che conosceva: «Almeno questo potrai anche dirmelo: hai venduto quel maledetto sloop?» «Non ancora.» Tese verso il fratello una mano, per placarlo. «Ma lo farò. Diavolo,


Dev, sono tornato solo da due giorni.» «Due, eh? Non ti chiedo nemmeno perché ti sei preso la briga di venire qui solo ora.» «Diciamo solo che avevo da fare.» «Qualcosa per cui volevi quanti meno testimoni possibile?» «Forse.» Rise di nuovo, poi si ricompose lentamente. «Ascoltami, Dev, mi spiace moltissimo che tu sia stato colpito, davvero. Non avrei mai chiesto il tuo aiuto se avessi immaginato come sarebbe andata a finire. Lo giuro.» «Lo so, lasciamo perdere.» «No, non posso. Vorrei che fosse capitato a me, o almeno che fossi stato con te quando è successo.» «Meglio che non ci fossi; avrebbero anche potuto riconoscerti. In ogni caso, ormai è tutto finito. Avrebbero anche potuto infilzarmi come un puntaspilli e non me ne sarebbe importato affatto, se veramente fosse servito a farti smettere una volta per tutte di fare il pirata, maledizione.» «Ho smesso, giuro che ho smesso. Diventerò così tranquillo che presto sarai stufo di vedermi qua attorno.» «Ne dubito», si sorrisero. «E così», disse cercando di assumere un tono casuale, «pensi di fermarti per qualche giorno?» «Forse sì. Forse potrei persino iniziare a lavorare in quella tua maledetta miniera di rame.» «Non in, mio Dio, non ho mai pensato...» «Per la miniera, allora», ridacchiò Clay, «per gestirla, o qualsiasi altra cosa tu voglia.» Devon non riusciva a smettere di scuotere il capo. «Devo avere le allucinazioni.» «Ho detto forse. Vedremo come andranno le cose. Brandy?» Devon annuì, e Clay versò due bicchieri ben colmi da una caraffa posta sul tavolino. «Ma non lavorerò per Francis, Dev. Questa è proprio l’unica condizione che pongo, ma è tassativa.» Devon scrutò il volto del fratello, cercando di leggervi il motivo di quella duratura antipatia nei confronti del suo agente minerario. «Non ho mai capito perché ti sta tanto antipatico», disse lentamente. «Si tratta di qualcosa che dovrei sapere? Qualcosa che riguarda Francis e da cui dovrei stare in guardia?» «Se sapessi la risposta, te la darei, davvero. Per quanto mi riguarda, non mi fido di lui. Ma tu sei andato a scuola con lui, lo conosci da molto più tempo di me, e hai fiducia in lui. Poiché non posso provare i miei sospetti, non penso proprio che sia giusto esporli.» «Bene, sei una persona corretta. Comunque...» «Il mio consiglio è, seguilo con attenzione. Tienilo d’occhio. E se ho torto, meglio così.» Udirono dei passi lungo il corridoio, e un secondo dopo sulla soglia comparve Stringer, ad annunciare che la cena era servita. Clay passò un braccio attorno alle spalle di Dev – questa volta con delicatezza. «Mi sei mancato», gli disse affettuosamente. Devon gli batté sulla spalla, annuendo vigorosamente: quello era il suo modo di contraccambiare il sentimento del fratello. «E sai che cos’altro mi è mancato? Le donne. Non sono stato con una ragazza dal


giorno prima di partire. Non questa sera – sono troppo stanco – ma domani sera, andiamo all’Hornet’s Nest. Su, Dev, davvero, ti farebbe bene, non esci da...» «Sì, va bene, ti ho detto di sì. Andiamo dove vuoi...» Clay lo fissò, sorpreso. «Oh Dio... grandioso! Possiamo cenare da Rosreagan e poi giocare a carte. E quindi passare tutta la notte al Nest, se vogliamo.» Sorrise, pregustando la serata. «Sarà come tornare ai vecchi tempi!» Il sorriso di Devon era molto meno allegro, ma anch’egli vedeva con piacere la possibilità di uscire, una sera. «Sai, Clay, una volta tanto hai avuto una buona idea», gli disse approvando tutto il programma, e accompagnando Clay lungo il corridoio verso la sala da pranzo. «Con tutti i problemi che ho, ho proprio bisogno di una puttana.»

Capitolo quattordicesimo «...vi prego di credermi quando vi dico quanto profondamente abbia sofferto per quanto avvenuto durante quel nostro terribile, ultimo incontro. Ho pregato ogni giorno per la vostra completa guarigione, e credo che la mano di Dio sia sicuramente dietro le notizie miracolose che mi sono appena giunte all’orecchio, riguardanti il vostro felice stato di salute. Ora il mio massimo desiderio è che voi abbiate trovato in voi stesso la forza di perdonarmi per quanto ho commesso – senza volerlo e senza alcuna malizia, lo giuro – e che, con l’aiuto di Dio, noi si possa trovare un modo per risolvere le nostre divergenze. Oso persino sperare che, se lascerete a me e a Lewis un po’ di tempo per conoscerci meglio, la mia volontà potrà persino avvicinarsi a quella di Dio, e l’unione che un tempo voi stesso desideravate tra noi potrebbe un giorno avverarsi...» Tenendo il capo chino, Lily svoltò sulla strada principale e si incamminò attraverso i cancelli del percorso serpeggiante, ricoperto di sabbia, che portava a Darkstone. Bugiarda, si accusò, ricordando ancora una volta le parole che aveva scritto al cugino. Calcolatrice, ipocrita incallita. Sollevò con la punta di un piede una zolla di terra, stringendo a pugno le mani nelle tasche del grembiule. No, non era del tutto una menzogna; aveva davvero pregato per lui ogni giorno – almeno quella parte della storia era vera. Beh, oramai poco importava: la lettera era stata spedita, e lei avrebbe dovuto imparare a convivere con la propria perfidia. Le situazioni disperate costringono la gente a compiere atti disperati, si consolò. Sentendo quell’autodifesa, mentalmente scrollò le spalle con aria di sfida e diede un altro calcio a una zolla di terra. Non era cambiato proprio nulla, e lei l’avrebbe fatto di nuovo, senza alcuna esitazione avrebbe scritto a Roger Soames un’altra lettera colma di mezze verità e bugie. Non vi era alcun motivo di inanellare un atteggiamento ipocrita dietro l’altro, fingendo di dispiacersi. Quello che aveva fatto era solamente prendersi del tempo, e non la preoccupava di certo che lo stesse per così dire acquistando con valuta rubata. L’importante era uscire dalla Cornovaglia. Se per un qualche miracolo suo cugino era ancora disposto a farle sposare il figlio, avrebbe tratto vantaggio da quella sua inspiegabile ossessione, fingendo di prenderla in considerazione. Tra poco più di nove mesi, sarebbe entrata in


possesso dell’eredità. Sebbene non fosse poi molto, le avrebbe almeno permesso di avere la cosa più preziosa: l’indipendenza. Nel frattempo, tutto quello su cui doveva scommettere era la sua capacità di attendere. Quasi sicuramente non avrebbe potuto mettere alla prova la pazienza di Soames, e la sua credulità, per tutti i nove mesi. Ma, per il momento, aveva bisogno di trovare un rifugio, e se l’averlo implicava l’inganno e l’accettazione del suo aiuto e della sua ospitalità sotto pretese infondate, che così fosse. Aveva quasi esaurito tutte le possibilità, e non era come se stesse rubando a lui, si disse. Se l’avesse accettata in casa propria e le avesse dato protezione, l’avrebbe ripagato, prima o poi, quando avesse avuto il denaro. Basta, ormai quello che era fatto era fatto. L’esito più probabile sarebbe stato che Soames avrebbe ignorato la lettera, per cui poteva anche dimenticarsi di averla spedita, andare avanti come se nulla fosse accaduto; dandolo per scontato, non ne sarebbe rimasta delusa. Anche se avesse risposto affermativamente, con ogni probabilità non avrebbe avuto sue notizie in breve tempo. Se stava viaggiando nella parte occidentale dell’Inghilterra, predicando il Vangelo al suo 'gregge', probabilmente non avrebbe ricevuto quella lettera per settimane. Tutto quello che poteva fare, nel frattempo, era attendere e sforzarsi di non sperare. Era tardi; quella commissione aveva richiesto più tempò di quanto pensasse. Aveva incontrato Francis Morgan in paese, e l’aveva fermata per scambiare due chiacchiere dinanzi alla farmacia per almeno dieci minuti. Dopo, aveva fatto con lei parte della strada per Darkstone, costringendola, col suo passo pigro, a un ulteriore ritardo. All’inizio non riusciva a capacitarsi del perché le avesse parlato. Non l’aveva mai notata, prima, e quel giorno la conversazione si era limitata ad argomenti di scarsa importanza. Morgan doveva avere circa trent’anni, era alto, portava i capelli biondi nascosti sotto una parrucca e si vestiva in modo elegante. Nonostante il suo indiscutibile bell’aspetto, Lily non era mai riuscita a prenderlo seriamente in considerazione, forse perché aveva un modo di vestirsi elegante e vistoso – stridente con l’ambiente circostante. Pareva più un dandy londinese che non il gestore di una miniera di rame in Cornovaglia. E anche se la conversazione era stata alquanto piacevole, Lily si era sentita sollevata quando si era delicatamente toccato la falda del cappello, voltandosi. Ripensando a quell’incontro, Lily aveva capito che il senso di disagio da lei provato era dovuto allo sguardo strano che aveva colto negli occhi dell’uomo, un’espressione di curiosità e di speculazione, la cui causa era tremendamente ovvia. Ormai lei era conosciuta da lui – anzi, senza alcun dubbio da tutti – come una donna di facili costumi e disponibile. Gli uccelli erano silenziosi, e da quel punto non si sentiva il rumore del mare. Era un’ora colma di silenzio, ma quel profondo silenzio aveva in sé qualcosa di sinistro, piuttosto che di pacifico. Un refolo di brezza calda giunse fino a lei, che rabbrividì e accelerò il passo, chiedendosi che ora fosse. Aveva chiesto a Lowdy di dire a Mrs Howe che non si sentiva bene e che non voleva mangiare, calcolando che sarebbe tornata dopo avere imbucato le lettere a Trewyth prima di iniziare il lavoro pomeridiano. Ora era sicuramente in ritardo, e le conseguenze potevano essere di qualsiasi genere. Passando attorno alla casa per entrare dalla porta di servizio, non incontrò nessuno, e la considerò una sorta di benedizione. Eppure, un senso di abbandono la fece sentire


a disagio. Quel pomeriggio doveva lavare tutte le mezze finestre del seminterrato, sia all’interno sia all’esterno. Riempì un secchio dal pozzo e lo portò giù fino al seminterrato, fermandosi solo per prendere uno straccio dalla credenza in cucina, chiedendosi dove fossero la cuoca, Enid o Rose. La casa era insolitamente silenziosa. Sicuramente il pranzo doveva essere già finito, e allora dov’erano tutti? Con agitazione sempre crescente corse verso la stanza dei domestici, riportando l’impressione che il rumore dei suoi passi fosse incredibilmente forte sul pavimento non ricoperto da tappeti. Giunta sulla soglia si fermò di colpo, tanto che l’acqua fuoriuscì dal secchio e cadde con un tonfo sul pavimento. Quattordici volti si girarono alla sua comparsa, e in fondo alla lunga tavola già sparecchiata, Mrs Howe si alzò lentamente. Il cuore di Lily sussultò. Notò anche Trayer, a fianco della madre, che la fissava con espressione sgradevole e trionfante. Ma ancora più brutto era il volto di Lowdy, bianchissimo e terrorizzato. Lily poggiò il secchio sul pavimento, lentamente, sentendosi le dita intorpidite. Raddrizzandosi, ormai conscia di un’imminente catastrofe, inspirò profondamente e attese. «Sei un poco in ritardo per il pranzo, non trovi?» iniziò ad attaccarla Mrs Howe, seppure in modo blando. Ma Lily non era una sciocca, e la sua mente correva, cercando un modo per non immischiare Lowdy. «Sì, signora, mi spiace molto», sbottò di colpo. «Avevo detto a Lowdy che non stavo bene, ma poi.... poi sono andata a fare una passeggiata. Sul sentiero. E ora sto molto meglio.» «Ah, davvero? Ne sono contenta. Siamo tutti contenti, vero?» La governante fissò tutti gli altri, seduti a tavola, e Lily pensò che dovevano sentirsi incredibilmente a disagio. Ma alcuni sorrisero a Mrs Howe, condividendone lo spirito, e uno dei lacchè strinse le labbra pregustando la scena. «Se sei andata a fare una passeggiata lungo il sentiero», riprese poi, spostandosi silenziosamente verso di lei, «avrai avuto qualche difficoltà a imbucare le lettere.» «Le lett...», Lily deglutì, mentre il cuore iniziava a batterle in modo frenetico. «Le lettere?» Con la coda dell’occhio, vide che Lowdy aveva abbassato lo sguardo fissandolo sul tavolo e aveva iniziato a piangere. «Le lettere, sì. Per imbucare le quali hai lasciato il tuo lavoro. Dopo aver persuaso Lowdy a mentire per proteggerti.» «No, Lowdy non sapeva. È a lei che ho mentito.» «Chi scava una fossa vi cadrà dentro; chi scaglia una pietra, verrà colpito dalla stessa.» «La prego, Mrs Howe, lo giuro. Lowdy non sapeva...» «Prima ladra, ora bugiarda. Ma, qui, nessuno ne è sorpreso. ‘Il cane è tornato al proprio vomito, e la scrofa che è stata lavata ritorna a rotolarsi nel fango.’» Lily rabbrividì: era inutile discutere. Attese stoicamente la punizione. Mrs Howe sollevò lentamente un braccio e indicò il grande camino di mattoni dall’altra parte della stanza. «Vai e inginocchiati, ragazza malvagia. Rimarrai in ginocchio tutta la notte sulla pietra fredda, senza cena. Domani mattina, berrai un bicchiere d’aceto per pulire la tua lingua menzognera. E poi....» «Dovete essere uscita di senno. Non farò mai una cosa simile.» Il silenzio, già


mortale, che dominava la stanza si fece, se possibile, più profondo. E improvvisamente non poté più tacere, nonostante il velo di sudore che si era formato sulle palme e il fremito di panico che le correva tra le scapole. «Quello che ho fatto è sbagliato, lo so, ma non merito tutto questo.» Tese una mano verso il camino. «Mi spiace aver mentito. Avevo bisogno di imbucare delle lettere, e sapevo che voi non mi avreste mai dato il permesso. Sono in ritardo, di solo venti minuti, e stasera lavorerò fino a quando avrò finito tutto quello che dovevo fare.» Raddrizzò le spalle e lottò per vincere il fremito nella voce. «Ma non rimarrò tutta la notte in ginocchio su quel camino, e certamente non...» dalla gola le sfuggì una risatina isterica, «berrò aceto domani mattina per far contenta una perfida malvagia...» Tutta infervorata dalle sue stesse parole, non si era accorta della palma aperta che stava per colpirla, fino a un istante prima dell’impatto. Urlò, più di sorpresa che di dolore, e si strinse la mascella dolente. In seguito avrebbe invano cercato di ricordare i pensieri che le erano passati per la mente nei secondi successivi, ma non riuscì mai a mettere a fuoco una sensazione che non fosse di rabbia intensa, incandescente. Obbedendo a un riflesso involontario, come può esserlo il respirare, rispose con le stesse armi alla violenza di Mrs Howe, colpendola in volto con la mano aperta, con quanta più forza possibile. Fu come se un colpo di cannone fosse esploso su un campo di battaglia ormai deserto, tanto forte fu il colpo e tanto completo il silenzio che regnò dopo nella stanza. La nebbia di puntolini grigi che aveva gradualmente velato lo sguardo di Lily si dissolse, e nella sua riacquistata lucidità vide l’espressione di Mrs Howe mutare da sorpresa a esultante. Lily attese, terrorizzata. Il corpo massiccio della donna parve aumentare ancora di più, gonfiandosi ed espandendosi, oscurando la stanza. «Vattene di sopra», disse a bassa voce, quasi dolcemente. «Attendimi nella tua stanza, con umiltà e coraggio. Perché anche se i tuoi peccati sono rosso scarlatto, diverranno bianchi come la neve, bagnati nel sangue dell’Agnello.» Lily rimase immobile, combattendo la paura, cercando un poco di coraggio nelle ondate di odio puro che stavano soffocandola. Disse una sola parola: «Mostro», in un sibilo sussurrato che doveva essere udito solamente dalla donna. Poi, non guardando in faccia nessuno, si volse e se ne andò. La luna che era comparsa alla finestra era piena e così brillante che avrebbe anche potuto leggere senza l’ausilio di una candela. Ma non aveva libri, nemmeno lettere da scrivere o qualcosa da rammendare, nulla, se non i propri pensieri a tenerle compagnia. Non pensava alla 'punizione' di Mrs Howe, sebbene non avesse alcun dubbio sul fatto che sarebbe stata di sicuro terribilmente dura. Era invece tormentata da visioni del proprio passato e del futuro, e il suo umore, solitamente allegro, era senza vita e pesante, per un senso sconosciuto di rimpianto e rammarico. La morte di suo padre era stata una vera tragedia, ma aveva imparato ad accettarla e a continuare a vivere nei momenti bui e tesi che erano seguiti. Nessuno può evitare le catastrofi per tutta la vita, e quando capitano, si dovrebbe fare del proprio meglio per attraversarle e superarle ritrovandosi intatti e pieni di speranze. Ma le cose che le erano accadute negli ultimi due mesi le parevano del tutto innaturali. Andavano al di là della propria esperienza, non avevano nulla in comune con le sue aspettative. Alla base di tutti i suoi problemi vi era Roger Soames, ma le ossessioni dell’uomo erano al


di fuori di qualsiasi controllo da parte sua. Non avrebbe potuto far nulla quindi, se non capitolare completamente, per mutare l’esito di quel loro ultimo incontro. Allo stesso modo, l’inimicizia di Mrs Howe era terrorizzante e inspiegabile, un mistero veramente grande; davanti a quella violenza, Lily si sentiva del tutto impotente. Nulla aveva più senso, ormai; nulla seguiva un suo ordine. Le azioni non avevano alcun legame con le conseguenze. Aveva vissuto la propria esistenza con la convinzione, non del tutto conscia, di poter gestire il proprio destino, ma quella consolazione non c’era più. L’autocompiacimento se n’era andato. Quello che contava, ora, era la sopravvivenza, un tempo data per scontata. Non riusciva a capacitarsi del ruolo che Devon Darkwell aveva in quella sua nuova filosofia di vita. Sarebbe stata contenta di lasciarlo, felice di non vederlo più. Le aveva dato, in fondo, ben poco, se si eccettuavano dolore e angoscia, sofferenza e umiliazione. E tuttavia, incredibilmente, non riusciva a odiarlo. Quando pensava a lui, prima che la sua mente avesse la possibilità di erigere uno spesso muro di difesa, veniva talvolta presa da una gioia bellissima e profonda, fatta tanto di piacere quanto di dolore, così forte da inebriarla. Sarebbe stata felice di lasciarlo, eppure la sua 'compagnia' - se definirla così non era in fondo ridicolo – era stata l’unico momento luminoso in tutte le settimane lunghe e spossanti passate a Darkstone. E più strana ancora era la convinzione che non l’avrebbe mai dimenticato, che avrebbe portato il suo ricordo buio, provocante e frustrante con sé nella tomba. Udì un passo sulle scale. Sarà Lowdy, si disse, perché le pareva che fossero passate ore e ore, e sicuramente era ormai quasi tempo di coricarsi. Ma no, udì un secondo rumore di passi, e poi, un istante dopo, vide una luce sotto la porta. Lowdy non aveva certamente una candela con sé. Con le membra irrigidite dalla paura, il cuore che batteva, Lily si alzò dal letto e si mise al centro della piccola stanza, volgendo la schiena alla finestra. Udì la maniglia girare e vide la porta spalancarsi. Sulla soglia, in un rettangolo di luce gialla, si stagliò la figura quadrata e possente di Mrs Howe; dietro di lei, Trayer teneva una lanterna. Poi, un secondo dopo, vide quello che aveva in mano Mrs Howe: una cinghia di cuoio. «Non mi picchierete», disse Lily con aria di sfida, arretrando e sentendo la pelle formicolare per il terrore. Trayer depose la lanterna sulla scrivania. «L’ira di Dio si abbatte sui figli della disobbedienza. Chi è amato da Dio, verrà castigato.» Le si avvicinò ancor di più, gli occhi neri che brillavano, la bocca stretta e sottile. «È giunta l’ora, Lily Troublefield. Questo è il giorno della tua salvezza.» Lily continuava a scuotere la testa. «Non farete una cosa simile. Non lo farete.» li fissò, e per un solo secondo quella sua certezza assoluta parve fermarli. Poi si mossero ancora verso di lei, e Lily sentì un brivido di terrore alla nuca. Arretrò fino a quando il tallone di un piede colpì il muro dietro di lei. Vide Trayer che si stava avvicinando a lei da destra. Tese una mano per afferrarla, ma lei finse di avvicinarsi a lui, poi scartò dall’altra parte. Incredibilmente agile, Mrs Howe spostò il corpo robusto in modo da bloccare l’uscita, e in quel momento Lily sentì le mani di Trayer afferrarle le braccia. Fece per scalciare, inutilmente. La costrinse a voltarsi, attirandola a sé in una finzione oscena di abbraccio, tenendole le braccia strette attorno alla vita. Il primo


colpo fu tagliente come un coltello affilato. Gemette di rabbia e dolore. Mrs Howe continuò a colpire, con colpi cattivi su natiche e cosce, e alla fine Lily smise di divincolarsi. Crollata contro Trayer, il volto inondato di lacrime di rabbia e vergogna, sopportò quelle frustate spietate, fino a quando la prova inconfondibile dell’eccitazione di colui che la teneva bloccata non la fece arretrare colma di orrore. In quel momento Mrs Howe si fermò per riposarsi. Trayer si spostò per poter sorridere lascivamente a Lily, che, senza pensarci neppure un attimo, lo colpì ai genitali con una ginocchiata. L’uomo lanciò un grido rauco di agonia, barcollò all’indietro e ricadde, contorcendosi, sul letto. Lily si voltò. Mrs Howe aveva lasciato cadere la cinghia e si era posta dinanzi alla porta, sudata e furiosa. «La parola del Signore è veloce e potente», disse ansando, «più affilata di qualsiasi spada...» Lily emise una imprecazione blasfema e corse verso di lei, ma era come voler caricare una parete di pietre. Il torace ampio e robusto della donna non cedette di un millimetro, e invece fu Lily a ritrovarsi catturata tra le braccia potenti di Mrs Howe che la trattennero in una morsa d’acciaio. Urlò tutta la sua furia su quel volto dagli occhi allucinati e le diede un calcio negli stinchi. La governante si limitò a gemere, poi prese un braccio di Lily per bloccarla e la schiaffeggiò in volto, più e più volte, usando tutta la forza che aveva. Lily cercò di ripararsi con la mano libera, ma Mrs Howe era forte come un uomo. E allora il panico iniziò a insinuarsi in lei: era tutto vero, stava accadendo proprio in quel momento, e non sarebbe mai finita. Improvvisamente, sentì una mano che da dietro la costringeva a girarsi. Trayer, ringhiante, il volto rosso di rabbia, la colpì con un pugno. Le si offuscò la vista, e lampi argentati le comparvero nelle pupille. «No, non in volto!» I colpi seguenti la raggiunsero ai seni e all’addome, e quando la colpì al diaframma, Lily rimase senza fiato e cadde in ginocchio. Semi-svenuta, cercò di rialzarsi, ma i muscoli delle gambe non reagirono. Udì poi Mrs Howe che diceva al figlio «Basta così!» prima che lo stivale dell’uomo la colpisse alle costole. Sussultò per quell’esplosione di dolore insopportabile e cadde sul pavimento. L’ultimo colpo fu indirizzato in fondo alla schiena. «Smettila, ti ho detto!» Lily attese un altro calcio, ma non venne. Attraverso la nebbia, che la stava avvolgendo, sentì un rumore di passi che si allontanava. Poi, la porta che sbatteva. Infine, più nulla. «È stata tutta colpa mia. Oh, mio Dio! Puoi alzarti? Ma mi ha costretta, mi ha detto che mi avrebbe picchiato se non le avessi detto nulla. Lily? Oh Dio, ho paura. Siediti ora, dovresti poterlo fare. Ti aiuto io...» «No, Lowdy, no.» «E cosa dovrei fare? Oh mio Dio! Lily, che ti è successo?» Lowdy aveva acceso una candela. Lily vedeva le lacrime che scendevano sul suo volto preoccupato, illuminato dalla luce tremolante. Lowdy le teneva una mano. Lily cercò di liberarla, ma la nebbia grigia stava avvolgendola di nuovo. Sussurrò: «Chiama Devon», poi svenne.


Sentiva la polvere nelle narici, e l’odore dolciastro e ammuffito del legno non trattato. Sdraiata su un fianco, la guancia premuta contro il pavimento, vedeva una particella di filanca spostarsi al ritmo del suo respiro leggero. Sentì un rumore: un passo sulle scale. Chiuse gli occhi e mormorò una preghiera di ringraziamento. «Dev», riuscì a mormorare, attendendolo. La luce di una lanterna illuminò il punto buio dove lei si trovava. Non poteva muoversi, non riusciva nemmeno a voltare la testa. Notò le scarpe prima che si inginocchiasse accanto a lei. «Salve, vostra altezza. Come vi sentite, regina Lily? Non hai più quell’aspetto nobile e altero, sai?» Trayer la afferrò alle spalle e la girò in modo che la schiena toccasse il pavimento, ignorando l’urlo soffocato di dolore. Cercò inutilmente di sollevare le mani mentre le slacciava la veste e le strappava la camicia, massaggiandole la carne ferita con deliberata crudeltà. «Sai, non sembri più nemmeno bella. Ma, sai cosa ti dico? Che non ci farò caso.» Quando le sollevò le gonne e si mise sopra di lei, Lily sentì ancora quella nebbia che mulinava sempre più vicina, più vicina. Il suo corpo era esausto, immobile; il pugno con cui cercò di colpirlo al fianco fu penosamente inutile e leggero. Sentiva in gola qualcosa che non andava, e un gemito di disperazione le fece colmare gli occhi di lacrime inutili. Volse il capo per non vedere lo sguardo scuro e avido di Trayer. Ma un suono la fece voltare, per vedere se anche lui l’aveva udito. I loro occhi si incontrarono proprio mentre quel suono indistinto diventava rumore di passi affrettati, sempre più forti, sempre più veloci, sempre più furiosi. Trayer ebbe appena il tempo di alzarsi e di fare due passi indietro prima che il padrone entrasse dalla porta aperta. «Stavo cercando di aiutarla. È stata mia madre!» Devon barcollò; si avvicinò a Lily con movimenti lenti, vedendola solo attraverso barlumi acuti, dolorosi e sconnessi di percezione. Sangue, ferite, abiti strappati, pelle lacerata – il quadro si stava delineando con terribile precisione. Urlò tutta la propria rabbia. Trayer stava cercando di uscire indisturbato, ma per Devon fu una grazia, una liberazione allontanarsi dalla visione terribile di Lily e correre dietro all’uomo. Lo raggiunse in corridoio. Il volto del lacchè era pallido di terrore fino a quando Devon lo colpì sulla bocca con un pugno. E allora furono schizzi di sangue, gemiti di Trayer che arretrò verso le scale, muovendo le gambe massicce in modo scoordinato. Il secondo pugno lo costrinse a piegarsi in due; il terzo, lo fece raddrizzare di nuovo. Perse l’equilibrio e cadde indietro, colpendo la balaustra, che si ruppe sotto il suo peso. Andò a sbattere su quattro ripidi gradini prima di finire contro la parete, colpendola per prima cosa con la spalla. Devon udì un gemito, poi il rumore violento e irregolare di ossa contro il legno, sempre più lontano, mentre Trayer scompariva nel pozzo nero della tromba delle scale. Devon tornò come un automa sui propri passi ed entrò nella stanza di Lily. Lei stava cercando di appoggiarsi a un gomito, e lui la prese proprio nel momento in cui cadeva. La fece sdraiare delicatamente, cercando di sorridere a quel volto angosciato, ma la vista di quei vasti ematomi al torace e alla gola gli raggelò il sangue. Con la punta delle dita toccò il gonfiore bluastro sulla mascella, e lei trasalì anche se il tocco era stato leggerissimo. Sollevò lentamente una mano, per difendersi, e notò che le nocche erano sanguinanti, forse perché aveva cercato di proteggersi. «Signore?»


Si volse e vide Lowdy appoggiata alla porta. «Vai a chiamare MacLeaf!» urlò. «Digli di correre a Trewyth e di far venire subito qui il dottor Penroy. Vai!» Lowdy corse via. Lily gli strinse la manica, tirandola debolmente. Mosse la bocca, ma lui non poté udire le parole sussurrate. Allora le avvicinò l’orecchio alle labbra. «C’è qualcosa di rotto», sussurrò. Cercando di vincere la paura, le passò un braccio attorno alle spalle. «Va tutto bene, sei al sicuro ora. Ti riprenderai.» Ma quando si chinò per sollevarla, lei emise un urlo terribile, strabuzzando gli occhi. Si sentì imperlare di sudore. «Lily!». Era svenuta, e non riusciva a farla rinvenire. Tremando, la prese di nuovo tra le braccia e la sollevò. Guardò la stanza, osservandone a malincuore la miseria, i mobili brutti e rovinati. Non poteva certamente coricarla su quel sottile materasso di stoppie. Afferrò la lanterna con la mano che le sorreggeva le ginocchia e si diresse verso le scale. Al secondo piano, entrò nella prima stanza che incontrò – una delle camere degli ospiti, alcune porte dopo la sua – e adagiò delicatamente Lily sul letto. Si riprese parzialmente mentre lui la spogliava. Notò i segni delle cinghiate sulle cosce quando lei cercò di divincolarsi perché le stava facendo male. Il peggio, tuttavia, era la macchia sotto il seno destro, che stava diventando sempre più nera; quando la toccò lei trasalì immediatamente, sbiancando. La coprì con un lenzuolo quando iniziò a tremare, e con il fazzoletto le terse un rivoletto di sangue dal lato della bocca. Aveva le guance arrossate e gonfie, come se fosse stata schiaffeggiata più volte. Giunse anche Lowdy, ma rimase sulla soglia fino a quando lui la chiamò. «Perché le hanno fatto questo?», chiese. «Una punizione, signore. Lily era corsa in paese per imbucare una lettera e ha fatto tardi.» Devon la fissò incredulo e con un moto di repulsione. Il volto si rabbuiò per l’ira, e Lowdy fece immediatamente un passo indietro. «Vai a prendere la camicia da notte», ringhiò. «Non ne ha mica, signore.» «E come dorme?» «Con la sottogonna.» Si girò a guardare Lily, poi si rivolse ancora a Lowdy. «Vai a prendere dell’acqua calda e teli puliti», disse a denti stretti, e Lowdy corse via di nuovo. Si sedette accanto a lei e le prese le mani – lasciandole cadere immediatamente quando lei mostrò i denti e inarcò la schiena, sofferente. «Mio Dio, Lily!», mormorò, senza più toccarla per paura di farle del male. Quando Lowdy tornò, la lavarono assieme nel modo migliore possibile, ma tutto quello che facevano pareva provocarle un dolore immenso. Devon cercò di darle anche del brandy, ma lei non riusciva a deglutire. Quando ebbero finito, spinse una sedia vicino al letto e si sedette. Non riuscendo a non toccarla, appoggiò leggermente il suo braccio accanto a quello di lei. Lily era sveglia, ma non poteva parlare, e ascoltava con occhi immensi, impietriti dal dolore, la voce dell’uomo che le ripeteva in continuazione che sarebbe andato tutto bene. Clay apparve all’improvviso sulla porta. «Mio Dio, Dev, non posso crederci!» Gli


si avvicinò lentamente, stupefatto, fissando la figura immobile nel letto. Devon si alzò. Si sentì pervadere di sollievo, nel vedere Clay, anche se puzzava come una distilleria di gin. «Non pensavo che saresti tornato fino a domani mattina.» Erano andati assieme in un bordello di Truro, ma Devon era tornato a casa presto, stufo. «Mi hanno detto che eri tornato a casa, e temevo che fosse accaduto qualcosa. Stringer mi ha appena detto di Lily.» Imprecò sottovoce, fissando lo sguardo al di sopra della spalla di Devon. «Si è fatta molto male?» «Sì. Fammi un piacere, Clay.» «Qualsiasi cosa.» «Sbatti fuori di casa Mrs Howe. Se lo faccio io, l’ammazzo.» Clay lo guardò sorpreso, notando il volto teso, gli occhi spiritati, stravolti. «Ci penso io», disse pacato. «Grazie.» Devon si diresse subito verso il letto di Lily e riprese posto sulla sedia. Clay attese un altro momento, poi uscì. Il dottor Penroy arrivò dopo un quarto d’ora. Devon avrebbe preferito un altro medico, anche perché Penroy non gli era mai piaciuto, ma non c’era proprio tempo di mandarne a chiamare uno a Truro. L’uomo di mezza età lo invitò a uscire dalla stanza, e lui accondiscese, ma a malincuore. Camminò a lungo avanti e indietro nel corridoio, soffermandosi fuori dalla porta chiusa, con le orecchie tese al minimo rumore, al grido più sommesso. Ma non sentì nulla. Improvvisamente udì il passo veloce del fratello che stava salendo le scale, e si volse verso di lui, in attesa. «Se ne è andata», rispose prima che Devon gli chiedesse qualcosa. «Le ho anche detto che se domani a quest’ora sarà ancora in zona, la farai arrestare con l’accusa di violenza.» «Lo farò in ogni caso.» Clay lo guardò con curiosità. «Tu e questa ragazza, tu...» «Sì?» Ma qualcosa nel tono della voce indusse Clay a desistere. «Nulla. Che diavolo hai fatto a Trayer?» chiese per cambiare argomento. «È caduto giù dalle scale. Spero che si sia rotto l’osso del collo.» «Non proprio, ma è conciato male. Mi sembrava quasi impossibile crederlo, Dev, ma quel figlio di puttana mi ha maledetto. Dopo quello che ha fatto a Lily, ha maledetto me. E poi ha avuto pure il coraggio di minacciarci: ha detto che ce la farà pagare!» Scrollò il capo incredulo. «Avrei dovuto ucciderlo.» Quel tono spietato completamente privo di enfasi bloccò Clay, inducendolo a tacere. Un secondo dopo la porta si aprì e il dottore uscì in corridoio. Entrambi gli uomini si avvicinarono all’uomo dalle spalle ricurve e dall’aria irritabile, con una parrucca nera, occhiali tondi e pantaloni fuori moda. «È stata picchiata brutalmente», disse, e Devon subito si irrigidì, impaziente. «L’ho salassata per evitare la febbre. Ha una o due costole rotte, e potrebbero esserci ferite interne. La laringe è molto infiammata per un pugno, quindi non bisogna assolutamente farla parlare. Consiglio una dieta leggera, riposo e molto sonno. Ah, potrebbe anche avere un polso fratturato, quello della mano sinistra, ma non ne sono certo. Cercate di farla stare tranquilla. Le ho somministrato un infuso di corteccia


peruviana che dovrebbe contrastare l’insorgenza della febbre, e ho lasciato del laudano, ma dategliene poco alla volta. Con il tempo guarirà, a meno che non vi siano complicazioni interne.» Fissò i due uomini, il cui volto denotava stupore e paura. «Non posso fare nient’altro, questa sera; tornerò domani, se volete.» Clay accompagnò il dottore alla porta e Devon rimase immobile, senza guardare nulla, ascoltando le due voci che si allontanavano assieme ai loro passi. Si sentiva debole, ma al contempo percepiva i muscoli tesi per la tensione. Le parole di Penroy l’avevano stressato fisicamente, come se ogni ferita sofferta fosse stata sua. Lowdy comparve dal fondo del corridoio, immerso nell’oscurità, accanto alle scale della servitù. Si avvicinò a lui, cautamente, tormentandosi le mani. «Volete che vada dentro e stia con Lily, signore?», chiese timidamente. La fissò a lungo prima che le parole che aveva pronunciato assumessero un senso. Notò anche che lei era pronta a fuggire, e comprese che la stava spaventando. «Il tuo nome è Lowdy?» «Sissignore», rispose lei con un goffo inchino. Notando che lui non parlava, la ragazza iniziò ad allontanarsi. «Aspetta. Sì, stai con lei. Non perderla di vista e prenditi cura di lei. Se dovesse succedere qualcosa, se avesse bisogno di qualcosa o peggiorasse...» si interruppe, e i suoi occhi torvi e ardenti la trapassarono, «chiama mio fratello», finì con voce dura, poi si volse. Percorse a passo rapido il corridoio e fece i gradini dell’elegante scala padronale a due alla volta. Lowdy udì la grande porta d’ingresso aprirsi gemendo sui cardini e poi richiudersi con un tonfo fragoroso. Tremando un poco, entrò nella nuova camera di Lily e si sedette accanto all’amica.

Capitolo quindicesimo La luce della luna era troppo brillante. Maledisse il chiarore del mare e delle rocce, della scogliera e del cielo. L’oscurità era il motivo per cui era fuggito da casa, vagamente sperando che potesse inghiottirlo assieme ai suoi pensieri. Ma poteva vedere addirittura le linee della propria palma illuminate dalla luce argentea che si rifletteva da sottili veli di nubi, mai però così dense da oscurare il globo luminoso. Accelerò il passo, allontanandosi da casa. Forse, si disse, se non riusciva a schiarirsi le idee con l’oscurità, magari poteva farlo con il movimento. Si costrinse a non sentire nulla se non il rumore del proprio respiro, volgendosi, in fondo ai gradini della scogliera, per prendere il sentiero roccioso che portava al bosco e al laghetto. Le acque del lago interno erano placide, quella notte, nere e senza fondo, e il mare con il suo moto costante e continuo era distante. Decise di fare una nuotata nelle acque amiche: forse, in quel modo, si sarebbe distratto. Iniziò a togliersi la giacca, e si fermò subito, con una manica ancora infilata, ricordando. Laggiù, sulla sabbia, si stagliava la roccia nera contro cui l’aveva intrappolata quella notte assieme a Clay, qualche settimana prima. Lily si era evidentemente sentita molto imbarazzata poiché era nuda, e lui non aveva esitato nemmeno un


attimo ad approfittare della sua tensione. All’epoca, lei non contava nulla per lui, non era nulla tranne che un corpo bagnato, snello ed eccitante. Poiché era solo una cameriera, una parte di lui – più o meno inconsciamente, poco importava – aveva pensato che quel corpo fosse suo, e che avesse il diritto di usarlo almeno una volta. Aveva persino menzionato, apparentemente come un gioco, lo jus primae noctis, secondo cui il signore aveva il diritto a possedere per primo ogni giovane donna che andasse in sposa. Il fatto che lui la desiderasse, che avesse desiderato una donna, gli era sembrato un miracolo tale da giustificare qualsiasi cosa pur di averla. Poi, quando le aveva resistito, era giunto alla conclusione che non era libera ma poteva essere comprata. E per tutta la vita avrebbe ricordato il suo sguardo quando aveva cercato di darle del denaro. Troppa luce anche lì. Si rimise la giacca e si allontanò dal lago, a passo lento sulla sabbia umida. Ripercorse velocemente il sentiero roccioso, attirato dal silenzio buio e anonimo del parco. Lì, almeno, sarebbe stato circondato da querce, noccioli e larici, che nascondevano la luna. Rallentò, sentendo il cuore battere nel torace e in gola, inalando profondamente la buia aria notturna. In lontananza, un gufo richiamava il compagno, o una preda. Il profumo del muschio e della terra umida era più intenso del sapore salmastro della brezza marina. Uscì dal sentiero e attraversò un bosco ceduo di rovi e rampicanti, fino a quando non raggiunse il sentiero ricoperto di ghiaia. Anche laggiù, la luce era troppo intensa – ma almeno non si sarebbe spezzato l’osso del collo. Si diresse ai cancelli della villa, tenendo il capo chino, la mente vuota, le mani infilate in tasca. Appoggiato a una delle colonne di pietra, si sovvenne di un altro momento, di quella notte in cui era tornato a casa ferito e il suo cavallo l’aveva disarcionato – proprio in quel punto, praticamente ai suoi piedi. Resistette a quel ricordo con tutte le forze, ma il corpo lo tradì, e poté nuovamente sentire le braccia di Lily attorno a sé, il suo peso caldo premuto contro di lui per sorreggerlo, il tocco fermo delle mani sul suo petto. I capelli bagnati avevano un profumo dolce e selvaggio come la tempesta, e nei bagliori improvvisi del lampo gli occhi della giovane gli erano apparsi scuri e dilatati, preoccupati per lui. Poi aveva riportato il cavallo nella stalla e nascosto i vestiti, per un’unica ragione, e cioè che gliel’aveva chiesto lui. Quando gli uomini della Finanza erano venuti a interrogarlo, aveva mentito per difenderlo. E il mattino dopo che lei gli si era data, venendo meno a un principio al quale lui non aveva badato e per cui non si era mai preoccupato, lui le aveva offerto venti sterline. Si allontanò dalla colonna e iniziò a risalire il sentiero, a passo veloce, fissando diritto dinanzi a sé. Ma la breccia ormai era stata fatta, e i ricordi fluivano incessantemente. E dopo poco l’immagine peggiore fra tutte, quella che aveva cercato di evitare a tutti i costi, lo colpì con forza, come un fendente alla nuca. Rivide Lily immobile, in piedi nella biblioteca, stanca e scomposta, che lottava contro se stessa e contro il suo orgoglio. «Ma lei ha colpito Lowdy. Le ha fatto male. Accettate una cosa simile?» Le aveva detto che avrebbe parlato con la governante, ma non l’aveva fatto. Nella gioia dovuta al ritorno di suo fratello, se ne era del tutto dimenticato. E con quell’atto, aveva dato a Mrs Howe carta bianca, permettendole di fare quello che aveva fatto.


Dinanzi a sé vide una luce proveniente dal cottage di Cobb. Che ora era? Non ne aveva idea. Svoltò nel breve sentiero laterale e raggiunse la porta della casa del suo amministratore. Senza pensarci un momento, bussò alla porta. Cobb aprì immediatamente. Era completamente vestito, e dietro di lui Devon non vide nulla che potesse fargli capire quello che l’uomo stava facendo: cenando, leggendo, riparando qualcosa; il cottage era in ordine e poco arredato come lo era l’ufficio di Cobb, nella casa padronale, e anche qui non si rivelava nulla del carattere del suo inquilino. «Entrate», disse dopo una breve pausa sorpresa. La vista di quel volto famigliare, con la barba nera, placò leggermente Devon. «Arthur», iniziò facendo un passo avanti. «Sono venuto per chiederti di Mrs Howe. Che cosa sai di lei?» «Eh? Sapere cosa?» Cercò di ricomporsi. «Lei ha picchiato... una delle ragazze. Conosci Lily Troublefield?» «Sì, certo che la conosco. Picchiata, avete detto? E perché?» «Per niente!» Capì che avrebbe tanto voluto picchiare i propri pugni contro la parete a stucco dietro di lui. Strinse tra le dita il bavero della giacca, poi lo accarezzò distrattamente. «Mrs Howe e Trayer hanno picchiato quella ragazza per nulla, una vaga accusa di disobbedienza. Mi hanno anche detto che non sarebbe stata la prima volta: intendo dire che potrebbe avere già picchiato altre prima di lei. Che cosa ne sai?» «Nulla.» «Ma devi pur saperne qualcosa!» «No, non ne so nulla», insistette cocciuto. «Mrs Howe gestisce la casa senza nessun consiglio da parte mia o di chiunque altro. Non sono affari miei e non voglio interferire.» Con grande disagio, Devon riconobbe nelle parole di Cobb la eco delle propria ignoranza e indifferenza, e non si sentì tanto ipocrita da sgridarlo per una cosa simile. «L’ho mandata via, e anche suo figlio...», disse sulla difensiva. Cobb lo guardò con un’aria da gufo, e a Devon non venne in mente null’altro da dire. «Buonanotte. Mi spiace averti disturbato.» «Buonanotte», gli fece eco Cobb, rimanendo in piedi sulla soglia e osservandolo percorrere il sentiero, fino a quando l’oscurità lo avvolse. Devon trascorse il resto della serata bevendo in biblioteca. Iniziò prima con del rum, ma l’ebbrezza dell’ubriacatura si rifiutava ostinatamente di giungere a lui. Quando l’alba stava già schiarendo il cielo a oriente, passò al brandy, e alla fine il cervello iniziò a rispondere alle sollecitazioni alcoliche. Il suo corpo era pesante, inerte, e non si ricordava di essersi mai sentito così stanco. Poi giunse il mattino, e si sdraiò sul divano della biblioteca, grato perché l’oblio stava finalmente avvolgendolo. Dormì. Quando si svegliò, si ritrovò sudato e teso, con i resti vaghi di un sogno sgradevole. Con mani tremanti si versò un bicchiere colmo di brandy. Lo portò alle labbra, ma il suo stomaco si ribellò. Depose con calma il bicchiere e fissò il vuoto. Clay lo trovò in quell’atto, assorto. «Hai un aspetto terribile», osservò sinceramente. Devon si schiarì la gola per fargli una domanda. «Come sta...», ma poi decise di


cambiare argomento. «Dov’è Cobb?» «Cobb? Nel suo ufficio, penso», rispose Clay osservando il volto scuro e serio del fratello. «Lily sta come ieri», disse con tono volutamente leggero. «Il dottor Penroy è arrivato presto questa mattina. Pensa che il polso sia solo slogato. L’ha salassata ancora e ha passato sulla gola un preparato a base di sale marino. Si sta riposando.» Devon gli volse la schiena. «Una delle cameriere, quella che si chiama Lowdy, è rimasta con lei tutta la notte, e adesso ce n’è un’altra. Penroy ha detto che tornerà domani.» «Bene», rispose Devon, annuendo una sola volta. Ci fu una pausa. «Il pranzo è pronto. Vieni a mangiare?» «No, devo uscire.» Guardò attraverso le finestre aperte e notò, per la prima volta, che stava piovendo. Una nebbiolina fredda e vischiosa soffiava dal mare. «Devo...» ma non riusciva a pensare a che cosa dovesse fare. «Devo uscire.» E uscì veramente nel pomeriggio piovoso, lasciando Clay da solo, intento a fissarlo. Passò il resto della giornata visitando le fattorie più lontane, svolgendo compiti di poca importanza che di solito sbrigava Cobb per lui. Ritornò quando era già calata la notte, entrò in casa dalla porta di servizio e si diresse direttamente in cucina. Quando lo vide, una cameriera – di cui non conosceva il nome – fece quasi cadere la pentola che stava pulendo. Nessuno dei due parlò, e Devon si diresse direttamente alla dispensa, trovò quanto era rimasto della cena e mangiò in piedi: zuppa fredda, sformato di piccione, crostata con frutti di bosco, il tutto bevendo un bicchiere di birra. Era piovuto per quasi tutto il pomeriggio e i suoi vestiti rimanevano come incollati alla pelle bagnata, ghiacciata. Doveva cambiarsi la camicia, sbarbarsi, ripulirsi. Si fermò in fondo alla scalinata, una mano sul corrimano di legno di noce, fissando l’oscurità. Se fosse salito, non sarebbe andato in camera sua, ma nella stanza di Lily. E non ne aveva il diritto, poiché la sua punizione non era ancora espiata. Si recò invece in biblioteca, togliendosi la camicia. Prese un morbido plaid e se lo avvolse attorno alle spalle. Il brandy aveva ancora un sapore delizioso, e scendeva velocemente. Rimanendo seduto alla scrivania, aprì uno dei libri contabili e si infilò gli occhiali con la montatura d’acciaio. Appunti una penna, sentendo, fuori, il rumore del mare, sordo e sibilante sotto il diluvio continuo. L’orologio sulla cappa del camino batteva le nove. Si prese la testa tra le mani. «Mr Darkwell? Lord, signore... Mr Darkwell?» Non stava dormendo, ma quel mormorio timido era sussurrato a voce così bassa che passò un buon minuto prima che se ne accorgesse. Sollevò il capo dalla nicchia delle sue braccia piegate e guardò la giovane rimasta sulla soglia. «Sì, che c’è?» Lowdy fece un mezzo passo avanti «Lily, signore. Sono tanto preoccupata.» Devon si alzò subito. «Che c’è che non va?» «L’ho detto al giovane Mr Darkwell, come voi mi ci avete detto, ma non sapeva cosa fare. Mi ha detto di parlare con voi.» «Che cosa c’è?» La vista di quell’uomo che si avvicinava a lei, alto e a torso nudo, con una coperta attorno alle ampie spalle, fece indietreggiare Lowdy. «Non smette di piangere», disse tutto d’un fiato, tenendo la schiena appoggiata allo stipite. «Non aveva mai pianto


prima, e ora non riesce a smettere. Non so cosa fare, perché il medico ha detto di farci attenzione, con il laudano. Gliene ho dato poco alla volta, ma non serve a nulla. Sono tanto preoccupata, Mr Darkwell...» Si interruppe vedendo Devon che si affrettava a uscire dalla biblioteca e a percorrere il corridoio per raggiungere le scale, mentre la coperta gli svolazzava attorno. Accanto al letto c’era solo una candela accesa. Alla luce fioca, non riusciva quasi a vederla, coricata su un fianco sotto il peso di molte coperte. All’inizio non udì nulla, ma poi, avvicinandosi a lei, percepì un suono lieve, in parte singhiozzo, in parte pianto sommesso. Si bloccò per un istante, sconvolto dalla disperazione che vi percepì, dall’angoscia pacata, senza possibilità di mitigarsi. Fece un passo verso il letto. I suoi capelli, che parevano scuri, erano distribuiti sul cuscino, il volto era del tutto privo di colore. Le nocche delle dita erano poggiate alle labbra per soffocare il respiro affannoso. Le pose una mano sulla spalla, attraverso le coperte. «Lily», mormorò. Aprì gli occhi e quando vide chi era, si passò una mano e il polsino della camicia di cotone sulle guance e cercò di mettersi a sedere. Prima che potesse aiutarla, lei ricadde su un fianco, mentre la fronte le si imperlava di sudore; digrignò i denti e si afferrò con le mani al cuscino fino a quando anche quello spasmo passò, poi si rilassò, ansimando. Devon si sentì pervadere da un’ondata di panico. Si inginocchiò accanto a lei. «Che cosa ti fa male, cara?» mormorò, toccandola leggermente. «Dove?» Lei non rispose. Le tirò indietro le coperte, il più delicatamente possibile, e vide che il braccio sinistro era discosto dal corpo, ad angolo, mentre il polso bendato era disteso sul materasso, con la palma verso l’alto. «È il polso?» Lei non rispose. La camicia da notte era bagnata di sudore, il cuscino umido di lacrime. Pensò al brutto ematoma sotto il seno destro. ‘Ti fa male il fianco?» Una costola rotta, aveva detto Penroy, o forse due. Le lacrime sgorgarono da sotto gli occhi chiusi. «Sono le costole, amore?» sussurrò a pochi centimetri da lei. «Fammi vedere, Lily. Dimmi dove ti fa male.» Sollevò le ciglia bagnate aprendo di nuovo gli occhi, ma senza guardarlo. Passò un momento, poi lei riuscì a staccare la mano dal cuscino e a farla scivolare lungo il fianco. Entrambi si rilassarono espirando contemporaneamente. Devon si alzò. C’era una piccola bottiglia di liquido bruno sul comodino, mezza vuota, e una tazza di tè freddo, oltre a una mezza fetta di pane imburrato. «Ti hanno dato la medicina nelle ultime due ore?» chiese chinandosi su di lei. Lei mormorò di sì. Devon si raddrizzò, a labbra strette. Attraversò la stanza raggiungendo la scrivania su cui si trovava una bacinella di porcellana colma di acqua. Prese la bacinella e l’asciugamano pulito, portandoli accanto al letto. Lei si era rannicchiata all’estremità del materasso, così che, per non farla spostare, si tolse gli stivali sedendosi sul letto accanto a lei. Rabbrividì quando Devon le tolse i capelli sudati dalla guancia e le lavò il viso e la gola gonfia passandovi il panno fresco. Poi lo passò sulle mani e sulla parte di braccio che fuoriusciva dalla camicia a maniche lunghe, facendo attenzione a non toccare il polso ferito. Chinandosi su di lei, le sbottonò la parte anteriore della camicia e tenne la tela fredda contro il suo petto, sentendo il calore del corpo che penetrava nella frescura in pochi secondi. «Va meglio?» mormorò. Lily mosse le labbra, e lui pensò in segno di


assenso. Bagnò nuovamente la tela nell’acqua della bacinella poggiata sul cuscino, la strizzò bene poi le chiese se poteva girarsi sulla schiena. Con il suo aiuto, e usando il braccio sano come leva, iniziò a girarsi. Ma, a metà operazione, sollevò le ginocchia e strizzò gli occhi, soffrendo in silenzio. Devon impallidì. «Va tutto bene, va tutto bene», sussurrò senza convinzione, tenendola stretta. Lentamente, muscolo dopo muscolo, Lily si rilassò, e dopo un minuto fu in grado di completare la manovra. Poi rimase immobile, bianca e sudata, poggiata sulla schiena. Quando le mani di Devon smisero di tremare, allontanò le coperte e iniziò a bagnarle le gambe. Provò sollievo quando notò il debole tentativo di abbassare la camicia sulle cosce, dicendosi che, se riusciva a mantenere quel senso del pudore, voleva dire che non era stata ferita troppo gravemente. Dedicò molto tempo ai piedi, prima lavandoli, poi massaggiandoli delicatamente, rimanendo seduto a gambe incrociate ai piedi del letto. Mentre era intento a compiere quell’operazione, gli parve che un poco dello sguardo vitreo abbandonasse gli occhi grigio-verdi di Lily – le uniche due macchie di colore nel suo volto. Il capo era un poco sollevato sul cuscino, e lei alternativamente lo guardava con espressione assorta oppure chiudeva gli occhi e pareva riposare. Ma poi iniziò a tremare. Allora Devon depose la bacinella sul pavimento, le abbassò la camicia fino alle ginocchia, poi la coprì con il lenzuolo e una sola coperta. Le avvicinò alle labbra la tazza di tè freddo, che lei cercò di allontanare. Insistendo, riuscì a farle bere qualche sorso, ma quando vide lo sforzo che faceva per ingoiare, depose la tazza e si passò le mani tra i capelli. «Che cosa posso fare, Lily?» disse cercando di mascherare la disperazione. «Non posso darti altro laudano. Cosa posso fare per aiutarti?» Lei si limitò a fissarlo, rassegnata, senza speranza. Ma poi si fece improvvisamente inquieta, mentre una mano si posava sulle costole rotte e girava la testa sul cuscino, sollevando le ginocchia. Non sapeva cosa fare, finché lei posò un braccio sul bordo del materasso e tirò leggermente. «Vuoi tornare ancora su un fianco?» chiese. Lei annuì, grata che avesse capito. Fu un’altra operazione dolorosa e lunga, ma alla fine ci riuscirono. Devon si inginocchiò accanto al letto, accarezzandole le guance, sistemandole le coperte. «Ora cerca di dormire», le sussurrò, e lei chiuse obbediente gli occhi. Ma il sonno ristoratore non giungeva, e non c’era una posizione in cui si sentisse bene a lungo. Lui continuò a spostarla e girarla, passandole la tela fresca sul corpo spossato, sudato. La lunga notte passava lentamente, e il dolore e la stanchezza consumarono quello che restava della sua compostezza. Quasi all’alba, non poté più soffrire in silenzio e riprese il pianto debole e disperato di quando lui era entrato. Non riuscì più a sopportarlo. Prese la boccetta di laudano, ne versò un poco nel tè e la costrinse a berlo tutto. Poi raggiunse l’altro lato del letto e si sdraiò sotto le coperte accanto a lei. Lily cercò di guardarlo, al di sopra delle spalle, ma aveva i capelli negli occhi. Lui glieli tolse delicatamente, sistemandosi poi su un fianco, dietro di lei. Tenendo il tocco il più leggero e impersonale possibile, le pose una mano sotto la vita e l’altra sul fianco. Poi iniziò a parlare. Le disse delle cose che avrebbero fatto quando si fosse ripresa. Era mai stata a Penzance? Mai? Allora sarebbe stato il primo posto dove sarebbero andati. I venti


occidentali erano così caldi che anche in inverno le fucsie fiorivano ed erano alte come alberi. I giardini erano rigogliosi di camelie e mirti, tamerici e ortensie, mentre le siepi erano formate da fichi. Le orchidee selvatiche crescevano spontanee nella brughiera, e i trifogli coprivano la sommità della scogliera ammantandola del loro colore intenso. E poi, era mai stata a Land’s End? Ecco, quello sarebbe stato il secondo luogo da visitare. Desertica e disabitata, dava proprio l’impressione della fine della vita, come se da lì si guardassero i limiti estremi del mondo. Laggiù era vissuto re Artù, e forse anche Tristano. Le avrebbe mostrato monoliti e cerchi di pietre, dolmen e menhir, e lei avrebbe capito per quale motivo gli abitanti della Cornovaglia credevano nei giganti. Poi sarebbero andati a St. Austell e avrebbero ammirato i grandi cumuli di caolino, bianco come le Alpi innevate, strane montagne lunari che brillavano al sole. Le sarebbe piaciuto visitare la miniera di rame? L’avrebbe portata laggiù, se voleva. E poi sarebbero andati a Lizard Point, per vedere le rocce di serpentino, verde scuro striate di rosso e porpora, il cui verde era tanto bello quanto lo era quello dei suoi occhi. Continuò a parlare fino a quando ebbe la gola arsa e la voce divenne roca. E mentre parlava, le passava lievemente le mani sulle spalle e lungo il braccio, fino alla curva dei fianchi, per poi risalire. All’alba, la pioggia cessò, improvvisamente, e nella quiete poté udire il suo respiro, profondo e regolare. Si era finalmente addormentata. Si volse su un fianco, cercando di fare meno rumore possibile. Sentiva il sangue tornare a irrorare il lato sinistro, provocandogli un formicolio fastidioso. Ma tenne una mano premuta leggermente contro la schiena di Lily, timoroso di perdere il contatto. Chiuse gli occhi e, oltre alla spossatezza fisica, un senso enorme di sollievo lo indebolì ancor più. Si sarebbe ripresa. La gratitudine lo pervase, lo fece sentire umile. Erano ormai anni che non ringraziava più Dio per qualche cosa. Adesso lo fece. Il peggio era ormai passato. Quando poté finalmente riposare, Lily notò che riusciva meglio a sopportare il dolore delle ferite, e ben presto il laudano, ancora somministrato a piccole dosi, fu sufficiente a darle sollievo. Il terzo giorno riuscì a dormire per dodici ore. Il dottor Penroy si congratulò con se stesso per avere scongiurato la febbre, anche se, per essere più tranquilli, avrebbe voluto salassarla ancora. Ma Devon si oppose, dicendogli che era già troppo debole, pallida e senza forze, e che, personalmente, non credeva molto al potere dei salassi. Il dottore si era infuriato, chiedendogli chi fosse tra loro due il medico. Devon rispose che avrebbe chiamato il giovane dottor Marsh, di Truro, la mattina seguente, e Penroy se ne era andato sbuffando. Esterrefatto dalle ricette del collega, il dottor Marsh aveva prescritto una soluzione a base di canfora per dare sollievo alla gola di Lily, e quasi nel giro di una notte l’infiammazione diminuì; ben presto, poi, poté deglutire e persino parlare senza soffrire troppo. Il male peggiore era comunque quello delle costole; acuto e persistente, rimase molto più a lungo rispetto a tutti gli altri dolori e alle ferite. Nonostante tutto, dopo cinque giorni poté mettersi a sedere; in una settimana poté anche camminare nella stanza, lentamente, e con l’aiuto di qualcuno. Di solito era Lowdy a farle compagnia, oppure Rose se Lowdy non era disponibile. Clay andava a trovarla ogni giorno, soltanto per alcuni minuti. Dapprima, la sua


sollecitudine stupì Lily. Non la conosceva affatto, e le barriere sociali tra loro – quella vera e quella che egli credeva sussistesse – avrebbe dovuto far sì che l’interesse del giovane non andasse al di là della pura cortesia. Ma ben presto comprese che Clay era gentile con lei proprio perché era di natura gentile, e forse anche perché lei gli piaceva. E così abbandonò l’atteggiamento restio, e iniziò ad attendere con piacere quelle visite poiché riusciva sempre a rallegrarla. Il suo buon umore era contagioso, la sua allegria irresistibile. L’unico lato negativo – se così poteva dirsi – era che qualche volta la faceva ridere, provocandole dolore alle costole. Anche Devon andava a trovarla tutti i giorni, mattina e sera, con grande assiduità. Ma la sua compagnia non la rallegrava. Molte delle conseguenze dell’assalto dei due Howe erano ormai un ricordo alquanto vago per lei, ma la memoria della sua gentilezza durante la notte più lunga della sua vita era chiarissima e indelebile. Così era molto difficile accostare quell’uomo gentile ma distaccato, rigido e mai sorridente, a colui che era riuscito a farla uscire da un momento di massima disperazione grazie alla sua pazienza e alla comprensione. Ora era distante, a disagio, con il volto serio, e si comportava come se quasi non la conoscesse, o come se qualcosa nel loro passato comune lo imbarazzasse profondamente. E per Lily non era poi così difficile immaginarsi cosa potesse essere. Iniziò pertanto a temere le sue visite tanto quanto attendeva con piacere quelle di Clay. Dopo essersi informato sul suo stato di salute, non sapeva quasi mai come proseguire la conversazione, e anche lei si sentiva molto imbarazzata. Dopo di che, invece di congedarsi, si sedeva e fissava lo spazio dinanzi a sé, attendendo fino a quando il silenzio tra loro diveniva così tremendo che lei si sarebbe messa volentieri a urlare. Poi Devon mormorava qualche parola di cortesia e se ne andava. Una sera, però, non andò da lei. Alle otto e mezzo notò che era in ritardo e si chiese cosa stesse facendo, poi si disse anche che sperava che non sarebbe andato affatto da lei. Sprimacciò i cuscini e si rimise a leggere. Alle nove meno un quarto, chiuse il libro, tenendo però il segno con un dito. Aveva sentito un passo lungo il corridoio? Udiva in lontananza il fragore intermittente delle onde che avanzavano e arretravano, il rumore irregolare di una farfalla notturna che batteva contro la finestra mezza chiusa. Null’altro. Fissò le ombre lunghe e profonde agli angoli della stanza, il chiarore brillante del soffitto. Dal giardino sottostante entrava il profumo dei convolvoli notturni. Il ticchettio dell’orologio di bronzo dorato posto sulla cappa del camino le giungeva attutito e regolare. Riprese a leggere, ma le parole le sembravano sconnesse, come piccole formiche che sfilano sulla sabbia bianca. Quella sera, non sarebbe venuto. Alle dieci udì dei passi. Il suo cuore fece un balzo, e immediatamente si passò una mano sul collo della camicia. La porta si aprì, facendo entrare di corsa Lowdy. «Eccola qui, fresca come una rosa, tutta rossa», la osservò alla luce della candela. «Sei ammalata?» «No.» «Galen mi ha appena chiesto come stai, e io ci ho detto che stai bene e che non deve mica preoccuparsi di Lily, e poi, che ti trovo? Lei tutta rossa e debole.» «Non sono debole. È che mi hai sorpreso un poco quando sei entrata, ecco tutto.»


