INDICE
Introduzione
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Centuriazioni del paesaggio Veneto
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Il contesto di progetto: Istrana
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Bibliografia
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INTRODUZIONE Le cave di origine estrattiva: una risorsa sconosciuta Con la presente tesi si intende portare in evidenza le enormi potenzialità latenti di un contesto tuttora ai margini dell’interesse culturale comune: le cave della Pianura Padana. L’attività estrattiva è particolarmente diffusa nell’Italia nord-orientale, ma la sua consistenza è apprezzabile solamente dall’obiettivo di un satellite. Questi luoghi alimentano ininterrottamente dalla seconda metà del 1900 l’espansione urbana sul territorio attraverso la fornitura di materie prime: pietre, ghiaia, marmi, vengono strappati al suolo per esser inseriti nei più svariati processi edilizi, al termine dei quali sono poi reinseriti nel territorio sottoforma di prodotti finiti. Non si tratta di un circolo virtuoso. La trasformazione delle risorse disponibili all’interno dei cicli produttivi, ha innescato una metamorfosi irreversibile del territorio stesso, processo approfonditamente documentato da una vasta letteratura sull’argomento. 1 Le cave rappresentano i luoghi da cui trae origine il processo di trasformazione, e sono casi di deturpazione del territorio. Rappresentano delle galassie completamente avulse dal contesto circostante, tenute in vita per il tempo necessario all’attività estrattiva e poi abbandonate a se stesse, senza alcuna logica di recupero o al massimo convertite in discariche. Lo sfruttamento del territorio è divenuto talmente incontrollato e dannoso da costringere la regione Veneto a regolamentare l’attività estrattiva per limitare i danni al territorio, le cui conseguenze vengono definite “effetto groviera”, ovvero la presenza massiccia di cave che forano quasi ovunque il paesaggio. La portata del fenomeno è sconosciuta ai più perché la presenza delle cave è sempre celata per ragioni di sicurezza, tanto che veri e propri pezzi di territorio sono recintati da barriere vegetali o recinzioni e aggirati dalla viabilità. Mentre il contesto si evolve secondo le logiche più o meno articolate dei vari piani regolatori, le cave rimangono dei mondi introversi che annullano qualsiasi legame con l’intorno. Solo negli ultimi anni si è avviata un’approfondita analisi del fenomeno sia a livello europeo, sia regionale, che ha portato a una regolamentazione del problema - in modo particolare attraverso il P.R.A.C. (Piano Regionale Attività di Cava) - e successivamente a delle ipotesi di intervento per un vero recupero di questi luoghi che consenta letteralmente di “ricucire al contesto” le cave dismesse e di pianificare il futuro delle cave attive. Riqualificare una cava consente di recuperare un luogo privo di relazioni con il contesto poichè durante la fase di estrazione è totalmente recintata e nascosta alla vista per motivi di sicurezza, e terminata la fase di estrazione i siti vengono dimessi e convertiti a uso agricolo, piantumazione, rinverdimento o discarica. Nel caso di affioramento della falda freatica, l’area viene adibita ad attività di pesca sportiva. Queste iniziative non sono sufficienti a salvaguardare una realtà di insostenibile sfruttamento del territorio: nel solo Veneto si contano circa 600 cave attive di cui 71 nella provincia di Treviso. Una cava è un luogo, spesso molto esteso, di grandi potenzialità e di interesse paesaggistico per la presenza di vaste aree verdi, un’orografia del terreno articolata e spesso per la presenza di estese superfici d’acqua. La riqualificazione di una cava permette di preservare altre aree del territorio da nuove costruzioni e restituisce alla collettività luoghi di cui spesso ignora l’esistenza
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Cifra relazione piano regionale attività di cava. (P.R.A.C.)
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Un edificio energeticamente efficiente: una necessità divenuta imprescindibile La crescente preoccupazione per l’esaurimento delle fonti energetiche non rinnovabili, la costante ascesa sul mercato del prezzo di risorse come petrolio e metano, i danni all’ecosistema mondiale e alla salute umana provocati dall’emissione di inquinanti dovuti all’utilizzo di combustibili fossili - per non parlare del costo sociale ed ambientale che tutto questo comporta – richiedono da parte dell’architetto la capacità di misurarsi con le nuove tecnologie in grado di sfruttare l’energia solare e le altre risorse rinnovabili. Il sole rappresenta una fonte praticamente inesauribile di energia pulita a costo zero. Il fabbisogno mondiale annuo di energia è stimato intorno ai 9 miliardi di TEP [2](Tonnellate Equivalenti Petrolio). Il sole nello stesso arco di tempo irradia sulla terra circa 19.000 miliardi di TEP. Le tecnologie per lo sfruttamento dell’energia solare sono da tempo presenti sul mercato ma non godono di grande diffusione in campo edilizio. La causa principale risiede nel loro elevato costo economico rispetto alle altre tecnologie di produzione energetica maggiormente diffuse nel settore, le quali del resto presentano alti costi sociali. Anche il campo della sperimentazione è attivo da tempo ma non registra avanzamenti tali da essere paragonato ad altri settori di impulso tecnologico (valga d’esempio la rapidità di avanzamento tecnologico della telefonia mobile). La diffusione su larga scala di impianti termosolari e fotovoltaici stenta ancora a concretizzarsi anche in ragione di una politica economica tradizionalista cui manca una matura “coscienza ecologista” che inquadri il fenomeno dello sfruttamento dell’energia dal punto di vista dello Sviluppo Sostenibile. Solo nell’ultimissimo periodo sembra essersi avviato un trend positivo sull’investimento di risorse nel campo dell’energia solare e il mercato è in forte espansione in tutto il mondo. Dal lato dell’offerta, il mercato mondiale è oggi dominato da poche grandi compagnie (Shell, BP, Totalfina, ecc). Si è passati da 43 aziende attive nel settore nel 2000 a 64 nel 2003, anche se le prime 10 compagnie detengono l'84% del mercato mondiale. Nell'Unione Europea la crescita del solare fotovoltaico è stata trainata per l'88% dal mercato tedesco con una potenza fotovoltaica installata di 794 MWp, a fronte dei 30 MWp dell’Italia preceduta anche da Paesi Bassi con 47 MWp e Spagna con 38 MWp. [3] In Italia alcune imprese stanno cominciando a investire parecchio sul solare anche in seguito agli incentivi promessi dal D.M. 28 luglio 2005, ratificato con D.M. 6 febbraio 2006, che dovrebbe portare a breve anche nel nostro paese ciò che in altre parti, come in Germania, è già realtà, ovvero la possibilità per chi decide di dotarsi di impianto a pannelli fotovoltaici di ritornare di parte dell’investimento grazie a contributi statali, e di vendere l’energia elettrica prodotta in surplus dal proprio impianto direttamente al gestore elettrico. In questo modo gli edifici assumono una funzione non più passiva, ma attivamente partecipe del bilancio energetico globale. Cresce costantemente l’interesse in campo edilizio per gli impianti di teleriscladamento che consistono nella produzione centralizzata di calore e la sua distribuzione ad un elevato numero di utenze. Il teleriscaldamento è usato soprattutto in aree urbane dove esistono grandi produttori di calore (per es. inceneritori, centrali di cogenerazione, cementifici), o fonti naturali d'acqua calda (stazioni termali, geyser). Il calore è distribuito tramite una rete che conduce acqua calda (distanze brevi) utilizzabile anche come acqua calda sanitaria, o vapore a bassa pressione (distanze più lunghe) il cui calore è ceduto, tramite scambiatori, agli impianti di riscaldamento di singoli edifici. La produzione centralizzata di calore è più economica (soprattutto in centrali di cogenerazione) e comporta meno emissioni rispetto a quella individuale. Ulteriori vantaggi risultano dalla produzione combinata di calore ed energia elettrica in centrali di cogenerazione. Presentano meno vincoli dei precedenti, i più versatili impianti a biomassa e gli impianti geotermici che sfruttano l’energia ricavata rispettivamente dalle materie vegetali e animali, e dal terreno (suolo o falde acquifere). Le possibilità offerte dagli impianti che sfruttano le varie forme di energia menzionate sopra, sembrano legarsi indissolubilmente al nostro futuro ma attendono delle risposte. Risposte legate alla loro probabile presenza nella nostra vita. Una presenza che chiede di essere progettata per poter essere accettata, e per essere accettata deve potersi integrare. Non si può allora pensare ai sistemi ad energia solare o a impianti geotermici senza l’architettura per i quali sono destinati. Progettare equivale a fornire una determinazione 2 3
