La stampa - viaggio nel Chaco

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SPECIALE LA STAMPA MERCOLEDÌ 5 NOVEMBRE 2014

stata raggiunta l’intesa del Consiglio Europeo sugli obiettivi Ue su clima ed energia per il 2030. Un’intesa considerata deludente e insufficiente per ottenere risultati significativi sul fronte della lotta al riscaldamento globale. L’accordo - che potrebbe tuttavia essere cambiato da Europarlamento e Commissione prevede tre target per il clima e l’energia al 2030: «almeno» il 40 per cento di riduzione delle emissioni di gas serra nell’Ue (senza

È

energia Obiettivi clima 2030 In Europa c’è l’accordo ma è molto deludente

l’uso di crediti di compensazione) rispetto al 1990; una percentuale di «almeno» il 27 per cento di rinnovabili nel mix energetico dell’Unione; un obiettivo non vincolante di «almeno» il 27% di crescita dell’efficienza energetica, con possibilità di innalzamento al 30 per cento dopo una revisione nel 2020. Unico obiettivo vincolante a livello nazionale è quello sulla CO2, mentre i target su rinnovabili ed efficienza valgono solo a livello comunitario.

MERCOLEDÌ5NOVEMBRE2014 A cura di Roberto Giovannini

NUMERO

tuttogreen LA STAMPA

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Viaggio nel mondo della sostenibilità

ANTONELLA MARIOTTI n milione di posti di lavoro. No, non è una promessa elettorale già sentita, ma la proiezione sulla Green economy da qui al 2020. E solo in Italia, perchè la cifra aumenta fino a 20 milioni di nuovi impieghi se si considera tutta l’Unione europea. Sembrano cifre complicate per l’asfittica economia italiana, che solo così pare trovare un po’ di respiro: con i green-jobs, i lavori «verdi», dall’installatore di impianti fotovoltaici al manager che nell’azienda gestisce il risparmio energetico. Sono 341.500 le imprese dell’industria o dei servizi che dal 2008 all’anno scorso hanno investito in prodotti e tecnologie green, e lo faranno probabilmente anche entro la fine dell’anno. Sono le aziende che prevedono di produrre con meno impatto ambientale: una su cinque secondo i dati del rapporto GreenItaly, elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere. Alcune di queste aziende (437 per la precisione) oggi e domani si ritrovano a Ecomondo, a Rimini, la fiera di tutto quello che fa «verde» un’impresa. Sulla costa romagnola si aprirà anche la terza edizione degli Stati Generali della green economy, quest’anno dedicati (appunto) a definire in che modo lo sviluppo della green economy può aiutare l’Italia a uscire dalla crisi.

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IL MINISTRO GALLETTI

«In anni di crisi gravissima soltanto questo settore cresce, e vigorosamente» Quest’anno il 23,3% delle imprese che investe in eco-efficienza prevede di assumere: 79.500 posti, in termini assoluti. E nei primi sei mesi del 2014 sono state 33.500 le imprese start-up green, il 37,1% di tutte le nuove imprese nate quest’anno. «Gli stati generali della Green economy - ha detto il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti - sono il motore della conversione culturale, e quindi politica ed economica, che sta ponendo l’economia sostenibile al centro del progetto-paese. I dati parlano chiaro: in anni di crisi gravissima, cresce e vigorosamente, nel nostro paese un solo comparto, quello della green economy». Un dato per tutti: l’anno scorso tre milioni di occupati «hanno applicato competenze verdi durante tutte o parte delle loro mansioni» scrive il rapporto Symbola-Unioncamere. È cresciuto il volume d’affari, ed è cresciuta soprattutto l’occupazione. Di un punto e mezzo percentuale, per la precisione, che sembra poco, ma non di questi tempi. A metà dei nuovi assunti poi si chiede una «competenza green» come requisito per l’ingresso in azienda. In termini assoluti nel 2014 si parla di 50.700 assunzioni di green jobs e di 183.300 assunzioni a cui è associata la richiesta di competenze verdi. «Il governo sostiene questa rivoluzione verde - ha insistito Galletti - e vede negli “Stati generali” il laboratorio privilegiato del cambiamento». Anche Ecomondo ha presentato una ricerca sulle imprese green, elaborata dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile. Si tratta di un sondaggio che ha coinvolto imprese che complessivamente contano 64.573 dipendenti e un fatturato di quasi 16 miliar-