«E va bene, hai ragione tu. Parlando di Galen, mi ha dato questo da darti...» Lily tese una mano e prese l’oggetto che Lowdy le tendeva. «Cos’è?» Da quello che poteva vedere, erano due cilindri di legno posti uno dentro l’altro, con un manico che fuoriusciva dal più piccolo dei due. «Un qualcosa che fischia. Tira la parte superiore più piccola.» Lily girò il manico, e i cilindri di legno emisero un cinguettio sonoro e stridente. Lowdy rise e batté le mani. «Un richiamo per uccelli! Non è una cosa bellissima? Rifallo.» Lily ripeté il movimento, e anche lei si mise a ridere, poi gemette e dovette tenersi il fianco. «Oh Lowdy, è bellissimo. Di’ a Galen che lo ringrazio molto e che lo userò domani per richiamare gli uccelli direttamente dalla finestra. Che bel regalo.» «Tu gli piaci», disse Lowdy con grande semplicità. «Se non avevi un tuo fidanzato, potevo anche essere gelosa di te, Lily Troublefield.» Lily sorrise, debolmente, e Lowdy scrollò le spalle. «Su, su, bevi questa, e poi di corsa a letto.» «Ma non la voglio, Lowdy; non ne ho più bisogno.» «Dai, è l’ultima volta che lo prendi, poi basta. Su, un’ultima volta. Apri la bocca. Ecco, vedi, non era poi così male, no?» «Facile dirlo, per te.» Fece una smorfia per evitare di avere un conato dovuto al sapore amaro dell’odiato laudano. Almeno era finito; e sperava di non dover mai più essere costretta a ingoiare un solo sorso di quel liquido cattivo.» Indovina un po’.» «Che cosa?» «C’è una nuova governante.» «No!» «Mrs Carmichael, che viene da Tedburn St. Mary e parla bene inglese, come te. Ho sentito dire che l’ha trovata la sorella del padrone e l’ha mandata lei qui. È arrivata oggi, e non ci ha costretto a dire le preghiere dopo cena. È più giovane di Mrs Howe, e ha un aspetto civile, non cattivo. Galen pensa che va bene.» «Allora sarà di certo così.» Le si stavano già chiudendo le palpebre. Poi, le venne in mente una cosa. «So che non sei andata a sentire la predica del tuo pastore metodista, domenica scorsa, Lowdy, a causa di... per quello che mi è successo. Ma Galen c’è andato?» «Ma certo che no. Era così preoccupato per te, e il padrone l’ha mandato a chiamare il medico e a prendere non so cosa, non gli importava più di andare.» «Ah.» Lily si guardava le dita, che stavano giocando con il copriletto. «Potrei ricevere a giorni una lettera. Puoi guardare tu se arriva, e portarmela poi qui?» «Ma certo.» «Grazie.» Lowdy sollevò le sopracciglia castane, attendendo. Ma Lily non disse nient’altro, e dopo un secondo la sua giovane amica si chinò per spegnere la candela. «Oh, non spegnerla.» «Sarai addormentata tra una decina di minuti.» «Lo so, ma... lasciala accesa, ti prego. Preferisco così, questa notte.» «Va bene. Buonanotte, Lily.» «Buona notte. Grazie per occuparti di me, Lowdy.» «Ma va», disse l’amica, sorridendo, e uscì.


Lily si lasciò andare contro i cuscini e si tirò le lenzuola fino al mento. La casa era completamente immersa nel silenzio, come se lei fosse l’unica inquilina. Si sentì invadere dalla sonnolenza, e con essa da un sentimento di depressione soffocante, inquietante. I colpi crudeli di Mrs Howe e l’attacco di Trayer l’avevano quasi distrutta; e riprendersi le aveva portato via tutte le forze. Ma anche nei momenti di maggior sofferenza, non si era mai sentita così. Aveva molto sofferto e pianto, ma c’era sempre un qualcosa per cui lottare, anche in cui sperare. Dapprima era stata la comprensione di Devon, poi le sue visite formali due volte al giorno, così distruttive per il sistema nervoso, ma al contempo in grado di farle dimenticare quanto era profondo il divario tra loro, e il motivo esatto che l’aveva causato. E la compagnia, pur essendo strana e di scarsa soddisfazione, aveva fatto crescere nel cuore di Lily una speranza segreta e non menzionabile. Ma quella sera lui non era venuto, e lei sapeva che non sarebbe più tornato, e si sentiva mortificata a dover ammettere anche a se stessa di quale natura fosse la sua speranza segreta. Ora davvero doveva solo aspettare di essersi ristabilita e poi lasciare definitivamente Darkstone Manor. Qualcosa, un rumore lievissimo, le fece aprire gli occhi. «Mi spiace di averti svegliato. Stavi dormendo?» «No, quasi... No.» Se si eccettuava il bianco dello sparato increspato, Devon era quasi invisibile nell’oscurità che regnava sulla soglia. Nella luce della candela, che a paragone era forte, lei si sentiva esposta e vulnerabile, e si chiese da quanto tempo fosse lì. «Avanti», gli disse a bassa voce. Entrò nella stanza. «Come stai?» «Molto meglio, grazie», rispose con voce roca. Nelle ultime dieci sere avevano ripetuto le stesse parole, non variando mai il programma. Attese che il suo cuore impazzito si placasse, colmo di un misto di gioia e rabbia, quest’ultima con se stessa per via della prima. Vide che indossava un lungo panciotto color prugna, la camicia e pantaloni neri; aveva un lieve sentore di cuoio e sudore, e immaginò che fosse stato a cavalcare. «Lowdy mi ha detto che le sembravi stanca.» «Hai parlato con lei?» «Proprio ora. Sei sicura di stare bene?» «Sicurissima.» La vacuità di quella conversazione batteva tutte le precedenti, si disse proprio nel momento in cui il silenzio fu rotto da un suono stridulo. «Oh!» Lily represse una risatina, vedendo che Devon spalancava gli occhi. Si era completamente dimenticata del dono di Galen, che pure teneva in mano, e aveva girato il manico per un moto nervoso, inconscio. «È un regalo», spiegò facendolo vedere a Devon. «Me l’ha dato Mr MacLeaf. L’ha fatto lui stesso, e serve a richiamare gli uccelli.» «Molto carino.» «Lowdy mi ha detto che avete assunto una nuova governante», disse, determinata a portare avanti almeno la sua parte di conversazione. Un’ondata di sonnolenza si stava facendo strada in lei, ma scomparve quasi subito. «Sì», rispose, schiarendosi la gola e avvicinandosi di più del solito, anzi ponendosi in piedi ai lati del letto. «Una certa Mrs Carmichael. Mi sembra... competente.» Lily pensò alle molte cose che avrebbe potuto dire a proposito, alcune molto amare. Ma strinse il suo richiamo e preferì tacere.


«Ma, infine, anche Mrs Howe pareva competente. Ho imparato che, sotto questo aspetto, la competenza non è l’unica qualità cui si deve badare quando si assume una persona che faccia andare avanti una casa. E che... la cosa non esclude affatto le responsabilità che uno ha nei confronti delle persone che lavorano per lui.» Lo guardò attentamente per la prima volta, e gli parve incredibilmente a disagio, con le mani strette dietro la schiena, la fronte aggrottata, lo sguardo perso su qualcosa che non esisteva, più o meno all’altezza delle ginocchia di Lily. Pensò che le stesse chiedendo scusa, e quell’idea la sorprese. Devon Darkwell che si scusava! Ma la cosa più strana ancora fu l’impulso che provò di andargli in aiuto. Gli disse: «Vorreste sedervi?» Devon guardò dietro di sé, verso la sedia. «Qui», specificò, lisciando con una mano lo spazio tra il proprio fianco e il bordo del letto. Sentì gli occhi sorpresi dell’uomo su di sé, ma tenne lo sguardo fisso sulla propria mano che stava delicatamente battendo sul materasso. Si sedette. Passò un minuto, e lei iniziò a temere che stesse per scendere tra loro un altro dei loro silenzi assurdi, tremendi. Mezzo girato verso di lei, Devon aveva sollevato un ginocchio sul letto, e lei avrebbe potuto toccarlo soltanto allungando una mano. Cercò disperatamente qualcosa da dire, affidandosi per prima cosa all’osservazione che era strano che in quella stagione le notti fossero così fredde. Stava per pronunciare quella frase, quando fu Devon a parlare. «Mrs Howe mi derubava, Lily. L’ho scoperto ieri quando ho riguardato i conti della casa. Dava ai fornitori solo una parte della cifra che mi chiedeva, intascandosi il resto. Uno dei traffici più proficui è stato quello di farmi pagare cifre notevoli per il cibo dei domestici, e poi dar loro da mangiare quanto di più economico esistesse. Brodaglia, da quanto mi è stato detto. E lo stesso valeva per le altre cose: saponi, tessuti e abbigliamento, le necessità primarie. Le davo il denaro necessario, lei lo teneva, poi faceva pagare ai domestici una seconda volta, di nascosto.» Lily lo guardò, sentendosi crescere dentro un profondo senso di sollievo. Aveva persino pensato che sapesse esattamente tutto quanto riguardava la misera sorte dei domestici, che il trattamento da schiavi loro riservato da Mrs Howe avvenisse sostanzialmente dietro sue indicazioni, o almeno con il suo consenso. Apprendere che le cose erano andate in altro modo le diede gioia, e, stranamente, le fece venir voglia di piangere. Fece per parlare quando vide che l’espressione dell’uomo si era nuovamente rabbuiata. «Mi spiace che se ne siano andati, Mrs Howe e quel bastardo di suo figlio. Se fossero ancora qui, giuro su Dio che...». Si dovette fermare un istante, preso da un’emozione troppo intensa. «Quello che è successo... quello che è successo è stata colpa mia. Se potessi cambiare... tutto», sospirò, poi si bloccò di nuovo. Lily sentì che gli occhi le bruciavano per le lacrime pronte a sgorgare e ricacciate in gola. Cercò gli occhi di Devon, così tristi. Le rughe ai lati della bocca erano bianche per la tensione; avrebbe voluto tanto accarezzarle con la punta delle dita. «Va tutto bene», sussurrò. «Non sapevate nulla.» «No, non sapevo, ma questa è una colpa, non una scusa.» «Ma ora è tutto a posto.» La comprensione che gli dimostrava lo induceva ad andare avanti. «No, non è affatto tutto a posto. Avresti potuto essere uccisa, o stuprata, o ferita molto più gravemente...»


«Ma non è successo. E voi...» «Avresti potuto esserlo, però.» «Dev...» Si fermò. Non aveva alcun diritto di chiamarlo in quel modo, ormai. Entrambi rimasero in silenzio, impacciati e a disagio, evitando di guardarsi. Ma non poté impedire alla sua mano di andare verso di lui, esitante. Pose le dita sul suo polso, leggermente, solo per toccarlo e confortarlo, traendo conforto a sua volta. Chiuse gli occhi e sentì che un’altra ondata di tenebra la stava per avvolgere. «Lily», riprese Devon a capo chino, «non posso chiederti di perdonarmi. Voglio solo che tu sappia che mi spiace. Mi spiace tanto...» Continuò a parlare, a voce bassa e intensa, ma nonostante tutti gli sforzi che Lily stava facendo, perdeva sempre di più il senso di quelle parole, il suo cervello recepiva sempre meno, fino a quando le parve corretto dirglielo. «Devon, vi prego, smettete di parlare prima che mi addormenti.» «Come?» Le parve di sentire nella sua voce un tono leggermente ferito. «Lowdy mi ha fatto prendere le ultime gocce di laudano proprio prima che entraste. Non riesco a tenere gli occhi aperti.» Ed era letteralmente vero, perché gli parlava tenendo le palpebre abbassate. «Non capisco il motivo, ma so che volete che io sia dura con voi, che non vi perdoni. Ma proprio non posso, non è», sbadigliò, riuscendo a fatica a portarsi la mano alla bocca «non è nella mia natura. Quello che è accaduto è stato orribile, ma ormai è tutto finito. Sto riprendendomi. Grazie per sentirvi dispiaciuto», cercò di aprire gli occhi quando udì Devon sbuffare impaziente, ma proprio non ce la faceva a fingere. «Grazie per avermi anche detto che vi dispiace. Ora...» Ora che cosa? Non aveva alcuna idea, ed era troppo stanca per pensarci. «Ora devo andare a dormire.» La sua mano si rilassò e cadde sulla coscia di Devon. La guardò, e sentì che stava per sorridere, per la prima volta dopo tanto tempo. Racchiuse quella mano inanimata tra le sue, esaminando le palme callose, le lunghe dita sottili. Dovette combattere contro l’impulso di ridere quando Lily si mise lievemente a russare, poco prima di liberare la mano dalle sue, rimettendola cautamente lungo il fianco. «Buonanotte, Lily», mormorò in tono mondano. Nulla, nemmeno un battito di ciglia. Era già profondamente addormentata. «Dolce Lily», sussurrò. Rimase a guardarla ancora per qualche minuto, affascinato. Non riuscendo più a resistere, Devon si chinò e premette su uno degli zigomi della giovane un bacio lungo e leggero. Poi spense quanto rimaneva della candela e uscì, chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé.

Capitolo sedicesimo «Ma non sei ancora pronta?» Lily sollevò lo sguardo, sorpresa. «No, io... ma per che cosa? Non dovevo andare da nessuna parte.» «Ci troviamo giù con Clay. Gli ho detto che sarei venuto a prenderti.» «Oh, ma davvero?» Guardandola di sottecchi, Devon entrò nella stanza. Lily era seduta dinanzi alle finestre aperte, immersa nella luce del sole, ancora in camicia da notte e ciabatte di tessuto, intenta a cucire un qualcosa di molto voluminoso color senape. Raggi di sole


in cui volava un fitto pulviscolo segnavano sui suoi capelli rosso scuro delle strisce più chiare e rendevano le macchioline verdi nei suoi occhi, solitamente spente, quasi sgargianti e vivide. Ma fu il sorriso ad affascinarlo di più. Lo ricambiò involontariamente, e per un bel mezzo minuto rimasero troppo assorti l’uno nell’altra, per parlare. Lily fu la prima a riprendersi, arrossendo e terminando di infilare l’ago nell’orlo che stava cucendo. «Non sono ancora pronta. Vostro fratello mi aveva detto alle due, e ho circa tre minuti ancora di lavoro, poi ho finito.» «Che cos’è?» «Un vestito. Non ne ho uno, e così sto modificando questo.» «Ah.» Aggrottò un poco la fronte, osservando la linea di punti delicati che si stava allungando. «Com’è che non hai vestiti, Lily?» Le sue dita si fermarono all’istante. Che cosa aveva detto a Mrs Howe? Che era stata derubata a una fiera, o qualcosa del genere. «Sono stati rubati, proprio prima che venissi qui.» Nel tentare di giustificarsi, le parole quasi le morirono in gola: mentire a Devon le era ormai ripugnante, ma lei aveva ancora intenzione di dirgli tutta la verità. Non era ancora giunto il momento, si disse... non ancora. Lavorando il più in fretta possibile, riuscì a finire la cucitura, fece un minuscolo nodino per fermarla e tagliò il filo con un paio di forbici. «Ecco qua, ho finito... Che ne pensate?» Sollevò la veste perché lui potesse ammirarla, sperando anche che non le facesse altre domande. «Non è il tuo colore», disse a bassa voce. Lei sorrise, un poco misteriosamente, parve a Devon. «Perché lo trovi divertente?» Il sorriso si ampliò. «E di chi potrebbe essere?» Guardò il vestito, poi ancora Lily, e improvvisamente gli venne un’idea. «Di Mrs Howe?» «Sì! Clay ha detto che potevo prendere i suoi vestiti. Ha lasciato tutto qua, un intero guardaroba pieno di abiti. Cercherò di farne qualcosa per me, e questo è il mio primo tentativo.» Osservò con aria molto critica il suo lavoro; non era poi così male, si disse, sebbene Devon avesse proprio ragione sul colore. Lo guardò attendendo una sua risposta. «Oh», disse poi, vedendo la sua espressione. Non vi piace.» «No, è bello.» Prese tra le dita la veste di cotone grezzo e finse di esaminarla. «Cuci molto bene.» E invece stava pensando che detestava veramente l’idea che Lily dovesse sistemarsi i brutti vestiti di Mrs Howe o di chiunque altra per poter avere qualcosa da mettersi. Lui era pronto ad acquistarle tutti gli abiti che avesse voluto, e molti altri ancora, ma prima dovevano raggiungere un accordo. Ed era ancora troppo presto, e lei era troppo malata ancora, per affrontare l’argomento dell’accordo che aveva in mente. «Va benissimo», lo rassicurò, male interpretando la sua espressione. «Non mi importa affatto sapere che sono di quella donna, davvero non mi importa. In effetti», sorrise guardando dall’altra parte, un poco imbarazzata, «se volete sapere tutta la verità, mi fa molto piacere a tagliarli. L’ironia che vedo in tutto questo mi diverte molto. Pensate che queste sono le sue pantofole, e sono veramente molto grandi», e nel dire quelle parole vi infilò i piedi come dimostrazione. «Ma non posso fare a meno di ridere all’idea di calzarle. Pensate che sia un atteggiamento infantile?» Dapprima Devon ridacchiò, poi si mise a ridere di gusto. «No, penso che sia deliziosamente umano.»


Arrossì come se le avesse fatto un complimento raro. Le prese una mano. «Su, alzati, Lily, vediamo la tua opera. Se non ti sta, Mrs Howe si sarà presa l’ultima soddisfazione, dopo tutto.» Lo stupiva il fatto che lui stesso – loro stessi – potessero scherzare sulla ex governante. E gli faceva anche piacere, perché gli dava un’idea di quanto Lily fosse guarita, nella mente e nel corpo. La giovane si alzò, con la camicia da notte presa a prestito dalla ex governante che era tanto lunga da formare delle pieghe alle caviglie. Era accollata, senza pizzi e tutt’altro che trasparente. Ma, ciò nonostante, lei si sentiva a disagio dinanzi a lui, così completamente vestito. Sciocchezze; l’aveva vista con molto meno addosso, eppure... «Su, infila le braccia. Così.» Lily rimase immobile mentre Devon le infilava l’abito facendolo passare per le spalle e richiudeva gli alamari della parte anteriore. La cosa migliore che riuscì a dire era che le cadeva bene. Ma Lily era più che eccitata. «Oh, certo, davvero... In effetti, se posso dirlo, lo trovo perfetto.» E girò su se stessa dinanzi a lui, ridicolmente soddisfatta di sé. Tu, sei perfetta, pensò mentre le prendeva una mano e la accompagnava fuori della stanza con passo lento. «Clay mi ha detto che oggi è un’occasione speciale, e non solo perché è il primo giorno che esco. Sapete che cosa voleva dire?» «Oddio! La fa pesare molto, vedo.» «Che cosa?» «Continua a dire a tutti che oggi è il suo ultimo giorno di ‘libertà’. Domani inizierà a lavorare in miniera.» Si fermarono sulla sommità della scala. Lily sollevò un poco le gonne, sperando di non scivolare nelle ciabatte da camera. Ma prima che potesse fare il primo passo, Devon le passò un braccio attorno alle spalle e un altro sotto le ginocchia e la sollevò da terra. «Oh no, posso camminare, davvero. Sono perfettamente...» «Stai zitta. Non voglio più rischiare», disse in tono falsamente burbero. Ed era vero, anche se il motivo principale, e tuttavia inconfessabile, era il bisogno che provava di tenerla stretta. Aveva perso molto peso, ma il sentirla tra le braccia, il percepire quel corpo vivo e amico colmava una parte di lui, che mai, prima d’ora, si era reso conto di quanto fosse vuota. E mentre scendeva le scale e percorreva i corridoi della casa fredda e buia, nessuno dei due parlò, e una consapevolezza silenziosa sostituì l’abitudine che ormai avevano di canzonarsi spensieratamente. Devon si fermò di nuovo dinanzi alle porte-finestre che davano sull’ampio terrazzo ombroso. Lily respirava leggermente, tenendogli le mani strette intorno alla spalla, osservando il pulsare costante del collo. Se avesse voltato un poco il capo, le labbra si sarebbero toccate. Il profumo delle rose era lieve e incantevole, portato dalla brezza, il mare faceva da sottofondo con un sussurro leggero, pettegolo. E quel silenzio colmo di significato continuava. Avrebbe potuto chiedergli perché erano fermi lì, Lily pensò distrattamente; ma lo sapeva, e chiederglielo avrebbe significato rompere quell’incantesimo. E più di ogni altra cosa voleva poggiargli il capo sulla spalla e premergli le labbra sulla gola. Oppure mordicchiargli il lobo dell’orecchio. I secondi passavano pigri, fino a quando Lily mormorò: «Devo essere pesante».


Ma Devon l’avrebbe voluta tenere tra le braccia per tutto il giorno, per tutta la notte. Per sempre. «Sei leggera come una piuma», rispose. Un paragone più che banale. «O come un fiore delicato», cercò di migliorarsi con tono capriccioso, osservando la deliziosa bocca femminea. «Un giglio lungo e grazioso, bianco come la tua pelle. Un giglio come il tuo nome... Lily, giglio...» Un sospiro lieve fu l’unica risposta che fu in grado di dargli. Si inumidì le labbra con la punta della lingua e sentì che il torace dell’uomo iniziava a sollevarsi e abbassarsi contro il suo seno con un ritmo diverso. Il desiderio di baciarlo era come vino in un bicchiere alto e stretto, colmo fino all’orlo, pronto a traboccare. Mormorò: «Dev», con un sussurro roco, e chiuse gli occhi. «Beh, venite o no?» si sentì la voce di Clay provenire da dietro la grata sottile di edera e clematidi che entrambi pensavano potesse ripararli dalla vista degli altri. «Che cosa vi sta trattenendo? Lily sta bene?» Devon si limitò a sbuffare, esprimendo alla perfezione il senso di frustrazione che Lily stava provando in quel momento, e uscì dal basso porticato ritrovandosi sul sentiero lastricato. «Oh, finalmente. Ero sul punto di venirvi a prendere.» Con un sospiro comicamente esagerato, Clay posò sul tavolo il bicchiere di limonata, chiuse il giornale, spostò i piedi dal bordo del tavolino di ferro battuto e si alzò. «Sì, vedo che eri roso dalla preoccupazione», Devon osservò. Appoggiò delicatamente Lily al suolo e prese una sedia per farla accomodare. Non si guardarono, ma entrambi avevano stampato sul volto il medesimo sorriso segreto, lieve. «Lily, sei meravigliosa», disse Clay con galanteria. «Rosata e sana, con le guance colorite.» «Grazie.» Non faceva alcuna fatica a immaginare quanto dovessero sembrare rosate le sue guance. «Ma non posso dire che quel vestito mi piaccia. Senza offesa, trovo che non rende giustizia alla tua bellezza.» «Me l’hanno già detto.» Inspirò profondamente: «Oh, si sta benissimo qua fuori. Che giornata meravigliosa». «Vero? Sai, il mio ultimo giorno. D’ora in poi solo pozzi neri e gocciolanti, una candela in testa, e dovrò scavare gallerie come una talpa.» Devon sollevò gli occhi al cielo. «Clay continua con questa idea ridicola che andrà a lavorare in miniera», spiegò a Lily. «In questo modo, crede di guadagnarci in simpatia.» «Capisco.» Lily sorrise a Clay e gli chiese: «Perché vi mettete a lavorare se la cosa non vi va?» «Diamoci tutti del tu, Lily, va bene? Perché non riuscirei a sopportare un altro giorno le lamentele di Devon», rispose prontamente. Sollevò il bicchiere. «Brindiamo al mio ultimo pomeriggio sulla superficie della terra», propose in tono drammatico. Devon ridacchiò e si versò dalla caraffa un bicchiere di limonata. Poi spinse qualcosa che era sotto un tovagliolo verso Lily, tenendo le sopracciglia inarcate nell’attesa di una sua reazione. «Oh no», piagnucolò la giovane, quando vide cosa c’era sotto il tovagliolo. «Oh,


non è giusto!» Si trattava del «tonico» prescrittole dal dottor Marsh, un liquido giallastro e vischioso più cattivo di qualsiasi cosa avesse mai ideato Cabby Dartaway, e doveva berne un bicchiere al giorno. «Lo fai apposta per vendicarti di me, Devon, e non penso che sia carino da parte tua.» Lui spalancò gli occhi fingendo sorpresa e si portò una mano sul cuore. «Ma come puoi dire una cosa così bieca e meschina, Lily? Davvero, sono profondamente offeso.» Lei ridacchiò per quella finta sceneggiata; non l’aveva mai visto così giocoso. «Ah, mi viene in mente una cosa. Cambio il brindisi, se possibile.» La voce di Clay, una volta tanto veramente seria, attrasse subito la loro attenzione. «Non ti ho mai ringraziata, Lily, per esserti presa cura di Dev quando è stato ferito. È stata tutta colpa mia; sono io che l’ho messo in quel casino. E sarebbe potuto finire in una tragedia, se non ci fossi stata tu.» Sollevò di nuovo il bicchiere. «A te, Lily. Con gratitudine e amicizia.» «Giusto, giusto...» Devon si associò pacatamente. I due fratelli bevvero mentre Lily teneva gli occhi fissi alle mani. Mormorò qualcosa a voce così bassa da non poter essere udita, continuando a rigirare tra le dita il bicchiere posato sul tavolo. «Devi ancora berlo», le fece notare Devon, e tutti risero, un poco imbarazzati. «E va bene.» Strizzò gli occhi e deglutì il liquido in quattro sorsate, rabbrividendo ogni volta ed emettendo suoni esagerati di disgusto. «Brava ragazza!» le disse Devon con calore. Gli occhi di Lily si colmarono di lacrime, ma gli sorrise di sommo piacere, commovendosi ancora una volta come se quello fosse stato il complimento più bello della sua vita. Clay guardava alternativamente l’uno e l’altra, affascinato. «Bene. Così domani inizierai un nuovo lavoro.» Una nuova vita, Lily avrebbe dovuto dire. Trovava infatti alquanto strano che nessuno di loro avesse mai fatto una chiara allusione a ciò che era stato il «lavoro» di Clay immediatamente prima di questo. Tutti ne erano stati in un modo o nell’altro colpiti, eppure, per una buona educazione, si evitava loro di menzionarlo. «Allora diventerai l’assistente di Mr Morgan?» Era una domanda innocente, e così l’espressione fredda e rabbuiata di Clay la confuse. Avrebbe tanto voluto mordersi la lingua. «Sì.» Quel monosillabo era carico di un qualche significato profondo che non riusciva a discernere. Guardò Devon perplessa. «Solo all’inizio», intervenne questi. «Clay scoprirà se gli piace svolgere un onesto lavoro, di giorno. Poi... troveremo la giusta soluzione.» Lily aveva l’impressione di essersi infilata in acque profonde che non la riguardavano. Per un lunghissimo istante colmo di tensione si concentrò ancora una volta sul bicchiere. Quando nessuno parlò, lei disse: «Posso avere della limonata, per favore?» e Clay prese subito la caraffa, con una chiara espressione di sollievo sul volto. Devon disse una banalità, la conversazione assunse carattere generale e in brevissimo tempo si sentirono tutti a proprio agio. Lily si beava del delizioso, per lei insolito, sentimento di essere accettata. L’affetto tra Devon e il fratello era palese, e l’essere accolta nei loro scambi di battute la rendeva più felice di quanto non lo fosse


mai stata da molto tempo. Le piaceva osservarli mentre ridevano e scherzavano tra loro, percependo un legame che andava ben al di là del grado di parentela. Si sentiva quasi gelosa dei sorrisi che Clay riusciva a strappare a Devon con tanta semplicità, ma la sua invidia non era nulla a paragone del piacere che provava nel vederlo così di buonumore. Non aveva mai pensato che la sua presenza c’entrasse qualcosa, e nemmeno che Clay fosse tanto sorpreso e affascinato quanto lei dall’umore del fratello. «Scusatemi, buon pomeriggio a tutti.» Devon sollevò lo sguardo e vide dinanzi a sé l’amministratore delle sue terre, che rimaneva a una distanza rispettosa, tormentandosi tra le mani la falda dell’ampio cappello nero. «Arthur», lo salutò Devon, annuendo. «Hai bisogno di me?» «Sì, per così dire.» Devon si alzò immediatamente e si diresse verso Cobb. I due uomini si scambiarono poche parole, poi il padrone di Darkstone ritornò al tavolo. «Debbo andare a vedere il cottage di Robert Slopes. Cobb ha detto che la moglie ha cercato di bruciarlo la notte scorsa.» Fissò con aria impassibile il fratello, il cui primo impulso era stato quello di ridere, e Lily comprese in quel momento una delle differenze tra i due. Se Clay fosse stato il primogenito, si chiese casualmente, sarebbe stato più responsabile? Oppure era una distinzione di carattere e natura, più che di ordine di nascita? «Prenditi cura di Lily», Devon disse al fratello, con un sorriso che comunque non sminuì la serietà di quell’ordine. «Non farla stancare troppo. Tornerò tra qualche ora.» Quando Devon si volse a salutarla, sentì dentro di sé come un volo di farfalle, insolito e leggiadro. Lily lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava, ammirando il passo lungo e il movimento morbido e sciolto delle ampie spalle, fino a quando lui e Cobb non furono più visibili. Sentì su di sé lo sguardo attento di Clay e si volse per guardarlo, poi girò il volto dall’altra parte per nascondere il rossore. L’espressione del suo viso era fin troppo eloquente, si disse. E chissà cosa stava pensando di lei, la stessa ragazza che un giorno aveva visto in cuffia e grembiule portargli la colazione su un vassoio. Ora che era... che cosa? La compagna coccolata e protetta di suo fratello. La 'compagna', 'l’amante'? Nemmeno lei avrebbe saputo definirsi. Clay doveva essere molto sorpreso dalla piega che avevano preso gli eventi, si disse, sebbene dubitava che fosse più sorpreso di se stessa. Vide che la stava ancora guardando, con un’espressione chiaramente divertita, e buttò fuori la prima cosa che le venne in mente. «In che modo Mr Cobb ha perso una mano?» Clay la guardò sorpreso, ma rispose in modo abbastanza pronto. «È successo molto tempo fa, quando aveva quattordici anni. Il padre di Cobb era l’amministratore di mio padre. Siamo cresciuti qui, assieme, a Darkstone, giocando come fratelli. Quando avevo quattro anni, io, Dev e Cobb stavamo giocando dove non avremmo dovuto, in una miniera abbandonata all’interno di questa proprietà. Da allora, è stata distrutta, ma all’epoca c’era un passaggio che portava nel pozzo principale, se eri abbastanza piccolo e abbastanza curioso. E noi lo eravamo.» «Che cosa accadde?»


«Non ricordo molto bene, ma in qualche modo riuscii a infilarmi in un lungo spazio stretto dove si poteva solo strisciare, sopra il tetto di assi di legno semimarcito. Poi, per qualche motivo, mi venne paura all’idea di uscire. Dev strisciò per venirmi a prendere, e il puntello crollò. Rimanemmo intrappolati. «Ma quanti anni aveva Devon?» «Dieci. E allora Cobb entrò in quello spazio e in qualche modo riuscì a sollevare con le spalle il tetto rotto, creando così un varco per uscire. Ma, all’ultimo istante, tutto cadde sopra di lui e Cobb si ruppe il braccio in più punti. Così dovettero amputargli la mano.» «Che cosa orribile», sussurrò Lily, immaginandosi la scena. «Immagino che ti sarai sentito... terribilmente...», poi si interruppe, confusa. «In colpa? Sì, immagino di sì, ma ero molto piccolo. Devon è l’unico che ha sofferto veramente.» Sì, pensò Lily, non ne dubito. Anche se aveva solo dieci anni, si sarà sicuramente assunto tutto il peso della responsabilità per il tragico incidente di Cobb. «Dev è sempre stato il più serio dei due», continuò Clay come se le leggesse nel pensiero. «Anche da piccolo era serio e posato, proprio come mio padre. Sentiva le cose in modo molto più profondo rispetto agli altri, o», si corresse, ridendo, «a me. E qualche volta questo l’ha reso infelice.» «Capisco.» Ma non era vero, non proprio, e la sua reticenza naturale le evitò di porre altre domande. «Sai la storia della moglie di Dev?» Lily trasalì. Ma possibile che il suo volto fosse così trasparente? «No... io, cioè, ho sentito dire che è morta.» «Sì, è morta. Si chiamava Maura.» Clay appoggiò i piedi nudi impolverati sulla sedia che Devon aveva lasciata libera e incrociò le braccia al petto. Non indossava né giacca né panciotto, e aveva arrotolate le maniche della camicia fino al gomito. Pareva completamente rilassato, la classica immagine del signorotto di campagna indolente, ma le labbra erano tese e c’era una nuova espressione seria nei begli occhi azzurri. «Devon si innamorò di lei a ventitré anni. Era per metà irlandese, per metà francese. Capelli neri, pelle bianchissima. Molto bella. Era la figlia maggiore dell’istitutrice di mia sorella. È quasi inutile dirlo, ma non era una relazione ben assortita.» «No», rispose Lily con voce ferma. «No, certo, lo capisco.» «Avevano una relazione clandestina. Ma a Dev non andava bene così. Non so se fosse passione o senso dell’onore, ma decise di sposarla. Puoi immaginare le reazioni in famiglia.» «Saranno rimasti... scioccati.» «Inorriditi. Mio padre minacciò di diseredarlo, tutti erano contrari alla sua scelta, anche dopo che Dev scoprì che la ragazza era incinta e lo disse a tutti noi. Ma era deciso e nulla avrebbe potuto fermarlo. Disse ai miei che doveva sposare la madre di suo figlio, e che a lui non importava nulla se era una domestica.» Prese il bicchiere e bevve un sorso di limonata. Lily era rimasta perfettamente immobile, facendo delle pieghe nella gonna del vestito, in attesa.


«Così la sposò. Mio padre non lo diseredò, si era trattato solamente di una minaccia. Avrebbe potuto portarla a vivere qui, oppure nella casa di mia madre, nel Devonshire, e invece acquistò una fattoria nel Dorset con il suo denaro e si accinse ad imparare a fare l’agricoltore. Quella ragazza proveniva dal Dorset, e pensò che le avrebbe fatto piacere tornarvi.» Fece una smorfia e tacque nuovamente, come se soffrisse nel ricordare il resto della storia. «Clay, non sei costretto a dirmi tutto.» Scrollò il capo. «Non so come fosse la loro vita, Devon non ne ha mai voluto parlare. Il bimbo nacque, e lo chiamarono Edward, come mio padre, e otto mesi dopo Maura prese tutto il denaro che poté trovare in casa e scappò con uno degli uomini assunti da Dev. Per una qualche ragione che non riesco a spiegarmi, portarono il piccolo con sé.» «Mio Dio.» «Dev li seguì. Li cercò per settimane, e alla fine ritrovò il piccolo a Crewkerne. Morto di vaiolo nel cottage di una vecchia a cui Maura l’aveva lasciato, così che lei e il suo amante potessero spostarsi più velocemente. Poco dopo trovò anche loro, in una tomba per poveri di Weymouth. Aspettavano un’imbarcazione che li portasse in Francia, quando la malattia aveva ucciso anche loro.» Si alzò e raggiunse il bordo del terrazzo, fissando il blu profondo della Manica. Lily rimase immobile, premendo le dita alle labbra e ricacciando lacrime di dolore. Devon. Avrebbe voluto vederlo, stringerlo a sé. La storia terribile la colmò di dolore per lui e per quel piccolo morto appena pochi mesi dopo la nascita, ma anche di una furia fredda e omicida nei confronti della donna che si chiamava Maura. Ogni tanto aveva pensato a lei, ma solo a lei come moglie di Devon; non era mai stata tanto presente nella mente di Lily da procurarle più di un occasionale moto di curiosità. Ora, invece la delineava alla perfezione, con i capelli neri e la pelle bianca, con il cuore corrotto e traditore. Maura. Ne odiò persino il nome e provò l’impulso irrazionale di farle del male. Quando riuscì a riprendersi un poco, si alzò e raggiunse Clay toccandogli un braccio; il giovane si voltò, fissandola. Lily immaginò che l’aria triste e cupa sul volto di lui riflettesse la propria. «Grazie d’avermelo detto.» «Non so nemmeno io perché l’ho fatto», rispose con un barlume del suo abituale sorriso negli occhi. «Forse perché Dev mi sembra molto felice in questi giorni.» Scrollò il capo. «Se pensi che dipenda anche da me, ti sbagli veramente. Ma io... io gli voglio bene e ti sono grata per quello che mi hai detto. Lui... lui non l’avrebbe fatto mai.» Rimasero fianco a fianco, fissando l’alta marea in continuo movimento, ognuno chiuso nei propri pensieri. «Tornò in Cornovaglia», Clay riprese dopo un lungo istante, «e visse qui come un pazzo recluso per circa un anno. Nessuno di noi poteva aiutarlo, era letteralmente intoccabile. L’unico conforto che poté trovare fu nell’alcool. E quello fu il periodo peggiore...», ammise, volgendosi verso di lei. «Eravamo così amici prima, mentre in quel periodo non voleva nemmeno più parlarmi. Mi mancava moltissimo», soggiunse semplicemente. «Poi mio padre morì. Potrebbe sembrare ironico, ma fu la scossa che permise a Devon di iniziare a guarire. Alla fine fu in grado di riprendersi e di guardare gli altri. Il suo mondo era ammantato di nero, ma aveva appreso che vi poteva anche


sopravvivere, così riuscì a darci conforto. Specialmente a mia madre, che era veramente distrutta. Dopo di che, si ributtò nella gestione di Darkstone. Non per denaro, ovviamente, avrebbe potuto vivere come un re per il resto dei suoi giorni senza alzare un dito. Ma aveva bisogno di lavorare, anche della routine, immagino, per ritrovare un suo equilibrio.» La guardò di nuovo, questa volta con un bel sorriso. «Non è ancora tornato il fratello con cui sono cresciuto, ma è veramente migliorato rispetto a cinque anni fa. E tu sei padronissima di pensare quello che vuoi, Miss Lily Troublefield, ma parte di questo miglioramento è merito tuo.» Parole semplici, pronunciate con tono lieve. Clay non poteva avere idea di che effetto facessero su Lily. Volse il volto di lato, temendo ancora che potesse leggervi troppo. Il pensiero di significare qualcosa per Devon, la possibilità che potesse essere interessato a lei... No, non poteva essere. Nel suo cuore lo sapeva bene. Clay era gentile, ma troppo ingenuo. L’interesse di Devon nei suoi confronti era sempre stato limitato e interessato a una cosa sola. Ma almeno, avendo ascoltato il racconto di Clay, riusciva a capire meglio il perché, o meglio cosa ci fosse in lui che non gli permetteva di vederla, o forse di vedere qualsiasi donna, se non come compagna di letto, e per di più per breve tempo. Qualcuno a cui dare del denaro la mattina seguente – o forse, se se lo fosse davvero meritato, a fine mese. «Anche tu puoi credere quello che vuoi», rispose cercando di imitare la spensieratezza di Clay anche nel tono di voce. «Ma quello che Devon prova per me è un misto molto piacevole di gratitudine e senso di colpa. La qual cosa è stupenda, è un momento che una cameriera intelligente sarebbe sciocca a lasciarsi sfuggire, non pensi? E allora, se giocherò bene tutte le mie carte, potrei anche convincerlo ad acquistarmi un vestito nuovo. Quindi non dovrei più sentire commenti calunniosi e poco gentili su questo che indosso.» «Tu non sei una cameriera.» Si sentì raggelare il sorriso, e il cuore balzarle in gola. Non poteva sapere la verità, non poteva. «Vorrei tanto che fosse vero», rispose, sperando che la voce avesse il giusto tono di ardente desiderio. «Sei una giovane signora incappata in un periodo duro della propria vita. Dubito che Dev potrebbe essere più felice con una contessa.» Troppo veloci per poterle ricacciare, le lacrime le sgorgarono dagli occhi e le bagnarono le guance. Si disse che era stata la malattia a renderla così sensibile in quel periodo. Ma la dolcezza di Clay le aveva fatto abbassare la guardia. Il giovane rise dolcemente e le terse le lacrime, poi le prese una mano e la guidò verso casa. «Troppe emozioni per oggi, Miss Lily. Rimarrai a letto per il resto del pomeriggio.» «Oh, ma...» «Non voglio discussioni. Voglio invece che tu sia in perfetta forma per sabato.» «Sabato?» «La tua prima vera uscita. Vendo lo Spider, Dev non te l’ha detto? La mia imbarcazione. Vorrei che la vedessi prima che... Vorrei che mi dessi una mano a salutare lei e il resto. È a Fowey, sotto Lotswithiel. Che ne dici?» «Ma, non so... Verrà anche Devon?»


«Ma certo. Non si fiderebbe mai di lasciarti sola con me.» «Che sciocco», lo riprese con un sorriso. «Sì, vengo volentieri.»

Capitolo diciassettesimo Lily si svegliò improvvisamente alle grida alte e lamentose di alcuni occhioni, e per alcuni secondi non riuscì a ricordare dove fosse. Un passo pesante sopra la testa la confuse ancora di più. Ma poi udì il tonfo dell’acqua e notò il delicato rollare del letto di piuma su cui era sdraiata, e la memoria, lentamente, tornò. Era a bordo dello Spider, e stava facendo un sonnellino nella cabina del capitano. Era proprio una bella cabina. Non lussuosa – anche perché troppo piccola e ordinata per esserlo – ma incredibilmente confortevole pur avendo uno stile maschile e privo di fronzoli, tanto da sorprenderla. Il «giovane padrone», nonostante tutta la gentilezza che dimostrava nei suoi confronti e il grande fascino, era un uomo che Lily non sarebbe mai riuscita a prendere troppo seriamente. Ma ora che era sulla sua imbarcazione, e ascoltava il suo commento energico, ricco di informazioni e molto completo, sulle innumerevoli caratteristiche dello sloop, era pronta a rivedere la propria opinione. Clayton Darkwell poteva anche essere libero da preoccupazioni, irresponsabile e immaturo, il classico figlio minore, insomma, ma su navi e navigazione era veramente un esperto, senza alcuna ombra di dubbio. Aveva anche l’abitudine da fanatico di pensare che tutti gli altri dovessero condividere la sua ossessione. «So a cosa stai pensando», aveva detto a Lily trenta secondi dopo che era scesa dalla carrozza dei Darkwell e stava ammirando lo Spider all’ancora, in un pittoresco estuario fluviale. «Per le sue dimensioni è molto equipaggiato, ma è proprio quello che lo fa andare così veloce! Oltre alla vela di randa, ha anche due controrande quadrate, fissate a quel braccio laggiù in basso sull’albero principale, un grosso fiocco e un controfiocco. Ecco perché ha bisogno di quei grossi paterazzi, per prendere la tensione di guida. Ed ecco perché è fatto a fasciame cucito, che è molto più resistente di quello semplice. Ma su, saliamo a bordo.» Lily e Devon si erano scambiati sguardi divertiti prima di seguirlo lungo il sentiero polveroso e serpeggiante che portava alla riva. Clay aveva fischiato, e una testa si era affacciata dal parapetto superiore dello sloop. Un uomo aveva salutato con un braccio, e ben presto una piccola barca a un solo albero che Clay aveva definito un 'trabiccolo' era andata verso di loro guidata dall’uomo che aveva salutato dal ponte. Alcuni minuti dopo, si erano trovati tutti a bordo dello Spider. L’uomo si chiamava Wiley Falk, il primo aiutante di Clay, e aveva seguito le 'riparazioni' allo sloop nelle ultime due settimane. Quando Lily aveva chiesto con aria innocente che tipo di riparazioni, Clay si era limitato ad ammiccare. Devon invece aveva assunto un’espressione fintamente addolorata e aveva risposto per lui: «Hanno dovuto sistemare delle cosucce come un finto fondo e un albero di bompresso di trenta piedi. Si è pensato che un potenziale acquirente avrebbe potuto trovare tali amenità un poco strane. Per non dire illegali.» Durante il giro illustrativo che era seguito, Lily aveva appreso tutto sulle


dimensioni dell’imbarcazione (lunghezza cinquantadue piedi, larghezza ventidue), velocità massima (nove nodi e mezzo), tonnellaggio (sessanta, senza contare la merce di contrabbando), e artiglieria (venti cannoni da otto libbre, venti cannoni girevoli, una carronata). Lily si era stancata moltissimo in poco tempo, e Devon, che lo aveva notato prima di lei, aveva insistito affinché andasse a coricarsi per un po’ nella cabina di Clay. Si chiese per quanto avesse dormito. Si sentiva benissimo, ma che ore potevano essere? Attraverso il minuscolo oblò alto sulla parete – come l’aveva chiamato Clay? Oblò? Paratia? Divisione? - il cielo era di un color rosa tenue, senza una nuvola. Si stiracchiò con molta attenzione, perché le costole non erano guarite del tutto, e i movimenti improvvisi potevano ancora causarle un dolore acuto, e si sedette. Che letto comodo! Completamente diverso da quello che si era aspettata su una barca così spartana. Le passò per la mente il pensiero che molto probabilmente il capitano dello Spider intrattenesse delle signore nella cabina, e anche nella cuccetta. Udì un lieve bussare alla porta – il portello o il tambucio? Forse solo la «porta». Dopo il sonnellino, pareva essersi dimenticata tutta la terminologia nautica appena appresa. «Avanti!» Era Devon. Sebbene fosse ancora perfettamente vestita, tranne che per le scarpe, un impulso la costrinse a tirarsi il lenzuolo di mussola morbida fino alle spalle e a passarsi una mano imbarazzata sui capelli scomposti. Ma, al contempo, l’immagine di lui le provocò un’ondata di gioia profonda, e lo salutò con un sorriso dolce, di benvenuto. Era vestito in modo più sportivo, quel giorno, con una giacca blu di tessuto pesante e pantaloni di daino, e pensò che non l’aveva mai visto così bello. Dovette chinare un poco la testa per entrare nella cabina e, una volta dentro, l’ampiezza del suo corpo robusto fece sembrare il locale ancora più piccolo. Teneva sotto il braccio un grosso pacco incartato. «Salve», disse Lily un poco timidamente, vedendo il modo in cui lui la guardava. «Mi sono appena svegliata.» «Lo vedo. Hai dormito bene?» «Benissimo, grazie. Che ore sono?» «Circa le sei, penso.» «Le sei! Mio Dio, immagino che tu e Clay avreste già voluto essere a casa a quest’ora. Perché non mi hai svegliata?» «Non ce n’era bisogno. Abbiamo deciso di fermarci.» «Fermarci?» «Per questa notte, e partire domani mattina. Clay stasera ha organizzato una cena di addio, sul ponte. Non ti spiace, vero? Pensavamo che tornare a casa in giornata avrebbe potuto stancarti troppo.» «Oh no, davvero, io...» «E inoltre, vuole fermarsi. Dice che è l’ultima notte sullo Spidere che vuole avere con sé anche i suoi amici.» «Oh.» Il fatto che Clay la considerasse sua amica l’aveva commossa in modo inaspettato. «Allora vorrei tanto rimanere.» «Bene.» Le si avvicinò. «Questo è per te, Lily. Per questa sera», disse deponendo sulla cuccetta il pacco. «Che cos’è?» «Lo vedrai.» Aveva un’aria misteriosa, e anche soddisfatta di sé. Lily passò un dito


sul nastro e gli sorrise. Era il primo regalo che le faceva. «Grazie...» «Ma figurati. Se hai bisogno di più luce, qui ci sono delle candele.» Raggiunse poi la porta. «Mr Falk, non so come – e faremmo meglio a non chiederlo – ha preparato uno spuntino, ed è tutto pronto. Clay mi ha detto di dirti di fare in fretta perché sta morendo di fame.» Lily rise. «Vi raggiungerò tra due minuti.» Lo sguardo di Devon prese ancora quell’aria misteriosa. «Beh, penso un po’ di più, forse», soggiunse prima di uscire. «Le è piaciuto?» «Non so, sono uscito prima che aprisse il pacco.» Clay passò al fratello un bicchiere di rum e succo di limone e si appoggiò all’albero principale per ammirare il tramonto. «Al rum e alla seta francese contrabbandati», disse con un sorriso. Devon lo fissò con attenzione. «Alla fine del rum e della seta francese contrabbandati. Era questo che volevi dire, ne sono sicuro.» «Ma certo», lo rassicurò Clay, con gli occhi che ridevano. Bevvero senza più parlare. C’era bassa marea; beccacce di mare scendevano in un baluginio di bianco e nero per trovare cibo tra le rive fangose lungo la costa. In lontananza, un airone si mise a passeggiare con fare altezzoso, poi si distese a covare, il capo nascosto tra le piume. Ma pur tenendo lo sguardo fisso sulle dolci colline ricoperte di alberi, Devon non le vedeva. Stava aspettando solo una cosa: di vedere Lily col nuovo abito rosa pallido fatto con la seta più bella, molto scollato e dalle maniche lunghe, con un delicato merletto di Bruxelles a bordare tutti gli strati delle ricche gonne. Avrebbe portato i capelli sciolti? In quel caso, avrebbe sminuito sicuramente quel tramonto rosso fuoco. Avrebbe voluto anche regalarle delle scarpine delicate ed eleganti, con piccoli tacchetti rotondi. E gioielli. Giada e ametista, zaffiri e smeraldi e acquamarine. Doveva essere deliziosa anche con dei diamanti, portati intorno al collo e al polso sottile. La vedeva anche con orecchini d’oro e anelli d’argento sulle lunghe dita. E perle, inserite nei riccioli morbidi dei suoi bellissimi capelli. Udì il suo passo sulla scala. Volse la schiena a Clay nel bel mezzo di una frase e si diresse verso di lei per offrirle la mano. Sopra la scala interna comparvero il capo e le spalle. Il sorriso di attesa che aveva stampato in volto vacillò e poi scomparve; si fermò a metà strada. Lily indossava ancora il suo solito abito di cotone grigio. Si rimise le mani in tasca e la fissò, senza parlare. Era arrabbiato, lo si vedeva negli occhi. Ma stava cercando di non farlo notare. Clay si avvicinò prontamente a Lily e le offrì una mano, aiutandola a salire sul ponte. Lei si limitò a risposte dolci e prive di significato al mare di chiacchiere troppo animate con cui Clay la avvolse, mentre sorseggiava del vino di Madera. Non smetteva di fissare Devon. Dopo alcuni minuti, Devon iniziò a rilassarsi e tentò di unirsi alla conversazione. Con coraggio, lei gli si avvicinò, mentre Clay diceva qualcosa riguardo la barca. Devon la guardò direttamente negli occhi per la prima volta, e lei prese al volo l’opportunità di inviargli un sorriso di scuse, sperando che capisse. Il suo sguardo grigio-blu si addolcì mentre lei lo guardava, facendole battere ancor più il cuore che sentiva lieve come una piuma. Resistette al desiderio di


prendergli una mano o di passargli le dita sulla linea ferma della mascella, ma sopra l’orlo del bicchiere gli dedicò uno sguardo fervente che diceva Grazie. Il fiume era calmo e l’aria dolce e tiepida. Il sole si profuse in un’ultima, spettacolare lama di luce sull’acqua e scomparve dietro una cortina di nuvole basse. Il cielo stava mutando da color oro a ruggine, e un gufo lanciò il proprio richiamo dalla pineta che si stendeva al di là della baia tranquilla. Clay accese una lanterna, poi, sempre chiacchierando allegro, dispose sul fondo piatto di una lancia capovolta la loro cena a base di torta di salsiccia e pudding. Mangiarono seduti su scatole di legno. La conversazione era animata e molto varia. Iniziò con l’asserzione provocatoria e, secondo quanto Lily intuì vedendo l’espressione di Devon, alquanto ripetitiva che il 'libero scambio', come lui continuava a chiamarlo, nasceva da un desiderio fondamentale dell’uomo di andare contro la legge, e che persino l’uomo più onesto avrebbe provato un brivido di eccitazione nel riuscirvi. Queste sue frasi portarono a una discussione accesa sulle implicazioni morali ed economiche del commercio illegale. Clay sosteneva che sino a quando quel dannato governo avrebbe continuato a dichiarare più di un migliaio di articoli importati come merce da sottoporre a dazio, i cittadini avrebbero continuato tranquillamente, e sentendosi la coscienza a posto, a contrabbandare tè, sale, brandy, seta... persino carte da gioco, sfruttando ogni opportunità. Devon rispose in modo altrettanto appassionato che il contrabbando era una minaccia per l’economia del paese; il rimedio, sosteneva, era di abbassare le tariffe di liquori, saponi e tutto il resto. Nel frattempo, le persone responsabili avrebbero fatto meglio ad agire all’interno delle regole della costituzione che, oltre tutto, dava loro più libertà di qualsiasi altro governo al mondo, e lavorare con metodi legali per smantellare un sistema arcaico fatto di dazi, balzelli e tasse. Ai piedi dei due gentiluomini c’era una bottiglia mezza piena di cognac Marmande, le cui origini non vennero sondate da nessuno. La veemenza delle convinzioni di Clay aumentava in modo direttamente proporzionale alla quantità di cognac ingerito. Il governo che Devon difendeva divenne materia di scherno. Derideva la saggezza popolare secondo cui i poveri avrebbero dovuto risparmiare di più, che era solo colpa loro se non riuscivano a vivere con i propri mezzi. Gli uomini grassi e gottosi che sedevano in Parlamento erano abbastanza ipocriti da suggerire che il problema era la dissolutezza, non la povertà. E che volevano riformare i poveri attraverso l’educazione – specialmente con le scuole domenicali, notò con una risatina di scherno, così da non interferire con la produttività degli altri sei giorni. Devon rispose che Clay aveva ragione, ma che il modo di cambiare le cose era di dare lavoro ai poveri – nelle miniere di rame, tanto per fare un esempio – e non facendo la carità con i proventi illegali del libero scambio. Lily ascoltava, affascinata, anche perché non aveva mai seguito discussioni di politica da parte di due uomini che avevano effettivamente la possibilità di mutare le cose, di influenzare gli affari di stato. Suo padre era stato un liberale più di nome che di fatto, soltanto perché si fidava ancora meno dei conservatori. Lily rimaneva seduta tranquilla, partecipando poco alla discussione, e tuttavia, per un motivo sconosciuto anche a lei, non si sentiva esclusa. Era sicura che i due uomini fossero consapevoli della sua presenza, indipendentemente da quanto fosse accesa la discussione. Era anche convinta che le loro posizioni fossero più vicine di quanto fingessero, e che


scegliessero idee contrastanti soprattutto perché si divertivano a discutere. Le doleva un poco la schiena. Quando la conversazione si spostò sulle manchevolezze fisiche, morali e mentali della famiglia reale, mormorò una scusa e andò a guardare la luna e le stelle che si specchiavano nel fiume da sopra l’albero di bompresso. Attraverso l’acqua, al di là delle rocce digradanti ricoperte di ginestre, udì il richiamo di un succiacapre, emesso con ritmici aumenti e diminuzioni di tono, per nulla irritante. Annuendo a quanto stava dicendo Clay, Devon la guardava. Lily era all’estremità del cerchio di luce gialla della lanterna, con lo sguardo rivolto verso l’alto, a guardare il cielo stellato. Era bella persino con quel brutto abito grigio, e lui l’aveva intuito subito, sin dal primo momento in cui l’aveva vista. Ma non aveva lasciato che la sua bellezza lo coinvolgesse ad altri livelli che quello fisico; per lo meno, era quello che le aveva voluto far credere. Che cosa era cambiato? Che ora lui la conosceva. Contro la propria volontà e, non aveva alcun dubbio, anche contro quella di lei, aveva iniziato a capirla. Oltre ad avere un bel volto, aveva appreso che aveva anche un cuore gentile e generoso. Non poteva più essere etichettata come donna di cui non fidarsi: troppe volte gli aveva dimostrato il contrario. E se lui continuava a resisterle, era solo per codardia. Inoltre, non aveva alcuna intenzione di sposarla. E oltre alle immediate conseguenze di una relazione, non avrebbe potuto perdere altro. Perché una cosa simile poteva accadere a un uomo soltanto una volta. E siccome gli era già capitato, si sentiva tranquillo. E lei era irresistibile. «Bene», disse Clay a voce piuttosto alta. «È ora che vada.» Lily si volse verso di lui, sorpresa. «Dove stai andando?» «Ho detto a Wiley che questa notte avremmo festeggiato.» «Ma...» «A Lostwithiel... c’è una kiddlywink dove io e la mia ciurma abbiamo trascorso molte ore felici.» «Una cosa?» «La locanda di un contrabbandiere», le spiegò Devon. «Oh.» Ma il fatto che Clay volesse andarsene l’aveva sorpresa. «Ma devi proprio andare?» Clay guardò il fratello con aria astuta. «Oh, certo che sì, sono settimane, ormai, che abbiamo organizzato il tutto. Il capitano e il suo compagno, che trascorrono la loro ultima notte da marinai spensierati.» Raggiunse il lato dell’imbarcazione verso il porto e con un salto agile balzò sulla scala di corda. «Buonanotte a tutti e due. La serata è stata un vero piacere, e vi ringrazio per averla passata con me. Ci vediamo domani mattina.» Il suo capo scomparve. Un momento dopo, udirono il cigolio dello scalmo e il tonfo del remo nell’acqua, poi fu tutto immerso nel silenzio. Evidentemente, voleva lasciarli soli, e la cosa era palese per Lily, come se lui l’avesse urlata. Ma anche Devon lo sapeva. Lei si appoggiò al parapetto, appoggiando le braccia sul bordo, e lo osservò mentre lentamente le si avvicinava. Ormai era così vicino che poteva vedere le pagliuzze turchesi negli occhi anche solo alla luce della luna. «Pensi davvero che riuscirà ad abbandonare tutto questo?» chiese con voce lenta, non molto ferma, facendo un movimento che comprendeva lo Spider, il fiume e il cielo. Ma Devon non aveva alcuna intenzione di parlare di Clay. «Non lo so. Perché non


hai messo il vestito, Lily?» La giovane cercò il suo volto per leggervi un accenno di rabbia, ma non ne vide. «E perché me l’hai dato?» ribatté a bassa voce. «Per farti sorridere.» E lei stava sorridendo. «Per alcun altro motivo?» Comprese perfettamente il significato di quella domanda, e rispose la pura verità. «Voglio prendermi cura di te.» «Davvero? E perché? Alcune settimane fa non volevi vedermi più. Mi hai offerto del denaro. Non volevi più saperne di me.» Devon si chiese se quelle parole la ferissero quanto ferivano lui. Ma non lo stava accusando; il suo tono era gentile e triste, non amaro. Ancora una volta le rispose la verità. «Non so cos’è cambiato.» Ma Lily pensava di saperlo: aveva definito quei nuovi sentimenti nei suoi confronti come un misto di gratitudine e senso di colpa. Ora sapeva che cosa gli era accaduto, e non era più così sconvolta dalla sua sfiducia, pur soffrendone ancora. «Mi stai chiedendo di essere la tua amante?» La sua sincerità lo sorprese, poi si sentì sollevato. «Sì.» «Rifiuto. Non ti darò mai il mio corpo in cambio di denaro, o vestiti eleganti o una casa dove vivere.» Cercando di non tremare, lo guardò negli occhi e gli appoggiò una mano furtiva sulla manica della giacca, per prendere coraggio. La sua voce, all’inizio forte, terminò in un sussurro: «Te lo darò per nulla». Non aveva programmato di dire una frase del genere, non aveva mai nemmeno saputo di pensarla. Ma lo amava, e quella consapevolezza le faceva male, perché con essa c’era anche la certezza che l’avrebbe ferita. In quel momento, comunque, non importava. Lo amava da molto ed era certa che l’avrebbe sempre amato. Devon non si mosse, non parlò. Lei si portò la sua mano inerte alle labbra e ne baciò le dita. Sapeva che l’uomo stava lottando contro la tendenza a non crederle, e provò un istante di disprezzo per quella donna che l’aveva tramutato in un essere così diffidente. «Dev», mormorò. «Il mio amore... è così semplice.» Lo abbracciò baciandogli le labbra. Rispose automaticamente a quell’abbraccio, ma era ancora incredulo. Si allontanò per poterla guardare, e la solenne dolcezza che brillava nei suoi occhi argentei lo rassicurò: era vero, tutto. La brezza spostò una ciocca dei suoi capelli sulla guancia di Devon, in una carezza seducente. Il desiderio crebbe in lui, doloroso e impietoso, ma la baciò con dolcezza. Le labbra di Lily, della stessa morbidezza della seta, si schiusero delicatamente, e quando lui vi passò la punta della lingua, lei rabbrividì. «Tesoro mio, hai freddo?» Sorrise tenendo gli occhi chiusi. «No, no, mi sento così...» e invece di cercare la parola esatta, si limitò a mormorare tutta la sua soddisfazione con un suono di gola, che proveniva dal cuore ed era ingenuamente sensuale. La stretta delle mani di Devon attorno alla sua vita aumentò. Seguì i contorni della sua bocca con l’indice, incantato dal suo sorriso dolce, privo di paura. Con la fronte contro quella di lei, tanto vicini che i loro nasi si toccavano, mormorò: «Ti desidero tanto, Lily... Mi duole tutto». Il tremore la prese di nuovo e si tenne stretta alle sue spalle, premendosi contro di