Fonte: energoclub.it Fonte: C.E.T.A. (Centro di Ecologia Teorica ed Applicata)
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formale, una risposta. Progettare il recupero di una preesistenza o ideare una nuova architettura trascurando costi e benefici socio-economici originati dalla sua esistenza, si riduce a un mero esercizio accademico. In futuro il solare potrebbe essere una delle voci imprescindibili cui il progettista dovrà tener conto per veder realizzata la sua opera. La questione diviene lapalissiana se ne considera il risvolto meramente economico. La presenza di impianti ad energia rinnovabile condiziona il ciclo di vita dell’edificio e la sua concreta fattibilità realizzativa. La necessità di integrazione tra architettura e impianto – qui inteso nella sua accezione generale di elemento in grado di produrre energia, sia essa elettrica o termica – pone tutta una serie di tematiche estetiche e compositive che travalicano l’aspetto meramente funzionale. L’integrazione degli impianti non fornisce solo vantaggi economici, ma apre un’inesplorata casistica di possibilità espressive le cui potenzialità formali sono ancora da scoprire. L’impianto non diverrà esclusivamente elemento economicamente necessario per la vita dell’edificio, ma potrà essere concepito come elemento qualificante. Il mercato attuale del fotovoltaico, per esempio, mette a disposizione un’ampia gamma di componenti per l’edilizia, sia finalizzati all’utilizzo in interventi di retrofit su costruzioni esistenti, sia da integrare nelle nuove costruzioni. L’inserimento di elementi fotovoltaici nel rivestimento esterno degli edifici, può contribuire a migliorarne le qualità estetiche e funzionali. Dal punto di vista strettamente energetico l’attenzione è attualmente concentrata sul tema della certificazione energetica, resa obbligatoria in tutti gli stati UE a partire dal 2006 in virtù della direttiva CE/91/2002. La certificazione è già sperimentata da alcuni anni con successo negli Stati Uniti (Energy star) e in molti paesi europei, tra cui Olanda, Germania, Francia, Danimarca ed Inghilterra. Con la presente tesi, si pensa a un edificio che utilizzi energia proveniente da fonti rinnovabili. Esistono edifici progettati per sfruttare nella maggior parte dell’anno i benefici di una corretta ventilazione naturale, demandando il funzionamento degli impianti di regolazione della temperatura e della qualità dell’aria alle sole condizioni climatiche critiche. Il mercato propone materiali e componenti edilizi in grado di ridurre il fabbisogno energetico di un edificio: si va dai vetri selettivi, ai materiali a cambiamento di fase, ai super isolanti, ai controsoffitti radianti, alle facciate a doppia pelle (sia opache sia trasparenti) agli sperimentali impianti solar cooling. Gli esiti non sono affatto scontati e preludono a un piccolo campo di opportunità entro cui potersi muovere. L’utilizzo smodato di fonti di energia non rinnovabili rischia di divenire incompatibile con il ciclo di vita utile di qualsiasi nuovo edificio. Per tale ragione il recupero e il risanamento del territorio locale, per esser tale, deve comportare una politica globale di fondo improntata sul rispetto dell’ambiente e l’effettiva sostenibilità dei vari progetti. Il forte carattere “rurale” del luogo-cava richiama nell’opinione comune valori - quali il rispetto del territorio, il contenimento dei consumi energetici, l’utilizzo di risorse eco-compatibili propri dell’edilizia sostenibile. La presente tesi intende proporre un percorso progettuale che valorizza le caratteristiche intrinseche dell’area di cava, partendo dall’analisi storica del territorio, attraverso lo sviluppo di un’architettura energeticamente efficiente che utilizza le risorse proprie dell’area. La riqualificazione di luoghi di interesse sociale e paesaggistico quali sono le cave, può fungere da traino per la diffusione dell’edilizia bioclimatica e l’uso di fonti di energia rinnovabile anche nel recupero di contesti differenti.
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CENTURIAZIONI NEL PAESAGGIO VENETO Le origini di un’identità culturale Il paesaggio agrario, nei tratti caratteristici della pianura veneta dal Po alle Prealpi, dal Mincio al Tagliamento, si presenta oggi in un ordinato disegno che, con una regolare divisione degli appezzamenti coltivati, strade aperte nella campagna e canali che regolano le acque, filari di vigneti e frutteti. Non è possibile spiegare e capire il quadro generale che l’attuale paesaggio agrario offre ai nostri occhi senza risalire alle radici di questa razionale organizzazione della terra, legata ad un particolare momento storico,durante il periodo di Roma, indicata con il termine centuriazione. Nei secoli infatti una profonda trasformazione agraria e militare, iniziò nel territorio veneto, risultando tanto incisiva da aver condizionato nei secoli successivi l’intero volto ambientale di questo territorio. Con l’arrivo dei Romani si assiste ad un radicale salto di qualità nel modo di organizzare le attività legate alla lavorazione della terra, con rilevanti conseguenze socio-economiche. Prima del dominio di Roma, la pianura veneta doveva presentarsi con maggiori o minori isole coltivate, che si stendevano intorno ai diversi nuclei insediativi, lasciando larghi spazi ad un paesaggio pressoché intatto nei suoi naturali e liberi contorni. A mutare profondamente un tale quadro ambientale intervengono i Romani quando, in seguito alla sottomissione di gran parte della Cisalpina, anche il destino delle terre venete trova spazio nei loro interessi politici e militari. La deduzione della colonia latina di Aquileia, nella parte orientale della Venetia aveva chiaramente denunciato le presenti e le future intenzioni della politica di Roma nei riguardi dell’intera regione. Analogamente ad altre colonie di diritto latino dedotte precedentemente nella Cisalpina, anche per Aquileia si trattava di una vera e propria operazione militare intesa al controllo stabile di un territorio tolto alle popolazioni galliche e divenuto quindi per diritto di conquista dominum ex iure Quirintium. Infatti, i 3000 pedites, i centuriones e gli equites, trasferiti nel 181 a.C. nell’agro acquilese, rappresentavano un consistente insieme d’uomini, militarmente organizzato, un reparto dell’esercito quindi, che si stanziava definitivamente intorno alla città, trovando nelle proprietà fondiarie assegnate il sistema di auto sostentamento e nella propria ordinata struttura, il mezzo per respingere ogni eventuale attacco. I tremila fanti-coloni ebbero 50 iugeri a testa, pari a dodici ettari e mezzo di terreno, i centurioni ricevettero 100 iugeri (ha. 25) e i cavalieri 140 (ha. 35) ognuno. Si trattava di consistenti proprietà che venivano a coprire circa 500 chilometri quadrati, pari a gran parte della bassa e anche della media pianura friulana alla sinistra del Tagliamento. Su una tale superficie gli agrimensori romani precedettero ad una precisa delimitazione e misurazione delle terre da distribuire mediante un regolare e preciso reticolato, formato di linee parallele e perpendicolari fra loro e incrociatesi ad angolo retto a intervalli costanti (decumani e kardines), in modo da ottenere un perfetto disegno geometrico