Tascapane, Maggio 2015

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www.tascapane.it

il Tascapane

il giornale che ti porti dietro

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Ultimo numero Maggio 2015

IL

TASCAPANE MAGGIO 2015

Direttore responsabile Susanna Garuti

Pietro Marino 3 Fiorella S. Arveda

Caporedattore Fiorella Shane Arveda Pietro Marino Disegno di copertina “L’ultimo dodo!” - Gloria Lanzoni Redazione Fiorella S. Arveda, Marta De Benedictis, Gabriele Gatto, Laura Genuardi, Pietro Marino, Andrea pirazzini, Edoardo Rosso, Lia Simonatto, Elisabetta Sgattoni

Gabriele Gatto 5 Pietro Marino 7

Marta De Benedictis 8 Fiorella S. Arveda 11

Contatti www.tascapane.it www.facebook.com/tascapane Lia Simonatto 12 Progetto Grafico Pietro Marino

Marta De Benedictis 13

Editore RUA - Rete Universitaria Attiva CF 93068430383 Registrazione al tribunale di Ferrara del 02/2010 Pietro Marino 14 Stampa Tipografia-Litografia San Giorgio Via G. Donizetti, 42 44124 Ferrara P.Iva 00041560384

Elisabetta sgattoni 17 Edoardo Rosso 18

Andrea Pirazzini 22 Laura Genuardi 24 Aa. Vv. 26 Il nostro periodico è aperto a tutti coloro che desiderino collaborare nel rispetto dell’art.21 della Costituzione che così recita: “Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, non costituendo, pertanIL TASCAPANE, MAGGIO 2015 to, tale collaborazione gratuita alcun rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione autonoma.

Editoriale Arrivederci Tascapane Cara Matricola ti scrivo

Attualità Le frontiere dei diritti umani Lo Scassaminchia

Viaggi Viandanti e portafogli dispersi Parigi, una storia vera

Spettacoli Stasera ho un piano! Little Miss Sunshine: fate finta di essere normali

Libri, Poesia & Racconti Tre stanze Frammenti di vita Binda l’invincibile: il prologo

Fotografia IlCieloDiOmbrelli Un tuffo nel passato Portfolio


Editoriale

Arrivederci Tascapane

li anziani li rispetto. Sono capaci di farG mi imbestialire, ma sono stato educato ad essere paziente nei loro confronti. Pure

col vecchio del piano di sotto, che mi ha dato dell’imbecille in contumacia sperando che lo sentissi. Sono fragili e ci hanno cresciuti. Hanno fatto l’orecchia alla pagina della storia da cui più tardi avremmo iniziato a leggere, le loro dita nodose a indicare parole che per noi erano le prime. Mi mancano i miei. Alle volte vorrei ci fossero ancora per fargli domande sceme, tipo se è piaciuto quel libro o come si fanno i biscotti col ripieno di fichi. Ci sono anche vecchi cattivi, che non insegnano niente, ma sono la minoranza. La maggior parte ha il grande difetto di non farsi da parte, ma quando sarà il nostro turno anche a noi verrà difficile accettarlo. I vecchi sono a posto. Quasi tutti.

li adulti tirano a campare e non hanno G idea di dove vanno e perché, sperando che la pensione dia loro tempo di capirci

qualcosa, redimersi e svelare misteri. Portano sulle spalle figli e genitori. Molti sono degli eroi.

uelli che non meritano rispetto sono i Q giovinastri (si può esserlo a qualunque età) che in biblioteca scrivono sulle porte dei

bagni frasi così: “Molti li vedo come polli in batteria a studiare per cosa? Affrancarsi dal lavoro.”

Le scritte nei bagni pubblici fanno ridere e a volte riflettere, guai a chi le cancelli. Ci sollevano dal guardare il colore del pavimento e le cose che raccontano le accettiamo per quello che sono, per dove sono scritte. Questa frase però non è lì perchè non potrebbe essere altrove (es. Maria/Mario fa le cose zozze chiama il numero tale). È lì come altrove. Come ovunque non ci si preoccupi di cosa portare a tavola per cena; come al bar. È pretenziosa, imbronciata, enfatica*. Il suo obiettivo non è dire, ma compiacere chi dice. È utile solo nel momento in cui viene scritta e a chi la scrive, così occupa dello spazio e lo riempie di nulla perchè, come dice Mario Dondero, se l’obiettivo è rivolto sempre verso se stessi, non si vede nulla. Fa rabbia perché riassume l’atteggiamento di molti studenti universitari: da quelli dei circoli arci e dei centri sociali fino ai nostalgici del manganello, passando per le mandrie di bovi che neppure fingono di avere delle idee e muggiscono solo quando hanno troppe mosche attaccate alla coda. È successo di recente a medicina, dove una mezza rivolta si è scatenata non contro l’incompetenza di certi professori, l’assurdità di un piano di studi truffa, l’assenza di una qualunque cura della didattica che rende le lezioni un inutile strazio e i tirocini farlocchi, ma per protesta contro la sospensione degli appelli fuori sessione la cui necessità è però figlia dell’illegalità che sta a monte. Succe-

Cara matricola ti scrivo ara matricola, C fermati, lasciati cullare da queste parole, distogli lo sguardo dalle spunte blu.

Chi ha letto risponderà, il tempo di ragionare, altrimenti digiterà ciò che non vuoi sentire. Intanto, fai questo esperimento con me: ascolta, libero di tutto il resto. Cara matricola, questo è lo spazio di una “canzone”, l’ultima del nostro Tascapane. Perché, come una radio clandestina in mezzo al mare, il Tascapane ha emesso frequenze clandestine dal 2008 fino ad oggi. Mille peripezie, durante questi sette anni, hanno fatto in modo che non si spegnesse mai. L’abbiamo vestito di copertine diverse, arricchito di inchieste e intervallato di rubriche che, in qualche modo, raccontassero un po’ di noi. Il Tascapane è stato quel vortice che ognuno dovrebbe regalarsi almeno una volta nella vita. Perché per noi, ha rappresentato quello che solo una tela bianca potrebbe significare per un’artista. Abbiamo utilizzato le pagine a disposizione per dare risposte, fare domande, comunicare pensieri e riferire ciò che scoprivamo e di cui ci lamentavamo. Un’avventura che ci ha rapiti e gettati in mezzo a situazioni sconosciute, per poi riportarci a casa più ricchi. A partire dalla fatica di rimanere ricurvi su una sedia per chiudere il numero nuovo

di Pietro Marino

derà ancora ogni volta che si romperà un equilibrio fatto di compromessi, di non detto che funziona soltanto perché ancora lo si sopporta. Molti rimproverano ad UniFe di essere senza vita. Non è vero. Sono i suoi studenti a essere scialbi, immobili come il sistema che solo a parole criticano, ma nei fatti non si impegnano a cambiare. Non finché c’è il bar. Non è un caso che negli ultimi tre anni si assista alla chiusura di due riviste “storiche” dell’ateneo. Ieri svaniva Orfeo, oggi il Tascapane. Morti d’inedia, sepolti con indifferenza. Succederà forse che le cose non saranno più sopportabili e allora a pagare non saranno i galletti che scrivono sulle porte dei bagni concentrati di dogmatismo imparaticcio e neppure gran parte dei buoi che, insensibili a tutto, si adatteranno anche a condizioni peggiori: il conto sarà sulle spalle di chi, consapevole e contrario a quel che accadeva, non ha fatto sentire la sua voce. Il primo giugno scade la domanda per il bando culturale e non esiste più una redazione. Siamo tutti arrivati alla fine del nostro percorso universitario e non riusciamo a credere che non ci sarà più il Tascapane, che nessuno abbia ancora qualcosa da dire e voglia farlo attraverso queste pagine, seminare idee invece che becchime in queste stanze. Dimostrare che non sono pollai. Fino a quel momento, arrivederci. Goodbye Tascapane. § *enfatico è un aggettivo enfatico di per sé. Se vi suona un po’ ipocrita leggete il romanzo “Il tempo materiale” di Giorgio Vasta, edito da Minimum fax e capirete perchè l’ho usato.

di Fiorella Shane Arveda

all’adrenalina di una notte in diretta da una facoltà occupata; dalla caccia a un giornalista da intervistare alla distribuzione dei giornali fuori da un cinema. Ma soprattutto, cara matricola, il Tascapane ci ha mosso a parlare con gli altri. Tra noi e con il mondo, là fuori. Perché seppure sembri impossibile e irraggiungibile non è affatto così. Le persone più importanti, se catturate nel momento opportuno di un evento o di un festival, possono rivelarsi le più disponibili ed entusiaste ad ascoltarci. Perché non è necessario inventare un’app. californiana per divenire meritevoli d’ascolto, spesso proprio dai discorsi sui temi più banali è emerso un mondo inaspettato. Mi riferisco a quelle piccole domande che ti fai mentre ti distrai in aula studio, ti sei mai chiesto se anche altri ci si interroghino? Non essere succube di una wall di Facebook, per poter condividere qualcosa, lei sfrontatamente scorre imperterrita, i tuoi pensieri sono molto più importanti. Cara matricola crea, disfa, rifai, e parlane, a quel tuo amico, dell’idea che ti frulla per la testa, non aspettare. Il nostro dipinto ormai si è concluso, la tela è colma di mille tratti che si sovrappongono e che non lasciano spazi vuoti. E’ difficile da ammettere e anche da scrivere, ma è giunto il momento del saluto più lungo, quello di cui spero si senta l’eco fino a riva.