lui, sentendo crescere il ritmo delle proprie pulsazioni – o forse erano quelle di lui. Le mani dell’uomo, scivolando lungo i fianchi e le cosce di Lily, le fecero sollevare le braccia al collo di Devon. Si baciarono di nuovo, inspirando a fatica, sentendo i muscoli tendersi, tenendo le bocche aperte, affamate. «Andiamo lì», sussurrò lei. Tenendosi per mano, scesero la scala, ritrovandosi poi nel buio profondo della cabina di Clay. «Rimani qui», le disse Devon, lasciandola sulla soglia. Lily udì un rumore sordo e un’esclamazione di dolore; si attendeva una bestemmia, e invece dall’oscurità le giunse una risata. E quel suono la riscaldò fino alle ossa. Udì poi Devon strofinare pietra focaia e acciarino, e un momento dopo accese una candela. La depose sulla scrivania di Clay, ne accese un’altra con quella, e portò la seconda sul comodino. Lily si sentì fremere quando lo vide avvicinarsi a lei. Le prese le mani che teneva strette alla vita e le baciò, prima sul dorso, poi sulla palma. Le accarezzò con il pollice la parte sensibile del polpastrello di ogni dito, e quella sensazione fu così sorprendente che il ritmo del suo respiro mutò di colpo, si fece veloce. «Ti è piaciuto il vestito?» le sussurrò, sfiorandole con la punta della lingua il polso. Guardando al di sopra delle spalle, lo vide sdraiato sul letto dove l’aveva lasciato, perfettamente reincartato. «Oh, Dev, è veramente molto bello.» «Faceva parte dell’ultimo bottino di Clay. Gli ho detto che volevo qualcosa per te, e ha mandato Mr Falck a prenderlo in uno dei loro nascondigli. Ma, lo sai, forse ho sbagliato...» «Oh, no...» «...perché non ne hai bisogno. Non importa quello che indossi, con un vestito o l’altro, sei sempre la donna più bella che io abbia mai conosciuto.» Voleva piangere, ma si limitò a portare le mani sul volto di Devon, pensando invece che lui era bello. Gli passò il dorso delle dita sotto il mento, lungo la mascella, la gola robusta. Il desiderio che traspariva dal suo volto arrossato lo faceva apparire vulnerabile, per una volta tanto, e questo, la colmava di insopportabile tenerezza. Sentì che le scioglieva i capelli, che dopo un momento le ricaddero sulle spalle. Il sapere che non sarebbe mai riuscita a fermarlo, che gli avrebbe donato tutto, la rendeva debole e scoordinata nei movimenti. Si baciarono di nuovo, e lei premette il corpo contro quello di lui, facendogli scivolare le mani sotto la giacca per toccargli la schiena, le ampie spalle. Devon continuò a baciarla fino a quando le ginocchia di Lily tremarono irrefrenabilmente, e sentì solamente il puro piacere della seduzione. «D’altro canto», mormorò lui; poi si baciarono di nuovo. Devo avere perso qualche cosa, pensò Lily; che cosa aveva detto prima di quelle parole? Mormorò: «Hmmmm?» e poi aprì nuovamente la bocca così che potesse riprendere a baciarla. Un altro silenzio prolungato. «D’altro canto», ripeté. «Sei più bella senza nulla addosso. Parlando per esperienza.» Sospirò e si staccò da lui. Sorridendo rapita, rimase ferma mentre lui le slacciava il vestito e lo faceva scendere dalle spalle, poi fu la volta della camicia, e ben presto i seni furono nudi. La carezza del suo sguardo fu più efficace di una carezza con la mano: sentì i capezzoli irrigidirsi prima ancora che lui li toccasse. Ma poi lo fece, e un fremito elettrico si diffuse in tutto il suo corpo, facendole tremare ancora una volta


le ginocchia. «Anche tu», mormorò mentre gli sbottonava la camicia. «Parlando per esperienza.» In men che non si dica si ritrovarono nudi. Devon spostò una mano dietro di lei per chiudere la porta, e la parte ancora vigile del suo cervello fu alquanto divertita, poiché il silenzio a bordo dello Spider era totale, interrotto solamente da sospiri soffocati e sussurri teneri, a testimonianza del fatto che fossero completamente da soli. Ma quando la prese delicatamente per le spalle e la spostò in modo che la sua schiena premesse contro la porta, Lily comprese che il vero scopo di quel gesto non era la privacy. Devon le passò le mani su e giù per il corpo, accarezzandole il ventre, fermandosi per ammirare i seni e poi sollevandoli per baciarne la pelle serica. Il lieve suono di piacere che Lily emise fu la sua ricompensa. Si chinò per premere le labbra contro il punto ancora sensibile dove era stata colpita, sotto il seno destro, e dove la pelle aveva ancora un colore lievemente diverso. «Ti fa ancora male qui, vero?» «Oh no, quasi più, davvero.» Il pensiero che potessero anche non finire quello che avevano già iniziato a causa di quel dolore la mise in ansia. «E invece un poco sì», disse lui, raddrizzandosi. «Dovremo fare particolare attenzione.» «Oh sì», disse lei, sollevata. «Facciamo attenzione.» Lily fece scivolare le mani dalla vita di Devon alle natiche nude, osservando i suoi occhi che divenivano più scuri e ardenti. Il pulsare caldo, vivo, contro il suo ventre le disse che ormai erano entrambi perduti, e che le conseguenze non avevano più alcun significato. «Apri le gambe, Lily», le sussurrò, premendole la bocca sulla gola e le spalle, e lei obbedì. Sussultò leggermente al primo tocco morbido delle sue dita. Poi Devon le tirò indietro la testa prendendole una manciata di capelli e coprendole la bocca con la propria. La sua profonda carezza la fece gemere penosamente. L’uomo iniziò un lento ritmo di penetrazione alternando dita e lingua, e ben presto lei si ritrovò a respirare affannosamente, incapace di prender fiato. Si sentì pervasa da una gioia fortissima, incontenibile, che aumentava di istante in istante con incredibile velocità. E si abbandonò a essa perché si fidava di lui, e perché non aveva altra scelta. Sussurrando una sola volta il nome dell’amato, cedette. Non ne era mai sazio. La sua bocca umida e così sensibile era deliziosa, le pulsazioni forti e profonde erano in perfetto accordo con le sue intime carezze. Improvvisamente – e così in fretta che lo sorprese – Lily si spinse indietro, allontanando il capo. Gli occhi di lei lo affascinavano: lucidi di passione, non abbandonarono mai il suo sguardo, anche nel momento in cui raggiunse l’orgasmo. La baciò ancora, con forza, prima che finisse, cercando di prolungarle quel momento di piacere il più possibile. Quando terminò, emise un lieve grido e gli appoggiò il capo contro il torace, tremando. Per un lunghissimo istante non si mossero. Lily ascoltava il ritmo del battito cardiaco di Devon contro la guancia, tenendo gli occhi chiusi e sentendo il suo amore impossibile che le colmava tutto il cuore. Ti amo, gli sussurrò con tutta se stessa, ma non con le parole; un’arcaica volontà di autoconservazione le vietava ancora di dirgli quelle parole. La tristezza fece la propria comparsa nell’angolo più remoto della sua mente, ma quello non era di certo il momento per i rimpianti: l’uomo che amava la


stringeva a sé, il suo ritmo vitale le pulsava nelle orecchie. Strinse le braccia attorno a lui, appoggiandogli le labbra sul cuore. Poco dopo sentì la mano di Devon, di cui si era quasi dimenticata, riprender vita. Rimase immobile e tranquilla, evitando quasi di respirare. Senza alcuna esitazione, Devon trovò il suo punto segreto, e con un dito lo sfiorò più e più volte, con la medesima leggerezza di un volo di farfalle. Era sorprendente come riuscisse a sedurla con grande facilità, ma Lily si limitò a dirgli, con voce colma di sorpresa: «Oh, Devon!» Il dolore che gli dava la necessità di possederla era molto più di quanto potesse sopportare. La sua pelle era davvero magica, era come se ogni suo punto fosse incantato. «Appoggiati alla porta, Lily, solo con le spalle. Aggrappati a me.» Faceva tutto quanto gli chiedeva, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Devon prese tra le mani le natiche di Lily: erano morbide ma sode. Avvicinò ancor più i fianchi di Lily ai suoi e piegò le ginocchia. Delicatamente, senza alcun ostacolo, penetrò in lei fino a quando si congiunsero perfettamente. Senza muoversi, respirando piano, si guardarono; poi Devon le prese le mani e le portò sul volto della giovane, mentre si muoveva dentro e fuori di lei con quel ritmo lento e profondo che entrambi desideravano. Tenendo gli occhi chiusi, quasi priva di coscienza, Lily sussurrò: «Ti prego, ti prego, ti prego...» La baciò brevemente, senza tuttavia riuscire a concentrarsi sul bacio. «Passami le braccia attorno al collo.» Lo fece, e lui la sollevò, le mani sotto le natiche, tenendola sempre appoggiata alla porta. «Passa le gambe attorno a me.» E lei fece come le aveva detto; poi Devon, voltandosi e tenendola sempre tra le braccia, si diresse verso la pesante scrivania nell’angolo della stanza. Diede un calcio alla sedia intagliata – contrabbandata dalla Francia, una delle proprietà più preziose di Clay – per spostarla dalla scrivania. «Pare comoda», mormorò sedendosi. Non ebbe bisogno di dirle di piegare le gambe all’indietro e porsi a cavalcioni sul suo grembo: lo immaginò da sola, quasi istantaneamente. Ma amava le sue istruzioni appassionate. Che tutti gli uomini fossero così... loquaci? Si chiese. Inoltre, la fantasia di Devon le dava coraggio. Per nascondere il volto lo baciò, quindi mormorò contro le sue labbra: «Amo sentirti dentro di me. Mi pare che tutto si sciolga». Scivolò con la bocca lungo la sua gola, il suo seno. «Piegati all’indietro», le mormorò con voce roca di passione; quando lei lo fece, prese in bocca un suo seno, aspirando e succhiando con passione e avidità. Ansimando, lei si afferrò alle sue spalle. «Non l’ho mai fatto se non con te! Mi credi?» Rispose di sì immediatamente. Che fosse davvero vero? Ma non gli importava, non gli importava. Le afferrò con una presa più forte i fianchi e la spostò su di sé, sopra di sé, godendo della sua docilità e fragilità, del proprio possesso assoluto. Gli passò le mani tra i capelli e accostò la bocca alla sua nel bacio più leggero e più dolce, un semplice strofinio di labbra, e il suo respiro fu come un profumo per Devon. Il suo autocontrollo vacillò. Lily si sollevò e si guardarono l’un l’altra di nuovo negli occhi, avvinti dal medesimo incantesimo, misurandosi. Poi Devon scivolò ancor più sulla spina dorsale


fino a quando lei si ritrovò sopra di lui, con i piedi che toccavano appena il pavimento. Fu lei stessa ad appoggiarsi con l’avambraccio al petto di lui, stabilendo così il movimento da imprimere. Non aveva mai provato nulla di simile a questa miscela esplosiva di potere e resa, controllo e abbandono. Alla fine fu il bisogno, brutale e bruciante, urgente, che la sopraffece. «Devon, non posso... non posso...!» Trattenermi, voleva dire, ma egli pensò che intendesse il contrario. Le afferrò con le mani le natiche e si spinse in lei sempre di più, rantolando, sussurrando, e improvvisamente tutto il corpo di Lily tremò. Urlò forte parole incomprensibili, ed egli percepì il debole e incontrollato tremore per un lungo istante prima che lei si rilassasse e infine si lasciasse andare su di lui. La tenne stretta a sé – troppo, in realtà, lo sapeva anche lui, ma Dio mio non poteva farne a meno – mentre spingeva più forte, sempre più profondamente. Pensò che non avrebbe mai avuto fine. Poi, entrambi si ritrovarono spossati e incapaci di muoversi. «Lily», riuscì a mormorare. Ciocche dei suoi capelli gli erano rimaste attaccate alla guancia madida. «Stai bene?» Spostò una mano in modo da poterle toccare una spalla, ma si trattò di uno sforzo tremendo. Stava ancora tremando. «Stai bene? Ti ho fatto male?» Cercò di raddrizzarsi, di guardarlo in volto, ma era troppo debole. Spostò le labbra dalla sua gola bagnata, per farsi sentire. «Non so se sto bene o no. Francamente, non mi interessa.» Una risata profonda e di sollievo gli danzò in gola. Guardò al di là dei capelli di Lily per ammirare la deliziosa scena erotica delle cosce divaricate di lei sulle sue gambe, delle natiche morbide che splendevano sulle sue ginocchia piegate. Spostandosi un poco, utilizzò le gambe per stringere quelle di lei. Lily capì immediatamente le intenzioni di Devon e strinse le cosce attorno a lui, ma la sensazione troppo forte ed egli emise un grido rauco di agonia ed estasi, tanto che lei si fermò, ridendo leggermente. Sospirarono profondamente, accarezzandosi, coccolandosi. «Dovremmo andare a letto», suggerì lui dopo un po’. «Sì, penso di sì. Eppure, questa sedia mi piace e so già che mi mancherà.» «Torneremo qui presto...» Lo guardò. «Davvero?» «Sì, molto presto. E spesso.» Lei tremò leggermente. «Come ti senti Lily? Seriamente.» Le accarezzò la pelle ancora delicata sulle costole, osservandola. Ma lei rispose la pura verità. «Non mi sono mai sentita così bene, Devon. Mi piace quello che facciamo. Mi fai sentire...» «Come?» «Non riesco a trovare le parole. Deliziosa.» «Tu sei deliziosa.» «Perfetta.» «Tu sei perfetta.» Iniziò a ridere di nuovo. «Bella. Irresistibile, affascinante...» «Tu sei davvero tutto questo.» Lo baciò con passione perché, pur non credendo a una parola, si sentiva molto felice. Quando alla fine trovarono la forza di raggiungere il letto, rimasero tranquilli uno


nelle braccia dell’altra, ascoltando il lieve tonfo dell’acqua. Il tempo passava senza che se ne rendessero conto, e per quanto ne sapevano avrebbe anche potuto essersi fermato. Lily voleva parlare, descrivere tutte le nuove sensazioni che lui le faceva provare. Voleva dirgli che lo amava, ma la fiducia di Devon nei suoi confronti era ancora fragile e appena nata; se avesse parlato troppo, sarebbe potuta anche scomparire. E Lily non l’avrebbe sopportato. Silenzio, persino inganno, erano quisquiglie confronto a una gioia simile. Il futuro era al di là del suo controllo; almeno, negli ultimi mesi aveva imparato quella lezione. Per ora, per quella notte, si sentiva soddisfatta così. Cos’altro importava al mondo? Il mattino seguente si svegliò un po’ alla volta, uscendo da un sogno che non riuscì poi a ricordare del tutto; sapeva soltanto che era molto bello. Spostò le ginocchia verso il centro del letto, poi allungò una mano per cercarlo. Seppe che si era già alzato prima ancora di aprire gli occhi, perché il posto accanto a lei era freddo. Si sedette sul letto. Lo vide immediatamente, con lo sguardo fisso dinanzi all’oblò. Alto e diritto, rigido nella postura. Completamente vestito. La nausea la assalì all’improvviso, ricordando quella terribile mattina, l’unica mattina che avevano passato assieme. Il cuore le batteva forte forte, le mani erano madide di sudore. «Dev?» sussurrò. Lui si volse, e l’espressione sul suo volto confermò tutte le sue paure. Non riuscì a emettere altri suoni. E così, alla fine, si era svegliata dal suo sogno. Devon si mise le mani in tasca appoggiandosi alla parete, per resistere alla tentazione di avvicinarsi. Il sole le illuminava con una lama dorata le spalle, facendole splendere, accendendo un fuoco nei capelli scomposti. Mentre lui la guardava, Lily si coprì i seni con le braccia, e una macchia rosa intenso si formò lentamente sulle sue guance pallide. Tutta quella dolce bellezza gli provocò un dolore intenso, quasi insopportabile. Volse lo sguardo dall’altra parte e disse: «Si è fatto tardi. Dovresti vestirti.» La voce le risuonò troppo aspra. «Clay tornerà presto», soggiunse poi in tono più basso, ma sempre senza guardarla. Tutto le doleva. Cercò di non respirare, ma il sangue continuava a fluire, a portare quel dolore profondo e impietoso in ogni parte del corpo. Aveva la gola chiusa, gonfia, ma in qualche modo riuscì a formulare la domanda che le bruciava sulle labbra. «Che cosa ti è accaduto? Che cosa?» «Nulla, che intendi dire? Si è fatto tardi...» «No, non farlo.» E allora la guardò, e vide dietro quegli occhi lucidi di lacrime non versate tutto il suo dolore. Distolse lo sguardo; l’amarezza gli fluiva nelle vene come un veleno, e il disprezzo per la propria codardia gli fece imporporare il volto. Dovette distogliere nuovamente lo sguardo da lei. «È stato troppo bello, Devon? Hai provato troppe sensazioni?» Non poteva risponderle, poteva solo attendere, sperando che la rabbia giungesse presto e lo salvasse. Che senso aveva rimproverarlo? Era quello che era, e lei non sarebbe mai riuscita a cambiarlo. Fissò la linea dura e rigida delle spalle di Devon fino a quando non poté più sopportarlo. Poi chinò il capo. Come sarebbe stato facile piangere! Ma, un secondo dopo, scoprì che il suo amore era persino più forte dell’orgoglio.


Udì il fruscio delle coperte, il cigolio delle corde del letto. Quando si volse e la vide, la sua nudità gli fece dimenticare tutte le parole che aveva pensato di dirle. «Oh, Lily», mormorò con un sorriso teso. «Non è corretto.» Ignorandolo, ignorando anche tutte le voci che dentro di lei le stavano urlando Sei una stupida, gli si avvicinò . Gli prese una mano stretta a pugno, la distese e la tenne tra le sue. «Non farlo, Dev. So perché hai paura, ma non ti farei mai, davvero mai, del male. Lo giuro.» Lui imprecò con rabbia. Ma lei resistette ed ebbe alla fine il coraggio di dirglielo: «Ti amo». Udì quelle parole, ma cercò di non assorbirle. «Allora mi spiace per te.» Devon notò che Lily stringeva le narici, tesa. Si tratteneva. Si sentì pervaso da un calore intenso. «Non dirlo», le fece, ma senza rabbia. «Non voglio sentirtelo dire.» Gli afferrò la mano. «Non dirmi di non amarti, Dev. E non osare lasciarmi un’altra volta, non te lo permetterò.» L’uomo vide che ogni suo muscolo era teso, e che persino la pelle pareva tenera, vulnerabile. «Mia cara, non ho mai avuto intenzione di ferirti. Ma quello che vuoi io non lo sento. Se vuoi, possiamo... possiamo fare un accordo, un accordo che entrambi...» «Smettila, smettila! Ti ho detto ieri sera che non voglio alcun accordo.» «E allora...» «Possiamo renderci entrambi felici, Dev. Solo per un po’. Non lo senti? Non lo sai?» Le mise le mani sul volto, a coppa, e lo strinse al punto da farle dolere le ossa. Eppure, Lily non si mosse, e non abbassò nemmeno lo sguardo. «Ti amo. Tu sei tutto per me. Sei nel mio cuore, e non ci sarà mai posto per nessun altro.» Gli vide passare negli occhi rabbia, paura e sorpresa, e abbassò lo sguardo. «Non ti farei mai deliberatamente del male. Sono io, Lily, non sono come nessun’altra. E ti amo tanto...» «Ma io non voglio il tuo amore.» «Non mi importa di quello che vuoi e non vuoi. È gratis, te lo regalo.» Avrebbe voluto tanto allontanarla da sé, lei e il suo dono non desiderato, ma non riusciva a staccare le mani dal suo corpo. Qualcosa in lui si ruppe, e sentì i bordi teneri e irregolari di una ferita mai chiusa. «Non ti voglio», le sussurrò, scuotendo più e più volte il capo. «Non ti voglio, Lily.» «Peccato.» Scrollò il capo, cercando di apparire il più sicura possibile. Qualsiasi cosa fosse successa, non avrebbe pianto. «Sei una stupida.» «Ah, di sicuro. Ti amo!» Imprecò nuovamente, non contro di lei, ma contro la vita in generale, e poi il cervello gli si chiuse e la abbracciò con forza e rabbia. «Te ne pentirai», disse tra i suoi capelli scomposti, dolcemente profumati. Oh sì, lo sapeva. Ma era così innamorata che apprezzò persino quelle parole. Lily rimase immobile, trattenendo il fiato, poiché la stretta di Devon le faceva dolere le costole. Lo notò anche lui, e immediatamente allentò la presa. Sentì le sue labbra sulle tempie e sospirò lievemente. «Devo dirti tutto di me», mormorò mentre le


passava le mani più volte sulla schiena con movimenti lenti, innamorati. «Ho tanto da dirti.» Devon bestemmiò di nuovo. Lei si irrigidì, pensando che non volesse saper nulla. Poi, lo udì anche lei: un rumore sordo, e il cigolio lieve del legno contro il legno. Clay era tornato. Anche lei imprecò a bassa voce. Si allontanò un poco da lei per poterla guardare. Aveva gli occhi asciutti, ma il suo volto era colmo di emozione. Come avrebbe potuto lasciarla andare? Come avrebbe potuto non lasciarla andare? Amore e sollievo brillavano nei suoi occhi grigio-verde, ma vi poteva leggere anche forza e dolore, e un sapere oscuro, stoico. Qualsiasi cosa fosse accaduta, e fino a quando fosse vissuto, non avrebbe mai dimenticato l’espressione di Lily in quel momento. Le baciò le labbra con una promessa dolce e cauta che diceva tenterò, e in quel momento, davvero, lo credeva. Il rumore di passi sulla scala li fece sobbalzare, dividendoli. Cinque brevi colpi alla porta, e Devon fece appena in tempo a porsi istintivamente tra Lily e la porta. Prima che entrambi potessero parlare, la porta si spalancò e sulla soglia comparve Clay. Lily lo fissava al di sopra delle spalle di Devon, incredula e senza parole. «Dannazione, Clay...!» «Oh mio Dio», esclamò l’altro, ma senza fare il minimo accenno ad andarsene. Anzi, li guardò sorridendo allegramente, gli occhi pieni di curiosità. Si mise persino in punta di piedi, cercando di vedere al di là delle spalle del fratello. «Sono tornato troppo presto? Sono quasi le dieci, ed ero certo che foste alzati.» «Ma te ne vuoi andare sì o no?» La voce di Devon risuonava più esasperata che non arrabbiata, e Lily si sorprese a pensare che anche lei provava la medesima sensazione. Non era affatto imbarazzata, come avrebbe dovuto. «Vado, vado. Volevo soltanto dirti, Dev, che Trayer Howe è stato visto nei paraggi, cammina con le stampelle, ma fa minacce molto interessanti contro di te, e contro Lily e pure me. Il che è molto stupido, visto che io non ho fatto proprio nulla. Anche Lily, ovviamente. In ogni caso, pensavo che ti avrebbe fatto piacere saperlo. Nel caso tu voglia arrestarlo. Ora vado sul ponte ad aspettarvi.» «Buona idea.» «Puoi ben dirlo. Buongiorno, Lily. Sei veramente bellissima, almeno per quello che posso vedere...» «Fuori!» «E va bene. Vado.» Fece un ampio sorriso e richiuse le porta. Devon si volse verso Lily, girandosi però immediatamente quando la porta si spalancò di nuovo. «Facciamo colazione in paese? Wiley è un po’ fuori fase questa mattina e non ce l’ha fatta a prepararci...» «Fuori, dannazione! Fuori di qui!» «Un po’ nervosetti, eh?» Ridacchiò e chiuse la porta, e finalmente sentirono il rumore di passi che salivano le scale. Devon si volse ancora verso Lily. «Idiota», mormorò, ma non poté nascondere il bagliore divertito negli occhi dietro la finta espressione accigliata. «Cosa c’è che non va? Non ti ha visto davvero, Lily, è...», disse, quando la vide pallidissima.


«No, non è quello.» Sapeva che si stava comportando da sciocca, ma non poteva farne a meno. Quando lui la abbraccio, gli si strinse contro. «E allora, che c’è?» Lei non rispose. Il calore della sua pelle lo accese subito di desiderio, ma cercò di trattenersi. «Che cosa c’è? Dimmelo, amore.» «Ho paura.» «Di che cosa?» Lui avrebbe continuato a insistere, lo sapeva, fino a quando non l’avesse ammesso. «Trayer.» «Ma no.» La abbracciò stretta, spostandola fino a farle toccare con le spalle la parete e premendo il corpo contro di lei, per farle capire che era davvero al sicuro. «Non ti farà del male. Non glielo permetterò.» «Clay ha detto che tu potresti arrestarlo?» «Certamente. Se rimarrà nei paraggi, potrò catturarlo e mandarlo in prigione.» «Ma non se... Ma come puoi farlo?» «Semplicissimo, sono il magistrato. La polizia ha già ricevuto il mandato di arresto nei suoi confronti. Se ti si avvicinerà, verrà arrestato. Lo farò processare per le prossime assise. Giuro su Dio, Lily, che lo faremo impiccare.» Prima si irrigidì, poi gli si accasciò tra le braccia come se fosse senza vita. «Lily?» le sue spalle tremavano, e Devon pensò che stesse piangendo. «Cara...» sussurrò, allontanandosi per vederla in volto. Ma lei non stava piangendo, stava ridendo. Era una risata strana, stanca e ironica, che a Devon non piacque. «Tu sei il magistrato?» disse a bassa voce. «Di questo distretto, sì. E così tu sei al sicuro, amore.» «Al sicuro! Oh Dev.» Si appoggiò alla parete, con un sorriso colmo di rimpianto. «Lily! Insomma, che c’è?» «Nulla, assolutamente nulla. Tienimi stretta.» Si avvicinò a lui, e il suo calore la rassicurò, l’aiutò a dimenticare. Si baciarono. In seguito, Devon si dimenticò di chiederle che cosa volesse dirle su di sé. E non ci pensò più per molto tempo.

Capitolo diciottesimo Le settimane che seguirono furono per Lily un insieme stressante di felicità e ansia, euforia e tensione. La gioia derivava dal fatto che Devon era il suo amante, e la tensione aveva la stessa, identica fonte. Solamente durante la notte il loro rapporto era chiaro e semplice. Che cosa lei rappresentasse per lui, e quello che lui era per lei, non avevano più importanza quando si trovavano l’una nelle braccia dell’altro. Erano amanti, in quelle ore il loro cuore, la loro mente e il loro corpo erano in perfetta armonia. Ma Lily era consapevole del fatto che lui non sapesse cosa fare di lei, che collocazione darle all’interno della sua vita. E anche Lily, del resto, non aveva alcuna idea di quale fosse il suo nuovo ruolo. Gli aveva detto che non voleva alcun tipo di accordo, ma, in fondo, non c’era una specie di accordo, visto che mangiava il suo cibo e dormiva nel suo letto, in cambio del suo corpo? Quando era stata troppo ammalata per lavorare, aveva catalogato le cose in modo


più corretto. Ma ora non vi era più nulla che la ostacolasse dal riprendere il suo vecchio lavoro, nulla a eccezione del rifiuto da parte di Devon, quasi violento. E così, si era messa a fare una quantità enorme di ricami e maglie ai ferri, per lui, per la casa e i domestici. Ma anche quella sua occupazione non era riuscita a cancellare il suo profondo e persistente disagio. Viveva come in un limbo, mangiando in camera, uscendo raramente, impegnata a cucire per ore e ore. Nelle rare occasioni in cui lo incontrava durante il giorno, non sapeva mai come salutarlo. Devon era sempre molto cordiale, e tuttavia tanto riservato. La sua reticenza la urtava, aumentando così la determinazione di incontrarlo il meno possibile durante il giorno, fino a quando, di notte, non andava da lei e la faceva sua. Una volta pensò addirittura di tornare nella vecchia stanza, con Lowdy. Ma la reazione di Devon era scontata: glielo proibì, anzi si rifiutò persino di parlarne. A che gioco stavano giocando? Lily non era di certo abituata a illudersi, e il fatto che lui non le avesse più offerto denaro in cambio del suo corpo non mutava di certo la situazione. Sapeva cosa volesse dire essere una mantenuta. E non era abituata nemmeno all’ipocrisia. Se le cose dovevano continuare in quel modo, o lei avrebbe dovuto lasciare Darkstone oppure accettare il fatto che, sebbene si fosse rifiutata una volta, indignata, di essere la sua amante, era divenuta esattamente un’amante. E qual era la soluzione? Qualche volta si immaginava che tutto sarebbe andato per il meglio se soltanto avesse potuto dirgli la verità su se stessa. Era abbastanza astuta da capire che la sua riluttanza a impegnarsi in qualcosa di più serio con lei era in parte dovuta alla convinzione che lei provenisse dalla classe povera. Le donne di quella categoria – le donne come Maura – erano venali e senza cuore, pensava la parte inconscia e irrazionale di lui, e utilizzavano gli uomini solo come passaggio da una classe sociale all’altra. Ma sarebbe davvero cambiato qualcosa se lei gli avesse detto che aveva studiato, che era elegante di modi, povera ma rispettabile – che c’era stato un periodo in cui lei stessa aveva avuto dei domestici? No, pensava di no. La diffidenza di Devon aveva radici più profonde, estendendosi alle donne in generale; e quanto più intensamente erano coinvolte anche le sue emozioni, tanto più se ne allontanava di corsa. Inoltre, non poteva dirglielo: era un magistrato! Che storia poco divertente! Con ogni probabilità, era ancora ricercata per furto e violenza, e si era innamorata di un uomo che, se l’avesse saputo, sarebbe stato costretto ad arrestarla. Non aveva mai pensato che Dio avesse tanto senso dell’umorismo! E così non le restava che aspettare. Forse a giorni avrebbe ricevuto una lettera di suo cugino, che le diceva che tutto era stato perdonato. O forse Devon si sarebbe innamorato di lei. Forse una o entrambe queste cose si sarebbero verificate prima che lui tornasse a non fidarsi di lei distruggendo così il legame fragile che avevano stabilito, o prima che la vergogna la spingesse ad abbandonarlo. Un giorno, in agosto, quando il vento caldo spingeva verso la casa una pioggerella leggera ma senza sosta, udì un rumore di zoccoli e di finimenti sul sentiero di ghiaia sotto la finestra. Le carrozze non erano poi molto frequenti a Darkstone; occasionalmente, Francis Morgan giungeva con quel mezzo, ma era veramente uno dei pochi. Seduta da molte ore, Lily si alzò, depose il ricamo e si recò alla finestra per vedere chi fosse.


Ma non era Francis Morgan. Quella carrozza recava lo stemma dei Darkwell sulla porta nera laccata, e tuttavia non l’aveva mai vista prima. Un lacchè in livrea balzò dalla cassetta, aprì la porta e abbassò la scaletta. Ne discese una signora, alta e magra, di mezza età; teneva lo sguardo basso, badando bene a dove metteva i piedi, ma quando raggiunse senza problemi il terreno e si volse per aspettare la compagna di viaggio, Lily ne vide il volto. Pur non avendo mai visto prima quella donna, non ebbe alcun dubbio su chi fosse: la madre di Devon. E ciò significava che la giovane che stava scendendo dopo di lei, piccola e graziosa, con i capelli castani, era Alice Fairfax. Lady Alice, della casata dei Fairfax. Dove, come si ricordava perfettamente, si sarebbero dovute svolgere le nozze «molto presto, tra il vostro padrone e la mia padrona», secondo quanto aveva confidato la cameriera di Alice. Le due donne scomparvero alla vista. Lily premette una guancia contro la finestra e lasciò che il freddo umido del vetro penetrasse in lei. Già una volta aveva provato gelosia, e ora la sentiva tornare precisa, tagliente come un rasoio, senza poter farci nulla, disprezzandosi e incapace di bloccarla. Alice Fairfax non era davvero bella; ecco, di questo Lily poteva consolarsi, ma era regale come una regina, una vera ‘signora’, e sarebbe stata perfetta per Devon Darkwell. Rabbrividendo appena, Lily abbandonò la finestra e si sedette sul bordo del letto. Poco dopo si sdraiò, completamente vestita, coprendosi con le coperte. Una tristezza, nera e profonda, la penetrava come una nebbia umida e sporca. Il tempo passava... Era già di per sé una giornata buia, e il suo orologio si era scaricato; non aveva alcuna idea di che ora fosse quando udì dei passi nel corridoio e voci femminili. Porte che si chiudevano, poi tutto fu avvolto ancora nel silenzio. Lily si sedette. Mio Dio, si sarebbero fermate? Su quel piano? A poche porte dalla sua, sullo stesso corridoio? Si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro. Quando fu troppo buio per vedere, accese le candele. Ogni suono la rendeva nervosa e tesa. Una cameriera le portò una cena fredda su un vassoio, e fu soltanto grazie alla sua forza di volontà che si astenne dal chiederle delle informazioni. La notte intanto si allungava. Occasionalmente udiva delle risate provenire dal piano di sotto. Sempre più nervosa, fece il bagno e indossò la camicia da notte. Sdraiata a letto, nel buio, con le membra rigide e gli occhi spalancati, provò un tale disprezzo per se stessa da voler scomparire. La tristezza le faceva sentire il proprio corpo come di legno, sconosciuto, persino non umano. Molto più tardi, udì dei passi sulle scale, lungo il corridoio, e il mormorio di svariati buonanotte sussurrati. Attese, senza fiato, senza muoversi, in preda all’ansia. Ma Devon non venne. Per la prima volta dalla notte sullo Spider, non andò da lei. La luna aveva già raggiunto l’altezza di metà finestra, si era fermata e quindi era riscivolata nell’oscurità. Il silenzio era completo: non poteva nemmeno sentire il fruscio del mare. Si alzò, pensando in un primo momento di fare due passi nella stanza. Ma senza accorgersene, si ritrovò in corridoio, a piedi nudi sul pavimento gelido, diretta alla stanza di Devon. Senza bussare, aprì la porta ed entrò. Lui non aveva udito nulla, eppure sentì la sua presenza: una macchia bianca contro la porta, pallida ed eterea come un fantasma. Si guardarono attraversando con gli occhi lo spazio buio della stanza, per un’eternità; e più il tempo passava, più avvertiva che qualcosa di irrecuperabile gli stava scivolando tra le dita. Ma non


riusciva a parlare. Non sapeva cosa dire. «Povero Dev», mormorò Lily, a voce bassa e priva di colore. «Non sai cosa fare di me, vero? Che cosa strana dev’essere per te avere la fidanzata e l’amante sotto lo stesso tetto e nello stesso momento. Deve renderti...» Devon bestemmiò e balzò dal letto, e il resto delle parole che Lily stava pronunciando le morirono in gola. Una parte lucida del suo cervello le fece notare che era ancora vestito, e ne trasse conforto: evidentemente, non era così tranquillo da prendere subito sonno. «Ma cosa vuoi da me, Lily?» chiese, a pochi centimetri da lei. La durezza della voce le fece pensare che, incredibilmente, soffrisse quanto lei. E le diede il coraggio di toccarlo, di mettergli una mano leggera sul petto. «Voglio che tu mi ami.» Tutta la rabbia se ne andò immediatamente, la prese tra le braccia e nascose il volto nella massa di capelli fiammanti. «Ma io ti amo. Che Dio mi aiuti... ti amo come posso.» Odiò il tono, la riluttanza, la sofferenza che percepì nella sua voce, come se nel pronunciare quelle parole si fosse tagliato la gola. Sussurrò: «Vuoi sposarmi?» senza avere proprio idea da dove le venissero il coraggio, o la pazzia, di chiedergli una cosa simile. Sentì subito che il corpo di Devon si irrigidiva, e tentò di scacciare un’immediata premonizione di sconfitta. Si staccò da lei lentamente, e lei ringraziò quell’oscurità totale che le consentiva di nascondere il volto. «Basta che tu dica di no, Devon. Per l’amor di Dio, risparmiami almeno la gentilezza.» «Ascoltami...» «No!» urlò spingendolo con forza. «Non vuoi perché sono stata la tua cameriera, vero? Questa è una delle ragioni, no? Che cosa devo fare per farmi sposare da te? Quanti soldi ci vorrebbero?» «Lily, per...» «E se facessi la sarta? Se facessi cappelli? No? Per te, o una signora o niente, vero?» Le prese una spalla e le diede un violento strattone, arrabbiato, ora, quanto lei. «Quante migliaia di sterline all’anno, Dev? Venti, trenta?» «Dannazione, Lily!» «E se facessi la governante?» Ora stava urlando. «Non mi sposeresti mai, vero? Perché anche se mi amassi, sarei troppo simile a quella tua moglie morta, alla tua amata Maura, la donna che ti ha ridotto così! Ma io non sono come lei, Devon, sono io, sono Lily, e...» Le diede una spinta, e lei andò a sbattere contro la porta. Il rumore fu molto più intenso del dolore, ma quella violenza stupì entrambi. Devon si girò dirigendosi alla finestra, per frapporre tempo e distanza tra loro, così come per dirle, senza pronunciar parola, che non avrebbe più dovuto temere atti violenti da lui. «Non capisci? Non voglio ferirti Lily. Se potessi...» Sentì la porta chiudersi delicatamente e si volse. Era andata. E gli mancò il respiro, come se fosse stato colpito allo stomaco. Quando sentì chiudere la porta della camera da letto di lei, gli parve che qualcosa di triste e definitivo fosse avvenuto. Nel silenzio, dopo secondi interminabili, udì la chiave della porta di Lily girare nella toppa. «Basta parlare di lavoro, per questa sera!» ordinò Lady Elizabeth Darkwell. «Io e Alice ce ne andremo domani mattina presto, e dopo voi potrete parlare di aste e


prezzo del metallo, di tutto quello che vi interessa. Ma fino a quel momento dovete sforzarvi di essere di compagnia.» «Sì, madre», rispose Clay, lanciando al fratello un sorriso tirato. «E come funzionano le aste?» si chiese Alice. «Basta che mi dici questo, Dev, poi potrai tornare a essere un po’ di compagnia, anzi, potrai iniziare a esserlo.» «I rappresentanti delle società minerarie di rame fanno offerte sui pacchetti azionari del metallo che gli agenti minerari vengono a vendere. L’uomo con il pacchetto azionario maggiore funge da presidente. Questa volta la nostra miniera è quella con il maggior quantitativo di rame, e...» «E Dev pensa che io sono troppo stupido per fare il presidente.» «Clay, per...» «Ah, scusatemi, troppo inesperto.» Devon scrollò il capo, esasperato. «Beh, sei stato soltanto a un’asta in tutta la tua vita, giusto? Sono piene di trabocchetti, è tutto qui, e Francis ci va da anni. Il prezzo del rame è sceso, il mese scorso aveva raggiunto le sessantuno sterline a tonnellata, e qualche volta ci sono delle strategie cui ricorrere per evitare che scenda ancor più. Tu e Francis...» «Devon.» Si fermò, ubbidiente. «Avete ragione, mi spiace, madre. Farò preparare il tè.» E così fece, poi si sforzò di apparire socievole. L’antipatia di Clay nei confronti di Francis Morgan andava ben al di là della semplice gelosia, lo sapeva bene, eppure non ne comprendeva l’origine. Devon conosceva Francis da dieci anni; erano stati a Oxford assieme ed erano rimasti in contatto quando Devon era tornato in Cornovaglia, Francis nel Lancashire. Quando Devon decise di riaprire la miniera e di affidarne la gestione a qualcuno, aveva subito pensato a Francis, perché aveva molto talento ed era competente. Era anche povero, e gli affari non gli andavano di certo bene nel minuscolo studio di avvocato a Manchester. Era sembrata la soluzione migliore a entrambi. E Francis aveva operato bene sino a quel momento, giustificando così la fiducia di Devon in lui; poi si era persino parlato di una vaga interessenza nella compagine azionaria della miniera. Ma ora che Clay era entrato nella società, tali programmi non parevano più fattibili. Alice gli stava parlando, mostrandogli due orecchini a serpente che aveva acquistato a Mullion. Dov’era Lily in quel momento? Si chiese Devon. Sicuramente nella sua stanza, probabilmente china su qualche rammendo o ricamo. Non l’aveva vista dalla sera precedente, ma era quasi sempre stata nei suoi pensieri. 'Povero Dev', gli aveva detto. Alice gli mise in mano uno degli orecchini e gli fece notare le lunghe stilature rosse. Si chinarono sulla pietra assieme, con i volti che quasi si toccavano, e lui inalò un lieve profumo di rosa. Lily non indossava mai essenze, eppure occasionalmente profumava di fiori. I capelli rossi avevano tante sfumature, erano vivi e splendenti. Magici. Amava la sua bocca, le forme gentili e impacciate che assumeva quando parlava. Aveva un modo di guardarlo tra le ciglia, quando sorrideva, con le labbra ricurve verso l’alto agli angoli, dolci e non timide, veramente affascinanti. E quando piangeva, il naso le diventava rosso e gli occhi chiari si inondavano di lacrime, e gli si spezzava sempre il cuore. L’aveva fatta piangere la sera precedente? Aveva teso le orecchie, a letto, temendo di sentirla, ma quella notte


insonne era passata, e aveva udito solo qualche scricchiolio. Lily, pensò, che cosa debbo fare con te? Sentì una sensazione sgradevole scivolargli lungo la nuca. Quando sollevò lo sguardo, Lily era dinanzi a lui, e stava offrendo ad Alice una tazza di tè. L’orecchino gli scivolò dalle dita e cadde sul tappeto con un rumore sordo. Era troppo sorpreso per muoversi. Silenziosa e molto bella, Lily si chinò a raccoglierlo. Per un istante, parve che lo volesse esaminare lei da vicino, sulla mano, ma poi glielo porse. Le dita si protesero automaticamente e lei gli lasciò cadere il monile sulla palma, facendo attenzione a non toccarlo. I loro occhi si incontrarono, ma l’espressione di lei era ben chiusa, e Devon non poté leggervi nulla. «Ho detto, prendi anche tu il tè, Devon?», ripeté sua madre. «No», si limitò a rispondere. «Clay?» «Sì, grazie.» Mentre una rabbia impotente gli cresceva dentro, Devon guardò Lily, prendere un’altra tazza e piattino dalle mani di sua madre e portarli attraverso tutto il salotto fino a Clay. Indossava il vecchio abito grigio, con il grembiule ormai consunto – i capelli nascosti nella cuffia. Clay appariva a disagio: cercò di guardarla negli occhi mentre gli porgeva il tè, ma lei fece un inchino grazioso, forse, pensò Devon, un poco ironico, e si volse immediatamente. Alice era nel bel mezzo di una conversazione animata; Devon aveva udito a malapena Lily chiedere a sua madre: «Serve altro, mia signora?» Al no di Lady Elizabeth, Lily aveva fatto un altro lieve inchino, e un secondo dopo era uscita dalla stanza. «Jimmy fu molto sorpreso e disse a Justine – dinanzi a noi tutti, Devon, persino dinanzi a tua madre – che sperava di non udire più sua moglie pronunciare cose simili, e se invece fosse successo, l’avrebbe picchiata senza pensarci due volte. Come se non l’avesse mai fatto. Jimmy Lynche te l’immagini? E come se sua moglie fosse un angioletto! Ma ve l’immaginate? Non era buffo?» chiese a Elizabeth, ridacchiando in quel suo modo semplice, colmo di buonumore. «Molto buffo», mormorò la madre di Devon, che tuttavia era distratta e continuava a guardare i due figli, osservandone lo strano atteggiamento. Clay fissava la tazza di tè; Devon non aveva mai distolto gli occhi dalla porta da quando quella cameriera molto bella e dalle guance pallide era uscita silenziosamente. «Justine vi manda i suoi saluti, tra l’altro», disse. «Te la ricordi, vero Dev? Clay, so che tu te la ricordi. Una ragazza molto carina, con i capelli biondi; eravamo tutti convinti che avrebbe sposato Tom Wren, e invece ha sposato Jimmy...» «Scusatemi.» Senza guardare nessuno, Devon raggiunse con passo rapido la porta. «Dev? C’è qualcosa che non va?» Si fermò sulla porta. «No, madre, io... Mi sono ricordato all’improvviso di dover dire una cosa a Cobb. Tornerò tra un istante.» Tre paia di occhi sorpresi lo seguirono mentre se ne andava. Lei non era in cucina. La cameriera cui chiese informazioni parve terrorizzata, ma giurò di non averla vista. D’istinto, percorse il corridoio a forma di L, passando dinanzi alla camera della nuova governante, e quindi salì i gradini di pietra che portavano al cortile vuoto di fianco alla casa. La vide accanto alla cabina degli attrezzi, appoggiata al muro, lo sguardo perso nel vuoto. I suoi stivali si muovevano silenziosi sul terreno bagnato, e Lily non l’udì se non quando fu


a pochi passi. Anche in quel momento, non si volse. In quattro passi la raggiunse, spinto dalla furia che lo costrinse ad afferrarla alle spalle e farla girare in modo da vederne il volto. Ma l’espressione di Lily lo sconfisse immediatamente. Tutte le parole amare che aveva in mente gli morirono sulle labbra quando lei sollevò le mani – troppo tardi – per coprire le guance bagnate di lacrime e gli occhi colmi di angoscia e di sofferenza. Quando cercò di voltarsi di nuovo, la trattenne. «È stato un errore... Non avrei mai dovuto...» e scoppiò in singhiozzi coprendosi di nuovo il volto con le mani. Che cos’altro poteva fare, se non stringerla a sé? Lily cercò ancora di parlare. «Mi spiace, ma non so perché l’ho fatto, ero arrabbiata, ferita, pensavo che se...» «Su, non ha importanza.» E infatti, non ne aveva più. «Lei è così perfetta... io ho solo peggiorato le cose, ora che l’ho vista...» e scoppiò di nuovo a piangere. Teneva i pugni stretti contro la camicia di Devon, per tenerne lontano l’abbraccio che le avrebbe dato conforto. Gli ci volle un minuto per comprendere che stava parlando di Alice. E si ricordò che ne aveva già parlato la sera prima. «Lily, Alice non è la mia fidanzata. Non lo è mai stata.» «No», singhiozzò, «ma lo sarà.» «No, lei...» «O qualcuna come lei. Qualcuna, un giorno o l’altro. È vero, e lo sai anche tu.» Gli batté una sola volta i pugni stretti contro il torace e riuscì a liberarsi dalla stretta. «Devo andare via, Dev. Non posso sopportarlo.» La strinse ancora a sé, senza riflettere, con una presa che aveva perduto ogni gentilezza. «No, non te ne vai, Lily. Non farmi arrabbiare, e soprattutto non dire stupidaggini.» La attirò a sé, abbracciandola completamente con le sue robuste braccia. E lei lo lasciò fare. Il dolore che provava in quel momento era insopportabile, ma sapeva che andarsene sarebbe stato ancor più doloroso. Come avrebbe potuto rinunciare a lui? Non abbracciarlo più? Come era possibile rinunciare a una simile, terribile dolcezza? Probabilmente era anche codarda, lo sapeva, ma non poteva lasciarlo, non ancora. Sarebbe stato come strapparsi il cuore. Non poteva più dirgli: «Ti amo». Avrebbero sofferto troppo, entrambi. Lui non poteva darle speranze. Si tennero stretti a lungo, senza parlare, offrendosi l’un l’altra il proprio corpo come conforto. Chiedendosi che ne sarebbe stato di loro.

Capitolo diciannovesimo Elizabeth e Alice se ne erano andate. Lily le aveva sentite partire di mattina, ma questa volta non si era alzata per guardarle dalla finestra. Aveva preferito rimanere nella sua stanza tutto il giorno, a meditare, e Devon non era mai andato a trovarla. Era una notte tempestosa, con il vento meridionale che soffiava dal mare, battendo la costa con raffiche violente che le scompigliavano i capelli e le avvolgevano le gonne attorno alle gambe. Una notte adatta per prendere una decisione, Lily pensò, in


piedi sui gradini della scogliera, guardando la marea insorgente che inondava l’ultimo lembo di sabbia asciutta ai suoi piedi. Era sola, la roccia solida dietro di lei, nulla tranne il mare aperto e il cielo dinanzi a sé. Sapeva già quello che avrebbe fatto, ma voleva pensarci ancora una volta: i comportamenti impulsivi le avevano portato solo guai in passato; nella sua vita, le dure lezioni che aveva dovuto apprendere suo malgrado le avevano fatto capire come non potesse assolutamente più agire d’impulso. Aveva intenzione di raccontare a Devon tutta la verità, di dirgli chi era in realtà, che cosa avrebbe e non avrebbe fatto, e poi si sarebbe preparata a subirne le conseguenze. Le prime due prove erano già di per sé abbastanza dure, ma era l’ultima che non era sicura di poter affrontare con la dovuta forza. Perché sebbene gli avrebbe fatto piacere sapere che lei non era una cameriera, dubitava anche che quella rivelazione sarebbe stata sufficiente a indurlo a sposarla. E aveva deciso che non ne sarebbe mai stata l’amante. «Amante», infatti, come aveva sempre saputo pur decidendo di ignorarlo negli ultimi tempi, era solo un eufemismo per prostituta d’alto bordo. E allora, che cosa fare? Dove sarebbe andata? Secondo i suoi calcoli, avrebbe già dovuto avere notizie di Soames; ormai, gli aveva scritto da più di un mese. Se non avesse accettato di accoglierla in casa sua, avrebbe dovuto trovare un altro luogo. Un luogo dove avrebbe potuto vivere con pochi soldi fino allo scadere dei nove mesi che mancavano al ventunesimo compleanno, quando sarebbe entrata in possesso della minuscola eredità. Devon le avrebbe prestato dei soldi? Si chiese. Se sì, avrebbe potuto accettarli, pur essendo un prestito? Forse, ma avrebbe preferito un taglio netto. Il vento le soffiò in volto uno spruzzo di acqua salmastra, e dovette aggrapparsi alla balaustra di metallo con entrambe le mani per non perdere l’equilibrio. Sono una bugiarda, pensò, disperata. Se Devon le avesse offerto di mantenerla in cambio del proprio corpo, avrebbe avuto il coraggio di negarglisi? Anche se era sgradevole e umiliante, sarebbe davvero riuscita a rifiutare e ad andarsene? Lo amava tanto da essere pronta a concedergli tutto, e non le importava nulla di quello che pensavano gli altri. Era stanca di pensare: non aveva senso meditare su ogni eventualità prima di passare all’azione. Intanto, gli avrebbe raccontato tutto di lei e del motivo per cui era fuggita da Lyme. Poi, si sarebbe preoccupata della sua risposta. Almeno era certa, certa al punto da rischiare, che non l’avrebbe fatta arrestare. Magistrato o no, una volta si era preso gioco delle autorità pur di proteggere suo fratello; sicuramente avrebbe capito che talvolta, quando osservare la legge rappresenta un’ingiustizia ben peggiore che il violarla, era più saggio non seguire la legge alla lettera e agire invece su principi di buonsenso comune. La cosa peggiore che sarebbe potuta accadere era che la mandasse via – nel qual caso, a parte lo stato del suo cuore, si sarebbe ritrovata esattamente nelle medesime condizioni di quando era arrivata. Raddrizzò le spalle. Aveva ormai preso una decisione. Devon non era ancora tornato – sarebbe rincasato solo tardi da un’assemblea a Truro tra proprietari di miniere – ma lei aveva intenzione di aspettarlo. In biblioteca, forse, con Clay. Anzi, magari quest’ultimo avrebbe anche potuto tirarla su di morale. Volgendo la schiena al mare e al vento, iniziò a risalire gli alti gradini che l’avrebbero riportata verso casa.


Devon spalancò l’alta finestra a battenti che era posta tra i ritratti del primo e del secondo Visconte di Sandown, con le loro cornici dorate. Una raffica di vento lo colpì in volto. Chiuse gli occhi e aspirò il forte sapore di freddo e di umido, sperando che gli avrebbe schiarito le idee. L’aria salmastra aveva già spiegazzato il foglio di carta protocollo che ancora teneva in mano. Lesse di nuovo il breve messaggio, ripiegò la lettera e la rimise in tasca. Un istante dopo, riprese a camminare. La galleria di dipinti di Darkstone collegava il secondo piano della casa con la torre occidentale. Era una lunga stanza dal soffitto molto alto, con i pannelli in legno di castagno e quadri di numerosissimi Darkwell illustri posti tra una finestra e l’altra. I mobili erano stati tutti sistemati lungo le pareti, lasciando completamente libero il centro ricoperto di tappeti, così che il padrone potesse camminarvi a piacere quando il tempo non gli permetteva di passeggiare all’aperto. Non era il caso di quella serata, e tuttavia era tornato presto da Truro, troppo perso nei suoi pensieri per pensare di uscire di nuovo. Come al solito, era il pensiero di Lily a occupargli la mente. Era preoccupato. Gli pareva di aver pensato quasi esclusivamente a Lily Troublefield dal momento che si erano incontrati, e mai come negli ultimi giorni. Era consapevole che lei desiderava che prendesse una decisione, che giungesse a una qualche conclusione sulle proprie intenzioni. Il problema era che quello che voleva lui e quello che voleva lei erano distanti un’eternità. Lui si accontentava infatti di stare con lei, vivere con lei e amarla; lei voleva promesse per tutta una vita e un impegno serio. Ma le sue emozioni si erano completamente consumate. Non gli serviva poi molto il fatto di capire benissimo perché mai non potesse decidersi a trovarle un posto nella sua vita, nel suo cuore. Maura era morta da cinque anni, ma non aveva dimenticato nulla. Ricordava con chiarezza dolorosa la passione divorante degli inizi, l’ossessione che aveva provato per lei, la necessità di possederla. E tanto chiara era nella sua mente anche la fine amara della storia, la delusione bruciante, il disprezzo di sé e la mortificazione quando aveva scoperto che l’oggetto dei suoi sentimenti più teneri e appassionati era infedele e ingannevole. Era fuggita con il suo amministratore, e gli avevano rubato denaro e figlio. Poi, avevano tenuto il denaro e si erano liberati del figlio quando gli era divenuto scomodo. Devon sentì nascergli dentro un antico dolore, come acido che gli consumava le viscere, e chiuse la mente dinanzi al ricordo terribile del momento in cui aveva trovato Edward, il suo piccolo, morto nel cottage di quella vecchia. Quei ricordi lo ricondussero a una disperazione fonda, cupa, dove si era già ritrovato tante e tante volte. Ma nessuno di quei ricordi aveva a che fare con Lily, e continuava a ripeterselo. La sua mente gli credeva, sapeva che era la verità. Eppure, qualcosa di nascosto, di potente e mai curato, si muoveva in lui senza sosta. Poi vide il volto di Alice Fairfax, e la sua espressione serena, gli occhi dolci. Alice era una gentildonna, in tutto e per tutto. Sarebbe stata fedele e degna di fiducia. Sarebbe stata una compagna sicura. E allora, che cosa voleva? Era quello il suo punto d’arrivo? Alcuni mesi prima avrebbe risposto di sì, senza alcuna esitazione o rimorso. Poi aveva incontrato Lily, e tutte le sue aspettative di vita posate, rigide e prive di fantasia erano crollate come legno marcio. Aveva abusato di lei, l’aveva insultata e ignorata, aveva fatto tutto quanto era in suo potere per tenerla fuori da tutto, ma non dal suo


letto. Ma, nonostante gli sforzi, lei aveva vinto. Contro la sua volontà, l’aveva rinnovato, l’aveva fatto rinascere, aveva distrutto le barriere che aveva eretto intorno a sé con tanta abilità, gli aveva donato l’idea di un futuro ben diverso, colmo di sentimenti, rischi e gioia. Aveva cercato di proteggersi da tutto ciò dicendosi più volte che per lei provava un desiderio fisico – anche se pure questa era stata una novità degna di nota, visto che negli ultimi cinque anni le donne non erano state altro che accessori indispensabili della sua attività sessuale, ridotta a mero sfogo, privo di gioia e molto raro. E ora, riprovare le antiche passioni, gli era parso strano, pericoloso. Provare poi più della semplice passione fisica lo aveva terrorizzato. E lo terrorizzava, ma lui e Lily erano giunti a una conclusione. Le aveva detto che l’amava, ma era vero? Pensava a lei continuamente, ed era amore? Quando era con lei, era felice. Era amore? Non ne aveva idea. Smise di camminare e si appoggiò al muro dinanzi a un ritratto di sua nonna. La mano si strinse sulla lettera che teneva in tasca. Era della Marchesa di Frome, che desiderava comunicargli come non avesse mai sentito nominare una certa Lily Troublefield, né tanto meno l’aveva mai avuta al proprio servizio. Il problema della disonestà tra i domestici si faceva, di anno in anno più serio; non avrebbe voluto dirglielo, ma temeva che sua signoria fosse stato vittima di un raggiro. Poteva soltanto sperare che la giovane non fosse più alle sue dipendenze, che non gli avesse rubato altro che la fiducia in lei riposta. L’unico elemento sorprendente di quella lettera era che... non era affatto sorprendente. Sin dall’inizio, aveva saputo che Lily non era quello che diceva di essere. Agli inizi della loro conoscenza, non gli era importato nulla, anche perché l’interesse per lei era stato circoscritto e specifico: voleva sedurla e basta. Poi, con il passare del tempo, se ne era semplicemente dimenticato, aveva scordato che aveva tirato fuori un dialetto strano e sgrammaticato per farsi assumere, che era troppo raffinata per essere una cameriera, che evitava appena possibile domande sul suo passato e che di tanto in tanto gli aveva mentito. E ora trovava per lo meno ridicolo che gli chiedesse la fiducia più totale: - «Sono io, sono Lily, e non ti farei mai del male!» - quando non era stata chiara con lui su se stessa. Tutto era ancora in divenire. Gli nascondeva qualcosa, e lui si aspettava che gli dicesse la verità nel momento in cui lo ritenesse opportuno. Persino ora, poi, non gli importava molto, della verità. L’importante era decidere che cosa fare di lei. Riprese a camminare. Un rumore – forse uno sparo? - lo fece trasalire. Gli parve che provenisse dal piano terra. No, ovviamente non poteva essere uno sparo. E allora, cosa era stato? Probabilmente uno scuro sbattuto contro la casa: il vento era abbastanza forte da spostare le pesanti assi di legno. No, era stato molto più acuto, intenso. La casa era immersa nel silenzio, se si eccettuava il gemito del vento. Si ricordava che Clay era in biblioteca quando era tornato da Truro, a studiare i dati riguardanti le estrazioni di rame per l’asta della sera dopo. Devon scese le scale con calma, guardando le candele che spandevano la propria luce lungo le pareti. Una tempesta stava giungendo dal mare. «Clay?» chiamò dal corridoio, vedendo la luce della lampada che filtrava dalla porta della biblioteca. Entrò. Clay non c’era, ma le porte del terrazzo erano aperte. Una sbatté contro la parete proprio in quel momento, e comprese con sollievo cosa era stato quel colpo. Dannazione, perché Clay non aveva chiuso le porte? Alcuni fogli


di carta prima accatastati sulla scrivania erano volati ovunque nella stanza. In un angolo della sua mente, si chiese che cosa ci facesse la cassaforte di Clay sulla scrivania. Clay, infatti, la teneva sempre chiusa a chiave nel cassetto più in basso. Corse alle finestre spalancate e le chiuse. Poi, voltandosi, lo vide: sdraiato sul pavimento dietro la scrivania, il volto contro il pavimento. Sangue nei capelli, scuro e spaventoso, che stava bagnando anche la camicia. Devon corse verso di lui, si chinò accanto a lui, chiamandolo a gran voce. Lo toccò con mani disperate, poi lo girò delicatamente su se stesso. Una piccola ferita nera in corrispondenza dell’attaccatura dei capelli, sopra il sopracciglio destro. Gli occhi azzurri erano vitrei e spalancati, fissavano il nulla. Era morto. Devon urlò tutta la sua angoscia, con suoni incoerenti. Chinò il capo sul torace di Clay e chiuse gli occhi, afferrando con le dita la camicia di suo fratello. «No!» urlò, più e più volte. Si fermò nel momento in cui l’orrore iniziò a prendere il posto dell’incredulità. Poi lo sentì – qualcosa di lieve, un movimento quasi impercettibile nel torace di Clay. Si alzò, tormentandosi le mani. «Clay!» urlò. Premette l’orecchio in corrispondenza del cuore del fratello, sempre più forte, e alla fine udì un lieve battito, così debole da temere di esserselo inventato, fino a quando non tornò di nuovo. Si alzò e raggiunse d’un balzo la porta, chiamando a gran voce Stringer. Quando nessuno comparve, si slanciò lungo il corridoio urlando continuamente, fino alle scale dell’ala destinata alla servitù. Stringer comparve sotto l’arcata, senza giacca, allacciandosi il panciotto. «Chiama un dottore! Manda MacLeaf. Clay è stato colpito. Una ferita alla testa, e sta sanguinando. Che si chiami Penroy, a Trewyth, è più vicino. Sbrigati!» Stringer era immobile, stupefatto e annichilito. Improvvisamente, Cobb comparve dietro di lui, e Devon sospirò di sollievo. «Clay è stato colpito. È molto grave. Manda MacLeaf da Penroy.» Senza una parola, Cobb si volse e corse verso la porta principale. Devon disse a Stringer di andare a prendere delle coperte, poi corse di nuovo in biblioteca. Clay era sempre immobile, pallidissimo, teneva sempre gli occhi spalancati, senza vedere nulla. Devon si sedette accanto a lui, terrorizzato. Prese tra le dita il polso debole del fratello, e vide una penna tra le sue dita, poi un foglio di carta sotto la mano. Tre parole scritte con mano incerta, tremante, dicevano con fredda semplicità: «Ha sparato Lily», prima di terminare in una grossa macchia di inchiostro nero. «Ha sparato Lily». Gli si offuscò la vista, e sbatté più volte le palpebre per eliminare quel velo terribile, ma le parole erano sempre le stesse. Nero su bianco, chiare, semplici e inesorabili. «Ha sparato Lily». Udì il passo di Stringer che si avvicinava. Vide le sue dita malferme afferrare il foglietto e accartocciarlo. Poi, volgendo la schiena al maggiordomo che stava entrando, se lo infilò in tasca. Per un momento non riuscì più a vedere o udire nulla. Poi, Stringer depose le coperte accanto a lui, e l’impotenza di quell’uomo lo fece tornare in sé. Coprirono Clay, avvolgendolo con cura nella lana calda. Devon prese di nuovo il


polso del fratello tra le dita, e il lieve battito che udì gli ridiede un poco di speranza. Cobb tornò, ma Devon non si spostò da dove si trovava, continuò a toccare Clay, a guardarlo continuamente in volto. Gli occhi fissi del fratello erano strani, inquietanti. Devon li chiuse con le dita, e un fremito di repulsione nei confronti di quell’atto lo scosse. Cobb gli disse qualcosa, ma lui non ne comprese il significato. Dinanzi al fratello, immobile, Devon continuava a tremare, come se avesse freddo. Chiese a Stringer di accendere il fuoco. Nel frattempo, sentiva gli altri domestici nel corridoio, che si stavano ammassando, che sussurravano qualcosa. Improvvisamente, si alzò. «Rimani con lui, non lasciarlo», disse a Cobb con voce roca. Afferrando un candelabro acceso, uscì. Non pensava di trovarla nella sua stanza, ma vi si recò ugualmente. E si fermò nel mezzo del locale quando la luce fioca della candela fece brillare un piccolo baule di metallo aperto sul letto. Lo raggiunse lentamente, e vide un lembo di carta uscire da sotto i vestiti. Spostò gli abiti e fissò quattro mucchietti precisi di banconote da venti sterline. Lily vide Devon avanzare verso di lei mentre a fatica saliva l’ultimo gradino della scogliera. Sentì il solito sussulto che provava quando lo vedeva, e sorrise contenta. Era tornato presto, che bello! La serietà di quello che doveva dirgli e il non essere in grado di prevedere la reazione, non erano nulla a paragone della delizia intensa che sgorgava dentro di lei alla sola vista del giovane. Il vento che frammentava le nuvole scoprì per qualche secondo la luna; alla sua luce limpida, acquosa, vide il suo volto. E il sorriso scomparve. «Che cosa è successo, Devon?» chiese quando lui si fermò dinanzi a lei. «Cosa è accaduto?» Il buio tornò, e non riuscì più a decifrare l’espressione di quel volto. Ma c’era qualcosa che non andava. La tensione in lui, persino nell’oscurità, era ben visibile. «Dev, che cosa c’è? Che cosa? Ah!» Urlò, più per la sorpresa che non per il dolore, quando lui le prese un braccio e la strinse a sé, mentre l’altra mano le afferrava una spalla. Ne udì poi la voce, un basso ringhio diretto al suo orecchio, vide i denti esposti in una smorfia animalesca, percepì lo sforzo che faceva di controllare la sua furia inesplicabile. «Non mi aspettavi di ritorno così presto, vero?» «Che cosa? No, io... Devon? Mi stai facendo male...» Ma si interruppe di nuovo quando le diede un altro strattone violento, tanto da farle battere i denti, e iniziò a spingerla verso casa. Gli trotterellò accanto, tentando di liberare il braccio da quella stretta dolorosa, ma la sua mano era come una morsa. «Smettila, perché stai facendo una cosa simile? Non farlo, Devon, mi fai male. Ti prego!» Cadde, battendo le ginocchia sul gradino che dava sulla terrazza. Ma lui non si guardò indietro né rallentò il passo, anzi la trascinò con maggior forza così che lei dovette rimettersi subito in piedi e correre, a fatica, per stargli dietro. «Ma che cos’hai?» urlò, piangendo. «Che cosa stai facendo?» Non le diede risposta, e lei non vide che ira, sul suo viso. La trascinò fino alla porta d’ingresso, e all’interno la condusse alla scala padronale, sollevandola quando inciampò nei gradini. Lei batté contro il corrimano, e un dolore acuto la trafisse tra le costole. Cadde in ginocchio, stupefatta, trattenendo il respiro. Senza fermarsi, lui la insultò, la costrinse ad alzarsi e la obbligò a continuare a salire le scale.