composto di superfici uguali (centuria), entro le quali erano definiti i singoli lotti da assegnare. Una nuova immagine veniva così incisa sul territorio; razionalmente concepita ed ordinatamente tracciata in ogni suo particolare dal poderoso lavoro degli agrimensori romani, legata alla necessità dei nuovi venuti. Con la regolare lottizzazione del terreno, scandita dai decumani e cardi, larghe distese boscose scomparivano per lasciar luogo agli spazi coltivabili, mentre si moltiplicavano le opere di controllo delle acque in modo da raggiungere un equilibrio idraulico che, eliminando le zone acquitrinose, era ora in grado di prevenire gli impaludamenti e il pericolo di rovinose esondazioni. Tale ristrutturazione ambientale trova poi il suo completamento nelle terre lavorate e coltivate e nelle case dei coloni, sorte sulle singole proprietà e disseminate nel vasto agro. Grandiosa opera finalizzata all’occupazione militare del territorio, dove ogni colono si riproponeva la figura di Cincinnato, pronto a lasciare l’aratro per impugnare la spada. E che questa centuriazione debba essere intesa non solo come stabile presa di possesso della regione, ma anche quale larga centuria difensiva, posta intorno alla città, può essere dimostrato dall’invio a Aquileia, nel 169 a.C. di un altro contingente di coloni. Due anni prima la colonia si era rivolta a Roma lamentando di non avere sufficienti difese “inter infestas nationes Histrorum et Illyriorum” (Liv., 43, 1-5), che rappresentavano una costante e concreta minaccia contro Aquileia. A questa richiesta di aiuto, il Senato romano rispondeva inviando nella Venetia orientale 1500 coloni, e ciò significava che le necessità prospettate dagli Aquileiesi erano determinate non tanto dal
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bisogno di rinforzare le difese cittadine quanto invece dalla difficoltà di portare a termine pacificamente le lunghe e complesse opere legate alla divisione agraria, che veniva a costituire con i suoi fanti-coloni un vero baluardo intorno alla città. Infatti più che nella cinta delle mura, Aquileia trovava la sua protezione e la possibilità di assolvere il suo ruolo di città di frontiera proprio nel moltiplicarsi delle assegnazioni agrarie e nelle case dei coloni, che diventavano garanzia di sicurezza per la città. A queste ragioni strategiche si pensa siano da ricondurre più tardi anche le centuriazioni stese fra Verona e Vicenza, e nel territorio di Cittadella e di Asolo, tutte impostate sul percorso della Via Postumia, costruita nel 148 a.C. da Genova a Aquileia. Un evento storico, l’invasione e saccheggio del paese da parte dei Cimbri nel 102 a.C., terminato grazie all’intervento di Mario che “poneva fine ai Campi Radui”, (Plut.,Mar.,24-27;Polien.,8,10,3;Eutrop.,5,2) portava nuovamente in primo piano il problema della sicurezza del territorio. L’improvviso pericolo in corso per le popolazioni venete in particolare, imponeva ora a Roma adeguate misure di difesa per impedire il ripetersi di nuove incursioni. Il problema riguardava anche la messa in sicurezza dei luoghi strategicamente più importanti, fra i quali quelli attraversati dalla Via Postumia, che correva dopo Verona e per lungo tratto a ridosso di quei monti dai quali poteva in ogni momento presentarsi minaccia. La risposta a tale necessità quindi veniva col tracciamento degli agri censuari e la costante presenza dei coloni a garantire la sicura agibilità della via. La Via Aquileia, invece, datata 74 a.C. (Bosio 1970, p.123) nel percorso da Padova ad Asolo risulta non rettilineo, venendo ad attraversare un territorio pianeggiante; spiegherebbe il suo particolare tracciato in un precedente agrario, impostato sulla Postumia del quale il tratto settentrionale nella futura via veniva a far parte del Kardo. Infatti in questo tratto la Via Aurelia corre ortogonale alla Postumia fino all’odierno paese di Resana, dove aveva termine questa centuriazione. Condizionato da questa precedente direzione prefissata, il costruttore della strada, per arrivare a Padova, fu poi costretto a piegare il suo percorso, dando alla via stessa un’angolazione specifica. Tali centuriazioni impostate sulla Via Postumia, come anche lo stesso titolo di colonia, da attribuire a quel tempo a Verona, potrebbero dare ragione al Sartori (1981, p.115) che parla di colonie latine fittizie nella Venetia in seguito alla lex Pompeia del 89 a. C.. La Postumia quindi divenne, per i territori a Nord e Sud di essa, asse portante, o meglio il decumano maximus di queste centuriazioni, la lottizzazione trovava il suo regolare sviluppo del centro dei limites (decumani e kardines). La centuriazione non deve essere intesa solamente come grande fenomeno di trasformazione del paesaggio o mezzo di sviluppo economico, ma un fatto culturale in quanto viene a modificare il modo di pensare e quindi di essere di una società. Chi legge il territorio oggi, percorrendolo o osservandolo da una fotografia zenitale, può osservare come coltivazioni, filari di alberi, fossi, strade, siano ancora condizionati da un preciso orientamento che ripropone e richiama le linee portanti dell’antica centuria romana.4
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Saggio cura di Luciano Bosio in “Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto”
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La lettura del paesaggio Padova Padova, già in epoca paleoveneta fu centro di primaria importanza. Divenne municipium dopo il 49 a.C e la sua posizione strategica la metteva in comunicazione diretta con i maggiori centri veneti. Il quadro viario trovava il suo completamento nel corso del Brenta, l’antico Meduacus, che allora traversava il centro cittadino, aprendosi così a fiorente porto fluviale, collegato attraverso il fiume alla vicina laguna veneta e al mare Adriatico. La lettura del territorio effettuata con l’occhio satellitare, trova riscontro in alcuni segni rimasti leggibili, della centuriazione impostata sulla Via Postumia, che fungeva da decumano massimo. La lettura risulta interessante se comparata alla cartografia storica. Il cardo massimo era inclinato di 13° 30’ ad Ovest, non rispettando l’orientamento astronomico, ma adattandosi all’andamento della grande via consolare. Il Fraccaro individuava il cardo massimo in una via di notevole importanza , quella che partendo da Padova, attraverso Tavo e S.Maria di Non, si dirigeva verso il massiccio del Grappa (Fraccaro 1940, p.120 ss.). L’opera agraria si appoggiava così a due importanti vie di comunicazione: la grande via consolare che univa Genova ad Aquileia e la via che univa ai pascoli prealpini, con funzione economico commerciale. I cardi e i decumani formavano centurie quadrate di 20 actus di lato, secondo il modulo classico, lo stesso che ritroviamo anche nella zona di Camposapiero, anche se con differente orientamento (infra, Mengotti). Lo studio di Dorigo riscontrava un'inclinazione della centuriazione di 11° e modulo di 20x21 actus5. Il modulo di 20x20 actus rende anche maggiormente ragione della divisione interna delle centurie in quattro appezzamenti di terreno, delimitati da canalette di scolo, sentieri o filari di alberi, il cui orientamento seguiva quello della Postumia (Fraccaro 1940, p.111 ss; Benetti 1971,p.4). Meno sicura invece sembra invece la posizione del cardo massimo che potrebbe essere rappresentato da un’antica strada individuabile che corre attualmente parallela alla SS. 47 Valsugana e che è ancora individuabile in parte a Nord di Cittadella, fino al Crosaròn. Questa via lascia Bassano nella sinistra e si perde alle pendici dei monti. Il suo tracciato è documentato molto chiaramente nella Carta Catastale Austriaca (fogli VI e XI), e anche in una mappa che risale al 1701, con un significativo nome di “via Vecchia”, rispetto alla “via Regia da Cittadella a Bassano” (Fraccaro 1940, p.129, Ramilli 1978, p.10 ss.) In seguito al ritrovamento di un cippo romanico iscritto che individua con sicurezza l’ VIII decumano della Postumia, si è pensato che il cardo massimo fosse spostato di due centuria ad Est rispetto alla “via Vecchia” identificandosi in un cardo conservato parzialmente a Nord di Cittadella, pochi metri a oriente dell’attuale ferrovia (Ramilli 1972, p12; Dorigo 1983, p61, nota 145).6