Il Tascapane è riuscito a rendere gli anni vissuti all’università particolarmente indimenticabili. Ringrazio i ragazzi che fondarono questo giornale per avermi trasmesso la loro passione e lasciato, qualche anno fa, un testimone così importante. La mia corsa termina qui, ma la staffetta non si conclude, perché ora è il tuo turno, cara matricola, noi, intanto, facciamo partire l’ultima canzone… The Animals - The House of the Rising Sun.

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Scritti & riscritti gabriele gatto / marta de benedictis / fiorella shane arveda / lia simonatto / edoardo rosso / pietro marino / andrea pirazzini / elisabetta sgattoni / laura genuardi

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Attualità\1

Le frontiere dei diritti umani Quali diritti per i rifugiati in Italia? di Gabriele Gatto

Un barcone arenato sulle spiagge siciliane, dicembre 2014, ph pm

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’era un sogno e c’era un uomo e a dividerli un mare. Ci sono oggi sogni e uomini e sempre lo stesso mare a frapporsi fra loro. Ventitre secoli fa quell’uomo e quel sogno si chiamavano Alessandro e cosmopolitismo, gli uomini del nostro tempo hanno migliaia di nomi e altrettante speranze, ma in entrambi i casi l’epilogo sembra dover essere sempre l’incubo. Dal 2000 ad oggi, 23 mila persone hanno perso la vita tentando di attraversare il Mediterraneo, quel confine ormai geograficamente inesistente che continua comunque a dilaniare questo pezzo di globo in due: al di qua si assiste al trionfo delle costituzioni e delle carte dei diritti fondamentali, al di là di violenza e ingiustizia. È inconfutabile ormai, viviamo in un mondo che sta progressivamente abbandonando l’idea della frontiera nazionale, eppure non riusciamo a picconare il ben più agghiacciante muro della disuguaglianza. Nello scorso anno, oltre 200 mila migranti (secondo le stime dell’Alto commissariato per i rifugiati) hanno lasciato

il continente africano per imbarcarsi verso l’Europa, approdando in maggioranza sulle coste italiane. Proprio nel 2014, il numero di soggetti richiedenti asilo nel nostro paese è più che raddoppiato, essendosi passati dalle 26 mila istanze del 2013 alle oltre 64 mila dell’anno appena trascorso. A fronte di tali richieste, solo poco più della metà sono state effettivamente esaminate, con un risultato che parla del 37% di domande rigettate. Ma cosa vuol dire effettivamente acquisire lo status di rifugiato? E cosa accade nel frattempo? L’articolo 10 della Costituzione italiana sancisce che lo straniero, che non goda nel proprio paese delle libertà democratiche garantite dalla nostra carta costituzionale, ha diritto d’asilo nel territorio italiano, a seguito del quale acquisisce una posizione assimilabile a quella del cittadino. I migranti che approdano sulle nostre coste, cioè, possono produrre formale richiesta d’asilo o di protezione alle autorità italiane, lamentando nel proprio paese la violazione dei diritti

fondamentali, quali risultanti dal nostro ordinamento e dalle fonti normative internazionali alle quali questo aderisce. Presentata la domanda, si apre la fase di valutazione ed è in questo momento che il sistema collassa: fintanto che tale valutazione non sia intervenuta (e le tempistiche possono superare ampiamente l’anno d’attesa, a fronte dei 45 giorni prescritti dalla legge), il richiedente non riceve alcuna assistenza, finendo per lo più con l’essere sfruttato come lavoratore in nero o per diventare ennesima vittima del degrado delle nostre città, a meno che non venga destinato all’accoglienza in un centro apposito (uno dei dieci CARA presenti sul territorio italiano), laddove dovesse risultare necessario procedere alla sua identificazione o valutare la domanda presentata dopo essere stato fermato in condizioni di clandestinità. La differenza fra tali centri ed i ben più noti CIE (centri per l’identificazione ed espulsione) dovrebbe essere teoricamente abissale: solo nei secondi, infatti, la libertà personale del soggetto dovrebbe essere compressa, essendo luoghi in cui si attua un sorta di “detenzione” in via amministrativa, finalizzata a facilitare le operazioni di rimpatrio dello straniero irregolare (privo, cioè, di titolo per il regolare soggiorno in Italia). La realtà è, come ci ha insegnato la cronaca recente, molto diversa: tralasciando che la permanenza in tali centri può arrivare a protrarsi per 19 mesi, solo a titolo di esempio si pensi al CARA di Mineo (Catania) dove nel 2013 vennero stipate più di 4000 persone, a fronte di una capienza massima di 2000 unità, con sette tentati suicidi a testimoniarne le condizioni di vita. O ancora al CARA di Roma, travolto dalla ben nota inchiesta denominata “Mafia Capitale”, in cui i migranti non rappresentavano altro che una vile fonte di lucro per criminali e colletti bianchi. È attraverso le lenti di queste aberrazioni che oggi è necessario approcciarsi alla lettura del dettato costituzionale: quali diritti e quali libertà si possono assicurare ad un essere umano che viene condannato per mesi al degrado e all’emarginazione sociale, salvo nel migliore dei casi finire relegato in centri spaventosamente simili a lager? A quali diritti possono anelare quell’uomo e quella donna le cui richieste d’asilo non vengono neppure esaminate nell’anno in cui sono presentate? È davvero questa la condizione dello straniero in Italia, davvero questa la nostra frontiera dei diritti umani? §

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Attualità\2

Lo scassaminchia testo e foto di pietro marino

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eleJato è una tv comunitaria – cioè non ci si arricchisce a tenerla nè a lasciarla tenere, da qui l’ideona del beauty contest – con sede a Partinico.

concittadini illustri che incontrano scolaresche; dell’omicidio e degli sforzi della polizia per scovare l’assassino; della sagra del maiale abbronzato e di quello pallido.

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I

orse la conoscete già grazie al bel servizio di PIF su MTV, “lo scassaminchia”. Prendetevi 40 minuti e guardatelo, perchè corrisponde esattamente all’esperienza che abbiamo avuto noi e spiega un po’ di cose non solo sulla Sicilia, ma su quello che succede a 10 metri da casa vostra, pure se siete di Treviso.

L

l problema nasce se quello che si vuole raccontare non è un posto normale. A Roma o Milano, dove pure potremmo vedere gli stessi focherelli e teschi e siringhe dell’immagine a fianco, il racconto si fa impersonale, collettivo: chi dà voce ai fatti spesso non vive dove questi accadono. Nella provincia italiana, dove le pecore vivono tra lupi e lupi sono pure alcuni dei cani da pastore, il discorso si complica.

egata fino al ’99 a Rifondazione Comunista, l’emittente passò poi a Giuseppe Maniàci. Pino da allora si limita uando la normalità è fatta di distila raccontare la quotidianità della città, a lerie tentacolari e pezzi di cadavere cavallo tra le province di Trapani e Palermo; una “normalità” riassunta effica- sparsi per la città, di cani impiccati e corruzione è molto più facile fare cemente in questa mappa “Esiste un l’inviato Rai in Medio Oriente che illustra alcuni dei fatti della settimana di Natale termine giapponese, che il giornalista a Telejato. Ci vogliono cazzi e controcazzi secondo un sito di informamokusatsu, per non cadere nella tentaziozione locale, palermotoday. ne di raccontare solo una parte it: la grafica è “colorata” e che significa dei fatti (e così tirare a campasi contraddistingue per: “uccidere re tranquilli) o distorcerli del tutto per connivenza. E il con• 1 incidente stradale col silenzio” fine spesso è sottile, sottilissi• 3 incendi ( o punti di mo. Non è un “gombloddo”, riscaldamento pubblinon c’entrano le scie chimiche. E’ la veco) • 1 rapina (o una “festicciuola” di car- rità come l’ho vista il 29 Dicembre 2014 a Partinico, in contrada Santa Caterina. nevale in anticipo) • 4 sparatorie (o gare di tiro al piattelSe non ci credete mettete il culo su un aelo in centro) • 1 simbolo di spaccio (o una campa- reo, un treno, un autobus, una bicicletta, un mulo o come cazzo vi pare e venite a gna di vaccinazione sulla SP1) • 1 simbolo di percosse (o una partita a morra cinese dove vince “sasso”) • 1 simbolo di morte ( o pirati in transito) • 1 arresto (o controllore del bus, ma non ho visto trasporti pubblici ) • 1 invasione di mongolfiere (questa è inequivocabile) In un posto normale i giornali raccontano risse per l’arredo urbano in consiglio comunale e del ladro che li ruba; lamentele perchè ragazzetti che non lavorano l’indomani fanno casino fino a tardi e di

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vedere coi vostri occhi. Andate a scassare i coglioni a Pino, Letizia e tutta la redazione di Telejato; a guardare, ad aiutare – che di una mano c’è sempre bisogno-, ad imparare in 2 ore cose che nessuna scuola di giornalismo potrebbe far capire. Venite a ringraziarli e ad abbracciarli e a tentare di convincerli a smettere di fumare.

