Coltivare in città: proposte di agricoltura urbana a Torino e Vancouver - parte 1&2

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Emanuele Bobbio

COLTIVARE IN CITTĂ€: proposte di agricoltura urbana a Torino e Vancouver

Parti 1 & 2



Politecnico di Torino FacoltĂ di Architettura 1 Corso di Laurea Specialistica in Architettura - Costruzione Anno Accademico 2008-2009

Coltivare in cittĂ : proposte di agricoltura urbana a Torino e Vancouver

Emanuele Bobbio

Relatore: prof. Matteo Robiglio Correlatore: prof. Daniel Roehr



INDICE Ringraziamenti

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Introduzione

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Parte prima - La Teoria

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Capitolo 1 - L’agricoltura

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1. Mangiare è un atto agricolo

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2. Qualche dato sul mondo agricolo

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3. La rivoluzione verde

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4. Insostenibilità dell’agricoltura industriale

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5. Quali scenari per il futuro?

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Capitolo 2 - La città

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1. Il conflitto tra città e campagna

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2. Alcuni dati sulla città contemporanea

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3. Cenni storici

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4. Come definire lo sprawl?

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5. Conseguenze della nuova forma urbana

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Capitolo 3 - L’agricoltura urbana

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1. Definizione dell’agricoltura urbana

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2. L’agricoltura nella storia delle città

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3. Un rinnovato interesse nella città contemporanea

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4. Benefici dell’agricoltura urbana

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4.1 Benefici sociali

55

4.2 Benefici ecologici

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4.3 Benefici economici

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5. Prospettive per il futuro

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Parte Seconda - Le forme dell’agricoltura urbana

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Parte Terza - Il contesto - North Vancouver e Barriera di Milano

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Parte quarta - Le proposte

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Conclusioni

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Bibliografia

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A Dina Guglielmino (1909-2009) Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela per uno. Ma se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee. George Bernard Shaw

Ringraziamenti Desidero ringraziare alcune persone che hanno contribuito alla tesi che avete sotto mano: il prof. Daniel Roehr per l’entusiasmo e la fiducia con cui mi ha accolto a Vancouver; Yuewei Kong e Isabel Kunigk per il lavoro di squadra che ha dato eccellenti risultati; Karen Morton per l’efficiente dedizione che ha reso possibili questi risultati; Heather Johnston dell’Edible Garden Project per i consigli preziosi di chi ha davvero le mani sporche di terra; il Design Centre for Sustainability per avermi messo a disposizione un piccolo tavolo che ha fatto una grande differenza; Alex Kurnicki e la Municipalità di North Vancouver per il materiale cartografico fornito; il prof. Alfredo Mela per le chiacchierate che hanno ampliato la mia visuale; Elisa tra le tante cose per l’aiuto nel redigere la bibliografia; infine il prof. Matteo Robiglio per l’interesse e la curiosità che fin dall’inizio ha dimostrato per questo progetto. Desidero anche ringraziare Innocente, che in questi anni mi ha dato un sostegno che è andato ben al di là dei consigli tecnici per cui mi rivolgevo a lui. E naturalmente la mia famiglia, che fa sì che io trovi sempre il mio spazio in questo mondo.

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INTRODUZIONE Il 20 gennaio 2009, quasi un anno fa, in una fredda mattinata di gennaio, a Washington D.C., Barack Obama prestava giuramento come primo presidente di colore degli Stati Uniti d’America, di fronte ad una immensa folla raccolta davanti al Campidoglio. Le immagini di quella giornata hanno ispirato milioni di persone in tutto il mondo e sono diventate simbolo di speranza per un possibile nuovo corso del secolo da poco iniziato. A qualche mese da questa storica giornata, Obama, supportato dalla moglie Michelle, che nel sistema presidenziale americano rappresenta la controparte familiare e domestica del lavoro del presidente, ha preso una decisione con un significato simbolico altrettanto importante: nei giardini della Casa Bianca è stata rimossa una parte del prato verde, per creare un kitchen garden, ossia un orto i cui prodotti serviranno le cucine della casa del presidente e una mensa dei poveri. Coltivare frutta e verdura in città è un semplice gesto che da millenni si compie ogni giorno in pressoché tutti i nuclei urbani del mondo, in quelli altamente sviluppati così come in quelli più poveri, ma il fatto che ora venga anche compiuto nel più importante giardino degli Stati Uniti, è significativo della centralità che gli orti tornano ad avere all’inizio del XXI secolo. L’orto è sempre stato un elemento importante nella storia dell’umanità, insieme come luogo fisico e come simbolo culturale. Allegoria dell’Eden, l’orto rappresenta il positivo rapporto che l’uomo deve creare con la natura ed è costituito da alcuni elementi che ne fanno un archetipo: “il recinto, per soddisfare l’innato bisogno di sicurezza, di protezione e di riparo dall’ostilità esterna; l’acqua, nelle varie forme, che evoca il fluire e il rinnovarsi della vita in senso materiale e spirituale; e naturalmente la vegetazione e il terreno fertile e curato da cui tutto nasce e dove ogni cosa si sviluppa secondo il ciclo naturale, aiutata dal misurato intervento della mano dell’uomo”.1 Il secolo scorso però ha visto gli orti, un po’ per volta scomparire dal panorama urbano, espulsi da una forza centrifuga verso i margini della città, relegati in spazi di risulta quali le scarpate delle ferrovie e le rive dei fiumi. A questo allontanamento fisico è corrisposta una discesa nella scala dei valori culturali, tanto che fino a qualche decennio fa l’agricoltura in città era considerata da gran parte dell’urbanistica ufficiale, (almeno per quel che 1 M. Pasquali, I giardini di Manhattan, Storie di guerrilla gardens, Bollati Boringhieri, Torino, 2008

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riguarda le città dei paesi sviluppati), un tema secondario, antimoderno, retaggio di antiche abitudini in via di estinzione: per dirlo con parole di Girardet “a messy business for which there is no room in modern cities”.2 Non per questo gli orti sono scomparsi dalla scena, grazie al lavoro e alla perseveranza di migliaia di persone, che in questi angoli verdi hanno continuato a trovare le piccole e grandi soddisfazioni che spesso solo la coltivazione con le proprie mani riesce a dare. Gli orti urbani sono quindi diventati “minuscoli atti d’insubordinazione – contro la rendita fondiaria, contro il piano regolatore, contro il mercato immobiliare, contro il tempo della vita rubato giorno dopo giorno dal tempo del lavoro (o, sempre più, del non-lavoro)”.3 Negli ultimi anni però il tema degli orti urbani sta tornando alla ribalta, con una rapida inversione di quel declino a cui sembrava destinato. Sono sempre più numerosi gli articoli su giornali e riviste, a riprova di un rinnovato interesse da parte di singole persone, gruppi di amici, associazioni di quartiere e istituzioni. Così come la città si allarga sugli spazi della campagna, nella forma di quell’espansione edilizia nota come sprawl, allo stesso modo assistiamo ad un fenomeno inverso, forse meno eclatante, del ritorno della campagna in città, sotto forma di orti urbani, ma anche di mercati dei contadini, o di greggi di pecore che pascolano nei parchi cittadini, come a Torino qualche estate fa. Anche gli studiosi cominciano a percepire questa tendenza e architetti come Andrea Branzi, arrivano a sostenere che “l’architettura contemporanea dovrebbe cominciare a guardare all’agricoltura moderna come a una realtà con cui stabilire nuove relazioni strategiche”.4 In effetti di fronte alle sempre maggiori difficoltà con cui l’agricoltura industriale svolge il suo compito di sfamare la popolazione mondiale e di fronte all’espansione delle città che lasciano sul terreno inquietanti vuoti, l’agricoltura urbana può diventare una delle possibili soluzioni da mettere in pratica, come una forma di agopuntura per curare questi mali. Gli orti rappresentano un esempio di rivoluzione dolce, che non produrrà tutto il cibo necessario alla vita della città, ma potrà contribuire ad una rinnovata relazione tra gli uomini e la terra, verso un più sano equilibrio con il ciclo naturale della vita, di cui spesso ci dimentichiamo di far parte. 2 H. Girardet, Creating Sustainable Cities, Green Books for the Schumacher Society, Totnes, 1999 3 M. Maffi in M. Pasquali, I giardini di Manhattan, Storie di guerrilla gardens, Bollati Boringhieri, Torino, 2008 4 A. Branzi, Modernità debole e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Skira, Milano, 2006

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Questa tesi è il frutto di un lavoro di ricerca e di progettazione che si è svolto in parte a Torino e in parte a Vancouver, in Canada. A Vancouver ho partecipato, con il prof. Daniel Roehr e con il gruppo di ricerca Greenskinslab della University of British Columbia, all’elaborazione di una proposta di fattoria urbana nel comune di North Vancouver. Questo progetto è poi stato presentato con successo al consiglio comunale e ha ottenuto finanziamenti pubblici, che permetteranno di approfondire la ricerca. L’interesse per l’agricoltura urbana non è casuale a Vancouver, una città che rappresenta in maniera esemplare l’entusiasmo e la passione con cui la cultura nord-americana abbraccia i cambiamenti e le novità, in questo caso rivolti verso stili di vita più ecologici. Vancouver si è data l’obiettivo ambizioso di diventare la città più verde al mondo, e ciò testimonia quanto i cittadini, ma anche le istituzioni e i gruppi economici, siano disposti a mettersi alla prova per questa scommessa. Dal punto di vista dell’agricoltura urbana in particolare, nascono di mese in mese nuovi community garden sfruttando spazi dismessi, i farmer’s market entrano a far parte dei luoghi abituali in cui fare la spesa, vengono create iniziative per distribuire in bicicletta, a domicilio frutta e verdura prodotte in fattorie locali, riducendo al massimo l’emissione di CO2, e infine le municipalità diventano parte attiva per riportare l’agricoltura all’interno degli spazi urbani. Forse l’abitudine di coltivarsi il proprio orto, a Vancouver era scomparsa negli anni, ma con grande entusiasmo si sta cercando di recuperare il tempo perduto. A Torino invece, per fortuna, questa abitudine non è mai scomparsa del tutto, ma è certamente stata relegata in spazi di risulta, diventando pratica a cui si dedicano più pensionati e anziani, che giovani volenterosi. Torino è però anche la città di Terra Madre, di Slow Food e di numerose iniziative che tentano di restituire alla cultura del cibo la centralità che dovrebbe avere nelle nostre vite. Proprio a partire da queste forze positive si può iniziare un percorso che ricollochi anche l’agricoltura urbana tra le funzioni di cui è fatta la vita della città. Questa tesi consiste di quattro parti. Nella prima parte, suddivisa in tre capitoli, trova spazio il lavoro teorico di raccolta, elaborazione e sintesi della letteratura, che mi ha consentito di costruire i presupposti del successivo lavoro di progettazione. Il primo capitolo affronta la crisi dell’agricoltura industriale che, a fronte di un alto impiego di risorse, non è riuscita a risolvere il problema della fame nel mondo. Il secondo capitolo approfondisce il tema della crisi delle città occidentali, caratterizzate da un esponenziale consumo del suolo e dalla

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dipendenza dall’automobile. Il terzo capitolo è dedicato all’agricoltura urbana, termine che per certi versi può sembrare un ossimoro, ma che può diventare l’anello di congiunzione per risolvere alcuni problemi di questi due settori. La seconda parte approfondisce il tema delle forme che l’agricoltura può assumere in città. Solitamente l’immagine che viene in mente quando si parla di orti urbani è quella del piccolo appezzamento, spesso abusivo e un po’ disordinato, coltivato da pensionati durante il tempo libero. In realtà le tipologie di agricoltura urbana sono molto più numerose, e vanno studiate nelle loro diverse caratteristiche, in modo da applicare la forma più adatta al contesto urbano in esame. La terza parte descrive le aree sui cui ho deciso di intervenire, ossia il comune di North Vancouver e il quartiere Barriera di Milano, a Torino. Questi due casi studio sono stati scelti per circoscrivere l’ambito di intervento in due aree confrontabili, per dimensione territoriale e demografica. La distanza geografica fa sì che i due ambiti si siano sviluppato secondo percorsi piuttosto diversi tra loro, creando un interessante confronto tra somiglianze e differenze. Infine la quarta parte presenta le proposte di agricoltura urbana ideate per queste due realtà. Nel caso di North Vancouver, l’idea è di intervenire sul tessuto relativamente poco denso della cittadina, con presenze capillari di coltivazione che non lo modifichino in maniera sostanziale. La proposta per Barriera di Milano si è invece concentrata sul grande intervento che da qui a qualche anno trasformerà radicalmente l’aspetto e la vita di questo quartiere. La trasformazione della trincea ferroviaria di via Sempione in linea della metropolitana restituirà al quartiere una porzione di spazio lineare che potrà diventare occasione per un ambizioso esperimento di agricoltura urbana di scala significativa. Questa grande superficie libera potrà infatti diventare spina dorsale e insieme corridoio per un intervento che porrà al centro l’agricoltura, sotto le numerose forme che verranno illustrate in questo lavoro.

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PARTE PRIMA LA TEORIA


CAPITOLO 1 L’AGRICOLTURA 1. MANGIARE È UN ATTO AGRICOLO Secondo una definizione ormai celebre del poeta e contadino americano Wendell Berry, mangiare è un atto agricolo. Ogni volta che mangiamo, seduti a tavola, o sempre più sovente in piedi, seduti davanti alla televisione o in automobile,1 il cibo che troviamo nei nostri piatti è il risultato finale di una lunga catena che ha inizio proprio nei campi in cui è stato coltivato o allevato. Eppure questo legame con i luoghi da cui proviene il cibo e con le persone che lo hanno prodotto si è ormai perso all’interno del complesso, e per molti versi sconosciuto, meccanismo che è il sistema alimentare moderno. Dopo gli ultimi razionamenti alimentari della seconda guerra mondiale, nella società odierna il cibo è diventato un bene abbondante, che ci possiamo permettere di considerare garantito e che abbiamo relegato spesso al ruolo di semplice elemento funzionale al vivere. Il nostro percorso a ritroso per capire qualcosa di più sullo stato dell’agricoltura contemporanea può quindi iniziare da un luogo frequentato quasi quotidianamente: il supermercato. Molti possono ritenere che questo spazio sia molto distante dal mondo agricolo, eppure rappresenta l’interfaccia principale che abbiamo con il sistema alimentare, l’ultimo anello di una catena in cui il cibo passa dalle mani del produttore a quelle dell’utente finale. Questo luogo di vendita, introdotto negli Stati Uniti a partire dagli anni ’20 e in Italia dagli anni ’50, rappresenta e incarna perfettamente l’alto livello di standardizzazione e meccanizzazione raggiunto dal sistema produttivo alimentare. Fare la spesa al supermercato significa compiere una serie di gesti codificati, allo scopo di trarre il massimo risultato dal poco tempo che ognuno di noi dedica agli acquisti alimentari. Tanto per cominciare, di solito il supermercato viene raggiunto in automobile, e non è un caso che l’espansione di questo modello distributivo sia avvenuta parallelamente alla diffusione di massa dell’automobile. Grandi parcheggi circondano i supermercati, rendendoli immediatamente oggetti separati dal tessuto urbano circostante. Una volta entrati nel supermercato, seguiamo un percorso di acquisti che è stato codificato nel tempo e che, per molti versi, 1 Negli Stati Uniti nella fascia di persone tra i 18 e i 50 anni, si stima che un pasto su cinque venga consumato a tavola, M. Pollan, In Defense of Food. An Eater’s Manifesto, Penguin Books, New York, 2008

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ricorda il modello della produzione a catena. La collocazione dei prodotti negli scaffali è stata lungamente studiata e perfezionata da studi sociologici e di marketing: l’acqua e le confezioni ingombranti di solito sono collocate nell’ultima parte del percorso, in modo che vengano prese per ultime e non tolgano spazio nel carrello per altri prodotti; caramelle e cioccolato, solitamente magneti dei desideri dei bambini, sono posti vicino alle casse, incentivando così un acquisto rapido, all’ultimo momento, per evitare imbarazzanti capricci dei bambini. Una musica di sottofondo ci intrattiene, aiutando a mascherare quella sensazione di solitudine che avremmo nel girare ognuno per conto proprio spingendo un carrello. L’igiene poi è uno dei principi dominanti: prodotti sigillati in confezioni sterili e guanti monouso per evitare il contatto diretto con i cibi. Gli scaffali sono quotidianamente riforniti di prodotti freschi e attraenti, che spesso arrivano da tutti gli angoli del globo. Tutti gli spazi di magazzino e di servizio sono collocati dietro grandi porte, lontani dallo sguardo dei clienti. Il contatto con il prodotto ha perso le sue caratteristiche sensoriali, e il rapporto con esso non passa più attraverso il produttore o il venditore, bensì attraverso l’etichetta, che è diventata ormai il principale sistema per comunicare (e in certi casi per celare) l’informazione sul cibo contenuto all’interno della confezione. Il prezzo è ben esposto sugli scaffali e il costo del prodotto è il principale metro di paragone per orientarci nella scelta del prodotto da acquistare. Usciti dal supermercato la sensazione che ne deriva è quella di un sistema perfettamente efficiente e collaudato, che garantisce cibo fresco per tutti, a prezzi Andreas Gursky, 99 cent, 1999

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tutto sommato accessibili. Eppure dietro a questa immagine rassicurante, il sistema della produzione alimentare contemporanea mostra sempre più segni di una insostenibilità, che dovrà essere necessariamente affrontata nel prossimo futuro.