Padova Nord-Est (Camposampiero) Una regolare divisione stradale a scacchiera emerge chiaramente a Nord-Est di Padova nel territorio limitato ad Ovest dal corso del Brenta e ad Est da quello del torrente Musòn Vecchio, percorso da nord a sud dalla Statale n.°307 “Strada del Santo”, lungo la quale si snoda il centro di Camposampiero. Nonostante la scarsità di documenti cartografici –iconografici e fonti storico letterarie nonché epigrafiche, tale disegno viario fu uno dei primi ad essere indicato come un’antica centuriazione romana. La sua scoperta risale al 1846 per opera del Legnazzi. La ricerca più recente, quella di Dorigo (Dorigo 1983, pp. 58-63, p.81) ha individuato ad Est della centuriazione di Camposampiero altri due reticoli, con diversi orientamenti , coprenti in parte anche l’area lagunare. Centurie di 20 actus di lato, corrispondenti a 710 metri circa, formavano una superficie di 200 iugera (100 heredia), la più frequente unità agrimensoria. “Subseciva”, aree incomplete (Frontino, De Limitibus, p.6), venivano a trovarsi lungo il Musòn; in tali centurie le assegnazioni dovevano perciò essere tracciate per flexus, seguendo le caratteristiche del terreno, in questo caso secondo la linea del fiume. L’eccezionale stato di conservazione del reticolo, in particolare del 5
Unità che sembra trovare riscontro nella situazione topografica conservata (Dorigo 1983,p 60) Scheda a cura di Giovanna Gambacurta in “Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto”
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“Graticolato Romano” che rappresenta la sua parte orientale, permette la lettura anche dei limites intercisivi. Se ne individuano facilmente tre, di cui il più conservato è quello mediano (Fraccaro 1940, p.111), distanti tra di loro 600 piedi romani (pari a metri 177 circa) e suddividenti la centuria in quattro scemna, strisce rettangolari di 50 iugera l’una. Oltre ad essi, sembra di poterne rilevare altri quattro nella stessa direzione: le centurie sarebbero perciò ripartite in otto strisce rettangolari di 25 iugera da sette linee interne, distanti perciò tra di esse 200 piedi romani, pari a m. 88 circa. La sopravvivenza di molte tracce tuttora visibili si può riscontrare osservando la pianura veneta mediante immagine satellitare.7
Treviso Tarvisium, abitato fin dall’età del Bronzo medio (Leonardi 1976; ) diventa municipium in età compresa tra il 49 a.C. data di concessione della cittadinanza, e il I d.C.. L’agro centuriato trevigiano occupava l’alta pianura a Nord della città, compresa fra Montebello e il Piave. Il Fraccaro rilevò tra Brenta e Piave le tre centuriazioni di Cittadella, Asolo e Treviso, proponendo per la centuriazione di Treviso un modulo di 21x21 actus (Fraccaro 1940, p.82) e indicando alcune direttrici con orientamento NO-SE in una pianta esposta in occasione della Mostra Augustea della Romanità del 1937. Pilla, confermando il modulo, riconosce come agro trevigiano il quadrilatero con vertici Montebelluna, Nervesa, Fagarè e Istrana (Pilla 1966). Ipotizza come Kardo Maximus la strada che da Caonada attraversa i comuni di Volpago, Ponzano, e Treviso, chiamata l’Antiga, e come Decumano Maximus la Morganella, dalle sorgenti del Sile a Lovadina. Pone questa limitazione in epoca compresa tra il 42 a.C. e I d.C. e giustifica l’orientamento NO-SE con la pendenza del terreno. Dorigo sostiene un orientamento 47° NO e indica come Kardo Maximum la Spresiana-Istrana o la BredaTreviso e come Decumano maximum l’Antiga da lui identificata nella Montebelluna-Treviso e propone come confini quelli già indicati dal Pila. Considera Treviso partecipe della centuriazione e conferma una datazione tra il I a.C. e il I d.C. (Dorigo 1983, p55 ss.). L’orientamento della centuria identificata, troverebbe giustificazione su precise esigenze: da una parte sfruttare la pendenza del terreno per migliorare lo scorrimento delle acque (Tozzi 1974, p.9), dall’altra distinguere il territorio di Treviso da quello adiacente di Asolo (Hyg.Grom. , De limitibus constituendis, p.170). Nonostante la mancanza di elementi sicuri, per stabilire quali fossero i cardini e i decumani, vengono indicati i primi quelli con orientamento SE-NO e i secondi quelli con orientamento SO-NE. Sopravvivenza di questi segni, è riscontrabile nella presenza di strade, fossi e carrarecce molto evidenti nelle mappe più antiche e nelle foto zenitali. Inoltre numerosi capitelli in ricordo dei compita, tempietti ai Ladri protettori, sono ancora posti agli incroci dei due limites antichi (Misurare la terra, pp.265, 138) e i toponimi Croce, Crosera, Capitello e Calle, riconducibili alla centuriazione (Chevellier 1983, pp 34,66.) sono frequenti nella zona.
Il cardo più occidentale è individuabile nella strada Montebeluna-Treviso, la cosi detta Feltrina, attestata alle mappe del XVII secolo come Cal Travisana; il secondo verso Est è rappresentato dall’Antiga, il cui tracciato nelle mappe del XVII secolo, corre rettilineo da S.Ten fin sopra la Postumia , visibile attualmente solo nel tratto in località S.Ten vicina Treviso, e come strada campestre all’incrocio con Morganalla. Il terzo è segnato dal tratto di strada a sud della via Postumia, per Piani e Belvedere fino alla Schiavonesca Vecchia; il quarto passa per Merlengo, S.Vito.8
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Saggio a cura di Cristina Mengotti in “Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto”
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Saggio a cura di Paola Furlanetto, in “Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto”
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Istrana Alcuni studi sulle centuriazioni romane indicano il comune di Istrana come appartenente, almeno nel versante ovest, al centuriato di Asolo (anticamente Acelum) mentre il restante territorio comunale doveva appartenere all’agro di Treviso, con importanti addensamenti lungo la Via Postumia e le risorgive del Sile e affluenti. Studi recenti, dopo un ampio rilevamento nell’area interessata e con un attento esame delle immagini ricevute dal satellite SPOT, ipotizzano l’Agro Trevigiano come una maglia di 21x20 actus che, ritenendo un actus 35,52 mt, corrisponde a 745,92x710,40 mt. E’ interessante notare che la misura del campo trevigiano di 5204,70 mq si può ottenere, dopo gli aggiustamenti dovuti alla presenza delle strade, dalla divisione in cento parti della centuria romana che misurava 529.887,36 mq; si potrebbe cioè pensare che la dimensione del campo trevigiano derivi dalla impostazione agraria romana che venne realizzata nella seconda metà del I secolo a.C., nel periodo in cui Giulio Cesare concesse la cittadinanza romana alle popolazioni venete (49 a.C.). Il segno più evidente dell’intervento romano è la suddivisione regolare degli appezzamenti di terreno subito a sud della ferrovia nella parte ovest del comune. Sovrapponendo all’attuale configurazione fisica del territorio la ricostruzione del territorio, si nota che le attuali: via dei Fiori (a cavallo della ferrovia), via Garibaldi (parte alta) e via Graziotto (verso Villanova) corrispondono quasi con i supposti limiti delle centurie. Non mancano alcune scoperte storico-archeologiche a testimoniare la probabile origine romana di Istrana. Il maestro Cavallini di Cavasagra, ricercatore di storia locale e studioso di archeologia, sosteneva nei suoi scritti che la stradina sovrastante l’attuale cava Sartor di via Lazzaretto sarebbe un tratto superstite di una antica strada romana del Veneto, forse antecedente la Postumia, e che proprio in questa zona ebbe ad insediarsi una colonia romana, che qui si stabilì e visse floridamente per un tempo imprecisato. Ciò è stato suffragato anni fa con la scoperta di una tomba romana avvenuta nel corso di un normale escavo di ghiaia. Conteneva un’anfora di terracotta, con all’interno alcune monetine di rame (il “pedaggio”per propiziarsi