E

siste un termine giapponese, mokusatsu, che significa “uccidere col silenzio”. Viene usato ogni volta che si voglia annientare qualcosa, colpendone il nucleo più vitale, il nòcciolo luminoso che fatto parola è la verità. “Il silenzio può davvero uccidere: ciò di cui non si parla, di cui non si fa cenno, – diceva Fosco Maraini – finisce per non esistere. La mancanza di parole toglie l’ossigeno al fatto, che langue e muore”. Vale per le contraddizioni della società giapponese e per i cancri di ogni popolo, per il paesino, la Nazione, le famiglie.

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on lasciamoci togliere l’aria. Non lasciamoci mai togliere Telejato e le persone che la illuminano. §

Nella pagina accanto Pino Maniaci, editore di Telejato, nello studio di Partinico dove campeggia una gigantografia del giudice Borsellino. IL TASCAPANE, MAGGIO 2015

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VIAGGI

Viandanti e portafogli dispersi Lo fanno tutti e lo fanno quasi sempre. È l’azione più semplice e una delle più importanti che iniziamo ad imparare nei nostri primi anni di vita. Rappresenta forse il primo tentativo di raggiungere e conquistare una primordiale indipendenza che sarà, da quel momento in poi, in continua evoluzione. Parliamo del camminare.

di marta de benedictis

M

i piace pensare che Albert Einstein non avrebbe mai parlato di relatività se non avesse accompagnato i suoi ragionamenti con passi elementari, magari percorrendo compulsivamente una linea immaginaria lungo il pavimento della sua stanza. E forse chissà neppure Darwin sarebbe oggi così famoso se, dopo pomeriggi passati a studiare, non si fosse concesso delle lunghe e piacevoli passeggiate immerso nella natura. Lo facciamo tutti, è vero, ma siamo consapevoli della sua importanza? Camminare è solo qualcosa di semplice e scontato? Vi assicuro che non è così e se mai deciderete di farlo per una giornata intera, vi accorgerete di quanto questo gesto ordinario possa essere in realtà inaspettatamente complesso. È il 25 aprile e mentre il resto della nazione festeggia il giorno della Liberazione, due ragazze si lasciano alle spalle il castello di Mesola e si incamminano in direzione Gorino, pronte a percorrere a piedi un percorso di 40 chilometri lungo il sentiero che percorre la riva del Po (il ritorno è incluso nel prezzo). Quale sia il motivo per cui vogliono farlo? Mettersi alla prova, vi risponderanno, il tutto accompagnato da una lieve dose di masochismo. I primi passi sono quelli più emozionanti: si procede velocemente, spinti da una pulsione martellante e da una voglia energizzante di avanzare. Passano le prime ore ma lo scorrere del tempo non pesa. Ci si guarda intorno e non si parla molto. Infiniti i rumori e tanti i disegni che la luce del sole, intimidita dalle nubi, cerca di pitturare sulle immense pianure coltivate. Basta poco per accorgerti che mentre muovi velocemente le gambe e lo fai quasi senza pensarci, la tua mente non è più semplicemente un immenso groviglio di flussi pensanti. I pensieri sembrano battere in ritirata e non si alleano più l’uno con l’altro per affrontare e contrastare la tua sincera forza di volontà, giornalmente impegnata a tenerli a bada per fare un po’ d’ordine.

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Camminare non rilassa solo i muscoli ma distende anche i tormenti della psiche o perlomeno li fa passare in secondo piano. Mentre si cammina si sentono i passi che si inseguono. La mente si svuota da tossine inutili e si impegna ad orchestrare il corpo per prepararlo a sollevare un tallone dopo l’altro. Poi però il dolore inizia a farsi sentire. Nel percorso del ritorno, i piedi sono in fiamme e le anche iniziano ad indolenzirsi. Camminare non è più così automatico: si comincia a deambulare goffamente e diviene quasi difficile muovere un piede alla volta in modo leggero e meccanico. È a questo punto che la mente ripaga il corpo per il rilassamento precedentemente concesso e la collaborazione si fa sentire sotto forma di una voce persistente: “Non cedere, manca poco”. Vedrete inoltre come sarà piacevole fare incontri. Ci si saluta con spontaneità e ci si scambiano storie senza presentarsi formalmente, come se ci si conoscesse da una vita. E alla fine di una giornata così intensa poi, neppure una pessima notizia può metterti di cattivo umore. Ti accorgi all’improvviso di aver perso il portafoglio ma non vuoi crederci...e fai bene! Scopri che uno sconosciuto te lo ha trovato in terra e ti ha lasciato un biglietto sul cruscotto della macchina, rassicurandoti che soldi e documenti ti aspettano al sicuro presso l’ufficio turistico di Mesola. llora camminate, non importa per quanto tempo e non importa se da soli o in compagnia. Fatelo e basta perché ritornare a concentrarsi su quel gesto che ci siamo impegnati tanto a padroneggiare ci può aiutare a ricordare quanto importante esso sia. Incamminatevi lasciando che qualcosa di misterioso possa succedere. Fate attenzione però, le vesciche sotto ai piedi non hanno niente di misterioso, ma sono solo una grande e inevitabile certezza. Infine non dimenticate, non esiste preoccupazione che continua a persistere quando il cammino procede. §

A

Volete guardare un film che di certo animerà la vostra voglia di mettervi in cammino? Non perdetevi ”Wild”!


Due viandanti per le strade di Venezia, ph pm IL TASCAPANE, MAGGIO 2015

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Cimitero di Père-Lachaise, Parigi - La Porta principale è raggiunta dalla Metro linea 2, fermata Philippe-Auguste.

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VIAGGI\2

Parigi, una storia vera testo e foto di fiorella shane arveda

È

questa una delle innumerevoli immagini che ricorderò di Parigi. Era autunno e il cielo lasciava speranze intermittenti nel sole. L’atmosfera era strana: le nubi dapprima si aprivano per poi ricreare enormi spettri sopra le teste incappucciate di turisti e parisiens. Studenti e passeggini, bambini ed amanti. “Parigi, quanto sei bella” non smetto di ripetere, un fascino che proviene da aspetti più profondi degli scorci tra le rue e i boulevard... Il viaggio inizia dai ricordi di quei moti del sessantotto, quando anche l’imponente palazzo della Sorbonne era preda delle occupazioni universitarie. Gli studenti riempivano le stesse strade in cui durante la Rivoluzione francese vennero spianate le barricate, il cui nome deriva proprio da barriques, le botti di legno, utilizzate a mò di frontiere difensive. Il libro “La Parigi ribelle” porta alla mente questi pensieri, mentre seduta aspetto che la metropolitana, arrivi alla fermata dell’albergo. Il grande finestrino mi mostra fiumi di gente che svoltano l’angolo, chiudono imponenti portoni e si lasciano alle spalle imponenti palazzi bianchi avorio. Questi edifici sono adornati da tetti d’art noveau e le loro facciate sono costellate da piccoli balconcini in ferro battuto, che mi ricordano le forme di quella casa Batllò di Gaudì. Si percepiscono meccanismi in continuo movimento all’interno di questa grande città. Le voci, all’interno del metrò, mi rendono partecipe e testimone di un crocevia di etnie, quello con cui la capitale, ogni giorno, si sveglia e prende sonno. Tutti ben fermi ai rigidi pali di metallo, gli abitanti di Parigi, mescolano ogni giorno le proprie vite in aloni di mistero. Cappelli, sciarpe e baguette a bouquet nelle borsette o nelle ventiquattrore mi accompagnano verso Place d’Italie, al quartiere latino, a Place de la Concorde, alla Bastille... ancora riecheggiano in testa quei nomi così ben scanditi ad ogni fermata. La prima tappa di questo viaggio è il cimitero di Père-Lachaise, dove uno stuolo di monumenti onora quelle grandi vite le cui memorie si inerpicano tra strade di pietra, macchie di fiori e alberi dalla chioma ormai giallastra. La sacralità del luogo non si serve di ulteriori riti, è sufficiente il passeggiare tra le statue e le poesie scavate nel marmo. Il perdersi tra le scale e i passaggi da labirinto. L’intero percorso si è ormai fatto denso di sentimento e di passione. Il suo-