2. QUALCHE DATO SUL MONDO AGRICOLO Il supermercato, come abbiamo visto, rappresenta il momento finale del complesso sistema alimentare, ma per conoscere il mondo della produzione agricola sarà necessario analizzarne alcuni dati, che possono aiutarci a definire un quadro della situazione attuale. Un primo dato che ci può aiutare a riflettere, riguarda il numero di calorie di energia fossile necessarie per produrre una caloria cibo.2 Le produzioni agricole che hanno un rapporto favorevole tra calorie di energia utilizzate per la produzione e calorie ottenute dal prodotto, sono ormai poche. Tra queste il grano, che solitamente fornisce 4 calorie per ogni caloria di energia utilizzata. Gli studi più recenti sostengono però che, in media, il rapporto sia inverso, ossia che siano necessarie dalle 3 alle 10 calorie di energia fossile per produrre una caloria di cibo. Se poi guardiamo i dati sulla carne, i numeri sono ancora più sorprendenti: sono necessarie 19 calorie, costituite dal mangime per l’animale, per ottenerne una di pollo, 65 per il maiale e 122 per il vitello. In media, nel momento in cui un vitello è pronto per essere macellato, ha mangiato in tutto 1200 chili ci mangime, ma ne pesa circa 480.3 La prima considerazione che

Chilometri che frutta e verdura percorrono in media dal campo alla tavola

2 L. Horrigan, R. Lawrence, P. Walker, How Sustainable Agriculture Can Address the Environmental and Human Health Harms of Industrial Agriculture, Evironmental Health Perspectives, n. 110, 2002 3 J. Rifkin, Ecocidio, Ascesa e caduta della cultura della carne, Mondadori, Milano, 2001

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possiamo fare leggendo questi dati, è quindi che il sistema agricolo moderno dipende fortemente dall’uso di energia di origine fossile, utilizzata per far funzionare i trattori, ma anche per pompare l’acqua per l’irrigazione e per produrre fertilizzanti e pesticidi. Come molte altre industrie moderne, anche quella agricola si è sviluppata, nell’ultimo secolo, attraverso tecnologie e mezzi di produzione che traggono vantaggio dalla disponibilità di energia a basso costo. Un altro parametro che viene citato nel dibattito contemporaneo sulla questione alimentare è quello dei food miles, ossia i chilometri percorsi da un cibo nel suo tragitto dal campo alla tavola. Studi recenti indicano che la verdura percorre in media 1600 chilometri dal campo alla tavola, e la frutta ne percorre 1400.4 A loro volta i cibi confezionati viaggiano un numero ancora maggiore di chilometri, spesso da un continente all’altro, e sovente, ad ogni fase della loro produzione, corrisponde il trasporto in un impianto produttivo diverso. Anche in questo caso dunque il complesso meccanismo di produzione e distribuzione dei

1,8%

15%

34% Grafico della popolazione attiva impiegata nel settore agricolo negli Stati Uniti d’America

92 M 1910

150 M

248 M

1950

1990

4 L. Horrigan, R. Lawrence, P. Walker, How Sustainable Agriculture Can Address the Environmental and Human Health Harms of Industrial Agriculture, Evironmental Health Perspectives, n. 110, 2002

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cibi si regge chiaramente sul basso costo dei trasporti. Se spostiamo la nostra attenzione sul lavoro umano necessario al sistema agricolo, notiamo come ormai il settore primario nei paesi occidentali dia impiego ad una percentuale molto ridotta di popolazione. Negli Stati Uniti, all’inizio del XX secolo 32 milioni di persone lavoravano in fattorie, ossia più di un terzo della popolazione attiva. Negli anni ‘50 questo numero scese a 23 milioni di persone, ossia il 15 percento della popolazione attiva. Alla fine del secolo gli agricoltori sono ormai meno di 5 milioni, ossia l’1,8 percento della popolazione.5 Questi numeri percentuali sono molto simili in tutti i paesi occidentali, e, citando una frase dell’ecologista Louise Fresco, ci rendiamo conto che “mai prima d’ora così poche persone hanno la responsabilità di dare da mangiare al resto del mondo”.6 Il mondo agricolo dunque risulta distante dalla nostra vita quotidiana anche perché ormai coinvolge direttamente un numero estremamente ridotto di individui, tanto che pochi di noi possono dire di avere un agricoltore tra i propri amici e parenti. Confrontando i dati sulla dipendenza dell’agricoltura dall’energia fossile con sulla

forza

lavoro

impiegata,

arriviamo facilmente alla conclusione

85%

quelli

che la produzione agricola nell’ultimo secolo è passata da un sistema ad alta intensità di lavoro ad uno ad alta intensità di capitale. La maggior parte degli input necessari alla produzione, non derivano più da energie rinnovabili come il lavoro di uomini e animali, bensì dall’uso di energie fossili per far funzionare i trattori e per

Grafico dell’uso agricolo dei terreni negli Stati Uniti

fertilizzare il terreno. 5 W. Berry, Conserving Communities, in Jerry Mander e Edward Goldsmith, The Case Against the Global Economy: and for a turn toward the local, Sierra Club, San Francisco, 1997 6 L. Fresco, http://www.ted.com/talks/lang/eng/louise_fresco_on_feeding_the_whole_world.html 2009

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Un’ulteriore caratteristica peculiare dell’agricoltura moderna è l’uso delle monocolture: i dati ci indicano che l’80 percento del territorio agricolo mondiale è coltivato con solo 11 colture, e in particolare negli Stati Uniti, l’85 percento del territorio agricolo è destinato a quattro prodotti: mais, soia, grano e fieno.7 Il fatto ancora più sorprendente in questo caso, è però che le varietà di mais e di soia coltivate non sono adatte al consumo umano diretto, ma vengono destinate al nutrimento degli animali, o devono essere raffinate nei nutrienti fondamentali, carboidrati, grassi e proteine, per essere poi ricomposti dall’industria alimentare sotto forma di cibo. Infine un ultimo dato di interesse è il fatto che alla fine del XX secolo nel mondo il numero di persone malnutrite è pari al numero di persone sovrappeso, ossia iper-alimentate (rispettivamente circa 1,2 miliardi di persone, su una popolazione di circa 6 miliardi).8 Il sistema di produzione e distribuzione del cibo dunque, è ancora ampiamente inefficiente nella sua ripartizione a livello mondiale. E per quanto paradossale, nei paesi occidentali sono sempre più numerose le aree che vanno sotto la definizione di “food deserts”, ossia aree urbane prive di negozi alimentari, dove è assai difficile l’accesso a cibi freschi, come frutta e verdura. Proprio in queste aree si registra che una ampia percentuale di popolazione è iperalimentata, ma iponutrita, a causa di una dieta a base di cibi raffinati e confezionati, che fornisce un alto numero di calorie “vuote”, ossia calorie prive di elementi nutritivi come vitamine e sali minerali.9 Questa iniziale panoramica sullo stato della produzione, della distribuzione e della fruizione del cibo ci dà un’immagine ben poco rassicurante, in contrasto con quella che i supermercati cercano di trasmetterci. I problemi del sistema alimentare e agricolo sono negli ultimi anni entrati nel dibattito contemporaneo, aumentando la consapevolezza generale sulla centralità che l’agricoltura occupa nella nostra vita. A riprova di ciò si può considerare la crescita del comparto dei cibi biologici o il successo di iniziative che mettono in contatto produttori e consumatori, come i mercati dei contadini o le fiere dedicate al cibo. L’immagine che generalmente abbiamo del mondo agricolo continua tuttavia ad essere distorta, oscillando tra due tendenze che non ci aiutano a conoscere le reali caratteristiche dell’agricoltura contemporanea. Da una parte infatti diventiamo 7 R. Manning, Against the Grain. How agriculture has hijacked society, North Point Press, New York, 2004 8 World Watch Institute, 2000 9 J. Wehunt, The Food Desert in «Chicago Magazine», Luglio 2009

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consapevoli delle disfunzioni di questo sistema produttivo industriale, in occasione delle emergenze che ciclicamente si ripetono, come il caso della mucca pazza, del pollo alla diossina o della recente contaminazione da salmonella nel burro d’arachidi in America. Come spesso capita in queste circostanze ad alto impatto emotivo, i media alimentano un sensazionalismo spesso superficiale e i governi vengono sollecitati a prendere iniziative immediate, e spesso affrettate, per arginare l’emergenza. Non appena però la situazione torna sotto controllo, il tema perde interesse da parte di media e pubblico e il sistema ricomincia a funzionare senza che siano stati apportati cambiamenti significativi, in attesa della prossima emergenza. La seconda maniera di rappresentare il mondo agricolo è invece quella proposta al pubblico dalle pubblicità dell’industria alimentare, che continuano a fornire un’immagine naif, fatta di casolari tra i cipressi, campi di grano falciati a mano e cuochi con cappelli bianchi che, in moderne cucine, preparano sughi e li imbarattolano uno a uno. Entrambe queste rappresentazioni certamente non aiutano a colmare quella distanza di cui si è parlato all’inizio, tra consumatori e produttori, cibo e coltivazione, tavola e campi.

Pubblicità del Mulino Bianco degli anni ‘70

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3. LA RIVOLUZIONE VERDE Come siamo arrivati allo stato attuale del sistema agricolo? Questa tesi non è il luogo per ripercorrere i 10.000 anni di evoluzione che l’agricoltura ha avuto a partire dalle sue origini, nel periodo neolitico. Può essere utile però soffermarsi sulle trasformazioni che hanno interessato il mondo agricolo nell’ultimo secolo, per spiegare molte delle caratteristiche della situazione contemporanea. La condizione dell’agricoltura attuale affonda infatti le sue radici nelle innovazioni introdotte a partire dagli anni ’50, che hanno radicalmente trasformato il mondo agricolo, tanto che già a pochi anni di distanza sono state definite con il termine “rivoluzione verde”. Questa definizione è stata coniata per la prima volta nel 1968 da William Gaud, direttore della Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale, quando paragonò le trasformazioni in atto nel settore agricolo a rivoluzioni celebri come quella Rossa sovietica e quella Bianca dello Scià dell’Iran.10 Il successo di questa rivoluzione risiede in un numero limitato di fattori che, combinati e integrati insieme, hanno portato a sorprendenti risultati in termini di incremento di produzione agricola. Si tratta essenzialmente di tre fattori: la selezione delle piante e l’uso in particolare delle varietà nane, l’introduzione di fertilizzanti e pesticidi di origine chimica e l’evoluzione tecnologica dei macchinari agricoli. La selezione delle piante è sempre stata praticata dai contadini per aumentare la produttività e per creare piante più adatte a specifiche condizioni climatiche. Da questo punto di vista, è interessante scoprire che le prime pannocchie di mais avevano la dimensione di un dito e la loro misura attuale deriva principalmente dal lungo e laborioso lavoro di selezione praticato dalle civiltà meso-americane. Queste selezioni avvenivano secondo i metodi empirici della prova ed errore e necessitavano di tempi molto lunghi, nel XX secolo si è cominciato invece ad applicare tecniche scientifiche. In particolare un impulso fondamentale derivò dai primi esperimenti di F.D Richey, che negli anni ’20 cominciò a sperimentare l’ibridazione del mais, grazie al sostegno economico del ministro dell’Agricoltura degli Stati Uniti, Henry C. Wallace. Le nuove varietà di mais elaborate da Richey, grazie alla loro capacità di adattarsi meglio a climi caldi e secchi, ebbero immediato successo tra i contadini americani. Se nel 1933 10 “These and other developments in the field of agriculture contain the makings of a new revolution. It is not a violent Red Revolution like that of the Soviets, nor is it a White Revolution like that of the Shah of Iran. I call it the Green Revolution.” William Gaud, discorso pronunciato alla Società per lo Sviluppo Internazionale, Washington, 8 marzo 1968

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Dimostrazione dei vantaggi dell’uso dei fertilizzanti, Tennessee Valley Authority, 1942

la varietà ibrida rappresentava l’1 percento del mais coltivato negli Stati Uniti, già dieci anni dopo veniva coltivata nel 50 percento dei campi.11 Questi primi esperimenti rappresentano in un certo senso il prologo della rivoluzione verde, mentre l’inizio vero e proprio avvenne dopo la seconda guerra mondiale, in seguito agli esperimenti condotti a partire dal 1943 in Messico, da un’equipe presieduta dall’agronomista americano Norman Borlaug e finanziata dalla Rockfeller Foundation e dalla Ford Foundation. Questo istituto, dal 1964 noto come Centro Internacional de Mejoramiento de Maiz Y Trigo, nacque con lo scopo di rendere indipendente il Messico nell’approvvigionamento di grano e mais. I risultati delle ricerche portate avanti dal Centro furono formidabili e se nel 1943 il Messico importava la metà del grano necessario per la popolazione, nel 1956 aveva già raggiunto l’autosufficienza e nel 1964 ne esportava 500.000 tonnellate.12 Per quel che riguarda la selezione delle piante, partendo dai risultati ottenuti negli Stati Uniti, il sistema di ibridazione venne perfezionato e procedette lungo due filoni principali, volti a creare piante che da una parte fossero di dimensioni più piccole e dall’altra fossero in grado di assorbire in tempi più rapidi fertilizzanti a base di azoto. Per quel che riguarda la dimensione delle piante, a differenza di quel che si può pensare, sono le varietà più piccole e non quelle più grandi, 11 R. Manning, Against the Grain. How agriculture has hijacked society, North Point Press, New York, 2004 12 Ibidem

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ad offrire livelli di produttività maggiori, mantenendo inalterata la dimensione della spiga. I vantaggi sono facilmente comprensibili se si considera l’indice di raccolta, ossia il peso della parte edibile, confrontato al peso complessivo della pianta, calcolato in percentuale. A parità di dimensione della spiga, una pianta più piccola avrà un indice di raccolta più alto e sarà quindi più efficiente. Il vantaggio ulteriore è che piante di dimensioni ridotte hanno minori probabilità di spezzarsi in seguito a forti piogge o vento, offrendo quindi maggiori garanzie di raccolta costante anche in caso di cattivo tempo. Se le varietà di grano coltivate negli anni ’20 avevano un indice di raccolta del 35 percento, quelle attuali hanno un indice del 50-55 percento; molti sostengono che questo numero rappresenti il massimo limite ottenibile, dato che la pianta deve destinare almeno il 40 percento della sua struttura per le foglie e lo stelo. Il secondo scopo dell’ibridazione era di ottenere piante che assorbissero rapidamente i fertilizzanti, composti essenzialmente da azoto e potassio, in modo da crescere e raggiungere la maturazione più rapidamente. E qui entra in gioco il secondo fattore, ossia l’uso massiccio di fertilizzanti di sintesi. La teoria minerale, nata in Europa nella seconda metà dell’800, sostiene che le piante si nutrano non tanto di sostanze organiche presenti nel terreno, quanto piuttosto di minerali, la cui quantità necessaria è determinabile scientificamente. La sostanza considerato più importante per le piante è l’azoto, elemento maggiormente presente nell’aria, ma difficilmente utilizzabile dai vegetali nella sua forma semplice N2, poichè è una molecola stabile e bloccata. Solo grazie alle scoperte di Carl Bosch e Fritz Haber, che ottennero il Nobel rispettivamente nel 1918 e nel 1931, l’azoto fu sintetizzato in una molecola utilizzabile dalle piante legandolo, tramite un processo altamente dispendioso di energia, data la forza del legame N2, ad atomi di idrogeno o ossigeno. Il processo di sintesi dell’azoto, elemento chimico necessario per la fabbricazione di bombe, fu reso più semplice ed economico durante le due guerre mondiali. Una volta ottenuta la possibilità di produrre fertilizzanti azotati in grandi quantità, la ricerca si orientò nella direzione di creare varietà di piante ad alto assorbimento di azoto e a rapida crescita. Se all’inizio del ‘900 il consumo dei principali fertilizzanti, ossia azoto (N), acido fosforico (P2O2) e potassio (K2O) non raggiungeva i 4 milioni di tonnellate, nel 1950 era oltre i 17 milioni e alla fine degli anni ’80 oltre i 130 milioni.13 13 M. Mazoyer and L. Roudart, A History of World Agriculture. From the Neolithic age to the current crisis, Monthly Review Press, New York, 2006

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Mietitura meccanizzata dei campi

L’ultimo fattore che ha dato vita alla rivoluzione verde è stato l’applicazione alla coltivazione agricola di tecniche industriali, principalmente attraverso l’uso di macchinari e tecniche di coltivazione standardizzate. L’uso di mezzi meccanici cominciò a svilupparsi nel periodo tra le due guerre mondiali, nei paesi a clima temperato, caratterizzati da vasti spazi agricoli, come Stati Uniti, Australia e Argentina, ma fino al 1945 la trazione animale era ancora di gran lunga predominante in tutti i paesi occidentali.14 L’introduzione massiccia dei trattori è avvenuta nel secondo dopoguerra e nel giro di cinquant’anni la loro potenza è passata da 30 cavalli dei primi modelli, agli oltre 120 dei modelli più recenti. La meccanizzazione è stata applicata a tutte le fasi della lavorazione agricola e ha portato enormi vantaggi in termini di produzione: per fare un esempio, mentre a mano un uomo da solo riesce a mungere circa 12 mucche, due volte al giorno, grazie ai sistemi automatizzati moderni, possono essere munte oltre 200 mucche al giorno da un solo individuo.15 La meccanizzazione è quindi il fattore che essenzialmente ha permesso la riduzione della manodopera necessaria per lavorare i campi. Un altro indice interessante che illustra i progressi ottenuti grazie alla meccanizzazione, è quello utilizzato da Mazoyer, che fa riferimento al dato della produzione di cereali per lavoratore all’anno. All’inizio del XX secolo un lavoratore riusciva a coltivare circa 10 ettari, che producevano ciascuno, in 14 M. Mazoyer and L. Roudart, A History of World Agriculture. From the Neolithic age to the current crisis, Monthly Review Press, New York, 2006 15 Ibidem