il regno ultraterreno), oltre a vari oggetti ornamentali tra cui una pigna perfettamente scolpita in un blocco di roccia. Negli anni 65-70, nella medesima cava, si sono avuti altri interessanti ritrovamenti con la complicità delle pale meccaniche: reperti di inconfondibile origine romana e pre-romana. Sappiamo che le origini di Treviso risalgono all’epoca della conquista romana, preceduta a sua volta da una presenza etrusca. I testi ci hanno tramandato pure l’informazione che il corpo dei defunti stava in tombe primitive fatte a pozzo, in cui veniva posta l’urna funeraria. Nei ritrovamenti i bulldozer hanno portato alla luce ben cinque pozzi disposti in perfetta simmetria e distanziati circa tre metri l’uno dall’altro. Nella loro struttura tali pozzi sono apparsi come scavi inizialmente cilindrici, che assumono poi la forma di grandi anfore. Erano rivestiti con muratura di mattoni e l’interno era quasi del tutto riempito di terra friabile, che si distingueva da quella ghiaiosa del cantiere. Non sembra, però, che in essi sia stato rinvenuto materiale di particolare interesse. La scoperta ha dato modo di studiare la tecnica costruttiva dei pozzi, che si basa su di un ingegnoso sistema ad incastro con pietre incuneate e legate fra loro. Le pietre sono risultate essere di creta, lavorata a mano e cotta al sole. Va notato come, alla distanza di non più di un chilometro, verso la frazione di Ospedaletto, esista una grande quantità di creta. L’impiego di mattoni cotti era in uso al tempo di Augusto, intorno al 60 a.C.. Facile l’individuazione di questi pozzi: sulla superficie del terreno, qualora pressato dal passaggio di automezzi, si notano degli avallamenti rotondeggianti, sotto i quali vi è lo scavo, eseguito verticalmente e contenente la tomba a pozzo. Sono stati numerosi i reperti archeologici ritrovati nel comune di Istrana. Alle fornaci di Istrana, che sorgono in prossimità del Sile, nel corso di scavi per ricavare la creta, sono stati rinvenuti resti di palafitte pre-romane, in buon stato di conservazione. Analoghi ritrovamenti, nella frazione di Villanova, verso Morgano, da parte di alcuni contadini del posto, che hanno riferito di materiale legnoso durissimo da segare e friabile in poco tempo se lasciato in magazzino. Altro ritrovamento dalle parti della Pescheria, ai confini tra la frazione di Ospedaletto e Badoere. Naturalmente sempre il fiume Sile di mezzo. Qui le pale meccaniche hanno portato alla luce pezzi di laterizi di origine romana che certamente vennero usati come riporto per fare in quel punto del Sile uno dei tanti “guadi”. Stando a importanti mappali di una strada romana e alla stessa “strategia” della zona, è da ritenere che in questo sito vi fosse insediata una guarnigione a presidio delle vie di comunicazione come strada e fiume.
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Nei pressi delle sorgenti del Sile, in località del comune di Istrana, sono venuti alla luce altri reperti poi consegnati alla Sovrintendenza alle Belle Arti, in Venezia. Si trattava di punte di freccia in selce, ossa lavorate, particolari attrezzi da lavoro in legno e, particolarmente interessante, un’ascia di pietra. La strada Postumia (o “Vecchia Postumia”, o Postumia Romana” o, ancora, “Strada Napoleonica”) tocca parte del confine comunale verso nord. Secondo studi di Mons. Angelo Marchesan (“Treviso medievale”, 1923) fu costruita nel 147 a.C. per volontà del console Aulo o Spurio Postumio Albino, con lo scopo di consentire un rapido collegamento delle nuove colonie dell’Italia settentrionale a Roma; più propriamente dalla città di Genova alla allora fiorente Aquileia, la più importante colonia in territorio veneto, al centro di una vasta centuriazione. Una strada pensata innanzitutto come chiave di strategia militare, lungo la quale ricompattare le forze in caso di attacco nemico e, in funzione preminentemente difensiva, spostare rapidamente le truppe da una parte all’altra del fronte. Successivamente con l’espansione dell’impero, la strada cambiò ruolo e divenne un’importante arteria di transito commerciale, nonché di diffusione della colonizzazione agraria romana. La costruzione di un’importante arteria viaria come la Postumia segnò indelebilmente il paesaggio non solo come traccia fisica, ma anche come occasione di primordiali insediamenti sul territorio. Durante la costruzione della strada i lavoratori avanzavano giornalmente creando mano a mano delle postazioni d’appoggio, per riposarsi e per il ricovero degli attrezzi. Primordiali baraccamenti da cui germinavano anche i primi approcci di civiltà. All’altezza dell’attuale chiesetta della Madonna delle Grazie sarebbe sorta una prima “edicola” (tempietto, luogo di devozione) romana. L’importanza che ha rivestito nei secoli la Postumia è pure testimoniata dalle leggende popolari tramandate fino ai nostri giorni. La tradizione orale, si sa, non si concentra mai su aspetti secondari della vita di una comunità, ma rinvigorisce ed esalta fatti o persone di per sé unici. La “grandezza” stuzzica la fantasia grazie alla presenza concreta nei racconti di tracce facilmente rintracciabili nella realtà. Nasce così l’appassionante leggenda del “tesoro di Attila”, un vitello tutto d’oro che il terribile condottiero unno, in un momento critico delle sue sanguinose sortite, avrebbe frettolosamente sotterrato lungo la Postumia; o i cenni dal sapore leggendario sul transito di un grande esercito con moltissimi soldati ed elefanti. Probabilmente un riferimento antico al passaggio di armate romane. E’ certo che la Postumia venne usata dalle truppe napoleoniche come arteria militarmente importante, una via strategica per collegare avamposti e presidii dislocati in mezza Europa. L’avvenimento coincise con una singolare “ordinanza napoleonica” tuttora esistente nell’archivio parrocchiale della frazione di Pezzan. E’ dell’anno 1814 e vi si esortava, senza mezzi termini, tutti i parroci della zona a segnalare i malviventi, coloro che avevano fatto parlare di sé in senso negativo, per arruolarli di forza nella non meglio definita “legione straniera” di bandiera napoleonica. Dal 1977 la strada è stata allargata ed asfaltata, a vantaggio di un rapido collegamento tra la zona di Castelfranco V.to e la strada Feltrina. L’attuale statale 53 che attraversa il cuore del paese, ne prese l’eredità a tutti gli effetti intorno al 1930, (allargamento, rettifica e asfaltatura) anche con la prestigiosa denominazione di “Nuova Postumia”. Fu tutta affiancata da filari quasi ininterrotti di alberi sia verso Treviso che verso Castelfranco, per lo più di platano ma anche di noce. Questa arteria è anch’essa caratterizzata da origini abbastanza lontane. Intorno al 1200, allorché si rese necessario un collegamento più rapido e scorrevole tra le due città comunali Treviso e Vicenza, se ne iniziò la costruzione. Ad un certo punto, e relativamente al tratto chiamato in causa, si chiamò “Regia strada postale che da Treviso porta a Castelfranco”.
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Riflessioni Una sorta di “volto ambientale” è sinonimo di identità culturale, che per mantenersi vivo non dovrebbe essere mai tralasciato nella fase di intervento su un sito, o addirittura divenire parte rilevante nelle scelte progettuali per le opere stesse progettate dall’uomo. Il processo di antropizzazione del territorio è un percorso nelle quali le scelte del progettista hanno valenza di grande responsabilità. L’intervento può valorizzare un territorio, la sua cultura e la relazione fra persone; al tempo stesso però può incidere o alterare in modo indelebile un patrimonio ambientale e culturale prezioso non appena la fase di analisi del territorio venisse meno. Un prezioso contributo può emergere da riflessioni di uno dei grandi maestri dell’architettura: Louis Kahn. Kahn afferma: “(...)scoprire i segni nascosti che attendono di emergere. L’arte è una forma di vita nell’ordine, è un grado di coscienza creativa sempre più elevato. Maggiore è l’ordine e maggiore è la diversità nel progetto. L’ordine porta all’integrazione delle parti”.