no che si odeva prima , là fuori, la voce grossa della città preda dell’irrefrenabile scandire del tempo qui tace. Non sorprende, infatti, raggiungere il punto più alto del cimitero e dimenticarsi di dove ci si trova fino a che non si scorge, lontana, la sagoma della celebre Tour. Gli ospiti illustri di questo ambiente sono centinaia; nel mio ricordo vi è Abelardo ed Eloisa riposare fianco a fianco, Jim Morrison illuminato dai giovani sguardi fissi sulla fotografia e gli strenui versi incisi sulle tombe di grandi donne dell’ottocento. Tutto ciò crea un mondo parallelo nel quale non resta che sprofondare. La sensazione, che si percepisce qui, è quella di un ottundimento delle emozioni; esse, anche qualora si liberassero con gran fragore, verrebbero ammantate da un torpore secolare. Quel che noto, in questo luogo spirituale, è un movimento di circolare empatia, tra chi pianse la perdita di questi “grandi” e chi come noi lega i propri ricordi a chi era caro. Saranno passate ormai due, tre ore dall’inizio della visita, e così, ancora assorta in quei pensieri, termino la mattinata sentendo lo scricchiolare delle foglie sotto le suole mentre cammino verso l’uscita. e giornate trascorrono tra la scoperL ta delle galette bretonne, le crépes al grano saraceno, e delle salad, ricche

insalate un po’ troppo care per portafogli da studente. Prima di addentrarmi in nuovi orizzonti visito il Pàntheon, custode delle storie di chi ne abita i sotterranei: rivoluzionari, filosofi, fisici ed anche Russeau. Le vie del quartiere latino riconducono di tanto in tanto a piazzette incorniciate da bistrot. Questi grandi cafè si fanno palcoscenico costante di incontri di lavoro o sguardi d’amore. Vi si aggiungono i solitari, che davanti ad un calice rosso sfogliano un libro, indisturbati dal chiassoso contorno. Giardini come il Jardin du Luxembourg colgono da subito la mia attenzione, per la maestosità che riversano nel cuore della città. Lì, dove le persone di tutte le età abitano i castagneti ed i prati, decido di fermarmi ed osservare. Vi sono giovani ed anziani, chi chiacchera, chi legge affacciandosi sul laghetto artificiale e chi fa la gara tra piccole vele. Scorgo da lontano una ragazza, sembra fuggire da qualcuno, tra la bora che colora di grigio quel che prima era arancione. Il sole, in questi giorni, è solito

arrivare e poi di nuovo andarsene, facendo correre i turisti ai ripari, quasi derisi dagli sguardi altezzosi e consapevoli dei parigini. rriva il giorno seguente e si dà il A passo alla scoperta di Versailles, destinazione al quale si arriva solo dopo

aver superato le più remote periferie della città e superato piccoli paesi satellite della metropoli. Ed ecco lo splendore, quell’oro che risalta da ogni angolo della visuale e riempie gli occhi di una luce sconosciuta. Una volta all’interno della reggia catturano il mio interesse le usanze tipiche di quelle stanze, lasciandomi la curiosità di scoprire di più. Una, in particolare, mi rimane impressa, quella per cui al tempo di Luigi XVI, coloro che avevano la possibilità di attendere il risveglio del sovrano per la vestizione o di osservare i regnanti gozzovigliare si consideravano aristocratici privilegiati. Ricchi di quell’appartenenza ad un circolo che includeva pochi. Una struttura mentale che rimarrà sigillata ai miei ricordi insieme alle camere tappezzate di arabeschi. Conclusa la visita alla reggia, non resta che dirigersi verso la casa di Marie Antoinette, moglie di Luigi XVI. La maison du Marie Antoinette è una meta che da poco ha attratto il grande pubblico, e che possiede, in realtà, l’autentico lato fiabesco dell’intera Versailles. La si trova a parecchi ettari dalla maestosa corte, distanziata da immensi labirinti verdi. Se il palazzo reale vedeva molteplici letti lussuosi ad uso del sovrano e delle sue madame il terreno di Marie Antoinette non è di certo meno ricco e incantevole. Accanto alla maison vi è il teatro, dove la regina amava esibirsi, quando non si raccoglieva con i propri amanti nelle torrette delle case ricoperte di paglia. Piccoli ruscelli ne attraversano le vie e dai ponticelli turisti di ogni nazionalità provano a catturare un pezzetto di sur-reale essenza. Il viaggio a Versailles non ha bisogno di souvenir per essere rimembrato, diviene proprio all’uscita dai grandi cancelli dalle punte dorate. Così, come il ricordo dell’intera Parigi, bellezza e storia autentica che si trasmigra ovunque come il dipinto di un sogno vissuto. §

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Teatro

Stasera ho un piano!

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uesta sera ho solo tre opzioni: uscire a bere una cosa con le amiche, oppure andare a suonare da Bollani, che sul terrazzo ha solo persone umane e del buon vino per farci un aperitivo, oppure potrei andare a riempire una sedia in un teatro per vedere lo spettacolo con acrobati un po’ folli che ribaltano tutti i piani. Eh… non so... La compagnia mi attira ma la birra, no! Non va giù stasera, stasera ho bisogno di fumare e magari di ascoltare qualcosa di speciale. Allora sai che ti dirò? Alla cassa io pagherò! Pagherò tutto quello che non ho potuto offrire mai. Sulle note di “Stay with me” mi siederò con la sciarpa sulle gambe e l’ombretto fra le ciglia, chiuderò gli occhi appena prima che la luce si riaccenda. Compare una compagnia di giovani ben vestiti che affronta i quotidiani imprevisti della vita. Sono giocolieri, terapeuti, prostitute dotate di un grande spirito di adattamento, che ad ogni occasione devono inventarsi soluzioni di riserva, rimedi per non cadere, sprofondare nei vuoti che all’improvviso si creano. Vora-

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gini temporali che si spalancano! Loro devono saltare, trovare nuovi equilibri su un piano che si alza e diventa sempre più scivoloso! Vincere l’ inevitabile, evitare il baratro, correre ad afferrare le palle da giocoliere che il tuo collega sta facendo volare ma che vanno a cadere chissà dove. Le certezze non sono più di questo mondo: la pipa era un pipa e non l’immagine di una pipa. Oggi tutto questo non esiste più. Niente storie! Abbiamo solo voglia di giocare con i nostri piani! Con le scatole, piccole, grandi, piatte, gonfie, insomma tutti i tipi di contenitori. Chiuderci dentro, uscirne, circondarsi di pareti, di piani, di programmi, di sogni! E di cassetti in cui tenerli! Il loro mestiere, quello degli attori, è quello di mettersi in gioco, di giocare per scoprirsi, per stupirsi e per stupire, riportare il pubblico dentro questo stupore che fa emozionare. Così il palcoscenico si è riempito con un mare di contenuti e lo spazio, abitato da stralunati personaggi, si è trasformato in

di lia simonatto un ambiente produttivo con una ferrea logistica, in una clinica all’alba, in una pasticceria caleidoscopica, in un arenile di conchiglie, in un motel da due soldi, in un ufficio postale al tramonto, con sentimenti in cerca di essere spediti, in una danza frenetica, in un circo all’aperto e tanto altro ancora.

I

l teatro mi ha portato in tutti questi luoghi e così ho pensato di portarci anche voi, cari lettori: per divertirci e per divertire, perché è bellissimo stupirsi insieme, di uno stupore che fa tenerezza! Nel mentre ho sognato di rubare al tuo palato, di battere i denti, di uccidere i serpenti, raccogliere l’uva e tra quei chicchi c’era sempre un sorriso sul tuo viso. “Il teatro - mi dice il regista Bory - è una forma d’arte che non può sfuggire alle leggi della fisica: cercare di sfuggire alla forza di gravità è l’impossibile Piano B” Bhe, Scusa - gli dico - adesso devo prendere le mie medicine” e trottando vado via. §


Cinema

Little Miss Sunshine: fate finta di essere normali Uscito nel 2006, è uno dei film indipendenti più conosciuti tra i cultori del cinema di nicchia. Alcuni lo hanno definito il film degli sfigati ed in fondo un po’ hanno ragione: little miss sunshine è una grandiosa epopea che narra le gesta di un piccolo nucleo familiare che entra in contatto con uno spaccato della società americana tanto assurdo quanto realistico, e ne esce (non del tutto) illeso dopo un viaggio “on the road” tra marmitte malmesse e clacson strombettanti.