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media, 10 quintali di cereali, (ossia 100 quintali in totale all’anno), alla fine del secolo un agricoltore riesce a coltivare tra i 50 e i 200 ettari all’anno, che hanno ciascuno una produzione tra i 50 e i 100 quintali. Un agricoltore moderno può quindi produrre fino a 20.000 quintali di cereali l’anno, ossia 200 volte di più che all’inizio del secolo. Infine va ricordato che la rivoluzione verde non avrebbe avuto luogo senza una massiccia iniezione di finanziamenti pubblici, che ne hanno permesso un’espansione così rapida, almeno in alcuni paesi. I moderni sistemi agricoli danno grandi risultati in termini di produzione, ma richiedono anche grandi investimenti iniziali per l’acquisto di macchinari, di sementi e di fertilizzanti. L’alta diffusione delle più moderne tecniche di coltivazione nei paesi occidentali, contrapposta alla loro bassa diffusione nei paesi del terzo mondo, si spiega proprio con gli alti costi iniziali che vanno intrapresi per avviare queste tecniche di produzione. Le sovvenzioni all’agricoltura, introdotte negli Stati Uniti da Roosvelt come incentivo in seguito alla grande depressione, sono ormai un elemento economico di cui i paesi occidentali non possono più fare a meno per tenere in piedi i propri sistemi agricoli. Nel 1996 il governo degli Stati Uniti ha speso 68 miliardi di dollari nel settore agricolo,16 e l’Europa, per il quinquennio 2007-2013, ha fissato un tetto del 34 percento del bilancio totale da destinare all’agricoltura.17 Tecnica di coltivazione circolare negli Stati Uniti d’America

16 L. Horrigan, R. Lawrence, P. Walker, How Sustainable Agriculture Can Address the Environmental and Human Health Harms of Industrial Agriculture, Evironmental Health Perspectives, n. 110, 2002 17 http://europa.eu/pol/agr/overview_it.htm

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L’agricoltura moderna è la causa della riduzione della biodiversità alimentare

La storia della rivoluzione verde è quella di un successo formidabile, i cui vantaggi non possono sicuramente essere sminuiti. Ad esempio in soli 11 anni, dal 1975 al 1986, la produzione di riso è aumentata del 32 percento e quella di grano del 51. Le moderne tecniche di coltivazione hanno infatti permesso un generale miglioramento delle condizioni della popolazione umana, liberando milioni di posti di lavoro tradizionalmente destinati all’agricoltura ed evitando scenari maltusiani che prevedevano carestie e drastiche diminuzioni di produzione. Tuttavia trasformazioni rapide e radicali portano con sé anche una serie di impatti negativi che si evidenziano in maniera più marcata solo nei decenni successivi.

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4. INSOSTENIBILITÀ DELL’AGRICOLTURA INDUSTRIALE L’agricoltura industriale moderna sta mostrando sempre più chiaramente gli effetti collaterali che comporta in termini ambientali, ma anche economici e sociali. L’agricoltura, secondo lo studio del International Panel on Climate Change delle Nazioni Unite, è uno tra i settori più inquinanti a livello mondiale, tanto da emettere il 20% dei gas serra mondiali.18 Alcune drammatiche questioni ecologiche moderne come la dead sea zone nel Golfo del Messico19 o il prosciugamento del lago d’Aral in Russia, possono essere imputate essenzialmente all’agricoltura. Alcuni dei principali problemi si possono spiegare essenzialmente col fatto che l’agricoltura si è trasformata da sistema sostanzialmente chiuso e circolare, nel quale risorse, prodotti e rifiuti facevano parte di un ciclo in equilibrio, in un sistema lineare, in cui è necessario immettere input esterni che risultano in prodotti, ma anche in rifiuti che devono essere smaltiti e non possono essere reimmessi direttamente nel sistema. L’agricoltura tradizionale si basava essenzialmente sulla simbiosi di piante e animali, un ciclo nel quale le piante producevano cibo per uomini e animali, che a loro volta restituivano fertilizzante per i terreni, sotto Serre di ultima generazione per la coltivazione in California

18 IPCC Fourth Assesment Report, 2007 19 La dead sea zone è una area del Golfo del Messico, delle dimensioni del New Jersey, in cui è praticamente assente ogni forma di vita marina, a causa della mancanza di ossigeno nell’acqua. Questo fenomeno, noto anche come eutrofizzazione, è dovuto ai fertilizzanti, che dai campi scorrono nei fiumi e vengono immessi in mare, stimolando la crescita di phytoplancton, che assorbe totalmente l’ossigeno disciolto nell’acqua.

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forma di escrementi. L’agricoltura moderna invece, ha separato nettamente la coltivazione dall’allevamento ed ora i terreni, privati delle sostanza nutrienti, devono essere continuamente arricchiti di elementi nutritivi attraverso fertilizzanti di natura chimica, mentre gli animali producono escrementi che devono essere smaltiti mediante processi molto costosi. Inoltre, come abbiamo già visto, l’agricoltura moderna si basa largamente sulle monoculture, siano esse vegetali o animali: piante coltivate in filari dritti su campi di enorme estensione, e animali ammassati in allevamenti-fabbrica. Il vantaggio delle monocolture consiste in una produzione standardizzata che di anno in anno garantisce raccolti costanti, attraverso sistemi altamente meccanizzati e codificati. Le monoculture però sono quanto di più lontano esista dalla natura, che basa i propri ecosistemi sull’integrazione di numerosi esseri viventi in equilibrio tra loro. Rappresentano cioè una omogeneizzazione e semplificazione dei processi, in nome di una maggiore efficienza, ma producono sistemi ecologicamente deboli che hanno necessità, per la loro sopravvivenza, di un grande dispendio di energia. Dal punto di vista della coltivazione, seminare e raccogliere, anno dopo anno, sempre la stessa varietà di pianta fa sì che il terreno si impoverisca di specifici elementi nutritivi e, oltretutto, sempre per la stessa profondità, pari a quella raggiunta dalle radici della varietà di pianta coltivata. Di qui il massiccio uso di fertilizzanti chimici, necessari per ripristinare gli elementi nutritivi nel terreno. Contemporaneamente una grande concentrazione di un’unica specie vegetale, significa che la specie stessa sarà più facile bersaglio dell’attacco esterno di funghi o insetti e da ciò discende la necessità di impiegare grandi quantità di pesticidi spesso irrorati secondo uno schema predeterminato, indipendentemente dalla necessità. Un discorso simile può essere fatto per quel che riguarda l’allevamento, attività economica gestita da enormi imprese che si dedicano alla crescita e alla commercializzazione di singole specie animali, secondo schemi produttivi estremamente rigidi e standardizzati. In questo caso i problemi principali sono dovuti alle epidemie, che in tali condizioni riescono ad essere contenute solo tramite la massiccia somministrazione agli animali di medicinali e antibiotici, Esiste poi, come accennato, il problema dello smaltimento degli escrementi, che, prodotti in grande quantità, diventano un rifiuto altamente inquinante. Non possiamo dimenticare infine le modalità di nutrizione di questi animali che in un periodo di tempo stabilito devono aumentare il loro peso, seguendo parametri

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Allevamento a terra di pollame negli Stati Uniti d’America

che si basano su criteri di pura remunerabilità economica. Pare dunque che l’agricoltura moderna si sia infilata in un circolo vizioso, che comporta costi sempre più alti dal punto di vista ecologico ed economico, a fronte di una produttività con indici di crescita sempre più bassi, se non addirittura negativi. Su quest’ultimo aspetto si sono sviluppate, a partire dagli anni ’70, alcune ricerche. In seguito alla crisi petrolifera globale infatti, numerosi analisti si sono interrogati sull’efficienza energetica dei processi economici umani e, tra questi, dell’agricoltura. In particolare, Barry Commoner20 e Nicholas GeorgescuRoegen nel 197121 notarono che lo sviluppo agricolo mostrava una tendenza ad un consumo sempre maggiore di energia non rinnovabile in input, ma ad un aumento di produzione sempre minore come output. Questo fenomeno, noto come law of diminishing returns, implica che l’agricoltura industriale non sia in grado di crescere all’infinito e che, nel lungo termine, essa diventi un’attività economicamente non sostenibile. Si può affermare che se la rivoluzione verde ha permesso l’aumento della produttività di certe colture per unità di superficie coltivata, la produttività per unità di energia in input è diminuita. La fondatezza degli studi compiuti negli anni ‘70 è dimostrata se analizziamo l’andamento della crescita della produzione agricola nei decenni successivi. La produzione media di grano negli anni ’60 è cresciuta del 45 percento rispetto agli anni ’50, nel decennio 20 B. Commoner, Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano 1972 21 N. Goergescu-Roegen, Energie e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino 1998

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1960-70 la crescita è stata del 43 percento, nel 1970-80 del 20 percento e del 10 percento tra gli anni ’80 e ’90.22 L’aumento di produttività, dovuta essenzialmente ad un uso maggiore di irrigazione e fertilizzanti, ad un certo punto però si riduce poichè le piante possono assorbire azoto solo fino ad un determinato limite. Alcuni dati mostrano anche che le prime varietà di riso ibrido, introdotte negli anni ’60, producevano 10 tonnellate per ettaro, ma quelle stesse varietà ora producono solo 7 tonnellate per ettaro.23 Molti cominciano a chiedersi se sia necessario correre così in fretta per rimanere fermi e se in realtà per nutrire noi stessi, non stiamo mettendo in serio pericolo le generazioni future. Il massiccio uso di input esterni ha anche notevoli conseguenze dal punto di vista sociale sul lavoro e sulla vita quotidiana dei contadini. La necessità di acquistare da industrie esterne semi, in particolare quelli OGM che vengono progettati per essere sterili, ma anche fertilizzanti, pesticidi e macchinari, pone i contadini in una situazione di dipendenza da industrie, che possono imporre le proprie condizioni in maniera sempre più forte. Negli Stati Uniti le grandi multinazionali sono presenti praticamente in tutte le fasi del comparto agricolo: vendono semi, fertilizzanti e pesticidi ai coltivatori e acquistano successivamente i frutti dei loro raccolti, che si occupano poi di raffinare in prodotti pronti per l’industria alimentare. I contadini si trovano quindi schiacciati in un meccanismo che, permettendo sempre meno scelte individuali, da molti viene paragonato al sistema dei servi della gleba del Medioevo.24 I vantaggi della rivoluzione verde hanno oscurato, nei primi decenni, l’impatto negativo di trasformazioni così rapide e radicali. Ad ormai quasi cinquant’anni di distanza però, si impone una riflessione che ci permetta di valutare se la bilancia tra vantaggi e svantaggi penda ancora dalla parte dei primi e se questo modello sia ancora quello più valido e adatto per il futuro.

5. QUALI SCENARI PER IL FUTURO ? Molti studiosi sono concordi nell’affermare che oggi il sistema agricolo si trova ad un punto di rottura e che l’agricoltura contemporanea, per i motivi che abbiamo visto, non sarà in grado, allo stato attuale, di soddisfare i bisogni 22 R. Manning, Food’s Frontier. The next Green Revolution, North Point Press, New York, 2000 23 Ibidem 24 Ibidem

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alimentari della crescente popolazione. Prevedere in che modo si trasformerà l’agricoltura del futuro può essere un azzardo, come sempre in questi casi, ma può essere comunque utile leggere le analisi di vari studiosi che, quantomeno, tentano di descrivere possibili scenari, aiutandoci a intravedere nuove strade da imboccare. Spesso in questi casi si rilegge il passato, per meglio capire come, in varie fasi della storia umana, si sia usciti da situazioni di apparente impasse. In particolare uno studio condotto da Joan Thirsk può aiutarci in questa ricerca storica: analizzando l’evoluzione del sistema agricolo mondiale, l’autrice ha infatti rilevato come si assista ad una ripetizione ciclica di fasi identificabili abbastanza facilmente.25 Questi cicli possono essere individuati in maniera piuttosto precisa a partire dal XIV secolo. Poichè lo scopo dell’agricoltura è quello di produrre cibo per il sostentamento delle persone, il sistema si è sempre orientato verso i prodotti più efficienti dal punto di vista nutritivo, ossia carne e cereali. Quando però questi alimenti sono prodotti in quantità eccessiva e non riescono ad essere assorbiti dal mercato, il loro prezzo crolla e l’agricoltura deve riorganizzarsi attraverso usi differenti del territorio. Iniziano così fasi di cosiddetta agricoltura alternativa. Una di queste fasi può essere individuata, ad esempio, nel periodo che va dal 1870 al 1939, quando i mercati europei vennero inondati da grano e carne provenienti dai paesi ex coloniali, come Stati Uniti, Argentina e Australia, dove fattorie a grande scala permettevano produzioni abbondanti a basso costo, condizioni difficilmente ottenibili nei paesi europei. Allo stesso modo Thirsk sostiene che ci si trovi attualmente in una fase di agricoltura alternativa. A partire dagli anni ’80 alcuni indicatori hanno infatti cominciato a mostrare come si stesse per arrivare ad una situazione di sovrapproduzione: nel 1984 l’Unione Europea ha introdotto le quote latte, un complesso meccanismo atto proprio a ridurre la produzione di prodotti caseari, mentre nel 1985, per la prima volta, stock di grano e orzo della produzione dell’anno precedente restarono invendute. Parallelamente, da alcuni anni assistiamo alla riorganizzazione del sistema agricolo, con la crescita di produzioni biologiche, l’aumento della coltivazione di prodotti di pregio e lo sviluppo di modelli che garantiscono un sostentamento agli agricoltori come gli agriturismi o la trasformazione e la vendita diretta al pubblico di prodotti agricoli. La Thirsk nota come, nelle fasi di agricoltura alternativa, le soluzioni ai problemi dell’agricoltura spesso vengono dal basso, tramite iniziative di contadini coraggiosi 25 J. Thirsk, Alternative Agriculture. A History. From the Black Death to the Present Day, Oxford University Press, Oxford, 1997

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e spesso ricchi di fantasia, pronti a mettersi in gioco cercando idee che permettano al loro lavoro di essere socialmente riconosciuto, oltre che redditizio. Al contrario a livello governativo, si assiste ad un generale ritardo nel recepire queste realtà e ad una certa inerzia nel favorire e nel mettere in atto i cambiamenti. Un’altra analisi interessante è quella di Mazoyer e Roudart, che non demonizzano la rivoluzione verde anzi, ne invocano un espansione, riveduta e corretta, anche nei paesi del terzo mondo.26 Mazoyer e Roudart sostengono infatti che ampi margini di produzione siano ancora possibili nei paesi del terzo mondo, dove le potenzialità dell’agricoltura moderna sono state sfruttate solo in minima parte. La diffusione di queste tecniche però non può avvenire se non tramite un aumento del prezzo dei prodotti alimentari. Solo in questo modo i contadini saranno incentivati a lavorare la terra e potranno permettersi di adottare le tecnologie dell’agricoltura moderna. Secondo Dave Henson27 il problema dell’agricoltura contemporanea può essere ricondotto essenzialmente al controllo imposto dalle multinazionali, e solo il loro ridimensionamento potrà garantire un nuovo corso. Gli obiettivi delle multinazionali, legati essenzialmente al profitto economico, fanno sì che la produzione non rispecchi le reali necessità alimentari della popolazione mondiale. e che i contadini si trovino a lavorare in un sistema che non offre loro una libera scelta su cosa e come coltivare. Nel settore agricolo, la stessa legislazione è fortemente influenzata dalle pressioni lobbystiche delle grandi corporazioni, che in questo modo, riescono ad imporre ancora più facilmente le loro condizioni agli agricoltori. Secondo Henson la battaglia va combattuta su più fronti, ma soprattutto in una mobilitazione che solleciti i governi a modificare le leggi, ora come ora troppo sbilanciate nei confronti delle multinazionali. Anche Richard Manning sostiene che il futuro dell’agricoltura dovrà passare attraverso una controrivoluzione dal basso, di cui intravede già molti segni.28 “Le soluzione varieranno di luogo in luogo. La “taglia unica” non sarà la risposta giusta. La gamma di coltivazioni diventerà più ampia, soprattutto se si affiderà alla saggezza delle piante native e alle varietà dimenticate. Le pratiche culturali diventeranno sempre più importanti. La conoscenza locale guiderà il 26 M. Mazoyer and L. Roudart, A History of World Agriculture. From the Neolithic age to the current crisis, Monthly Review Press, New York, 2006 27 D. Henson, in A. Kimbrell (a cura di), Fatal Harvest: The tragedy of industrial agriculture, Foundation for Deep Ecology, Island Press, Washington D.C. 2002 28 R. Manning, Food’s Frontier. The next Green Revolution, North Point Press, New York, 2000

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Eventi come “Terra Madre” a Torino sono occasione per i contadini del mondo di riunirsi e creare una rete di relazioni

processo. L’atto della coltivazione dovrà essere più attento al contesto ambientale ampio, non solo degradandolo meno, ma anche traendo assistenza dalle forze della natura (…) Tutto ciò suggerisce uno smantellamento del sistema lineare. L’informazione e la conoscenza non scorrerà più dall’alto in basso ma si originerà e si riverbererà da ogni parte del sistema. (…) Può essere difficile definire cosa rimpiazzerà la Rivoluzione Verde, (…) ma quel che deve succedere, e in parte sta già succedendo è una rivoluzione della conoscenza. Se c’è stato un errore fondamentale nella Rivoluzione Verde, è stato quello di semplificare un sistema che per sua natura è molto complesso. Coltivare non significa solo produrre cibo. Non è solamente uno strumento per dar da mangiare al numero di persone che la nostra struttura sociale genera. Il modo con cui coltiviamo determina la nostra struttura, crea le nostre megacittà, ci rende ciò che siamo. L’agricoltura è cultura, è alla base dell’integrità della vita degli individui. Quelle vite guadagnano valore e integrità quando nascono da un fertile contesto di conoscenza. Tutto ciò riguarda la coltivazione, ma soprattutto la creazione di vite belle e ricche di soddisfazioni. Falliremo se presteremo attenzione solo al primo aspetto senza considerare il secondo.”