Quando raggiunsero la porta della sua stanza, la sospinse all’interno. Quel volto le fece paura, quelle mani strette la terrorizzarono. «Non so che cosa pensi che abbia fatto!» urlò, tenendosi un fianco. «Me lo puoi dire?» Il suo fare innocente lo mandò su tutte le furie. Ringhiando, le si avvicinò prendendola per i capelli. «Te l’avrei dato io il denaro. Puttana assassina, non era necessario sparare a Clay per averlo.» Lily sbiancò. ‘»Oh mio Dio, Dev. Clay?» disse, tremando. «Clay è ferito? Gravemente?» Il corpo di Devon ardeva, e si costrinse con uno sforzo ad abbassare le mani perché avrebbe voluto strapparle i capelli uno a uno, alla radice. Sentì una prima ondata di panico. La sua violenza era palpabile, e comprese che mancava pochissimo all’esplosione. Parlando con calma, cercando di non sembrare agitata, gli disse: «Devon, ti prego ascoltami. Non ho sparato a Clay. Ci dev’essere un errore. Perché hai pensato una cosa simile?» «Per questi.» Lei seguì il suo sguardo spiritato e vide il denaro. Molto denaro. «Ma... io non...» «Qual è il tuo vero nome?» «Trehearne», rispose immediatamente. «Sono Lily Trehearne, e provengo da Lyme Regis. I miei genitori sono morti, ma il mio tutore avrebbe voluto che sposassi suo figlio, ma... ma non potevo...» Iniziò a balbettare quando lui fece un passo minaccioso in avanti. «È la verità!» Cercò di combattere contro l’attacco isterico che stava impossessandosi di lei, tenendo le braccia alzate come scudo. «Sono fuggita quando ha detto che gli avevo rubato i soldi, e lui era ferito, e sono corsa via perché temevo che fosse morto.» Udì quello che stava dicendo, e si disperò. «Oh mio Dio! Mrs Howe era a Chard e io le ho parlato, Devon, ascoltami! Avevo deciso di spiegarti tutto questa sera!» Non riusciva a smettere di piangere, e tutto sembrava così innaturale, come una bugia che appare già falsa alle orecchie di chi la dice. «Non so che cosa sia questo denaro. Non avrei mai potuto far del male a Clay. Avevo deciso di raccontarti tutto, poi, di andarmene se tu non mi avessi voluto.» «Stai zitta.» Afferrandola, la spinse contro il muro accanto. Lily batté il capo ed emise un urlo di dolore. Doveva uscire, altrimenti era quasi certo che l’avrebbe picchiata. «Ti prego, ti prego, Devon; devi credermi.» Ora stava balbettando, e la sorprendeva il fatto che sotto la paura che la stava attanagliando sentisse, profonda, la pietà. Forse Clay era morto? Nonostante la ferocia che le stava dimostrando Devon, lei avrebbe voluto dargli conforto, lenire l’angoscia che gli vedeva negli occhi, celata dalla furia. «Ti prego, non farlo», sussurrò. «Lascia che ti aiuti. Sul mio onore, Dev, non potrei mai fare del male a Clay. Ascoltami...» La interruppe afferrandola per il vestito e avvicinandosi al suo volto. Mostrando i denti con una furia animalesca, le sibilò: «Se Clay vivrà, ti farò impiccare. Se morirà, ti ucciderò con le mie stesse mani, lo giuro dinanzi a Dio». Poi, con uno strattone violento, la lasciò andare. Prese la chiave, accostò la porta e la chiuse dentro. «Temo di non potervi dare molte speranze.» Il dottor Penroy tirò fuori il fazzoletto macchiato di sangue coagulato dai pantaloni neri immacolati e lo utilizzò per tergersi il sangue dalle mani. «Ho tolto la pallottola e fermato l’emorragia, ma le possibilità di


sopravvivenza sono molto basse, davvero. Anche se per un qualche miracolo dovesse riprendersi, non sarà più lo stesso. La pallottola gli ha trapassato parte del cervello.» Lord Sandown non rispose, e il dottore si chiese per un attimo se lo stesse ascoltando. «Mi spiace molto. Non posso fare altro, almeno per ora. Tornerò domani mattina per vedere come sta.» Il dottore si terse la fronte con la manica della camicia e si chiese che cosa avrebbe detto sua signoria se gli avesse chiesto del brandy. «Vi consiglio di lasciarlo dove si trova, per ora, sul divano, senza cercare di spostarlo. Tenetelo al caldo. Non riuscirete a fargli ingerire cibo solido, ma almeno potreste tentare con dei liquidi.» Il silenzio totale di Darkwell iniziava a innervosirlo. «Potete chiamare Marsh se volete, non ho alcuna obiezione», azzardò cercando di non infuriarsi. «Ma oserei dire che vi direbbe esattamente la stessa cosa. Mi spiace», ripeté. Passò un lungo istante, poi il medico si raddrizzò la parrucca con le dita sporche e si avvicinò di un passo alla figura immota e immersa nell’ombra fuori dalla porta della biblioteca. «Dico, state bene? Mi avete sentito?» «Sì», fu la risposta a bassa voce. «Andatevene.» Penroy si raddrizzò, aprì la bocca per parlare, per dirgli quanto fosse risentito e offeso, poi la richiuse quando vide la rabbia furiosa dietro quegli occhi che parevano ardere e brillare nell’oscurità. «Siete sconvolto», mormorò. «È naturale. Ora me ne vado, ma tornerò domani mattina. Buona notte.» Ritornò in biblioteca e prese la borsa da medico. Lanciò ancora un’occhiata alla figura immota sul divano, avvolta in una coperta, scrollò il capo con un gesto svuotato di ogni speranza, e uscì dalla stanza passando per le porte del terrazzo. Devon attese fino a quando udì chiudersi la porta, poi rientrò in biblioteca. In piedi, accanto al sofà, si tese per ascoltare il respiro di Clay, ma udì solo il sospiro del vento. Si avvicinò ancor più. Penroy aveva fasciato il capo di suo fratello con una benda. A sprazzi, Devon ricordava la ferita scura e sanguinante, e alla fine, cedendo, si inginocchiò. Sentiva che le forze lo stavano abbandonando, che tutti i sostegni che l’avevano tenuto in piedi stavano iniziando a sgretolarsi. Prese una mano di Clay e la tenne tra le sue. Le lacrime, che non aveva più versato da quando aveva tenuto tra le braccia il corpicino morto di suo figlio, ritornarono in lui come una cascata infuocata. Non morire. Strinse ancor più la mano del fratello, come se volesse trattenerlo a forza. Ma la morte era come una bocca sbadigliante, e si spalancava sempre di più. Terrorizzato, sentiva che si stava avvicinando. Non andare. Il terrore dell’abbandono supremo lo attanagliava, lo faceva tremare. Ma perché gli aveva sparato? Perché? L’ingiustizia di quell’atto fece scaturire un’emozione barbara e selvaggia; gli parve di ardere. La pressione improvvisa di una mano sulla spalla lo tranquillizzò. Sollevò lo sguardo e vide Cobb in piedi accanto a lui, il volto accigliato. Devon appoggiò per un attimo le labbra sulle dita pallide di Clay, poi si alzò a fatica. Cobb aveva appoggiato un bicchiere di brandy tra il torace e il polso senza mano. Lo riprese con la destra e lo tese al giovane. «Potrebbe anche non morire», mormorò in tono aspro. «Il chirurgo ha detto che c’è una possibilità di sopravvivenza.» «Sì, una possibilità.» Devon portò il bicchiere alle labbra, poi lo abbassò senza bere. «È un ragazzo forte.»


«Sì...» Cobb inspirò profondamente e distolse lo sguardo dal divano. «Posso portare un messaggio a vostra madre, se volete. Se vado ora, sarò a Witheridge per le...» «No, grazie. Non ancora, non credo. Aspetteremo sino a domani, e forse ne sapremo qualcosa di più.» Cobb annuì a fatica. «Dovreste riposare un poco. Mrs Carmichael può rimanere qui con Clay. Dice che ne sa un po’ di pronto soccorso e simili.» Devon non rispose. «Posso fare qualcosa per voi?» Devon lo fissò per un lungo istante senza parlare. Era venuto il momento di mandare Cobb a Truro, alla polizia. Avrebbero tenuto in carcere Lily fino a quando il magistrato, cioè Devon, avesse ordinato che fosse processata durante le Assise. Sarebbe rimasta due mesi nella prigione di Bodmin prima del processo, e l’avrebbero condannata, non c’era alcun dubbio. Sarebbe stata impiccata. Sarebbe morta. Ed era quello che voleva, era l’unica cosa che voleva. Cobb si spostò leggermente, in attesa. Devon pensava al cappio che si sarebbe stretto attorno al collo di Lily, pensava ai suoi occhi dilatati dall’orrore. Ricordò anche la notte che l’aveva trovata nella sua stanza, picchiata selvaggiamente, e di come avrebbe voluto in quel momento far sì che tutto il dolore che provava passasse a lui, perché gli era tanto preziosa. Ricordava la gentilezza di Clay nei suoi confronti. Poi, il denaro nel bauletto di metallo, gli occhi vitrei e sbarrati di Clay. Il messaggio nelle sue mani. «Signore?» Bevve quel brandy in tre sorsate colme di amarezza. «No, nulla. Di’ a Mrs Carmichael di stare con Clay.» Pose con violenza il bicchiere in mano a Cobb, inconsapevole dell’espressione di rabbia furiosa che il suo volto aveva assunto. Aveva preso una decisione, o per lo meno erano gli inizi di una decisione. Non l’avrebbe fatta arrestare, non avrebbe potuto, per ragioni di cui non sapeva chiarire la natura. Ma lei aveva un potere su di lui – non amore, non più, ormai – e quel potere era forte, e lui avrebbe fatto di tutto per fargliela pagare. Se Clay fosse morto, avrebbe anche potuto ucciderla; non lo sapeva ancora. Se fosse sopravvissuto, lei probabilmente avrebbe preferito essere morta. Uscì dalla stanza, lasciando Cobb immoto a fissarlo, e si diresse con passo sicuro verso le scale. Girò la chiave nella toppa della camera di Lily lentamente, immaginando, pregustando con un sorriso la sua paura. Spalancò la porta altrettanto lentamente e diede un’occhiata nella stanza. Vuota. Impossibile – evidentemente si era nascosta. Quel pensiero gli piacque, e il sorriso cattivo si ampliò. Entrò, sperando che lei si nascondesse sotto il letto: sarebbe stato un piacere tale tirarla fuori con la forza, sentendola piagnucolare e implorare pietà. Le avrebbe mostrato la stessa pietà che lei aveva mostrato a Clay. Ma non era sotto il letto. Allora dietro le tende, forse, tremante di terrore, pregando che lui non la trovasse. Poi, vide il vetro rotto sul pavimento, sotto il telaio della finestra, e vi si avvicinò come un automa. Aveva rotto il telaio della finestra, facendo un varco più ampio. No! Non avrebbe mai potuto saltare giù, sarebbe sicuramente morta. Afferrandosi al telaio, incurante del dolore provocato dai bordi taglienti che gli tagliavano le palme, si sporse dalla finestra e guardò la boscaglia buia, più di quattro metri sotto.


Nulla. Si volse, gemendo come un animale, cercando di vincere quell’insolito senso di sollievo. Era già quasi vicino alla porta quando notò il bauletto di metallo sul letto, con il denaro sopra, esattamente come l’aveva lasciato lui. Oppure ne mancava? Ma perché non l’aveva preso tutto? Corse fuori dalla stanza, scese le scale, raggiunse la porta. Mentre si slanciava verso le stalle, vide Cobb che gli correva incontro. «Non so cosa voglia dire, ma pensavo che dovreste saperlo», iniziò prima che Devon lo raggiungesse, il respiro pesante per la corsa. «Che cosa?» «Quella ragazza di nome Lily... è corsa via su un cavallo. Gliel’ha dato lo stalliere.» Urlando una bestemmia violenta, incoerente, Devon spostò Cobb e si diresse verso le stalle. MacLeaf stava uscendo con una briglia rotta. Si fermò quando vide il padrone correre verso di lui, con una rabbia selvaggia dipinta in volto. L’incarnato di MacLeaf divenne rosso come i suoi capelli, e la briglia gli scivolò dalle dita. Fece un passo di lato verso il corridoio tra i recinti, che conduceva alla porta sul retro, ma fu l’unico movimento che riuscì a fare. Attraversando d’un balzo il pavimento ricoperto di paglia, Devon lo afferrò con una stretta violenta e lo gettò contro la porta di un recinto. La cavalla all’interno nitrì, colpendo con i fianchi le pareti. «Dov’è?» «Non lo so!» Devon lo colpì alla bocca. Il giovane stalliere cadde di lato, ma si rialzò immediatamente e fece per raggiungere la porta. Devon lo bloccò, facendolo cadere di nuovo, ma MacLeaf, agile e piccolo, si rialzò immediatamente e fece altri due passi verso la libertà prima che Devon lo afferrasse per la camicia e lo facesse indietreggiare. «Dov’è?» «È scappata! Era spaventata. Ha detto che l’avreste uccisa!» «Dove?» «Non lo so!» Usò il dorso della mano per colpire MacLeaf in volto; la forza del colpo lo fece cadere pesantemente. Prima che potesse rialzarsi, Devon lo afferrò di nuovo e gli diede un altro pugno. Il povero giovane batté con la schiena contro la porta della sua stanzina, cadendovi dentro. Devon lo seguì. Sedendosi a cavalcioni su di lui, gli passò le mani attorno al collo. Preso dal panico, MacLeaf iniziò a tempestargli di pugni il torace e il ventre, ma Devon non sentiva i colpi. Come se egli stesso fosse sul punto di essere strangolato, sentiva il sangue battergli in gola e nelle orecchie, negli occhi, accecandolo, eliminando qualsiasi sensazione che non fosse ira. Qualcuno stava urlando, ma le parole gli giungevano come un gemito privo di significato. Sentì che gli stavano tirando i capelli, poi un colpo sul viso. Con un urlo ancora più forte, strinse la presa. Qualcosa di appuntito gli colpì la nuca, e ricadde in avanti, adirato, lottando contro oscurità e nausea. Ma si riprese subito e ritrovò la gola di MacLeaf con mani tremanti, proprio nel momento in cui un peso incredibile, sorprendente, cadde su di lui, colpendolo al fianco.


Sopra di lui c’era Cobb, che a fatica gli teneva le braccia; Devon imprecò contro di lui, poi cercò con tutte le forze di liberarsi quando vide MacLeaf – mezzo soffocato, con le lacrime che gli rigavano il volto – balzare in piedi e raggiungere barcollando la porta. Devon fece un ultimo, disperato tentativo di scrollarsi Cobb di dosso, e si guadagnò una ginocchiata nell’addome. Gli mancò il fiato, e dovette piegarsi su se stesso. Quando sentì che poteva rimettersi in piedi, si alzò a fatica, barcollando e appoggiandosi al muro. Gli tornò la nausea; si toccò la nuca, e sentì sulle dita l’umido colloso del sangue. Accanto, sul pavimento, c’era un forcone. Cobb si era lasciato andare sulla paglia, le braccia ciondoloni tra le ginocchia. «Mi spiace», disse ansimando. «Avreste anche potuto ucciderlo. Ho dovuto fermarvi.» I suoi capelli erano scomposti, il volto sopra la barba nera era rosso, a chiazze. Devon non disse nulla. «Andrò a Truro, ora, a chiamare la polizia.» «Perché?» Cobb alzò gli occhi. «Quella ragazza... Deve essere stata lei a sparare a Clay. Poi è scappata, è...» «Lascia perdere. Non dire nulla di tutto questo, Cobb, a nessuno.» Cobb si alzò, alto e magro, con i lineamenti duri trasfigurati dalla rabbia e dalla sorpresa. Strinse l’unica mano sana a pugno. «Ma la si deve trovare!» «La troverò.» «E punire!» Un sorriso terrificante incise il volto bianco e disperato di Devon. «Non ti preoccupare», disse, e la furia selvaggia impresse a quelle parole la forza di un giuramento di sangue. «La punirò.»

Capitolo ventesimo «Ah, Lily, eccoti finalmente. Stai meglio ora?» «Sì, cugino, molto meglio, grazie. Ho avuto un giramento di testa per qualche minuto, ecco tutto. Dovuto alla tensione, immagino.» «Ma certo. Sei bellissima», soggiunse Roger Soames con un sorriso falso che rivelò i suoi denti quadrati. Ora era lui a mentire, si disse Lily; sapeva benissimo di avere un aspetto orrendo, ricordando anche il pallido riflesso di sé che le aveva dato non più di cinque minuti prima lo specchio della camera da letto. Ma per una qualche ragione che non avrebbe mai capito, suo cugino era ansioso quanto lei di ignorare l’evidenza e fingere che tutto andasse per il meglio. Si chiedeva che cosa pensasse Lewis di tutto ciò, ma ormai si era abituata a non avere una risposta su questo punto: il suo fidanzato era un uomo di poche parole, almeno per lei, e quello che pensava di lei, o del desiderio inspiegabile di suo padre che loro due si sposassero, erano misteri che non le sarebbero mai stati svelati. «Conosci Mr e Mrs Blayney?» chiese Soames, presentandole una coppia di mezza età, riccamente vestita, i cui sorrisi formali non riuscivano a nascondere completamente la loro avida curiosità. Che strana festa, pensò ancora una volta Lily,


era in realtà la seconda o terza volta che si diceva una cosa simile, sorridendo ai Blayney con tutta la cordialità che riusciva a fingere. Gli ospiti di questo festeggiamento «informale», che si teneva la sera prima del loro matrimonio nella nuova casa di suo cugino erano un miscuglio curioso di gente alla moda e fuori moda, di laici e religiosi. Scoprì che Mr Blayney era un banchiere, mentre Mr MacComas, che Lily aveva conosciuto subito prima che un attacco di nausea la costringesse a mormorare una scusa e a ritirarsi nella propria stanza, era un predicatore, un discepolo di Mr Wesley, come Soames, e ce ne erano molti altri come lui. Quando vi era giunta, tre settimane prima, la casa dei Soames le era apparsa del tutto diversa da come se l’era aspettata. Le pareva infatti troppo grande e sontuosa per essere la dimora di un umile predicatore, di un religioso itinerante che parlava di penitenza e dannazione. Era nuova, di mattoni e a forma di L, a due piani, con un bel giardino interno nell’angolo della L, ricco di fiori, cespugli e alberi da frutto. Era proprio qui che i festeggiamenti prematrimoniali avevano luogo – e grazie al cielo, perché non avrebbe mai sopportato l’atmosfera soffocante di una festa all’interno, proprio quella sera – e dove ci sarebbero stati altri festeggiamenti il mattino seguente, dopo la cerimonia. Lo stesso Soames era più di un enigma. Era un uomo del Signore, un ministro con un notevole gregge di anime per le quali era disposto a tutto, pur di salvarle. E tuttavia, non riusciva a credere in lui. Nonostante tutta la sua apparente rettitudine, Lily scorgeva infatti la sua natura amante della mondanità. In effetti, quanto più lo conosceva, tanto più si convinceva che la sua caratteristica spirituale più marcata era la voce – uno strumento veramente efficace che utilizzava con ottimi effetti. Persino nei discorsi più banali, Lily ne ammirava la gamma di intonazioni e la bellezza, oltre a tutta la serie di emozioni che riusciva a evocare. Immaginava gruppi interi di peccatori cadergli ai piedi, desiderosi di pentirsi, quando quella voce li esortava a farlo, oppure pensava a coloro i quali erano già redenti e che piangevano felici quando lo sentivano descrivere l’ineffabile gioia e la pace che li attendevano nel paradiso di Dio. Lily osservò Lewis, che era dall’altra parte della festa; i due si scambiarono un decorosissimo cenno del capo. Il suo fidanzato era molto più adeguato di suo padre all’immagine di religioso serio e privo di umorismo. Parlando a Lewis, lei aveva la strana sensazione che le vedesse baluginare sulla spalla il fuoco dell’inferno. Con un senso di tristezza, vide che le si stava avvicinando per parlarle. «Lily», la salutò inchinandosi leggermente. «Lewis. Ti stai divertendo?» Inarcò le sopracciglia, come se trovasse quella domanda alquanto insolita, o per lo meno inutile. «E tu?» «Oh, sì.» «Ne sono felice. Ma avrai fame... Vieni, mia madre ha appena portato fuori le vivande.» Lily si scusò con il cugino Soames e i Blayney e raggiunse assieme a Lewis le lunghe tavole di legno dove Mrs Soames e i domestici avevano approntato un ricco banchetto. C’erano pasticci caldi, lingua fredda e pernici, dolci e gelatine, latte rappreso con vino e zucchero, frutta, punch e vino. Lily non riusciva quasi nemmeno


a guardare tutta quella roba, figurarsi a mangiarne. Ma Lewis le preparò un piatto, e per fargli piacere prese un po’ di cibo con la forchetta, passandolo da una parte all’altra del piatto, e ne portò persino qualche boccone alle labbra. Era molto gentile a prendersi tanta cura di lei, pensò con un lieve senso di colpa, poiché Lewis stesso aveva digiunato durante gli ultimi due giorni per prepararsi al matrimonio. Stretta in una morsa di stanchezza, contemplava quest’uomo che non amava e quasi non conosceva e che avrebbe sposato l’indomani. Era davvero molto devoto, il che le procurava sensazioni contrastanti. Almeno non era un ipocrita come suo padre, ma che tipo di moglie sarebbe stata per Lewis, e che sorta di vita avrebbero condotto assieme? La sera prima le aveva confidato i suoi sogni, la sua 'visione', come l’aveva definita lui stesso, secondo cui Dio voleva che si recasse nel Galles a predicare il Suo vangelo ai poveri minatori di carbone. La prima reazione di Lily a una prospettiva così tetra era stata di orrore. Ma poi l’indifferenza e l’inerzia avevano cancellato ogni reazione. Se Lewis le avesse detto che Dio voleva che cacciasse le balene nel Mare del Nord, ebbene sarebbe divenuta la brava moglie di un baleniere. Semplicemente, non le importava. Aveva smesso di importarle la notte in cui Devon l’aveva spinta con ferocia contro un muro, accusandola di avere ucciso il fratello. Poi, aveva rubato un cavallo e il denaro necessario per pagare la corsa in carrozza fino a Lyme Regis. Sempre, durante quel viaggio da incubo, si era immaginata di vedere Devon che la inseguiva e la raggiungeva, per poi ucciderla, picchiarla o per lo meno arrestarla. A Lyme, si era sistemata a casa di Mrs Troublefield, che le aveva detto di averle già inviato una lettera in Cornovaglia. Da Exeter? Sì – e così Lily aveva capito che era di Soames. Gli aveva riscritto immediatamente, dicendogli che purtroppo non aveva ricevuto la sua lettera, chiedendogli di scriverle di nuovo. Gli disse anche che le dispiaceva molto per quello che era accaduto e che ringraziava Dio perché si era ripreso. Se avesse potuto perdonarla, e se per un qualche strano miracolo Lewis provava ancora un poco di affetto per lei, sarebbe stata onorata di divenirne la moglie. Soames le aveva risposto subito, che tutto era perdonato e che si recasse da loro immediatamente. Aveva persino inserito nella busta il denaro necessario per un posto sulla diligenza. Da allora, erano passate tre settimane. Le pubblicazioni erano state fatte, e il matrimonio avrebbe avuto luogo il giorno seguente. La fretta dì Soames l’aveva all’inizio molto sorpresa, fino a quando non si era detta che combaciava perfettamente con le sue necessità. Con la sua necessità, si corresse subito, perché in realtà ne aveva una sola: dare al figlio che portava in grembo un padre. «Stai meglio cara?» «Sì, grazie, Mrs Soames. Sto benissimo ora.» La moglie di Soames, Ruth, era una donna silenziosa, triste e piccola, che preferiva rimanere nell’ombra, che parlava timidamente a raffica per poi volgere lo sguardo o abbassarlo per nascondere un imbarazzo inspiegabile. Lily era riuscita con grande fatica a strapparle un centinaio di parole da quando era arrivata. Era completamente sottomessa al marito, che la ignorava, se non per darle degli ordini. Ma era stata gentile con lei, e per questo Lily le sarebbe sempre stata grata. Lily iniziò a complimentarsi con Mrs Soames per la festa che aveva organizzato e per il cibo delizioso, quando Soames e un uomo che


non aveva notato prima si erano avvicinati a loro. «Lily, Lewis, potreste venire dentro un momento?» aveva chiesto Soames, sorridendo cordialmente. Non era un invito che avrebbero potuto rifiutare, poiché l’uomo aveva posto una mano sulle spalle di entrambi e li stava spingendo verso casa, mentre continuava a parlare. «Questo è Mr Witt», soggiunse poi, indicando il gentiluomo che era con lui. «Ha portato delle carte che voi due dovreste firmare. Sapete come sono gli avvocati. Una semplicissima formalità, poi potrete tornare dai nostri ospiti.» «Che tipo di carte, padre?» chiese Lewis quando furono entrati nello studio del padre, una stanza grande con pannelli scuri e gli scaffali colmi di libri che profumavano di nuovo, decorata con stampe di scene di caccia. Poco adatta, a un uomo di Chiesa, pensò Lily. «Solo una formalità», ripeté Soames. «Una firma per la dote.» «Dote?» Lily quasi si mise a ridere. «Ma io non ho nulla.» «Non è del tutto vero», rispose sorridendo. «Lo so, quasi non ne vale la pena, ma Mr Witt ci consiglia di tenere tutto sempre in perfetto ordine e chiarezza.» Lily guardò quell’uomo magro e con la parrucca grigia, che srotolava un documento prima di posarlo sulla scrivania di Soames. Lily aveva sempre pensato che un uomo acquisisse tutto quello che una donna possedeva il giorno stesso del matrimonio. Mr Witt doveva essere una persona molto pignola. Prese la penna dalle mani dell’avvocato e firmò per prima, poi fu la volta di Lewis. Soames propose un brindisi «Alla coppia felice», disse tendendo a tutti tranne che a Lewis un bicchierino di porto; al figlio astemio offri invece dell’acqua d’orzo. «Che Dio possa garantirvi una vita lunga e benedetta da trascorrere assieme, e che i vostri figli possano aumentare attorno a voi come i rami di un ulivo.» Lily impallidì, ma bevve tutto d’un flato senza soffocarsi. Era ormai giunto il momento di ritornare alla festa, ma quando Lewis si fermò accanto a lei per farla passare attraverso l’arco che conduceva in giardino, Lily si fermò. Era sempre stanca, in quei giorni, e la spossatezza la sorprese in quel momento con la forza di un colpo improvviso, indubbiamente a causa del vino. Le era più che insopportabile l’idea di continuare a fingere questa commedia grottesca di felicità coniugale. «Lewis», mormorò toccandogli una manica, «ti spiacerebbe molto se mi ritirassi prima? È una festa bellissima, e i tuoi genitori sono stati molto gentili a organizzarla, ma... sono un po’ stanca. Tutta questa eccitazione... e vorrei essere fresca per domani.» «Ma certo», rispose senza esitazione o rimpianto, e si accinse a riaccompagnarla indietro. Ai piedi della scala si fermò, e la sorprese prendendole il polso. Lei mormorò: «Buonanotte», e fece per voltarsi. «Lily», disse con voce un poco boriosa. «Sì?» «Il dovere più importante di una donna nei confronti del marito è l’obbedienza.» Annuì lentamente e iniziò a pensare una risposta adatta. «Ti ho osservata questa sera», proseguì, senza nemmeno aspettare una risposta. «Le tue parole e i tuoi modi di fare sono troppo liberi, e si prestano a interpretazioni sbagliate. In futuro, dovrai comportarti diversamente con gli individui dell’altro sesso.»


Lei spalancò la bocca. «Ma... non ho mai pensato nulla di sconveniente, Lewis, prometto...» «Non ne dubito; ma parlo del risultato, non dell’intenzione. Mio padre ha avuto una visione da Dio secondo cui tu e io dobbiamo sposarci. Anche se questa unione ci potrà pure sembrare strana, inadatta, questo non significa nulla. Un Potere più elevato di noi l’ha decretata, e il nostro compito è quello di accettare la Sua volontà con umiltà e gratitudine.» Le strinse ancor più il braccio e la fissò con un’espressione di grande serietà negli occhi grigi. «Sarai mia moglie, Lily. Con tanta disciplina e molti consigli, potrai diventare tutto quello che il Signore vuole che tu sia.» Quelle parole le parvero quasi una minaccia. Lily si raddrizzò, cercando di sopprimere un brivido interno. Almeno aveva risolto uno dei misteri legati a quella vicenda: non piaceva a Lewis, proprio come lui non piaceva a lei. Gli fece un sorriso deciso: «Cercherò di essere una buona moglie», gli promise sincera. «Ti aiuterò nel lavoro che hai scelto in tutti i modi possibili. E un giorno spero che sarai orgoglioso di me.» L’espressione seria dell’uomo si addolcì leggermente. «Anch’io lo spero», disse, chinandosi a darle un bacio leggero, il primo in assoluto, sulla fronte. «Dormi bene. Ti manderò la cameriera.» «Buonanotte, Lewis.» Lo vide allontanarsi, alto e diritto, massiccio, chiedendosi cosa avrebbe detto se avesse saputo del bambino. Un lieve velo di sudore le inumidì le palme. Non serviva a nulla pensarci. Appoggiandosi alla balaustra, salì lentamente e a fatica le scale, prendendo poi il lungo corridoio che portava alla sua stanza. Era piccola ma confortevole, e tutti i mobili erano nuovissimi. Senza accendere una candela, raggiunse subito le finestre che davano su un minuscolo balcone – la cosa più bella della stanza, secondo lei. Grazie al cielo era dall’altra parte della casa rispetto al giardino, così i festeggiamenti le giungevano solo come un vago ronzio. Soames aveva fatto costruire la nuova casa alla periferia di quella città, celebre per la antica cattedrale, quindi lontano dal frastuono. Sopra i platani, al di là della strada, stava sorgendo la brillante luna di settembre, e in un punto non chiaro tra questi si udì l’urlo di una civetta. Quella notte, come ogni notte da quando era scappata da Darkstone, la mente di Lily sentiva anche se solo per un secondo, che mancava qualcosa. Poi, come sempre, capiva cos’era: il mugghiare del mare. Le mancava come il battito del cuore di una madre manca a un neonato. Inspirò profondamente. Molte erano le cose che le mancavano, e molto era da rimpiangere. Ma trascorreva quei giorni tremendi vivendo alla giornata, scacciando i pensieri del passato e non guardando al futuro tetro che l’aspettava, limitandosi al domani. Quella sua regola l’aveva fatta giungere sino a quel momento, e perciò evidentemente doveva funzionare: era meglio non analizzare quel successo. La civetta urlò di nuovo, con un grido vuoto e stregato. Lily si prese il volto tra le mani e pianse. Dietro di lei udì un lieve bussare alla porta, poi questa che si apriva. Si asciugò le guance con le mani e le maniche del vestito, e si volse verso la cameriera ferma accanto al letto, in attesa di aiutarla. Si spogliò in silenzio, troppo stanca per parlare, sebbene fosse conscia che la


cameriera, Abbey, doveva pensare che quel silenzio fosse molto strano per una giovane la notte prima delle nozze. Si augurarono a vicenda la buonanotte, a bassa voce, poi Lily si sedette alla toilette per spazzolarsi i capelli. Ancora una volta, lo specchio rivelò un’immagine non amica. Quasi si spaventò nel vedere il pallore insolito, che rivelava troppo della sua disperata infelicità. Ma non doveva più piangere, era debole e sciocco, e in ogni caso non le portava conforto. Eppure era oppressa dal rimpianto e dal senso di colpa, nessun conforto se non la certezza che almeno non aveva mentito a Lewis su una cosa: sarebbe stata una brava moglie. Ovunque l’avesse portata, e per il resto della sua vita, anche se questo l’avesse uccisa, sarebbe stata esattamente come lui voleva che fosse. La sua felicità era ormai un qualcosa di irrilevante. Quello che stava accadendo era una punizione divina, poiché lei aveva ceduto al peccato con un uomo che non l’aveva mai amata. Purché non capitasse nulla al bambino, poteva ritenersi fortunata che la punizione non fosse peggiore. Lasciò cadere le braccia lungo il corpo e chinò la testa, fissando la spazzola che teneva in mano. Quella sensazione di vuoto stava tornando, senza preavviso. Chiuse gli occhi, stanca di piangere. Ma si sentiva così sola. Era la spossatezza, si disse, la spossatezza e la tensione che le rendevano quasi impossibile non pensare a Devon. Non all’ultima notte – quella era stata una cosa insopportabile, inenarrabile – ma ad altri momenti che avevano vissuto assieme. Per una ragione che non sapeva spiegarsi, pensò alla notte accanto al lago, a Pirate’s Mere, quando le era stato così vicino, assieme al fratello, e lei era bagnata, tremante e imbarazzata. Era stato un momento veramente terribile, eppure tutte le volte che lo ricordava provava un segreto brivido di eccitazione. Ma perché mai pensava a una cosa simile, proprio in quel momento? Non poteva farne a meno: ricordava chiaramente il tono basso e provocante della sua voce che le sussurrava in un orecchio e, ancora più chiaramente, il modo in cui le dita calde di Devon le avevano spostato i capelli bagnati e accarezzato leggermente la schiena. La prese una nostalgia così profonda, così forte, da farle male, da farle dolere la gola. Smise di respirare. Un tocco – leggero – sulla nuca le fece sollevare immediatamente la testa e sgranare gli occhi. Una mano le coprì la bocca per soffocare un urlo di paura. Si fissarono nello specchio mentre il seno di Lily si sollevava e abbassava a un ritmo frenetico. Devon tolse la mano lentamente, ma l’altra rimase nei capelli di lei, per tenerla ferma. È cambiata, si disse, sebbene non riuscisse a capire come. Ci aveva pensato anche prima, osservandola da dietro gli alberi all’esterno, mentre si spostava tra gli invitati alla festa, e di nuovo quando era rimasto nascosto sul balconcino, mentre lei si spogliava. Era bella come sempre, forse ancora di più, ma vedeva in lei una nuova fragilità, un atteggiamento esitante, oltre a un comportamento strano, pensoso. Tristezza? Strinse tra le dita i capelli, sforzandosi di ricordare che non gli importava poi nulla di quello che provava, ora e sempre. «Tutti questi pazzi festeggiamenti ti hanno stancata, mia cara?» La guardò deglutire, seguendo la linea della gola che scompariva nello scollo della vestaglia modesta. Si abbassò e iniziò a sbottonarla, casualmente, fino alla vita. Lei lo lasciò fare, sembrava congelata, gli occhi spalancati e le labbra socchiuse, ancora troppo


spaventata per poter parlare. «E allora, Lily, non mi saluti nemmeno?» Gli occhi di Devon erano fissi sul rapido sollevarsi e abbassarsi del suo seno. «Non hai sentito la mia mancanza? Io ho sentito molto la tua.» Le spinse la vestaglia indietro denudando le spalle, ascoltando il suo respiro sempre più affannoso. Ma Lily non si mosse. «Che sollievo vedere che non sei rimasta ferita quando sei caduta dalla finestra, mia cara. Ero molto preoccupato per te.» Diede un lieve strattone al nastro che tratteneva i due lembi della vestaglia, e i begli occhi di Lily divennero più scuri. Almeno aveva avuto una reazione. Lei balzò in piedi e cercò di liberarsi da quella stretta, ma lui le tratteneva ancora i capelli. La strinse a sé in un abbraccio, intimo ma privo di dolcezza, e i suoi occhi si fecero lucenti di lacrime. Distaccato ma attento, lui glieli terse con le dita, notando le occhiaie profonde. «Che viso tragico», mormorò, toccandole le guance e le labbra, aggrottando lievemente la fronte. «Perché sei venuto qui?» La sorprese il fatto di riuscire a pronunciare delle parole, soprattutto di formulare un discorso coerente. «Perché? Ma per vederti, ovviamente. E per augurarti ogni bene la sera prima del tuo matrimonio. La saggezza della tua scelta non mi è molto chiara, lo confesso, ma molto tempo fa ho rinunciato a comprendere le donne.» «Lasciami andare.» E invece le braccia maschili si strinsero attorno a lei, ma solo per un istante; poi, con sua grande sorpresa, la liberò. Si allontanò da lui immediatamente, cercando con tutta se stessa di riuscire a capire l’espressione sul volto di Devon. Stava osservando la stanza, notando con uno sguardo di disprezzo la sua piccola normalità. Sorpresa, lo vide che raggiungeva il letto e si sedeva sul bordo, incrociando le gambe e sorridendole con freddezza. Aveva paura di chiederglielo, ma non poteva aspettare oltre. «Clay», balbettò, la sua voce poco più alta di un mormorio. «Come sta?» Continuava a sorridere, ma ora quel sorriso aveva assunto un’aria chiaramente innaturale. «Si è ripreso», disse senza alcuna intonazione. Lily abbassò la testa tanto che il mento le toccò il seno. Chiuse gli occhi e ringraziò Dio. «Ma ha perduto la memoria. Non riesce a ricordarsi chi gli ha sparato.» Sollevò il capo. «Non sono stata io.» Ancora quello strano sorriso stereotipato, fisso. «Ci ho pensato a lungo», proseguì, non riuscendo a fermarsi. «Penso che sia stato Trayer. Ti ricordi? Ha detto che te l’avrebbe fatta pagare.» «Trayer. Sì. Sarà stato lui.» Ma non credeva a quella possibilità: glielo leggeva negli occhi, lo percepiva nel tono della voce. «Come hai fatto a trovarmi?» chiese senza più speranze. «Molto semplice. Ho aperto la lettera che il tuo stimatissimo tutore ti aveva inviato a Darkstone.» «Ma...» «Poi sono andato a Lyme Regis, dove la cara Mrs Troublefield, un nome – come dire? - vagamente familiare, fu convinta a dirmi dove avrei potuto trovarti.» Rabbrividì. Il pensiero della sua insistenza la faceva tremare. «Ti prego...» Sollevò una mano, implorante, poi la lasciò ricadere, conscia dell’inutilità di chiedergli qualcosa. Invece gli domandò che cosa avesse intenzione di fare.


«Io? Nulla, mia cara.» I suoi occhi brillavano di una luce dura, strana, che la terrorizzava. «Ma tu sì.» «Che cosa vuoi dire?» «Lily, da te voglio una cosa sola. Ed è veramente quello che ho sempre voluto.» Si alzò, e Lily inconsciamente si strinse le braccia al seno, raddrizzandosi. Le si avvicinò lentamente, sfidandola con gli occhi a non muoversi. Quando la raggiunse, Lily era pallida di terrore e per il tentativo di controllarsi. Allungò una mano e gliela posò su una spalla, la accarezzò delicatamente, quasi distrattamente. «Voglio dormire con te, ancora una volta.» Lily sbatté le palpebre, e questa fu l’unica reazione che ebbe. «Solo per questa notte», spiegò, passandole un dito sotto il mento, quindi accarezzandole la mascella. «Un’ultima volta per noi due, eh? Giusto in ricordo dei bei tempi passati.» Lei riuscì a dire: «No», con un sussurro terrorizzato. «No?» ripeté, premendole le labbra con il dito indice, e questo era l’unico contatto fisico. «Ah, ma mi sono dimenticato di dirti che cosa farò nel caso in cui ti rifiutassi. Ti farò arrestare.» Notò che le guance di Lily si imporporavano, per poi ritornare pallidissime. I suoi occhi grigio-verde si spalancarono ancor più, e per un momento lui si perdette in essi. «Dev...» La parola sospirata gli fece ricordare lo scopo della sua visita. «Sai che posso farlo. Ti metteranno in prigione, amore mio. Vi rimarrai fino a novembre, quando si terranno le Assise, e poi ti processeranno. Clay non può ricordare nulla, ma il suo biglietto sarà sufficiente.» «Il suo...?» «Ti impiccheranno», disse «senza alcuna espressione, stanco di discutere. Lily fece un passo indietro, anche perché l’espressione di Devon, fredda e distaccata, la raggelava internamente. «Capisco.» Si strinse la vestaglia da notte al corpo e chinò la testa, ripensando alle sue parole e alle cose odiose che le aveva detto. Pensò anche al bambino. «Ma se mi concedo a te stanotte...» «Ti lascerò libera.» Sollevò lo sguardo e lo fissò, e gli vide sul volto un’espressione spietata. La decisione non fu automatica, ebbe voglia di combattere e sperò che lui se ne accorgesse. Ma dopo un momento rispose, sempre con un sussurro: «E va bene, Dev. Hai vinto». Prima che potesse ripensarci, si tolse la vestaglia e la lasciò cadere sul pavimento. Il volto dell’uomo si indurì ancor di più. Prendendola per una sfida, lei prese tra le mani due lembi della camicia da notte in corrispondenza dei fianchi, la sollevò e se la fece passare sulla testa. Trattenne l’indumento appallottolato contro il seno per un secondo, poi lo gettò sul pavimento. La voce di Lily risultò alta e sottile. «Dove vuoi farlo? A letto?» Devon la fissò di nuovo. Pensa che sia un gioco, si disse, che io mi ritirerò all’ultimo momento. «Sì, a letto», rispose a bassa voce, poi ripeté le ultime due parole quando vide che lei non si muoveva. Affascinato, vedeva il diaframma liscio di lei contrarsi per ogni inspirazione colma di panico. Alla fine si volse e camminò rigidamente fino al letto. Esitò per un istante, con entrambe le mani appoggiate al materasso, le dita distese. I capelli le ricadevano sulla schiena come una fiamma


scura; la pelle era tanto bianca da splendere. Si chinò un poco, e il movimento dei muscoli delle cosce e delle natiche gli tolse il respiro. Con quella grazia, naturale che ricordava con chiarezza dolorosa e sorprendente, salì sul letto, al centro, con un atteggiamento di attesa impacciata. «Sdraiati», le ordinò con voce roca. Le sottili narici di Lily tremarono, ma obbedì. «Sì, sdraiati di schiena, per ora.» Le si avvicinò. «Ora apri le braccia e le gambe, come se mi accogliessi.» Lily volse la faccia dall’altra parte, verso il muro. Un secondo dopo, spalancò le braccia come le aveva chiesto. Egli attendeva. «Lily?» Vide che la cassa toracica tremava prima leggermente, poi in modo incontrollato, e alla luce delle candele notò il nastro argenteo delle lacrime sulla guancia che poteva vedere. Il vuoto che Devon sentiva dentro di sé si spostò, mutò, come se le sue lacrime fossero quelle che si era imposto per tanto tempo di non versare e come se ora quel vuoto si stesse riempiendo. Si spostò verso il letto, togliendosi giacca e panciotto, tirando fuori la camicia dai pantaloni. Si sedette accanto a lei, guardandola, un ginocchio sollevato e posto nello spazio vuoto in corrispondenza della vita di Lily, e le posò una mano sulla pelle morbida e serica della coscia. La ragazza fece un salto. Poi Devon abbassò il capo e la baciò proprio sopra il ginocchio, una sola volta. Lei sospirò e si coprì gli occhi con una mano. Pronunciando il suo nome, le divaricò le gambe con le mani, lentamente ma con fermezza, non consentendole alcuna resistenza. Vide il ventre di Lily tendersi e indurirsi. Con la palma, poi, la accarezzò fra le gambe e, usando il dorso del medio, la aprì, toccandola da parte a parte. Lily inspirò velocemente e lo guardò, un braccio ancora teso lontano dal corpo. Devon vide che si toccava il palato con la lingua nel momento in cui stava per pronunciare il suo nome e, per fermarla, le mise dentro tutte le dita. Lily chiuse gli occhi e lasciò ricadere il capo sul cuscino. «No, Dev», sussurrò con voce rotta. «Per l’amor di Dio.» «Lily, non parlare», le ordinò mentre fissava gli occhi della ragazza e le sue mani, il loro movimento agile. Lily sollevò un ginocchio, e dopo istanti che parvero non finire mai, il suo respiro mutò e lei inarcò leggermente la schiena. La sua lotta per resistere era palese e fiera. Lui attese, resistendo all’invito dei suoi seni morbidi, fino a quando vide che lei stringeva le mani a pugno e ogni muscolo si irrigidiva. Poi si chinò per prendere un capezzolo irrigidito tra le labbra. E lei non poté far altro che afferrarsi a lui mentre la baciava, le mordeva il seno e la accarezzava, terribilmente abile, senza ritegno. Lily non si muoveva né si lasciava sfuggire un suono, ma improvvisamente Devon sentì sulle dita e la mano le forti contrazioni ritmiche. Quelle forti pulsazioni si fecero poi lievi sussulti intermittenti. Lui si raddrizzò lentamente: avrebbe voluto vedere il volto dell’amante, ma lei continuava a tenerlo voltato dall’altra parte. I seni erano arrossati e umidi per i tanti baci. Continuò ad accarezzarla col pollice. Lei si inarcò, ed egli continuò a toccarla, anche se in modo più delicato, fino a quando lei gli posò una mano sulla sua, fermandola, e guardandolo in volto. Devon aveva un’espressione attenta, eccitata, ma al di là di questo non riusciva a leggervi altro. Il dolore e l’incertezza la paralizzavano: quello che le aveva fatto non era certamente frutto della tenerezza, ma non era nemmeno crudeltà. Era qualcosa giusto in mezzo, si disse disperata. Aveva voluto farla sentire sconfitta. Lei pronunciò il suo


nome, cercando di stabilire un contatto che andasse al di là del sesso. Il suo volto non cambiò espressione, lui non rispose. «Dev», ripeté in un sussurro, «riesci a credere che ti amo?» Qualcosa gli brillò negli occhi, e lei lo fissò con attenzione, cercando di decifrare quel lieve cambiamento. Poi, improvvisamente, lui si alzò. Aspettandosi di tutto, lei si tese ancor più. Devon iniziò a togliersi gli stivali, poi la camicia e i pantaloni. Lily si alzò di colpo, il volto color della cenere: «Devon, non farlo, non farlo. Non è giusto, te ne prego». La vista del suo corpo nudo, eccitato, la colmava di una forma di panico irrazionale, primitivo. Prima che potesse fare un solo movimento, lui la afferrò per le spalle e la costrinse a sdraiarsi di nuovo, poi la coprì con il suo corpo massiccio. Sentì che le ginocchia di Devon la forzavano ad aprirsi. «Ti prego! Oh, ti prego, dobbiamo parlare, tu...» «Non sono qui per parlare.» Con una pugnalata d’angoscia, Lily sentì la sua virilità penetrarla velocemente, senza alcuna resistenza. Ma con sua sorpresa rimase immobile, in lei. Una tregua. Cercò di accarezzargli il volto – se avesse potuto raggiungerlo al di là di quella scorza! Ma lui le prese i polsi e li premette contro il cuscino. «Dev...» «Non dire nulla.» Iniziò poi a muoversi, seducendola con la dolcezza del suo ritmo lento e sensuale. La velocità con cui lei rispose alle sollecitazioni la fece vergognare; per alcuni minuti cercò di resistere, ma era inutile. Le si riempirono gli occhi di lacrime, e lui le fermò con la lingua, ma quando lei spostò la testa per baciarlo, volse il capo dall’altra parte. Il ritmo da lui imposto aumentò di intensità, e nei suoi occhi, Lily vide brillare una luce risoluta. Sapeva quello che voleva, e allora gli rispose: «Non posso». «Sì, che puoi.» La abbracciò, liberandole i polsi, e alla fine lei poté toccarlo: la sua pelle calda, la fresca morbidezza dei capelli. E notò che ora era il corpo di Devon a tremare quando gli passò le mani sulle natiche e sui muscoli irrigiditi della schiena. Moriva dalla voglia di baciarlo, ma si limitò a passare le dita lungo la linea volitiva della mascella serrata; guardandolo negli occhi, gli attirò la testa a sé e gli accarezzò i contorni delle labbra con la lingua. Devon trattenne il fiato, mentre il suo tremore aumentava. Ma si sforzava di aspettare, perché voleva che lei perdesse il controllo per prima. Era una questione di potere, e lei quasi sorrise, poiché era una lotta che poteva vincere senza alcuna difficoltà. Si spostò leggermente e sollevò le ginocchia, accogliendolo ancor di più in lei, più strettamente, più profondamente. Tenendogli le gambe strette attorno alla vita, iniziò quel movimento lento, abile e devastante che lui stesso le aveva insegnato. Il volto di Devon era sepolto nei suoi capelli, ma a lei parve di sentirlo digrignare i denti. Paziente e appassionata, gli si concesse, sfidandolo questa volta a rifiutare il suo dono. Capì immediatamente l’istante in cui la sua resistenza stava per disintegrarsi. Devon sollevò il capo e, per un istante, dietro al desiderio, lei scorse in quegli occhi un barlume di tremenda sofferenza. Le si strinse il cuore e allora, prendendogli il volto tra le mani, gli toccò le labbra con un bacio dolce e leggero. Devon tremò, senza muoversi, poi improvvisamente la sua bocca coprì quella di Lily e ricambiò quel bacio con tutta la dolcezza selvaggia che lei aveva tanto temuto. Sollevò il capo solo per liberare un gemito basso e roco nel momento in cui raggiunse l’orgasmo, che


nacque in lui violento, tumultuoso, e che lei accolse felice. Lo tenne stretto a sé, sentendo il bisogno di proteggerlo fino alla fine della tempesta. Dopo, rimase immobile tra le sue braccia, sopra di lei, ansimante. Ma Lily non riuscì a capire, dalla pesantezza del suo corpo, se provava soddisfazione o sconfitta. E non poteva di certo chiederglielo. Le parole erano il loro vero nemico, lo erano sempre state, ma mai come in quel momento. Gli accarezzò la pelle sudata, godendo di quel raro momento di pace, accettandolo così com’era. L’amore che provava per lui era forte come sempre, ma non le avrebbe mai creduto se glielo avesse detto, e lei avrebbe dato tutto pur di poterlo stringere a sé. Premette il seno e il ventre contro di lui, dolcemente e segretamente, perché il bisogno di dirgli del bambino era troppo forte. E il non potere pronunciare quelle parole la fece piangere. Sentì quelle lacrime sulla guancia e si sollevò sui gomiti per poterla vedere in volto. Non era mai riuscito a resisterle quando piangeva. Sorpreso e stanco, Devon udì se stesso dirle: «Non piangere, Lily. Va tutto bene, non piangere». Si lasciò scivolare accanto a lei. Lily cercò di asciugarsi il volto nel lenzuolo, decisa a smettere di piangere, ma le sue emozioni erano molto più in superficie di quanto pensasse, poiché il minuto seguente non poté fare a meno di dirgli: «Ti amo, Dev. Davvero, lo giuro». Passò un altro istante lunghissimo, poi lui sollevò una mano e gliela appoggiò sulla spalla, dandole leggeri colpetti. «Anch’io ti amo.» Lei trattenne il respiro, volgendosi per guardarlo, ma lui teneva gli occhi bassi, così da evitarne lo sguardo. «Ma devi sposare Lewis», disse con voce triste e rassegnata. «Ti auguro ogni felicità con lui. Probabilmente non è un uomo cattivo, suo padre è ricco, e la cosa serve sempre. Ma tu lo sai già.» Quello che era rimasto del cuore di Lily si frammentò in minuscoli pezzetti. «Mi ricorderai?» sussurrò, con gli occhi chiusi. «Oh certo, ma anche tu mi ricorderai.» Qualcosa nel tono della sua voce le fece fermare il cuore, mentre le dita di Devon le tracciavano sui seni disegni a casaccio. Poco dopo, le coprì la bocca con la propria, facendola smettere di parlare, risvegliandole nuovamente i sensi nonostante il pesante torpore che l’aveva pervasa. La voltò e la penetrò da dietro, questa volta, portandola al culmine del piacere con pazienza inflessibile. Con il cuore a pezzi, Lily si addormentò, esausta. Durante la notte, le mani carezzevoli di lui la svegliarono nuovamente: le candele erano consumate, e la stanza era buia e gelata. Subì il suo amore tormentato in silenzio, troppo stanca per parlare, o persino per piangere. Quando si risvegliò, era sola.