di marta de benedictis

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uella di Olive è una famiglia solo apparentemente ordinaria. È contraddistinta da una velata normalità che viene però presto a mancare quando si scrutano i personaggi con una lente d’ingrandimento: il nonno sniffa cocaina, il fratello odia tutti e non parla con nessuno (lo fa per Nietzsche, confessa), mentre il padre rappresenta il tipico stereotipo dell’uomo americano che per vivere vende le sue convinzioni ben poco convincenti. Illustra, in conferenze con massimo di due, tre partecipanti, i passi fondamentali da seguire per diventare vincenti e raggiungere il successo. Poi c’è lo zio che ha tentato inutilmente il suicidio e che viene invitato dai medici a trascorrere un periodo di tempo insieme a sua sorella, la mamma di Olive. E infine c’è Olive, una bambina e i suoi occhiali enormi di cui vi innamorerete all’istante. La sua vita è travolta da una inaspettata notizia che sconvolge il già precario equilibrio che regna nella sua famiglia. La nostra eroina è passata alle finali del concorso di bellezza Little miss sunshine e per parteciparvi dovrà recarsi in California. Per Olive questa opportunità vale come

l’oro, ma come fare per raggiungere la costa orientale quando i soldi scarseggiano? Qui entra in scena l’altro grande protagonista della pellicola: un camioncino Volkswagen giallo e rumorosissimo. Inizia il viaggio e preparatevi ad assistere a scene esilaranti, tristi, ridicole ed emozionanti. Ogni personaggio rappresenta una tappa specifica della vita: c’è l’amarezza e la ribellione dell’adolescenza, il menefreghismo e l’egoismo tipici della vecchiaia, la dolcezza e la gioia dell’infanzia, la crisi di mezza età e le difficoltà della vita di coppia nel gestire una famiglia. In più il film critica fortemente l’esistenza dei concorsi di bellezza che ogni anno si tengono negli Stati Uniti: bambine costrette a comportarsi e ad atteggiarsi come trentenni in carriera, truccate e vestite in modo imbarazzante (tranquilli, Olive spiccherà tra tutte grazie alla sua perfetta esibizione dal contenuto fuori luogo). È criticata una società che impone modelli di bellezza irreali, innaturali e non sottolinea l’importanza dell’unicità di ogni individuo e di come sia fondamentale trovare la strada per saperla esprimere. Un consiglio? Ascoltate attentamente il dialogo tra lo zio e il giovane adolescente (ah si, il ragazzo non ha perso la lingua... anzi la usa piuttosto intelligentemente).

Vi sentirete coinvolti dal loro scambio di parole se anche voi avete vissuto un’ adolescenza travagliata e confusa. Non aggiungo altro e lascio che sia il film a raccontarvi qualcosa. Dopo che lo avrete visto dedicatevi del tempo per assorbirne i momenti migliori. Infine caricate le vostre esistenze su un furgoncino variopinto, trovatevi dei fidati compagni/e di viaggio e date inizio al vostro viaggio. Ricordate sempre di sdrammatizzare anche le conseguenze delle sfighe più eclatanti e magari chissà, un giorno, qualcuno vi citerà nei suoi racconti e delle vostre sventure ne faranno un bel film. §

Colonna sonora “Little miss sunshine OST” con brani scritti dai Devotchka e altri, ottima per lunghi viaggi in macchina. Se vi piace questo genere di film, consiglio anche lo sconosciuto The giant mechanical man.

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IL RACCONTO

Tre stanze testo e foto di pietro marino

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ll’incirca al tempo in cui Margherita Emme scoprì con disappunto e un po’ di piacere che in effetti - e nonostante tutto - amava Fabio Bì e decideva mettendosi il calzino sinistro di andarselo a riprendere, in un palazzaccio al numero 40 di Via ///, il vecchio, Viola e Nazario abitavano tre stanze vicine di case diverse.

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utte le finestre del secondo piano erano sporche, tranne una. Lì viveva Viola, chiara di viso, scura d’occhi, dal dolce sorriso. Era affascinata dalle parole. Capitava di vederle incomprensibili fiumi di blu sulla mano destra (era mancina) se era inverno o segnarsi chissacchè a lato della gamba nella bella stagione, poggiata ad un muro o in equilibrio come una gru. Nazario la vide per la prima volta ad inzupparsi di sole un pomeriggio in cui pioveva luce gialla. Parlava al telefono in un giardino assediato dal cemento armato con due melograni tristi a segnarne il confine; si esibiva in una danza strana, incrociando le gambe in saltelli irlandesi, come un folletto o una fata nei boschi. Poterla guardare lo rendeva felice d’avere occhi.

I

l vecchio aveva fatto per molti anni il manutentore di cisterne dell’acqua sparse come funghi per i paesi della regione. Abitava tra il primo e l’ultimo piano.

D

a giovane gli piaceva guardare cose e persone dall’alto, per questo aveva scelto di fare l’idraulico su quelle torri e dopo di prender casa lontano dal suolo: da lì poteva vedere la gente e non essere

visto, accoglierli senza paura d’esser cacciato. La sua Lisa invece amava guardare in alto: amava le storie di stelle, con Alnitak, Alnilam e Mintaka a far da cintura e “la guerriera” poggiata sulla spalla d’Orione. L’aveva conquistata così, portandola su uno dei funghi e li, tra cielo e terra, su un faro di cemento tra mari di nebbia, avevano fatto un figlio che si chiamava Raffaele, come l’arcangelo che Dio aveva mandato a proteggere l’aria nel giardino dell’eden. Ai nipoti, finchè passavano da loro quei pomeriggi in cui il filo è una fune e lo spillo una spada, raccontava storie di contadini che zappando la terra sollevavano l’ombra degli alberi per grattarle via bene l’inverno, o quella di tre ragazzi che giravano dando soprannomi agli altri finchè non avevano scordato i nomi veri e quel che significavano ( persino i loro! ), dimenticando il mondo e se stessi. Elena e Lorenzo ascoltavano attenti, con le labbra a forma di “Ooohh” e gli occhi grandi grandi sotto i capelli a caschetto. Li aveva cari diversamente che i figli, perché loro non erano suoi. Li amava come si ama il secondo amore: senza mettersi al centro, con meno paure e aspettative, durasse quel che doveva. E durò qualche anno appena.

N

azario stava al piano terra e lavorava al mercato comunale per pagarsi da fumare e poter progettare di continuo il momento in cui avrebbe smesso. Aveva iniziato per una ragazza. Lei la faceva sembrare una questione intellettuale. Diceva di sentire il sapore, di gustare il tabacco ed il suo aroma come alcuni uomini amano la compiutezza di certi orologi. Non sapeva cosa risponderle, la odiava perché non riusciva a trovare le parole adatte a dirle cosa credeva: che mentisse a se stessa perchè quello era un modo per essere accettata dagli altri all’inizio, diventato un rito poi e dopo perché s’era guardata farlo in ricordi di quelli che ci vedono nel passato migliori d’adesso. La desiderava, arrabbiato e insicuro di tutto se non del fatto che lei avrebbe di certo trovato una risposta tale da farlo sentire uno stupido se le avesse parlato o – peggio – non gli avrebbe risposto affatto per cui, aspettando di schiarirsi le idee, fumavano in silenzio. Lei studiava per fare il dottore e si lasciarono dopo la scoperta che ogni due settimane faceva dire messa per uno scheletro trovato chissà in quale cripta. La sorprese una volta che tracciava progetti di bare dove farlo riposare una volta laureata. La cosa che più lo aveva turbato era il disegno di quella a maniche corte, contro il caldo d’agosto.

I

l vecchio era solo da tanto ed ormai, chiuse le tende per non guardare più

fuori, incartato il salone, viveva in una stanzetta al piano terra per non spendere troppo tenendo viva la casa. Non gli importava più. Il figlio gli aveva mandato una donna di servizio. All’inizio l’aveva cacciata, offeso. Poi, senza parlare (anche perché erano poche le parole che l’una riusciva a capire e l’altro a sentire) avevano raggiunto un’intesa. Lei arrivava alle 7.30 ogni mattina, si cambiava d’abito e dopo aver sistemato il poco che c’era e che lui comunque riusciva a sparpagliare da bravo esecutore dei desideri dell’universo (l’entropia è pure roba da idraulici), si acciambellava su una poltrona in un angolo, gli occhi socchiusi fino alla sera. Lui cucinava e, nei pomeriggi d’inverno, le metteva una coperta sul grembo che lei pareva non notare, persa in pensieri d’ europa dell’est. Era paffuta, pallida, coi capelli raccolti in una crocchia, i pantaloni di lana e dei dolcevita che, nonostante i vari colori, sembravano tutti tinti nella sfumatura tenue della malinconia. Lui era magro e goffo, un pò pelato, un minestrone di brontolii col naso a patata ed a modo suo contento di poterle badare. Era come avere un camino di cui lei era il focherello. Discutevano solo la domenica pomeriggio guardando una trasmissione di viaggi condotta da una signora simpatica coi riccioli biondi ed il sorriso al latte. Per l’occasione lui aggiungeva -oski alla fine delle parole e lei lo toglieva, o metteva un -are ed -ino in ogni frase. Passò poco e scoprirono che a parlare ognuno il suo dialetto ci si capiva meglio.

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iola aveva uno spietato pupazzo di pezza, Poffo, a fare da guardiano alla sua prigione di sogni di bimba. Aveva talvolta accettato di cedere il passo a nuove passioni; persino di essere messo sulla libreria a guardar la parete, ma solo perchè sapeva che prima o poi sarebbe tornato al suo posto sul letto, accanto al cuscino. Era spietato perché viveva del bisogno di lei, delle lacrimose carezze, delle sue delusioni di ragazza e donna che cresce. Era sempre lì, ad aspettare con feroce sorriso su labbra di stoffa il passo di Viola quando qualcosa non va. Spesso la camera veniva invasa dalla televisione ad alto volume del vicino più anziano, ma non un rumore dal piano di sotto, se non lo sbattere di porte invisibili.