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CAPITOLO 2 LA CITTÀ 1. IL CONFLITTO TRA CAMPAGNA E CITTÀ La città viene spesso descritta come la più grande invenzione dell’uomo. In effetti nessun’altra creazione umana è paragonabile ad essa per dimensione, per impatto sul territorio e per la complessità e sofisticatezza del funzionamento. Per questo motivo le città sono in molti casi il migliore strumento per leggere la storia dell’umanità: all’interno di edifici costruiti centinaia, se non migliaia di anni fa, si svolge la vita quotidiana delle persone, creando stratificazioni che testimoniano l’evoluzione delle città, fatta di costruzione, integrazione e distruzione di materiale. Leggere la storia delle città è quindi un esercizio complicato che richiede una serie di accorgimenti e attenzioni. Le città del XX secolo poi hanno subito trasformazioni rapide e radicali, che hanno modificato in profondità il loro funzionamento. Una delle caratteristiche più evidenti è l’espansione che le città stanno avendo sui territori circostanti e proprio su questo si concentreranno i prossimi paragrafi. La nuova edificazione infatti avviene spesso in spazi precedentemente destinati all’agricoltura e proprio su questo confine, insieme fisico e mentale, si è spostato il conflitto in atto tra città e campagna. Fairview Farm, in California, può ormai essere considerata una urban farm, essendo stata cirdondata negli ultimi cinquant’anni da quartieri residenziali

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2. ALCUNI DATI SULLE CITTÀ CONTEMPORANEEE Anche in questo caso partire da alcuni dati può aiutarci a comprendere l’entità e la portata dei fenomeni in atto. Secondo alcune stime delle Nazioni Unite, il 2007 segnerà una svolta nella storia dell’umanità, perché per la prima volta la popolazione urbana ha superato la popolazione rurale. Le città sono ormai quindi lo spazio in cui abita la maggior parte degli abitanti della terra. L’urbanizzazione della popolazione non è in realtà un fenomeno nuovo nei paesi occidentali, dove il processo di urbanizzazione ha avuto inizio già nel XIX secolo e dove la percentuale di popolazione urbana si aggira in maniera pressoché uniforme tra il 70 e l’80 percento. Andando quindi ad analizzare nello specifico la situazione delle città nei paesi occidentali, un secondo dato interessante deriva da uno studio recente condotto su 213 aree metropolitane americane. I ricercatori hanno incrociato i dati sulla crescita della popolazione urbana e sull’espansione delle dimensioni delle città. I risultati mostrano che, se tra il 1960 e il 1990 la popolazione urbana è cresciuta da 90 milioni a 140 milioni di persone, con un incremento cioè del 47 percento, nello stesso periodo la porzione di territorio urbanizzata è cresciuta da 65.000 chilometri quadrati a 130.000 chilometri quadrati, ossia con un incremento del 107 percento. Questo significa che la densità urbana in questi trent’anni è diminuita del 28 percento.1 Continuando la lettura dei dati, è utile prendere in considerazione la distribuzione della popolazione all’interno degli spazi urbani nelle città degli Stati Uniti. Il censimento americano mostra che dal 1950 al 1996 la popolazione che abita al di fuori della aree metropolitane è diminuita dal 44 percento al 20 percento, la popolazione di coloro che abitano nel centro è diminuita dal 33 al 31 percento e infine coloro che abitano nei sobborghi sono passati dal 23 percento al 49 percento.2 A differenza di quel che succedeva nel XIX secolo, continuiamo ad assistere all’inurbamento della popolazione, ma non più diretto verso le zone centrali delle città, bensì verso quelle suburbane. Anche nel contesto italiano si assiste allo stesso fenomeno, dimostrato dal fatto che dopo decenni di crescita della popolazione della città, a partire dagli anni ’70 l’andamento è divenuto opposto: Milano, Firenze, Venezia, Genova e Napoli hanno attualmente la stessa popolazione del 1951, Torino la stessa del 1961 e Roma 1 A. Berger, Drosscape. Wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press, New York, 2006 2 R. Putnam, Bowling alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster Paperbacks, New York, 2000

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Immagine dell’urban sprawl in Arizona, uno degli stati Americani con crescita di popolazione più alta

la stessa del 1971.3 Questi dati confermano che la popolazione sta spostando la propria residenza dalle città ai comuni limitrofi. Esaminando i dati sulle dimensioni delle abitazioni, possiamo fare un parallelo interessante con i dati precedenti sull’espansione delle città. Dal 1970 al 2000 la famiglia media americana si è ridotta da 3,14 persone a 2,62. Allo stesso tempo la dimensione della tipica abitazione americana è passata da circa 130 metri quadrati a quasi 200, con un incremento del 54 percento.4 Infine colpiscono alcuni dati sulla relazione tra gli spazi dell’abitare e l’uso dell’automobile. Nel 1985 negli Stati Uniti la percentuale di case unifamiliari, di nuova costruzione, con garage per due automobili era del 55 percento, nel 1996 era salito al 79 percento.5 Dal 1960 al 1995 la percentuale di persone che si recano al posto di lavoro con un automobile privata è salita dal 61 al 91 percento. Gli americani in media spendono 72 minuti al giorno in automobile e due terzi dei viaggi sono compiuti da soli.6 La città contemporanea è quindi caratterizzata da un’alta dipendenza dall’automobile come mezzo di trasporto. Tutti questi dati mostrano quindi che le città continuano ad espandersi, con densità edilizie però sempre minori, a causa di spinte centrifughe che portano la popolazione a preferire gli insediamenti periurbani. Questa espansione continua ad essere direttamente collegata all’uso dell’automobile che, a più di un secolo dalla sua invenzione, resta una delle innovazioni tecnologiche che maggiormente hanno condizionato la forma delle città contemporanee. 3 F. Erbani, L’Italia Maltrattata, Laterza, Bari, 2003 4 D. Farr, Sustainable Urbanism: Urban Design with Nature, John Wiley and Sons Inc., Hoboken, New Jersey, 2008 5 Ibidem 6 R. Putnam, Bowling alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster Paperbacks, New York, 2000

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3. CENNI STORICI La forma attuale delle città è quindi il risultato di una serie di complesse vicende la cui descrizione, ancora una volta, non può trovare spazio in questa tesi. Volendo però tentare un’analisi della città contemporanea, possiamo comunque riconoscere alcune tendenze che sono alla base della situazione attuale. Non è necessario spingersi troppo indietro nella storia, per individuare alcuni passaggi chiave che più hanno influenzato l’evoluzione della città. Mumford in particolare individua un momento fondamentale della storia delle città nel passaggio dalla città mercato all’economia di mercato.7 Con lo spostamento del baricentro del potere dai governi centrali monarchici, alla nuova classe mercantile e borghese, la città entra a pieno titolo nell’economia di mercato, e i suoi spazi, gli edifici, le strade, i terreni, assumono valori monetari ed entrano a far parte del complesso meccanismo dell’economia capitalista. A questa trasformazione del valore della città, si accompagna una trasformazione del suo spazio fisico in seguito alla rivoluzione industriale: comincia quel fenomeno di spostamento della popolazione dalla campagna alla città, un fenomeno che ha inizio in Inghilterra nel XVIII secolo e che, come abbiamo visto, continua fino ai giorni nostri nei paesi in via di sviluppo. Se per gran parte della storia umana la popolazione dedita ad attività extra-agricole si era attestata attorno al 10 percento,8 grazie alle nuove tecniche agricole ed industriali, quote crescenti di persone possono dedicarsi ad altre attività lavorative, che sono solitamente concentrate nelle aree urbane. A partire dalla rivoluzione industriale le città crescono a ritmi più che proporzionali rispetto all’aumento della popolazione, dato che accolgono non solo l’aumento naturale della popolazione, ma anche le persone che si trasferiscono dalla campagna. Nel XIX secolo nasce formalmente l’urbanistica, una nuova scienza che ha lo scopo di studiare e orientare i fenomeni di trasformazione delle città. Lavorando con una metodologia simile a quella della medicina, che in quel periodo stava ottenendo grandi successi, l’urbanistica riesce, almeno in parte, a risolvere i più eclatanti casi di degrado e sovraffollamento in alcune delle principali città europee. La tendenza delle città ad attrarre popolazione però subisce nel frattempo un’evoluzione: a partire dal secondo dopoguerra nei paesi occidentali infatti si comincia ad assistere ad un movimento per certi versi opposto a quello 7 L. Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1977 8 A. Mela, Sociologia della città, Carocci Editore, 2006

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fino ad allora in atto. Le città continuano ad essere magneti di popolazione, ma contemporaneamente si assiste a migrazioni interne alle aree metropolitane, dalle zone centrali a quelle periurbane. Questo fenomeno è di particolare interesse anche oggi poichè sta modificando il territorio in maniera evidente e costitusce un elemento di conflitto tra città e agricoltura. Il tessuto abitativo infatti si espande su terreni agricoli e assume una forma che rappresenta un ibrido tra la città e la campagna. Joel Garreau sintetizza in maniera efficace i fenomeni che hanno preso piede a partire dal dopoguerra e che ci hanno portato alla situazione attuale.9 Secondo lo studioso, già negli anni ’30, ma soprattutto a partire dagli anni ’50, gli americani hanno cominciato a trasferire le loro abitazioni in aree che andavano oltre la consolidata forma spaziale delle città. Successivamente sono state spostate nei sobborghi le aree commerciali, per evitare di dover dipendere dal centro città per gli acquisti. Questa fase, tra gli anni ’60 e ’70, corrisponde al fenomeno del malling (da mall, centro commerciale). Infine anche i luoghi di lavoro sono stati spostati in quegli stessi luoghi in cui si vive e si fa la spesa, tagliando del tutto fuori il centro consolidato delle città. Per questo Garreau sostiene che il suburb ormai non sia più sub a nulla, ossia che la dipendenza dal centro non sia più presente nelle città contemporanee. Questo movimento di espansione verso l’esterno delle città è insomma il fenomeno più evidente degli ultimi cinquant’anni e così come il baricentro delle città si è spostato verso nuovi spazi, anche il dibattito urbanistico sta rivolgendo il suo sguardo a ciò che è stato definito sprawl, e che maggiormente attrae l’attenzione di urbanisti, architetti e studiosi della città negli ultimi decenni. Cartolina di un mall americano degli anni ‘60

9 J. Garreau, Edge City. Life on the New Frontier, Doubleday, New York, 1991

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4. COME DEFINIRE LO SPRAWL? Questo nuovo fenomeno di espansione delle città viene comunemente descritto nella letteratura, ma anche nel linguaggio comune, con il nome di sprawl, anche se la sua definizione, studiata negli anni da urbanisti, architetti, sociologi e politici, è tutt’altro che accettata universalmente. Il problema dell’espansione della città ruota ancora attorno alla identificazione e alla definizione del fenomeno: dare un nome è essenziale per identificare il problema, e l’identificazione è cruciale per l’azione.10 E’ significativo quindi che Robert Lang noti come nel 1992, durante una conferenza sui sobborghi, vennero utilizzati oltre 200 nomi per identificare la nuova metropoli.11 Parte delle difficoltà dell’urbanistica derivano dalla rapidità Sprawl urbano nello stato del Kansas

delle trasformazioni in atto, che rende difficile per la disciplina formalizzare un apparato teorico in grado di studiare il fenomeno. Il problema nasce anche dal fatto che siamo legati ad un linguaggio che suddivide gerarchicamente lo spazio in cui viviamo: urbano, suburbano, periurbano, rurale. Nella città contemporanea questa scala però non ha più lo stesso valore.12

La

vita

quotidiana

delle

persone ormai taglia fuori il centro città dai propri percorsi, in un triangolo casa, lavoro, negozi che si svolge interamente nei sobborghi. Vari autori hanno tentato di descrivere e rappresentare il nuovo tessuto urbano, con una serie di mezzi più adatti a creare un panorama della la varietà degli spazi emergenti. In una città dalle dimensioni sempre più vaste, il supporto più efficace è probabilmente

la

fotografia

aerea,

che permette di abbracciare con il suo sguardo una significativa porzione di questi spazi. Dolores Hayden nel suo libro A Field Guide to Urban Sprawl, 10 D. Hayden, A Field Guide to Sprawl, W.W. Norton&Company, New York, London, 2004 11 R. E. Lang e J. B. LeFurgy, Boomburbs. The Rise of America’s Accidental Cities, Brookings Institution Press, Washington D.C., 2007 12 Ibidem

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fotografa dall’alto le città americane e tenta una catalogazione delle forme della nuova città, utilizzando più di cinquanta neologismi che espongono la varietà e le sfaccettature del fenomeno in questione. Anche questo caso dimostra come gli strumenti dell’urbanistica tradizionale, che progettava la città a partire da strade, isolati, piazze e parchi non sia più adatta al quadro contemporaneo. Robert E. Lang e Jennifer Le Furgy notano come lo sprawl crea uno spazio che non è più città, ma non è neanche il sobborgo dormitorio, uno spazio in cui le persone abitano, ma che non considerano degno di nota o di ricordo, uno spazio urbani di fatto, ma non di impressione. Lo sprawl è insomma caratterizzato da bassa densità e da alta dipendenza dall’automobile. Stanford Kwinter infine invita gli urbanisti a vedere la città non più come un solido inerte, bensì come un gas volatile.13 C’è in questa definizione l’idea che l’espansione delle città avvenga senza limiti, seguendo percorsi con traiettorie non sempre facilmente identificabili. Se definire il fenomeno è complesso, darne una spiegazione lo è ancora di più. Può essere allora utile partire da una ricerca compiuta nel 1999 dalla Fannie Mae Foundation, che ha chiesto a numerosi storici dell’urbanistica di individuare i fattori che hanno influenzato la forma della metropoli Americana, nella seconda metà del XX secolo. Il risultato è il seguente:14 - the 1956 Interstate Highway Act - Federal Housing Administration (FHA) mortgages - the deindustrialization of central cities - urban renewal - Levittown (the mass produced suburban tract house) - Racial segregation and job discrimination - enclosed shopping malls - Sunbelt-style sprawl - air conditioning - urban riots of the 1960s La complessità del fenomeno fa sì che cristallizzarne le cause in una lista, o addirittura in una classifica, non risulterà mai del tutto soddisfacente, ma potrà aiutare a stabilire un punto di partenza. Questa lista mostra come, innanzitutto, 13 S. Kwinter, Introduction: War in Peace. Pandemonium, Princeton Architectural Press, New York, 1999 14 R. Fisham, Housing Policy Debate, 11 n. 1 (2001) in R. E. Lang e J. LeFurgy, 2007

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Snout houses, letteralmente “case a grugno”, chiamate così perchè il garage per l’automobile è l’elemento preminente nell’affaccio sulla strada

i fattori che sottendono alle nuove forme urbane siano molto vari e vadano da innovazioni tecnologiche, a decisioni politiche, a fenomeni sociali, ma come non facciano cenno a norme urbanistiche o a piani regolatori, proprio a sottolineare che questa espansione sia avvenuta fuori dal controllo della disciplina urbanistica. Gli unici interventi governativi citati nella lista sono le leggi sulle autostrade e i mutui statali, che però toccano solo marginalmente le questioni urbane. Un elemento centrale, a cui non si fa riferimento diretto, se non attraverso le leggi sulle autostrade, è la diffusione capillare dell’automobile come mezzo di spostamento. L’automobile infatti ha permesso la dispersione della popolazione sul territorio, creando una geografia che è diventata più funzione del tempo che dello spazio,15 per cui non conta tanto la distanza fisica tra due luoghi, bensì il tempo necessario per spostarsi dall’uno all’altro. E’ facile notare come nelle nuove espansioni il disegno delle case, delle strade, degli accessi ai centri commerciali sia tutto rivolto alle automobili e non ai pedoni. Una interessante chiave di lettura per capire il fenomeno dello sprawl si ottiene anche analizzandolo parallelamente l’evoluzione industriale dell’ultimo secolo, che ha visto il passaggio dal sistema di produzione fordista, a quello post-fordista. Il Fordismo, che ha avuto la sua 15 A. Berger, Drosscape. Wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press, New York, 2006

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Intersezione tra le highway 105 e 405 a Los Angeles

massima espansione dall’inizio del XX secolo fino agli anni ’60, si basava sui concetti di automazione, meccanizzazione, standardizzazione ed economie di scala, concetti supportati da infrastrutture organizzate gerarchicamente. Geograficamente il Fordismo agiva centralizzando produzione e management in un grande complesso, che produceva e assemblava i componenti in uno stesso luogo. L’industria fordista aveva quindi bisogno di appoggiarsi ad una grande città, che rappresentava insieme un bacino di manodopera e un primo mercato di sbocco.16 Flessibilità è invece il termine spesso utilizzato per descrivere il passaggio da economie fordiste ad economie post-fordiste. Molti studiosi sono infatti d’accordo nel ritenere che negli ultimi decenni del ‘900 si assista al passaggio ad un nuovo sistema produttivo e tecnologico, in cui la produzione manifatturiera, che prima rivestiva un ruolo fondamentale, viene sostituita da una produzione scientifica, culturale e di servizi.17 Applicando il modello di Kondratiev delle onde lunghe o cicli, che con tempi di circa 50-60 anni si susseguono nelle economie occidentali, si ipotizza che a partire dagli anni ’70 il ciclo fordista abbia cominciato la sua fase discendente e ad esso si stia sostituendo un ciclo basato su un nuovo paradigma tecnologico: il microprocessore e la comunicazione a distanza. 16 A. Mela, Sociologia della città, Carocci Editore, 2006 17 E. Gerelli, Società post-industriale e ambiente, Editori Laterza, 1995