Bibliografia: “Misurare la terra: centuriazioni e coloni nel mondo romano. Il caso veneto”. A cura di: Giunta Regionale del Veneto- Dipartimento per l’Informazione Università di Padova- Istituto di Archeologia. Soprintendenza Archeologica per il Veneto. Università di Venezia- Istituto di Archeologia. Edizioni Panini. Relativamente al paragrafo riguardante Istrana: Lorenzo Morao, Enzo Fiorin, “Ospedaletto: Storia e Memorie di una Comunità”, stampato pre conto di: Banca di Credito Cooperativo di Ospedaletto di Istrana, S. Lucia di Piave (TV), 1995 Riccardo Masini, “Istrana, Paese Mio: Biografia di un comune”, S. Lucia di Piave (TV), 1995
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IL CONTESTO DI PROGETTO: ISTRANA Le origini del nome Istrana sono tuttora incerte nonostante alcuni studi siano stati condotti in merito. La definizione etimologica di questo paese veneto, dal panorama piatto e comune, non trova ripetizione in Italia o all’estero. Gli studiosi si muovono attorno alcune possibili spiegazioni. Per alcuni il nome deriva dai soldati venuti dal fiume Istro (Danubio) o dall’Istria. Congettura che trova riscontro in appendice ad uno scritto comunale del 1935, a corredo di una richiesta di riconoscimento dello stemma del Comune, che così riporta: “Il nome di Istrana nella desinenza accenna a origine militare dei soldati venuti dal fiume Istro (Danubio) o dall’Istria, per colonizzare la campagna che, nella parte superiore, è ingombra di sedimenti calcarei”. Per altri si tratta della conseguenza dell’insediamento in loco di una nobile famiglia di nome, appunto, Istrana; a sostegno di ciò vi sarebbe stata una lapide, nella chiesa di S. Maria Maggiore di Treviso, in cui si leggeva di una certa Libera Istrana, una delle ultime discendenti, oltre che moglie del noto cronista trevigiano Bortolomeo Burchiellati (1576-1632), ed è lo stesso a darne notizia. A trovare maggiore attendibilità sembra essere, tuttavia, l’ipotesi che il nome derivi da un agro locale, la cui incerta centuriazione romana si sarebbe dispersa a seguito di eventi anche alluvionali nei primi secoli dopo Cristo, ma che sarebbe stata sancita con la denominazione di “Charta Histriana”. A convalidare questa tesi si sostiene la derivazione da un nome di persona romana, attorno alla quale si sarebbero sviluppate le prime attività, il primo insediamento. Nel caso specifico Istrana, secondo un non meglio identificato Notaio Olivieri, si avrebbe dal nome personale latino “Histrius”, e, poiché la finale “anus” indica appartenenza, avremmo “fundus Histrianus”, cioè terreno di proprietà di Histrius. Anche il fiume Piave potrebbe aver partecipato ai destini di Istrana. Alcuni studiosi sostengono che lo stesso nome del paese derivi da questo fiume, affermando che, come il Danubio, veniva chiamato nell’antichità, Istro. Risulta comunque che il Piave (un tempo Istro?) attraversasse questa zona prima che un pauroso cataclisma ne deviasse il corso. La pianura veneta è l’ambiente italiano che subì nel tempo le maggiori trasformazioni naturali ed è anche quello di più recente formazione. Si avanza l’ipotesi che circa 30 mila anni fa, un immenso ghiacciaio colmasse tutta la vallata di Belluno, scendendo lungo quello che oggi è, grosso modo, il corso del Piave, fino al varco di Nervesa. Qui il ghiacciaio si scioglieva, dando origine a corsi d’acqua che trasbordavano dal loro viaggio naturale alle attuali Crocetta e Montebelluna, tanto che oggi, fino a Montebelluna, si trovano residui di morene. Un altro ramo biforcava su Vittorio Veneto e Conegliano. Il “fiume” scendeva con torrenti d’acqua alimentati dal ghiacciaio, trasportando materiale alluvionale. Questa enorme quantità di materiali si depose a ventaglio, formando due estese conoidi di deiezione, di cui quella con vertice a Montebelluna interessò anche Istrana. Da Biadene una corrente scendeva verso Treviso ed un’altra su Istrana, deviando, quindi, in direzione di Paese. Nello stesso tempo un altro grande ghiacciaio, quello del Brenta, svolgeva un’azione analoga, che però, per la diversa natura delle zone occupate, scaricò sedimenti fini a grande impermeabilità (sabbia, limo e argilla). La formazione dell’attuale pianura si completò nel periodo postglaciale quando le acque provenienti dai monti, vagando alla ricerca di un deflusso verso il mare, livellarono i materiali alluvionali, sui quali, gradatamente, depositarono uno strato di sedimenti fini e leggeri. Per effetto della diversa permeabilità del terreno, l’acqua penetrata nel sottosuolo nell’alta pianura e spinta verso sud-est dalla leggera pendenza esistente, percorre un lungo cammino, poi quando incontra strati con maggiore impermeabilità esce spontaneamente, dando origine al fiume Sile, il cui corso rappresenta anche la linea di saldatura dei due antichi conoidi fluvio-glaciali. Alcuni studiosi affermano che potrebbero essere questi gli eventi a cui risalgono le tracce di un passaggio del Piave nel comune di Istrana. Ma vi sono altre ipotesi in proposito. Il Michieli, sulla pubblicazione “Il Piave” del 1942, sostiene che tale fiume soggetto a continue tracimazioni, che causavano alluvioni disastrose, ad un certo punto sarebbe confluito nel Sile, giungendo a Morgano attraverso Crocetta, passando, presumibilmente, anche per Istrana. E’ certo da escludere la possibilità che il Piave e il Sile in una determinata epoca avessero un unico corso; ciò in quanto nei testi romani si fa cenno chiaramente al “Silis”, ma non ad altro fiume. Le testimonianze ci giungono da Plinio il Vecchio (23 d.C-79 d.C.), il quale, anche se raccolse spesso acriticamente e con scarso controllo scientifico notizie trasmesse da autori precedenti, resta una delle rare fonti dell’epoca giunte a noi. L’ ipotesi sopraccitata può essere spiegata con l’errore dei copisti, di coloro cioè che nel Medioevo avevano il compito di trascrivere i testi antichi. Molto probabilmente, nella trascrizione, sostituirono “montibus” a “fontibus” essendo, per loro, più naturale dire che un fiume nasce dai monti piuttosto che dalle fonti, come nel caso del Sile.
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Studi molto attendibili hanno stabilito con sicurezza che il Piave, attorno al 990 d.C., subì un improvviso mutamento morfologico, a causa di una gigantesca frana abbattutasi sul Fadalto. Tra i diversi studi, su di un dato fondamentale c’è convergenza: che il Piave (ex Istro o non) non ha sempre viaggiato sullo stesso letto ed Istrana potrebbe essere stata una delle episodiche “stazioni di transito”. Questa tesi è avvalorata dalle ricerche fatte nella cava di G. Sartor, sita in località Lazzaretto, che dimostrano la natura alluvionale del terreno, con ritrovamenti di fossili e sedimenti calcarei: ciottoli levigati e detriti rocciosi trasportati dal fiume.