AP

“Da grande farò il colletto verde” I nuovi lavori cambieranno l’Italia A Rimini si aprono la Fiera di Ecomondo e gli Stati Generali della green economy Emergenza Ebola SostegnoalWFP 1 Il Programma Alimen-

tare Mondiale dell’Onu, il WFP, è impegnato sull’emergenza Ebola per fornire cibo a 1,3 milioni di persone in Guinea, Liberia e Sierra Leone. Il WFP sta distribuendo cibo alle persone colpite dal virus, e supporto logistico all’intera comunità umanitaria, permettendo di trasportare personale e beni di prima necessità nelle aree colpite. Per sostenere con una donazione lo sforzo del WFP, basta cliccare su it.wfp.org/ e seguire i link.

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234.000

milione

lavoratori

POSTI NELLA GREEN ECONOMY

Queste le previsioni del rapporto GreenItaly per l’anno 2020

di di euro. Nel panel figurano imprese di diverse dimensioni, in settori che vanno dall’agroalimentare al riciclo dei rifiuti. Da cui, tra l’altro, emerge che per il 92% degli imprenditori intervistati la questione del cambiamento climatico è

ASSUNZIONI NEL 2014 In cui si richiedevano competenze in tutto o in parte legate alla sostenibilità

«un’emergenza globale e richiede tagli netti alle emissioni di gas serra». «Il vero Jobs Act è la green economy - dice Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente della Camera - se sono 500 milioni l’investimento per le

grandi opere, sono 4 miliardi quelli che servono per il dissesto idrogeologico. Allora dove sta il vero investimento? Dobbiamo capire che la green economy italiana già c’è, ed è quella che fa esportare la nostra tecnologia. Due esempi per tutti: le giostre in Germania e a Singapore sono italiane perchè consumano meno e sono più leggere. Lo stesso vale per le macchine agricole di medie dimensioni, i nostri trattori sono preferiti perché consumano meno. Il made in Italy nel mondo è già green, solo che non ce ne rendiamo conto». A Ecomondo nel «Consiglio nazionale della Green economy» ci sono 67 organizzazioni di imprese che rappresentano l’eccellenza verde italiana. Con il ministero dell’Ambiente e quello dello Sviluppo economico e gli Stati generali formeranno dieci gruppi di lavoro su 10 settori strategici - con 400 esperti - per sviluppare una piattaforma di proposte per il rilancio degli investimenti. Un Green New Deal.


II

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alimentazione

Reportage MARCO MAGRINI

egli ultimi due mesi, il prezzo del cacao è andato alle stelle. La colpa è ufficialmente di Ebola, che ha imposto la chiusura del confine della Costa d’Avorio (la terza produttrice al mondo, finora non colpita dal virus) con Liberia e Guinea, da dove provengono di solito molti lavoratori stagionali. Il costo della materia prima si sta già riverberando sul prezzo delle tavolette di cioccolato. Ma se è un disastro per i produttori e una noia per consumatori, per qualcuno – anzi, per pochissimi – potrebbe essere l’occasione di profitti inaspettati. Bastano le dita di una mano, per elencare i grandi protagonisti del trading alimentare del mondo. Oppure una sigla: ABCD. Adm, Bunge, Cargill e Louis Dreyfus controllano qualcosa come il 75% del commercio internazionale di grano. La più giovane, Adm, ha poco più di un secolo. Bunge, la più vecchia, fra quattro anni spegnerà due secoli di candeline. Nate e cresciute sulle fondamenta

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Primi responsabili: l’apertura del Canale di Suez, e il boom del trasporto marittimo L’IMPATTO ECOLOGICO