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Anche da questo nuovo modello discendono forme di organizzazione e uso del territorio diverse, rispetto al passato. La produzione si disperde in fabbriche più piccole, che possono produrre beni in quantità minori e in maniera più facilmente adattabile alle richieste del mercato. Grazie alla alta infrastrutturazione, le fabbriche possono collocarsi sul territorio in maniera più libera. La dispersione degli ultimi decenni è favorita anche dalla diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione, che annullano i concetti di distanza e luogo, creando una rete che va oltre la geografia. Al di là delle spiegazioni concrete, molti studiosi hanno tentato di dare una spiegazione più profonda del fenomeno. Mumford osservò che “suburbia è uno sforzo collettivo per condurre una vita privata”. Garreau invece considera il fenomeno dello sprawl come l’ultima espressione di quello spirito di frontiera che fa parte del DNA degli americani.18 Garreau sostiene che gli americani hanno sempre mostrato una grande attrazione a gestire il caos e le trasformazioni per inventare il futuro. Garreau descrive le nuove espansioni come edge cities, città ai bordi ma anche di frontiera, un richiamo allo spirito pionieristico degli americani che nei secoli ha trasformato e dominato la natura selvaggia. Con i loro quartieri dal disegno regolare e gli ampi spazi verdi, le edge cities rappresentano quindi l’ultimo tentativo di integrare due valori della civiltà americana, ossia la reverenza per la natura incontaminata e la devozione per il progresso. Le edge cities vanno considerate come un lavoro in corso, l’applicazione concreta della visione utopica di un mondo nuovo e migliore. In sostanza un atto non programmato, che si sta compiendo senza una consapevolezza del risultato e delle conseguenze che si porterà dietro. La storica Lizabeth Cohen invece, nota come anche il territorio sia entrato nel vortice del consumismo, ridotto a un oggetto di consumo, non molto diverso da quelli che riempiono la vita degli americani contemporanei. Secondo la Cohen dal dopoguerra, gli Stati Uniti si sono sviluppati come una repubblica dei consumatori, una società basata sul consumo di massa di prodotti, automobili e case, molti dei quali progettati per una rapida obsolescenza.19 La città dello sprawl, con le sue villette allo stesso tempo uniformi e personalizzabili, richiama la possibilità di scelta di cui disponiamo quando ci avviciniamo ai prodotti collocati ordinatamente sullo scaffale del supermercato. 18 J. Garreau, Edge City. Life on the New Frontier, Doubleday, New York, 1991 19 L. Cohen, A Consumer’s Republic: the Politics of Mass Consumption in Postwar America, Knopf, New York, 2003

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5. CONSEGUENZE DELLA NUOVA FORMA URBANA Dopo aver analizzato le dimensioni dello sprawl e le sue cause, esamineremo ora le conseguenze che esso ha a livello geografico e urbanistico, ma anche sociale ed ecologico. Guardando il fenomeno dal punto di vista fisico, lo sprawl urbano è caratterizzato dalla creazione di una notevole quantità di spazi aperti “di risulta”. Alan Berger si è occupato di questo fenomeno in particolare nel suo libro Drosscape, documentando la sua ricerca con una serie di immagini fotografate dall’aereo.20 Le fotografie dall’alto mostrano in maniera evidente come la crescita della città si accompagna ad una sempre maggiore creazione di spazi privi di ruolo o forma definita, come parcheggi, svincoli stradali, discariche improvvisate, capannoni usati temporaneamente: vuoti urbani che riducono la densità del tessuto. Questi spazi sono quasi un elemento fisiologico nelle nuove espansioni, ma si trovano sempre più presenti anche nelle aree di città consolidata, come conseguenza dell’abbandono di zone industriali o del cambiamento di destinazione d’uso degli edifici. Nel suo manifesto Berger tenta inoltre una classificazione di questi luoghi, che suddivide in spazi di risulta residenziali, di transizione, delle infrastrutture, di obsolescenza, di scambio e di contaminazione. Secondo Berger la formazione del drosscape non è negativa di per sé, dato Quartiere residenziale di villette unifamiliari in Florida

20 A. Berger, Drosscape. Wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press, New York, 2006

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che ogni processo naturale di crescita presuppone come conseguenza l’uso di risorse e la produzione di rifiuti. L’aspetto più preoccupante nella nostra epoca contemporanea sta però nelle dimensioni del fenomeno, poichè l’area delle zone di spreco aumenta in maniera più che proporzionale rispetto alla crescita delle città. Tuttavia tutti i rifiuti da output possono diventare input di altri processi, e per questo Berger invita architetti ed urbanisti a guardare con più attenzione e con sguardo diverso a questi spazi, che hanno bisogno di essere interpretati in una prospettiva di lavoro nella quale l’architetto dovrà trasformarsi da esperto autoritario a collaboratore e negoziatore. Il fenomeno dello sprawl ha anche conseguenze dal punto di vista sociale. Questo aspetto in particolare è analizzato da Robert Putnam nel suo saggio Bowling Alone.21 Putnam pone al centro della sua analisi il concetto di capitale sociale. A differenza del capitale materiale e del capitale umano, quello sociale non ha a che fare con oggetti, quanto piuttosto con la connessione tra individui, con le relazioni sociali e le regole non scritte di fiducia reciproca. Una società con un alto capitale sociale, di solito funziona meglio nel suo insieme, dato che può reggersi su convenzioni non istituzionalizzate, come la fiducia e l’aiuto reciproco. La tesi di Putnam è che la società americana, a partire dagli anni ’80, ha visto una diminuzione del proprio capitale sociale, resa evidente da un minore coinvolgimento della popolazione in attività sociali e dalla riduzione delle persone che votano alle elezioni, che partecipano a riti religiosi o che si iscrivono a bande musicali. Nella sua analisi dei fattori che hanno contribuito all’indebolimento del tessuto sociale, Putnam risale a quattro cause principali: la pressione del tempo e dei soldi, le nuove tecnologie e i mass media, il ricambio generazionale ed infine la nuova forma urbana delle città. Quest’ultimo aspetto ci interessa in particolare: Putnam sostiene che in generale le persone sono maggiormente coinvolte in questioni e attività comunitarie, quando la scala della vita quotidiana è più piccola e più ridotta. Se vivere in un ambiente urbano indebolisce il coinvolgimento civico e il capitale sociale, abitare nelle zone di nuova espansione lo riduce ancora di più. I nuovi quartieri caratterizzati da villette unifamiliari a bassa densità, l’uso dominante dell’automobile come mezzo di trasporto e la mancanza di un centro civico fanno sì che le interazioni tra individui siano più rare e difficili. Anche l’omogeneità sociale delle persone che vivono in questi ambienti riduce le relazioni, 21 R. Putnam, Bowling alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster Paperbacks, New York, 2000

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dal momento che spesso è proprio il conflitto ad aumentare le interazioni sociali. Un ulteriore fattore negativo è la frammentazione spaziale tra casa e lavoro, che rende più difficile l’incontro tra colleghi al di fuori del lavoro. Ancora una volta l’uso dell’automobile è un elemento che indebolisce il capitale sociale, non solo perché separa fisicamente le persone, ma anche perché riduce il tempo da dedicare ad altre attività, tanto che Putnam quantifica che per ogni dieci minuti in più spesi nel tragitto quotidiano da casa al lavoro, si riduce del 10 percento il coinvolgimento in attività sociali. Infine lo sprawl sta mostrando sempre maggiori conseguenze negative dal punto di vista ecologico. A differenza di quel che si potrebbe pensare, nonostante che le nuove espansioni abbiano solitamente un carattere molto verde grazie alla presenza di giardini individuali, i nuovi quartieri edilizi sono tra i peggiori insediamenti dal punto di vista energetico ed ambientale. La bassa densità abitativa infatti, da una parte aumenta la dipendenza dall’automobile come mezzo di trasporto, con le note conseguenze sull’emissione di gas serra, dall’altra presuppone una maggiore necessità di infrastrutture, come strade, fognature e sistemi di raccolta dei rifiuti, che devono raggiungere in maniera capillare ridotti gruppi di persone, collocati in spazi frammentati. La visione comune è che siano le città a causare il maggiore inquinamento. In effetti per unità di spazio, le città producono molto inquinamento, ma pro capite gli abitanti delle città densamente popolate sono quelli che producono minori emissioni di CO2.22 Uno studio che ha messo a confronto due nuovi quartieri ha mostrato come quello a più bassa densità aveva i valori pro capite più alti per quel che riguarda la impermeabilizzazione del suolo, i chilometri percorsi in automobile, l’uso di acqua, energia e produzione di CO2.23 Infine lo sprawl rappresenta una minaccia allo spazio verde destinato all’agricoltura o alla natura, sostituito con le superfici impermeabili degli edifici e delle strade, o con spazi verdi che necessitano di grandi cure e dispendio di energia per la loro manutenzione.

22 D. Farr, Sustainable Urbanism: Urban Design with Nature, John Wiley and Sons Inc., Hoboken, New Jersey, 2008 23 transportation research board, High performance infrastructure guidelines: best practices for the public right of way, October 2005, in Farr, 2008

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CAPITOLO 3 L’AGRICOLTURA URBANA 1. DEFINIZIONE DELL’AGRICOLTURA URBANA La produzione di cibo nelle città non è una pratica nuova e la coltivazione è sempre stata parte integrante delle economie urbane. Come abbiamo già visto, agricoltura e città sono nate insieme e si sono evolute parallelamente nella storia dell’umanità. Coltivare frutta e verdura e allevare animali vicino alle abitazioni infatti è spesso stato il sistema più semplice ed efficace per sfamare la popolazione delle città. Ripercorrendo la storia delle città tuttavia, è facile notare che la coltivazione in città si sia ridotta in maniera proporzionale alla crescita delle città stesse: lo sviluppo urbano può essere quindi letto come un tendenziale allontanamento dell’agricoltura dagli spazi urbani. Prima di compiere una breve digressione storica sul ruolo dell’agricoltura urbana, è necessario darne una definizione. Negli anni ne sono state elaborate numerose: alcune si concentrano sulla particolare localizzazione delle colture all’interno del territorio urbanizzato, altre si focalizzano sugli aspetti economici Agricoltura urbana in Venezuela

1 P. Donadieu, Campagne Urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli Editore, Roma, 2006

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Orto urbano a Chicago

oppure sulla sicurezza alimentare delle classi sociali più povere. Altre ancora sulla possibilità di un uso diretto del cibo prodotto localmente.1 Tuttavia, l’aspetto che distingue l’agricoltura urbana da quella rurale sta nel fatto che l’agricoltura urbana è parte integrante del processo ecologico dell’ecosistema urbano. Una definizione può essere dunque la seguente, proposta da Mougeot:2 “Urban Agriculture is an industry located within (intraurban) or on the fringe (periurban) of a town, a city or a metropolis, which grows or raises, processes and distributes a diversity of food and non-food products, (re-)using largely human and material resources, products and services found in and around that urban area, and in turn supplying human and material resources, products and services largely to that urban area.”

2 L. Mougeot, Urban Agriculture: Definition, Presence, Potentials and Risks, in Growing Cities, Growing Food - Urban Agriculture on thePolicy Agenda, 2000

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immagine della città di Babilonia, archetipo mitico della città-giardino

2. L’AGRICOLTURA NELLA STORIA DELLE CITTÀ I termini città e campagna, analizzati nella loro accezione più concreta e immediata, descrivono parti di territorio create e trasformate nei secoli dal lavoro degli uomini, l’una per viverci e l’altra per produrre il cibo necessario al sostentamento umano. Nel tempo questi termini hanno condensato attorno a sé significati più complessi che li hanno trasformati in una tipica antitesi del pensiero occidentale. La loro contrapposizione è spesso stata utilizzata per descrivere non solo ambiti territoriali opposti, ma anche stili di vita, modi di produzione, sistemi etici e morali antitetici. L’immagine della campagna, luogo di valori sani e genuini contrapposti alla decadenza della città è un topos letterario presente negli scritti latini così come in quelli romantici. In realtà il rapporto tra questi due luoghi è più quello di simbiosi, dato che l’una non può esistere senza l’altra, e il confine che li separa è più difficilmente individuabile di quel che sembra. Molti studiosi sono concordi nel sostenere che città e campagna abbiano la stessa origine, da far risalire alla rivoluzione agricola, che nell’epoca neolitica ha portato l’uomo ad una vita sedentaria e quindi ai presupposti per lo sviluppo dei primi insediamenti.

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Ecco quindi che fin dall’inizio città e campagna si evolvono assieme in un rapporto molto stretto. Nel suo celebre testo Le città nella storia, Mumford ricostruisce la nascita delle città facendo un ulteriore passo indietro, per spiegarci che una rivoluzione sessuale abbia in realtà preceduto quella agricola. Durante questa fase il ruolo principale nella società passa dall’uomo cacciatore alla donna, ossia colei che cresce e nutre i figli, che pianta i primi semi e li cura con la stessa amorevolezza che dedica ai suoi bambini. La natura femminile si riflette nell’aspetto delle case e dei villaggi, che con le loro forme spesso curve e racchiuse, rappresentano il nido in cui accudire e dare da mangiare ai piccoli. Mumford descrive quindi i primi villagi come il semplice accostamento di abitazioni, che rispondono alla necessità di proteggersi con piccoli campi e appezzamenti, che garantiscono il nutrimento necessario alla sopravvivenza della specie. Gli scavi degli archeologi hanno in effetti rivelato la stretta correlazione tra agricoltura e primi insediamenti umani, grazie alle testimonianze degli scavi nella zone del Medio Oriente e in alcune isole del mediterraneo, come ad esempio un villaggio nei pressi di Gerico, in Palestina, risalente all’8000 a.C., o Catal Huyuk, nella moderna Turchia, risalente al 6500 a. C. o ancora agglomerati in Mesopotamia e sull’isola di Creta, risalenti al 6000 a.C. In maniera pressoché comune, questi primi insediamenti sono formati proprio da un nucleo di abitazioni e da un luogo sacro, contornati da campi che garantiscono il sostentamento della popolazione. Anche nella successiva evoluzione delle città, come in quelle mesopotamiche e babilonesi, gli archeologi hanno scoperto complessi sistemi di irrigazione all’interno dei nuclei urbani, a riprova del fatto che abitazioni e campi venivano costruiti in stretta correlazione. Allontanandosi dagli esempi del Medio-Oriente, la città Inca di Machu Pichu, in Perù, rappresenta un esempio formidabile di ingegneria idraulica applicata alla coltivazione. Nata in un ambiente montuoso, la città aveva a disposizione pochissimo spazio agricolo, ma riusciva a garantirsi l’autosufficienza alimentare grazie alla coltivazione su terrazzamenti e ad un sofisticato sistema di irrigazione che, riciclando l’acqua, ne faceva un uso più efficiente possibile. In questo modo gli Inca erano in grado di ottenere due raccolti all’anno in una zona climatica con temperature sotto zero per lunghi periodi dell’anno. Anche nella città di Tenochtitlan, attuale Città del Messico, venne creata una tecnica agricola chiamata chinampas, che consisteva in piccoli letti galleggianti sull’acqua, ideati per coltivare su un terreno paludoso. Nelle città europee, durante il medioevo,

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gli spazi dedicati alla coltivazione erano considerati come fondamentali sistemi difensivi, dato che potevano garantire l’autosufficienza alimentare nei periodi di assedio. Ampi spazi erano quindi riservati alla coltivazione e all’allevamento, nella maggior parte dei casi collocati nei conventi e nei monasteri o nelle parti interne dei lotti Rappresentazione della tecnica agricola dei “chinampas”

gotici. Un interessante esempio di agricoltura urbana più vicino ai nostri giorni è invece quello del Marais, il quartiere di Parigi in cui venne sviluppata una tecnica di coltivazione intensiva di grande successo. Citata anche da Kropotkin3 nei suoi studi sull’agricoltura moderna, questa tecnica prevedeva un sistematico utilizzo di escrementi equini come fertilizzante e la coltivazione in serre riscaldate, che assumevano

Orto medioevale

addirittura la forma di piccole cloche di vetro per coprire individualmente le teste di insalata. I maraicher riuscivano in questo modo a produrre da 3 a 6 raccolte all’anno e concentravano i loro sforzi su verdure dall’alto valore commerciale che venivano esportate fino a Londra. In Europa l’agricoltura urbana è stata uno strumento utilizzato dalle

Le cloche di vetro usate dai “maraicher” per la coltivazione dell’insalata

amministrazioni

comunali

nel

XIX

secolo, per migliorare la qualità della

3 P. Kropotkin, Fields, Factories and Workshops Tomorrow, George Allen & Unwin, London, 1974

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Villaggi operai a Francoforte negli anni ‘30

vita dei ceti meno abbienti che si erano inurbati in seguito alla rivoluzione industriale. Destinare ai ceti proletari piccoli spazi ad orto era un sistema per offrire un’integrazione allo stipendio, uno

spazio

alternativo

alle

case

spesso sovraffollate e la possibilità di mantenere abitudini di una vita agricola abbandonata di recente. In Inghilterra i primi allotment gardens nacquero con una legge del 1908, che imponeva ai comuni di destinare spazi urbani per orti individuali ad uso delle persone meno abbienti. Anche in Germania, molti villaggi operai tedeschi e i successivi interventi di edilizia sociale prevedevano piccole forme di orti comunitari o individuali come elementi Orti urbani lungo le sponde del Tamigi a Londra all’inizio del ‘900

complementari agli spazi verdi. Nei paesi occidentali l’ultimo grande sviluppo dell’agricoltura urbana è avvenuto in corrispondenza delle due guerre mondiali. Dovendo destinare