Capitolo ventunesimo «Perché ‘la moglie non ha il potere del proprio corpo, che è del marito, e la moglie non credente è santificata dal marito. Altrimenti i figli sarebbero impuri, invece ora sono santi’.» Lily chiuse gli occhi e cercò di seguire attentamente più il ritmo elegante e teatrale della voce meravigliosa di Soames che non il messaggio incisivo di San Paolo. Gentile e roboante, paterna e solenne, la voce colmava ogni centimetro dell’ampio salotto che, per l’occasione, era stato svuotato dei mobili e accoglieva ottanta ospiti, stipati tra le pareti ornate e affrescate. I loro volti erano per lei delle macchie indistinte, bianche e prive di lineamenti, con gli occhi fissi su di lei. Era grata al velo di tessuto finissimo che le copriva il capo, perché se gli ospiti avessero potuto vederla in viso, si sarebbero anche potuti spaventare. La moglie di Soames si era un poco allarmata qualche minuto prima, quando era andata nella camera di Lily per dirle che era ora. «Ma mia cara, sei ammalata!» E poi: «Oh mio Dio, Roger non vorrà mai rimandare la cerimonia», aveva aggiunto preoccupata, torcendosi le mani. Lily aveva fatto appello a tutte le sue forze per rassicurare la brava donna che non era ammalata, soltanto un poco agitata, e che certamente il matrimonio si sarebbe fatto. Ma ora si sentiva presa ancora dalla nausea, e premette con più forza al seno il libro delle preghiere che Lewis le aveva dato. Avrebbe dovuto costringersi a mangiare qualcosa per colazione, dopo tutto, pensò distrattamente. E se fosse svenuta? «Quindi, poiché la Chiesa è soggetta a Gesù Cristo, che le mogli siano dei propri mariti in tutto», proseguì Soames, mettendo in bella evidenza i grossi denti quadrati, dando quanta più enfasi possibile alle parole. Le ginocchia di Lily avevano iniziato a tremare, e per alcuni secondi immaginò quanto sarebbe stato facile lasciarsi andare sul pavimento, proprio in quel punto, proprio in quel momento. Ma cosa diavolo stava facendo, avrebbe sposato Lewis Soames? Sicuramente quella era una perversione, un peccato, un crimine deliberato contro natura. La sua anima si ribellava, tanto che la battaglia dentro di sé stava prosciugandole le ultime risorse fisiche. Si sentiva ancora svuotata e violata dall’amore disperato di quella notte, e tuttavia il pensiero di darsi a quel marito sposato secondo la legge, le appariva un atto veramente contro natura. «Per questo motivo un uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà alla sposa, e loro due saranno una cosa sola.» Non aveva altra scelta. «Atto innaturale» o meno, quello che stava per fare era una necessità pratica, null’altro. Le alternative sarebbero state la casa dei poveri e la prostituzione. Piuttosto che sposare Lewis avrebbe scelto sicuramente una delle due possibilità, ma c’era suo figlio cui badare. La soluzione non era quindi da rimettere in discussione. Sottomettiti; così sia. E non svenire. Grata, sentiva la solidità della spalla di Lewis contro la sua. Ma la cosa la sorprese, poiché non si era accorta di appoggiarsi a lui. Soames aveva smesso di leggere e stava rivolgendosi ai suoi «cari amici», spiegando loro il motivo per cui si erano lì riuniti. Non è poi la fine del mondo; è un matrimonio. Con un brav’uomo, un uomo


rispettabile. Proprio in quel momento, Lewis le prese una mano – evidentemente, suo padre gli aveva detto di farlo, ma lei non aveva udito. Fissò le dita grosse e massicce di Lewis, che le coprivano completamente le sue. Cercò di immaginarlo mentre la toccava con passione, e ogni particella del suo corpo rabbrividì e tremò. Era peccato, ma pensava in quel momento alle mani di Devon, a quando la toccava. Persino la notte scorsa, colma di rabbia e dolore, c’erano stati momenti di grande tenerezza tra loro, e non importava che ci fossero stati contro la volontà dell’uomo, semisepolti sotto un tormento senza nome. Ma lui non l’amava; anzi, senza rimpianti l’aveva lasciata a Lewis: «Ti auguro ogni gioia con lui», le aveva detto. Il cuore di quell’uomo era un mistero che non avrebbe mai dipanato, perché non l’avrebbe mai più rivisto. Il matrimonio era un’unione indissolubile, stava dicendo Soames, santificata dalla parola di Dio e dalle preghiere. Era un sacramento proclamato da Gesù Cristo in base a quanto affermato da San Marco, indissolubile, quando contratto, se non per adulterio. Erano pure fantasie, si disse Lily, ma le pareva che gli ocelli grigi e penetranti del cugino Roger potessero vederla attraverso il velo, direttamente nel suo cuore malvagio e traditore. Sottomettiti, ordinò a se stessa, non pensare, fallo e basta. Fallo per il bambino. La mano che teneva in quella di Lewis era madida di sudore, ma stava anche rabbrividendo, come se avesse freddo. Udì un ronzio nelle orecchie e, disperata, pensò che stava per svenire. Non era un ronzio, lo comprese un secondo dopo, ma un sussurro. Anzi, un mormorio. La gente stava parlando. Impossibile, si disse, stava forse impazzendo? A che punto della cerimonia erano? Forse che Soames aveva appena detto qualcosa che aveva provocato quella reazione? «In assenza di impedimenti di qualsiasi natura», erano le ultime parole che ricordava. Guardò Lewis, ma gli parve ugualmente sorpreso. Soames interruppe quanto stava dicendo e fissò, aggrottato, un punto tra lei e le spalle di Lewis. Entrambi si volsero contemporaneamente, ancora tenendosi per mano. La gente dietro di loro si stava dividendo al centro, in modo da far passare il nuovo venuto. Un momento prima di vederlo, Lily comprese che si trattava di Devon. All’inizio, provò una gioia pura, immensa, deliziosa. Dietro il velo, il suo volto si era come trasformato, e a malapena era riuscita a trattenere una risata gioiosa. Era venuto! L’avrebbe salvata! Era vestito in modo formale, tutto in nero; portava persino una parrucca. Era stato presente a tutta la cerimonia, fingendosi ospite? Dicendosi che sarebbe parso indecoroso aprirsi a un sorriso gioioso, rapito, tenne il velo abbassato. Vide che Devon fissava la mano che Lewis teneva stretta tra le sue, e diede uno strattone per interrompere quel contatto. Ma Lewis non cedette. «C’è un impedimento a questo matrimonio», annunciò Devon con un tono pigro e leggero, come se stesse iniziando una piacevole conversazione, e che comunque giunse a tutti gli astanti. Ma Lily vide un’altra cosa oltre all’apparente casualità; lesse l’intensità bruciante nei suoi occhi, sentì la fiamma di risposta nel suo cuore. Oh, amore mio, lo chiamò in silenzio; e il guizzo di un muscolo della mascella contratta le fece immaginare che l’avesse udita. «Almeno, lo troverei un impedimento, se in questo momento mi trovassi nei panni


dello sposo felice.» «Chi siete?» domandò Soames. «Che cosa volete qui?» «Sono Devon Darkwell, Visconte di Sandown, e conosco un motivo ben preciso per cui il giovane Lewis, qui presente, potrebbe anche non volersi legare per sempre con questa donna nel sacro vincolo del matrimonio. Siete interessato a saperlo?» La stanza era immersa in un silenzio di morte. Persino Soames, per una volta, sembrava incapace di profferire verbo. Alla fine rispose Lewis. «Dite quello che dovete dire in fretta, signore, e poi andatevene. Nessuno vi conosce, qui.» «Non è proprio così, amico mio. C’è una persona che mi conosce, invece. E oserei dire piuttosto bene.» Il tono era ancora chiaro e casuale, ma fu il lieve ghigno affioratogli sulle labbra quando aveva pronunciato quelle parole a far suonare un campanello d’allarme nel cervello di Lily. «Ma mi avete chiesto di fare in fretta. Sono felice di accontentarvi, comunque, poiché non ho certamente più voglia di quanta ne abbiate voi di prolungare questo spiacevole incidente. Pensate, signore, di sposare una vergine?» Si levò un mormorio. La stretta con cui Lewis le teneva imprigionata la mano aumentò dolorosamente, e lei si sentì sollevata; le distoglieva la mente dall’agonia che sentiva crescerle dentro mentre tutte le speranze morivano e ogni folle sogno si spezzava. Devon non era venuto a salvarla, ma a rovinarla. Ebbe immediata la visione di quello che sarebbe accaduto, come un lampo che illumina una catastrofe e poi tutto si fece, nuovamente, nero. «Ma come osate?» tuonò Soames, alzando la voce per dimostrare tutta la sua indignazione. «Con quale diritto venite tra noi con le vostre insinuazioni meschine?» «Lascialo parlare, padre», disse a bassa voce Lewis, e il mormorio di rabbia e curiosità si dissolse ancora una volta nel silenzio. Devon sollevò un sopracciglio, divertito. «Grazie», fece, con un inchino di scherno. «Sarò breve. Immaginando che, come la maggior parte degli uomini, non amereste ritrovarvi la notte di nozze con della merce usata, penso che vi possa interessare sapere che la vostra quasi sposa non è proprio quello che sembra. Anzi, non lo è affatto. La conoscenza che ho della signora è breve, solo qualche mese, e quindi non posso dir nulla del suo passato, ma posso dirvi che fino a quattro settimane fa è stata la mia amante.» Soames era fuori di sé. «Signore!» tuonò, sollevando un braccio e indicando la porta, dietro le spalle di Devon. «Lasciate subito questa casa prima che sia costretto a gettarvi fuori. Per Dio, signore, io...» «Avete delle prove?» lo interruppe suo figlio. «Purtroppo no. Tuttavia, posso provare le ultime trasgressioni di questa signora. Molto recenti, in effetti; a dire il vero, sto parlando di stanotte.» Un coro di esclamazioni scioccate proruppe dagli ospiti. E quando Lily ne aveva più bisogno, Lewis improvvisamente lasciò la presa liberandole la mano; lei barcollò, e fu solo la forte stretta di Soames sulla sua spalla a sostenerla. Un conforto da una fonte insospettata, pensò – e sicuramente temporaneo. Si strinse le braccia al seno, concentrandosi per non svenire. Sarebbe stata una soluzione troppo comoda. «Mi spiace dovervi dare un’informazione simile», riprese Devon con lo stesso tono confidenziale, «ma è meglio scoprirlo prima che dopo, non vi pare? Il fatto è che


stanotte ho fatto l’amore con la vostra sposa, nel vostro letto. Beh, non proprio vostro, ma capite cosa intendo. L’ho presa tre o quattro volte, non mi ricordo con precisione, e poi me ne sono andato all’alba, passando per quel piccolo balcone, così comodo...» Sorrise, poi concluse ironico: «Se decidete di sposarla in ogni caso, vi suggerisco di iniziare la nuova vita assieme in una stanza senza balconi, per vostra tranquillità» «Menzogne!» urlò Soames. «Affatto. Volete che vi descriva la stanza? Piccola, con pochi mobili; un tappeto rosa con un disegno vagamente floreale. Pareti bianche, soffitto semplice. A dire il vero, è il letto che ricordo di più, il baldacchino di legno di quercia con una testata intagliata. Copriletto viola, rosa e azzurro, penso. Non mi credete ancora? Ah, aspettate, dimenticavo.» Si mise una mano nella tasca del panciotto ed estrasse una cosa bianca. «Ecco qua! La giarrettiera della signora – gliel’ho tolta io stesso. Come potete vedere, ha le sue iniziali.» Ecco, ora sono completamente sola, si disse Lily, sentendo la mano priva di vita di Soames che scivolava dalla sua spalla. Ed era quasi un sollievo, poiché non sarebbe potuto accaderle nulla di peggio. Aveva toccato il fondo. Fu Lewis a parlarle. «Lily, è vero? C’è qualcosa di vero? Conosci questo uomo? È...» «Ma certo che non è vero», intervenne Soames, riprendendosi, mettendosi tra i due. «Quest’uomo è un bugiardo, e probabilmente anche un impostore. Lily fa parte della mia famiglia, è la figlia di mio cugino. Io sono un ministro del Signore, e ho ricevuto in dono la capacità di leggere nell’anima della gente, e vi dico che il cuore di questa donna è puro. Pensate che avrei accettato che mio figlio sposasse una peccatrice?» Si levò un mormorio incerto di assenso. Con le parole che seguirono, la voce persuasiva di Soames risuonava di convinzione. «Le vostre menzogne non ci convincono, signore. Lasciate immediatamente questa casa. Il matrimonio verrà celebrato ugualmente, sulla base della parola di questa ragazza pura. Lily», urlò poi, guardandola con fiducia, aspettiamo soltanto che tu dica la verità. Conosci questo uomo?» «Sì, lo conosco.» In uno stato d’animo diverso, avrebbe anche potuto trovare divertente l’espressione di Soames, tanto ovvio era il suo desiderio di riformulare la domanda. Raccogliendo le ultime forze, gli volse le spalle guardando Lewis, sollevandosi il velo con mano malferma e fissandolo direttamente negli occhi sconvolti. «Quello che dice è vero. Sono stata la sua amante. Ti chiedo perdono, Lewis, non avrei mai voluto farti del male. E avevo intenzione di essere per te una buona moglie...» Si interruppe quando Lewis ringhiò e la allontanò da sé, con le mani tremanti per lo sforzo di reprimere la violenza, poi le volse la schiena. Suo padre lo affrontò immediatamente; la loro conversazione, bassa e fitta, venne comunque sovrastata dal crescente fragore di sorpresa e stupore degli ospiti scandalizzati. Lily sentì tutti gli sguardi su di sé, colmi di riprovazione, come se fosse nuda, ma non guardò nessuno. Continuava a fissare Devon, non riuscendo a distogliere lo sguardo. Anche quando Lewis interruppe i vani e disperati tentativi del padre di convincerlo, e annunciò con voce acuta che il matrimonio era annullato, lei non riuscì a guardare altrove, anche se sul volto di Devon lesse un’espressione


crudele di trionfo. Vagamente percepì che la stanza si stava svuotando, poi sentì un lieve tocco sul braccio e voltandosi vide Ruth Soames, al suo fianco. La confusione che Lily lesse in quei timidi occhi castani indusse Lily a prenderle la mano. «Mi spiace tanto», sussurrò. Ruth scrollò il capo confusa, e fece per parlare, ma Lily non avrebbe mai scoperto cosa le stesse per dire, in quanto Lewis si frappose tra le due e Ruth, intimidita tanto dal figlio quanto dal marito, si volse e uscì dalla stanza. Conscia del fatto che sarebbe stato inutile cercare di far pace con Lewis, Lily attese, semplicemente. Quella mattina, quando aveva indossato il suo bell’abito verde da sposa, aveva colto l’ironia di una giornata bellissima, con il cielo di un azzurro intenso e il sole che brillava glorioso. Ora, non si sorprese nel vedere attraverso le alte finestre del salotto che si era levato un forte vento che oscurava il cielo e gettava le foglie morte contro la casa. Una conclusione molto più adatta, alla sconfitta del suo matrimonio. Lewis apriva e richiudeva convulsamente le dita a pugno. Dando la schiena a Devon, le disse, in un sibilo cattivo: «Lily Trehearne, hai disonorato la mia casa e gettato la vergogna sulla mia famiglia. Lascia immediatamente questo luogo; per noi, sei morta. Ma sappi che l’ira di Dio ti seguirà e la Sua giustizia è veloce e terribile. Fuori di qui, sgualdrina! Sporca puttana...» Non pensava davvero che Lewis sarebbe giunto al punto di picchiarla, anche se aveva le mani strette a pugno e sollevate; eppure provò un certo sollievo quando Devon lo prese per il bavero della giacca e lo spinse indietro, interrompendo quella arringa. «E per me, invece, nessuna accusa? Non è molto corretto da parte tua, caro il mio vecchio Lewis. Una ragazza deve avere un uomo per diventare una sporca puttana – oppure tuo padre non ti ha detto niente?» «Malvagio! Figlio del diavolo! Fuori dalla mia casa, tutti e due! Ehi, ma che cosa state facendo? Fermatevi, Fermatevi, ho detto...» Devon stava spingendo con forza Lewis verso la porta. Quando si fermava, lo spingeva con la palma della mano sul torace. «Vai via, Lewis», gli disse a bassa voce. «Io me ne andrò tra un paio di minuti, ma prima vorrei scambiare due parole con Lily.» «No, voi...» «Due minuti.» Lo sospinse con fermezza per l’ultima volta, poi gli chiuse la porta in faccia. Lily guardò l’unico posto a sedere che c’era in tutta la stanza, un divanetto a due posti sistemato sotto le finestre per qualche ospite infermo. Ma era giusto all’altro capo della stanza, e le pareva lontano chilometri e chilometri; non sarebbe mai riuscita a raggiungerlo prima che le gambe le cedessero. Dietro di lei c’era una lunga parete rivestita di legno, e Lily arretrò fino a quando non si sentì le spalle appoggiate contro quella solidità rassicurante. Devon le si avvicinò senza fretta, tenendo le mani in tasca. L’espressione di vittoria che portava in volto era solo una maschera, lo sapeva bene, poiché non c’era nulla di casuale in quello che aveva fatto. Si fermò di fronte a lei e allungò un braccio, appoggiando la mano alla parete di fianco. Lei sentì la minaccia sottile che proveniva dal suo corpo, ma ora non lo temeva più. «Peccato per il matrimonio», mormorò, sorridendo con finta comprensione. «Ma mi sbagliavo sul conto di Lewis, è proprio uno stupido. Secondo me, starai meglio


senza di lui. E che cosa farai ora, Lily?» Non rispose. «Immagino che in un modo o nell’altro te la caverai. Quelle come te ci riescono sempre.» Intorpidimento, non orgoglio, le vietava di piangere. Era doloroso guardarlo, ma doveva avere una risposta. Deglutì per poter parlare e sussurrò: «Perché?» Lentamente, l’espressione sul volto di Devon mutò, da una soddisfazione maligna e capricciosa a un odio intenso sotto cui si intuiva chiaramente il dolore. «Clay», disse con voce priva di tonalità, «non migliora, Lily. Penso che potrebbe anche essere già morto. Sono rimasto un mese con lui, ma non si è mai risvegliato. I dottori dicono che non ha alcuna possibilità di riprendersi.» Poi estrasse una cosa dalla tasca e la tese a lei. «E tu l’hai ucciso.» Aprì il piccolo lembo di carta spiegazzato. Sentì che improvvisamente le gambe le cedevano, e riuscì a rimanere in equilibrio solo stringendo le ginocchia e appoggiandosi con tutto il peso alla parete. Lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi e chiuse gli occhi, mentre il sibilo nelle orecchie si tramutava in fragore. Ha sparato Lily. Sbiancò; sembrava un cadavere in piedi. Ma passò, e non svenne: un’altra grazia negata. Quando riuscì a muoversi, si strinse nelle braccia, cercando di proteggersi il grembo. Si inumidì le labbra con la lingua. «Perché non mi hai semplicemente uccisa?» sussurrò. Lui si chinò in avanti, e Lily comprese che non l’aveva udita. Pronunciare quelle parole le costava uno sforzo inaudito, eppure lo fece. «Volevo. Lo voglio. Ma questo mi sembrava meglio.» Non riuscendo più a guardarlo, non si accorse che se ne stava andando finché non udì i passi lenti sul tappeto. Un secondo dopo, la porta si aprì con suono metallico e lei seppe che era rimasta sola. In silenzio, un po’ alla volta, si lasciò scivolare sul pavimento. Si strinse le braccia attorno alle ginocchia, si cullò per vincere la nausea che le dava il profumo intenso e dolce dei garofani. La casa era immersa nel silenzio più totale, più inquietante. Con la guancia appoggiata alle ginocchia, sentiva il sangue pulsarle nelle orecchie, scorrerle nei polsi. Dentro di lei c’era un altro cuore, minuscolo, che batteva veloce, come un uccellino; dentro di lei c’era un altro essere, vulnerabile, innocente, indifeso. L’unica sua responsabilità, ormai, era quella di tenere il suo bambino al sicuro, e per quel motivo Lily mise da parte tutti i pensieri di suicidio e autodistruzione. E per quel motivo, dopo qualche minuto di torpore, si alzò e uscì piano dalla stanza. La casa era tanto silenziosa da parere vuota, ma sapeva che non era così. Rimase ai piedi della scala, guardando in su, verso il corridoio immerso nel buio. La notte prima, in quello stesso punto, Lewis le aveva detto che il suo modo di fare con gli uomini era troppo leggero. Le venne da ridere, e dovette mettere le dita sulle labbra per non farlo. Doveva andarsene così, senza dire altro? Mormorò: «Addio», nel vuoto echeggiante, sorpresa nel sentire la propria voce così forte e chiara, poi percorse l’ingresso fino alla porta. Quando fu sulla soglia, il vento le soffiò in volto una folata di sabbia e cenere. Immediatamente, il suo sguardo cadde su un involto sull’ultimo dei gradini. Si avvicinò e vide che era il suo vecchio abito, quello che indossava quando era giunta in quella casa, tre settimane prima. Si chinò e lo raccolse, e notò che all’interno c’erano anche le sue vecchie scarpe, dure e logore. Tenendo quell’involto contro il


seno, sollevò lo sguardo sulla facciata piatta della casa; le finestre apparivano cieche e vuote, ma non si lasciò ingannare: percepì la curiosità avida e maligna di occhi attenti come denti acuminati, pronti a colpire. Senza mostrare il minimo sentimento, si volse e iniziò a percorrere la via, con scarpine col tacco alto che le permettevano di camminare a mala pena nel fango, proprio nel momento in cui iniziavano a cadere le prime gocce di pioggia. Senza rendersene conto, si era incamminata verso Dartmoor.

Capitolo ventiduesimo C’è qualcosa di ostile nella brughiera. È talmente inospitale che non pare nemmeno di essere sulla terra. Paludi, felci e muschio strisciante vi albergano dando vita a una distesa monotona interrotta soltanto da rocce granitiche, vere e proprie punte rocciose. Tra i cespugli di una landa priva di alberi vivono le vipere, e solo pochi uccelli. Il silenzio è opprimente e pesante, il panorama ostile anche in una giornata di sole splendente. Ma solitamente la brughiera è avvolta dalla nebbia umida, e allora si sente la necessità di voltarsi e cercare un’aria più salubre e respirabile. Qualche volta, nel bel mezzo di Dartmoor, capita anche che un cavallo si blocchi e inizi a sudare di paura. In un pomeriggio freddo di settembre, mentre una nebbiolina appiccicosa estendeva le sue dita bianche sulla terra stanca, una donna anziana, guidava un carro trainato da un asino lungo un sentiero non tracciato, che aveva scelto lei stessa. Il suo nome era Meraud. Accanto a lei, sul sedile, era sdraiato un grosso cane nero. «Giù, ora», disse la vecchia, e il cane prontamente balzò a terra. Il carro portava quel giorno un carico pesante, e l’asino, ormai vecchio, faticava anche sulle colline più dolci. Il cane trotterellava accanto al carro, sulla terra pietrosa; quando raggiunsero una zona di pianura, balzò con grazia di nuovo sul carro, riprendendo il suo posto. Meraud si abbottonò il bottone più alto della sua finanziera. Era un cappotto da uomo, verde e consunto. «Sta venendo su il freddo», disse, avvolgendosi meglio in esso, «e quella ragazza non ha altro che uno scialle. Sta ancora dormendo, vero?» Il cane, Gabriel, sollevò le orecchie pesanti. «Mi chiedo cosa facesse a Bovey Tracy. Non è di certo il luogo più adatto per una ragazza con un abito di seta, stanne certo. Quei furfanti dannati... ma sono scappati quando ti hanno visto, non è vero, Gabe? Hoo, hoo.» Non era tanto una risata quanto la rappresentazione verbale di un colpo di pistola. «Non dovremo tornarci per molto tempo, forse sino a primavera, se siamo fortunati. Abbiamo tutto, davvero. A te piace la gallina, non è così?» Scrollò le spalle indicando una piccola gabbia di metallo sul pavimento del carro, dietro di loro. «Ammettilo, vecchia canaglia. Ma lasciala stare, fa il bravo. Per quanto me ne importa puoi prenderti le uova; è il resto che voglio. E ora, scendi di nuovo», disse mentre il carro si accingeva a percorrere un’altra salita, e Gabriel scese. Un poco più in là, Meraud iniziò a cantare. La nebbia si era fatta più fitta, per poi diradarsi nuovamente. Negli intervalli in cui saliva, cumuli bassi di nuvole si rincorrevano, così vicini alla terra umida che pareva che un braccio alzato potesse toccarli. Lily sollevò lo sguardo vuoto, immaginando che fossero pecore in movimento, indecise sul da farsi. Si spostò su un sacco di tela


ruvida pieno di oggetti appuntiti; alla sua destra c’era un altro sacco grosso e pesante con dentro qualcosa di puzzolente. Udì nuovamente la voce che l’aveva svegliata, un gorgheggio alto e leggero nell’aria pesante: «Quanto è dolce il mio Salvatore con me, le Sue braccia sono un caro rifugio». Lily volse il capo e vide attraverso una rete di metallo gli occhi tondi e brillanti di una gallina. Dopo un momento, si sollevò su un gomito e guardò dietro di sé. La massa nera di un cane enorme colmava la sua vista, vicinissima al viso. Non aveva notato la gallina quando era salita sul carro, per metà strisciando, per metà cadendovi dentro, ma si ricordava del cane. Quella presenza intimidatoria l’aveva protetta da un gruppetto di monelli urlanti lungo un viale fangoso di un paese di cui non sapeva il nome e che aveva attraversato, non si ricordava quanto tempo prima. Bassi, scabbiosi e con i piedi nudi, all’inizio l’avevano soltanto insultata, poi il loro coraggio bestiale era aumentato e le avevano tirato addosso pietre e manciate di fango. Il cane nero era trotterellato al suo fianco, sollevando il labbro superiore pendente e rivelando denti aguzzi e sorprendentemente bianchi. I suoi aguzzini se l’erano filata a gambe levate, come uccelli sparpagliati da un gatto. La voce sottile da soprano smise di cantare, Lily udì un movimento dietro di sé, e poi quella medesima voce disse: «E così ti sei svegliata. Come ti chiami?» Lily si volse, stringendo gli occhi per vedere nell’oscurità il profilo ossuto di una donna che indossava un cappotto scuro e le cui mani deformate dall’artrite tenevano le briglie di un vecchio asino che spingeva il carro. «Lily Trehearne.» L’anziana donna annuì. Dopo qualche istante, Lily chiese dove stessero andando. «Io e Gabriel stiamo tornando a casa.» Volse leggermente il capo. «Mi chiamo Meraud», soggiunse poi. «Hai dei parenti, Lily Trehearne?» «No.» «Amici?» «Nemmeno.» «E allora, che cosa farai?» Scrollò il capo. Quando notò che la donna non la stava più guardando, soggiunse: «Non lo so. Non riesco nemmeno a pensare». «Se ti dovesse trovare la polizia, ti porterebbero subito in una casa di lavoro. Devi avere un luogo dove stare, non puoi vagare così.» Lily abbassò il mento sul petto. «Sai lavorare?» «Sì, so farlo.» «Ho bisogno di un aiuto. Non posso pagarti, ma ti darò un tetto e del cibo.» Lily inspirò profondamente. «Aspetto un figlio.» Seguì un silenzio lungo, molto lungo. Si ridistese nel carro e chiuse gli occhi, senza pensare a nulla. «Potresti rimanere in ogni caso. Vivo nella brughiera. Potrai aiutarmi nei lavori di casa fino a che te la sentirai.» Lily sollevò lo sguardo e vide il cielo grigio attraverso un velo di lacrime di gioia. Molto tempo dopo, il carro si fermò e Lily scese, intorpidita. La notte senza luna era nera come la pece. «Fai attenzione», le disse la vecchia, quando Lily, stordita, cozzò direttamente contro una forma massiccia che si stagliava nel buio, un albero o una roccia o qualche cosa di simile, si disse. Ne vide altre lì attorno. Meraud la prese per un braccio e la condusse attraverso quel labirinto di forme scure fino alla porta di un piccolo cottage. All’interno, pareva che fosse più freddo, più umido e più buio che non all’esterno. «Sai accendere un


fuoco con la torba, Lily?» «Sì.» «Qui, ai tuoi piedi, c’è il focolare, e lì c’è il fornello. Tornerò subito.» «Ma dovrei aiutarti a scaricare il carro.» «Lo faremo domani mattina.» «Il mulo, allora...» «Stai tranquilla, cara, sei molto stanca. Accendi il fuoco e poi mettiti a letto.» Uscì come un fantasma attraverso la porta nera prima che Lily potesse ringraziarla. Non aveva in realtà mai acceso un fuoco con la torba, ma l’aveva detto solo per far piacere alla nuova benefattrice. A mano a mano che i suoi occhi si abituavano all’oscurità, scorse i cumuli precisi di quel materiale accanto al focolare di pietra. Non riusciva a vedere altro combustibile che non fosse l’esca contenuta nell’apposita scatola assieme alla pietra focaia e all’acciarino. Bastava... accenderla? Mise sulla grata quattro quadrati pesanti, che ricordavano enormi saponette, e dopo molto faticare e sfregare, riuscì a far scaturire una scintilla nell’esca di lino posta nella scatola sottostante. Ed ecco, improvvisamente, che la torba si accese magicamente, e in pochissimo tempo ci fu un allegro fuoco scoppiettante. L’odore era tuttavia molto forte, e penetrante; le ricordava quello dell’affumicatura della pancetta. «Sdraiati a letto», le aveva detto Meraud. Il letto doveva essere quella sottile stuoia di giunco sul pavimento di terra. Oh, ma allora le avrebbe preso il suo letto, o per lo meno gliene avrebbe occupato metà. Non c’era un altro luogo dove dormire? Si guardò attorno nella stanza ed ebbe un sussulto di sorpresa. La parete! Quella in fondo... brillava, mandava bagliori, scintille, inviava riflessi di fiamme d’oro e rosso da un migliaio di minuscoli prismi, macchioline brillanti su ogni superficie della parete, dal pavimento al soffitto. Rimase immobile per la sorpresa, poi si scosse e si avvicinò alla parete magica, fino a quando fu tanto vicina da poterla toccare. Vetro e piccoli specchi, e anche metallo. Piccoli pezzetti di forma strana incollati assieme nel cemento, o in qualsiasi materiale in cui fosse fatta la parete, per formare una superficie fantastica e multicolore dalla luce intensa. Si volse sentendo il rumore della porta e vide entrare Meraud, con la gallina nella gabbia e un sacco sulle spalle. Tenne lo sguardo basso e non lo sollevò sino a quando non ebbe finito di sistemare le provviste acquistate su uno scaffale costruito dietro a un tavolo grezzo, in quella che Lily stabilì essere la zona della cucina. Per la prima volta vide la donna alla luce, anche se fioca. Avrebbe potuto avere cinquanta o settant’anni, era alta e ossuta, con le giunture sciolte e il passo lento. Il suo volto era molto rugoso, scuro come il cuoio. I capelli, biondo-bianchi, erano corti e le coprivano il capo come un elmetto di metallo. Aveva il tipico naso da strega, ossuto e appuntito all’estremità, una bocca piccola e sottile che nello schiudersi al sorriso rivelava parecchi vuoti nella dentatura. Ma i suoi occhi castani erano gentili come quelli di una Madonna. Sollevò lo sguardo, e Lily fu sorpresa di leggervi un’espressione di timida ansia. Poi, all’improvviso, comprese che Meraud stava aspettando che lei le dicesse qualcosa sul cottage o, più precisamente, su quella parete. Stese le braccia, incapace di trovare le parole. «È... favolosa!» Il sorriso di Meraud aveva trasformato il suo volto pacifico. In esso Lily pensò di leggere una natura dolce


e portata al perdono, che avrebbe capito e assolto qualsiasi follia e fragilità umana. Senza averne un motivo logico, sentì che le lacrime le salivano agli occhi. «Sono stanca», mormorò, imbarazzata, asciugandosi le guance. «Da quanto tempo non mangi?» Ci pensò un istante. «Da due sere.» «Accomodati, mia cara. Asciugati e pulisciti: c’è dell’acqua nella brocca. Poi mettiti sotto le coperte. Preparerò del tè.» Lily fece quello che le era stato detto, contenta di togliersi l’abito di seta bagnato e la biancheria nuova, le scarpe e le calze zuppe. Si lavò accanto al fuoco, si asciugò con un canovaccio di cotone, quindi si sdraiò, nuda, tra le lenzuola della stuoia che Meraud aveva spostato vicino al fuoco. Poi udì un rumore all’esterno e vide la vecchia che andava alla porta per fare entrare Gabriel. Questi diede a Lily un’occhiata impassibile prima di avvicinarsi al fuoco, percorrendo due volte un cerchio stretto, per poi accucciarsi con un gemito soddisfatto. Meraud le passò una tazza di tè fumante e un piatto di biscotti d’avena caldi, e si abbassò rigidamente accanto a lei sulla stuoia. Lily si spostò immediatamente, lasciandole il posto più vicino alle fiamme. «Non puoi dormire nuda, qui, congeleresti. Sai cucire?» Mentre parlava, si tolse l’abito nero passandoselo sulla testa e lo ripiegò ordinatamente in un quadrato, da utilizzare come cuscino. Sotto l’abito indossava pantaloni e una giacchetta corta di lana. «Sì.» «Bene. Allora potrai cucirti qualcosa da indossare di notte utilizzando del fustagno che ho acquistato a Bovey.» Lily chinò il capo. «Sei tanto gentile.» Meraud sorseggiò rumorosamente il suo tè. «Vivi qui da sola?» «No cara, ci sono Gabe e Pater.» «Pater?» «L’asino. E ora c’è quella gallina. Come dovremmo chiamarla?» Ma Lily non riusciva più a connettere. «E ovviamente ho il mio lavoro.» Allungò una mano per dare a Gabriel un biscotto; questi lo masticò lentamente, senza mai distogliere lo sguardo da Lily. «Vivi qui da molto tempo?» sentì che stava per sbadigliare, e si sforzò di ricacciare indietro lo sbadiglio. «Da parecchio, sì.» Sul pavimento, accanto al letto, c’era una piccola scatola fittamente tempestata di pietre e conchiglie da cui Meraud prese una piccola pipa d’argilla e un sacchetto di cuoio. Portava ancora i guanti, che però lasciavano libere le dita. Guardandola riempire la pipa, Lily notò che le mani ossute tremavano leggermente. Poi tese verso il fuoco un lungo filo di paglia e accese la pipa. Immediatamente, il profumo del tabacco si unì al ricco odore di torba. Lily appoggiò le guance sulle mani ripiegate. Aveva ancora una domanda, ma esitava a porla, temendo di offendere Meraud. «Sei... sei stata... ti senti mai sola?» L’anziana donna volse il capo a guardarla. Il suo volto era immerso nell’ombra, e Lily poteva vedere solamente due bagliori di luce riflessa nel punto in cui c’erano gli occhi. Ma anche nell’oscurità, riuscì a notare che Meraud aveva un aspetto triste.


«Sola», ripeté con la sua alta voce dolce. «Ma come potrei quando non sono mai sola?» Allungò una mano e accarezzò una guancia di Lily, una carezza lieve e dolce, data da quelle dita ruvide. «Vai a dormire, mia cara.» Lily chiuse gli occhi. Si lasciò portar via dal sonno ascoltando la voce dolce, da soprano di Meraud che cantava: «Egli cammina con me su un prato verde, e mi tiene la mano tremante». Si svegliò la mattina dopo, sola. Subito, il pensiero di Devon le invase la mente: evidentemente l’aveva sognato, ma le immagini le giungevano solo frammentate, e ne fu contenta. Si sedette, lasciandosi ancora una volta sorprendere dallo spettacolo insolito della parete del cottage. Vide un vago riflesso allegro di se stessa, nuda, illuminata dalla lieve luce solare che penetrava nella stanza dalla porta socchiusa. Quella visione strana la fece quasi sorridere. Si infilò velocemente gli abiti e uscì. E si fermò, impietrita. A pochi metri da lei, c’era un gigante. Sentì che ogni muscolo del suo corpo si tendeva, pronto alla lotta; e aprì la bocca per urlare. Un istante dopo, tuttavia, comprese che non era vero o, meglio, animato, perché appariva, in verità, molto reale. Non umano, in effetti, e nemmeno appartenente al regno animale: a guardarlo bene, era una sorta di vegetale umano. Gli si avvicinò, e con sorpresa notò che questo albero-uomo verde non era affatto solo, ma che ce ne erano molti altri – dozzine – stipati nel cortile. Alcuni erano come questo strano vegetale umano, sebbene colti in posture diverse, ma c’erano anche civette e tartarughe, donne dal grosso seno, gatti, conigli e pesci, palloni giganteschi, totem magici e strani, monoliti e un numero enorme di altre forme fantastiche le cui identità potevano essere conosciute soltanto da chi le aveva create. Meraud? Osservando quel gigante, alto più o meno due metri e mezzo – quindi Meraud doveva averlo scolpito in piedi su un tavolo, o forse sul carro dell’asino, per arrivare alla testa – Lily vide che era fatto soprattutto di terra e che stava ancora, per così dire, vegetando. Rametti di un verde tenerissimo, infatti, e zolle di erba folta spuntavano da esso, dandogli un aspetto variabile, veramente inimitabile. Senza un volto, aveva tuttavia un’espressione ben definita. Ma Lily non riusciva a trovare le parole, e sospettava che la sua percezione sarebbe cambiata in base all’umore. Per ora, le sembrava una cosa curiosa, ma in un altro momento avrebbe anche potuto spaventarla. Udì dei colpi di tosse violenti provenire da un punto non ben precisato alla sua destra. Seguendo quel suono, facendosi largo tra sirene e stelle, tra uccelli dalle ali spiegate, trovò Meraud che si stava asciugando le labbra con un fazzoletto. Si terse anche gli occhi e gratificò Lily con il medesimo sguardo timido, obliquo, della sera precedente, quando attendeva un giudizio sulla spettacolare parete di vetro. Questa volta, Lily scelse le parole con grande attenzione. «Non sapevo che cosa intendessi dire quando hai parlato del tuo ‘lavoro’. Ora, invece, capisco benissimo. Sei un’artista.» Vide che un profondo rossore di piacere imporporava quelle guance dalla pelle simile a cuoio; il volto le si illuminò con quel suo dolce sorriso, anche se un po’ sdentato qua e là, gli occhi le si inumidirono di piacere. Lily rispose al sorriso, contenta di avere detto proprio la cosa giusta. «Hai dormito a lungo», notò poi Meraud, come per cambiare argomento. «Come ti senti?»


Lily sollevò lo sguardo al cielo; dalla posizione del sole, si disse che doveva essere più o meno metà mattina. «Penso di non avere mai dormito così a lungo», disse sorpresa. «Perché non vai a casa e prendi del tè per tutte e due? Ci sono anche delle gallette di orzo, ancora coperte di cenere, in una padella; puoi portare qui anche quelle. Mi piace mangiar fuori quando è bello.» «Va bene», ma si fermò subito. «Con che cosa sono fatte le tue sculture?» chiese. Quella che Meraud stava scolpendo, e che aveva vagamente la forma di un cavallo, aveva una struttura di base in fili di metallo piegati, il che le fece dubitare che la gallina avesse ancora la sua gabbia. Inoltre, c’era una vasca colma di qualcosa di denso e marrone ai piedi di Meraud, che stava versandone manciate sulla struttura di metallo. «Pare fatta con fango argilla e paglia. E piume», continuò Lily osservandola più attentamente. Meraud sorrise di nuovo, contenta. «È proprio così», confermò. «Oh, e pezzi di escrementi di pollo. Che sono dei leganti perfetti.» Lily spalancò la bocca, ma la richiuse subito quando Meraud, accoccolata accanto al suo nuovo cavallo, la guardò con aria interrogativa. «Vado a prendere il tè», mormorò Lily, con il volto color porpora, e se ne andò di corsa. Quando giunse a metà strada, iniziò a ridacchiare. Il compito principale di Lily, apprese dopo che ebbero fatto colazione e riposato un poco al sole su una coperta, era di mescolare e passare a Meraud i pesanti mastelli di quella commistione di materiali per le sue statue. Oramai, la donna non aveva più la forza di farlo da sola, dovette ammettere, almeno non nella quantità necessaria. Lavorava molto e, se il tempo era bello, riusciva a completare una scultura di medie dimensioni in tre o quattro giorni. Non le piaceva la pioggia perché non poteva lavorare – e, nella brughiera, pioveva molto di frequente – e aveva iniziato la parete di specchi per disperazione, durante un periodo piovoso particolarmente lungo, l’inverno precedente. Passò il resto del pomeriggio a spiegare a Lily le proporzioni e i tempi della miscelazione, e lei apprese che quel procedimento era molto più complicato del semplice rimescolare un mucchio di fango e basta. Gli altri compiti riguardavano le faccende di casa – tenere il cottage lindo e pulito, cuocere il pasto, lavare e rammendare i pochi indumenti che avevano. Lo scopo era quello di liberare Meraud da tutto quanto riguardava i lavori terra a terra, così che potesse dedicare quanto più tempo possibile al 'lavoro', la sua vera vocazione, che affrontava sempre con totale dedizione e serietà. Quella nuova sistemazione piaceva molto a Lily, che accettava di buon grado la tranquilla routine in cui i loro giorni erano lentamente scivolati. Più di qualsiasi altra cosa, desiderava avere pace, per sé e per il bambino. E l’unico modo per trovarla e conservarla era cancellare del tutto il pensiero di Devon. Si accinse a quel compito con spirito di vendetta, e scoprì che non era poi così difficile, dopo tutto. Evitare il dolore faceva parte degli istinti umani, ed era naturale per lei come allontanare la mano dal fuoco. Una volta aveva sofferto molto all’idea che Devon pensasse che gli avesse rubato del denaro. Poi, la certezza che lei avesse potuto ferire Clay l’aveva fatta soffrire ancor più, e infine le aveva ucciso dentro qualcosa, il nocciolo della sua innocenza, la fonte primaria della sua speranza e del suo ottimismo. Come era stata astuta quella punizione: come era stato


intelligente Devon a capire che l’arresto, persino l’omicidio, sarebbero state quasi delle gentilezze per lei. Ma costringerla a vivere sola, ricordando per tutta la vita quello che aveva fatto e quanto lui la odiava, era stata la condanna più crudele. Durante il giorno, le due donne parlavano molto poco tra loro. Se i suoi compiti erano terminati e la giornata era bella, Lily amava rimanere fuori a guardare quella donna che lavorava assorta, lenta e rapita nei suoi pensieri. Gabriel stava spesso accanto a lei, enorme, immobile e silenzioso. «Gabe non si affeziona a tutti...» disse una volta Meraud, approvando il comportamento del cane, e Lily si era sentita assurdamente lusingata. Amava il corpo possente e muscoloso dell’animale, la lunga coda aggraziata – che teneva all’indietro con una angolazione colma di dignità: né felice né triste. Lily trovava molto difficile capire i pensieri dell’animale e il suo umore: talvolta, aggrottava le sopracciglia come se avesse pensieri feroci; talaltra, la lingua lunga gli penzolava fuori dalla bocca e sembrava un cane gaio e molto stupido. Aveva un modo strano di fissarla negli occhi, insolito per un cane, fino a quando non era lei a distogliere lo sguardo. Di tanto in tanto, fissava un punto dietro di lei con una tale intensità che era portata a voltarsi, aspettandosi di vedere qualcosa di straordinario. Il fatto che lei non riuscisse a vedere nulla non la convinceva che non vi fosse nulla da vedere. Di sera, nel cottage, alla sola luce del fuoco, Meraud se ne stava seduta sull’unica sedia a disposizione: un oggetto di legno pieno di schegge, fatto artigianalmente; Lily solitamente rimaneva acciambellata ai suoi piedi, sul pavimento, protetta dalla nuda terra soltanto da un pezzo di tela ruvida ripiegato due volte. Era ormai novembre, e il tempo era umido e già molto freddo. Una sera, Lily era china sull’abito nuziale, cercando di allargare per la seconda volta la vita. La gravidanza procedeva – con un conteggio a spanne, doveva essere ormai al quarto mese – e tuttavia non era ancora ingrassata come aveva immaginato dovesse accaderle. Talvolta si preoccupava di non mangiare abbastanza. Meraud non mangiava carne. «Sarebbe come macellare un amico!» E così la loro dieta consisteva in biscotti d’avena e patate, mele, pappa d’orzo e talvolta un uovo, se la gallina, che avevano chiamato Inaffidabile, era in vena di farne uno. «Non ho sempre vissuto qui», disse improvvisamente Meraud, ponendo fine a uno dei lunghi silenzi privi di tensione che c’erano spesso tra loro. «Un tempo avevo un marito e un figlio. Ora se ne sono andati.» Lily rimase in silenzio. Avevano una regola da rispettare, tacita ma inviolabile come un dogma: non si facevano domande a vicenda. «Dopo che se ne andarono, tutto... si capovolse. Dove vivevo, la gente disse che ero diventata strana. E forse è anche vero. Ma, secondo me, erano loro a essere diventati strani nei miei confronti: mi passavano a destra, cercando di non guardarmi negli occhi. Sciocchezze di questo tipo.» «Pensavano che fossi una strega!» «Sì, cara, proprio così. Accendimi la pipa, Lily.» «Ma ti viene la tosse.» Meraud le aveva sorriso dolcemente, poi Lily aveva sospirato e preso la pipa, schiacciando il tabacco nel fornello come le aveva insegnato Meraud, accendendola e aspirandone qualche boccata perché il tabacco bruciasse bene.


«Una strega ha i mezzi per farti il malocchio.» «Non ci credo», Lily la schernì. «Non ci credi?» Espirò una nuvola di fumo, sorpresa. «Beh, è vero! Una strega può farti un incantesimo, far ammalare una mucca o far appassire i fiori nel giardino. Oppure ti può far ammalare per lunghi periodi di tempo.» «Ma è questo che pensavano di te?» «Sì, alla fine fu così.» Lily depose il lavoro di cucito e sollevò lo sguardo. La luce del fuoco gettava lunghe ombre sui lineamenti ossuti della donna, dandole un’aria tetra, quasi sinistra, così insolita in lei. «Che cosa è accaduto?» chiese Lily a bassa voce. Meraud continuò a fumare, con le labbra sottili in continuo movimento. Alla fine, rispose: «Quando si è vittime del malocchio, c’è soltanto un rimedio: prendere il sangue della strega che ti ha maledetto». Lily rabbrividì, e Meraud non disse altro, ma il silenzio che cadde tra loro non fece che incrementare l’orrore. Un’immagine tetra baluginò e prese sempre più consistenza nella mente della ragazza, facendola star male. Per dare conforto a se stessa e alla sua amica, passò le braccia attorno ai polpacci scarni di Meraud e le appoggiò il capo sulle ginocchia. La vecchia si irrigidì per la sorpresa, ma solo per un istante. Quindi pose una mano ossuta, tremante, sui capelli di Lily e li accarezzò. La giovane chiuse gli occhi e, sospirando, disse: «Mia madre è morta quando avevo dieci anni». Gabriel ringhiò sommesso nel sonno, e un blocco di torba si spezzò a metà, mandando nell’aria una miriade di scintille. «Quest’uomo che ami...» disse Meraud improvvisamente, a voce bassa. Lily si sollevò immediatamente. «Non lo amo.» Non aveva mai parlato di Devon, nemmeno una parola e, tuttavia, il fatto che Meraud sapesse qualcosa non la sorprendeva. «Quest’uomo che ami», riprese pazientemente, «potrebbe farti ancora del male. Ma tu hai in te un potere che non conosci ancora, e potresti distruggerlo.» «Che cosa vuoi dire?» «Sii saggia, mia cara. Dispetti e ripicche non sono mai cause buone nella vita. Fanno più male a te che al tuo nemico.» «Non so che cosa vuoi dire.» Passarono lunghi minuti in silenzio. «Hai visto la luna?» chiese improvvisamente Meraud. «Sì, l’ho vista.» «Una nuvola rossa gli è passata proprio dinanzi, rossa come il sangue. Domani dovremo portare un dono.» «Un dono?» «Al pozzo.» E non aggiunse altro. Poco dopo, si svestirono e andarono a letto. Il dono di Meraud era una bambola, una figura di donna intagliata nel legno. Disse a Lily che una dea viveva nel pozzo, un’umida pozza di acqua dietro a due colonne di pietre poste l’una sopra l’altra, macchiate di muschio e lichene, e di edera brunita dal vento. Lily sperò in cuor suo che la dea apprezzasse quell’offerta, poiché sapeva per quante notti le vecchie mani artritiche di Meraud avessero lavorato su quel pezzo di legno. Tornarono indietro lentamente sul tappeto erboso della brughiera, fermandosi a riposarsi quando a Meraud mancava il fiato. Gabriel correva dinanzi a loro, annusando tracce di volpe e tane di coniglio. Nonostante la sua fragilità, Meraud aveva un passo grazioso, sciolto, che Lily amava osservare. A ogni passo, lento e


solenne, tendeva una lunga gamba slanciandola molto in alto. Mentre camminavano, le parlò di altre divinità e dei luoghi sacri dove vivevano. Spiritelli e fate, così come gli spiriti dei defunti, erano ovunque, disse, nelle rocce e nelle cavità della terra, negli alberi e sulla sommità delle colline, sotto le pietre. Lily ascoltava sorpresa, perché aveva pensato che Meraud fosse cristiana. Si fermarono accanto a un’alta colonna di pietra su un leggero pendio del terreno, in mezzo al nulla. Coperta di lichene, non recava alcuna iscrizione, e la sommità era stata erosa dai secoli. Lily la fissò attenta, attratta, contro la sua volontà, dal potere silenzioso e fallico di quell’oggetto. «E un dio vive là dentro?» chiese, scherzosa, ma non del tutto. «Ma certo, e molto potente. E un altro vive laggiù.» Indicò un albero disseccato, dietro la collina, senza corteccia, nodoso e attorcigliato come per difendersi da un dolore intenso. Quella notte e le seguenti, Meraud le spiegò il mondo degli spiriti. Le creature, le disse, esistevano ovunque, astutamente nascoste nelle cose più semplici – acqua, colline e cumuli di terra, rocce. Per Meraud erano tanto reali quanto per Lily lo erano i luoghi dove si nascondevano. La maggior parte di esse erano benigne o per lo meno neutrali, ma alcune, invece, erano proprio ostili, e altre anche malvagie. Riuscire a placarle era un compito difficile, stancante, che durava tutta una vita, con astuzie e sfumature oscure che Lily non cercava nemmeno di comprendere. Ma, se non si soffermava a pensarci, scopriva che in parte credeva a quello che Meraud le descriveva. Nello stato d’animo passivo di Lily, le spiegazioni della donna parevano logiche e reali. E a mano a mano che il tempo passava, i vincoli della mente razionale e «civilizzata» di Lily si allentarono ancor più e, gradualmente, i grigi, i marroni e i verdi della brughiera inospitale iniziarono a risvegliare la sua immaginazione. C’era vita nei rami contorti di qualche albero tetro che i venti invernali non avevano ancora distrutto completamente, oppure nelle pietre, immote e pesanti, poste in un cerchio solitario sulla collina che si trovava trecento passi a nord del cottage di Meraud. Persino le nuvole avevano una loro esistenza, anche se era un tipo di vita pesante, rozzo, brutale, visto che dovevano muoversi a fatica su un cielo plumbeo nella luminosità gelida e argentea di un mezzogiorno, di una brughiera. Da quando aveva iniziato a osservare la natura con occhi nuovi, scorgeva vita e animazione ovunque. Per Meraud questa vitalità transostanziale era naturale, scontata, mentre per Lily aveva in sé un orrore sottile, incombente. Una sera, mentre erano sdraiate entrambe sulla stuoia sottile, guardando la luce del fuoco danzare su quella sorprendente parete di vetri e specchi, Meraud spiegò a Lily come avrebbe voluto essere sepolta. «Sotto quel cerchio di pietre, sulla collina, con le pietre magiche del pozzo sopra i piedi e la testa. Ricordi quelle due pietre, in cima alle colonne? Avrai bisogno del carro per trasportarle.» Lily rimase immobile, sentendo improvvisamente le membra rigide e gelide di terrore. «Ti prego, non dire queste cose», sussurrò. «Mi spaventano.» Meraud le prese una mano sotto le coperte. «E perché, mia cara? Non devi essere spaventata. Morire non è altro che il centro di una vita lunga, molto lunga.» E venne dicembre, portando con sé un freddo pungente. La tosse di Meraud


peggiorò, e lei poteva uscire solo qualche ora del giorno, e soltanto quando brillava un pallido sole. In quei giorni, stava lavorando a una scultura particolare, più dettagliata nei particolari rispetto alle altre; era incredibilmente importante per Meraud, e in lei c’era un’ansia, una fretta che gettava Lily in uno stato di agitazione. Un pomeriggio continuò a lavorare sino a tardi, febbrilmente nonostante il vento gelido, fino a molto dopo che la luce aveva abbandonato il cielo imbronciato. Lily la chiamò più volte – ma Meraud non voleva che si avvicinasse alla scultura, perché doveva essere una sorpresa – fino a quando, finalmente, la donna gettò i guanti fangosi per terra e si diresse verso il cottage. Lily le andò incontro in cortile. «Vado a prendere il secchio», mormorò e si mise a camminare accanto a lei. «No, lascia perdere, che geli pure. Ho finito, Lily. Aiutami, piuttosto, mi sento svuotata tanto sono stanca.» Preoccupata, Lily le passò un braccio attorno alla vita sottile e la sospinse fino alla porta. Quella notte, la tosse della donna peggiorò al punto da provocarle uno sbocco di sangue, e alla mattina seguente non riuscì ad alzarsi dal letto.

Capitolo ventitreesimo Il vento soffiò incessantemente per tre settimane. La neve scendeva mulinando portata dal vento, e cumuli si formavano accanto al cottage, sebbene il terreno circostante, battuto dal vento, fosse privo di neve. Dal tetto, sulla porta, scendevano candele di ghiaccio, e l’acqua nel secchio, all’esterno, era gelata. Nuvole livide solcavano un cielo basso, da cui, un pomeriggio, iniziò a scendere la grandine, in raffiche violente che cadevano oblique. La candela di sego fumò e si mise a sgocciolare. Lily la sistemò e rimase in casa ad ascoltare il vento mugghiare come una belva feroce, scuotendo le travi e soffiando attorno al cottage polvere di paglia del tetto come pula in un campo di frumento. Si avvolse ancor più strettamente nel vecchio scialle grigio di Meraud e si inginocchiò di nuovo accanto alla stuoia. «Hai sete?» mormorò. Gli occhi della donna erano chiusi, come se stesse davvero dormendo. Lily non voleva svegliarla. Ma lei scrollò il capo, sorridendo rilassata e socchiudendo gli occhi. «Il vento sta aumentando.» «Hai freddo?» «Ho sempre freddo.» Lily si mosse; Meraud le prese un polso e la trattenne. «No», disse con fermezza sorprendente. «È troppo basso... te l’avevo detto.» «Allora vado a ravvivarlo», Lily sorrise convinta, allontanando con gentilezza la mano della donna. Si alzò e si avvicinò al fuoco, attizzò la torba che bruciava senza fiamma, quindi aggiunse altri due blocchi di formella dal cumulo accanto alla grata. Presero fuoco immediatamente e lei chiuse gli occhi per gustare il calore improvviso e delizioso sulle guance fredde e la punta gelata del naso. Dopo alcuni secondi, si spostò così che il calore potesse raggiungere Meraud. L’anziana, donna si era già addormentata, e Lily si sedette sull’unica sedia e ascoltò il pazzo mugghiare del vento. «Lily? Lily?»


Si svegliò con un balzo. Si era addormentata in una posizione insolita, e le doleva il collo. «Come ti senti?» «Devi uscire e andare a prendere Pater, bimba mia.» «Sì, va bene. Vuoi dire... portarlo dentro? In casa?» «Sì, devi farlo. Morirà di freddo, con questo vento.» «Andrò a prenderlo, non ti preoccupare. Hai bisogno di qualcosa?» Meraud scrollò il capo e ricadde in un sonno agitato. Gabriel si alzò dalla stuoia accanto al fuoco e camminò a fatica fino alla porta, con le gambe rigide. «Vieni anche tu, vero?» Lily staccò dal gancio sul muro il cappotto di Meraud e si avvolse lo scialle attorno al capo. Spostò poi il pesante sacco di farina d’orzo che teneva la porta chiusa, e si rivolse di nuovo al cane: «Dai, vieni». Infine chinò il capo e uscì nella bufera. Una raffica di vento gelido la colpì con tutta la sua intensità, gettandole neve ghiacciata sul volto. Lei si chinò, con una smorfia, stringendosi al corpo i vestiti, e seguì Gabriel attraverso il labirinto di sculture brinate – fantasmi solitari nella luce fredda del crepuscolo, imbiancati dalla neve, immobili e imploranti. Passandovi in mezzo, ebbe la sensazione che soffrissero il freddo come lei e Pater, ma non avevano voci, e quindi nessuna possibilità di lamentarsi o chiedere aiuto. Si fermò, come sempre, quando si imbatté nell’ultima statua di Meraud, quella che aveva finito il giorno in cui era stata male. La neve le copriva un lato, disegnando delicatamente le curve morbide e ingentilendo la forma della madre – Lily – e del bimbo che teneva tra le braccia. Avrebbe visto qualcosa di sé nella forma grezza se non avesse saputo che rappresentava proprio lei? Probabilmente no. E tuttavia c’era qualcosa – una forma di stoicismo, forse? - che pensava di avere riconosciuto, o per lo meno con cui le pareva di avere familiarità. Indipendentemente da tutto, la scultura la commuoveva sino alle lacrime ogni volta che la guardava, lacrime amare colme di paura e di senso di vuoto. Tese una mano e toccò con dita gelide le spalle della donna, di se stessa, e poi il minuscolo capo del bambino. Gabriel abbaiò, facendola trasalire, e lei si volse, stringendosi nel cappotto, seguendolo verso il riparo dietro la stalla dove stava Pater. In un primo momento pensò stranamente che chissà come, chissà quando, Meraud avesse fatto un’altra statua, che avrebbe dovuto somigliare a Pater. Gli si avvicinò con tremenda riluttanza, mentre la verità faceva capolino in lei. L’asino era in piedi, sulle quattro zampe, il lungo collo piegato tanto che il capo raggiungeva il terreno, come per mordicchiare la neve con le labbra morbide. Il gelo sul fianco peloso aveva tramutato il suo manto in una superficie brillante. Le ciglia lunghe ed eleganti erano incrostate di ghiaccio, abbassate; aveva un’aria addormentata e in pace con se stesso. Ma dalle grosse narici non soffiava il vapore del fiato e le costole del corpo scheletrico erano immobili. Era morto congelato. Nel cottage, Meraud dormiva ancora. Lily riattizzò il fuoco, poi si inginocchiò accanto a lei. Il volto della donna era emaciato, con le ossa ben visibili, simili a bastoncini pungenti sotto la pelle flaccida. Ma la cosa che spaventò di più Lily fu il pallore cadaverico. Prese una mano di Meraud e le strofinò le dita ossute per scaldarle. L’anziana donna aprì gli occhi e la fissò, solo per un istante, come se non l’avesse mai vista prima. Lily sentì la lama tagliente del panico, quasi una premonizione rapida e terrificante della più totale e desolante solitudine. «Pater è morto», le disse d’un fiato, e quelle stesse parole la sorpresero, poiché aveva avuto


intenzione di mentirle. «Mi spiace così tanto», sussurrò, iniziando a piangere. «È tutta colpa mia.» Meraud non pianse. «Tu pensi che tutto sia colpa tua», la riprese con gentilezza. «Non sai che Pater sta benissimo, ora?» Batté sul polso di Lily e quindi le posò la mano ossuta, dalle lunghe dita, sul ventre. «Avrei tanto voluto poterlo vedere.» «Chi?» «Questo bambino, Lily.» Le accarezzò delicatamente il ventre, da un lato all’altro. «Questo dolce bambino.» La guardò con espressione insolitamente chiara. «Questo bimbo è un dono. Completa un cerchio. Un cerchio, Lily.» Lily scrollò il capo, confusa. «Vivrà, Meraud? Starà bene?» Un’altra sorpresa: non aveva mai chiesto nulla riguardo al futuro, anche se la sua parte superstiziosa era certa che Meraud potesse prevederlo. Si pentì immediatamente di quella domanda, perché una risposta negativa l’avrebbe sicuramente uccisa. Ma Meraud si limitò a dirle: «Dipende da te, mia cara», e chiuse gli occhi, stanca. La mano scivolò via mentre la donna ricadeva nel sonno. La lunga notte proseguì, lentamente. Con grande preoccupazione di Lily, Meraud aveva smesso di mangiare cibo solido due giorni prima e sorbiva solamente qualche cucchiaiata di zuppa di patate e orzo, solo perché Lily insisteva. Lily voleva uccidere la gallina per farne un brodo nutriente, ma sapeva anche quello che Meraud le avrebbe detto. Era impotente. Non c’era un medico, né un vicino a cui chiedere aiuto. «Ma non conosci qualche... pozione, medicina?» le aveva chiesto, quasi con ira, la mattina precedente. Meraud aveva riso. «E così anche tu pensi che sia una strega», l’aveva accusata. «No, Lily, non conosco pozioni magiche o miscele strane. Lasciami tranquilla, piccola mia. Non ho bisogno di nulla.» Il vento continuò a battere e soffiare contro il cottage per tutta la notte, e Lily iniziò a considerarlo un nemico, qualcosa contro di lei, che portava sfortuna non solo a lei ma a coloro che erano sotto la sua protezione. Cercò di calmare Gabriel quando una raffica particolarmente violenta scrollò la casa e lo svegliò di soprassalto, ma in realtà cercava di consolare se stessa. Il freddo era pungente e non poteva essere tenuto fuori dalla casa. Quando anche l’ultima formella di torba fu consumata, si infilò il cappotto consunto di Meraud e uscì a prenderne altre. Meraud le conservava accanto alla casa, sotto un tetto obliquo, improvvisato, per evitare che pioggia e umidità inzuppassero la torba, così assorbente. Per la prima volta, Lily notò con paura che il cumulo era incredibilmente diminuito. Meraud le aveva detto di bruciarla lentamente, ma lei non aveva obbedito, non poteva obbedirle, poiché il freddo era tremendo e brutale e lei non voleva che l’amica soffrisse. Deglutendo per allontanare la paura, colmò il cesto con tutti i blocchi che poteva portare e ritornò a casa. Quando era ormai quasi giorno, il vento si placò. Indolenzita, Lily lasciò la scomoda sedia e si sdraiò accanto a Meraud, sul pavimento. La svegliò, poi, quell’insolito silenzio. Rimase zitta per un momento, chiedendosi che cosa fosse successo, poi improvvisamente si mise a sedere, spaventata, e si chinò sulla figura silenziosa e del tutto immobile sdraiata sotto le coperte accanto a lei. Mentre la guardava, i pugni stretti ai denti per allontanare un gemito disperato, Meraud all’improvviso inspirò profondamente per poi espirare subito dopo. Il corpo di Lily si


rilassò, le spalle iniziarono a tremare e lacrime di sollievo le scesero dalle guance riversandosi sulle mani strette dell’anziana amica. Avrebbe voluto piangere per ore e ore, per sempre. E invece si alzò e alimentò il fuoco. Nonostante la tregua del vento, il freddo peggiorò. Trascorse un giorno intero a massaggiare le braccia e le gambe di Meraud, ad accarezzarle mani e piedi, cercando di scaldarli. Una volta, voltandola, notò che la parte inferiore del corpo era di colore leggermente più scuro, come se il sangue non vi scorresse più. Che cosa significava? Non lo sapeva. Quando non dormiva, Meraud era immersa in un dormiveglia pacifico, in un mondo di sogno, e sussurrava antichi ricordi. Lily ringraziò Dio perché, per lo meno, non provava dolore. Talvolta era perfettamente lucida – ed erano momenti molto preziosi per Lily, che combatteva contro il terrore di rimanere sola e contro un dolore crescente. «Mia cara», le disse Meraud durante il pomeriggio, fermando la mano che le stava inumidendo il volto con un telo bagnato. «Non puoi rimanere qui quando me ne sarò andata. Prendi con te Gabriel e vai.» Lily sentì come una mano gelida passarle sulla schiena nuda, accarezzandola. «Non lasciarmi», sussurrò. «Non ti lascerò mai.» Sorrise, con tanta dolcezza che il cuore di Lily si strinse. «Perdona colui che ti ha fatto soffrire tanto.» Lily si chinò su di lei, certa di avere interpretato male le sue parole. «Addolcisci il tuo cuore e sii paziente. Aspettalo per capire chi sei.» «Ma cosa vuoi dire? Non so cosa intendi. Non lo vedrò più...» «Sii paziente e gentile, Lily, anche se lui è uno stupido. Che cosa giova essere nel giusto se si è soli? Lascia perdere l’orgoglio, bimba mia, e sarai felice.» Gabriel si alzò dal suo angolino accanto al camino, si stiracchiò e si spostò con passo leggero accanto a loro. Seduto sulle zampe posteriori, guardò la sua padrona, che gli strinse con una mano una delle forti zampe anteriori e gli sorrise. «Ti prenderai cura di lei, vero Gabe?» Il cane sbadigliò. «Stai con lui, Lily, o ti perderai. Mi hai sentita? Ti perderai.» «Non mi perderò.» «Addio. Non ti potrò più parlare. Ma sarò sempre al tuo fianco.» «Meraud. Meraud.» Si era addormentata. Quella sera, mentre sonnecchiava sulla sedia, Lily si svegliò di colpo, improvvisamente. Istantaneamente, i suoi occhi cercarono Meraud nell’oscurità fumosa: era riversa verso di lei, appoggiata a un gomito, un braccio teso. Si inginocchiò accanto alla donna e le prese la mano. Le dita gelide erano vive tra le sue e le comunicavano un messaggio vitale. Nessuna parlò. Lily aveva il cuore gonfio di lacrime, ma non pianse. La dolcezza brillante negli occhi gentili dell’amica diminuì sempre più, lentamente, mentre si stava allontanando, lontano, lontano. Lily le strinse la mano sempre più forte, sempre più forte, colma di disperazione, cercando di trattenerla. Ma un velo lattiginoso aveva già oscurato gli occhi stanchi, e la barriera sottile e trasparente era impenetrabile. Meraud scivolò via per sempre. «Mi spiace, mi spiace davvero», Lily premette le palme sulla terra umida e pianse.


«Non sono riuscita a spostare quelle pietre magiche, Meraud. Ho tentato, ma sono troppo pesanti, e ho paura per il bambino. Oh, Meraud, mi spiace tanto.» I singhiozzi la scuotevano, ed erano i primi che si concedeva da quando era rimasta sola. Ci aveva messo un giorno intero per scavare quella fossa poco profonda all’interno del cerchio di pietre; la notte precedente, era rimasta accanto all’amica, poi, quella mattina, l’aveva seppellita, con l’abito buono e avvolta in coperte. All’inizio Lily aveva temuto che, per via del bambino, non sarebbe riuscita a seppellirla nel cerchio magico. Ma poi aveva scoperto quanto fosse penosamente magra quella donna, e l’aveva portata con dolorosa facilità. Ma le pietre speciali erano troppo pesanti; Pater era morto, e Lily non sarebbe mai riuscita a sollevarle. Il fatto che non riuscisse a capire quell’insolito desiderio da parte dell’amica era del tutto irrilevante, le aveva fatto una promessa, e non era riuscita a mantenerla. Si accovacciò sui talloni, tergendosi le guance con il dorso di una mano sporca. Che preghiera avrebbe dovuto recitare? Nessuna di quelle che conosceva le pareva adatta. E così intonò uno degli inni di Meraud, piangendo, poi quasi ridendo, dolorosamente consapevole del fatto che la sua voce era di una buona ottava più bassa di quella dell’amica. Nel bel mezzo della canzone, Gabriel le si avvicinò, appoggiandosi a lei. Lily gli passò le braccia sul dorso, grata di quella compagnia che le dava sicurezza e solidità. Quando l’inno ebbe termine, rimasero ancora un poco accanto alla tomba. «Addio. Ti voglio bene», Lily sussurrò. Il freddo, che si era un poco mitigato negli ultimi giorni, era tornato con un vento forte e con del nevischio, e stava già imbrunendo. Si alzò lentamente. «Addio», ripeté. Non voleva andarsene, lasciare Meraud laggiù, tutta sola. Ma stava gelando. Fece un passo indietro, poi un altro ancora, quindi si volse e scese la collina, con la vista offuscata dalle lacrime. Il freddo peggiorò nei giorni seguenti e la brughiera, già di per sé tetra, parve assumere un nuovo aspetto, che non portava di certo bene a Lily. Rimaneva sempre vicina al cottage, di tanto in tanto conscia della propria situazione strana, ma per nulla allarmata da essa. Nulla era più uguale. Quello che le era parso reale non c’era più, definitivamente, e quello che rimaneva aveva un aspetto sinistro da cui lei – ne era consapevole – non sarebbe mai potuta fuggire. Forse la vera punizione che Devon aveva voluto infliggerle era quella di farla impazzire. L’idea un po’ la terrorizzava, un po’ la affascinava. Qualche volta, dietro il muro di torpore che aveva eretto tra sé e i ricordi di Devon, sentiva il calore selvaggio di una furia accecante, violenta. Ma il torpore era meglio. Non riusciva nemmeno più a dormire, ma continuava a tenere acceso il fuoco, temendo che, altrimenti, sarebbe impazzita per davvero. Qualche volta dormiva tutto il giorno, al sole, se il cielo era limpido, o avvolta nelle coperte, sulla stuoia, se non lo era. I suoi pensieri erano spesso insoliti e pericolosi, e la spaventavano. Si chiese come avesse potuto Meraud trovare pace e calore in quegli stessi oggetti che a lei ora parevano malvagi e ostili. Non riusciva più a controllare la propria mente, ed era diventata una vera lotta vedere il lato reale negli oggetti quotidiani – nelle ginestre e negli alberi, nella torba e nella pietra. Tutto aveva in sé una seconda personalità malevola, che sussurrava di continuo. Gabriel era ormai il suo unico legame con la normalità. La seguiva, rimaneva con lei, la guardava, qualche volta Lily si immaginava che fosse Meraud a guardarla con i suoi scuri occhi sereni.