Il caso del pesce coniglio, proveniente dall’India, che devasta le foreste di alghe della globalizzazione, le quattro grandi trading house delle materie prime alimentari si sono diversificate in maniera tentacolare. Al giorno d’oggi, operano lungo tutta la filiera: sono proprietarie terriere e produttrici di carne; a monte forniscono le sementi ai contadini e a valle trasformano industrialmente le commodities; funzionano da banche, ma anche da case di spedizioni con la diretta proprietà di flotte navali, porti e magazzini, in decine di Paesi del mondo. In queste circostanze, non fa meraviglia che le ABCD siano spesso oggetto di teorie cospirative. Beh, non solo teorie: il film «The Informant», con Matt Damon, racconta la vera storia di un illecito fixing dei prezzi da parte di Adm. Ma a contribuire all’aura di mistero che circonda le grandi trading house, c’è la cortina di segretezza che avvolge le restanti due. Cargill, la più grande di tutte, ha sede a Minnetonka, un paesino a ovest di Minneapolis, in un edificio ottocentesco affacciato sul lago. Quasi interamente controllata dall’omonima famiglia, è la prima società privata americana: la quotazione in Borsa comporterebbe obblighi di trasparenza altamente sgraditi. Lo stesso dicasi di Louis Dreyfus, nata in Alsazia e oggi di casa a Parigi, sotto il rigido

I primi quattro gruppi controllano

il 90%

del grano

BUSINESS PRINCIPALI SEDE ANNO FONDAZIONE PROPRIETÀ

FATTURATO 2013

Mais, Olii vegetali, Caffè

Mais, Grano, Olii vegetali, Zucchero

Mais, Grano, Olii vegetali, Cotone, Zucchero, Cacao (ma anche minerali e petrolio)

Mais, Grano, Olii vegetali, Cotone, Zucchero, Caffè (ma anche petrolio)

Chicago (Illinois), USA

White Plains (New York), USA

Minnetonka (Minnesota), USA

Parigi, Francia

1818

1865

1851

Quotata a Wall Street

Famiglia Cargill (90%)

Famiglia Dreyfus (80%)

1902 Quotata a Wall Street

87,7

(MILIARDI DI DOLLARI)

136,6 61,3

Dietro le quinte dell’agrobusiness

Le “Quattro Sorelle” che decidono sul grano del mondo Ilpotere immenso delle multinazionaliAdm, Bunge, Cargille LouisDreyfus controllo della famiglia del fondatore. Salvo svolgere le attività di trading in Olanda e in Svizzera, dove il fisco e la domanda di trasparenza sono più gentili. Se è per questo, anche Adm, Bunge e Cargill hanno sede in Illinois, New York e Minnesota, ma sono tutte e tre registrate nel Delaware, lo Stato americano che sempre quanto a fisco e trasparenza è il più «gentile» di tutti con le aziende. È proprio la natura multinazionale delle grandi trading house a rendere il loro business così efficiente e così adatto ai film di spionaggio. Oltre alle flotte, dispongono di diplomazie e partecipano al carosello delle lobbies. Negli ultimi vent’anni si sono diversificate in proporzioni grandiose, ad esempio sul fronte dei biocarburanti. Ma

soprattutto, con la capacità di spostare materie prime da un angolo all’altro del pianeta, e di stoccare le granaglie in attesa di momenti migliori, giocano da protagoniste sul grande mercato finanziario dei contratti futures. Ecco perché uno che «sa» come David Martin, manager di un hedge fund di New York, ha detto alla rete americana Pbs che i grandi trader stanno facendo un po’ di soldi in più con il prezzo del caffè, tirato su dall’effetto Ebola. Del resto, mentre è ancora aperto il dibattito sul ruolo della finanza sulla crisi alimentare del 2006-2008 (quando in due anni il prezzo del grano aumentò del 136%, quello del riso del 217%, quello del mais del 125%), una cosa è sicura: Cargill ha registrato il suo record di utili proprio nell’eserci-

zio 2008. Certo, è tutta una questione di dimensioni. «Dato che trattano grandissimi volumi, le trading house hanno un’enorme potere nel fare i prezzi – si legge in “Cereal Secret”, un report sulle ABCD commissionato da Oxfam – in particolare con i contadini con i quali hanno rapporti diretti, ma anche con gli intermediari» dei paesi industrializzati. Va detto che non tutti i cereali passono le frontiere dei paesi produttori. Solo il 18% del grano e il 10% del mais vengono davvero scambiati sui mercati. Le ABCD, sconosciute al largo pubblico, controllano ben oltre la metà di questa fetta. Comprano e vendono per rifornire nomi assai più noti come Nestlé e Unilever, che poi impacchetteranno quegli alimenti in decine