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gran parte della produzione agricola ai soldati, e gran parte della manodopera all’industria bellica, i governi nazionali promossero campagne per incentivare la produzione individuale del cibo. Gli orti erano anche visti come sistemi per sostenere il morale delle popolazioni durante i periodi di guerra, dando loro l’idea di contribuire direttamente al successo bellico. In Inghilterra si stima che nel 1943 il 10 percento della produzione agricola derivasse da orti individuali. Negli Stati Uniti e in Canada le amministrazioni promossero i cosiddetti Victory Gardens attraverso una ampia campagna mediatica fatta di locandine; si stima che in Canada questi giardini garantissero il 41 percento delle verdure consumate sul territorio nazionale.4 In Italia una legge del 1941 istituÏ gli orticelli di guerra, che erano permessi su qualsiasi terreno urbano incolto, ad eccezione dei giardini

Locandine utilizzate negli Stati Uniti durante le guerre mondiali per promuovere la coltivazione dei Victory Gardens

4 Lawson, cit. in S. Rich, Tales of the Self-SufďŹ cient City, http://www.worldchanging.com/ archives//005961.html 2007

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Mietitura del grano in piazza del Duomo a Milano durante la seconda guerra mondiale

storici. L’idea venne pubblicizzata addirittura coltivando grano in piazza del Duomo a Milano. Superata l’emergenza alimentare del periodo bellico, l’agricoltura in città ha visto un lento declino e ha generalmente perso l’interesse da parte di urbanisti e amministratori della città. La riduzione dei costi dell’energia ha reso più economico il trasporto di frutta e verdura da luoghi sempre più lontani, rendendo gli spazi agricoli urbani meno redditizi e quindi più soggetti alla pressione del mercato edilizio. Il sistema alimentare ha, negli anni, raggiunto un alto livello di efficienza, tale da garantire il rifornimento di prodotti freschi per gli abitanti delle città. Gestito principalmente dal settore privato, urbanisti e amministratori consideravano che quello alimentare fosse un sistema ben funzionante da accettare così com’è. La pratica di coltivare in città è stata vista come attività marginale, eredità di stili di vita contadina in via d’estinzione. Nonostante ciò il tema dell’agricoltura, quasi come un fiume carsico, pur perdendo l’attenzione pubblica, non è scomparso dal panorama urbano, a dimostrazione che il gesto di coltivare è visto da molte persone come un’estensione delle proprie abitudini di vita quotidiana. Negli anni ’70 l’agricoltura urbana è tornata al centro delle abitudini di molte persone, in corrispondenza della crisi petrolifera, che ha rimesso in questione la disponibilità

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di carburante a basso prezzo. Poi, ancora una volta il tema è scomparso, per riemergere con enfasi negli ultimi anni.

3. UN RINNOVATO INTERESSE NELLE CITTÀ CONTEMPORANEE Gli ultimi decenni, e i primi anni di questo nuovo secolo in particolare, hanno visto un generale risveglio dell’interesse per gli orti urbani, da parte di studiosi, pianificatori, amministratori, ma soprattutto di abitanti delle città, che in fondo sono coloro che rendono l’agricoltura urbana possibile. Leggendo giornali e riviste, è difficile non notare quanto spazio viene ultimamente destinato a questa particolare pratica del vivere in città. Se parliamo del ritrovato interesse per la coltivazione nelle città del mondo occidentale, non bisogna dimenticare che, in realtà, l’agricoltura in città è continuata per tutti questi anni in molti paesi in via di sviluppo, dove la questione alimentare è tutt’altro che risolta e dove gli orti urbani possono giocare un ruolo importante nell’approvvigionamento quotidiano di cibo. Nelle città occidentali il ritorno degli orti è dimostrato da una serie di elementi che confermano con quale peso il tema stia tornando all’ordine del giorno. Nel Regno Unito si stima che più di 100.000 persone siano in lista d’attesa per avere la possibilità di coltivare uno dei 300.000 allotment comunali.5 Di fronte ad una tale richiesta il National Trust, l’ente inglese che gestisce i monumenti pubblici, nel febbraio 2009 ha deciso di mettere a disposizione alcuni terreni di sua proprietà, garantendo così circa 1000 orticelli in più. I vivai di Vancouver la scorsa primavera, per la prima volta, hanno venduto più semi di verdure che semi di fiori, un trend che si manifesta in giro per il mondo. I supporter dell’agricoltura urbana sono poi rimasti galvanizzati quando è uscita la notizia che Michelle Obama aveva deciso di impiantare un orto nel giardino della Casa Bianca, per garantire frutta e verdura locali alla dieta della famiglia. E’ interessante notare che l’ultima first lady a coltivare un orto era stata Eleanor Roosvelt, moglie di Franklin Delano, che, più di cinquant’anni fa, durante la seconda guerra mondiale, aveva aderito entusiasticamente alla poltica del Victory Garden. Qualche settimana fa abbiamo scoperto che il raccolto dell’orto di Michelle non si può fregiare del titolo di biologico, a causa di tracce di piombo nel terreno, ma resta comunque un 5 R. Smithers, Dig for recovery: allotments boom as thousands go to ground in recession, The Guardian, 19 febbraio 2009

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Michelle Obama lavora nell’orto creato nella primavera del 2009 nei giardini della Casa Bianca

gesto simbolico che incoraggia le persone ad abbracciare un nuovo approccio al cibo e alla coltivazione, importante soprattutto se si considera che negli Stati Uniti l’obesità sta diventando una delle patologie più comuni nella popolazione. Molte municipalità, come Chicago, San Francisco e Vancouver, stanno adesso imitando il gesto di Michelle, impiantando orti nei giardini dei proprio municipi, a dimostrazione che un movimento partito dal basso comincia a trovare appoggio nelle istituzioni. Questo rinnovato interesse può essere ricondotto ad una serie di atteggiamenti che in questi ultimi anni sono maturati nelle persone e nella società più in generale. Da una parte, come abbiamo visto, sta crescendo infatti l’attenzione nei confronti della provenienza e della qualità dei cibi che mangiamo e questa nuova consapevolezza fa aumentare di conseguenza il desiderio di coltivare i propri ortaggi, per poter controllare direttamente in che maniera vengono cresciuti. Accanto a ciò, si può notare come negli ultimi decenni un’ondata ecologista ed una maggiore sensibilità verso i temi ambientali stiano attraversando le società occidentali, inducendo il desiderio di riconnettere la propria vita con i ritmi e le attività della natura. Anche la forma fisica della città sta cambiando e negli ultimi decenni si è verificata, a causa della deindustrializzazione, una generale liberazione di areee, in alcuni casi trasformate in orti urbani improvvisati. Vale la pena di ricordare anche che l’agricoltura urbana nasce spesso da comunità di cittadini stranieri, spinti dal desiderio di coltivare ortaggi tipici del paese di origine,

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che non si trovano comunemente in vendita nelle città di immigrazione. Di

fronte

all’aumento

dell’interesse per l’agricoltura urbana, molte città occidentali si trovano in difficoltà nell’affrontare la questione, scontando

Un orto temporaneo installato davanti al municipio di San Francisco nel 2008 in occasione dell’evento Slow Food Nation

quel

ritardo

dovuto

ai

quasi cinquant’anni in cui l’agricoltura è uscita dallo scenario urbano e dal dibattito

tra

urbanisti,

architetti

e

amministrazioni. Solo negli ultimi anni infatti, le amministrazioni cominciano ad attrezzarsi per rispondere ad un movimento che essenzialmente è partito dal basso, gli urbanisti cominciano a considerare l’agricoltura come funzione possibile in città e gli architetti si affacciano sulla scena. Compiendo una sommaria analisi dell’agricoltura urbana nella letteratura contemporanea, nonostante l’incredibile interesse da essa suscitato negli ultimi anni, sono ancora pochi gli esempi concreti in cui l’agricoltura è stata inserita con una visione organica nei piani urbanistici, così come non si trovano molti casi di orti urbani disegnati da architetti o paesaggisti. Gli orti urbani costituiscono peraltro un tema complesso, che non può essere affrontato semplicemente utilizzando gli strumenti destinati ad altre forme di progettazione del verde. Una differenza sostanziale sta nel fatto che l’agricoltura in città implica l’utilizzo diretto della terra da parte degli utenti, che vanno quindi per quanto possibile coinvolti e ascoltati nelle fasi di progettazione. Progettare orti urbani significa prestare attenzione a questioni sociologiche, estetiche, igieniche, tecnologiche ed ambientali poichè tutte quante hanno significative implicazioni con questo settore. Tuttavia, a fronte di alcune difficoltà che vanno tenute in conto, l’agricoltura urbana porta con sè una serie di vantaggi e benefici che ne fanno un tema ricco di stimoli e potenzialità interessanti. Di seguito sintetizzieremo alcune delle conclusioni a cui si è giunti riguardo ai benefici dell’agricoltura in città. Punto di partenza per provare a dare un primo inquadramento a questo complesso tema possono essere i numerosi studi fatti in questi ultimi anni in ambito accademico.

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Questi studi sono spesso stati svolti prendendo in esame gli orti urbani nelle loro forme più spontanee e spesso improvvisate, restituendoci un’immagine vivace e genuina del fenomeno. 4 BENEFICI DELL’AGRICOLTURA

4. BENEFICI DELL’AGRICOLTURA URBANA 4.1 Benefici sociali L’agricoltura urbana porta con sé vari benefici dal punto di vista sociale, poichè implica un uso attivo del territorio urbano, da parte della popolazione. La presenza di orti urbani in un quartiere crea situazioni di interazione tra le persone, portando alla nascita di reti informali di scambio e aiuto. L’attività del coltivare diventa infatti occasione e stimolo per uno scambio di consigli, di informazioni, oltre che di prodotti (chi coltiva sa bene che spesso la produzione di verdure eccede il proprio consumo). Curare una porzione di terreno crea un maggiore senso di appartenenza al territorio, che si riflette in una maggiore attenzione al contesto urbano allargato. La presenza di orti urbani si traduce quindi spesso in una maggiore coesione sociale, oltre che in un orgoglio per il proprio quartiere.6

Installazione di cavolfiori davanti ad una fermata della metropolitana di Tokyo 6 A. Viljoen, K. Bohn e J. Howe, Continuous Productive Urban Landscapes: Designing urban agriculture for sustainable cities, Architectural Press, Burlington, 2005

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La coltivazione di orti comuni coinvolge tutti gli strati sociali di una comunità, in particolare le categorie più svantaggiate come i senzatetto, i bambini, gli anziani e le minoranze etniche.7 Tramite la coltivazione urbana persone disagiate e minoranze discriminate possono trovare un ruolo che aiuti una loro integrazione all’interno della società. Attraverso il lavoro e l’impegno queste persone riescono infatti a dimostrare il contributo che possono dare alla comunità. Gli orti urbani giocano anche un importante ruolo nel combattere la criminalità urbana. Uno studio di Kuo e Sullivan nella città di Chicago ha rilevato una riduzione del tasso di criminalità in aree prossime ai community gardens.8 Gli autori spiegano il fenomeno con il fatto che il verde urbano aumenta la vigilanza sul territorio, incentivando gli abitanti a vivere più tempo negli spazi pubblici. Inoltre, un community garden può essere visto come un punto di riferimento territoriale (territorial marker), che costituisce un deterrente per il crimine, anche in assenza di presidio diretto dei cittadini, ma segnalando la presenza latente di una comunità. L’agricoltura urbana infine può diventare un importante strumento educativo, non solo per i bambini, ma anche per gruppi sociali più ampi. Osservare una pianta attraverso le sue fasi di crescita, raccoglierne i frutti e mangiarli dopo averli cucinati con le proprie mani, è probabilmente un’occasione per insegnare ai bambini concetti legati alla scienza, alla biologia e alla importanza di una corretta alimentazione, ma anche per trasmettere valori individuali e sociali quali la costanza, l’impegno, il rispetto per tutti gli elementi della natura. La coltivazione degli orti è inoltre stata utilizzata in ambiti più ampi come occasione per la rieducazione di persone disagiate o in difficoltà. Avere la responsabilità della crescita delle piante e imparare tecniche di orticoltura aiuta infatti a trovare un equilibrio che permetta una vita più armoniosa all’interno della società. Come spesso succede in questi casi, gli effetti sociali dell’agricoltura possono non essere facilmente individuabili o quantificabili. Per questo ulteriori studi, potranno aiutare ad evidenziare le potenzialità e le sfide che l’agricoltura urbana pone dal punto di vista sociale.

7 M. Bailkey, J. Wilbers e R. van Veenhuizen, Building Communities through Urban Agriculture, UA Magazine, n. 18, 2007 8 F. Kuo e W. Sullivan, Environment and Crime in the Inner City: Does Vegetation Reduce Crime?, Environment and Behavior, 33(3), 2001

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Orti urbani a Brooklyn, New York

4.2 Benefici ecologici Michael Hough, nel suo libro “Cities and Natural Process” del 1995 ci invita a guardare il paesaggio urbano, e soprattutto quello verde, in una prospettiva un po’ diversa del solito. La scala di valori a cui solitamente facciamo riferimento ci induce ad apprezzare di più un parco urbano curato, che una linea ferroviaria abbandonata, che la natura negli anni ha conquistato con una vegetazione spontanea. Hough però ci fa notare che questi spazi verdi sono i più ricchi di biodiversità, perché lì la natura, intesa sia come piante, sia come animali, si può sviluppare liberamente, secondo il proprio equilibrio, grazie al ridotto intervento dell’uomo. I parchi strutturati invece sono in effetti ambiti ecologicamente inerti, lontani dalle dinamiche naturali, ambienti che presentano una scarsa diversità floro-faunistica e richiedono una costante spesa di denaro pubblico per la loro manutenzione. L’agricoltura urbana si colloca in un certo senso a metà di questo spettro e costituisce comunque un ulteriore ecosistema all’interno della città; pur essendo uno spazio curato e modificato dall’intervento umano, allo stesso tempo rende produttivi i suoli, apporta nuove piante nel contesto urbano e crea un riparo per insetti e uccelli. L’agricoltura, in particolare dal punto di vista ecologico, porta una serie di benefici: può contribuire a migliorare il microclima urbano e a conservare i suoli, a minimizzare la produzione di rifiuti urbani e a migliorare il riciclo delle sostanze nutrienti, a migliorare la gestione delle risorse idriche, la biodiversità, il bilancio ossigeno/anidride carbonica, e a sviluppare una coscienza

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ambientale negli abitanti. I

vantaggi

ecologici

dell’agricoltura urbana possono essere compresi innanzitutto se si considera il processo produttivo che, a partire da risorse, crea prodotti e rifiuti: da modello lineare, tipico della vita cittadina, esso torna ad essere ciclico, grazie al fatto che i rifiuti possono essere utilizzati come risorse. L’agricoltura urbana implica infatti un riciclo di elementi nutritivi, attraverso il compostaggio e la cura del suolo per mantenerne la fertilità. Se si considera che il 70 percento dei rifiuti urbani è costituito da

materiale

organico,9

è

facile

intuire come la pratica del compostaggio riduca la pressione sulle discariche, promuovendo allo stesso tempo il mantenimento degli elementi nutritivi sul luogo di origine . L’agricoltura urbana incoraggia un concetto di riciclo anche allargato ad altri materiali, dato che spesso elementi dismessi come assi, teli e vetri possono tornare di utilità nelle pratiche di coltivazione. Infine per quel che riguarda i rifiuti, utilizzare frutta e verdura coltivate vicino a casa riduce ulteriormente la necessità di materiale di confezionamento e packaging che, ancora una volta, va a riempire le discariche. L’agricoltura urbana ha anche effetti positivi dal punto di vista del ciclo idrico in città: un aumento degli spazi verdi contribuisce a diminuire il carico dei sistemi di smaltimento delle acque meteoriche, perché i terreni permeabili trattengono la pioggia. Di conseguenza, l’agricoltura urbana contribuisce ad evitare l’erosione dei terreni e a diminuire l’eventualità di alluvioni. L’applicazione di alcuni accorgimenti come la raccolta di acqua piovana dai tetti o da altre superfici permeabili, aiuta a provvedere acqua per l’irrigazione degli orti e a ridurre ulteriormente i rischi di alluvione. E’ anche interessante notare come alcuni studi indichino anche che l’agricoltura urbana richiede un minore apporto di energia per la produzione di una 9 J. Smit, www.jacsmit.com

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Orti urbani a Toronto


medesima quantità di cibo.10 Questo è spiegabile se si considera, ad esempio, la questione dei food miles: coltivare cibi vicino a casa riduce la necessità di trasportarli per lunghe distanze, e di conseguenza anche le emissioni complessive di CO2. Il vantaggio dell’agricoltura urbana si comprende

poi prendendo in

considerazione le tecniche di coltivazione: rispetto ai metodi agricoli estensivi di tipo industriale, quelli praticati in piccoli orti, intensivi e basati principalmente sul lavoro manuale, sfruttano meglio lo spazio a disposizione, riducono gli sprechi nella produzione e nella distribuzione e limitano l’energia necessaria per far funzionare i macchinari. Al di là dei vantaggi elencati, l’apporto più importante dell’agricoltura urbana riguarda l’atteggiamento e la consapevolezza delle persone che la praticano. Chi si avvicina alla coltivazione, rinnova un legame con la natura, comprende meglio i cicli su cui si basa il nostro ecosistema e impara a rispettare il delicato equilibrio su cui si regge. Una persona che coltiva un piccolo orto in città sarà probabilmente più attiva nel riciclo dei rifiuti, si dimostrerà più interessata a conoscere la provenienza dei cibi che acquista, cercherà i prodotti di stagione piuttosto che quelli importati dall’altro emisfero, cucinerà con più attenzione gli ortaggi che lui stesso ha coltivato e raccolto e, grazie a tutti questi piccoli gesti, restituirà al cibo quell’importanza che deve avere nelle nostre vite, con tutte le conseguenze positive.