Ma quella tranquilla presenza non era sufficiente a calmarla. Più o meno, doveva essere la metà di gennaio. Se i suoi calcoli erano giusti, doveva ormai essere al sesto mese di gravidanza. Aveva cibo a sufficienza fino alla primavera seguente, ma era il combustibile a mancare. Meraud le aveva detto di andarsene, eppure lei aveva paura. Poi, un giorno, dopo essersi svegliata da un sogno che l’aveva lasciata terrorizzata e ansimante, uscì e notò malvagità e pericolo nelle sculture che erano state create da Meraud attorno al cottage. Le belle sculture della sua amica... Allora, finalmente, decise che era giunto il momento di andarsene. Il giorno seguente raccolse tutto il cibo che poteva portare con sé e si coprì con il maggior numero di indumenti possibile. «Su, Gabriel», si rivolse al cane, vedendo che l’animale rimaneva fermo, immobile sulla porta. «Vieni!» Ma l’animale non si muoveva. Tornò indietro, inginocchiandosi accanto a lui. «Dobbiamo andare, ora», disse a bassa voce, battendo delicatamente sull’osso sporgente della grossa testa. «Va tutto bene, non stiamo lasciandola davvero. Lei verrà con noi, sarà sempre con noi. Su, ragazzo mio.» Si raddrizzò e si allontanò, ma quando si volse, il cane era ancora immobile. «Gabriel, vieni!» Iniziò a tornare indietro. «Allora!» urlò, cercando di sembrare arrabbiata. Depose la borsa con il cibo e batté le mani, ma lui si limitò a fissarla, con aria paziente e saggia. Disperata, Lily si mise le mani sui fianchi e gli parlò con fermezza e a lungo. Quando vide che non si muoveva ancora, udì la propria voce che lo minacciava. «Se non vieni subito qui, ti picchio!» urlò, poi si chiese se a lui quelle parole erano sembrate altrettanto assurde. Con un gemito di frustrazione, gli si avvicinò ancora. «Su, Gabe, vieni», lo pregò, chinandosi a guardarlo negli occhi. «Dobbiamo andare, o congeleremo, qui. E io ho bisogno di te. Non vieni proprio?» Tornò un po’ indietro. «Ti prego», insistette, tendendogli le mani. Lui, finalmente, volse il capo alla sua destra, e a lei parve per un attimo che assumesse un’aria disgustata. Per un momento, rimase perplesso, poi si sollevò sulle zampe posteriori, scrollò il capo sbattendo rumorosamente le orecchie, e quindi si mise a trotterellarle dietro. Dopo un’ora, si era già persa. Era giunta in quel punto da Bovey Tracy, che era a est, ma non sapeva nient’altro. Non c’era sentiero, tracciato, e il giorno era particolarmente buio; il sole, debole, oscurato da un sottile banco di nuvole. Come aveva fatto Meraud a trovare la strada? E non c’era nessuno cui chiedere, nessuna creatura vivente nei dintorni. Improvvisamente, vide un tasso, morto in un ciuffo di stellaria che aveva quasi calpestato senza accorgersene. Il pacco che portava con sé era particolarmente pesante: evidentemente, aveva portato troppe cose, e la schiena le doleva di già. Gabriel la seguiva, deciso a non prendere iniziative. Quando lei si volgeva per guardarlo, si fermava di colpo e la fissava a sua volta, colmo di speranza, come per vedere se finalmente fosse rinsavita. Passò un’altra ora, e iniziò a piovere. Ormai, il sole era completamente nascosto dalle nuvole e Lily non riusciva più a distinguere l’est dall’ovest. La nebbiolina umida ammantava le gole, bianca come un fiume di latte, via via sollevandosi o addensandosi mentre camminava. Il terreno era bagnato e pericoloso e, lentamente, l’ansia che provava si tramutò in paura. Intuì che stava risalendo una collina, ma non sapeva dire dove fosse diretta. Improvvisamente apparve una roccia, più bianca della nebbia bianca, che si elevava dalla boscaglia della brughiera come se fosse un


teschio. La roccia aveva una fenditura, sufficientemente larga da potervi entrare e cercarvi rifugio dal vento. Ma non dalla pioggia, e nel giro di pochi minuti si ritrovò fradicia. La nebbia avanzava, nel frattempo. Decise che attendere che il tempo si ristabilisse sarebbe stato folle e decisamente insopportabile. Ritornò a immergersi nel mondo bianco e iniziò una lenta e attenta discesa. «Da che parte, Gabriel?» chiese, ormai senza più speranza quando si ritrovò a camminare in orizzontale. Dinanzi a lei, la brughiera si estendeva più verde e leggermente più morbida. Sollevò il pacco e prese quella direzione. Errore: la zolla molle e fangosa avrebbe dovuto metterla in guardia, ma non sapeva nulla di paludi. Così, un attimo prima aveva camminato sul suolo solido, e quello dopo si ritrovò sprofondata fino alle cosce nell’acqua ghiacciata, con i piedi intrappolati nel fango, che non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare. Urlò, stringendosi la borsa al seno. Dietro di lei, Gabriel abbaiò. La palude pareva estendersi all’infinito, fino a dove riusciva a vedere, color verde pisello, emanante fumi e vapori come una zuppa bollente. Quanto più rimaneva immobile, tanto più sprofondava. Alla fine, riuscì a uscire piegandosi di lato e tirando fuori le gambe lentamente, una alla volta, lottando contro il risucchio del fango che voleva trattenerla. Trovò un bastone e lo utilizzò per appoggiarsi e far presa sul terreno, ma l’inganno era praticamente ovunque, e soprattutto la nebbia era il nemico più subdolo e intelligente. Non riuscendo più a vedere nulla, entrò nella palude più e più volte, almeno una dozzina, fino a quando iniziò a piangere di disperazione e terrore. Trovò un angolo di terreno solido e si sedette, forse per morire, perché la palude era tutta intorno a lei. Il segreto era di non calpestare mai il prato morbido e dall’aria sicura che si estendeva basso, perché lì era il pericolo maggiore. Ma il problema era che per vederlo doveva aspettare che la nebbia salisse, e questa si alzava e ridiscendeva quasi per farle dispetto, più e più volte, e sapeva che alla fine sarebbe stata la natura a vincere. Appoggiò il capo sulle ginocchia e pianse. Un soffio umido sul collo la scaldò, poi le fece sentire ancor più freddo. Sollevò il capo. Gabriel era seduto accanto a lei, guardandola con aria impassibile, tremendamente paziente. «Ma perché non mi vuoi aiutare?» singhiozzò Lily. «Meraud aveva detto che avresti fatto in modo che non mi perdessi. Oh, Gabe.» Passò una mano sul grosso collo dell’animale e chinò il capo contro di esso, nel bisogno di stabilire un contatto con un’altra creatura, per poter piangere assieme. Ma Gabriel si liberò dalla stretta e fece un passo indietro. Lo fissò con aria risentita, guardandolo dritto in quegli occhi insondabili. «Che cosa? Mi guiderai verso la salvezza? Non ti credo.» Attese, la coda ben diritta, il volto dall’espressione tollerante. Lily mormorò un’imprecazione, davvero molto forte, poi si alzò. «E allora guidami... su». E lo seguì, vergognandosi di sé. Gabriel la portò effettivamente fuori dalla palude. Non ci credette fino a quando ebbe camminato per più di un chilometro sul terreno sicuro, dove la cosa più pericolosa era il muschio scivoloso. Ma dove stavano andando? La nebbia si era sollevata improvvisamente, come se tutto il pianeta si fosse elevato tra le nuvole. Ma ora i chicchi di grandine sibilavano tra la felce aquilina, e il vento feroce mordeva


anche le ossa. Passarono accanto a uno stagno, grigio come l’ardesia nella pioggia battente, triste e sinistro. Vide le ossa di un agnello morto, e ciuffetti di vello sparsi attorno dai corvi; e più in là ancora, il teschio di una pecora che le sogghignava dalla torba. Gabriel trotterellava dinanzi a lei, tenendo il capo basso, intento a dove posava le zampe, solo di tanto in tanto fermandosi ad aspettarla. Il pietrisco delle colline rocciose rendeva il loro cammino ancora più difficoltoso. Per la terza volta, Lily inciampò, cadendo pesantemente su mani e ginocchia, e non riuscì più a rialzarsi. Gabriel si fermò ad aspettarla, mentre lei soffiava sulle palme graffiate e sanguinanti e si teneva il ventre, cullandosi. I suoi abiti erano zuppi, e lei stava gelando. «Ma dove andiamo?» La sua voce risuonò penosa anche a se stessa. Ma Gabriel si limitò a guardare dinanzi a sé, nel vuoto. Lily aveva ancora la borsa del cibo, sebbene la gran parte fosse ormai inzuppata dall’acqua della palude. «Hai fame?» Apri la borsa e tirò fuori il contenuto, offrendoglielo. Gabriel abbassò lo sguardo, poi lo distolse. «Nemmeno io», ammise con un sospiro. Lì accanto, un albero stentato, grondante malinconia, pareva grottesco contro il cielo invernale. L’oscurità pomeridiana stava ammantando tutto. Sentendosi le gambe irrigidite, si alzò e, lasciando esattamente là dov’era tutto il cibo, seguì Gabriel nel crepuscolo che diveniva sempre più fondo. Più tardi, ma non avrebbe mai saputo quanto più tardi, vide in lontananza qualcosa che poteva ricordarle un cottage. Le gambe le parevano ormai di piombo, e tutto il corpo le doleva per la spossatezza, ma accelerò ugualmente il passo. Poco dopo, iniziò a rallentare, poi si fermò, e iniziò a ridere. Il suono demente di quella risata la sorprese, ma non riuscì a smettere. Gabriel si volse e parve sogghignare. Erano dinanzi al cottage di Meraud. Fu mentre stava accendendo il fuoco, nel camino, che le venne quell’idea. Tremando senza più controllo, si inginocchiò un momento, con le dita intirizzite che quasi toccavano le fiamme, mentre il vapore iniziava a salire dalle gonne bagnate, e considerò le possibilità che aveva dinanzi a sé. Le parve che in fondo ve ne fossero solo due: morire ora, o morire poi. Per vigliaccheria, scelse la prima. Aveva pensato che la torba bruciasse lentamente, e il compito di portarla tutta fino al fuoco, formella dopo formella, la stancò molto, ma alla fine tutto fu pronto: l’enorme cumulo di torba incombeva massiccio sul camino, scuro e pungente, già pronto a prender fuoco. Il suo piano era di bruciare ogni formella in un ultimo, lunghissimo fuoco in grado di scaldarle le ossa, poi l’indomani, quando fosse finita la torba, o forse il giorno dopo ancora, avrebbe semplicemente chiuso gli occhi e lasciato che tutto le scivolasse attorno. Spinse la sedia di Meraud più vicino alle fiamme e le ravvivò con il bastone. Poi si preparò una tazza di tè. Gabriel si lasciò andare accanto a lei con un lamento e appoggiò il capo sulle zampe. Distratta, gli grattò le orecchie, mentre con l’altra mano gli accarezzava lo stomaco: «Mi spiace, bimbo mio», disse a voce alta. «Avevo pensato che avremmo potuto salvarci. Almeno saremo qui tutti assieme, e Meraud non sarà sola. Non è colpa tua, Gabriel, è solo mia. Ti perdono per avermi fatto tornare qui. Avrei dovuto saperlo che l’avresti fatto e che non avrei dovuto venire con te. Va tutto bene. Ormai, non importa più.» E invece era il contrario, perché lei avrebbe voluto che suo figlio potesse vivere. Appoggiò il capo allo schienale della sedia e lasciò che le lacrime scendessero copiose, oscurandole la vista.


Si svegliò da un sonno profondo, sudata. Nulla di strano, pensò; ho talmente tanti indumenti addosso. Ne tolse alcuni, poi aggiunse altra torba al fuoco. Mangiò una ciotola di zuppa d’orzo, rimanendo in piedi. Quando fu sazia, diede il resto a Gabriel. Poi si preparò un’altra tazza di tè e si appoggiò allo schienale, rilassandosi. A mezzanotte, si svegliò di nuovo, per il gran caldo. Raggiunse la porta e la aprì, e subito il vento entrò, fresco e rinvigorente, meraviglioso. Le stelle brillavano in un cielo nero, senza luna. Gabriel le si avvicinò, ansimando, e nell’oscurità Lily notò che le sculture di Meraud parevano fantasmi immobili. Chiuse la porta con riluttanza e si accinse ad alimentare di nuovo il fuoco, aggiungendo quante più formelle la griglia potesse reggere. La pila di torba stava bruciando più velocemente rispetto a quanto si era aspettata – era quasi finita. Meglio, con un poco di fortuna sarebbe riuscita a consumarla tutta entro il mattino seguente. Stanca di stare seduta, si sdraiò sulla stuoia di giunchi, il più lontano possibile dal fuoco, e guardò il movimento delle fiamme sulla parete di specchi fino a quando i suoi occhi si appannarono per il sonno. Sognò che stava bruciando, che le fiamme stavano divorando tutto, compreso il suo corpo, in pochi secondi; strappandole via lembi di carne mentre lei diveniva sempre più piccola, sempre più piccola, fino a quando non rimaneva nulla, se non il suo bimbo. Era una cosa minuscola, piccola e nuda, seduta nell’aria, nello stesso punto dove un tempo c’era il suo ventre, senza poter essere raggiunto dal fuoco. Aveva il volto di Devon, e lei non c’era più, aveva smesso di esistere. Ma che strano, allora, che riuscisse a sentire così chiaramente la voce di Meraud. Svegliati, Lily, le sussurrava all’orecchio, con voce tremante e insistente. Svegliati. Aprì gli occhi. Il cottage era avvolto dal fuoco. La struttura portante del camino non c’era più, e il camino stesso, di pietra, era invisibile dietro la cortina di fiamme. Mentre guardava, il fuoco, disegnando un arco giallognolo, raggiunse il cumulo di torba, sul pavimento, e lo accese immediatamente. Quando riuscì, in preda al panico, ad alzarsi, aveva tramutato tutto in un inferno crepitante e fumante. Nel locale non c’era più aria, e Lily urlò con l’ultimo fiato che aveva nei polmoni. Ma no, la parete di vetro abbagliante era in realtà solo uno specchio della conflagrazione, non era il fuoco in sé e per sé, e lei non ne era quindi circondata. Si alzò in piedi e, barcollando, raggiunse la porta. Frammenti incendiati della paglia del tetto continuavano a piovere, bruciandole i capelli, gli abiti. Trovò la porta, ma nel momento in cui pose una mano sulla maniglia incandescente, cadde in ginocchio. Sentì sulla fronte il calore del pavimento; cercò di respirare nell’aria fumosa, poi pensò di morire così, consumata dalle fiamme. Una sorta di cremazione naturale... perché no? Ma poi sentì Gabriel che abbaiava, fuori, e lei non riusciva più a respirare. Con un ultimo sforzo, si afferrò alla maniglia e tirò, e allora l’aria fredda e dolce della notte le lambì mani e ginocchia. L’aria che penetrò nel locale dall’esterno alimentò ancor più le fiamme, trasformando in un attimo il cottage in una vera e propria fornace. Il calore la attirava indietro, ma vide Gabriel che, puntandosi bene sulle zampe, ululava e latrava contro la furia impazzita delle fiamme. Il rumore era ormai assordante, e lei si coprì le orecchie con le mani prima di mettersi a urlare, in perfetta sintonia con il caos e la primitiva sinergia di fuoco e aria, pietra e terra. Non riusciva a sentire altro che il bestiale ruggito delle fiamme, ma si girò, offrendo il volto al freddo e all’oscurità.


Qualcosa, un’ombra forse? Le fece rizzare i capelli sottili sulla nuca. Sì, era un’ombra che si muoveva verso di lei nelle tenebre. La morte, si disse, stringendosi a sé, per proteggere il proprio grembo. Urlò, in preda al panico, quando vide che non era la morte ma un uomo. Il sangue le rombò nel cervello, accecandola. Stava svenendo, la marea di sangue stava salendo troppo in fretta, troppo in alto. La figura si avvicinò, sempre di più. Devon. Era Devon. Si slanciò in avanti, e lui la prese tra le braccia.

Capitolo ventiquattresimo: Il dono Era vestita di stracci, strati e strati sovrapposti, e tutti odoravano, indistintamente, di torba. La depose per terra, a distanza di sicurezza dal cottage avvolto dalle fiamme e guardò con cautela il mostro rigido e immoto a poca distanza da lui. Cercò di blandirlo con qualche parola calma e rassicurante, ma il cane gli si avvicinò, stranamente attento. «Va tutto bene, sono un amico. Sono un amico di Lily.» Una menzogna, pensò. Una menzogna da codardo, deprecabile. E, nonostante tutto, il suono di quel nome ebbe un effetto istantaneo sull’animale, che si sedette sulle zampe posteriori e lo guardò sogghignando. Il volto di Lily, arrossato nella luce livida del fuoco, era più magro, notò, con i contorni più acuminati. Era ammalata? Pensò che era solo svenuta, ma quella sua staticità iniziava a spaventarlo. Iniziò a slacciarle gli abiti rattoppati, ancora caldi per via delle fiamme. E poi raggelò. Senza respirare, tenendo le mani sollevate, fissò la dolce rotondità del ventre sotto l’ultimo strato di tessuto grezzo color ruggine. La sua mente cozzò contro quella possibilità, la allontanò da sé, la rianalizzò ancora. Toccò Lily con le dita rigide per la tensione, tanto che all’inizio non provò nulla, nessuna sensazione. Poi si rilassò e la verità fluì in lui lentamente, come la mano che le accarezzava il ventre. Chiuse gli occhi e sentì che il cuore gli si riempiva, sollevandosi e dilatandosi, in modo così acuto e intenso che avrebbe voluto piangere. «Lily», disse e lei si svegliò. I suoi occhi erano annebbiati, il volto aveva l’espressione di chi non riesce a capire. Sussurrò: «Ti ho trovata, Lily, avevo smesso di sperare». Vide che negli occhi di lei si stava accendendo qualcosa, e attese il momento che lo riconoscesse, pregò che lo riconoscesse; la possibilità della redenzione illuminò tutti gli angoli oscuri della sua anima, poi lei spalancò le braccia, e si strinsero l’uno all’altra. I capelli creavano un alone infuocato, acceso, contro le fiamme che ancora sibilavano e si autoalimentavano dietro di lei. Nascose il volto nella massa ardente, tenendo la donna stretta a sé, tremando. Il sapore salmastro che aveva sulle labbra era quello delle sue lacrime. «Cara», mormorò cullandola. «Grazie a Dio, grazie a Dio.» Voleva vedere il suo volto, ma non poteva lasciarla andare. «Ti ho cercata ovunque, ovunque. Se non avessi visto il fuoco, non ti avrei mai trovata, Lily, grazie a Dio.» Infine si allontanò da lei. «Sono andato dai Soames, per prima cosa», le disse, mentre le parole gli sgorgavano senza più ritegno. «Lui non ha voluto parlarmi, ma la moglie mi ha seguito mentre stavo andandomene, e ha detto di averti vista dirigere


verso ovest, lontano dalla città.» Ricordava il modo in cui lei lo aveva seguito in strada, lenta e camminando all’indietro come un granchio, afferrandolo per la manica e sibilandogli in un sussurro spaventato: «Hanno gettato i suoi abiti in strada». E rabbrividì, proprio come aveva fatto allora, incapace di descrivere quella scena. «Ho cercato per settimane ma non riuscivo a trovarti, Lily. Poi, alcuni giorni fa – non riesco a ricordarmi quanti – un ragazzino di Bovey Tracy mi ha detto di avere visto una signora con i capelli rossi. L’autunno scorso. Se ne era andata con la strega che vive nella palude, il cui cane è un vero demonio.» Lily non parlava, e lui non poteva scorgerne l’espressione nell’oscurità. «Stai bene, cara? Il bambino...» Ma allontanò la mano di Devon tesa verso di lei, alzandosi velocemente anche se goffamente. Prontamente, lui si alzò, aiutandola. «Fai attenzione, amore. Non...» «Clay, è morto?» La voce di Lily lo sorprese: non aveva mai udito quel tono sottile e privo di emozioni. «No, no», disse in fretta. «Sta bene. È ancora debole, ma i dottori dicono che si riprenderà.» Lei distolse lo sguardo, fissando il fuoco. Devon cercò, a disagio, di vedere il suo profilo sottile. Gli pareva che fosse strana, come un’altra persona. «Chi viveva qui con te, Lily? Eri sola?» Guardò il bizzarro labirinto di statue ghiacciate che erano attorno a loro, brillando misteriosamente alla luce del fuoco. Il cane era sempre accanto a lei, come una sentinella, guardingo e impassibile, in attesa. Le scintille erano ovunque, fluttuavano in pigre spirali, brillando un’ultima volta prima di toccare il terreno ghiacciato. «Lily, stai bene?» chiese facendo un passo verso di lei, che si allontanò. «Ho freddo», sussurrò, stringendo le braccia al seno. Immediatamente si tolse il mantello nero pesante e lo avvolse attorno alle spalle della giovane. «Andremo a casa domani», mormorò appoggiando una guancia alle sue, e la giovane rabbrividì – per il freddo, lui pensò. Il fuoco si era un po’ calmato, ma nelle immediate vicinanze del cottage era riuscito a far sgelare la neve che ricopriva il terreno, dandogli una colorazione grigiastra. Devon la condusse in un punto pulito, ancora tiepido, e la aiutò a sedersi. Avrebbe voluto toccarla di nuovo, ma gli appariva così rigida che preferì desistere. «Parlami, Lily. Che ti è accaduto? Dimmi come sei vissuta per tutti questi mesi. Vivevi qui da sola?» Ma lei, ostinatamente, non rispondeva. «Lily.» Si sdraiò su un fianco, il volto girato dall’altra parte, arrotolata su se stessa, con le mani strette l’una all’altra sotto il mento. Era stanca – magari era anche ammalata; ovviamente aveva bisogno di riposare. Avrebbero avuto tanto tempo, l’indomani, per parlare. Si chinò su di lei, cercando di vederne il volto. Le ombre giocavano sulle guance pallide e la linea più incisa ma ancora dolce della mascella. I minuti passavano. Si era addormentata? Rabbrividì e si lasciò cadere accanto a lei, avvicinandosi alla sua schiena leggermente curva, cercando il suo calore. Posò le mani sul ventre ingrossato e pensò al bambino. Il suo bambino. Non riusciva esattamente a comprendere che cosa stesse provando, oltre all’ansia – per lei, per il bambino. C’era anche gioia, fragile, sprofondata in fondo alla sua anima, celata come una creatura della notte che teme la luce. Per abitudine cercò di soffocarla, ma Lily avrebbe avuto un figlio suo, e improvvisamente si sentì


soffocare, come se non potesse più contenere quel sentimento che gli mozzava il respiro. Se tutto potesse accadere davvero... se potesse tenere con sé Lily e il bambino... Non riusciva a trovare nulla da darle in cambio, non c’erano equivalenti nella sua vita sterile a compensare doni così preziosi. Ma Lily gli aveva già perdonato molto, troppo, e temeva la sola idea di volere qualcosa, aveva paura di sperare... eppure, non poteva farne a meno. L’ultima cosa di cui poteva accusarsi era l’ottimismo, e tuttavia si scopriva allontanare da sé tutte le possibilità più tetre, e gioiva invece del miracolo di quel momento. Per mesi interi la sua vita era stata vissuta nell’oblio, una tempesta da incubo di sentimenti così caotici da non esserci altra realtà. E ora quell’incubo era ormai passato poiché poteva proteggerla. Era lì, lì tra le sue braccia. Il dolce profilo di lei addolciva persino il tetro paesaggio della brughiera. Le spalle gentili gli accarezzano il torace al ritmo costante del suo respiro, e i capelli che sapevano di fumo gli toccavano il volto. E domani sarebbero tornati a casa assieme. Si addormentò. Quando si svegliò, Lily era inginocchiata accanto a lui, e lo osservava. Il cielo dell’alba incombeva basso e minaccioso, tinto di un’ostile sfumatura grigiastra. Tese una mano per toccarle il fianco, ma lei si allontanò. «Mi fai un piacere?» Si mise a sedere. «Sì. Come stai, Lily?» «Voglio che sposti alcune pietre.» Si alzò in piedi allontanandosi da lui. «Avrai bisogno del cavallo.» Si strofinò gli occhi, togliendosi le stoppie dalle guance. Poi si alzò e la seguì. «Laggiù», disse Lily, indicando un altro punto. Sollevò la seconda pietra dal carro un tempo trainato dall’asino e la portò fino alla tomba ricoperta di pietre che si trovava al centro di un cerchio di rocce più piccole. La lasciò cadere esattamente nel punto che gli aveva indicato, si sollevò e batté le mani per togliersi la polvere. Immediatamente lei si volse e scese verso il lembo di terra ormai annerito dal fuoco, che ancora bruciava e fumava in alcuni punti. La seguì, senza parlare. Di chi era quella tomba? Cos’avevano di strano quelle insolite pietre di granito che aveva dovuto portare per un bel mezzo chilometro? E chi aveva scolpito quella pazza serie di uccelli, uomini e sirene attorno al cottage dissestato? Lily non voleva dirglielo, e alla fine lui smise di chiederlo. Stava aspettandolo ai piedi della collina, con il pesante mantello nero che le arrivava alle caviglie. E lui pensò che assomigliava a un piccolo pipistrello femmina, gravida. Cercò di sopprimere un moto di sorpresa quando vide la statua accanto a cui stava Lily: era di una madre con il proprio piccolo, e la donna aveva la medesima altezza e le medesime forme che Lily aveva un tempo; nell’atteggiamento e nel volto calmo, privo di espressione, capì subito che lei doveva avere fatto da modella. Fissando poi il bimbo tra le braccia della donna, Devon provò sconcerto, si sentì quasi disorientato. «Perché mi hai cercato? Perché sei venuto qui?» chiese improvvisamente, con una voce priva di espressione. «Perché?» Era da tanto che glielo voleva dire. «Perché ti amo.» Lei proruppe in un’esclamazione breve, violenta, si volse e si coprì le orecchie con


le mani. Devon ne fu sconvolto, e per un minuto non riuscì a muoversi. Poi le girò attorno così che lei fu costretta a guardarlo. Abbassò le mani lentamente, e notò che i polsi sottili le tremavano; gli occhi erano vacui, come se stessero guardando dentro di sé. Cercò di parlarle con calma. «Ascoltami, Lily. Ora so che non hai mai fatto del male a Clay, che non avresti mai potuto. Io...» «Come fai a saperlo?» «Lo so, e basta.» Come?» Distolse lo sguardo. «Sono tornato in me.» «Stai mentendo.» Come faceva a saperlo? «No, è la verità.» «Clay ha ricordato qualcosa.» «No», ribatté e, in quel caso, stava dicendo la verità. «Lo giuro, non riesce a ricordare nulla. Ti ho già detto che sono tornato in me.» «Bugiardo.» Trasalì. «Servirà a qualcosa dirti che mi dispiace per quello che ho fatto? Non l’ho detto prima perché sapevo che non ...» «Mi darai del denaro?» «Che cosa?» Lily ripeté la domanda – sebbene lui l’avesse udita perfettamente già la prima volta – con lo stesso tono privo di inflessioni, misterioso. «Perché?» Devon chiese dolcemente. «Così che possa andarmene. Così che possa vivere.» Un brivido gli corse lungo la schiena, raggiunse la nuca. «Lily... cara...» Vide un’ombra di repulsione oscurarle i lineamenti, e il resto delle parole gli morì in gola. «Lo farai?» insistette. «No», rispose lui con voce roca. «Me l’ero immaginato.» Si allontanò da lui quando le tese una mano. «Non toccarmi. Non ho altra scelta se non venire con te... altrimenti morirei.» «Lily...» «Tra tre mesi entrerò in possesso dell’eredità di mio padre. E allora potrò lasciarti, e porterò con me il bambino. Non è tuo, è di un altro.» Per un momento le credette, e si sentì raggelare dal panico. Ma un secondo dopo comprese che gli stava mentendo. Certamente gli stava mentendo. «Di chi è?» chiese con tono leggero. «Non te lo dirò mai.» Devon cercò di sorridere. «Devi venire con me, amore, non hai...» «Altra scelta, lo so. Ma non per molto, sai? Ti lascerò appena possibile. Mio figlio merita qualcuno migliore di te. Se cercherai di prendermelo, ti ucciderò.» Infine la voce le si spezzò, e Devon vide che stava tremando. Tentò di avvicinarsi, ma Lily prontamente fece un passo indietro. Si strinse le braccia al seno, tremando senza più controllo. «Tuo figlio è morto, ma non avrai il mio. Non sei riuscito a tenere tua moglie, e non terrai nemmeno me. Ti disprezzo.» Devon si volse, il volto pallidissimo, non potendo più guardarla in volto. Era come se fosse stato scorticato vivo, come se la sua pelle fosse stata staccata dal corpo. Che pazzia gli aveva fatto credere che potesse perdonarlo? Andò a prendere il cavallo, muovendosi come un automa. A est, il sole era un pallido disco giallognolo, dietro un


cielo triste. Quando ritornò, aiutò Lily a montare sullo stallone. Il suo corpo era floscio, e aveva un’aria esausta; ma gli occhi ardevano di odio. Sapeva che sarebbero arrivati prima se avesse potuto cavalcare dietro di lei, ma non aveva più il coraggio di toccarla. E così prese le redini del cavallo e lo condusse attraverso quel labirinto ghiacciato di sculture, fantasmi silenziosi, la cui immobilità cristallizzata appariva come una maledizione. Il cane – Gabriel, come l’aveva chiamato lei – era davanti a loro, trotterellando e indicando il percorso. Alcuni fiocchi di neve ballavano trasportati dal vento gelido, e ingrigivano ciuffi di calamo aromatico, cumuli di torba e curve macilente di antiche colline. Rabbrividì, percependo l’aperta e paziente ostilità della brughiera, la minaccia latente. Pensò alle speranze piene di ottimismo della sera prima. Lo colpirono come le pazze illusioni di un folle. «Verrà a cenare con noi?» Clay chiese, mentre Devon saliva i gradini del terrazzo, di ritorno dal cottage di Cobb, dove Lily si era sistemata. Clay era avvolto in una coperta e comodamente seduto all’aperto in una poltroncina, dinanzi alle porte spalancate della biblioteca. «No.» «Perché no?» L’espressione colma di comprensione del fratello fece innervosire Devon. «Ah, non si è preoccupata di darmi un motivo. Cosa fai ancora qui fuori? Il sole è tramontato circa mezz’ora fa. Se ti dovessi prendere un raffreddore, non pensare che ne sarò dispiaciuto.» La voce era dura, ma le mani ebbero un tocco gentile quando aiutò il fratello ad alzarsi e lo accompagnò in biblioteca. Non appena Clay fu seduto sul divano, Devon si spostò verso il mobile tra le finestre e prese una bottiglia di whiskey. Ne versò un poco e tornò verso il fratello, attendendo la disapprovazione di Clay – un classico in quei giorni. «Mmmma ti ssserve davvero?» chiese Clay balbettando, conseguenza dell’incidente, e indicando il bicchiere. «Mi serve.» Guardò il liquido color ambra, inalandone il profumo acre, e ne bevve un sorso. Rabbrividì istantaneamente e i suoi occhi si colmarono di lacrime. No, non serviva, in realtà. Ma era ormai abituato e non c’era nient’altro da fare. «Guarda che cosa mi ha dato Mac-MacLeaf, Dev.» «Che cos’è?» «Un cavallo. L’ha int-intagliato lui stesso. È Tamar, vedi? Galen ha detto che visto che non posso cavalcarlo, almeno pos-posso ggguardarlo.» Devon riuscì a sorridere. MacLeaf era tornato ormai da un mese. Aveva trovato lavoro in una miniera di stagno vicino a Liskeard dopo che Devon l’aveva mandato via da Darkstone. Chiedergli scusa era stato doloroso e insolito per lui, ma era riuscito a farlo, e MacLeaf era contento di essere tornato di nuovo a lavorare tra i suoi amati cavalli. Clay si appoggiò allo schienale del divano, con gli occhi chiusi. Il fratello corrugò la fronte. «Come stai? Ti senti poco bene?» «No. Sto bene. Solo un po’ sta-stanco.» «Sei rimasto fuori troppo a lungo. Su, che ti porto di sopra.» Clay allontanò Devon con una mano. «A che mese è la... la gra-gravidanza di


Lily?» Devon depose il bicchiere con molta attenzione. «Non so. Non me lo vuol dire.» E nulla riusciva ad allontanarla da lui più velocemente di un qualsiasi riferimento – sottile o diretto, indiretto o aggressivo, poco importava – al bambino che aveva in grembo. Per salvare quel lieve rapporto che c’era tra loro, qualche settimana prima aveva smesso di toccare l’argomento. Ma Lily era troppo magra, e lui molto preoccupato. «Sarà molto difficile per te», disse Clay a bassa voce. «Ma, in un certo senso, lo sai...» Si interruppe, e questa volta Devon sapeva che non era perché non si ricordava le parole, ma per non urtare i sentimenti del fratello. «È quello che mi merito?» soggiunse lui in tono caustico. Clay sorrise dolcemente e sollevò una spalla. «Grazie per questa tua considerazione, davvero. Ma, pensa un po’, ci ho già pensato io più di una volta, e ne sono veramente stufo.» «Hai ragione. Eppure non riesco a capire come... come tu possa aver pensato anche solo ppper un se-secondo, che Lily potesse aver-avermi cccolpito, è...» «Dannazione», lo interruppe Devon con ferocia. «C’era un biglietto, Clay, era sotto la tua mano. Quel maledetto bauletto era pieno di denaro, e pensavo che stessi morendo... non pensavo, agivo e basta. Dannazione!» Chiuse gli occhi e si appoggiò alla finestra. Si trattava solo di scuse, non di motivi, e centinaia di volte in un giorno malediva la sua stupidità. «Verrà la mamma. Te l’ho già detto?» Finì di bere e sollevò lo sguardo. «Sì.» «Oh... mi spiace. Quando?» «Venerdì.» «Giusto. Vvvviene anche Alice, vero?» «Sì.» «Bene.» Il sorriso di Clay era contagioso al punto che anche Devon ne accennò uno di rimando. «Sì, meglio così. Così almeno qualcun altro avrà la seccatura di occuparsi di te.» Clay ridacchiò. «Io pppreferisco che sia Alice a curarmi che-che non tu. È più carina e non mi sgri-sgrida.» La sua espressione si fece buia. «Dev?» «Dimmi.» «Vuoi che io... parli a Lily? Cerchi di farlo, almeno?» Rise, ma non era divertito. «E cosa le diresti?» «Non so, ma-ma forse mi-mi...» «Ti verrebbe?» «Mi verrebbe. Qualcosa di brillante, eloquente...» «Lo apprezzo molto, davvero. Ma non credo che servirà...» «Beh, male non farà, non trovi? Solo per provare.» Certo, forse non avrebbe fatto male, ma Devon pensava che fosse come cacciare in gola a un uomo morto una medicina. Non avrebbe fatto male, ma non avrebbe fatto nemmeno bene. «Parlerò con lei», Clay decise, sfregandosi le mani.


Capitolo venticinquesimo «Ma come fai a sopportare questo caldo, Lily? Siamo in aprile, e tu sei sempre qui, come una strega sul suo calderone.» Lowdy stava stendendo un lenzuolo pulito sul materasso, iniziando a ripiegarlo sotto in corrispondenza degli angoli. «Galen dice che sta portando qui più legna che in tutta Darkstone da quando sei venuta a vivere nel cottage di Mr. Cobb. Sai cosa? Dovresti uscire di più, ecco cos’è. Dovresti uscire a camminare un po’, non stare qui tutto il giorno. E anche quando è chiaro, non solo quando è buio per non farti vedere.» Gettò un’occhiata in tralice a Lily, che non rispose e non sollevò lo sguardo dal lavoro di cucito. «Sai cosa? Stai diventando strana, mia cara», mormorò tra sé e sé mentre stendeva la copertina di lana sulle lenzuola e sprimacciava il guanciale. «Strana, sì, e troppo magra.» Gabriel, accovacciato accanto alla sedia di Lily, si alzò a fatica, si stiracchiò e si avvicinò alla porta. «Persino quel cane sta bruciando...» borbottò Lowdy, raggiungendo la porta e inginocchiandosi dinanzi a Gabriel. «Ooh, che amore che sei...» mormorò facendo le fusa, baciandolo in fronte. Gabriel batté educatamente le palpebre e distolse lo sguardo. «Ma hai occhi solo per la tua padrona, giusto? Beato il mio cuore, che ragazzo timido...» Poi si alzò e gli aprì la porta. Gabriel uscì subito. «Beh, cos’è rimasto da fare? Spolverare, scopare...» Si avvicinò di più al camino. «Che stai cucendo per la piccola, questa volta? Oh, che carina questa cuffietta, non è bella? Che Dio me ne guardi, questa piccola avrà più vestiti di una regina, anche se non è ancora nata.» Lily si schiarì la gola e disse: «Questo piccolo...» Incoraggiata dal fatto che Lily avesse per lo meno deciso di parlare, ribatté: «No, Mrs Carmichael dice che è una bambina, e lei sa bene queste cose». «No, è un maschio», rispose Lily con tono che non ammetteva repliche, e si rimise a cucire. Lowdy si mise le mani sui fianchi. «Ma possibile che non hai altro da dire, eh? Per il resto della giornata, vero? Dio, Lily, ti stai buttando proprio via! Sempre qui dentro, giorno e notte, mangi da sola, non parli con nessuno se non con me, e non sempre. Sai che dicono che stai mettendo su delle arie?» «Chi lo dice?» chiese incuriosita. «Rose. L’ha detto a Enid. Io l’ho sgridata, così non lo dirà più.» Attese una reazione, ma non ne ebbe. Strinse le braccia al seno. Uno sguardo astuto sostituì quell’esasperazione latente che si era delineata sul volto rotondo: «Oh, beh, in fondo devi vivere come vuoi, penso». Trovò il piumino sul camino e iniziò a passarlo qua e là, canticchiando. «Il padrone ha dormito fino a tardi, sai?» disse in tono noncurante. Osservando Lily di sottecchi, vide che si irrigidiva, e che le dita operose si fermavano sul lavoro di cucito. «Non mi sorprende, sta in piedi per metà della notte, a bere. Tutto solo nella sua stanza, dice Stringer. Beveva sempre con il giovane padrone, ma non può mica più bere, di questi tempi, ovviamente, non si è ancora ripreso del tutto.» Le lanciò un’altra occhiata; Lily fissava i carboni che stavano bruciando nel camino, e il suo volto aveva un’espressione che costrinse Lowdy a deporre subito il piumino e ad andare da lei. «Eccoci qui! Va tutto bene, Lily, non manca niente, proprio niente,


se non una bella passeggiata al sole. Mio Dio, dovresti proprio uscire qualche volta. Non è mica giusto vivere qui, come un vecchio eremita ammuffito...» Lily scrollò le spalle per liberarsi della mano di Lowdy, poi balzò in piedi. «E va bene!» urlò, gettando il cucito sulla sedia. «Ci vado. Non vedo l’ora di fare una passeggiata! Almeno non dovrò ascoltare la tua linguaccia infernale!» Attraversò la stanza con quattro passi veloci, prese il cappello di paglia, spalancò la porta e la richiuse con forza dietro di sé. «Su, Gabriel, andiamo a fare questa dannata passeggiata!» chiamò il cane, che stava cacciando una farfalla tra i nontiscordardimé che occhieggiavano allegri lungo il sentiero. Il minuscolo giardino dinanzi al cottage era un fasto di garofanini e lavanda, e si chiese quando fosse iniziata la loro fioritura. La primavera odorosa occhieggiava lungo il sentiero di ghiaia, e l’aria era fragrante di erica, garofani ed erba. Le violette lottavano con le primule per la conquista di maggior spazio, tra ciuffi di felce aquilina e felce comune. Un pettirosso cinguettava sul ramo di un salice di un tenero verde, e la sua voce acuta contrastava con il dolce suono delle allodole. Lentamente, il passo di Lily, furibondo, si rilassò. Svoltò lungo il sentiero che portava al lago – era sicura che laggiù non avrebbe trovato nessuno – vista soltanto da una lepre, che fece un balzo e scomparve. Grossi bruchi pelosi risalivano lentamente tra i cespugli di ginestrone, lungo il cammino. Una coppia di scoiattoli si batteva vigorosamente per guadagnarsi l’attenzione di un terzo, girando vorticosamente attorno a un ramo di nocciolo. Accanto al lago la luce del sole dorava la sabbia morbida, facendola diventare di un giallo acceso, simile a quello dei crocus. Lily si diresse verso la sua abituale pietra piatta, non lontana dall’acqua azzurra. «Non osare portarmi un altro pesce morto, oggi, hai capito?» Ma Gabriel non diede alcun segno di avere udito mentre si allontanava, scomparendo tra le rocce nere lungo la costa. Si tolse le scarpe e ne scrollò via la sabbia. Il sole le stava scaldando le dita dei piedi e, dopo un momento, si alzò e si tolse le calze. E poi, non poté più resistere a scendere fino all’acqua e bagnare i piedi – e balzare via immediatamente, sorpresa, perché la primavera era di certo giunta in Cornovaglia, ma le acque di Pirate’s Mere erano ancora gelide. Riprese il suo posto, togliendosi la sabbia umida dalla pianta dei piedi, e ripensò a Lowdy. Sperava di non averne urtato i sentimenti ma, Dio mio, com’era pesante! E tutto solo perché si preoccupava di lei, Lily lo sapeva bene – il che aumentava ancor più i suoi sensi di colpa. Lowdy disapprovava il modo in cui viveva; lo trovava «strano». E indubbiamente lo era, ma Lily aveva forgiato appositamente in quel modo i suoi giorni aridi e opachi. Era ormai tornata a Darkstone da due mesi, ma ne era stata un’ospite appartata, quasi mai vista in giro, che viveva nella vecchia casa di Mr Cobb e rimaneva sempre sola. Se non era strettamente necessario, parlava soltanto con Gabriel e il bambino. Ricordava spesso Meraud, e scherzava con il cane dicendogli che evidentemente era proprio il suo destino quello di vivere in cottage isolati, con donne strane e sole. Chiuse gli occhi e si appoggiò sulle mani, all’indietro, il mento alzato verso il cielo e inspirando a pieni polmoni l’aria dolce e profumata. Sentire il sole sulla pelle era una sensazione bellissima; pareva che le penetrasse nelle ossa – una cosa che il fuoco del carbone che teneva sempre acceso, notte e giorno, non riusciva a fare. Forse


Lowdy aveva ragione, forse avrebbe dovuto uscire di più. E non soltanto di sera, quando non incontrava nessuno. Quando non incontrava Devon. Ma quella sua strategia era fallita la sera prima. Aveva passeggiato sul promontorio poco prima di mezzanotte, quando improvvisamente aveva visto dinanzi a sé la sua figura alta e massiccia, sbucata come dal nulla dopo una curva. Era buio, e lui le volgeva la schiena, guardando l’acqua. Tre giorni prima, per la prima volta dopo settimane, aveva bussato alla sua porta, chiedendole di cenare con lui e Clay. Lei aveva rifiutato, allontanandolo con parole dure, e la sera precedente si era sentita a disagio rivedendolo così presto. Era pronta a ritornare velocemente sui suoi passi quando si era voltato e l’aveva vista. Nessuno dei due aveva aperto bocca per lunghi secondi, poi entrambi avevano parlato all’unisono. «Scusami, non ti avevo visto.» «È una notte buia per essere in giro da sola.» E simultaneamente si erano interrotti, per poi riprendere a guardarsi nel silenzio ridiventato teso. «Bene...» aveva concluso Lily accingendosi ad andarsene. «Vuoi passeggiare con me?» le aveva chiesto Devon, di botto. «Perché?» Si era raddrizzato, e la sua voce aveva assunto quell’intonazione sardonica che usava in quei giorni con Lily e che lei odiava tanto. «Perché è primavera, è una notte calda e andiamo nella medesima direzione.» «Tutte buone ragioni», aveva ribattuto lei dopo una pausa colma di tensione. «Ma, nonostante tutto, rifiuto. Buonanotte.» Le aveva rivolto un inchino profondo e ironico. «Buonanotte a te», aveva risposto, e improvvisamente lei gli aveva colto nel fiato l’odore pungente e inconfondibile dell’alcool. «Fai attenzione quando rientri», gli aveva detto pungente. «Non sei in te.» «No? E perché?» Lei aveva risposto con un suono colmo di disgusto e aveva iniziato a voltarsi indietro, ma lui le aveva preso un polso per trattenerla. «Ti importerebbe poi qualcosa se cadessi giù dalla scogliera?» Con enorme autocontrollo, lei non aveva nemmeno cercato di liberare il braccio. Ignorando il tono semiserio che si celava dietro quella domanda fatua, aveva esitato, come per rifletterci sopra. Poi aveva detto semplicemente e molto chiaramente: «No». La mano di Devon si era allontanata subito dal suo polso, lei aveva raccolto le proprie gonne e se ne era andata con passo veloce. Gabriel era tornato, fortunatamente senza nulla in bocca, e le aveva posato in grembo la testa pesante perché gli grattasse le orecchie. Charlie scalciò – aveva chiamato il proprio bimbo Charlie, come suo padre – e allora, con l’altra mano, si accarezzò distrattamente il ventre. Sospirando, pensò a quella parte stupida di sé che soffriva perché aveva fatto soffrire Devon la sera prima. Ma cercò di confortarsi con la certezza che quello che lei aveva ferito, tutto quello che lei poteva aver ferito, era solo il suo orgoglio; eppure, l’essere deliberatamente scortese con qualcuno, anche con lui, non le dava di sicuro piacere. Più difficile ancora era ammettere la velata eccitazione che provava nel vederlo – per ben due volte in quattro giorni. Non aveva mai perso l’occasione di dirgli di lasciarla in pace, eppure, quando lui l’accontentava, non riusciva quasi a sopportarlo. Persino nella brughiera, dopo la morte di Meraud, non aveva sofferto di tanta


solitudine, tanta alienazione. Vedere Devon la faceva sentir viva, piena, se non altro di amarezza. Ma la sua decisione non era affatto mutata; per lui provava solamente disprezzo, e appena possibile l’avrebbe lasciato. Che meschinità da parte sua utilizzare Clay come pretesto per vederla! La parte peggiore dell’esilio che si era autoimposta, infatti, era rimanere lontana da Clay. Aveva notizie della sua lenta ripresa da Lowdy e da Mrs Carmichael, la nuova governante, ma si vergognava di non essere andata a trovarlo nemmeno una volta. Tentò di rilassarsi, di schiarirsi le idee. I pensieri tristi e troppo colmi di tensione giungevano a lei troppo spesso; la sconvolgevano, e sconvolgevano anche il bambino. Si appoggiò alla roccia calda di sole, una mano sul muso di Gabriel. Ma le lacrime le annebbiarono ancora una volta lo sguardo prima che potesse difendersi da loro, e sentì quella disperata solitudine che tornava. «Mi spiace, Charlie», sussurrò, non ben sicura di che cosa si dispiacesse, o perché si sentisse in colpa e provasse la necessità di pentirsi. Le regole che si era data per quel periodo temporaneo della sua esistenza, per quest’attesa, non funzionavano più; le sue difese avevano iniziato a sgretolarsi, e non riusciva più a fermarne il processo. I nuovi sentimenti avevano a che fare con l’arrivo della primavera, e la sensazione sempre più forte di non poter vivere sola. L’isolamento era per lei una vera tortura, del tutto innaturale, ma aveva pensato che fosse il prezzo della sicurezza e della tranquillità. Più di qualsiasi altra cosa, desiderava la pace, ma le strategie per raggiungerla si stavano rivelando un fallimento. Si terse le lacrime dalle guance. «Che cosa pensi di questa giornata, Gabe?» disse, tirando su con il naso, determinata a por fine a quello strazio. «Lowdy aveva ragione, dovremmo uscire più spesso. E il cielo, non è bello? Quella nuvola sembra un uomo, non trovi? Che fuma una pipa, il cappello inclinato su un occhio.» «Ancora a parlare con quel cane, per Giove.» Lily trasalì, spaventata. «Lowdy, per l’amor di Dio. Non mi arrivare così alle spalle!» «Non sono mica arrivata qui zitta zitta, ma con i miei passi di sempre. E posso andarmene, se non vuoi il biglietto.» «Quale biglietto?» «Questo. Portato ora da un ragazzo. E aspetta anche una risposta.» Lily prese con cautela quel foglio di carta, pensando che fosse di Devon. Invece era di Clay, che voleva vederla. L’avrebbe raggiunto per un tè alle quattro? «Beh? Che dici?» Lily ripiegò con cura il biglietto. «Sì», rispose prima di riflettere troppo. «Di’ al ragazzo di sì, ci andrò.» «Andrai, eh? Beh, che bello. Vado a dirglielo subito. Ma non è bellissimo? Andrai.» «Ho detto di sì. Ora puoi andare, Lowdy, vai a dirlo al ragazzo.» «Vado, vado... Basta un invito del giovane padrone, e lei si da arie da gran dama e inizia pure a comandare», disse Lowdy, pensierosa. Ma i suoi occhi brillavano e lanciò a Lily un sorriso contento prima di voltarsi e andarsene con il suo passo pesante sulla sabbia. «Sono venuta a trovare Mr Darkwell, Clay. Mr Clayton Darkwell.» Come si


sentiva strana, parlando a Stringer come se fosse un’ospite, una vera signora venuta in visita. Il maggiordomo severo, dallo sguardo cortese, l’aveva sempre innervosita, e mai come in quel momento. «Mi ha invitata lui», sbottò poi, come per difendersi. «Sì, signorina, da questa parte.» Lo seguì in ingresso, e fu alquanto sorpresa quando vide che il maggiordomo non girava né a destra né a sinistra, in fondo alla grande scalinata, ma saliva le scale senza fermarsi. Aveva pensato che Clay l’attendesse in uno dei salotti a piano terra. Ma era meglio così, si disse; sarebbe stato molto meno probabile incontrare Devon al piano di sopra, a quell’ora del giorno. La casa era silenziosa, e parve a Lily che il tempo si fosse fermato, perché tutto pareva esattamente come un anno prima, quando era giunta lì per la prima volta. Ricordava di avere pulito la balaustra della scala e di avere spolverato il rivestimento di legno delle pareti, raddrizzando le cornici dei quadri dell’ingresso. Le pareva fosse ormai passata una vita. Stringer giunse alla porta di Clay e bussò; a bassa voce, il fratello di Devon disse loro di entrare. Il maggiordomo aprì la porta, si spostò per farla passare, quindi la richiuse dietro di lei. «Lily!» Clay si appoggiò ai cuscini impilati contro la testiera del suo gran letto a baldacchino. Allontanò da sé un foglio di carta e una penna, macchiando così la coperta con l’inchiostro nero, e la salutò con un grande sorriso. «Vieni, vieni avanti!» Aveva temuto che la sgridasse, e invece la felicità che dimostrava la fece sorridere, e qualcosa di duro e triste parve dissolversi dentro di lei. «Clay, è bello vederti.» Trovò molto naturale andargli incontro e abbracciarlo dolcemente. «Ma non stai ancora bene? Mi hanno detto che stavi bene e che ormai uscivi. Non sarei mai venuta se...» «Ho-ho avvvvuto qqqualche giornata bbruutta», disse lentamente. «Dev mi ha detto che sono rimasto fuori troppo a lungo domenica. Ora invece sto bene. MMmarsh, il dottor Marsh, ha detto che potrò alzarmi domani. Siediti! C’è una sedia, se vuoi, oppure ppppotresti anche metterti qui, accanto a me.» Prese la sedia e la avvicinò al letto. Non sapeva che cosa aspettarsi e all’inizio l’aspetto di Clay l’aveva spaventata. Era magrissimo e bianco come i cuscini. Le ossa del volto erano molto prominenti, rendendo la pelle ancora più bianca. Gli occhi azzurri parevano enormi, e nella gola macilenta, quando parlava, il pomo d’Adamo era paurosamente evidente. Pareva un adolescente molto malato. Ma il dolore che Lily provava scomparve nel momento in cui iniziarono a parlare, perché la sua voce e i suoi gesti erano quelli, inconfondibili, del vecchio Clay; e in pochi minuti si sentì subito a suo agio, ricordando perché Clay le piacesse tanto e quanto avesse sempre significato la sua amicizia. «Sei molto bella, Lily. No, davvero. Sei qui...» aggrottò la fronte, cercando di ricordare. «Da quanto tempo?» Lei abbassò lo sguardo, imbarazzata. «Quasi due mesi.» «Sì, due mesi, e ti ho visto una sola volta, in lontananza. Mi hai fatto un cenno con la mano e poi tttu sei...» «Scappata via», arrossì. «Lo so, mi spiace, io...» «Oh, non ci sono problemi», disse in fretta. «Non ti preoccupare. Mi spiace di averti fffatto venire qui, comunque. Ti ricorderà qualcosa, immagino.» Lei lo guardò


sorpresa. «Del giorno in cui ci siamo conosciuti», le spiegò con gli occhi allegri. Lily rise, e quel suono poco familiare la sorprese. «Sì, fu una mattina molto... istruttiva. Davvero indimenticabile.» Iniziò a rilassarsi, e partecipò al dolore di Clay quando le raccontò della lentissima guarigione. «Che cos’è?» chiese poi quando lui si fermò, indicando il foglio di carta che aveva allontanato da sé quando lei era entrata. Assomigliava a un disegno.» «È una nave.» «Posso vederlo? Clay, ma è bellissimo.» Per lei, in realtà, erano soltanto linee con qualche numero tracciato sui lati – delle dimensioni, pensò. Ma erano eseguiti con tale abilità e precisione che ne rimase sinceramente colpita. «È davvero molto bello.» «Grazie. È uno sloop.» «Davvero?» «Stavo pensando di m-m-mandarlo agli uffici della Guardia di Finanza. Si tratta di un miglioramento rispetto ai cutter poiché il bom-bompresso è più lungo e retrattile. E c’è anche più spazio per le vele perché ho ampliato l’ampiezza al centro dell’imbarcazione senza aumentare la dimensione dello scafo. Vedi?» Lei mormorò qualcosa di poco impegnativo. «Non lo trovi... un po’ ironico?» non riuscì a non chiedergli. «Io che disegno navi per la Finanza? Veramente molto ironico. Ma... ma pare essere l’unica cosa che riesco a fare, per ora. E mi piace, Lily, davvero mi piace molto.» «Sì, lo vedo.» «È l’unica cosa che riesco a fare veramente bene, anche se il mio povero cervello non... non funziona molto.» Udirono bussare alla porta. Clay urlò: «Avanti!» e Francis Morgan comparve sulla porta. «Buon pomeriggio a entrambi», li salutò con un sorriso. Anche se la presenza di Lily nella camera da letto di Clay l’aveva sorpreso, fu davvero molto bravo a nasconderlo. Elegante e alla moda come al solito, indossava un cappotto azzurro su un gilet argentato e pantaloni verde bottiglia; i suoi capelli biondi, pulitissimi, erano lievemente incipriati. «Salve, Francis», rispose Clay con cordialità. «Come stai? Prenditi una se-sedia e vieni qui con noi.» «No, no, sono passato di qua solo per salutarti; ho appena’parlato con Devon, qui sotto. Come stai oggi, Clay?» «Oh, benissimo. E tu?» «Non potrei star meglio. E voi, Miss... Lily?» Ma certo, si chiese lei, non sa come chiamarmi – oppure si sta chiedendo per quale motivo sia tornata a vivere qui, e quale possa essere, ora, la mia posizione. E che penserà della mia gravidanza? Le guance le bruciavano di vergogna, ma riuscì lo stesso a sorridergli, cercando così di alleviare un poco il suo imbarazzo. «Sto bene, grazie, Mr Morgan.» Clay e Francis si scambiarono altre frasi cordiali. Poi Francis disse: «Beh, vado. Come ho detto, ero venuto qui solo per un saluto. Abbi cura di te, Clay». «Anche tu Francis. Ci vediamo.» La porta si chiuse dietro di lui. Clay si riappoggiò ai cuscini. «Dev mi ha detto che io non riesco a sopportare


Francis», le confidò a bassa voce. Lily annuì. «Sì, è quello che ricordo anche io.» «Ma non capisco perché. Mi pare... mi pare un tipo a posto. E con me si è sempre comportato bene, dal momento dell’incidente.» «Vuoi dirmi che ora siete amici?» «Beh, sì, penso di sì. Strano, non trovi?» «Molto strano.» «Verranno qui Alice e mia madre. Tra pochi giorni, penso. Ah, scusami, Lily, ma non te l’ho già detto? Alice è stata merav-meravigliosa. Era qui quando mi sono svegliato.» «Dall’incidente?» «Dal coma, sì. Ed è rimasta fino a quando la sua famiglia non l’ha costretta a tornare a ca-casa. Sua sorella era ammalata, e c’era bisogno di lei.» «Deve essere una brava infermiera.» «La migliore.» Era ormai giunto il momento di andare. E lei non voleva stancarlo troppo. «Sono contenta di averti rivisto, Clay.» «Anch’io lo sono, e molto.» «Non so quanto tu riesca a ricordarti, ora, ma tu sei stato sempre molto gentile con me, e ti ho sempre considerato un buon amico.» «Ricordo.» «Non sono mai venuta a trovarti, e mi spiace se pensi che ti sia stata lontana o non ti abbia pensato da quando sono tornata. Ma non riesco a stare con la gente, capisci? Non riesco a parlare.» «Hai avuto un periodo veramente difficile», le prese goffamente una mano. «Lowdy ha detto che, qualche volta, ti viene il mal di testa. Ho sofferto molto anche per quello che ti è accaduto, e non voglio che tu pensi che non mi preoccupo per te.» «No, non l’ho mai pensato.» Lily sorrise, sollevata nel vedere che, nonostante avesse avuto un periodo così difficile, non aveva perduto la sua affascinante sicurezza. Guardò le loro mani ancora intrecciate. «Penso che Devon ti abbia spiegato quello che, all’inizio, ha pensato. Che... che ti avevo sparato io.» Gli occhi del giovane si colmarono di comprensione. «Sì. Deve essere stato molto difficile.» E lei, con il suo silenzio, gli diede ragione. «Quanto c’è voluto prima che ricordassi?» «Ricordassi?» «Che non sono stata io.» La guardò sorpreso. «Beh, sai, il fatto è che non ricordo.» «Che cosa vuoi dire?» «Mi mancano i ricordi di un lunghissimo periodo di tempo, anche prima di quello sparo. Mesi interi se ne sono andati. E l’ultima cosa che posso davvero ricordare è di avere fatto colazione con Dev. Dopo di che, è tutto nebuloso. Ma sta tornando lentamente, a...» Fece un gesto vago e impaziente. «A sprazzi...»


«Sì, esatto, sempre più frequenti, ora. E rapidi.» Lily allentò la stretta quando comprese che stava stringendo la mano di Clay con troppa forza. «Tu... tu stai dicendo che non ricordi chi ha cercato di ucciderti? Non sai con certezza che non sono stata io?» Rise. «No, guarda, sono due problemi diversi; non cercare di confondermi, non è giusto.» Il suo sorriso scomparve, tuttavia, quando vide l’espressione sul volto di Lily. «Non so proprio chi ha cercato di uccidermi», disse lentamente. «Ma sono certo che non sei stata tu.» «Allora... tu non hai detto a Devon che è stato qualcun altro?» «No, certo che no. Lily, non ho proprio alcuna idea di chi possa essere stato.» Lei si lasciò andare: era troppo debole per potersi rialzare, in quel momento. «Perché? Che cosa ha detto lui?» «Nulla, cioè è esattamente quello che ha detto.» Ma non gli aveva creduto, era così certa che stesse mentendo! «Ascoltami, non dire a nessuno che la mia me-memoria sta tornando. Va bene?» «Sì. Ma... perché?» «Beh, Dev dice che io sarò al sicuro solo fino a quando chi mi ha sparato pensa che non riesco a ricordarmi nulla. E così abbiamo deciso di tenerlo seg-segreto. Devon ti ha detto di Wiley Falk?» «Chi?» «È stato il mio primo aiutante. L’hai incontrato quel giorno sullo Spider.» «Sì, ricordo.» «È morto.» «Oh Clay, mi spiace tanto.» Abbassò il capo, poi proseguì. «L’hanno trovato a casa sua, gli hanno sparato. Un colpo alla tempia.» Lily sbiancò. «Che cosa significa?» «Non lo sappiamo. Se solo potessi ricordare!» Un’espressione colma di panico si diffuse sul suo volto, per poi sparire in un secondo. «Marsh sostiene che potrei anche non ricordare mai. Dev invece mi dice di non pensare alle parole del medico, di fofocalizzarmi sul momento prima dello sparo, di cercare di ricordare chi era il mio intermediario.» «Intermediario?» «Qualcuno ha venduto la roba contrabbandata per conto mio e ha dato via la mia parte di profitti.» «Ha dato via?» «Ai poveri», fece una smorfia. «Ero un filantropo.» Il suo sorriso si ampliò. «Non mi guardare con quell’aria, Lily, mi sembri proprio Dev. Lui dice che non ero un filantropo, ma un idiota.» Scrollo il capo guardandolo con aria ironica. «Una volta tanto, sono d’accordo con lui.» «Dice che quando sono tornato dalla Francia gli ho detto che ero inc-incappato in qualcosa di grosso. E ho aggiunto anche che se non fossi già stato ricco, lo sarei diventato in quel momento.»