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azario incuneato tra mura sottili aveva imparato i nomi dei nipoti del vecchio e degli amanti della ragazza. A volte avrebbe voluto essere al posto dei secondi, altre dei primi, mai al suo. Povero Nazario, si diceva quando era stanco. Stupido Nazario, rispondeva una parte di sé IL TASCAPANE, MAGGIO 2015

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che aveva in odio l’altra e ne disprezzava la mollezza, la rassegnazione. Si dibatteva immobile, come certi pesci esposti sui banchi al mercato. Quando gli prendeva questa sensazione doveva uscire di casa, camminare lontano finché non gli fosse passata, consumata sotto la suola delle scarpe o fischiata via dalle fisarmoniche degli zingari.

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roprio in quel momento il signor Settimo sentì sbattere forte una porta ancora quella specie di torello della casa accanto - pensa e per la prima volta quella settimana scosta la tenda con le dita d’osso ritorto. La signorina del piano di sopra è in strada, vicino i bidoni della nettezza urbana, sembra indecisa se buttare qualcosa, quando un autobus fa la curva troppo larga e... oddio oddio oddio,chiude di scatto la tenda.

L Q

’autobus si ferma in uno stridore di freni e strisciare nero di gomme.

ualcuno grida. Il vecchio riappare un attimo dopo, il bus sta già ripartendo. Il torello si batte le mani sui pantaloni per allontanare la polvere, la signorina è seduta sul marciapiede, pallida più del solito. Sembra spaventata, ma sta bene.

averlo lì e sono corsa in strada, ma poi allo stesso modo era sbagliato pure buttarlo. Cioè, non è giusto, in fondo è un capriccio e magari poi mi manca e comunque è solo uno stupido pupazzo. E insomma, mi sono piantata lì come una cretina... - E poi arriviamo al punto che rotoliamo insieme per terra, giusto? - Esatto. Sei sveglio. - E tu sei logorroica. - E tu anche se mi hai salvata sei un pò stronzo. Senti, vedere un paraurti a due centimetri dal naso mi mette sempre fame chimica, che ne dici se andiamo a prendere un kebab e mi racconti qualcosa? Tipo com’è che non ti si vede tanto in giro? - Ma sono le cinque e mezza! - Dai, ma che eroe sei? Su, su cammina.. - D’accordo. Senti, ma se ti racconto qualcosa e nel frattempo mastichi stai un pò zitta? - Parola di scout. - Oh, gesù, sei pure scout?! - Ma ti sembrano domande da fare con questo tono?! E comunque no!

“ Prima

G

- Si, abito lì. Grazie, Nazario. Io sono Viola e... Davvero, non so come mai fossi lì in mezzo, è che stavo pensando ad una cosa e mi sono...bloccata. Se penso che stavo per restarci secca davanti ad un cassonetto della spazzatura con un pupazzo tra le mani...assurdo, eh? Cioè, ok, purtroppo a qualcuno capita, la storia dei bidoni intendo, non del pupazzo. Mi aspettavo qualcosa di brutto prima dei vent’anni, ma dopo avevo un pò archiviato la cosa. Non c’avevo proprio voglia di finire sotto un autobus oggi e.... - Aspetta, aspetta, piano, per favore. Ma stai bene? Non è che hai sbattuto la testa? Che c’entrano i pupazzi? - Ah, si scusa. No, è che sono nervosa. Sei fortunato, parlo poco quando sono nervosa. Ah, ah, si, proprio fortunato. Il pupazzo, cioè, lui è Poffo e non lo so, sta mattina lo guardavo e all’improvviso volevo buttarlo. Hai presente quando vuoi tagliarti i capelli, ecco io...beh forse visto che tu sei un po’ pelato non puoi sapere la storia dei capelli. Vabbè, il punto è che ho sto pupazzo da quando ero piccola ed ha sempre dormito con me, mi faceva compagnia e cose così però davvero, ad un tratto mi è sembrato così sbagliato

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ettimio - era la prima volta che la signora si rivolgeva a lui di settimana, dalla poltrona - Ma che successo?- Oh, niente Costelia, un quasi incidente, ma per fortuna non è successo niente - silenzio per un pò, poi - Settimio, Lei non vuole muore, vero? - Era sorpreso - Ma che domanda è? Mi sembra Don Paolo quando veniva a trovarmi dopo che mia moglie se n’è andata! - Risponde lei sincero, io prego. - Ogni tanto. Forse, ma questo prima....prima di avere un focherello in casa, voleva dire, prima quando le mani erano un rosario di solitudine, quando aveva smesso di dare la buonanotte ed il buongiorno a qualcuno, prima che... - Perchè me dispiace se noi non viaggia più insieme domenica pomeriggio, mi piasce, quindi preoccupa io di resto sola - Le prende la mano da una sedia vicina, come farebbe con quella della nipote, la sinistra sotto a coppa e la destra secca e piena di tendini e vene a carezzare piano. - Ma adesso ho l’aria di uno che voglia morire? Ancora alla televisione non hanno fatto vedere il paese dove sta suo figlio, Signora, e sono curioso...- lei apre le palpebre, lo fissa un po’, per capire se ha detto la verità, poi soddisfatta torna a socchiudere gli occhi, stringe impercettibilmente la mano.

gli dava fastidio questo cambiare forma, questo non sentirsi più proprietario, ma solo inquilino razie mille... del proprio corpo, Nazario. Sono Nazario, del piano rialzato. Tu con lo sfratto di Dio sul collo ” vivi al piano di sopra, vero?

S

i sente come un’ anfora, sul fondo del mare da tanto, tanto tempo. Da giovane il suo corpo gli apparteneva, poi delle “cose” avevano iniziato a crescere e altre a morire, fuori e dentro di lui, indipen-

dentemente dalla sua volontà. Queste cose erano alghe e coralli ed animali e piante, figli del tempo che lo avevano reso vecchio e gobbo, stanco e lento. Prima gli dava fastidio questo cambiare forma, questo non sentirsi più proprietario, ma solo inquilino del proprio corpo, con lo sfratto di Dio sul collo, senza poter più decidere se mettere mensole, di che colore dipingere le pareti, senza poter spostare i mobili nè acquistarne di nuovi, sempre precari ma sempre qui.

A

desso però non gli pesa più tanto questo suo corpo, gli è più lieve ora che c’è Costelia.

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el frattempo, in un parco poco lontano, su una panchina di legno, tra alberi e foglie cadenti... - Dunque, Nazario da Mirasòlo, io ti ho raccontato del posto da dove vengo e tu del tuo, ma tu sai di Poffo e del mio tentativo di abbandono. Ora, conosci il mio segreto e dovrei ucciderti per questo, ma sono troppo stanca e tu sembri discretamente resistente. Ma li pesi cento chili? - Ma che... - sospiro - no, novanta...Certo che sei strana.. - Ehi, non offendere, comunque dicevamo, tu conosci un mio segreto, per cui ora ne voglio sapere uno tuo! - Ed io non ti rispondo. - E io ricomincio a parlare a velocità supersonica - Hai vinto. Mi piace prendere le foglie prima che tocchino terra, così posso illudermi che stiano scendendo dai rami solo per me. - Che hai contro quelle per terra? Sono sporche o non sai distinguerle? - No, il fatto è che non mi hanno aspettato. - Non credi di essere un pò egoista? Magari sei tu ad essere in ritardo all’appuntamento. - Forse, ma chi me lo assicura? - Proprio nessuno. E’questo il bello. - Non ci riesco. - Lo so, me ne sono accorta. Tieni. - Poffo? - Si, voglio che lo tenga tu. Con me non è più al sicuro. - Me lo dai solo per liberartene. - Te lo do per metterti alla prova, soldato. Se resisti una settimana con lui che ti fissa da quei bottoni malvagi ( ecco, l’ho detto!) allora sei proprio un eroe! -… -... -Torniamo verso casa? Le zanzare mi stanno sbranando

I

l vecchio Settimo è ancora alla finestra quando i ragazzi attraversano la strada. Sembrano diversi vicini. Pensa alle coincidenze ed alle distanze, alle sale e alle stanze che non abitiamo. §


Poesia

Frammenti di vita All’ombra dei tuoi desideri sono nascosti beati e fragili i fragori dell’universo incontenibili spazi di speranza mai sepolta. Linfa vitale, creatura che accende e che ti divora di luce. di elisabetta sgattoni

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In

libreria

Binda l’invincibile: il prologo di edoardo rosso 1927, Nurburg, altopiano di Eifel, Germania occidentale.