Principali dati fisici Istrana si colloca nella parte centrale della pianura veneta, nella zona sud-occidentale della provincia di Treviso. La superficie comunale ha un’estensione di 26,32 Kmq, completamente pianeggiante e leggermente degradante verso sud-est per una media di circa 42 msl. Il comune non è soggetto ad alluvioni ed è considerato a basso rischio sismico. Istrana, posta nel mezzo dell’asse Treviso-Castelfranco e del triangolo che ha come terzo vertice Montebelluna, presenta un asse viario piuttosto sviluppato. Le arterie più importanti per prestigio storico sono rappresentate dall’antica Postumia, a nord del comune, e dalla “Nuova Postumia” che attraversa il cuore del paese e porta il maggior carico di veicoli assieme alla sp. 68 Montebelluna-Noale, ortogonale alla precedente. La linea ferroviaria Vicenza-Treviso, inaugurata nel 1877, ed ora elettrificata e potenziata, attraversa il comune in senso est-ovest ed ha una stazione di transito nel centro del paese. Dal 1952 è presente nel territorio comunale un aeroporto militare che interessa il comune per circa il 9% del territorio, pari a circa 230 ettari. Le ragioni che spinsero i tecnici militari a scegliere questa determinata zona sono legate alla posizione strategica insostituibile del comune, in quanto ubicato in una zona centrale del Veneto, un ideale ombrello protettivo del dispositivo della Nato. Altra presenza rilevante nel territorio è rappresentata dalle cave di materiale estrattivo che coprono il 3,65% della superficie comunale. La loro presenza è legata al “boom economico” degli anni ’60, primi ’70 e costituiscono una realtà significativa per il loro forte impatto sia sulle politiche economiche, sia sullo sviluppo e salvaguardia del territorio locale. Una di queste realtà costituisce il tema della tesi progettuale che soggiace al presente lavoro di ricerca. Il fiume Sile, e più precisamente la “linea delle risorgive” che corre quasi parallela ad esso subito a sud del centro della frazione di Ospedaletto, rappresenta la demarcazione fra l’alta e la bassa pianura. Alta e bassa pianura differiscono per la composizione del sottosuolo a causa della loro diversa origine: la prima dal ghiacciaio del Piave, la seconda da quello del Brenta; la prima, asciutta con limitato strato agrario posato su un consistente strato di ghiaia, la seconda, più umida con sabbia, argilla, limo e torba. La diversità è rilevabile anche ad occhio nudo, soprattutto nel periodo delle arature. I campi della zona ghiaiosa presentano la tonalità rossastra tipica del “ferretto” prodotto dall’alterazione degli strati superficiali ad opera di agenti atmosferici. Acque meteorologiche ed escursioni termiche, agirono con azione solvente e disgregante sui materiali calcarei e calcareo-dolomitici liberando, tra gli altri elementi, notevoli quantità di ossido di ferro, ossidi di alluminio e silice. Gli ossidi di ferro si accumularono negli strati superiori del terreno fornendo la colorazione che ne giustifica il nome. La continua trasformazione di sostanze organiche in humus creò il terreno vegetale dello spessore variabile fra i 30 e i 45 centimetri, nel quale rimangono ancora, in misura notevole, ciottoli di diversa misura. Lo strato ghiaioso è imbevuto d’acqua per decine di metri di profondità: acqua che costituisce la falda freatica. Essa è alimentata in parte (40%) dall’acqua piovana che scende dallo strato superficiale, e in parte (60%) da perdite di portata dell’alveo dei fiumi maggiori – il Piave e in misura minore il Brenta. Il fiume Piave è quindi il principale alimentatore della falda che, in pratica, costituisce un grande fiume sotterraneo in lento movimento verso zone più basse. La velocità dell’acqua di falda è di circa 2-3 mt al giorno nella parte alta del Comune e di pochi centimetri al giorno vicino alle risorgive del Sile. In questa area, per effetto della maggiore impermeabilità del terreno, si aprono delle fosse naturali molto profonde, generalmente di forma circolare del diametro di 2-3 anche 4 metri, da dove l’acqua, che sembra quasi stagnante, scivola via in rigagnoli che arricchiscono pioveghe, canali e il Sile.
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Il clima della regione padana si può definire temperato subcontinentale, caratterizzato da una temperatura media annua che si aggira attorno ai 13 gradi. Le temperature medie stagionali riscontrate sono: 3,6° d’inverno (con il minimo in gennaio), 12,6° in primavera, 23° d’estate (30° temperatura media di luglio) e 13,9° in autunno.9 La piovosità media è di circa 870 millimetri all’anno. La pioggia cade più abbondante in autunno ed è minima nel mese di gennaio (16 mm); in primavera si registra il maggior numero di giornate piovose, che in un anno sono 124 di media. La neve cade sempre meno frequentemente. Il 58% del totale dei fenomeni temporaleschi si forma sul lago di Garda e giunge nella zona attraverso due percorsi: il primo direttamente da ovest; il secondo, dopo essere passato su Asolo e aggirato il Montello, piomba sulla pianura da nord. I fronti nuvolosi che provocano grandine nel 90% dei casi, provengono da nord-est e dopo essersi formati sull’altipiano di Asiago e sul monte Grappa passano sul Fadalto, attraversano la valle del Piave tra Feltre e Belluno e oltrepassato il varco tra il Cansiglio ed il Col Visentin si aprono a ventaglio giungendo sulla zona da nord-est o da sud-est. Altro fenomeno caratteristico della pianura padana e che condiziona pesantemente i trasporti, è la nebbia. Dovuta alla sospensione in aria di minute goccioline d’acqua, la nebbia si forma con il raffreddamento di aria umida, con il mescolamento di aria umida-calda e fredda e per differenza di temperatura fra l’acqua dei fiumi e canali e l’aria. L’aumento dell’inquinamento atmosferico ha provocato l’estendersi della nebbia alle fasce collinari. Nella piana, solcata da numerosi corsi d’acqua, la nebbia, presente soprattutto nei mesi di gennaio e febbraio, compare in media dai 30 ai 50 giorni all’anno. Cenni storici La pianura veneta fu, come si è visto, una delle ultime a formarsi, perciò l’uomo, pur presente sui rilievi montuosi e collinari vicini, cominciò ad abitarla molto tardi. Notizie al riguardo possono venire soltanto dall’archeologia con i ritrovamenti. I reperti ritrovati nel territorio comunale di Istrana indicano che la zona doveva essere abitata a partire dal Neolitico (4.500-3.000 a.C.) e le prime aree ad essere abitate furono quelle umide, perché offrivano cibo ed acqua in abbondanza, nonché protezione dagli animali quali i lupi, che con cervi e cinghiali erano gli incontrastati dominatori di un paesaggio composto da una boscaglia di querce, frassini, carpini, olmi. Nella frazione di Cavasagra loc. Fossa Corta, zona ex fornaci di Istrana, sono stati rinvenuti i reperti più antichi risalenti al periodo Neolitico: strumenti in selce, lame di media grandezza, raschiatoi, apici di falcetti, punte di freccia, diverse macine in arenaria. Dagli albori della civiltà erano i fiumi le vie di comunicazione lungo le quali si insediavano le prime comunità ed è pertanto lungo il Sile che troviamo i primi insediamenti umani nella zona. I primi abitatori del territorio furono gli Euganei, popolo dinamico, abituato alle fatiche e ai patimenti che il territorio imponeva per la sopravvivenza. Al principio del secondo millennio a.C. la sovrabbondanza di popolazione nel centro Europa e nell’Asia Minore, determinò uno spostamento di razze verso occidente. Fu in questo contesto che gli Eneti (oggi Veneti) giunsero nel territorio già degli Euganei, allontanandoli e disperdendoli. Con il loro insediamento ebbe inizio la costruzione dei castellieri, chiamati anche castellier, castellaes, caolir, gradisca, motta, veri e propri villaggi circondati da uno o più argini che consentivano adeguata protezione. Poiché i fiumi rappresentavano in quei empi le più facili vie di penetrazione del territorio, le capanne su palafitte, di fronte alla aggressività degli invasori, non furono più un luogo tanto sicuro. E’ probabile che per tal motivo i nuovi arrivati decisero di costruire le proprie capanne sulla terraferma, scegliendo posti asciutti e appropriati, ed erigendo a protezione dei villaggi delle barriere fatte con materiale raccolto sul posto: terra, creta, sabbia. Fu solamente con l’avvento dei romani che vennero introdotti notevoli cambiamenti che mutarono in un sol colpo il volto del territorio e le abitudini sociali degli insediati. Si è gia parlato diffusamente in altra parte della presente ricerca, del radicale intervento romano sul territorio attraverso la diffusa opera di centuriazione che portò alla bonifica di vaste aree paludose e la costruzione di nuove e veloci vie di comunicazione, come la Via Postumia. Qui preme ricordare come i primi contatti fra le civiltà venete e Roma risalgano al terzo secolo a.C. e furono sempre all’insegna di rapporti di collaborazione e alleanza, probabilmente anche in conseguenza del costante pericolo costituito dalle invasioni celtiche. La romanizzazione del Veneto avvenne pacificamente sotto l’impulso di scambi 9