«E non riesci a ricordare che cosa fosse?» «O dove. Wiley era l’unico rimasto che lo sapesse.» «E il resto della ciurma...?» «Andata, ognuno per contro proprio.» «E ora Mr Falk è morto», Lily proseguì a bassa voce. Clay si passò una mano sulla fronte, tenendo gli occhi serrati. Lei si alzò di colpo. «Sei stanco, Clay. Sono rimasta troppo.» Le prese di nuovo una mano. «Tornerai ancora?» «Sì, certo.» «Bene. Perché io... non... Accidenti, mi sono dimenticato di dirti una cosa.» «Di che cosa si tratta?» «Potrebbe richiedere un po’ di tempo. Si tratta di Dev.» «Oh.» Tolse subito la mano da quella di Clay. «Lily, ascolta...» «No, Clay, ti prego, no. Non rovinare tutto, abbiamo passato un pomeriggio così bello.» «Ma...» La fissò con estrema attenzione. Dopo un lunghissimo istante, si schiarì la gola e disse con calma: «Lily, mi spiace per tutto quello che è acc-accaduto. Mi scuso per mio fratello, per tutto il dolore, tutto il male che ti ha fatto. Se ci fosse qualcosa che posso fare, posso compensare una parte dei suoi torti...» Si chinò su di lui, abbracciandolo velocemente per interromperlo. «Non hai nulla di cui scusarti», sussurrò. «Tornerò presto a trovarti. Ciao, Clay.» Lo baciò su una guancia e volò via.

Capitolo ventiseiesimo A metà della scala scorse Devon che la stava aspettando. Si fermò di colpo, il cuore che le batteva; dovette afferrarsi alla balaustra per non cadere. Era in piedi sotto il candelabro, ora riparato, quello stesso cui aveva sparato con una pistola la sera in cui si erano incontrati per la prima volta. Chissà se ricordava quella sera? Lei, non l’avrebbe mai scordata. Riprese a scendere le scale, con passo cauto e lento, consapevole della paura che provava nei suoi confronti. Il sentimento si era intensificato dopo le parole di Clay, secondo cui Devon era giunto a credere alla sua innocenza da solo, senza che suo fratello gli dicesse nulla. Qualcosa si era profondamente intenerito in lei, lo sentiva con certezza. E lo temeva. Si fermò di nuovo, a tre gradini dalla fine, incapace di avvicinarsi oltre. Lui era vestito formalmente, con una giacca di camoscio dai risvolti di velluto, pantaloni marroni, una camicia di seta. Il suo bel volto era assorto, scuro, ma non mostrava alcun residuo della sbronza della sera precedente – se la storia di Lowdy era vera. Per abitudine, parlò freddamente. «Volevi qualcosa, Devon? Pare che negli ultimi tempi tu abbia molto tempo a disposizione.» La bocca di Devon si increspò in un leggero sorriso, che allentò un po’ la tensione della sua espressione. Gli pareva molto bella con la camicia rossa che aveva


acquistato da una zingara per pochi centesimi – Lowdy, in quel periodo, era davvero un’ottima spia – e con il cappello di paglia nera tra le mani. Ma era pallida, come al solito, e non pesava abbastanza. Secondo i suoi calcoli, doveva essere al settimo, forse ottavo mese di gravidanza, ma gli pareva ancora troppo magra. «Sì, c’è qualcosa», rispose con quel tono formale lievemente ironico che aveva preso a usare con lei, per puro spirito di conservazione. «Puoi venire in biblioteca con me? Ho qualcosa da darti.» Come aveva previsto, lei si irrigidì. «Che cosa?» Il sorriso di Devon si strinse. «Nulla di cui temere, lo prometto. Una lettera.» «Una lettera? Si tratta di cattive notizie?» «No, affatto. Anzi penso che le considererai ottime. Vieni con me, Lily. Non ti morderò.» Sollevò il labbro superiore con aria di disdegno, ma cedette dopo un momento e lo precedette lungo il corridoio fino alla biblioteca. Il crepuscolo si stava tramutando in notte. Devon accese una lampada sulla scrivania, poi un candelabro sul caminetto. Lily attese, con le mani strette in grembo, fingendo di non guardarlo. E invece le piaceva molto farlo, si disse arrabbiata con se stessa; la sua sola visione le faceva piacere. Ma non lo amava, grazie a Dio, e le sensazioni che provava erano soltanto una forma residua di sensibilità, il movimento meccanico di un arto amputato, per nulla reale. Era ormai al sicuro da lui, e aveva anche appreso quanto fosse facile offenderlo: bastava tenersi tutto per sé, tutti i pensieri e le sensazioni, e parlargli il meno possibile. Non si chiedeva perché mai i risultati non fossero particolarmente gratificanti, o perché il ferirlo non le avesse mai dato la soddisfazione che un tempo pensava di poter provare. «È arrivata oggi, per te.» Lei prese la busta dalle mani tese. C’era un’aria strana nei suoi occhi blu-verde, un’espressione che non riusciva a decifrare. «È stata aperta», notò. «È stata indirizzata a me, ma riguarda te.» Gli girò attorno, prese la lampada e la portò al piccolo tavolino accanto alle porte del terrazzo. Voltandogli la schiena, soppesò la pesante busta tra le mani. Con una certa riluttanza, ne tirò fuori il contenuto – carta ripiegata, una lettera avvolta attorno a un documento dall’aria ufficiale. Si irrigidì quando lesse su quel documento, Ultime volontà. Girando velocemente le pagine, vide la firma di suo padre – in calce sull’ultima pagina: Charles Michael Trehearne – vergata con la sua abituale grafia pesante, troppo ricca. Il cuore di Lily fece un piccolo balzo. Aprì la lettera. Era di un certo Matthew Bogrow, dello studio Bogrow, Griffin, Krowitz & Rice. L’avvocato Bogrow era venuto a sapere dal collega Witt, avvocato del Rev. Roger Soames, che Lord Sandown poteva sapere dove si trovava Miss Lily Trehearne. Lily dovette rileggere più volte quella frase per cercare di comprenderla. Il nome Witt le suonava famigliare; poi si ricordò: l’avvocato Witt era colui che aveva conosciuto quella sera a casa del cugino. Le aveva dato qualcosa da firmare, ora si ricordava bene, un foglio di cessione di tutte le sue ricchezze a Lewis nel caso in cui si fossero sposati. Lesse la lettera più volte – non era poi molto lunga – e quindi ancora, di nuovo. Iniziò a roteare su se stessa, tenendo quella missiva stretta al seno, ridendo forte.


Il cuore di Devon parve fermarsi per un lunghissimo secondo. Non riusciva nemmeno a ricordare l’ultima volta che aveva udito Lily ridere. Il suo volto, radioso e, per una volta tanto, con la guardia abbassata, gli mozzava il fiato in gola. Le si avvicinò uscendo dall’ombra e sorridendo – ma si fermò subito, quando lei si allontanò improvvisamente, spezzando il contatto, spezzando il sentimento che provavano in quel momento. Inspirò profondamente, cercando di calmarsi. Un momento di gioia sincera tra loro era sperare troppo. «Sono contento per te, Lily», disse a voce bassa. Lei non sapeva se credergli. «Grazie. Una sorpresa...» «Sì...» «Mio cugino diceva che voleva che io e Lewis ci sposassimo poiché era la volontà di Dio; l’aveva visto in una ‘visione’, diceva. Ma pare che la volontà del Signore gli si sia manifestate in maniera molto più chiara dopo che è divenuto l’esecutore testamentario di mio padre.» Scrollò il capo lentamente, confusa dalla portata dell’ipocrisia di Soames. Devon, invece, era poco sorpreso. La sua reazione agli inganni sfacciati del cugino di lei era di cinica accettazione, quella di Lily, stupore. «Bene, sarà meglio che vada.» «Posso accompagnarti? È quasi buio.» Lei esitò. «No, grazie, non è necessario. Gabriel dovrebbe essere qui fuori ad aspettarmi, mi accompagnerà lui.» Devon portò le mani dietro la schiena. «Grazie di essere venuta a trovare Clay.» Lily abbassò lo sguardo. «Avrei dovuto venire prima», ammise. «Tornerai?» «Sì, gli ho già detto che lo farò.» Si interruppe di nuovo, a disagio. «Clay mi ha detto che non riesce a ricordare chi gli ha sparato.» Sollevò il mento e disse, con decisione: «Mi scuso con te per non averti creduto quando me lo hai detto». Devon fece un gesto lieve con la mano, di noncuranza. «Ma non potevo credere che mi avessi perdonata senza alcuna prova. Pensavo che tuo fratello ti avesse di sicuro detto qualcosa. Ti chiedo perdono per avere pensato male di te.» La pelle pallida delle guance di Devon assunse un tono color del bronzo; avrebbe tanto voluto allontanarsi da quello sguardo così grave e innocente, e non riusciva quasi a guardarla. Ma non poteva dirle la verità, e non poteva impedirsi di trarre vantaggio da quella rara dolcezza. Si avvicinò a lei e le prese una mano, che rimase rigida tra le sue, ma lui quasi non se ne accorse. Poi non seppe più cosa dire. «Mi spiace», fu la cosa che gli venne più naturale. E voleva dire di tutto: aveva cercato di dimostrarle tutto il suo rimorso coi fatti, ma ora pareva giunto il tempo delle parole. «Pensi che potresti perdonarmi, Lily?» La speranza rinasceva in lui; per la prima volta lei non nascondeva i suoi sentimenti e l’indecisione era palese sul suo volto, come le parole su un foglio di carta. Ma alla fine Lily tolse la mano dalle sue e fece un passo indietro. «Spiace anche a me, Dev. Non credo proprio.» E la sofferenza pura che lui lesse nei suoi occhi rispecchiava la propria. Deglutì a fatica. «Quello che mi chiedi è una cosa impossibile ormai. Non voglio ferirti, non ora, ma è troppo tardi.»


Vide che gli occhi della giovane si erano colmati di lacrime. Poi lei si volse, aprendo a fatica la maniglia della porta che dava sul terrazzo, e corse fuori. Il cane gli lanciò un’occhiata seria, accusatrice, prima di trotterellarle al fianco. Lowdy non l’aveva aspettata. Qualche volta cenavano insieme nel cottage e Lowdy le raccontava di Galen MacLeaf, di che aspetto avesse quel giorno, di cosa avesse detto o fatto. Erano fidanzati ormai, e si sarebbero sposati a giugno. Ma quella sera Lowdy aveva abbandonato Lily, lasciandole sul tavolo, per cena, uno sformato di salsiccia e un vaso di sidro. Accese una candela e si tolse il cappello, appendendolo a un gancio accanto alla porta. La stanza era immersa nel più totale silenzio, e lei sentì, improvvisamente, una fitta di solitudine. Passò subito, ma dopo si sentì irritabile e a disagio con se stessa. Non aveva fame, ma prese ugualmente un po’ di sformato e si sedette sul letto, togliendosi le scarpe. Assaggiò due bocconi e diede il resto a Gabriel. La disperazione aveva un sapore ormai troppo familiare. Il significato irrevocabile di quanto aveva detto a Devon le pesava sul petto come un macigno, schiacciandola a morte. Dio, ma come poteva sopportare tutto ciò? Ormai era stanca di lacrime e nel disperato tentativo di rallegrarsi un po’, prese la lettera e la aprì di nuovo. Le sembrava oramai del tutto naturale parlare a voce alta con Gabriel e il bambino. «Sentite un po’ qui, cose da non credere», disse. Gabriel sollevò le orecchie e la guardò dimostrandole tutto l’interesse del mondo. «Considerato che Mr Trehearne ha fatto richiesta, e gli è stata concessa, di avere il diritto esclusivo di costruzione e vendita dello strumento conosciuto come Saccarometro di Trehearne», e solo pronunciare quelle parole la faceva sorridere, «tali diritti sono assicurati tramite brevetto N°. 1049, registrato il 29 gennaio 1790; inoltre, considerato che l’Avvocato generale ha stabilito che il misuratore alcolico di Mr Trehearne è sostanzialmente e intrinsecamente diverso e superiore in accuratezza a simili strumenti utilizzati prima della sua invenzione, eccetera eccetera – e questa è la parte migliore – tutti i guadagni, i diritti e gli onorari percepiti grazie al suddetto brevetto passano ora ai suoi eredi destinatari – cioè a me – in base a quanto stabilito nel suo testamento. A oggi, il primo pagamento di tali diritti, da essere in seguito versato il 1° giugno di ogni anno, ammonta alla somma di quattromilasettecentocinquantaquattro sterline e otto scellini!» Scrollò il capo, ancora stupita. «Un saccarometro! Oh papà!» esclamò ridendo dolcemente. «Misura il peso specifico, qualsiasi cosa sia. Charlie, tuo nonno ha inventato qualcosa che... che cosa diceva?» Tornò a leggere la lettera. ‘»L’alcool a gradazione regolamentare a 60’ contiene il 49,24% di alcool puro; i gradi sopra o sotto la gradazione regolamentare stabiliti dal Saccarometro di Trehearne sono percentuali di volume di un alcolico standard, che è l’alcool a gradazione regolamentare.’ Beh, in ogni caso, misura la gradazione del whiskey!» Ancora sorridendo, ripiegò la lettera e il testamento di suo padre, rimettendoli nella busta. Si distese sul letto e fissò il soffitto, immerso nell’ombra. Lentamente, il sorriso svanì, e così l’ilarità. Nulla era davvero cambiato. Avrebbe lasciato Darkstone ricca invece che povera, ma se ne sarebbe comunque andata. Non sapeva nemmeno dove. Lyme, probabilmente, almeno all’inizio, poiché laggiù aveva un’amica. E le sovvenne il pensiero irritante e banale che il denaro, di cui aveva avuto tanto bisogno


per tanto tempo, non poteva comprare l’unica cosa che voleva veramente. Si girò su un lato. «Tu sei tutto quello che voglio», si corresse, passandosi dolcemente una mano sul ventre. «Tu, Charlie, tu sei il solo e l’unico. Ed è la verità.» Doveva esserlo per forza, perché Charlie era tutto quello che poteva avere. «Oh, piccolo», sussurrò, sentendo ancora sgorgare quelle dannate e inutili lacrime. «Ci prenderemo cura l’uno dell’altra e staremo bene. Vivremo in una grande casa, avremo tanti amici e non ci sentiremo mai soli.» Chiuse gli occhi e ascoltò in lontananza il triste mugghiare del mare. «Forse andremo a vivere in una casa vicino al mare», mormorò, stanca, e si addormentò. Aprì gli occhi sentendo bussare alla porta, e vide che la candela era quasi del tutto consumata. Non era molto tardi, si disse, evidentemente Lowdy era tornata a trovarla. Ma non era Lowdy, era Devon. «Posso entrare?» «Perché?» Il volto era in ombra, invisibile; ma fu il suono della sua voce quando disse: «Ti prego» che la costrinse ad aprire la porta e a fare un passo indietro. Rimase al centro, buio, della stanza, tenendosi le mani sui fianchi. Non l’aveva mai lasciato entrare nel cottage prima di allora. «Ha tutto un altro aspetto, Cobb non lo riconoscerebbe mai.» Seguì il suo sguardo, ma a lei pareva sempre uguale. Aveva fatto mettere dei fiori, aveva spostato qualche mobile, null’altro. Per colmare quel silenzio, Lily disse: «Vedo Mr Cobb di tanto in tanto, e non mi parla mai, finge di non conoscermi. Posso immaginarmi quello che pensa di me. Non avrei mai dovuto portargli via la casa». «Ma l’hai voluto tu e, in ogni caso, te l’ho già detto, a Cobb non interessa affatto dove vive; è soddisfatto di essere nella stanza accanto all’ufficio.» Altri minuti di silenzio, poi Lily raggiunse il tavolo e sistemò la candela che stava tremolando, Quando si volse, notò che Devon non si era mosso. «È tardi», mormorò lei. «Che cosa vuoi da me, Dev?» Invece di risponderle, le si avvicinò. Lily fece automaticamente un passo indietro, ma lui prese l’unica sedia da sotto il tavolo e si sedette. La luce mandava riverberi incostanti sul suo bel volto, e a Lily parve di vedere molto dolore in quegli occhi. Aprì la bocca per dirgli di andarsene. «Avevo ventitré anni quando incontrai mia moglie», disse guardandola, tenendo gli avambracci sul tavolo. Lily continuò ad arretrare fino a quando sentì alle spalle la porta chiusa. «Anche se tu mi dici tutto questo, non cambierà nulla», disse secca. «Non servirà a nulla.» «Ero andato a trovare mia sorella, nel Somerset», proseguì, come se non l’avesse udita. «Maura era la figlia maggiore della sua governante. Era per metà francese, per metà irlandese. Lunghi capelli neri, neri come la notte, e occhi altrettanto neri. Veniva dal Dorset, e suo padre era fittavolo. Venne educata dal parroco locale, un buon amico, che vide una scintilla di intelligenza in lei e la aiutò a trovare una via di uscita. Non si è mai voltata indietro una volta.» «Ti dico che non voglio ascoltare questa storia.» «Aveva diciotto anni quando la conobbi e – ovviamente a mia insaputa – era


sessualmente già molto esperta, molto di più di una ragazza della sua età. All’inizio fu la sua bellezza ad attirarmi, ma poi mi affascinarono anche l’irrequietezza che era in lei e l’energia, una sorta di impazienza che avevo già riconosciuto in me. Era pallida e fragile, Lily, una cosa minuscola, incandescente, che dentro bruciava di desideri e bisogni che pensavo di capire. Pensavo che fossimo simili.» Liberò le mani dalla morsa che le stringeva l’una all’altra e le pose sulle ginocchia. «E così la sposai. Quando finì, la mia ingenuità mi sorprese. Avevo acquistato una fattoria nel Dorset, pensando che le sarebbe piaciuto vivere vicino a casa. Ma poiché la dote che mi aveva maggiormente attratto in lei era il suo spirito irrequieto, come potevo essere stato così stupido da pensare che le sarebbe piaciuta una vita simile a quella da cui aveva cercato di fuggire con ogni mezzo? «Nei momenti in cui non provavo solamente disgusto per me stesso, comprendevo che parte di tutto ciò era colpa sua. Era sempre d’accordo con ogni mia idea, sembrava contenta e lusingata da ogni ‘condiscendenza’, come le chiamava lei. Nemmeno una volta mi fece capire che c’era qualcosa che non andava. Fino alla sera in cui mi lasciò un biglietto sul tavolo della cucina e se ne andò con il mio fattore e tutto il denaro che riuscì a trovare in casa. ‘Non posso vivere in questo modo, ti lasciò scrisse senza nemmeno fare lo sforzo di firmare il messaggio.» Lily premette i pugni stretti contro il mento, odiando le sensazioni che lui riusciva a farle provare. Ma lacrime d’impotenza le scivolarono lungo le guance, e non ci fu verso di fermarle. «Non penso più a lei, ormai. Ho trovato le lettere che le avevo scritto e che, manco a dirlo, non portò con sé. Rileggerle è stato l’unico modo di ricordare che cosa provavo per lei. Volevo cercare di comprendere quella passione, quella pazzia. Ma ho letto solo parole, senza alcun sentimento, nulla.» Fissò il vuoto dinanzi a sé. Un momento dopo, si pose i gomiti sulle cosce e celò il volto tra le mani. Contro la propria volontà, Lily gli si avvicinò senza alcun rumore. Sapeva perfettamente dove lo stavano portando i suoi pensieri, proprio come se lui avesse parlato. «Ma non ho mai smesso di pensare a Edward», proseguì con voce soffocata. «Se lo portò via, e aveva soltanto otto mesi. Rideva e sorrideva, e quando lo tenevo in braccio non piangeva mai.» Si avvicinò di più e gli pose le mani sulle spalle, tenendosi dietro di lui. «Qualche volta quel corpicino mi sembra ancora così reale, Lily, che mi pare di sentirlo. Aveva i capelli neri, morbidi come seta. Ed era grasso e molto... molto felice. Penso che fosse felice.» Le sue spalle si curvarono, inspirò profondamente e poi si raddrizzò di colpo, così che la nuca premette contro il seno di Lily. «Ma qualche volta non riesco a togliermi dalla mente il suo corpicino morto da due giorni e ancora non sepolto. Era così piccolo, la pelle era blu, il suo bel volto...» Non riuscì a finire la frase: un singhiozzo gli si levò dal petto, e lo scosse tutto. Lily lo abbracciò tenendolo stretto a sé, incapace di consolarlo, impotente di fronte a quella disperazione. Le loro lacrime si mischiarono e le caddero sulle braccia. Lily gli mormorava parole di consolazione, la guancia premuta contro la sua tempia. Lui sospirò, un sospiro tremulo e denso di dolore, e prese il fazzoletto dalla tasca. Lily fece un passo indietro, tremando per quello che doveva dirgli, che doveva dire a se stessa – che il suo cuore era ormai chiuso, e all’interno vi era posto solo per una


persona, il bambino che portava in grembo, e che quindi non poteva accettare nessun altro. «Devon.» Si volse a guardarla. Sollevata, notò che aveva ripreso il controllo di sé. «Mi spiace per il tuo dolore, mi fa male, tanto, davvero. Più di quanto possa sopportare. Ma questo bambino», si fermò e deglutì; poi riuscì solo a sussurrare: «questo bambino è mio, e tu non potrai mai averlo». La fissò senza parlare, così a lungo che lei alla fine non poté più sopportarlo. Era come se gli avesse infilato un coltello nel cuore, e poi avesse trafitto il proprio. Non sapendo che cosa lui avrebbe fatto, gli si avvicinò ancora ponendogli le braccia attorno alle spalle. Il suo corpo era pesante, come inanimato; gli nascose il volto tra i capelli, poi lo baciò – un bacio silenzioso, segreto. E infine le sue braccia ricaddero, mentre si allontanava, nella stanza immersa nell’ombra, per raggiungere il letto, e si sedette sul bordo. «Sono stanca. Ti prego, Dev, devo andare a dormire.» Non si mosse. Passarono alcuni minuti, e a lei parve di udirlo mormorare: «Ah, Lily. Sei la mia gioia e la mia penitenza». Si alzò e le si avvicinò, prendendole le mani per sollevarla delicatamente dal letto. La luce era così fioca che si vedevano a malapena. Con la punta delle dita, Devon le toccò le occhiaie. «Lascia che ti aiuti», mormorò, accarezzandole la nuca con la mano calda. «Lascia che lo faccia.» Il tocco dell’amato era morbido e dolce, e lei ne aveva disperatamente bisogno. E anche lui, ne aveva bisogno. Chiuse gli occhi, dicendosi che si sarebbe concessa un solo momento di piacere, perché era da tanto che se ne negava uno, da così tanto... Un po’ alla volta si rese conto che le stava slacciando il vestito, dietro. Si volse, allontanandosi da lui, ma Devon le passò una mano sotto i seni, per tenerla ferma. «Lasciami fare, Lily.» Qualcosa nel tocco delle sue mani la rassicurò, e rimase immobile, tranquilla, con il capo chino. Le tolse l’abito facendoglielo cadere dalle spalle, lasciando che scivolasse sul pavimento. «Dov’è la tua camicia da notte?» Lei indicò un punto ai piedi del letto. Iniziò a slacciarle anche la camicietta. «No, non farlo. No.» «Perché no?» «Perché non voglio che tu mi veda così.» Spostò le mani a coprire il ventre gonfio di lei. «Ma sei bellissima.» «No che non lo sono. Poi si ricordò di aggiungere: «E non ho bisogno che tu me lo dica». «No», ammise lui. «Ma lo sei comunque. Sei la donna più bella che abbia mai conosciuto. Lo sarai sempre. Pensi che perché il tuo ventre è grosso non ti voglia più?» «Non so... non mi interessa... volevo dire che...» «Ricordo tutto del tuo corpo.» Riprese a sbottonarle la camicia sul davanti, abbracciandola da dietro, con dita lievi e gentili. «Ricordo quanto è morbida la tua pelle, quanto è profumata. Come è calda tra le mie mani. Ricordo i tuoi capelli, che mi solleticano il volto, che profumano di saponata. Gli zigomi del tuo viso sotto le


mie dita, le ciglia che mi accarezzano le guance, le labbra. La tua bocca... Dio, Lily, come ricordo la tua bocca...» «Devon...» «Il tuo sapore, Lily, così dolce. Toccarti era così bello... I tuoi seni sono morbidi e perfetti e riempivano le mie mani alla perfezione.» «Ti prego...» Ormai era completamente nuda, ma non la costrinse a voltarsi. Le passò le mani sul ventre e inspirò profondamente, un respiro instabile e tremante. Lily si appoggiò a lui e lasciò che l’abbracciasse, il cuore colmo e dolente. «Ti voglio. Non c’è nessun’altra Lily, solo tu. Sto morendo per te.» Sentì che il respiro di lui le sfiorava il collo, le spalle. Il pensiero di amarlo, di fare ancora l’amore con lui, in quel momento, la faceva tremare. Devon spostò le mani in alto per stringerle attorno ai seni pieni, e il tremore divenne un fremito incontrollato. «Hai freddo.» La lasciò andare, lentamente. La sua voce aveva un suono strano. Devon le prese la camicia da notte dal letto e gliela porse. Lily se la infilò con movimenti scoordinati, poi si sedette sul bordo del letto e si tolse le calze. Lo fece senza alcuna timidezza, e quel gesto così intimo – il sollevare l’orlo della camicia sopra le ginocchia, il veloce movimento di abbassare le calze di cotone sui polpacci affusolati – lo commosse come non mai. Tutto il suo corpo tremava di desiderio così disperato da averne paura. Lei finì quell’operazione e si sdraiò, coprendosi. La coperta si stese con ombre seducenti all’altezza delle rotondità morbide di seno e ventre. «Lascia che ti baci», disse Devon con voce roca. «Non devi», e la sua voce non era di molto più alta rispetto a quella di lui. Si sedette accanto a lei e posò entrambe le mani sul cuscino. «Non vuoi?» La domanda la confuse, e la risposta le pareva così ovvia che pensò che la stesse prendendo in giro. «Non significherà nulla», disse debolmente. «Non significherà nulla?» Incredibile: si vergognava molto. «Per me significherà invece qualcosa», disse, chinandosi su di lei e premendo le labbra contro le sue. Immediatamente, si perse nel calore, nell’intensità e nella dolcezza. Le scaturì un suono colmo di desiderio e sconfitta, e gli afferrò i polsi. La bocca di lui era gentile e delicata, posata sulla sua senza alcuna richiesta: impossibile dire chi iniziò quel movimento provocante della lingua o i profondi baci appassionati o ancora la stretta delle mani, così tremante e significativa. Fame e desiderio, più forti che mai, li presero alla sprovvista. Il sangue di Lily innalzò una canzone calda, sorpresa, ricordando tutto quanto avevano provato assieme. E Devon la tenne stretta a sé, quanto più possibile, e la curva ferma e generosa del ventre gonfio contro di sé gli rinnovò sensazioni che credeva ormai perdute, che da molto aveva rinunciato a sperare di riprovare. Alla fine, presa dal panico, Lily lo allontanò da sé spingendolo per le spalle. Ansimava, il volto colmo di sgomento e sorpresa. «Ha significato qualcosa», commentò Devon, quando poté parlare. Questa volta,


era stata lì lì per cedere, e il corpo di lui era ancora in tumulto. «Buonanotte, mio amore», sussurrò. Un ultimo bacio: le loro labbra si toccarono. E subito tutto ricominciò, tutto il desiderio inerme, come se la ragione non avesse mai fatto quella breve interruzione indesiderata. «Non voglio che tu mi seduca!» pianse Lily, stringendosi a lui con forza. «Non lo sto facendo, Lily. Ti sto amando.» «Non dirlo...» «Ti amo. Ti amo.» Lei pianse, e lasciò che Devon le slacciasse la camicia che si era appena infilata. «Dimmi per quale motivo hai cambiato idea», pregò lei, tenendogli la bocca premuta sulla gola. «Su me e Clay. Che cosa ti ha spinto a volermi di nuovo?» «Non parliamo.» «No, dimmelo adesso, Dev. Ti prego, è ora.» Chiuse gli occhi, sentendo che il sangue gli si stava raggelando. «Te l’ho detto, sono tornato in me.» Le toccò i seni nudi con la punta delle dita, e tra i denti Lily si lasciò sfuggire un sospiro. Ma non avrebbe lasciato perdere, quella volta. «Ma perché? Dimmi perché? Che cosa hai pensato?» «Ho pensato a te, Lily, a come sei. Mi sono ricordato di quanto sei dolce e gentile.» Aveva pensato che sarebbe stato molto difficile mentirle, e invece era stata la cosa più facile del mondo. Perché non erano affatto bugie, quelle che stava dicendo. «Non avresti mai potuto fare del male a Clay. Ora, a pensarci, non riesco a capire come abbia fatto a credere una cosa simile, anche se solo per un secondo. Non smetterò mai di chiederti scusa. Mi avevi dato tutto, anche se sapevi che in cambio non ti avrei dato nulla. Avevo paura di avere ucciso tutta la dolcezza che è in te. Amami ancora, Lily, lasciami entrare di nuovo nei tuoi sentimenti, nel tuo cuore. Ho bisogno di te.» Si terse le ultime lacrime e lo strinse a sé. I capelli di Devon avevano il profumo del mare, e i loro cuori battevano all’unisono. Il corpo di lui era l’altra metà di quello di lei. Lily lo baciò con dolcezza sulla bocca, sugli occhi chiusi, mormorandogli sulla pelle parole di conforto. Che benedizione e che ricchezza! Iniziò ad accarezzarle delicatamente il ventre. Da quanto tempo voleva toccarla così? Baciarla così? Sentiva che stava guarendo, rifiorendo, così vicino a lei e al bambino – tutti in un solo essere, tutti insieme. Il loro bambino era stato concepito con amore, sebbene al momento non l’avesse saputo. Ora, sì. «Ti amo, Lily.» Ma lei rispose: «Non dirlo, Dev. Tienimi stretta a te, mi basta.» Voleva continuare a ripeterle tutto il suo amore, ma vide che la cosa la rattristava. E aveva ragione, per ora, bastava così. «Non voglio rimanere nuda», sussurrò lei un istante dopo, quando iniziò ad abbassarle la camicia lungo i fianchi. «Perché? Oh, Lily, lascia che ti guardi. Voglio esserti vicino...» «Va bene.» Non poteva negargli nulla. «Ma tu... anche tu.» «Sì.» Sorrise e si sedette per togliersi giacca e camicia, pantaloni e stivali. Spostò le coperte e si lasciò andare accanto a lei. Le mormorò quanto fosse bella, desiderabile, deliziosa, le disse che la desiderava in quel momento come mai prima. «Ma sono così grassa», insistette lei, sorridendogli, quasi credendo alle sue parole.


«No, sei perfetta.» La baciò con tutto il desiderio e la tenerezza che provava, fino a quando entrambi si ritrovarono ansimanti, le bocche gonfie d’amore, le mani avvinghiate. Le dita di Devon le accarezzarono i peli morbidi tra le cosce, e lei divaricò le gambe, invitandolo ad accarezzarla in modo più profondo. Lily tremò, inarcandosi un poco. «Dev, non so come...» «Conosco un modo.» Guardandola in volto, si passò una gamba lunga e sottile sopra i fianchi. «Così.» «Così posso anche toccarti», si sorprese Lily, dimostrandoglielo. Gemette. «Sì, lo so.» Si baciarono, a lungo, scambiandosi carezze dolci, appassionate, finché si dimenticarono di baciarsi. Strinse più forte la mano di lei attorno al suo membro pulsante, duro come pietra, e gemette: «Fallo tu. Lentamente, amore, prendilo lentamente, fino a quanto puoi. Oh, Cristo». L’aveva preso dentro di sé, tutto in una volta, profondamente. Rimasero immobili per gustare quel momento. «Lily, questo è... è...» «Sì», sussurrò lei, perfettamente d’accordo. «No, ma questo è...» Le parole erano inutili. Si era nuovamente integrato con i suoi più profondi sentimenti. Era rimasto a lungo solo ed estraneo, e ora era tornato a casa. Lui, Lily e il bambino – erano tutti assieme nel corpo di lei, gentile e generoso. Una tempesta di emozioni lo sconvolse. Si sentiva come redento, e la completa intimità che stava assaporando era tutto tranne che insopportabile. Avrebbe potuto piangere, ma era troppo eccitato. Le mani di Devon erano posate sui suoi seni, quelle di Lily sul torace e su un ginocchio piegato sotto di lei. I loro corpi formavano una deliziosa X, quasi sgraziata. Lily lasciò che il piacere aumentasse e fiorisse lentamente, egoisticamente, dando per scontata la solita pazienza di lui. Era come se lei fosse già stata soddisfatta, e ora provasse solo puro piacere nel miracolo di quell’unione, di quella fusione sorprendente. Sentiva la passione aumentare in Devon attraverso il ritmo costante e profondo della carezza del suo corpo, e quella sensazione la accese ancor di più. Il calore la pervadeva, facendola ardere nel punto dove le sue dita la accarezzavano e premevano. Il calore si intensificò. Altre volte aveva provato piacere, ma mai così. Le doleva dappertutto, chiedendosi come fosse possibile che, così avanti nella gravidanza, il suo corpo rispondesse in quel modo alle sollecitazioni del partner. Non aveva risposte da darsi, voleva solo nuove sensazioni. Ed essere amata, e amare. Percepiva netta la sensazione che Devon stesse scoppiando, che non potesse più aspettare. Era necessità, non seduzione, grezza e incontrollabile, e lui aveva atteso troppo. Si sollevò per prenderle un seno tra le labbra, mentre le dita pizzicavano e sfregavano l’altro. Il capo di Lily cadde all’indietro, mento verso il soffitto, e iniziò a gemere con quel suono dolce, sempre più intenso, che lui non aveva mai dimenticato, che gli faceva capire come lei si stesse avvicinando al culmine del piacere. Pensò a tutte le volte che l’aveva tormentata, che l’aveva schernita con il proprio controllo e la di lei debolezza, con la propria capacità di domarla. Ora non era più padrone di nulla. Le parlò a bassa voce in un orecchio, sussurrandole parole d’amore e mormorandole oscenità smozzicate, quasi incomprensibili tra i baci affamati,


divoranti, che premeva sulla sua gola, sul collo, sulle spalle. Sentiva che stava per cedere, per straripare. «Dai», le disse cercando di mantenere la voce calma. Lei lo guardò, e i suoi occhi, prima di chiudersi, erano dolci e opachi. Sorrise, e poi aprì la bocca in un grido lungo e silenzioso. L’aspettò, con sua grande sorpresa tenne duro, affascinato dall’orgasmo di Lily che rabbrividiva contro di lui, ansimando di intenso piacere. La seguì a distanza di pochi secondi, e fu una liberazione profonda, senza fine. Quando tutto ebbe termine, niente era più come prima e, prima che si addormentasse, ancora avvinghiato a lei in un intrico da amanti, di gambe e braccia madide di sudore, sentì il bambino scalciare nel ventre della sua donna. Gioia pura, una sensazione deliziosa, vivida e brillante, lo assalì così intensamente da togliergli il respiro. Baciò la bocca di Lily, quindi chiuse gli occhi, assaporando finalmente la pace.

Capitolo ventisettesimo «Lily!» Si fermò, era in trappola. Era stato Clay a chiamarla, e lei non era riuscita a sfuggirgli. Se non fosse stata così grossa e ingombrante, magari lui non l’avrebbe nemmeno vista, pensò irritata. Si volse, salutandolo con un gesto riluttante della mano e un cenno del capo. Forse sarebbe ancora stato possibile allontanarsi. No. E ora Devon le si stava avvicinando lungo il sentiero della scogliera, con fare deciso. «Vieni a conoscere mia madre e Alice», la invitò con un sorriso. «Sai, è l’ultima possibilità. Alice ha deciso di fermarsi, ma mia madre parte domani.» «Ma non è necessario», ribatté Lily a bassa voce. Inarcò le sopracciglia. «Hai paura?» Stava per negarlo, ma vide nei suoi occhi una chiara espressione di calda comprensione che la costrinse a dirgli tutta la verità. «Terrorizzata.» Fino a quel momento era riuscita con successo a evitare le due donne, che erano a Darkstone da quasi una settimana, e fino a quel momento Devon aveva sempre rispettato la sua reticenza. «Non permetterò che ti mangino», le promise a bassa voce. Le prese le mani, nascondendola con il proprio corpo agli occhi degli altri, e l’espressione che gli lesse nello sguardo la fece sciogliere; tutto il resto si dissolse. Pensò a quanto fosse stato paziente in quei giorni, facendo sì che fosse lei a dettare il ritmo della loro riconciliazione. Le ferite di Devon erano profonde quanto le sue, ma quelle di Lily erano più recenti, e non erano del tutto guarite. E così non avevano mai parlato del futuro, o scambiato promesse. Ma in momenti come quello, quando la tenerezza e tutto l’affetto possibili gli brillavano negli occhi, e quando le stava così vicino da ricordarle tutto del suo corpo virile sotto il tessuto pesante della giacca marrone e quello morbido della mussola bianca, lei non riusciva a resistergli e la sua unica difesa era che lui non lo sapeva. «Vieni», le disse gentilmente, «ti piaceranno e ti vorranno subito bene.» Le prese un braccio, e a Lily parve troppo infantile cercare di resistere in quel momento; si lasciò condurre verso il terzetto che li stava aspettando sul sentiero della scogliera.


«Madre, Alice, questa è Lily Trehearne.» Lily fece un breve inchino, sentendosi straordinariamente a disagio. Si accorse subito d’aver commesso un errore. Era sicuramente il momento più imbarazzante della sua vita, e più ci pensava, più le pareva assurdo. Ma che cosa mai avevano pensato Devon e Clay, insistendo affinché incontrasse quelle due donne? Possibile che tutti gli uomini fossero così stupidi? Dopo le presentazioni, non la sorprese affatto notare che nessuno sapeva cosa dire. Clay teneva il braccio di Alice in modo molto naturale, notò lei. Anche Lady Elizabeth teneva tra le mani qualcosa, un minuscolo batuffolo di pelo – un cane, pensò Lily, senza sforzarsi d’intavolare una conversazione. Invece, la fissava con un tale enorme interesse nello sguardo acuto, da farle venir voglia di nascondersi. Non si era mai sentita così goffa e senza parole. Mai si era sentita così gravida e ingombrante. «Una giornata deliziosa», disse Clay, perché la tensione di quel silenzio pesava anche su di lui. Lady Alice si disse subito d’accordo, approfondendo quel tema con qualche frase zoppicante. «Stavo proprio per tornarmene a casa», Lily fece notare disperatamente. «Buona giornata. Sono contenta di avervi incontrato.» Fece ancora un breve inchino, lanciò a Devon uno sguardo disperato e se ne andò. Nel cottage prese a camminare avanti e indietro, rivivendo quella scena terribile, dandosi della stupida per essere uscita quel giorno pur sapendo che Alice ed Elizabeth erano ancora lì e che c’era la possibilità di incontrarle. Gabriel la osservava dalla porta aperta, seguendola con la grossa testa nera. Con un improvviso raspare di unghie si volse improvvisamente, e lei guardò fuori per vedere cosa avesse così tanto attirato la sua attenzione. Con il parasole di seta ondeggiante, le gonne leggere mosse dal vento, vide che Lady Elizabeth Darkwell percorreva il sentiero che portava al cottage. Si fermò sulla soglia e scorse Lily nell’oscurità della stanza. «Posso entrare?» «Ma certo. Come state? Che gentile siete stata a...» Poi si interruppe, rendendosi conto che quella non era propriamente una visita di cortesia. Elizabeth stava osservando la stanza con gli occhi freddi, blu-verde, cui nulla sfuggiva. «Non volete sedervi? Il fuoco è ancora acceso e posso prepararvi una tazza di tè se...» «Vi prego, non preoccupatevi per me.» Si sedette al tavolo di legno, sull’unica sedia della stanza. Lily si ricordò dello sgabello vicino al letto; piuttosto che rimanere in piedi, andò a prenderlo, vi si sedette nervosamente, e unì le mani, in attesa. «Vi ho riconosciuta», iniziò Elizabeth. «Credo che una volta abbiate servito il tè nel salotto di mio figlio.» Lily si irrigidì: e così quella conversazione si sarebbe rivelata più spiacevole di quanto si fosse potuta immaginare. Ma, inaspettatamente, Elizabeth sorrise, e i suoi lineamenti alquanto altezzosi si rilassarono. «Notai subito che non lo facevate molto bene. Ed è stato meglio per tutti noi che la vostra carriera di cameriera sia stata di breve durata. Clay mi ha detto tutto, Miss Trehearne.» «Qualche volta, Clay ha la lingua troppo lunga», Lily commentò a bassa voce. «Sì, è vero, ed è meglio così, tenuto conto del fatto che Devon non mi dice mai nulla.» Le due donne si guardarono con aria seria e pensierosa. «Qualsiasi cosa pensiate di me...» Lily mormorò. Lady Elizabeth allargò le braccia. «Onestamente, non so che cosa pensare di voi.


Siete più intelligente di quanto pensassi; lo capisco dal vostro volto. E molto bella – ma a Devon sono sempre piaciute le belle donne.» Ci fu poi una pausa colma di disagio. «Siete venuta da me a dirmi qualcosa in particolare?» chiese alla fine Lily. «Sì, e immagino che sappiate cosa sia.» Non abbassò lo sguardo, né lo distolse. «Sì, immagino di sì.» La gentildonna chinò un poco la testa, con aria grave. «Mia cara ragazza, non vorrei farvi del male, ma sicuramente capite anche voi che un matrimonio tra voi e mio figlio è impossibile.» L’espressione di Lily non cambiò, ma il suo cuore prese a battere più velocemente. «Devon vi ha detto qualcosa?» chiese senza mezzi termini. «Da farvi pensare che un tale pensiero gli sia passato per la mente?» «No», ammise. «No, non l’ha fatto. Ma come vi ho già detto, ricevo molto raramente le confidenze di Devon. Qui, comunque, è coinvolto anche un bambino; e lui potrebbe pensare a un matrimonio per il bene del piccolo.» Lily arrossì, e non rispose. «Sono venuta qui per chiedervi di andarvene, Miss Trehearne, prima che nasca il bambino. Prima che Devon lo veda e decida di volerlo tenere. Vi darò tutto il denaro che volete.» Lily si alzò di colpo, sebbene non fosse arrabbiata o particolarmente sorpresa: in fondo, era esattamente quello che si era aspettata. E allora, perché si sentiva così ferita? Anche Elizabeth si alzò. «Vi chiedo perdono se vi ho offesa», disse velocemente, osservando Lily con i suoi occhi astuti, penetranti. «Perdonate la mia franchezza, ma dovete sapere che se mio figlio dovesse sposarvi sarebbe deriso da tutti. Solo da poco si sono sopite le voci dello scandalo del primo matrimonio. Potete immaginare quello che dissero – un visconte che sposa una governante, una donna che poi si è dimostrata essere poco più di una puttana. Ora, se dovesse sposare una ragazza in attesa di un figlio che una volta è stata la sua cameriera...» «Vi prego», la interruppe Lily, il volto in fiamme. «Vi capisco perfettamente. Devon non mi ha mai chiesto di sposarlo, e non abbiamo alcun progetto in questo senso. Credo davvero che i vostri timori siano infondati.» «E se ve lo chiedesse?» insistette la donna. Lily, in tutta onestà, non sapeva cosa rispondere. Si limitò quindi a un vago gesto con le mani. «Lo amate?» Il volto della donna si era addolcito. «Vi prego», disse nuovamente. «Vi sono cose tra Devon e me che non posso spiegarvi.» «Penso di conoscerne alcune, comunque. Clay mi ha raccontato.» Lily venne quasi da sorridere. Ancora Clay! «Mi chiedo se vi ha anche raccontato della mia eredità.» «Eredità?» «Tra un mese dovrei ereditare una bella somma di denaro – almeno secondo i miei standard; secondo quelli di Dev, o i vostri, probabilmente non è poi molto.


Nonostante tutto, sarò in grado di mantenere me e mio figlio. Devon lo sa.» «E allora intendete partire?» Ancora una volta, non seppe rispondere. Elizabeth si strinse le braccia al seno. «Mi piacete, Lily Trehearne», disse candidamente. «E ammetto che la cosa mi sorprende. Mi piacciono le donne orgogliose, e che hanno anche buonsenso – deve essere stato difficile perdonare Devon per quello che ha fatto.» Ma allora, sapeva proprio tutto? Lily poté solo fare un cenno con il capo, e mormorare: «Sì... non è stato facile.» «Per quanto mi riguarda, non penso che avrei potuto perdonarlo», confessò Elizabeth. «Se non fosse stato per quello che gli disse il medico, dopo tutto, potrebbe ancora pensare il peggio di voi. Temo che non avrei potuto dimenticare una cosa del genere – o dare affetto a un uomo che ha dimostrato tanta poca fede in me. Ma non vi assomiglio, Lily, non credo proprio. Sono più dura e più egoista. Ma, sapete, se mio marito fosse vivo oggi...» Si interruppe. «Beh, ma questo non c’entra, non trovate, mia cara? Io... va tutto bene, cara?» Lily si era appoggiata allo schienale della sedia con entrambe le mani. «Temo di non capire. Che cosa ha detto il dottore a Devon?» «Non lo sapete?» Scrollò il capo. Lady Elizabeth si fermò, incerta. «Vi sarei grata se mi voleste spiegare qualcosa.» «Mi spiace davvero, credetemi. Pensavo che voi sapeste; altrimenti non avrei parlato.» Lily attese. «Il medico di Clay, il dottor Marsh.» Si fermò di nuovo. «Si, lo conosco.» «Fu lui a dire a Devon che Clay non avrebbe potuto scrivere qualcosa su un foglietto nei momenti successivi allo sparo. La ferita alla testa aveva avuto effetti devastanti – non sarebbe stato in grado di farlo. Era così grave, così traumatica che, come sapete, sta riprendendo solo ora le facoltà più elementari. Perciò, ovviamente qualcun altro ha scritto quel biglietto, cercando di coinvolgervi.» Si avvicinò a Lily toccandole un braccio. «Mi spiace davvero tanto; vedo che vi ho sconvolta.» «Vogliate scusarmi...» Lily sussurrò. «Mi spiace», ripeté Elizabeth, non sapendo che cosa fare. Attese qualche altro secondo, poi, rattristata, se ne andò senza profferire altre parole. Lo sguardo preoccupato della gentildonna era fisso per terra, e trasalì quando il figlio maggiore si avvicinò a lei nel mezzo del sentiero di ghiaia. «Madre?» «Oh Dev, temo di avere fatto una cosa... inopportuna.» Devon conosceva l’abitudine di sua madre di minimizzare ironicamente le cose. Si preparò quindi a ricevere le notizie peggiori. «Quella ragazza, Lily...» «Le avete parlato?» «Sì. Ho pensato che fosse la cosa migliore.»


«Che cosa le avete detto?» «Le ho detto che pensavo che voi due non dovreste sposarvi.» Si rilassò, anzi riuscì pure a sorridere con affettuosa indulgenza. «Ma mi sembra che sia stato un po’ presuntuoso da parte vostra, non trovate? Spero che Lily abbia reagito nel modo giusto – con gentilezza ma senza tenere conto delle vostre parole.» Elizabeth lo guardò, più a disagio che mai. «Mi stai dicendo che la sposeresti?» «Se mi vorrà», rispose lui senza esitazione. Elizabeth si portò una mano alla fronte; pareva molto scossa. «L’amo, madre, e porta in grembo mio figlio.» «Anche Maura aspettava un figlio tuo.» Poi, quando vide la sua espressione, mise subito una mano su un braccio di Devon. «Perdonami! La conosco appena, eppure posso dirti che quella ragazza non è per nulla simile a Maura.» «No, non le assomiglia affatto. Ma mi ci è voluto molto tempo per capirlo. Dovete permettermi di rifarmi una vita, di trovare la felicità», disse con voce più gentile. «Posso immaginare quello che avete detto a Lily.» «No, non credo che...» «Ma non mi importa di ciò che il mondo pensa di me. Lily è tutto per me, e quello che voglio è vivere qui a Darkstone con lei e i nostri figli, per il resto della vita.» Il sorriso di Elizabeth era felice e preoccupato al contempo. «Allora lo voglio anch’io. Ma temo di avere fatto una cosa stupida. Non sapevo che lei non sapesse, capisci, e mi è uscito così...» «Madre, ma di cosa state parlando?» «Pensavo che sapesse quello che il dottor Marsh ti disse riguardo a Clay – che non avrebbe mai potuto scrivere il biglietto che la accusava perché il suo povero cervello era stato gravemente ferito e che Clay non riusciva nemmeno a muoversi, figurarsi a fare cose più complesse come...» Si interruppe, spaventata dall’espressione sul volto di Devon. «Ho fatto una stupidaggine, vero? Tu non le avevi detto nulla. Mi spiace, avevo pensato che l’avessi fatto...» «Non importa», disse con aria truce. «Anzi, è meglio così; sono contento che gliel’abbiate detto, contento che sia venuto fuori, finalmente.» Si passò entrambe le mani sul volto. «Ma mi avete messo dinanzi a un compito terribile, madre.» «Sì, lei... lei sembrava decisamente sconvolta.» Poteva bene immaginarselo. Guardò al di sopra delle spalle della madre, verso il cottage di Lily; un sottile .filo di fumo si elevava dal camino di pietra e malta, nel tetto di paglia. «Mi piace quella ragazza, Dev. Spero che si riprenda, perché tu avresti potuto fare di peggio.» «Ho fatto di peggio», le ricordò in tono asciutto. Poi le diede un bacio leggero e si diresse al cottage di Lily. Quando bussò, non ottenne alcuna risposta. Brutto segno, si disse. Allora si accinse a girare la maniglia ed entrare senza essere stato invitato, ma poi si fermò. «Lily», gridò. «Sono Devon. Posso entrare?» Nulla. «Lily?» Un’altra pausa, poi sentì la sua voce, debole, quasi querula, che lo chiamava. «Dev, sei tu?» «Lily, fammi entrare.»


«Entra, non è chiuso.» Si raddrizzò, inspirò e aprì la porta, aspettandosi di tutto – tranne che di vedere Lily seduta dinanzi al camino, che stava tranquillamente cucendo dei ricami sulla copertina per il letto di un bimbo. Tutta la tensione lo abbandonò immediatamente con un sospiro. «Salve», disse ancora dubbioso. «Salve.» Sollevò lo sguardo per un secondo, poi lo abbassò di nuovo.» «È una bella giornata. Strano che tu abbia acceso il fuoco.» «Davvero? Avevo un po’ freddo.» Prese un rametto di erica da un vaso sul tavolo e iniziò a girarlo tra le dita, guardandola. «Come stai oggi, amore? Stai bene?» «Oh sì, molto bene, grazie. Beh, forse un po’ stanca.» Gli sorrise brevemente. «Dev?» «Mmm?» Sbriciolò il fiore di erica e se lo portò al naso. «Mi stavo chiedendo se per caso potessi prestarmi dei soldi.» Quando lui non rispose, lei proseguì: «Non molto denaro, solo un poco, e te li restituirò quando entrerò in possesso della mia eredità». Depose il fiore sul bordo del tavolo con grande attenzione. «A che cosa ti serve il denaro, mia cara?» «Oh, sai... per acquistare delle cose. Per il bambino, per me... così.» La sua voce era una parodia d’indifferenza. Era la peggior bugiarda che avesse mai conosciuto, e provava imbarazzo per lei. «Lily», disse a bassa voce. «Ho appena parlato con mia madre.» Le mani di lei si fermarono immediatamente. Passò un lunghissimo istante prima che alzasse gli occhi su di lui, e quindi il suo volto si tramutò in una maschera bianca, rigida. «Mi darai quel denaro?» «No.» Si alzò così in fretta che la sedia cadde all’indietro e colpì il pavimento con un rumore che ai due parve assordante. Gettò per terra il ricamo e lo affrontò, i pugni stretti e sollevati, i denti ben visibili. «Bastardo!» Gli si avvicinò a passo rapido, sibilando «Bugiardo figlio di puttana!» Lo stupore gli impediva di muoversi; non l’aveva mai sentita imprecare prima di allora. Quando comprese che voleva passargli accanto e fuggire dalla porta, tese un braccio per fermarla. Lei imprecò ancora e lo colpì, letteralmente, con un pugno forte assestato al fianco, le mani chiuse come una mazza. «Bastardo!» urlò ancora. Il suo vocabolario di parolacce era evidentemente molto povero. «Maledetto bastardo, vattene!» «Ascoltami, ti avrei detto del dottor Marsh...» «Menti!» «No, te l’avrei detto, ma non era ancora giunto il momento...» Corse verso di lui, una sorta di ariete scalciante, urlante, sputacchiante e... panciuto, e riuscì a farlo spostare. «Lily!» Le prese un braccio e lo strinse. Grazie a Dio, il suo cane non era lì attorno, si disse. «Tua madre mi darà il denaro! Ha già cercato di farlo, ma io non l’ho preso. Ora lo farò!» disse con tono minaccioso. «Non ti darà proprio nulla! Non glielo permetterò!»


La rabbia di Lily crebbe a dismisura; stava piangendo con una furia profonda, selvaggia, e quasi non riusciva più a parlare. Il bisogno di fuggire aveva lasciato il posto al bisogno di combattere. «Avrei dovuto saperlo che stavi mentendo, che è quello che hai sempre fatto. Tutto quello che volevi da me era solo sesso. Hai mentito solo per potermi sedurre di nuovo, e ora pensi di poter avere il bambino, ma non l’avrai.» «Lily, ti prego...» «‘Non smetterò mai di scusarmi...’» gli fece il verso, le labbra piegate in un’espressione amara di disgusto. «Sei un bastardo! ‘Amami ancora, ho bisogno di te’. Sei un...» «Per Dio! Lo dubiti davvero? Lo dubiti ancora?» «Non sai dire la verità. Ma è finita, basta.» A fatica riuscì a tenere le mani distese lungo i fianchi. «Lily, cerca di capirmi. C’era un biglietto, con delle parole scritte sopra... Pensavo che l’avesse scritto Clay.» «Avresti dovuto saperlo!» «Sì, sì, lo ammetto, avrei dovuto saperlo.» «Ormai è finita, Devon. Questo... questo è imperdonabile.» «Ma tu mi ami.» «Smetterò. Ho già smesso.» «Sposami.» Rise. «Mai. E grazie a Dio non puoi costringermi. Me ne vado, Devon, ti lascio, e cercherò di dimenticarti appena possibile. Troverò qualcun altro, un uomo che ami me e mio figlio...» «Ti porteresti via il bambino?» «Sì! Senza alcuna esitazione! Me ne andrei ora, se potessi.» Devon bestemmiò con una forza e una cattiveria che la fecero retrocedere. «Non lo accetto», disse tra i denti. «Non rinuncio a te.» «Non importa – non mi aspetto da te alcun aiuto. Ma me ne vado, e tu non avrai mai questo bambino, non lo vedrai mai.» «Non lo permetterò. Non ti lascerò andare. Il bambino è nostro, Lily, non puoi portarmelo via.» Lei scrollò il capo, gli occhi verdi che lanciavano bagliori di rabbia. «Lo terrò io!» Sbottò lui, furioso. «Te lo porterò via, ne ho il potere. Non importa quanto denaro hai ereditato, io ne ho senz’altro di più. Sono un visconte, sono un membro del Parlamento, sono il magistrato...» «Lo sapevo», ribatté lei, e il suo tono era quello di un trionfo triste. «Non vuoi me, vuoi solo un figlio per sostituire quello che hai perduto. Ma giuro dinanzi a Dio, Dev, non lo avrai!» Stava piangendo con rabbia, le braccia strette al ventre in un gesto disperato di protezione, ansimando per la violenza dei suoi sentimenti. Con uno sforzo enorme, Devon riprese la calma: «Rilassati, cerca di calmarti. Ti farai del male se non stai attenta». «Allora vattene. Vattene! Non voglio più vederti.» Non ce la faceva più. Era a terra, soffriva anche fisicamente. «Ti manderò Lowdy», mormorò, raggiungendo la porta. Quando sentì sotto i piedi la ghiaia, si volse e fuggì via.


Il pomeriggio grigio era ventoso e tiepido. Le onde della Manica parevano tappeti di vetro che si srotolavano a spirale verso la riva, fermandosi per un istante sospesi nell’aria prima di frangersi sulla costa scistosa in milioni di frammenti d’acqua. Clay teneva la mano di Lily tra le sue mentre fissavano i marosi che non avevano mai requie. «Io e Dev venivamo qui spesso a giocare quando eravamo piccoli», le disse. «Lo so. Mi ha portato qui una volta.» E mi ha baciata. Per la prima volta. Che bambina, ero allora! «La chiamava la baia degli annegati.» Guardò dietro le spalle di Clay verso l’orlo della scogliera, e dietro a quello il grosso masso tondeggiante, quasi completamente visibile per via della bassa marea. La roccia degli annegati. «Venivamo qui a giocare ai pirati nelle grotte sotto questa scogliera. Una delle differenze tra me e Dev è che io poi lo sono davvero diventato, un pirata.» «No, non lo sei mai stato», Lily lo riprese subito, per difenderlo. «Tu eri un libero scambista. Una causa molto più nobile.» Si passò di nascosto una mano sulla schiena e premette, cercando di alleviare il dolore che provava in quel punto. «Ci risediamo ancora?» chiese dopo un istante, vedendo che il dolore non diminuiva. Raggiunsero la coperta e i resti del picnic. Lily si sedette, grata di poter trovare un poco di conforto; Gabriel le si mise subito al fianco e le pose il testone pesante sul grembo, nel poco spazio rimasto. «Mi piace questo cane. C’è qualcosa in lui. Non ti lascia mai, vero?» «Mai.» Si spostò leggermente, cercando una posizione confortevole. Il dolore era iniziato la sera prima, e pareva sempre peggiorare, invece di migliorare. Clay la stava guardando, e lei gli sorrise a fatica. «Sei arrabbiata con me, Lily?» «No! E perché dovrei?» «Perché non ti ho dato il denaro.» Lei mormorò qualcosa e nascose il volto con il pretesto di baciare la testa di Gabriel. Clay parlò francamente. «Siamo amici, Lily. Farei tutto per te, davvero. Ma Dev è sempre mio fratello, gli devo lealtà. E, in ogni caso, se andassi via ora, che senso avrebbe? Sarebbe solo...» «Va bene così», lo interruppe. «Ti capisco, e non mi importa, davvero. Mi spiace solo di avertelo chiesto: non era giusto, davvero. Lasciamo stare, Clay, fingiamo che non sia mai accaduto.» «Ma che cosa farai?» Lo guardò dritto negli occhi. «Aspetterò.» Scrollò il capo, costernato. «Lily, ma è una follia. Non avrei mai pensato che tu potessi essere così cocciuta.» Rise, per nulla divertita. «Lasciamo perdere», gli disse freddamente. «Non sai nulla di quello che è successo.» «No, a dire la verità so tutto.» Lei si spostò, sentendosi nuovamente a disagio; Gabriel sospirò di disappunto e si mosse. «Oh, forse», concluse irritata. «In ogni caso, lasciamo perdere.» «Va bene.» Passò un lungo istante. «Dev è molto triste.» Lily fece per alzarsi, ma Clay allungò subito una mano per fermarla. «Va bene, mi spiace! Non lo dico più.»


Lei si risistemò, con in volto un’espressione indecifrabile, e fissò le onde, cilindri di un grigio luminoso che si facevano sempre più stretti. Ma Clay non poteva lasciar perdere. La bocca di Lily si strinse, ma questa volta non fece per alzarsi o interromperlo quando le sussurrò, come se parlare a bassa voce fosse sufficiente a non farla andar via: «Dev è un uomo d’onore, Lily. Devi saperlo. Ha fatto uno stupido errore, un errore terribile, e sta pagando. Quando sarà finita? Quando sarai soddisf... Oh Cristo, mi spiace». Allungò una mano per asciugare le lacrime che le bagnavano il grembo. Gli prese la mano e la tenne stretta, e lui ricambiò quella stretta, mentre il silenzio scendeva tra loro. E così Devon era infelice. Ma quella notizia non le dava affatto soddisfazione: anzi, aumentava ancor più la sua infelicità. Se aveva pianto quanto lei negli ultimi quattro giorni, allora Clay aveva ragione: Devon aveva davvero molto sofferto. La rabbia, che all’inizio le era parsa così pura e giusta, l’aveva abbandonata velocemente, lasciandola soltanto con una profonda tristezza. Infine, era stata solo la paura di fare del male al bambino che l’aveva indotta ad abbandonare quel pianto triste e solitario, che pareva non avere mai fine. Quando Clay era apparso sulla porta, quel pomeriggio, con il cestino del picnic in mano, pallido e confuso, ma deciso a portarla fuori, lei aveva sorpreso entrambi accettando. Si asciugò gli occhi con il fazzoletto un’ultima volta, mandandogli un debole sorriso. «Parlami», gli disse. «Dimmi qualcosa di te. Qualsiasi cosa, Clay, basta che tu mi parli.» Lui sorrise, confuso ma desideroso di accontentarla. «E va bene. Beh, vediamo. Ho spedito ieri i miei disegni, indirizzandoli agli uffici centrali della Finanza. Ti ricordi che stavo disegnando uno sloop?» Lei annuì. «Probabilmente non saprò nulla per settimane, forse per mesi.» «Oh, sono certa che piaceranno molto.» «Dovrebbero», confermò, disdegnando la falsa modestia. «È un’imbarcazione danna-dannatamente bella, meglio di tutte le bagnarole che hanno mai usato loro.» Trovò un pezzetto di pernice fredda sul fondo del canestro e iniziò a mangiucchiarlo. «Che altro dirti? Oh, inizio a ricordarmi qualcosa, Lily. E sempre di più. Parlo anche meglio.» Si sedette, attenta. «Clay, ma è meraviglioso. Qualcosa su... quella sera?» «A frammenti. Mi ricordo che c’era tanto vento, che stava per prepararsi un temporale.» «È così», confermò lei eccitata. «Qualche altra cosa?» «Ricordo di essere stato in biblioteca, ma non riesco a ricordare che cosa stessi facendo.» Aggrottò la fronte e si passò le dita in volto, rattristato. «Non ti preoccupare, vedrai che ti ricorderai tutto.» «Sì.» Gli toccò una manica, vedendogli nei begli occhi blu la confusione tramutarsi in paura. Quella vista la rattristava sempre. «Andrà tutto bene, Clay, vedrai. Ci vorrà solo del tempo.» Lui annuì, senza guardarla. «Non so come ho potuto accettare il tuo invito a questo picnic», disse poi per distrarlo. «Il mio ‘esilio’ in questo luogo mi sembra una cosa sconveniente, visto che esso viene considerato molto libertino.» «Darkstone piace tanto a Dev proprio per questo motivo. Non c’è ‘il bel mondo’


qui attorno che disapprova quello che fa.» Lily non rispose. «Quando, ehm, in che giorno...» «Quando dovrebbe nascere il bambino? Ma, magari oggi, probabilmente.» Attese l’espressione sconvolta di lui, poi si mise a ridere. «Non lo so con certezza, sciocco, non esattamente. Presto, comunque.» «Immagino che ti sentirai molto sollevata quando sarà tutto finito.» «Sì, ho diverse sensazioni a proposito. Immagino che potrai indovinarne la maggior parte.» «Temo di sì», ammise. Aveva equivocato le sue parole, si disse. Non erano affatto le doglie e il dolore a preoccuparla, o per lo meno non solo quelli. Era il dopo, quando avrebbe dovuto andarsene. «In futuro, un giorno, vorrei avere dei bambini», le disse Clay improvvisamente. «Ne avrai. Ne sono certa.» «Lily... ti piace Alice?» Inarcò le sopracciglia. «Non la conosco molto bene, Clay, l’ho vista solamente una volta.» Avrebbe dovuto aggiungere qualche altra cosa, si disse. «Certamente ha l’aria di una persona molto piacevole.» «Oh sì, davvero. La conosco da molto tempo, da sempre. Siamo cresciuti assieme, le nostre famiglie erano molto amiche. Vorrei che la conoscessi meglio, so che ti piacerebbe.» Vide che lei lo fissava affascinata, e arrossì, poi sorrise, distogliendo lo sguardo. «Io... sai», continuò togliendo le briciole dalla coperta «Io... a me piace molto, sai?» Lily annuì per incoraggiarlo. «Non come prima, come un’amica. La cosa è cambiata quando è venuta qui e si è presa cura di me. Non so cosa avrei fatto senza di lei, Lily, davvero. È stata così gentile con me.» Si fermò. «In realtà», confidò timidamente, «quando mi sarò ripreso completamente, vorrei chiederle di sposarmi.» «Oh, Clay», esclamò Lily, il volto finalmente disteso in un sorriso di gioia pura. «Sono così felice.» «Pensi che mi vorrà? È un poco più vecchia di me, sai, solo un anno o giù di lì, ma...» «Credo che sarebbe una stupida se si lasciasse sfuggire tra le dita una preda bella come te.» Impulsivamente, si chinò e le diede un bacio sulla guancia. Lily rise. Si distese su un fianco per alleviare un poco il dolore alla schiena – le pareva ormai che qualcuno ci si fosse inginocchiato sopra, cercando di spezzargliela e semiascoltò Clay tessere le lodi della bella, preziosa, inestimabile Alice Fairfax, fino a quando le calarono le palpebre sugli occhi. Era tanto stanca. Alcune nuvole avevano iniziato a oscurare il sole, ma l’aria era ancora tiepida e il sussurro del mare rilassante. Quando si svegliò, il cielo era nero e il vento soffiava in raffiche calde e violente, mentre il mare si era tramutato in uno sciame disordinato di creste bianche e schiumose. Clay si svegliò qualche secondo dopo, e per un poco guardarono la tempesta avvicinarsi in silenzio, ipnotizzati dall’energia forte, irreale che sprigionava.