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Centimetri - LA STAMPA

SOTTO ACCUSA

NATI HARNIK/AP

di marchi commerciali diversi. Eppure in questo secolare (e segreto) dominio dell’agribusiness si intravedono segnali di cedimento. Le trading house, recita il rapporto di Oxfam, «stanno affrontando sensibili cambiamenti all’etica del libero mercato che ha permesso loro di consolidare così tanto potere negli ultimi vent’anni». Per cominciare, le nuove tecnologie hanno «democratizzato» l’accesso ai mercati, diminuendo il dominio di ABCD e amici sulle informazioni. Poi, nuove entità commerciali – dalla gigantesca catena di supermercati Walmart, ai colossi alimentari Nestlé e Unilever – hanno cominciato a rifornirsi anche in maniera diretta in tutto il mondo. E gli evidenti sommovimenti degli ultimi anni, dalla crisi dei prezzi del 2008 al cambiamento climatico che sta ridisegnando pericolosamente la geografia dell’agricoltura, lasciano intendere che i due secoli di dominio delle ABCD – cui sarebbe giusto aggiungere la più «giovane» Glencore, che oltre a metalli e combustibili da qualche anno si occupa anche trading agricolo – potrebbe essere messo in discussione negli anni a venire. E mentre il mondo dovrà trovare il modo di rendere ben più sostenibile la produzione alimentare da qui a metà secolo – quando si aggiungeranno altri due miliardi di bocche a tavola – siamo sicuro che le ABCD faranno di tutto per non perdere un millimetro di potere. Negli ultimi cinque giorni il prezzo del cacao è calato un po’. Sappiamo per certo chi ci ha rimesso. Chissà chi ci ha guadagnato.


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III

industria

Scenari energetici

L’industria elettrica “fossile” deve fare i conti con la crisi Al via tagli e dismissioni

FRANCESCO SPINI

ROBERTO GIOVANNINI

REUTERS

domanda di potenza di punta era pari a 53,1 Gigawatt; oggi praticamente non è mutata, a quota 53,9 GW. Conclusione, il margine di riserva dal 2003 al 2013 è cresciuto di diciannove volte, da 1,3 alla bellezza di 24,8 GW. Perché? In questo decennio da un lato sono rimasti stazionari (o calati) i consumi. Dall’altro, sono stati collegati alla rete con ingenti investimenti ben 21,8 GW di potenza da termoelettrico (soprattutto centrali a gas a ciclo combinato, e centrali a carbone), ma soprattutto 27 GW di

potenza da eolico e fotovoltaico. Energia pulita che - a parte l’investimento iniziale - costa zero, e che in base alle regole viene automaticamente immessa in rete. È intermittente, dipendendo dal sole e dal vento, e va dunque «consumata» prioritariamente. È chiaro che una «riserva» per fronteggiare eventuali crisi è indispensabile: 1,3 GW come nel 2003 erano pochini; 5 GW sarebbero più che sufficienti. Ma quasi 25mila Megawatt di riserva è semplicemente un non senso economico. A mag-

gior ragione per chi gestisce centrali a combustibile fossile che devono essere tenute al minimo, con costi operativi che restano molto elevati. Che fare? Secondo gli addetti ai lavori anche se un’ipotetica ripresa economica potrebbe aiutare, sarà inevitabile ridurre la capacità. Cominciando ad eliminare le centrali fossili meno efficienti, cancellando i progetti di nuove realizzazioni (come ha fatto peraltro Enel con Porto Tolle). Se possibile, si dovrà poi cercare di esportare energia all’estero. E poi, se vor-