4.3 Benefici economici L’agricoltura urbana può davvero generare un profitto? La coltivazione in città, come solitamente la intendiamo, è un’attività condotta a livello individuale, come forma di autoproduzione di ortaggi e frutta; per questo il suo impatto economico è spesso significativo a livello familiare, ma ininfluente se visto ad una scala di economia più ampia. Negli ultimi anni alcuni studi hanno però approfondito il tema del ruolo economico dell’agricoltura urbana e allo stesso tempo sono state tentate forme di agricoltura urbana che possano anche generare profitto, e quindi garantire un sostenibilità economica dei progetti. I costi dell’agricoltura urbana sono solitamente ridotti, dato che questa pratica non necessita di grandi investimenti iniziali, determinati nell’agricoltura 10 J. Smit, www.jacsmit.com

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tradizionale all’accesso ai terreni, all’acquisto di macchinari, di impianti, di semenze, fertilizzanti e pesticidi. Alcune spese da parte di enti pubblici possono essere necessarie, per attrezzare aree da destinare ad orti, ma la loro entità è comunque ridotta rispetto al bilancio totale delle amministrazioni. A livello familiare, la crescita individuale di frutta e verdura può apportare un contributo ai bilanci familiari, anche se si considera l’aumento generalizzato dei prezzi che frutta e verdura hanno avuto negli ultimi anni. Oltretutto le colture più indicate per la coltivazione urbana sono generalmente gli ortaggi e la frutta maggiormente deperibili, che normalmente hanno alti costi di trasporto e di conservazione. Allargando la visuale, i beneficiecologiciesocialiprecedentementeesaminati si trasformano anche in benefici economici, sebbene la loro quantificazione sia spesso difficile poichè non vengono scambiati direttamente sul mercato e son associati a valori monetari. Oltre agli effetti diretti dell’autoproduzione da parte delle famiglie e della creazione di mercati locali, l’agricoltura urbana può avere numerosi effetti indiretti sulle economie delle comunità che la praticano. Lo sviluppo di coltivazioni urbane potrebbe attrarre ulteriori investimenti (come servizi di fornitura di materie prime, strutture di commercializzazione o di ristorazione) attraverso il cosiddetto “effetto moltiplicatore”. Il riciclo dei rifiuti solidi urbani e delle acque reflue induce risparmi nei costi di smaltimento, stoccaggio e depurazione. La coltivazione di aree marginali o dismesse permette di valorizzare terreni che altrimenti rimarrebbero improduttivi. Un importante vantaggio economico inoltre è quello che potrebbero ottenere le amministrazioni comunali promuovendo la nascita di orti urbani: affidare uno spazio verde pubblico alla cura di persone individuali permette infatti una riduzione delle spese di manutenzione da parte degli enti pubblici. A fronte di un iniziale investimento da parte delle istituzioni, si ottiene un risparmio nel lungo periodo, che è particolarmente significativo se si considerano i bilanci sempre più ristretti del settore pubblico. Oltre a questo, le coltivazioni urbane possono indurre comportamenti più responsabili dei cittadini nei confronti degli spazi pubblici, stimolando una consapevolezza maggiore verso i processi economici urbani. Alcuni studiosi hanno tentato di dare un valore economico all’agricoltura urbana , attraverso lo studio del valore fondiario di edifici collocati in prossimità di orti urbani. Lo studio di Been e Voicu11 elabora un modello per valutare l’impatto 11 V. Been e I. Voicu, The Effect of Community Gardens on Neighbouring Property Values, NY University Law and Economics Research Paper, 6(9), 2007

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Liz Christy, attivista ecologista, nel primo community garden creato a Loisaida, New York

della presenza di community gardens sulle rendite immobiliari delle proprietà presenti in un certo raggio di distanza dal giardino. Attraverso l’analisi statistica del caso del Bronx (New York), gli autori trovano una correlazione significativamente positiva nell’impatto dei prezzi degli immobili in un raggio di 300 m dal giardino. Questo impatto cresce con il tempo di permanenza e con la qualità del giardino. Inoltre, l’effetto è amplificato nel caso di giardini presenti nei quartieri più poveri, dove i prezzi degli immobili crescono del 10% dopo 5 anni dall’apertura di un community garden. Gli autori ipotizzano che questo modello potrebbe essere usato per la valutazione di investimenti pubblici nella realizzazione di giardini nei quartieri ad alta densità, finanziati attraverso un aumento dell’imposizione fiscale sulle proprietà immobiliari. Paradossalmente, questo effetto positivo sulle rendite e il conseguente effetto di gentrification è la principale minaccia all’esistenza dei community gardens. Questo aspetto è evidente se si considerano i community garden del quartiere Loisaida di Manhattan. La loro presenza ha infatti portato al quartiere vantaggi tali da attrarre investimenti economici che mettono in pericolo la sopravvivenza dei giardini stessi, visti come appetibili spazi per l’edificazione.12 Varie iniziative hanno tentato di portare l’agricoltura urbana ad un livello 12 C. G. Boone and A. Modarres, City and Environment, Temple University Press, Philadelphia, 2006

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superiore, che vada al di là della semplice autoproduzione di ortaggi e frutta e permetta di generare un profitto economico. Partendo da alcuni indubbi vantaggi dell’agricoltura urbana su quella industriale, come la vicinanza fisica ai mercati e lo sfruttamento di spazi altrimenti inutilizzati, alcuni progetti si prefiggono lo scopo di rendere redditizia la coltivazione in città, con più o meno successo. Uno dei più conosciuti è lo “SPIN (Small Plot INtensive) farming”: questo metodo parte dalla constatazione che sia difficile avvicinarsi all’agricoltura di stampo industriale, che prevede consistenti investimenti iniziali per l’acquisto di terreno e macchinari. La soluzione sta allora nel coltivare intensamente piccoli spazi urbani o periurbani, concentrandosi su piantagioni ad alta resa economica, come ortaggi deperibili o erbe aromatiche. A detta di coloro che promuovono questo metodo, il profitto coltivando un quinto di ettaro di terreno può arrivare fino a $50.000. A Vancouver ho avuto l’occasione di entrare in contatto con una persona che,

tramite

l’iniziativa City Farm Boy, ha in un certo senso messo in pratica questo metodo. Questa impresa nasce dalla constatazione che spesso i giardini individuali, molto comuni nel tessuto edilizio nordamericano, restano inutilizzati o comunque non sfruttano le loro potenzialità produttive. Ward Teulon prende allora in affitto parti di questi giardini privati, coltivandoli e vendendo la produzione ai mercati locali e a domicilio. Teulon integra questa attività con altri servizi, come la realizzazione

La fattoria urbana Greensgrow a Philadelphia

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a domicilio di orti “chiavi in mano” per aspiranti coltivatori e corsi di orticoltura per persone che si vogliano avvicinare a questa pratica, e riesce a ricavare un reddito sufficiente al mantenimento della sua famiglia di quattro persone. Un terzo esempio di successo, anche economico, nel settore dell’agricoltura urbana è quello di Greensgrow, una fattoria/vivaio nata nel 1997 in un isolato abbandonato di Philadelphia. Non potendo crescere le piante direttamente nel terreno, a causa dell’inquinamento e delle scorie presenti, Mary e Tom hanno sfruttato metodi di coltivazione alternativa come i letti sollevati e l’idrocoltura, cioè la coltivazione in acqua, particolarmente indicata per insalate e piante aromatiche. Il successo dell’iniziativa li ha spinti a coinvolgere agricoltori dei dintorni di Philadelphia nella creazione di un orto urbano e di un sistema di vendita a domicilio. Greensgrow ha quindi attivato un circolo virtuoso che va al di là del termine stretto di agricoltura urbana. Questa serie di esempi positivi mostra come l’agricoltura urbana, pur non essendo un settore a cui si guarda quando si vuole iniziare un’impresa economica, possa portare a risultati interessanti grazie all’intraprendenza e a una certa dose di fantasia. Iniziative di questo genere mostrano come l’impatto economico dell’agricoltura urbana sia probabilmente destinato a crescere nei prossimi anni, soprattutto se la valutazione dei benefici comincerà a considerare anche tutti benefici esterni che da essa derivano. Molti studi indicano come la minaccia maggiore all’agricoltura urbana provenga essenzialmente dal suo ridotto ritorno economico, che la rende un uso fondiario meno appettibile rispetto ad esempio ad un uso edilizio. E’ importante che cresca quindi la consapevolezza dell’importanza sociale ed ecologica degli orti urbani, in modo che le amministrazioni comunali, ma anche associazioni e semplici cittadini si attivino perché la loro esistenza nel paesaggio non sia messa in pericolo.

5. PROSPETTIVE PER IL FUTURO Grazie al quadro che emerge da questo studio, possiamo sostenere che l’agricoltura urbana potrà in futuro entrare a pieno diritto all’interno delle pratiche urbane promosse dalle municipalità. All’interno del dibattito sul futuro sostenibile delle città, sono ormai numerosi i testi che considerano l’agricoltura urbana come uno degli strumenti fondamentali nel percorso della creazione di città verdi.

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Hough in particolare fa notare come l’idea comune che i parchi debbano essere provvisti a spese delle municipalità, con poco coinvolgimento diretto dei cittadini, è un’eredità del passato che viene messa in discussione in molte città. “Al giorno d’oggi ci rendiamo conto che la visione ottocentesca romantica del parco considerato come un parte di scenografia naturale e separata dalla città, destinata alla contemplazione e al rinnovamento spirituale, non ha più la stessa validità che aveva allora”. Grazie alle spinte ecologiste iniziate negli anni ’90, è cresciuta drammaticamente l’attenzione del pubblico verso l’ambiente. Allo stesso modo si è verificato uno spostamento dell’equilibrio del potere in favore di una maggiore partecipazione pubblica, basata su azioni positive anziché su reazioni negative, come avveniva negli anni ’60 e ’70. La cittadinanza è ora favorevole, e anzi spesso spinge verso una cooperazione per arrivare ad obiettivi ambientalisti di lungo termine. Anche Hough sottolinea i vantaggi economici dell’agricoltura urbana, che rende produttivi terreni inerti, senza aggiungere costi alle amministrazioni, anzi riducendoli nel complesso. Nicolas Low, nella sua guida per la creazione di città verdi, propone un metodo di lavoro da adottare, che prevede di intraprendere un percorso lungo e certamente non facile.13 “L’approccio che noi proponiamo può essere descritto in questo modo: a scala ridotta, con scopi ampi e a lungo termine. La scala ridotta significa che piccoli passi nella giusta direzione possono portare nel tempo a grandi cambiamenti. La visione ampia indica che i pianificatori devono pensare oltre i confini della pratica corrente. Il lungo termine è dovuto al fatto che la crisi ambientale con cui ci confrontiamo si svilupperà in tempi notevoli.” Di fronte ad una necessaria riduzione del consumo delle risorse finite della terra, molti vedono un futuro in cui i concetti di scala vanno ridefiniti. Dal punto di vista energetico, lo studioso e ambientalista Jeremy Rifkin ad esempio vede nel futuro una terza rivoluzione industriale, basata su energie rinnovabili o fai-da-te immesse in una rete comune simile a quella di internet oppure immagazzinate tramite celle a idrogeno. In questo movimento di ritorno alla scala locale, l’agricoltura urbana può occupare un ruolo fondamentale, stimolando una consapevolezza più capillare. Quel che è certo è che l’urbanistica futura dovrà insistere sull’integrazione degli spazi, sulla flessibilità delle soluzioni, sul coinvolgimento dei cittadini nell’uso del territorio e sulla riduzione del ciclo 13 N. Low, B. Gleeson, R. Green e D. Radovic, The Green City. Sustainable homes, sustainable suburbs, UNSW Press, Sydney, 2005

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Orti urbani a Edimburgo, Scozia

di produzione e consumo; in questo caso l’agricoltura urbana rappresenterà sicuramente uno strumento utile in questa direzione. L’agricoltura urbana infatti è in molti casi efficiente, dato che rende produttivi spazi sotto-utilizzati o in abbandono; flessibile, dal momento che può essere adattata ad una gamma di spazi e situazioni molto ampia; infine è partecipativa, dato che consente un uso attivo e diretto del territorio urbano da parte dei cittadini. Infine vale la pena ricordare che l’agricoltura urbana è una pratica che, come abbiamo visto, comporta una serie di benefici, a costi ridotti, per le municipalità. Grazie al ruolo attivo dei cittadini, l’agricoltura urbana infatti spesso necessita di alcune semplici spinte per favorirne l’inizio, ma poi può sostenersi con costi molto bassi, e in alcuni casi può anche creare un reddito. Ripensando ai benefici che porta l’agricoltura urbana, e le azioni necessarie per metterla in pratica, è facile notare come anche per le amministrazioni comunali si tratti di un percorso con un rapporto costi/benefici assolutamente positivo, se confrontato agli sforzi economici (ma anche politici e decisionali) necessari per ottenere piccoli risultati nel campo ad esempio della viabilità o della raccolta dei rifiuti.

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PARTE SECONDA LE FORME DELL’AGRICOLTURA URBANA


GLI INGREDIENTI DELL’AGRICOLTURA URBANA L’agricoltura urbana è un sistema complesso in cui interagiscono elementi di discipline diverse, come l’agronomia, l’urbanistica, l’architettura e la sociologia. Per affrontare questa materia è quindi importante partire da una lista, anche parziale, degli ingredienti che la compongono, per creare un diagramma delle reciproche relazioni che si vengono a creare. In questo modo si coglie il carattere ciclico del sistema agricolo.

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AMBIENTE

TECNOLOGIE

PRODOTTI

verdura sole

serra

frutta e noci erbe cereali piccoli frutti

irrigazione raccolta dell’acqua pioggia

macchinari

conigli galline e polli terra

compostaggio

api pesci

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LE FORME DELL’AGRICOLTURA URBANA Il termine “agricoltura urbana” indica genericamente l’uso di terreni all’interno delle città per la produzione di frutta e verdura. Da questa semplice definizione si declinano una serie di forme molto diverse tra loro, che vanno dagli orti municipali agli orti scolastici. Tutte queste tipologie rappresentano quindi gli strumenti a nostra disposizione per ragionare sul tema dell’agricoltura e la loro conoscenza va approfondita in modo da utilizzare di volta in volta la forma più appropriata al contesto in cui viene applicata. Le pagine seguenti presentano quindi una classificazione di alcune tra le possibili forme di agricoltura urbana. Attraverso un’organizzazione a schede, ogni tipologia viene descritta e rappresentata con un’immagine. Una scala che indica la produttività, la tecnologia necessaria per la sua implementazione e l’interazione sociale che ne deriva, mentre un diagramma mostra la dimensione spaziale della tipologia. Questi dati sono da considerare indicativi e non vengono quantificati numericamente. Vengono inoltre indicati benefici, svantaggi e sfide legati ad ogni tipologia e infine viene riportato un esempio esistente.

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Community garden

Orto municipale

Orto ricreativo

Fattoria urbana

Orto dimostrativo

Frutteto urbano

Vivaio urbano

Orto sul tetto e in facciata

Orto scolastico

Giardino privato

Aiuole edibili

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BASSO

in soteraz cia ion le e

pro du ttiv ità tec no log ia

COMMUNITY GARDEN

ALTO

DIMENSIONE

Il community garden è la tipologia che si trova con maggiore frequenze nelle città nordamericane. Spesso nasce da un’appropriazione informale di aree urbane dismesse da parte di gruppi di cittadini auto-organizzati. Il community garden solitamente consiste di piccoli appezzamenti collocati in un lotto recintato ma aperto all’accesso pubblico. Questi giardini vengono gestiti in maniera comunitaria dagli utenti, che si danno regole sulle liste d’attesa e sui metodi di coltivazione. La maggior parte dei community garden comprendono anche piccole casette per gli attrezzi oltre che spazi comuni tavolini e sedie per il tempo libero o per mangiare all’aria aperta.

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BENEFICI

SVANTAGGI

- crea un senso di comunità e favorisce l’interazione sociale

- gli appezzamenti spesso - necessita di spazi aperti che spesso mancano negli hanno dimensioni ridotte che non permettono grandi spazi urbani produzioni - l’aspetto estetico può non essere ritenuto gradevole - grande quantità di da molti spazio è destinato

- è aperto ad una ampia fascia di persone, compresi anziani e persone con redditi bassi. - aumenta il senso di partecipazione alla vita comunitaria da parte delle persone che abitano nel quartiere - non richiede grandi risorse finanziarie e organizzative da parte della municipalità, in quanto viene gestito direttamente da gruppi di utenti

ESEMPIO

SFIDE

alla circolazione delle persone, con un uso non particolarmente efficiente dello spazio. - può essere percepito dal resto della popolazione come uso privato di spazi pubblici

- vandalismo e furti - è necessario partire da un gruppo attivo di utenti per garantire il successo della gestione

- può portare alla nascita di frizioni tra gli utenti

STRATHCONA COMMUNITY GARDEN, VANCOUVER, CANADA Nato nel 1985, questo community garden è il più grande e il più vecchio di Vancouver. Sviluppato accanto alla ferrovia su terreni industriali dismessi, copre un’area di circa 1.200 m2, divisi equamente tra frutteto, area a bosco e area per la coltivazione. L’affitto dei lotti costa $15 all’anno e ogni coltivatore deve contribuire alla manutenzione degli spazi comuni, così come alla raccolta della frutta del frutteto.