«Che aspetto selvaggio», mormorò Lily, e il vento le tolse le parole dalle labbra, portandole via con sé. Sorrise indicando Gabriel: aveva le orecchie tese e diritte. Alla fine, scrollandosi dalla magia di quel momento, si misero in ginocchio cercando di raccogliere i resti del picnic. «Salve.» Si volsero all’unisono, sorpresi di vedere Cobb avvicinarsi lungo il sentiero sul promontorio, a est, lontano dalla casa padronale. Si fermò accanto alla coperta, togliendosi cortesemente il cappello dall’ampia tesa. Fino a quel momento pareva avesse fatto di tutto per non incontrarla, e quella era la prima volta che Lily lo rivedeva così da vicino, da quando era tornata a Darkstone, quasi tre mesi prima. Anche in quell’occasione, comunque, non la guardò nemmeno e si mise a parlare con Clay, scambiando qualche parola di cortesia, discutendo dell’arrivo del temporale. «Soffia da sud», osservò. «Visto quella lunga nuvola nera rigonfia, eh?» Lily sollevò lo sguardo, fissando Clay, quando si accorse che questi non rispondeva. Il suo volto era privo di colore. «Clay», balbettò. «Che cosa c’è che non va? Non stai bene?» Non la udì. Fissava Cobb, gli occhi spalancati che brillavano selvaggiamente nell’aria grigio-verde, presaga di tempesta. «Tu», stridette, alzandosi in piedi, goffamente. Gabriel ringhiò sommessamente, e quel suono spaventò Lily più di qualsiasi altra cosa. «Ma che cosa succede?» chiese, guardando alternativamente i due. «Sono le stesse parole che hai pronunciato quella sera. ‘Visto quella lunga nuvola nera rigonfia?’ Sei stato tu.» Cobb lasciò cadere il cappello. «Ma che diavolo stai dicendo?» Scoprì i denti, fingendo un sorriso. «Hai cercato di uccidermi.» «Fai attenzione, ragazzo. Stai dicendo sciocchezze assurde.» «Avevo scoperto del denaro. Non lo davi via, come ti avevo detto, lo tenevi per te. Mio Dio, sei stato tu.» «Maledizione, Clay, non essere sciocco.» Clay afferrò una mano di Lily e la fece alzare. Senza più parlare, iniziò a dirigersi a passo rapido verso la casa, tirandosela dietro. Lei si volse, impaurita – e urlò quando vide Cobb che correva dietro di loro, togliendosi un lungo coltello dalla cintura. Clay si volse. Gabriel si avvicinò a loro, ben fermo sulle zampe, le zanne visibili, il suono gutturale profondo e furibondo. Cobb si avvicinò ancor di più, e Clay trascinò Lily dietro di sé. Poi, tutto accadde a una velocità sconvolgente. Cobb affondò un colpo e Clay gridò: «No!» sollevando entrambe le mani. Un secondo dopo, anche Gabriel fece un balzo, ponendosi tra i due. Clay barcollò, fece un passo indietro, e cadde. Lily vide il coltello tra le mani di Cobb, grondante sangue, e urlò proprio nel momento in cui il cane si slanciava di nuovo. Udì un suono terribile, come un cozzo, poi un gemito mortale di dolore e furia, e Gabriel cadde nella terra sporca di sangue, ai piedi di Cobb. Questi aveva ancora in mano il coltello, e si dirigeva lentamente verso di lei, le labbra umide che brillavano tra la barba nera, gli occhi neri che


indugiavano tra il suo volto e la pancia grossa, prominente. «Non farlo», Lily lo pregò, indietreggiando, le braccia strette al ventre. «Non farlo, ti prego.» Vide incertezza sul volto dell’uomo, poi costernazione. Quando si rimise il coltello in tasca, lei pianse di sollievo. «Non muoverti», la ammonì Cobb mentre si avvicinava a lei, le grosse mani strette a pugno. «Mi sento molto meglio ora, Dev, dopo quel sonnellino. Vorrei tanto avere detto a Clay che sarei andata con lui», disse Alice, in piedi sulla porta della biblioteca. Devon annuì, la mente sulla serie di cifre che stava cercando di sommare ormai da troppi minuti. «Oh, ma no... guarda il cielo! Non me ne ero accorta.» Rise dolcemente. «Povero Clay, tornerà tutto bagnato. E ora sono felice di avere avuto la saggezza e la preveggenza di rifiutare quell’invito.» Notando che Devon stava ascoltandola molto distrattamente, attraversò la stanza per raggiungere le porte del terrazzo, da dove poter godere al meglio lo spettacolo della tempesta in arrivo. «È sorprendente come cambi velocemente il cielo in Cornovaglia», disse mormorando, quasi rivolgendosi a se stessa. «Le nuvole nel Devon non sono di solito così affascinanti, sono più... Oh no, Oh, mio Dio. Dev... guarda.» Devon allontanò la sedia e attraversò la stanza in pochi passi rapidi. «Che cosa c’è che non va?» «Quel cane... laggiù. È ferito. Mio Dio, penso che sia morto.» Devon spalancò le finestre e uscì di corsa. Gabriel giaceva su un fianco, mezzo nascosto da un letto di edera macchiata di sangue, gli occhi spalancati e vitrei. Da un lungo taglio tra petto e ventre sgorgava copioso il sangue. Devon si alzò lentamente, pulendosi le mani nei pantaloni. «Lily», urlò e corse verso il lato della casa per imboccare il sentiero che portava al cottage di Cobb. «Non è laggiù!» Alice gli urlò. Si fermò, voltandosi. «E dov’è?» «Almeno, potrebbe non esserci. Clay voleva invitarla al suo picnic.» «Dove? Dove voleva andare?» «Ha detto la baia degli annegati, Dev. Vengo anch’io!» Senza attenderla, si slanciò lungo il sentiero della scogliera, correndo come un folle. La strada era facile da seguire, essendo tutta macchiata del sangue di Gabriel. Devon correva il più velocemente possibile, contro il vento fortissimo, ansimando non tanto per lo sforzo ma per il terrore gelido che gli attanagliava il torace come in una morsa. Pochi minuti dopo, trovò Clay non lontano dalla baia, che strisciava lungo il sentiero. «Mio Dio», Devon mormorò, toccandolo delicatamente. La sua ferita pareva grave quanto quella di Gabriel. «Ha preso Lily, Devon. La sta uccidendo.» Clay teneva le mani strette al diaframma, cercando di proteggersi, mentre il volto era rigato di lacrime. «È stato Cobb, mi ha sparato, ha ucciso Wiley. Vai a salvare Lily, Dev.» Devon afferrò la camicia macchiata di sangue del fratello e avvicinò il volto a quello di lui. «Non posso lasciarti!» E urlò quelle parole come se fosse una maledizione. Poi si ricordò. «Alice. Alice sta arrivando.» Clay scrollò il capo, freneticamente. «La sta uccidendo, io non sono grave, davvero, è solo sangue.» Si lasciò andare debolmente, ma tenne lo sguardo spaventato su Devon.


«Alice sta arrivando», disse di nuovo, incapace di pensare ad altro, e Clay gemette, frustrato. Su di loro iniziavano a cadere grosse gocce di pioggia. Devon si alzò, di colpo, e iniziò a muoversi, volgendo le spalle al sentiero, per poter vedere Clay fino all’ultimo istante. Poi si volse e si mise a correre. Lui e Cobb si videro nello stesso momento: Devon accanto ai resti del picnic di Clay e Lily, Cobb che risaliva il lato più accidentato della scogliera, fradicio. Il cuore di Devon smise di battere nel momento in cui lesse dolore e pentimento sul volto pallido di Cobb. Voleva dire che era arrivato troppo tardi, che era troppo tardi... Raggiunse l’uomo con una corsa selvaggia, senza fermarsi nemmeno quando lo vide estrarre un coltello macchiato di sangue dalla tasca, con un gesto strano, stanco e quasi stoico. Prima di pensare, Devon scansò la lama assassina e di riflesso strinse la mano di Cobb ferocemente. Cobb indietreggiò, trovandosi a pochi centimetri dal bordo pietroso della scogliera. Lottarono, nessuno dei due prevalendo sull’altro, per pochi secondi colmi di tensione. I due uomini erano forti entrambi, ma Devon era come impazzito, spinto da furia omicida. Alla fine afferrò un polso di Cobb e lo torse, fino a quando il coltello non cadde a terra. Nel momento stesso in cui Cobb si chinava a raccoglierlo, Devon lo colpì in gola, con un pugno ben assestato. Cobb cadde in ginocchio, ansimando. «Ti ucciderò», mormorò Devon, colpendolo di nuovo. «Ti ammazzerò.» Gli diede un calcio in pieno petto, e l’uomo cadde all’indietro. Urlò quando sentì il bordo del promontorio contro la spina dorsale. Ma nel momento in cui stese un braccio e urlò: «Aiutami!» Devon cercò di afferrarlo. Braccio sbagliato. Devon trovò l’aria invece di una mano, e Cobb scomparve al di là della scogliera.

Capitolo ventottesimo Non udì nemmeno un urlo, alcun rumore di caduta. Sulle ginocchia, si avvicinò lentamente alla scogliera e guardò giù. Proprio sotto di lui, le onde si frangevano violente contro una serie di rocce, grigie e tetre, reclinate all’indietro come se fossero terrorizzate dalla violenza della marea imminente. Riuscì a scorgere nell’acqua bassa il grigio scuro della giacca di Cobb, solo per un istante, poi fu coperto dalla schiuma. Chiuse gli occhi, respirando a fatica. Quando li riaprì, vide Lily immersa nel ventre di un maroso. Era legata per i polsi alla roccia degli annegati, e dinanzi ai suoi occhi, quell’onda la colse, sommergendola. Urlò il suo nome nel fragore del vento. Un tempo c’erano stati dei gradini di legno che portavano alla baia, ma erano marciti, lasciando soltanto spuntoni grezzi di roccia lungo tutta la scogliera, ora scivolosi di schiuma salmastra e pioggia. Prese il coltello di Cobb e si slanciò giù per quegli spuntoni, maledicendo e pregando, sprezzante del pericolo. Quando giunse in fondo, ringraziò Dio di non essersi rotto niente, e si slanciò nell’acqua tumultuosa. La vide nuovamente nel reflusso della marea. Lei inspirò profondamente una lunga boccata d’aria prima che l’ondata seguente la travolgesse, mandandola contro la roccia. Devon si sforzava di raggiungerla, cercando di tenersi in equilibrio con le


braccia, lottando contro il potere maligno delle onde. Nel momento in cui giunse a lei, vennero entrambi colpiti da una nuova ondata, che li sommerse. Si afferrò all’anello di ferro nascosto sott’acqua e con il coltello tagliò i legacci di cuoio – la cintura di Cobb – che la tenevano bloccata alla roccia. L’onda si allontanò, ed entrambi affiorarono a pelo dell’acqua, ansimando. Le passò un braccio attorno al petto per evitare che venisse portata via dall’ondata seguente, e lottò per tornare a riva, contro la marea crescente. La riva era in realtà una stretta lama di sabbia umida alla base della scogliera, che la marea non aveva ancora coperto. Vi cadde in ginocchio, tenendo sempre Lily tra le braccia. Per un lunghissimo istante non riuscirono a parlare. La pioggia li sferzava, e il vento soffiava costante, brutale. Ma non udivano altro se non i loro corpi: che lei fosse viva, respirasse, che lo abbracciasse stretto stretto, era un qualcosa che lo colmava di gioia e timore. Ma lei stava piangendo, e allora si scostò per vederne il volto. Singhiozzò: «Clay è morto», e nascose il volto contro il collo di Devon. «Lily, no, non è morto. È ferito, ma guarirà. Si riprenderà, vedrai.»Ne era del tutto certo. Si asciugò gli occhi e lo guardò. «Non è morto? Ma Cobb l’ha ferito con il coltello, l’ho visto io stessa. Anche Gabriel... E invece con me non ha avuto il coraggio di farlo, penso per via del bambino.» Quelle parole le fecero ricordare una cosa. «Dev...» «Gabriel si è trascinato fino a casa, cara. È stata Alice, a trovarlo. Ecco come ho fatto a sapere quello che era successo.» «Gabe», sussurrò. «Oh Dio. È morto, vero?» «Non lo so. Temo di sì, comunque.» Si tennero stretti l’uno all’altra, facendosi coraggio, fino a quando, di colpo, Lily piegò le spalle irrigidendosi, presa da improvvise fitte di dolore. Devon riuscì a mala pena a trattenere un’imprecazione colma di panico. Lei si teneva stretto l’addome; non sapendo che cosa fare, in preda alla disperazione, si limitò ad abbracciarla. Infine Lily si rilassò, perché le parve che quello spasimo fosse passato. Devon le toccò il ventre duro con mani tremanti, cercando una possibile ferita. Mani e braccia erano graffiate dall’attrito contro la roccia, e così anche le spalle per via di un abito che si era strappato, ma non vedeva altre ferite. «Dev», sussurrò, fermandogli le mani, ansimando e lasciandosi andare sulla sabbia bagnata. «Sto per avere il bambino.» La fissò per un secondo, incredulo, poi scrollò il capo. «No, è impossibile. Non è vero, non può essere...» Lily si tolse i capelli bagnati dagli occhi. «Scusami, ma...» «No, non è vero. Ti stai sbagliando.» «Io mi sto sbagliando?» «Ascoltami...» «Devon, ho le doglie!» «Va bene, va bene», disse cercando di calmarla. Ma non ci credeva ancora. Smise di fissare il volto spaventato di Lily e guardò, attraverso la pioggia, il solido muro di pietra fredda e scivolosa che incombeva su di loro. «Puoi, ummm...»


«No.» «No. Certo, lo pensavo anch’io.» Non poteva sicuramente portarla su di peso, a meno che non se la fosse issata su una spalla, tenendo una mano libera per salire. Ma Lily non era in condizioni da essere messa sulle spalle di nessuno, in quel momento. «Beh, ora, che si fa?» disse fingendosi calmo. «Vediamo un po’.» Mentre parlavano, la striscia di sabbia era già stata erosa per un quarto dalla marea che aumentava. «Oh Dio, oh Dio», Lily mormorò, mentre batteva i denti. «Non può accadere una cosa del genere. Non è possibile.» «No, infatti, è proprio quello che stavo pensando...» «Oh!» Con un gemito tremendo, lei si tese di nuovo, e gli strinse una mano con una presa da spezzargli le ossa, che gli fece venire il desiderio di urlare. Quando il dolore si placò, Lily era pallidissima e sudata. Ormai, non poteva più negare l’evidenza dei fatti: Lily stava per avere il bambino. «Oh Dio», si lamentò. «Che cosa faccio adesso? Non posso avere il bambino qui!» «Va tutto bene, amore», la tranquillizzò Devon, cercando di darle sicurezza. «Tutto andrà bene. Mi prenderò io cura di te. Non ti preoccupare di nulla, se non di avere il bambino.» «E dove?» Invece di rispondere, la prese tra le braccia e la sollevò, mentre l’acqua gli lambiva i piedi. Strinse i denti e fendette il vento, iniziando a dirigersi verso est e cercando di rimanere il più possibile vicino alla scogliera. Ma qualche volta il terreno sotto i piedi cedeva, e allora era costretto a camminare nell’acqua che gli arrivava già alle cosce e continuava a salire. Lily si stringeva al collo di Devon, con tutte le sue forze, pregando che non cadesse. Avevano percorso all’incirca una quarantina di passi quando si accorse di dove la stesse portando. «Una grotta – mi stai portando in una grotta.» «Certo, una bella, ariosa e spaziosa...» «Grotta.» «Sì, io e Clay...» «Vi andavate a giocare ai pirati quando eravate piccoli.» «Sì, è l’unica...» «Non avrò mio figlio in una grotta!» Lo strinse ancor più, ansimando: «Oh no», mentre tutto il suo corpo era teso a sopportare le contrazioni. Devon si sedette nella risacca, tenendosi Lily in grembo, cullandola. «Quest’ultima è stata peggiore delle altre», notò lui con voce malferma quando fu terminata. Lei si limitò ad annuire. «Cara, ascoltami, non abbiamo altre soluzioni. Sarà pure buia e sporca, ma almeno è asciutta e al riparo dal vento. È proprio laggiù. La vedi? Dietro quell’albero, nella roccia.» «Ma annegheremo! L’acqua...» «Vi entra per circa tre metri e mezzo, e poi ci sono dei gradini di pietra, una specie di gradini almeno, che salgono all’interno della scogliera. Bella e asciutta, vedrai...» Si alzò, tenendola ancora tra le braccia. «Una specie di gradini, hai detto?» «Lily, non ti preoccupare.» «Che cosa significa?» «Che andrà tutto bene.» «Nella grotta ci sono pipistrelli, vero?»


«Nessun pipistrello.» «E serpenti.» «Nessun serpente.» «Ragni, allora.» Quando non disse nulla, lei urlò, con voce colma di triste trionfo: «Ecco, ci sono ragni, vero? Oh, diavolo!» «Li ammazzerò tutti.» La rimise a terra quando si trovarono all’imboccatura della grotta, un’apertura stretta e buia che pareva uno sfregio nella roccia. «Fammi entrare per primo.» «Vai.» «Tienimi la mano.» «Se insisti...» Prima di entrare, raccolse il volto di Lily tra le mani, sorridendole negli occhi colmi di panico. «Andrà tutto bene, cara, lo prometto.» «Ma Dev, avrò il bambino in una grotta!» Le baciò la fronte, poi le guance. «L’avremo assieme, e non permetterò che ti accada nulla.» Un altro spasmo doloroso la trafisse; si piegò su di lui, e il contatto forte e rassicurante del suo corpo l’aiutò a sopportarlo. «Non te ne andrai?» piagnucolò quando alla fine la contrazione l’abbandonò. «Non ti lascerò mai. Su, cara, l’acqua sta salendo. Tienimi la mano.» Notò che le onde le lambivano già le ginocchia. Lily dovette chinarsi per entrare nella grotta, e quasi immediatamente si ritrovarono nella più profonda oscurità. «Oh, ma è meraviglioso», disse lei acida. Si accorse che le circostanze più disperate le ispiravano un certo sarcasmo. «Non è buio pesto nella grotta», disse immediatamente lui. «C’è un po’ di luce che proviene dall’alto.» O c’era, se si ricordava bene, soggiunse tra sé e sé. Circa vent’anni prima. «Andiamo avanti, da questa parte...» Almeno, così sperava. I gradini di roccia erano alti e smozzicati; dovette sollevarla a ogni passo. Quando raggiunsero il quarto, ebbe un’altra contrazione. «Ora sono così frequenti...»’, sussurrò, ancora spaventata. «Meglio così», le disse, togliendosi di nascosto il sudore dalla fronte; in Devon, iniziava infatti a farsi largo la consapevolezza che avrebbe dovuto aiutare Lily a partorire. «Significa che finirà tutto presto.» Gli piacque molto il tono sicuro, coraggioso della sua voce, e si chiese se per caso fosse riuscito a convincerla. Quando raggiunsero l’ultimo gradino, le disse di rimanere immobile, di appoggiarsi alla parete di destra, senza muoversi. Prontamente, Lily lo rassicurò di non avere la minima intenzione di andarsene in giro. Allora poteva andare avanti tranquillo? Ma certo! Eppure, quando le lasciò la mano e scomparve del tutto nell’oscurità della grotta, Lily venne presa da una forma di panico cieco, del tutto irrazionale. «Dev!» Le fu accanto in un momento. «Va tutto bene», le sussurrò, tenendola stretta. «È stata molto brutta, questa, vero?» «No, non proprio.» Per un attimo, pensò di raccontargli una piccola bugia innocente, ma poi non poté. «Mi sono solo spaventata. Non lasciarmi sola. Non posso venire con te? Hai detto che non sarebbe stato buio del tutto!» «Ma, ci vuole qualche minuto perché gli occhi si abituino...»


«Che cos’è questo strano odore?» «Non so.» «Come sarà il pavimento? Tutto coperto di ragni, immagino, e magari anche di serpenti, se quello che mi hai detto non...» «Lily, per l’amor di Dio...» «È tutta colpa tua, Devon.» «Colpa mia?» «Beh, di chi è il bambino?» La mano di Devon che stringeva le sue aumentò ancor più la presa, e lei si pentì immediatamente di quello che aveva appena detto. «Sì, è mio», annunciò con tono vittorioso. «Ce ne è voluto, ma sono contento che almeno ti sei decisa ad ammetterlo prima che il piccolo veda la luce.» Nel cervello di Lily frullavano mille e mille pensieri. «Non ho voglia di parlarne ora...» «Ma non c’è proprio nulla da dire...» «Hai ragione; questo figlio è mio, non tuo.» Ebbe la sensazione che borbottasse qualche parola volgare mentre proseguiva a tentoni nel buio, con Lily che lo teneva stretto per la giacca. Improvvisamente, Devon urlò una vera imprecazione quando colpì qualcosa di metallico col piede, e lei non poté reprimere un grido di paura. «Che cosa c’è?» «E che diavolo ne so? Rimani qui e non ti muovere.» Lei obbedì, mentre lui si chinava per vedere. «Mio Dio...» «Che cosa?» «Penso che... Sì... forse...» «Che cosa?» «Una lanterna. Che fortuna! C’è persino dell’olio dentro. E Lily, qui accanto c’è anche una scatola di esche per accendere il fuoco.» «Ma stai scherzando, Devon? Perché se stai scherzando...» «No, non sto scherzando affatto. Siediti qui, mentre accendo la lanterna.» E così fece, sentendo il rumore della pietra focaia e dell’acciarino. Dopo pochi secondi, lo stoppino della lanterna scoppiettò, si accese, brillò nell’oscurità. Lily storse il naso: olio di sardina. La prima cosa che notò fu che non c’era nemmeno un ragno sul pavimento, per lo meno non vicino a lei. Poi, vide qualcosa che le tolse il respiro e le fece spalancare gli occhi per la sorpresa. «Dev, guarda...» Ma lui stava già guardando. Non erano inginocchiati sul pavimento di una caverna vuota, umida e sporca, infestata di ragni e serpenti, bensì in un magazzino. Pile e pile di scatole e barili, e di balle di tessuto li circondavano da ogni lato. A poca distanza, c’era una parete coloratissima fatta di pezze di tessuto arrotolate, sete e rasi, broccati e velluti, mussoline stampate. Qua e là erano disseminati barili di vino, rum e brandy. Contro un’altra parete, c’erano accatastati tappeti turchi dai colori vivaci e il profumo di muschio. E poi ancora, pellicce di castoro, volpe e procione, accanto a una montagna di rotoli simili a papiri che parevano carta da parati cinese. Non potevano vedere le confezioni di tè e caffè, ma dovevano pur esserci, perché ne sentivano l’aroma pungente. Era quello il profumo che avevano notato fin dall’inizio, pur non riuscendo a identificarlo perché così assurdo, per un luogo simile. Una lunga scatola


di metallo recava la scritta «Moschetti». Ma la cosa più sorprendente era una cassa di legno, senza guarnizioni, al centro del pavimento della grotta. Il coperchio pesante era aperto leggermente, ma tanto da lasciar intravvedere una lucente fortuna in monete d’oro e d’argento. «Che Dio ci salvi», Lily sussurrò. «Ma dove siamo, Dev?» Rise a bassa voce, guardandosi in giro. «Penso che sia il magazzino di Clay. Sì, per forza. Solo che non si ricordava dove fosse.» «Cobb lo sapeva. Dev... sapessi che cosa mi ha detto. Che era tuo fratello, il tuo fratellastro. Il figlio di tuo padre.» Si volse verso di lei, lentamente. «Che cosa? Ma Lily, che cosa stai dicendo?» «Cobb era il figlio naturale di tuo padre. Lui l’ha sempre saputo, e odiava il fatto di essere alle vostre dipendenze, tue e di Clay. Ha detto che aveva tutto il diritto di rubarvi il denaro.» Il volto di Devon si era irrigidito per la sorpresa, tanto da non riuscire nemmeno più a parlare. Lei avrebbe voluto cercare di consolarlo, ma un’altra fitta la colse, e questa pareva non avere mai fine. Si era imposta di stare tranquilla, e fu presa dallo sgomento quando si sentì urlare prima che il dolore passasse. «Dannazione, dannazione», ansimò. «Volevo essere coraggiosa, ma fa male, Devon, fa male» «Urla quanto ti pare, fino a rimanere senza voce», le consigliò, sperando che il suo sorriso rassicurante apparisse più sincero di quanto non fosse. «Ma prima togliti quel vestito bagnato. Avrai il bambino su una bella pila di pellicce calde, coperta di seta. Quante donne sono così fortunate?» Ma lei non ne era affatto contenta. «Dio, lo odio», mormorò, e rimase in piedi per tutto il tempo che gli ci volle per toglierle gli indumenti bagnati e avvolgerla in una stoffa di morbidissimo velluto rosso. La fece sedere sul pavimento, ancora dolorante, accanto al forziere colmo di monete, e le preparò un letto spesso di pellicce di coniglio e volpe. «Usa la mussola», gli disse con senso pratico, quando iniziò a stendere della seta gialla sulle pellicce. È più lavabile.» La aiutò a stendersi su quel letto improvvisato e la coprì con cura, anche se il suo corpo era già caldo. Stava meglio seduta, gli disse, e così Devon preparò un alto cuscino di pellicce di castoro, avvolte nel raso. Indietreggiò, le mani sui fianchi, osservandola con un sorriso divertito. «Che cosa c’è di tanto buffo?» «Mi sembri un’orsa incinta. Che sta recandosi a un ballo.» Il senso dell’umorismo di Lily non era al momento particolarmente vigile. «Grazie molte», disse risentita, e la cosa lo fece ridere. «Ci sono altre amenità? Se sì, sentiamole tutte assieme e non pensiamoci più.» Ancora ridendo, Devon si sedette accanto a lei, e le prese una mano. «Raccontami la storia della tua vita, parlami di Lily Trehearne. Com’eri quando eri piccola?» Lo guardò con sospetto. «Non ti dirò proprio nulla, invece. Perché vuoi saperlo? Avresti dovuto farmi questa domanda molto tempo fa, se proprio ti interessava tanto.» Si contrasse e cercò di sollevarsi ancora, quando il dolore la afferrò di nuovo, forte e straziante, apparentemente senza fine. Dopo, rimase ansimante e sudata, stupefatta dall’intensità dell’ultima contrazione, più spaventata che mai. «Non vedo come possa essere una cosa naturale», sussurrò debolmente. «È troppo... è proprio...» Si fermò,


sorpresa dall’espressione sul volto di Devon. Immediatamente, sentendosi osservato, assunse un’aria tranquilla, ma era troppo tardi, perché lei aveva già colto un barlume del tormento che lui provava. Le si strinse il cuore. «Andrà tutto bene», disse prendendogli una mano e stringendola. «Ne sono sicura. Meraud ha detto che avrei avuto un travaglio veloce e facile, e lei vedeva nel futuro.» «Chi è Meraud?» «Era una mia amica, lo è ancora. Ho vissuto con lei, a casa sua, nella brughiera. Hai deposto le pietre magiche sulla sua tomba dopo che mi trovasti, quella notte. Non ti ho mai ringraziato per quello che hai fatto. Sdraiati accanto a me, Dev; mi aiuta molto sentirti accanto.» Ma la cosa avrebbe aiutato anche lui. Le si sdraiò accanto, sul letto, accarezzandole leggermente il ventre mentre lei gli raccontava di Meraud e della brughiera, delle sculture e di quella parete di vetro. Mentre parlava, l’immagine della vecchia amica le si fece chiara nella mente; e le parve persino di percepire la sua presenza nella grotta. Vero o no, era comunque un pensiero confortante. Devon le parlò invece di Cobb. Ricordava che la madre del suo amministratore era morta di parto quattro anni prima della nascita di Devon. Mary Cobb, si chiamava. L’amante di suo padre. «La cosa non mi sorprende. Mia madre non voleva, o non poteva, vivere con mio padre, sebbene non ne abbia mai capito il motivo. Evidentemente, aveva bisogno di una compagnia femminile quando lei era nel Devonshire.» E nel testamento, il padre aveva stabilito che i maschi Cobb potessero essere amministratori a Darkstone Manor per sempre, di generazione in generazione: il modo scelto da Edward per lenire un poco i sensi di colpa per non avere riconosciuto quel figlio. «Mi chiedo se l’avere perso una mano per salvare Clay quando eravate piccoli non abbia aumentato in lui col passare degli anni il rancore nei vostri confronti», disse Lily, pensando a voce alta. Si ricordava del giorno in cui si era imbattuta in Cobb, ubriaco, nel suo cottage. «Un Darkwell non è un uomo di cui una ragazza dovrebbe fidarsi», l’aveva ammonita. E ora comprendeva che con quelle parole si era riferito anche a sua madre. «Perché ha lasciato tutto questo, secondo te?» Fece un gesto indicando la merce attorno a loro. «Perché non prendere tutto e scappare? Avrebbe potuto andarsene lontano e vivere come un re. E poi, perché non ha ucciso Clay? Doveva sapere che a Clay sarebbe anche potuta tornare la memoria, prima o poi.» Devon rimase silenzioso per molto tempo, a meditare. «Forse non voleva uccidere nessuno. Forse voleva rimanere qui perché non aveva un luogo dove andare. Dopo tutto, io e Clay eravamo l’unica famiglia che avesse.» Non avrebbe mai dimenticato lo sguardo colmo di rimorso che aveva visto sul volto di Cobb quando era scivolato giù dalla scogliera. Lily, invece, aveva altri ricordi di quell’uomo: la forza crudele delle sue mani quando l’aveva sospinta giù per la scogliera, mentre lei implorava pietà, e poi l’aveva trascinata nell’acqua bassa per legarla a quella roccia. Aveva un animo compassionevole, ma non riuscì a rattristarsi per la morte di Cobb. Il tempo passava. Dolori lancinanti la prendevano con intensità sempre maggiore; nei periodi di tranquillità, sempre più brevi, raccontò a Devon di suo padre, e di quello che si ricordava della madre, di come era stata la sua infanzia. Per non farlo


preoccupare ancora di più, non aveva più urlato. E lui l’ascoltava, paziente, mentre le massaggiava la schiena e le spalle, i piedi e le mani, le faceva domande o parlava di sé quando lei non poteva rispondere per il dolore. Nessuno dei due aveva dimenticato il terribile passato che avevano condiviso, e Lily non aveva di certo perdonato, ma si erano incamminati assieme in quell’avventura che rendeva insulso il tutto e, almeno per ora, lo faceva sembrare lontano e stupido. «Su, se vuoi urla», le disse Devon quando le contrazioni iniziarono a susseguirsi a ondate lunghe e strazianti, ma lei continuò a rimanere in silenzio. Le sembrava invece molto più utile ansimare. Quante ore sarebbero andati avanti ancora così? Non poteva evitare che le gambe le tremassero, ed era quasi impossibile concentrarsi. Tra una contrazione e l’altra si sentiva triste e irritabile, molto frustrata; quando le disse che era molto brava, lo morse, poi gli chiese scusa, in lacrime, fino a quando la contrazione seguente la colpì e lui la sostenne anche quella volta. Proprio quando fu certa di non poter sopportare più dolore e tensione, quando fu pronta ad alzarsi e andarsene, con o senza di lui, e dimenticare del tutto quella faccenda terribile e innaturale che era il parto, sentì che qualcosa stava cambiando. «Dev, penso che ci siamo.» «Rilassati ora», le disse inginocchiandosi tra le sue gambe per vedere i progressi del travaglio. «Rilassati e spingi, non riesco a vedere ancora nulla.» Le contrazioni seguenti furono tanto colme di soddisfazione quanto dolorose. Lei era ormai spossata, ma cercava di conservare gli ultimi barlumi di forza, mentre Devon le massaggiava i polpacci e le offriva quanto più sostegno possibile. «Oh, mio Dio», esclamò poco dopo. «Mi sembra di vederlo. Sì, vedo la testa! Puoi spingere ancora?» Se poteva spingere? Non poteva non spingere, si disse. Si sentì colmare da una euforia selvaggia mentre spingeva, ansimando e piangendo, con l’eccitazione che superava di molto il dolore. «Ma lo vedi davvero?» «Sì, sì, sta uscendo, continua a spingere. Ha una faccia... e dei capelli, castani, mi sembra. Spingi!» Lei obbediva contenta, e le parve di fare finalmente qualcosa, di contribuire finalmente alla nascita di quel bambino. Alla fine ebbe un’ultima contrazione tremenda e dolorosissima. E chiaramente, come se lo stesse vedendo, seppe quando il corpicino di suo figlio, lungo e perfetto, scivolò fuori da lei. La sensazione la fece piangere tra lacrime di gioia e sollievo. «È un maschio, vero? Lo so che lo è!» «Sì, un maschio. È bellissimo, Lily, guardalo!» Era il bambino più bello del mondo, si disse, bagnato e rosso. Strillava e si muoveva. Le dita e i piedi la incantarono; e il naso, così piccolo e delizioso, e le labbra, erano veramente perfetti. E poi, le orecchie, incredibili, e i piedi! Si era già praticamente innamorata delle sue spalle. Prese una mano di Devon e la strinse. Non riusciva quasi a muoversi dalla stanchezza, e tuttavia sentiva crescere in sé una euforia dolce e profonda, che la colmava, già pronta a traboccare. Le dita di Devon erano calde e forti, e avvolgevano le sue; negli occhi gli vide come riflessa la sua gioia. Ma la cosa che più la colpì furono le sue lacrime: Devon piangeva apertamente e senza imbarazzo alcuno. «Oh Lily», continuava a dire, scuotendo la testa, tenendo con un braccio il


minuscolo corpicino. «È veramente bello, tanto bello. Assomiglia proprio a me.»

Capitolo ventinovesimo All’alba, una pioggerella leggera fece brillare le rocce scoscese alla base della scogliera, dove si stavano formando delle pozzanghere. Lungo la costa tutto era grigio, un paesaggio monotono, nebbioso, senza forme o prospettiva. Ma fuori, in mare, nuvole bianche, insolite in quella monotonia, si ammassavano ai margini dell’orizzonte e, sopra, le stelle giallastre brillavano, ormai quasi spente, a una a una. La giornata si annunciava bella. Devon inspirò il profumo salmastro di alghe e legname abbandonati sulla costa dalla tempesta. Non si sentiva alcun suono, se non il respirare dolce del mare. Il pensiero del padre gli tornava sempre più in mente, dapprima a casaccio, poi sempre più persistente, come una marea crescente e costante. Edward Darkwell era stato un uomo alto e robusto, di bell’aspetto, con capelli castani che, attorno ai quarant’anni si erano incanutiti. Devon se lo ricordava come generoso e impulsivo, un uomo dai solidi principi, ma anche tormentato, lacerato da estremi opposti, e troppo sensibile all’incostanza delle sue emozioni per poter godere di gioie durature. Per anni, Devon aveva pensato di essere simile a lui. Sua madre lo definiva 'intenso'; Clay invece parlava dell’amore di suo padre e di Devon nei confronti del mare, che li 'tranquillizzava'. Devon sapeva ora che avevano anche qualche altra cosa in comune: trent’anni prima Edward aveva peccato, di infedeltà. Le conseguenze di quel tradimento avevano devastato una famiglia intera e provocato la morte di due persone, tra cui un figlio suo. Talvolta la giustizia era lenta, ma giungeva sempre. E la lezione era amara ma inevitabile: i peccati del padre ricadevano inevitabilmente sui figli. A est, oltre il baluardo di rocce per metà nascoste dalla marea che si stava ritirando, la punta di un sole pallido compariva all’orizzonte. Le onde assunsero un colore brillante, tra il porpora e il verde, quel color pavone così caratteristico del mare di Cornovaglia, che non aveva nessun altro mare. Devon appoggiò il capo contro la parete nuda della grotta e sentì che veniva invaso da una spossatezza fisica pesante come una marea che risucchia nelle profondità. Dietro di lui, all’interno della grotta, Lily e il bambino stavano dormendo, sdraiati nudi uno a fianco dell’altra sotto la morbida coltre di pellicce. Sentì ancora la dolce seduzione di quel sogno a lungo cullato, a metà tra il miracolo e la speranza, l’idea che potesse averli entrambi, che potesse vivere tutta la vita con Lily e il bambino, ed essere felice. Ma il sogno vacillava, spariva. La voce ferma della sua coscienza lo assaliva, gli ricordava che un vecchio conto non era mai stato pagato. Aveva ancora un debito in sospeso. E un uomo non poteva essere ricompensato per stupidaggini e azioni sbagliate nei confronti di chi più gli stava a cuore. Non, almeno, nel mondo che Devon conosceva. Un gabbiano mattiniero librò sulla tranquilla baia che il mare aveva strappato alla scogliera di granito. L’ultima stella scomparve al riverbero del sole. In quella rara mattina di maggio, il primo giorno di vita di suo figlio, Devon comprese che


l’universo era un mondo ordinato come il ciclo delle maree, che tutte le azioni avevano delle conseguenze, e che il destino era ineluttabile. Si alzò lentamente, da quel punto sopra le rocce bagnate di spuma, e salì i gradini che riportavano all’imboccatura della grotta, diretto verso la luce instabile della lanterna. Lily si svegliò, sentendosi la testa vuota. Un secondo dopo, quell’eccitazione dolce e fiera al contempo tornò forte come prima, come se non si fosse mai addormentata. Aprì gli occhi e vide Devon di profilo, che cullava Charlie – avvolto nel cotone più morbido e nel velluto più caldo – studiando il volto del bambino con uno sguardo intenso, rapito. Lily si sentì prendere dall’emozione. Mormorò il nome di Devon e gli tese una mano. L’uomo sollevò gli occhi, e il suo volto assunse un’espressione che lei non riuscì a decifrare. I loro sguardi rimasero allacciati mentre lui si avvicinava, e il bambino iniziava a piangere. Lily tese entrambe le braccia in attesa, sorridendo, sentendosi colmare di gioia. Ma poi accadde una cosa strana: il suo sorriso svanì, si sentì come colmare da un brivido di paura – subito prima che lui si chinasse, ponesse il bimbo tra le sue braccia e si rialzasse. Dimenticò immediatamente quella sensazione, dimenticò qualsiasi altra cosa che non fosse la sensazione straordinaria di tenere il piccolo tra le braccia. «Guardalo, Dev. Oh, guardalo.» Lo adorava. «Ha i tuoi capelli, e il mio mento, mi sembra. Non so a chi assomigli il naso, ma è bellissimo, non trovi?» Toccò incantata il naso del piccolo con la punta di un dito, poi tirò indietro le pellicce per liberare il seno. «Ha già fame. Su, piccolo, dai! Guarda, sa esattamente cosa fare. È così...» Le mancarono le parole. Chiuse gli occhi, cullata dal movimento dolce della bocca di Charlie che succhiava dal suo capezzolo. Quel minuscolo essere umano era vissuto dentro di lei per nove mesi, e ora lo stava nutrendo con il proprio corpo. Incredibile, davvero! Era tutto così splendido che si sentì improvvisamente sopraffatta dalla miracolosa perfezione del Creato. Charlie si addormentò subito dopo con la bocca aperta, i piccoli pugni stretti alle guance. Lily lo coccolò con parole dolci, baciandolo, e lui strinse ancor più gli occhi, chiuse le labbra e scivolò in un sonno ancor più profondo. Lo depose con grande attenzione nell’incavo del braccio, rimboccandogli con delicatezza le coperte sotto il mento. «La marea si sta ritirando.» Lei sollevò lo sguardo. Devon aveva fatto un passo indietro, così da non essere più nel cerchio di luce; non riusciva a vederlo chiaramente, un’ombra alta contro l’oscurità più fitta dietro di lui. «Che ore sono, secondo te?» «Presto.» «Vieni più vicino, Dev, non riesco a vederti.» «Devono averci cercato per tutta la notte; ho visto delle lanterne poco prima dell’alba, sopra la scogliera. Ora io vado su, Lily. Non avrai problemi a restare sola per un po’?» Lei annuì, un poco preoccupata dall’oscurità della grotta. «Ma prima devo dirti una cosa», iniziò. Lily sentiva il desiderio di toccarlo, ma lo vedeva così lontano, così chiuso nei suoi pensieri. «Non ti vedo», ripeté. Lui esitò, poi entrò finalmente nel cono di luce. Batté


contro il materasso di pellicce, invitandolo a sedersi accanto a lei. Dopo un’altra, lunghissima pausa, le si avvicinò e si sedette dove gli aveva indicato. Si sentiva così colma di gioia, sollievo e pura felicità, che la sua espressione grave la lasciava sorpresa. «Ho preso una decisione», cominciò. Di riflesso, lei strinse il braccio attorno al bambino, mentre il calore le imporporava le guance. «Su Charlie?» Lui la guardò, e allora lei spiegò, velocemente: «L’ho chiamato così mesi fa. Era il nome di mio padre». Gli occhi di lui brillarono per un breve istante, poi la guardò con un debole sorriso. «È un bel nome. Avrei voluto conoscere tuo padre.» Dicendosi che avrebbero potuto sempre discutere il nome del figlio più tardi, Lily si costrinse a chiedergli: «Qual è la decisione che hai preso?» Terrore, misto a rabbia, ritornò improvvisamente in lei, quando lui non le diede una risposta immediata. Che cosa crudele dirglielo ora, proprio quando era troppo debole per combattere... «Ti ho fatto grandi torti, Lily. Dal primo giorno che ci siamo conosciuti. Avevi ragione su di me. Avevo deciso subito di sedurti, senza pensare alle conseguenze o al danno che avrei potuto causare. Tu mi hai dato tutto, e io in cambio ti ho offerto solo del denaro. Poi, di mantenerti.» «È stata una scelta mia», lo corresse dolcemente. «Tu non mi hai costretta a far nulla che io non volessi.» «Non è affatto vero. Ma entrambi sappiamo che questa non è la cosa peggiore. Ho pensato che avessi ferito Clay, che avessi cercato di ucciderlo per prendere il denaro. Lo credevo davvero. Ora, a pensarci, mi sembra una cosa sorprendente; inconcepibile. Abominevole. Sono giunto molto vicino al punto di colpirti – fisicamente, intendo.» Il suo volto aveva assunto un’espressione disperata, ma proseguì imperterrito. «Ti ho ingannata alla vigilia del tuo matrimonio con un uomo onesto. Ti ho usata nel peggior modo possibile. Ho fatto in modo che venissi pubblicamente umiliata, e poi ti ho abbandonata. Me ne sono andato, lasciandoti ad affrontare il mondo, sapendo che sarebbe stato molto duro per te...» Si fermò. Lily si era messa a piangere. Non poteva più guardarla in volto, ormai, ma doveva finire quell’elenco così tremendo. «Se il dottor Marsh non mi avesse spiegato che Clay non avrebbe mai potuto scrivere quel biglietto, non ti avrei cercata. Ti avrei lasciata al tuo destino, e saresti morta con Gabriel nella brughiera.» Si volse, pronunciando le ultime parole verso le ombre della grotta. «Lily, penso... penso di dover fare ammenda.» Lei si asciugò coi polsi gli occhi gonfi di lacrime. «Che cosa vuoi dire, Dev?» «Ora ho qualcosa che potrà compensarti per quello che ho fatto». Abbassò la voce. «Questo bambino... te lo lascio. È tutto tuo. Va’ dove vuoi, non ti fermerò. Sei al sicuro, ormai, da me. Lo giuro.» Lily si stava premendo una mano alla gola, e lui scambiò quel silenzio per assenso; ma un momento dopo sentì la necessità di averne la certezza assoluta. «Pensi che il mio debito sia pagato, Lily? È sufficiente?» Lei non riusciva più a parlare, poté solamente annuire con il capo e, con sommo sforzo, sussurrare: «Sì, è sufficiente». «Bene.» Si alzò. «Allora è fatta», disse con voce roca, col tono di chi ha


pronunciato una condanna definitiva. Il suo sguardo passò dal seno di lei al bambino che dormiva al suo fianco. Cercò di sorridere. «Andrà tutto bene, per te, Lily», le disse a bassa voce. «Ho imparato che al mondo si ottiene sempre quello che si merita.» Poi si volse, rigidamente, e scomparve nell’oscurità. Il silenzio più totale seguì la scia dei suoi passi pesanti. Il mare era solo un sussurro discontinuo, che echeggiava in lontananza il respiro tranquillo e regolare del piccolo. Gli occhi di Lily passarono da un lato all’altro della grotta, da tenebra a tenebra. Spostò le gambe, inquieta; in testa, sentiva un pulsare fondo che seguiva il ritmo irregolare e lento del suo cuore. Chiuse gli occhi, strizzandoli, così da combattere contro un sentimento di rettitudine, una forma di giustizia tetra, antica, non illuminata. Sì, siamo pari. Il senso di perdita che prova ora Devon è tanto profondo quanto lo è stato il mio, ed è giusto che sia così. Siamo pari. Sii gentile, Lily. Perdona colui che ti ha fatto tanto soffrire. Nel silenzio profondo, totale, la voce alta e un poco tremula le giungeva come se Meraud fosse nella grotta, seduta accanto a lei. Poteva quasi sentire la presenza dell’amica, lo sbuffo di fumo della pipa, vederne le guance cotte dal sole, che comparivano ondeggianti al bagliore del fuoco di torba. Addolcisci il tuo cuore, bimba mia. Ma mi ha fatto molto male, replicò. Credeva di me le cose peggiori, le più oltraggiose, Meraud. Tutto quello che ha appena detto è... Lascia perdere l’orgoglio, mia cara, a che pro aver ragione, se sei sola? Charlie sospirò profondamente, e per alcuni secondi il suo corpicino tremò. Poi si rilassò, rimettendosi a dormire placido contro di lei. Amava già completamente, totalmente quel bimbo appena nato, e sarebbe morta per lui, senza un istante di esitazione. Devon provava le stesse sensazioni? Non aveva alcun dubbio. Questo bambino è un dono. Chiude un cerchio, Lily. Un cerchio. Sì, lei, Devon e Charlie formavano un cerchio. Vide che la rabbia e la tenebra del tradimento avevano creato in lei una corazza di eccessiva intransigenza. Un tempo, il suo corpo aveva risposto meglio della sua mente alle sollecitazioni dell’anima, sfidandola, tra le braccia di Devon. Poi, quando aveva pensato che lui l’avesse tradita di nuovo, si era sentita colma di vergogna. Ora quella sua vergogna la umiliava. E lui le aveva dato il bambino – l’aveva letteralmente donato a lei. Il suo dono più prezioso. Il cuore di Lily si aprì e perdonò, definitivamente. Lui l’amava; lei lo amava; il passato era ormai... passato. E il bambino, così come lei stessa, era suo. Sorrise tra le lacrime, ma uno sbadiglio la sorprese. Era così stanca. Eppure, doveva sforzarsi di rimanere sveglia fino a quando lui fosse tornato: aveva tante cose da dirgli! Diede a Charlie un lieve bacio sulla tempia e puntò lo sguardo nel punto più buio della grotta, da dove Devon era sparito, imponendosi di stare sveglia e aspettare. Ma nemmeno un minuto dopo, le palpebre le si chiusero. Il suo ultimo pensiero fu quello di sperare che Devon le portasse qualcosa da mangiare, perché stava morendo di fame. Poi si addormentò, sorridendo. «Arriva! Sta per arrivare.» Alice percorse con grazia, il terrazzo, facendo ondeggiare l’ampia veste di mussola azzurro polvere. Le scarpine di seta e un cappello di paglia con nastri completavano il suo abbigliamento da testimone di nozze. «Ha detto che ha ancora una cosa da fare, poi viene.»


La reazione alla notizia che la sposa era in ritardo fu di svariata natura. Clay scrollò le spalle e fece un cenno ad Alice affinché lo raggiungesse sul divanetto. Elizabeth tornò a tubare col nipotino tra le sue braccia. Francis Morgan raddrizzò le spalle e cercò di fare conversazione con lo sposo. Il reverendo Hattie si limitò a sbuffare. Devon ruppe invece immediatamente una promessa appena fatta a sua madre, e si rimise a passeggiare avanti e indietro. Tutti dissero che era una bellissima giornata per un matrimonio. Il mare ceruleo gareggiava con il cielo in quanto a splendore, e il sole di mezzogiorno era alto e brillante, caldo come un delizioso bacio. Fiori a mazzi e a ghirlande arricchivano con i loro splendidi colori il terrazzo della casa, gareggiando con file di balsamina profumata e tamerici, fucsia porpora in cestini appesi, mirto fragrante in grossi vasi di creta, gerani e licnidi, digitali del Devonshire, orchidee e ortensie, camelie dal profumo soave. Gli uomini osservarono che restava poco spazio per le persone; le donne annuirono e sorrisero, considerandolo un complimento. «E allora, Dev.» Lo sposo smise di passeggiare. «Salve, Francis.» «Dove andrete in luna di miele?» «Penzance, per un giorno o due. Lily non c’è mai stata.» «Per così poco?» «Non possiamo lasciare Charlie con la balia per più di pochi giorni», sorrise. «Ci mancherebbe troppo.» Francis rispose con un altro sorriso. Devon lo osservava distrattamente. Due settimane prima, Clay si era ricordato per quale motivo non potesse sopportare Francis: imbrogliava a carte. O per lo meno l’aveva fatto una volta, una notte del ‘92: Clay aveva buona memoria. «E poi farete un viaggio di nozze più lungo?» insistette Francis. «Sì, quando Charlie sarà più grande. Grecia o Italia, non lo sappiamo ancora.» Lily voleva andare in Italia, Devon in Grecia. Si era pentito subito di averle detto che aveva sentito dire che il Peloponneso era molto simile alla Cornovaglia: ora lei lo prendeva sempre in giro, dicendogli che quello era l’unico motivo per cui voleva andarci. Ma certo che non lo era, era solo la ragione principale! Il reverendo Hattie, un gentiluomo alto, dalla mascella prominente, con una parrucca nera, borbottò ancora. Devon guardò sua madre, che capì immediatamente e si avvicinò al prete per distrarlo. L’uomo era un’anima gentile, ma della vecchia scuola: non riusciva ad apprezzare il fascino che pareva avere su tutti gli altri la presenza alla cerimonia del figlio di quella coppia felice, che aveva ormai compiuto un mese. Anzi, in coscienza, lo rifiutava, e tuttavia quella presenza sembrava rendere più benedette le nozze. Non si raccapezzava più. Senza accorgersene, Devon abbandonò Francis nel bel mezzo di una frase e riprese a passeggiare nervoso. Ma cosa stava facendo Lily? Guardò verso la casa. Due volti dagli occhi spalancati lo fissavano dalle finestre della biblioteca. Vedendo però che anche lui stava guardando da quella parte, scomparvero immediatamente dietro le tende. Fece i gradini del terrazzo a due a due ed entrò in casa. «Galen!» urlò chiamando lo stalliere, che stava correndo fuori dalla stanza, tirandosi dietro Lowdy. Si fermarono e si voltarono con aria colpevole. «Stavamo guardando», MacLeaf


confessò. Quel sorriso con la fessura tra i due incisivi era davvero affascinante. «Beh, che diavolo, vieni fuori a guardare.» «Oh, beh, non so...» «Lowdy, dov’è Lily?» «È andata fino alle stalle, signore.» «Le stalle? E a fare che?» «Non so, signore.» «Beh, vai subito a chiamarla. Corri!» Lowdy fece un inchino veloce e corse fuori. Devon, invece, raggiunse nuovamente gli ospiti. «Ma perché non ti siedi? Almeno ti rilassi. Prendi un punch.» Clay fece un brindisi con il fratello, sorridendogli. «Pensi che sia scappata, eh? Che ti abbia mollato qui, all’ultimo minuto?» Devon lo ignorò e guardò l’orologio. Le 12.40. «Forse avrà visto il tuo gilet», Clay continuò, imperterrito. Alice ridacchiò, la qual cosa lo spinse a proseguire. «Magari ha pensato di non poter vivere tutta la vita con un uomo che indossa una cosa simile il giorno del suo matrimonio.» Devon abbassò lo sguardo. «Che cosa c’è che non va in questo gilet?» Ma anche lui, suo malgrado, dovette sorridere. Il broccato color cremisi non era di certo il suo stile abituale, ma aveva voluto ravvivare così il nero totale della giacca e dei pantaloni. Lily non l’aveva ancora visto, invece, ed era sicuro che l’avrebbe fatta ridere. Sperava che fosse così. Ma dove diavolo era? «Non so proprio perché tu debba essere così nervoso», riprese Clay, che si divertiva molto. Era il suo primo giorno in piedi, ed era molto allegro. «Beh, mi sembra che voi due vi conosciate già abbastanza bene, no?» Inarcò le sopracciglia dando così al suo sguardo un’aria ironica; Alice schioccò la lingua contro il palato per riprenderlo, ma poi rovinò l’effetto ridacchiando di nuovo. «Me lo ricorderò», Devon gli promise con un sorriso fintamente minaccioso «il prossimo settembre, quando vi sposerete. Vedrete.» Clay e Alice risero, contenti, anche se lui era costretto a tenersi il fianco con una mano. Erano a quel livello di infatuazione in cui tutto quanto è anche solo lontanamente divertente, lo diviene molto di più se vissuto in compagnia dell’amato. Devon scrollò il capo guardandoli, soffocando una risata. Ma dov’era Lily? Ormai la cosa andava proprio per le lunghe – forse qualcosa che non andava. Elizabeth si sedette, lasciando solo il reverendo, preferendo fare smorfie ridicole al nipote. La cagnetta, Midge, la guardava stizzita. Devon si avvicinò alla madre e chiese come stesse il piccolo. «Benissimo, ma potrebbe essere bagnato.» «Qua, dallo a me.» Lei gli tese il figlio con palese riluttanza. Devon sorrise alla propria creatura, provando come al solito un misto di orgoglio e gioia. La madre di Charlie stessa gli aveva ricamato quella veste per le nozze dei suoi genitori, in flanellina giallo limone, con ricami blu al collo, delicati come tratti a matita. Ma dov’era? «Vado a cercarla», decise improvvisamente. «Ma Dev...» «Vado.» Si volse e si incamminò passando attorno alla casa, il peso delizioso del figlio tra le braccia, diretto alle stalle.


La vide assieme a Lowdy nel centro del cortile colmo di carrozze, entrambe immobili. Le due donne gli voltavano le spalle, e non riusciva a capire cosa stessero facendo. Quando lo udirono si voltarono, e vide che tra loro c’era Gabriel, accovacciato sulle zampe posteriori, la lingua penzoloni. Lily si illuminò, vedendolo, poi assunse un tono di scusa. «Mi spiace, sto facendo ritardare tutto, vero?» «Va tutto bene», disse tendendo il piccolo a Lowdy, poi prendendo una mano di Lily e baciandola. «Sei bellissima.» Non aveva mai visto l’abito rosa di seta damascata, semplice e molto elegante, con pizzo argentato attorno alle maniche e alla scollatura profonda. I capelli erano raccolti in un delizioso chignon, e la sua figura alta e aggraziata non era certamente meno desiderabile ora, solo perché un poco appesantita. «Anche tu sei bellissimo», e nel dire quelle parole gli occhi verde-grigio brillarono. Devon si pavoneggiò nel suo allegro gilet rosso. «Stanno tutti aspettando, vero? Chiese Lily. «Ma volevo che ci fosse anche Gabriel, al matrimonio. Mi spiace...» Devon rispose, risoluto: «Ma certo che deve venire». «Solo che non ho pensato a quanto tempo ci avrebbe impiegato a fare questo tratto. Si sta riposando.» Abbassarono lo sguardo, fissando il cane ansimante, che prontamente li guardò e, felice, scodinzolò. «Gli hai detto che Midge lo sta aspettando? Forse si muoverà più in fretta.» Lily fece schioccare la lingua, indignata. «Ti ho già detto, Dev, che Gabriel non è innamorato di quell... animale che tua madre si ostina a chiamare cane.» «L’amore è cieco, mia cara. Il che è un bene per molti di noi.» Gli si avvicinò, passandogli le braccia attorno al collo. «Non per te», mormorò sorridendo. «I miei occhi sono spalancati.» Devon le baciò le palpebre chiuse, sussurrando qualcosa che Lowdy non poteva udire, anche se si fosse sforzata. Ma quando la coppia iniziò a baciarsi davvero, gli occhi della ragazza si spalancarono per la sorpresa. Proprio lì, nel cortile della stalla, fronte contro fronte, braccia avvinghiate, bocche schiacciate l’una all’altra. E le cose si spinsero ancora più in là quando il padrone iniziò a muovere le mani attorno alla vita della sua neopadrona, scendendo indecentemente. Ma poi giunse il predicatore dal naso lungo, rovinando tutto. «Su, su, allora, venite?» tuonò il reverendo Hattie, dirigendosi verso di loro. Lily e Devon si interruppero e si separarono senza molta fretta e nemmeno un briciolo di vergogna. «Voltatevi, entrambi, ed entrate subito in casa.» Senza tante cerimonie, prese il bambino dalle braccia di Lowdy e con il braccio libero esortò tutti a muoversi. «Su, muovetevi! Giuro che questo piccolo avrà dei genitori onestamente sposati entro i prossimi dieci minuti, o non so che cosa succederà.» Devon scrollò le spalle, rassegnato. «Avete proprio ragione, reverendo. Un uomo deve sempre fare il proprio dovere, anche se il compito può essere molto gravoso.» Ridendo, strinse a sé Lily e, quando cercò di replicare, la baciò. «Basta così, fino a quando sarete sposati», li esortò il parroco; poi guardò il bimbo che teneva tra le braccia. «Beh, non che ormai faccia poi grande differenza.» Charlie lo fissò, incantato. Nel frattempo, Gabriel si era alzato con grande attenzione e aveva iniziato a muoversi verso la casa, guidando quell’insolito corteo con passo lento e dignitoso.


Lily e Devon lo seguivano, tenendosi per mano. «E tu chi sei?» chiese poi il reverendo, volgendo un poco il collo. «Loveday Rostarn, vostro onore», Lowdy rispose impettita. Decise poi di ampliare la risposta. «Quella che dovete sposare la settimana prossima con Galen MacLeaf.» «Non hai ancora un figlio, vero?» «Ma come!» rispose Lowdy, arrossendo con grazia. «Sono quei due che non riescono a tenere le mani lontane l’uno dall’altra», dichiarò facendo un cenno alla coppia che stava camminando dinanzi a loro. «Io e Galen, invece...» Ma si interruppe, restia a mentire a un religioso. «... siete stati fortunati, fino a ora», concluse astutamente il reverendo. Lowdy sorrise. «Beh, potrà anche essere, reverendo, ma dovete sbrigarvi a sposare quei due.» «E perché mai, Miss Rostarn?» «Ma non è chiaro come la luce del giorno? Basta che guardate questo qui che tenete tra le braccia, e potete capire come sono, loro.» E, infatti, i due, oggetto della conversazione, avevano iniziato nuovamente a baciarsi e ad accarezzarsi. «Se fossi in voi, farei in fretta, vostra grazia, per essere sicuro che non ci sia un altro bambino nato prima della prossima primavera!» FINE


Breve Biografia dell’autrice Patricia Gaffney è nata il 17 dicembre a Tampa in Florida, ed è cresciuta a Bethesda, nel Maryland, un sobborgo di Washington, DC. Ora vive in Pennsylvania con il marito. Dopo aver conseguito le lauree in letteratura e in filosofia, e aver fatto il mestiere di insegnante per un po', ha fatto anche la reporter freelance, ma solo nel 1989 si è dedicata con successo alla narrativa, pubblicando il suo primo romanzo storico seguito da lì a poco da altri best sellers nel campo dei romanzi.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.