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onostante sia il 27 luglio, la giornata è fredda e umida. Il nastro d’asfalto lungo il quale si svolgerà la competizione si snoda fra boschi fittissimi e bui, degni di un romanzo cavalleresco. Ma oggi, sul circuito del Nurburgring, non v’è traccia di Artù né Lancillotto anche se, a ben guardare, i cavalieri non mancano: in sella ai loro destrieri d’acciaio ci sono cinquantacinque atleti, pronti a disputare la prima edizione del Campionato del mondo di ciclismo su strada aperta anche ai professionisti. Il Nurburging, tracciato sul quale verranno scritte pagine epiche della storia degli sport motoristici, ospita, oggi, una gara silenziosa. Niente benzina né motori a scoppio. Solo uomini avvezzi alla fatica e biciclette da 12 chili con cerchioni di legno e selle in cuoio. A indossare i colori del Regno di Vittorio Emanuele III di Savoia ci sono sei italiani. Fra questi, spiccano due nomi leggendari: Costante Girardengo e Alfredo Binda. Due generazioni a confronto. Girardengo, il “Campionissimo”, al culmine della sua carriera, ha trentaquattro anni e vanta 9 campionati italiani, 5 Milano – Torino, 5 Milano – Sanremo e due Giri d’Italia. Binda è di dieci anni più giovane ma si è già dimostrato capace di vincere due Giri d’Italia. I rapporti fra i due sono tiepidi, vige una rispettosa diffidenza. Il grande campione ha ancora molto vigore da spendere ma quel giovane nato a Cittiglio, nel varesotto, a pochi chilometri dalla salita del Ghisallo, è nella fase ascendente della sua carriera.

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uel giorno, il freddo non è solo meteorologico: il pubblico è praticamente assente. Adenau, la località più vicina al circuito, non è facile da raggiungere e la Germania non è particolarmente affezionata a questo sport. La musica lirica che esce dagli altoparlanti sembra rimbalzare contro quel cielo scuro come l’asfalto e ricadere poi

sulla tribuna quasi deserta. I ciclisti sono pronti. In sella ai loro mezzi, scambiano le ultime parole con i preparatori atletici poi, al segnale del giudice di gara, prende avvio la corsa. Non sappiamo quante uova crude, principale doping dell’epoca pionieristica, abbia trangugiato quella mattina il venticinquenne Binda ma la sua pedalata è quella di sempre: fluida e potente. Un’andatura tanto controllata e sicura che se gli avessero posato sulle spalle una tazza di latte, questa sarebbe giunta al traguardo ancora piena.

L

’aria dell’altipiano, in questa mattina di luglio, non accenna a scaldarsi. L’umidità promana direttamente dai boschi che costeggiano i 22 chilometri di pista. Una nebbiolina bassa persiste, come un lenzuolo, appena sopra la strada, giusto all’altezza delle caviglie dei ciclisti che affrontano una dopo l’altra le 172 curve del tracciato. Gli atleti devono percorrere il Ring otto volte per un totale di 182 chilometri. Il ritmo di gara dettato dal gruppo di testa è elevato e non concede sconti. Dopo il sesto giro sono rimasti solo 20 corridori a contendersi il titolo mondiale. Qualcuno si è ritirato, qualcuno è ormai troppo attardato. Il grado di difficoltà, l’inconsueta lunghezza e l’ambientazione silvestre sono valsi a questo circuito il soprannome di “Inferno Verde”. E un piccolo inferno è quel che sta per scatenarsi nei cieli sopra Nurburg. Ad ogni giro, la luce è sempre più scarsa. La giornata sembra correre incontro ad un tramonto precoce. Le nubi si addensano in un vasto blocco compatto e la quantità d’acqua che si intuisce lassù pare determinata ad allagare l’intera Germania. Sembra quasi notte quando un bagliore illumina a giorno il rettilineo sul quale sta transitando il plotone italiano composto da Belloni, Piemontesi, Girardengo e Binda. Il cielo crolla e inizia a riversare sull’altopiano dell’Eifel secchiate d’acqua fredda.

Lo scatenarsi degli elementi naturali provoca una reazione immediata nel campionissimo Girardengo. Quasi ubbidisse alle stesse leggi che regolano i fenomeni atmosferici, si scatena anche lui. Lascia il gruppo e fugge verso gli ultimi due giri. Si allontana rapidamente dalla squadra italiana ma, da quello stesso gruppo, si stacca un altro atleta. Alfredo Binda serra la mascella, richiama le energie conservate fino a quel momento e si lancia nel tunnel di pioggia e vento nel quale vede fuggire Girardengo. Dopo poche pedalate è alla ruota del “Campionissimo”.

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ancano due giri alla conclusione, non smette di piovere. A condurre la gara, davanti a tutti, ci sono due italiani, il più anziano in testa. È lecito immaginare che in quei lunghi rettilinei i due moderni cavalieri distinguano solo due suoni: quello del proprio cuore che batte e il sibilo dei copertoni sull’asfalto bagnato. Ciascuno di loro sa esattamente quanta energia ha ancora a disposizione mentre iniziano i 22 chilometri dell’ultimo giro. E’ a questo punto che Alfredo Binda sferra l’attacco decisivo. Si avvicina al “Campionissimo”, pedala nella sua scia il tempo necessario ad acquistare maggior velocità e lo sorpassa. Girardengo cerca di non lasciarlo andare via e prova a stargli dietro. Binda però non è solo forte, è anche tattico: inizia infatti ad infliggere all’avversario una serie di scatti in avanti. Un invisibile elastico sembra legare i due sfidanti. Binda si lascia raggiungere poi fugge un poco in avanti, poi di nuovo. Finché l’invisibile elastico si spezza. Girardengo desiste, Binda vola in solitaria. Il “Campionissimo” ha accusato il colpo. Forse più nella mente che nel fisico. Ha capito in quell’istante, con lo sguardo perso nella traccia liquida lasciata sulla pista dal passaggio del compagno, che la sua epoca è finita. Di fronte a lui, l’erede: il ciclista che vincerà più di ogni altro e che fra poche curve sarà il primo professionista campione del mondo di ciclismo su strada. §

Titolo: Binda, l’invincibile Autore: Edoardo Rosso Editore: Italica Edizioni Pagine: 204 Prezzo: 15 € IL TASCAPANE, MAGGIO 2015

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Foto grafia

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Fotografia

IlCieloDiOmbrelli alla ricerca della passione

testo e foto di Andrea Pirazzini

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d otto anni ho iniziato a suonare Lo sto suonando, non sto riproducendo il pianoforte, controvoglia. Erano note per il solo scopo di riuscire a farlo. i miei genitori ad insistere, ci tenevano Chiaro, non ho improvvisato una meloche provassi a creare qualcosa dia da far sentire Chopin che non fosse il disegno fatto un busker, era solo ‘la can“Invidiavo chi in classe. Invidiavo chi alla mia zone del topolino’. Quello alla mia età età riusciva ad andare dalla ma- riusciva ad anda- che conta va oltre la musica: estra, dalla mamma o dal prete per la prima volta ho creare dalla maestra, con un bel foglio colorato e dire to qualcosa con passione. dalla mamma o con orgoglio “tieni, è un regalo Anche i miei genitori se ne dal prete per te”. Tutte le volte che ci prosono accorti. Il momento vavo i ringraziamenti erano per con un bel foglio in cui alzo lo sguardo dalla colorato l’impegno, non per il risultato. tastiera ed incrocio quello e dire con orgoHo iniziato ad odiare il disedi mamma che esce dalla gno. Per estensione, grazie alla cucina. Passano solo seconglio “tieni, è un divertente logica di un bambidi e la porta di casa si apre. regalo per te” no, non simpatizzavo con tutto Entra papà. Sente che sto ciò che era artistico. suonando. Capisce tutto. Un Poi arriva la musica. All’inizio era solo momento che non scorderò mai. una sfida, un gioco di abilità, ma pasambio pettinatura, le scarpe che avesano alcuni mesi ed una sera di maggio vo diventano piccole, inizia l’era dei mi accorgo che sto suonando un brano. videogiochi, passa l’entusiasmo per la

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musica. Non so chi lo disse ma ritengo sia una filosofia vincente: “nella vita, per avere successo, bisogna sapersi circondare delle persone che ti rendono un essere umano migliore ed allontanare quelle che ti rendono peggiore”. Lo stesso vale per la passione. Chi sa trasmettere passione ti dà valore.

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a musica era come yoga, avevo bisogno di quel benessere. Non potendo farne a meno, alla ricerca della via per esprimere passione e creatività, elementi irrinunciabili per la mia quotidiana salute mentale, sono arrivato alla fotografia.

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on questo augurio ed auspicio, che la ricerca della passione vi possa portare alla migliore versione di voi stessi, concludo la mia esperienza con il Tascapane, giunto al suo ultimo numero. Have a nice day. §


PS oggi, a 24 anni, ancora sono un pessimo disegnatore. Ho deciso di prendermi la rivincita con Photoshop e la grafica digitale.