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tec no log ia inte so raz cia io le ne pro du ttiv ità

ORTI MUNICIPALI

BASSO

ALTO

DIMENSIONE

Gli orti comunali sono la tipologia trovata con maggiore frequenza nelle città europee, dove spesso esistono già a partire dall’inizio del XX secolo. Gli appezzamenti individuali hanno dimensioni più grandi che nei community garden e sono chiaramente separati da siepi o staccionate. Vengono solitamente realizzati e gestiti dalle municipalità su spazi pubblici. Gli appezzamenti sono assegnati seguendo una lista d’attesa e solitamente comprendono una casetta per gli attrezzi e l’accesso all’acqua per l’irrigazione. Alcuni orti possono prevedere spazi per attività comuni.

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BENEFICI

SVANTAGGI

SFIDE

- le dimensioni degli appezzamenti permettono produzioni sufficientemente alte

- può essere percepito come uso privato di spazi pubblici

- necessita di spazi aperti che spesso mancano negli spazi urbani

- l’accesso al pubblico spesso non è consentito

- l’aspetto estetico può non essere ritenuto gradevole da molti

- la suddivisione chiara degli appezzamenti riduce i conflitti tra utenti

- l’interazione tra utenti e pubblico generale è ridotta - la gestione centrale può ridurre l’autonomia e la collaborazione degli utenti

- vandalismo e furti - va approfondita l’integrazione tra appezzamenti individuali e spazi pubblici

- viene enfatizzata la coltivazione individuale più che una gestione comunitaria

ESEMPIO

ORTI COMUNALI DEL PARCO DEL MEISINO, TORINO, ITALIA Il primo esempio di orti municipali a Torino, vennero creati nel 2002 in seguito ai lavori di ridisegno generale del parco accanto al fiume Po. E’ composto di 53 appezzamenti individividuali di 100 m2 ciascuno, dotati di casetta per gli attrezzi e accesso all’acqua per l’irrigazione. La loro gestione è affidata alla circoscrizione comunale.

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pro du ttiv ità tec no log ia inte so raz cia io le ne

ORTI RICREATIVI

BASSO

ALTO

DIMENSIONE

Gli orti ricreativi sono comuni nei paesi dell’Europa del nord come la Germania e i paesi Scandinavi. Nati come evoluzione dell’orto urbano, sono destinati ai cittadini che non hanno la possibilità di avere un giardino privato. Sono composti da appezzamenti più grandi da usare per la coltivazione ma anche per attività ricreative all’aria aperta. Spesso viene consentita la costruzione di casette che possono essere utilizzate per viverci e dormirci, purchè in maniera non stabile.

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BENEFICI

SVANTAGGI

SFIDE

- offre agli abitanti delle città la possibilità di avere un giardino proprio

- può essere percepito come uso privato di spazi pubblici

- necessita di spazi aperti che spesso mancano negli spazi urbani

- la suddivisione chiara degli - le aree aperte al pubblico appezzamenti riduce conflitti sono ridotte tra utenti - necessita di infrastrutture come accesso all’acqua, all’elettricità e alla fognatura se sono previste casette - possono nascere conflitti tra utenti

ESEMPIO

- la costruzione di casette può non essere accettata dalle persone che abitano nei dintorni. - sono necessarie regole e controlli affinchè le persone non vivano stabilmente nelle casette

BLÜCHERPARK SCHREBER GARDEN, COLONIA, GERMANIA Gli Schreber Garden, presenti in gran parte delle città tedesche, nascono dalle idee del dottor Schreber, un medico di Lipsia che nel XIX secolo professava la necessità per tutti di spazi aperti dove praticare attività sportive e ricreative. Quello di Colonia in particolare venne fondato nel 1917 e consta di 675 giardini individuali

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BASSO

pro du ttiv ità

tec no log ia

in so teraz cia io le ne

FATTORIA URBANA

ALTO

DIMENSIONE

Le fattorie urbane sono aziende agricole collocate all’interno dei confini urbani o nell’immediata periferia. Grazie alla loro natura commerciale, la produttività di frutta e verdure è piuttosto alta, contribuendo così in maniera più significativa alla autosufficienza alimentare delle città. Molti studi ritengono che le fattorie urbane saranno in futuro imprese sempre più vantaggiose economicamente e potrebbero quindi essere maggiormente presenti nel tessuto urbano.

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BENEFICI

SVANTAGGI

SFIDE

- questa tipologia è la più produttiva dato che i terreni sono coltivati specificamente per la vendita degli ortaggi

- la coltivazione può risultare in contrasto con altre attività urbane

- necessita di spazi di dimensioni notevoli per essere economicamente sostenibile

- vengono creati posti di lavoro

- l’attività agricola può non essere accettata dalle persone che abitano nei dintorni

- aumenta la produzione alimentare nel contesto urbano

- vandalismo e furti

- può essere un interessante occasione per sperimentazioni sull’agricoltura urbana

ESEMPIO

- necessita di investimenti iniziali per mettere in piedi l’attività - se praticata su terreni pubblici, pone il problema dell’uso di spazi pubblici per profitti privati

FAIRVIEW GARDENS, GOLETA, CALIFORNIA, USA Considerata una delle fattorie biologiche più vecchie della California, i Fairview Gardens sono stati circondati nel dopoguerradallo sprawl urbano, diventando così una vera e propria fattoria urbana. I Fairview Gardens sono un interessante modello di agricoltura a piccola scala, che ha influenze positive sui dintorni grazie ad attività educative e vendita diretta di prodotti a chilometro zero. Coprendo un’area di circa 50.000 m2, questa fattoria produce frutta e verdura per circa 500 famiglie e impiega più di 20 persone.

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BASSO

in so teraz cia io le ne

tec no log ia

pro du ttiv ità

ORTO DIMOSTRATIVO

ALTO

DIMENSIONE

Gli orti didattici sono un importante elemento nel contesto urbano per avvicinare il pubblico alla coltivazione in città. Oltre ad avere un ruolo educativo, questi giardini possono essere occasione per sperimentare tecniche di coltura adatte alle condizioni e al clima specifici del contesto urbano, oltre che per applicare tecnologie innovative di compostaggio e di raccolta dell’acqua piovana. Dato il loro obiettivo didattico, la coltivazione si concentra più sulla varietà di produzione e di tecniche agricole, che sulla quantità.

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BENEFICI

SVANTAGGI

SFIDE

- ha un ruolo fondamentale - non ottiene produttività particolarmente alte per avvicinare il pubblico all’agricoltura urbana e per aumentare le conoscenze

- necessita di una localizzazione centrale e accessibile ad un vasto pubblico

- può essere uno spazio importante per la sperimentazione di tecniche agricole innovative

- necessita di finanziamenti per gestire e portare avanti le attività

- può essere uno spazio che catalizza iniziative legate all’agricoltura urbana - crea posti di lavoro

ESEMPIO

CITY FARMER DEMONSTRATION GARDEN, VANCOUVER, CANADA Questo giardino è stato creato nel 1982 come compendio fondamentale alla missione che l’associazione City Farmer si è data per promuovere dell’agricoltura in città. Il suo obiettivo è quello di dimostrare che ogni persone può coltivare notevoli quantità di frutta e verdure, utilizzando metodi biologici e intensivi. Workshop e attività educative danno a giardinieri alle prime armi le conoscenze e la fiducia per iniziare il loro orto urbano. La ricerca invece si focalizza su questioni come il compostaggio e la raccolta di acqua piovana.

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BASSO

pro du ttiv ità

tec no log ia

in so teraz cia io le ne

FRUTTETO URBANO

ALTO

DIMENSIONE

I frutteti rappresentano un’interessante e più flessibile forma di agricoltura urbana. Gli alberi da frutta possono infatti essere piantati in un ampia varietà di spazi cittadini e possono essere integrati con altre funzioni urbane. Gli alberi da frutta hanno anche il vantaggio di rese alte rispetto a necessità di manutenzione relativamente basse.

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BENEFICI

SVANTAGGI

SFIDE

- gli alberi da frutta hanno rese piuttosto alte a fronte di necessità di manutenzione relativamente basse

- è necessario organizzare la manutenzione degli alberi e la raccolta della frutta

- vandalismo e furti

- gli alberi da frutta possono essere collocati in vari contesti senza che interferiscano significativamente con altre attività urbane

ESEMPIO

- se non raccolti propriamente, i frutti possono sporcare e attirare animali selvatici

- va studiata la collocazione più adatta delle specifiche varietà nei diversi contesti urbani

THE RICHMOND FRUIT TREE PROJECT, RICHMOND, CANADA Questo progetto è stato creato nel 2001 come iniziativa per recuperare la frutta non raccolta dagli alberi in città, e nel 2005 ha ottenuto dalla municipalità dei terreni per creare un frutteto vero e proprio. Il progetto fa affidamento sul lavoro di volontari e cura un frutteto di meli di circa 1.000 m2. La frutta raccolta viene distribuita localmente alle mense scolastiche e alle mense dei poveri di Richmond.

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BASSO

tec no log ia pro du ttiv ità

in so teraz cia io le ne

VIVAIO URBANO

ALTO

DIMENSIONE

Il vivaio ha un importante ruolo all’interno del sistema agricolo urbano, dato che fornisce piante e semi adatti allo specifico clima e contesto geografico. La possibilità di partire da piantine anzichè dai semi permette ai coltivatori di velocizzare i tempi di produzione, oltre che di ottenere rese maggiori e più sicure. Il vivaio può anche avere un ruolo edcativo e diventare un luogo di scambio di conoscenza.

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BENEFICI

SVANTAGGI

SFIDE

- ha un ruolo positivo nella - può risultare in contrasto promozione dell’agricoltura con altre attività urbane urbana - può diventare catalizzatore di iniziative legate all’agricoltura urbana

- necessita di spazi di dimensioni ampie per essere economicamente sostenibile - necessita di finanziamente iniziali per avviare l’attività

- crea posti di lavoro

ESEMPIO

GREENSGROW, PHILADELPHIA, USA Greensgrow è nato a Philadelphia nel 1998 in un lotto abbandonato che, a causa dell’inquinamento del suolo, non poteva essere coltivato direttamente, bensì solo utilizzando vasi e vasche sollevati da terra. Negli anni l’attività si è ingrandita, diventando, oltre che vivaio, anche piccola fattoria urbana e centro di distribuzione di ortaggi proveniente dai coltivatori peri-urbani.

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BASSO

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ORTI SCOLASTICI

ALTO

DIMENSIONE

Gli orti scolastici sono ormai presenti in molte scuole e rappresentano una risorsa importante per offrire agli alunni esperienza diretta nella coltivazione di ortaggi e frutta. Sono infatti innumerevoli le conoscenze che possono essere trasmesse ai bambini offrendo loro la possibilitĂ di coltivare una pianta, raccoglierne i frutti ed eventualmente cucinarli e mangiarli. Gli orti scolastici possono poi diventare occasione per coinvolgere non solo gli alunni, ma anche le loro famiglie nelle attivitĂ di agricoltura urbana.

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BENEFICI

SVANTAGGI

SFIDE

- offre agli studenti esperienza diretta con la coltivazione

- può togliere spazio ad altre attività didattiche nel caso che i giardini della scuola siano di dimensioni ridotte

- è necessario prevedere una preparazione adeguata degli insegnanti

- aumenta la consapevolezza sui - può attirare animali temi dell’alimentazione, indesiderati dell’agricoltura e dell’ecologia non solo negli studenti, ma anche nelle loro famiglie

- è necessario prevedere una manutenzione continuativa dell’orto

- può diventare occasione di piccoli progetti di ricerca - può essere realizzata anche in spazi ridotti, dato che la produzione quantitativa non è tra gli obiettivi di questi orti

ESEMPIO

EDIBLE SCHOOLYARD, BERKELEY, CALIFORNIA, USA Questo progetto è stato avviato nel 1995 in un lotto abbandonato accanto alla scuola media Martin Luther King Jr. E’ stato uno dei primi esempi americani di orto scolastico, e il suo successo ha contribuito alla nascita di iniziatice simili in tutto il paese. Con una dimensione di circa 4.000 m2, questo orto serve svariate funzioni educative ed è diventato nel tempo una importante risorsa non solo per la scuola, ma anche per tutta la comunità allargata..

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BASSO

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ORTO SUL TETTO E IN FACCIATA

ALTO

DIMENSIONE

Crescere ortaggi sul tetto e in facciata è una sfida che sta raccogliendo grande interesse da parte di architetti e progettisti. L’integrazione di vegetazione nell’edilizia offre una serie di vantaggi dal punto di vista energetico ed ecologico dell’edificio, funzionando ad esempio da isolante termico e permettendo il riciclo dell’acqua piovana. Allo stesso tempo pone questioni tecnologiche che vanno approfondite per garantire un perfetto funzionamento del sistema, in modo che non interferisca con le prestazioni dell’edificio.

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BENEFICI

SVANTAGGI

SFIDE

- questa tipologia rende produttivi spazi altrimenti spesso inutilizzati

- richiede tecnologie specifiche che possono avere alti costi a fronte di produzione limitata

- è necessario prestare particolare cura a problemi tecnici come il peso del terreno e l’impermeabilizzazione di solai e facciate

- la vegetazione negli edifici offre importanti vantaggi energetici come l’aumento dell’isolamente termico e del recupero di acqua piovana - può migliorare l’aspetto estetico generale dell’edificio

ESEMPIO

- richiede cura e manutenzione più alta rispetto ad altre forme di agricoltura urbana

- l’accesso a questi spazi è spesso problematico, dato che tetti e facciate non sono sempre facilmente raggiungibili. - necessita di particolari attenzioni anche dal punto di vista delle piante, dato che questi spazi hanno caratteristiche climatiche particolari, come alta insolazione o forti venti

YWCA ROOFTOP GARDEN, VANCOUVER, CANADA Questo orto sul tetto è stato creato nel 2006 al posto di un giardino esistente. Viene completamente gestito e curato da volontari e la produzione va interamente ad una mensa per donne e famiglie a basso reddito. Coltivato biologicamente su un’area di 650 m2, questo giardino ha prodotto finora 450 kg di frutta e verdura all’anno, ma l’obiettivo è di raggiungere la tonnellata nel vicino futuro.

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BASSO

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GIARDINI PRIVATI

ALTO

DIMENSIONE

Coltivare nel proprio giardino è la forma più semplice e comune di agricoltura urbana. Tuttavia in aree urbane ad alta densità i giardini privati sono solitamente rari o di piccole dimensioni. Inoltre, se anche presenti, non sempre i proprietari hanno tempo o interesse a coltivarli. Per ovviare a questa problematica negli ultimi anni sono nate iniziative commerciali che prevedono che contadini professionisti affittino giardini privati per coltivare verdure vendute poi nei mercati locali.

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BENEFICI

SVANTAGGI

- sistema semplice e flessibile che si adatta alle esigenze specifiche dell’utente

- non promuove interazioni - non tutti sono disponibili a rinunciare a parte sociali così come altre forme di agricoltura urbana del loro giardino per la coltivazione di frutta e verdura

- trasforma spazi ad alte necessità di lavoro in spazi ad alta produttività - facile da implementare in quanto non richiede trasformazioni sostanziali del tessuto urbano

SFIDE

- furti e vandalismo - può attirare animali selvatici non graditi - può essere utile organizzare corsi e lezioni per persone che abbiano intenzione di iniziare il loro piccolo orto

ESEMPIO

CITY FARM BOY, VANCOUVER, CANADA City Farm Boy è un’iniziativa nata da un agronomo professionista che prende in affitto aree di giardini privati per coltivare verdura, che viene poi venduta nei mercati locali. In questo modo vengono resi produttivi spazi privati altrimenti poco sfruttati. Avviata nel 2007, questa impresa ha ormai un giro d’affari tale da garantire un profitto adeguato al lavoro di una persona.

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AIUOLE EDIBILI

ALTO

DIMENSIONE

Il termine aiuole edibili è usato per descrivere l’uso di piante produttive dal punto di vista alimentare al posto delle più comuni piante ornamentali. Questa tecnica viene ancora applicata raramente in luoghi pubblici, ma può essere molto importante per incrementare la consapevolezza dei cittadini sulle questioni alimentari e per proporre nuove soluzioni estetiche che contemplino la presenza di piante alimentari.

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BENEFICI

SVANTAGGI

SFIDE

- rende produttivi spazi altrimenti usati solo come ornamentali

- può attirare animali selvatici non graditi

- non sono ancora stati realizzati molti esempi di questa tecnica

- è una vetrina molto visibile per aumentare l’attenzione e la consapevolezza del pubblico sui temi dell’alimentazione e dell’agricoltura - può ottenere interessanti risultati dal punto di vista estetico

ESEMPIO

- richiede maggiore cura e manutenzione rispetto alle piante ornamentali - ha rese più basse rispetto ad altre forme di agricoltura urbana

- è necessario istruire i giardinieri rispetto all’uso di queste piante - va tenuto in considerazione l’inquinamento automobilistico se le piante sono collocate in un contesto di grande traffico - vandalismo e furto

DISPLAY & TRIAL GARDEN, UNIVERSITY OF MINNESOTA, ST PAUL, USA Il dipartimento di orticoltura dell’Università della Minnessota ha preso in gestione un’aiuola di fronte all’ingresso del campus, con l’obiettivo di trasformarla in spazio produttivo, prestando però particolare attenzione all’aspetto estetico complessivo. A distanza di soli 5 mesi, l’orto ha già prodotto quasi 200 chili di frutta e verdura.

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