Dati agrometereologici della Provincia di Treviso
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commerciali e culturali, e soprattutto con la fondazione di Aquileia nel 181 a.C. chiesta dai veneti per ragioni di sicurezza del proprio territorio. La presenza di coloni romani nel territorio si protrasse fino al IV e V secolo d.C. Raggiunti la massima espansione geografica e il più grande splendore, anche l’Impero Romano subì l’inevitabile decadenza, franando sotto i colpi delle numerose e incessanti invasioni barbariche. Cominciarono i Visigoti guidati da Alarico nel 401 e nel 408 d.C.; proseguì Attila con i suoi Unni che nel 452 d.C. invasero prima Aquileia, quindi Concordia e Altino lungo l’itinerario della via Annia. La via Postumia, ideata per altri scopi, divenne un asse di comodo per il transito di popoli provenienti dal Centro Europa verso l’Italia Centrale facilitando la penetrazione barbara nella pianura trevigiana. Le invasioni provocarono la distruzione di tutto ciò che nei secoli precedenti la civiltà romana aveva costruito. Nel 552 Giustiniano – Imperatore Romano d’Oriente – con l’intento di ripristinare il potere imperiale in Italia, inviò il generale Belisario a combattere il re goto Totila. La guerra gotica che ne seguì durò quasi vent’anni, portando la popolazione veneta a una condizione di miseria e ridotta di numero dalla peste e dalle epidemie. Abbandonando la Pannonia agli Avari, nel 568 Alboino, alla guida dei Longobardi, si mise in marcia verso l’Italia. Passato l’Isonzo, nel suo avanzare verso Milano, invase e saccheggiò tutte le città incontrate lungo il suo percorso, risparmiando però la città di Treviso per l’intervento del vescovo Felice. Per circa 200 anni i Longobardi occuparono il Veneto lasciando le popolazioni nella più squallida miseria. I campi non vennero più adeguatamente coltivati mentre boscaglie e paludi ebbero il sopravvento. Nel frattempo la Postumia acquisì grande rilievo divenendo direttrice portante di un nuovo sistema stradale destinato a perpetrare il barbaro dominio. Ai Longobardi subentrarono i Franchi di Carlo Magno, che occuparono Treviso tra il 774 e il 775 in seguito alla calata in Italia del re cattolico, voluta dal Pontefice che temeva le mire espansionistiche dei Longobardi Carlo Magno celebrò la Pasqua del 776 a Treviso e la volle sede di una “Contea” franca. Con i nuovi venuti le genti venete ebbero trattamenti generalmente migliori. Purtroppo dopo la morte del suo fondatore, il Sacro Romano Impero venne suddiviso in tre regni e successive spinte disgregatrici interne lo indebolirono ulteriormente e lo resero vulnerabile agli attacchi degli Ungari. Le truppe ungare passarono frequentemente sulla Postumia, tanto che ad essa venne attribuito il nome di strada Hungarorum o via Ongaresca. Solo nel 955 Ottone I di Sassonia Re di Germania riuscì a cacciare gli ungari dal territorio veneto. La popolazione veneta che dapprima si era integrata con quella romana, mescolandosi con i successivi popoli invasori formò una diversificazione di usi, costumi e lingua a seconda delle varie provenienze. Dal Medioevo in avanti i destini di Istrana e delle sue genti furono legati indissolubilmente a quelli della vicina città di Treviso, divenendo territorio di proprietà di alcune nobili famiglie cittadine, e in parte proprietà di ordini monastici veneziani poi passati sotto la tutela del vescovo di Treviso. La grande feudalità ecclesiastica il cui sviluppo fu favorito dagli imperatori tedeschi per limitare ed indebolire quella laica, concentrò nelle città l’amministrazione delle sue terre e ciò generò il ripopolamento dei centri urbani e la costituzione di una solida struttura cittadina: i comuni. Risalgono a quest’epoca i primi dati storici. E’ il periodo in cui il vescovo di Treviso estende il proprio potere temporale grazie alle munifiche elargizioni dei potenti di allora. I terreni, che venivano chiamati “guizze”, erano boschivi o tenuti a prato e concessi in affitto. A capo di ogni podere si poneva il “meriga”, che aveva il compito di incassare le tasse e stabilire i tempi del taglio delle piante e della falciatura del fieno. Il potere nei Comuni si andò sempre più concentrando in una o più potenti famiglie finché queste presero il sopravvento, creando così l’avvento delle Signorie. Nel 1388 subentrò alle varie Signorie la dominazione veneziana, che portò nella zona, per un lunghissimo periodo, una relativa prosperità e forti innovazioni nella vita sociale, paragonabili in gran parte alle migliorie introdotte ai tempi dell’egemonia di Roma. Vi furono innovazioni che favorirono lo sviluppo dell’agricoltura e del territorio. Non più conquiste di guerra, ma l’instaurazione di magistrati alle acque, emanazione di regolamenti, costruzione di brentelle, e il crescere di una sorta di agricoltura “mirata” e redditizia. Fu data importanza alla redazione di mappe e di carte dei luoghi. I territori della dominante erano governati da un podestà che interveniva d’autorità per far rispettare le leggi e dotare di un sistema organizzativo le comunità. In questo ambito rientravano le commissioni appositamente costituite per fare l’inventario dei prodotti agricoli raccolti e far in modo che l’eccedente di
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quote stabilite per legge venisse raccolto in comune per creare approvvigionamenti di riserva in casi di guerra. La cosa funzionò egregiamente per lungo tempo ma non resse l’urto incrociato di eventi negativi: l’assedio austriaco accompagnato da una dilagante pestilenza sotto l’ultimo doge Daniele Manin. Con la Serenissima nel 1796 le terre di Istrana e di tutto il Veneto tornarono a essere teatro di guerre e miseria. La strada Castelfranco-Treviso ( “Nuova Postumia”), divenne luogo di scorribande e saccheggi. Il territorio comunale, pur non molto esteso, presentava vari ambienti, dai “vegroni” (terreni non coltivati perché troppo sassosi e asciutti) della fascia settentrionale, alle paludi del Sile in quella meridionale. Dalla conquista napoleonica all’unità d’Italia, passando per la dominazione austriaca, la vecchia nobiltà lascia piuttosto in fretta le sorti del territorio alla nuova borghesia locale. In generale si vanno ridimensionando le grandi proprietà a favore di una frantumazione progressiva e generalizzata, che pure non aumenta considerevolmente il numero dei conduttori proprietari. La superficie coltivata resta pressoché ancora il frutto degli interventi avviati sotto la Serenissima. Oggi dell’antica “Silvis Fetontea” (Marziale, libro IV epigr. 25) che copriva tutta la zona non è rimasto nulla. L’ultimo bosco venne tagliato prima del 1840. Il panorama odierno è il tipico paesaggio di bonifica, con qualche pioppeto fra una distensione di campi coltivati. Gli ontani, che crescevano lungo le caratteristiche rive dei fossi, sono stati estirpati nei decenni seguenti la metà del secolo scorso. Sono altresì scomparsi, salvo qualche esemplare, carpini, frassini e olmi. Unica eccezione al taglio indiscriminato di piante si trova nella frazione di Cavasagra, dietro le ex Fornaci di Istrana: due gruppi di secolari cipressi di palude importati dall’America verso il 1640. Negli ultimi decenni si è assistito a un rapido e diffuso inurbamento di gran parte del territorio comunale in sintonia al fenomeno dell’urbanizzazione diffusa che caratterizza ora l’intero paesaggio veneto.
Bibliografia: Lorenzo Morao, Enzo Fiorin, “Ospedaletto: Storia e Memorie di una Comunità”, stampato per conto di: Banca di Credito Cooperativo di Ospedaletto di Istrana, S. Lucia di Piave (TV), 1995 Riccardo Masini, “Istrana, Paese Mio: Biografia di un comune”, S. Lucia di Piave (TV), 1995
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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