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Un tuffonel pa di laura genuardi dopo giorni, dell’immagine scattata. Scattare immagini nel silenzio di se stessi, accompagnati solo dal proprio percorso di vita e quindi dalla proprio visione del normale che ci circonda, continua ad essere il mio unico modo di fotografare e di vivere la fotografia. Non cerco elaborazioni, forti astrattismi, ma la normalità che spesso non vediamo perché distratti a cercare altro. Quando una felpa non serve per proteggersi dal freddo, ma per scattare una fotografia: raccontaci della tua macchina fotografica. Un po’ particolare e oserei dire fuori moda per i “fotografi” abituati a viaggiare con reflex in spalla. “Respiri in quel tempo immobile in una poesia di forme e parole scritte in bianco e nero dalla luce su di un pezzo di carta”: l’analogico racchiude amore e sacrificio anche per l’attrezzatura, facci curiosare un po’…

na fetta di passato in cui la macchiU na fotografica non può mentire. Uno di quei giorni in cui se non fai qualcosa

legato alla fotografia è come se avessi trascurato “un certo che di essenziale”: è come se mi fossi dimenticata di svegliarmi. Ho cercato fotografie capaci di raccontare una storia e “il cui modo di guardarle mi permettesse di entrarvici e vivere in esse per qualche istante”. Così ho scoperto la fotografia analogica: una pellicola dimenticata e la “grana” a far da contorno. Sembra che dietro ad essa ci siano sempre dei segreti. Ogni soggetto è scelto con cura ed è bandita l’opzione “elimina foto” e ri-scatta a raffica. La fotografia analogica è una culla di pensieri, “è tutto ciò che nasce prima dentro di te, attraversa la fotocamera per poi impressionare una pellicola. Trascorri minuti o ore ad osservare ciò che fotograferai e ciò che hai scelto, alla fine, rimane su un negativo. Rimane nella tua memoria e nelle tue emozioni”. Vale la pena di “fotografare in bianco e nero perché con esso non ritrai il soggetto, ma la sua anima”. Il sentimento della fotografia è tutto lì e

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non te ne liberi. Ti avvolge, ti , ti ingarbuglia nella sua matassa. Aveva ragione Eugene Smith: “A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?”. Oggi mi sono tuffata nelle fotografie di un maestro, di un amico, di un animo semplice la cui fotografia imprime un istante sulla pellicola, ma porta con sé una lunga storia… Ciao Tiziano, facci sbirciare un po’ nel tuo mondo e raccontaci qualcosa di te in pochissime frasi. Ciao! Grazie per aver rivolto il vostro sguardo su una fotografia (per me “la fotografia”) che oggi da molti viene un po’ derisa e vista come un qualcosa del passato e superata. Ho cominciato a scattare foto quando avevo pochi anni e quella magia non mi ha più lasciato, attratto dall’idea che la luce potesse poggiarsi ed essere catturata da un pezzo di negativo, attratto dall’idea del pensiero che accompagna ogni immagine, ma soprattutto affascinato da quell’attesa che mi separa dal click alla visione, anche

Usare fotocamere in legno e molto datate mi dona una forte sensazione, non data dall’anticonformismo come potrebbe sembrare, ma dall’idea di far vivere un oggetto usato oltre 100 anni prima e che ha visto chissà che luoghi, dagli occhi di chissà quale fotografo. Poi i gesti che richiedono prima dello scatto, il pensiero che deve per forza essere ripercorso nella scelta del soggetto ma anche per tutte quelle procedure che devono essere per forza eseguite con una certa cronologia, pena la non riuscita dello scatto. In poche parole il pensare prima di ogni azione e dello scatto che è il risultato di tutto ciò, unendo sentimento e tecnica nel giusto tempo mentale. “Pensare e poi scattare” e non come oggi spesso capita in digitale “scatto e poi ci penso”. Le mie immagini voglio siano sempre il risultato di un pensiero e tecnica e mai di un caso. I tuoi soggetti racchiudono l’essenza della vita. Fotografi la natura, le montagne, la neve. Leggendoti sono inciampata in “vorrei essere una montagna: sono stato una montagna, ma non ricordo quanto sia stato bello farsi accarezzare dal vento”. Le tue fotografie sono intrise di sentimento e purezza, come la neve. Raccontaci attraverso qualche scatto che ti sta a cuore il fascino del soggetto e della neve. Difficile trovare nei miei scatti una figura umana, mi piace scattare soggetti che par-

l’


assato

’a n i m a

della fotogr afia

lano di sé in modo puro e in un qualche modo credo che scattare immagini ad un essere umano sia praticamente impossibile farlo, sino a questo livello. Possiamo scattare la sua parte estetica/esteriore, ma difficilmente possiamo rappresentare la sua vera essenza attraverso il suo vero pensiero. La natura invece la intendo come un’espressione pura di vita, senza filtri. A quale bambino non piace la neve? La neve rappresenta nell’io bambino la magia e tutti abbiamo ben presente il silenzio dei luoghi innevati. La stessa città si ammutolisce dinnanzi alla nevicata e a stento si risveglia al mattino, quando aprendo la finestra vediamo il manto bianco ricoprire ogni cosa. Lo stupore, il silenzio, la sofficità di ogni forma… anche la più spigolosa, mi attrae dando grande pace

ti, per dirigersi verso il luogo dell’infinito e dell’astratto. Passo molto tempo tra alberi, nei boschi o dinnanzi a quei singoli che fanno da guardia a grandi spazi. È dinnanzi a quelli che mi “parlano” che estraggo la fotocamera dallo zaino e decido di portarli con me in camera oscura. Non cerco alberi esteticamente perfetti, ma che mi diano emozioni o in cui riveda aspetti legati alla mia esistenza.

nell’inquadrare e trovare angoli di questo immenso cuscino bianco. Poi vi è il lato tecnico, sia nello scatto che nella stampa in camera oscura, perché la neve per via del suo candore è un soggetto delicato da rappresentare. Deve essere bianca, ma deve essere materica.

Cosa nasconde la camera oscura? Una sola cosa! La vera fotografia. Pellicole e stampa racchiudono in sé la materia e il tempo. La prima la tocchiamo con le mani, il secondo lo viviamo in un modo tutto nostro e in esso si racchiude ciò che siamo. In digitale l’immagine non la possiamo toccare o quanto meno non nasce e non vive nella materia, ma rimarrà sempre in uno stato impalpabile (tranne che in una eventuale stampa finale). Ritengo che si dovrebbe cominciare a usare due termini differenti: fotografia per tutto ciò che nasce da un processo analogico e immagine per ciò che nasce e poi viene elaborato da un computer, perché un’immagine che è stata modificata non è più scritta con la luce (foto-grafia) ma è il risultato di operazioni matematiche. Molti paragonano la camera oscura alla

Affinità elettiva con gli alberi, soggetti privilegiati e detentori di magia. I rami che sorreggono il cielo ti affascinano da sempre? Sì e mi affascineranno sempre! Ritengo che gli alberi siano la massima espressione della vita. Vanno contro la gravità, crescendo verso il cielo, luogo da sempre sognato dall’uomo e che ha per tutti noi un significato molto importante. Nascono nella terra, simbolo di concretezza e limi-

Ultima curiosità: la fotografia analogica è colma di meraviglia anche per lo “sviluppo” che presuppone. L’emozione legata allo sviluppo di una pellicola propria è descrivibile? Una camera oscura quanti segreti può nascondere e quanto stupore può celare?

post produzione in digitale: nonostante molti aspetti siano simili e forse identici, alcuni non lo potranno MAI essere. I tempi, l’esperienza e la manualità sono aspetti molto differenti in digitale e forse neppure più richiesti. L’esperienza e l’attesa, fattori spesso automatizzati da calcoli algoritmici automatici… nulla dell’attesa, della manualità e del pensiero che vive in una camera oscura potrà vivere dinanzi ad un monitor. Veder nascere l’immagine su un pezzo di carta, non potrà mai esser paragonato ad un comando “apri” di un freddo computer. Per molti ciò è un’assurdità, ma rimarrò sempre convinto che la parte “elaborativa” di un’immagine ne crea l’anima… e dal computer nascono immagini meravigliose, ma senza anima. Grazie Tiziano per questo tuffo in un “passato-attuale” e per averci permesso di assaporare delle storie attraverso le tue fotografie. Grazie a voi, per aver dato ancora una volta la possibilità alla fotografia di entrare a far parte delle nuove generazioni. Credo sia importante non perdere questa parte della fotografia che ancora oggi ritengo possa affascinare giovani e meno giovani. §

Tutte le citazioni sono tratte da: “Raccolta di pensieri sulla fotografia”. Autore: Tiziano Menabò https://www.facebook.com/TizianoMenaboFotografo

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Portfolio

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Pochi istanti prima che scattassi questa foto, l’uomo ritratto sorrideva. Raccontava di come sue istantanee fossero, attraverso Facebook, arrivate fino in Spagna. All’improvviso la sua espressione cambia. Un uomo molto grasso e sudato dentro la bottega, il viso riflesso in uno specchio da cui controlla tutto, gli grida:

“Ma che fai, sogni? Non devi sognare! Cose da pazzi! La gente aspetta e iddu sogna!

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Diario di sguardi Fiorella S. Arveda

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Barcelona, Spagna Aprile 2015

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Vittorio Veneto, Italia Agosto 2014

Colmar, Francia Settembre 2014

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Versailles, Francia Ottobre 2014

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