finanza verde

S

La centrale di Trino Vercellese

uanto sono verdi le banche italiane? Domanda a prima vista bizzarra visto che il settore bancario di per sé ha un limitato impatto ambientale. Eppure una ricerca di Ecba Project - società di consulenza specializzata nell’analisi costi-benefici di progetti e politiche di investimento - ne ha calcolato l’entità, andando a scoprire che il settore «appare molto sbilanciato nel finanziamento di attività in settori con elevate esternalità ambientali». Con i loro prestiti le banche contribuiscono indirettamente a danni ambientali per unità di valore aggiunto doppi rispetto alla media: 45 euro ogni mille contro 24, sempre ogni mille euro. Insomma, le banche prestano senza tener conto della sostenibilità ambientale del business cui concedono credito. Spiegano Donatello Aspromonte e Andrea Molocchi, partner di Ecba Project e co-autori dello studio, che così facendo si espongono a quattro fattori di rischio non calcolati quali «azioni di responsabilità» (multe, risarcimenti danni, sequestri), «l’incertezza delle garanzie reali offerte dalle imprese affidate a coprire i rischi ambientali», l’introduzione di nuove tasse ambientali. E poi corrono un rischio d’immagine verso la stessa clientela della banca, sempre più sensibile a temi etici e ambientali. La ricerca evidenzia invece come il livello dei tassi sui prestiti che dovrebbe rappresentare il livello di rischio complessivo di un finanziamento, e quindi dovrebbe «integrare anche l’esposizione ai costi esterni imputabili alle attività d’impresa», non tenga conto della sostenibilità aziendale. Anzi. Molti dei settori ritenuti dalle banche più «solidi» sono in realtà molto esposti alle esternalità ambientali. Così i tassi dei finanziamenti a chi, almeno sulla carta, crea danni all’ambiente, sono più bassi. Il settore «coke e prodotti petroliferi», per dire, genera 821 euro di esternalità ogni mille euro di valore aggiunto e ha tassi attorno al 3%; del 2,9% l’elettricità e gas (172 euro su mille). Al contrario, i «virtuosi» settori del tessile (10 euro di esternalità su mille) e dei mobili (appena 4 euro) hanno un costo del credito rispettivamente del 4% e del 4,45%.

Q

In dieci anni la “riserva” è passata da 1,3 a 25 GW appiamo tutti che «vendere ghiaccioli agli eschimesi», come recita l’adagio popolare, è un’impresa decisamente sconsigliabile se si vogliono fare dei profitti. Certamente c’è l’eccezione che conferma la regola: di tanto in tanto si trovano imprenditori così bravi da riuscire a convincere chiunque ad acquistare una cosa che di cui non ha assolutamente bisogno; ma è un’eccezione. Sicuramente non fanno parte di questa eccezione le società che in Italia, tra la fine degli anni ’90 e il 2010, hanno improvvidamente investito montagne di soldi nella costruzione o nell’acquisto di centrali elettriche. Quelle risorse, spese massicciamente per costruire imponenti potenzialità di produzione di energia elettrica – centrali a gas, a carbone, ma si volevano realizzare persino centrali nucleari – sono state letteralmente distrutte, creando problemi serissimi a gruppi industriali un tempo ricchi e opulenti. Negli ultimi anni infatti la domanda di energia elettrica si è ridotta di molto: colpa della crisi economica, ma anche per la strutturale trasformazione del mercato elettrico. Che ha reso i produttori tradizionali di elettricità «fossile» - appunto – simili a chi voglia vendere ghiaccioli agli eschimesi. In una recente audizione parlamentare il nuovo amministratore delegato di Terna, Matteo Del Fante, ha esposto dati assolutamente incontrovertibili. La «capacità disponibile reale» di produzione dell’industria elettrica in Italia oggi è di 78,7 GW, contro i 54,4 Gigawatt di dieci anni or sono. Sempre dieci anni fa la

Banche italiane: più generose con chi inquina

ranno sopravvivere, le grandi utilities del settore elettrico dovranno puntare sempre di più sugli investimenti nel settore dello “storage”: sono i sistemi di accumulo in grado di conservare l’energia elettrica prodotta e non immediatamente immessa in rete. Nel frattempo però le aziende dell’elettrico tradizionale stanno decidendo drastici piani di ridimensionamento. L’Enel, ha dichiarato l’ad Francesco Starace, ha annunciato la chiusura, la riconversione green o la vendita di 23 siti per

11mila MW. «Sono impianti ha detto - che non trovano più una giustificazione economica». Anche E.ON., la multinazionale tedesca dell’energia, ha progetti di dismissione, mentre aziende come A2A, Acea e Iren hanno già avviato importanti piani di riduzione del personale. Le difficoltà debitorie di Sorgenia sono molto serie e forse non ancora superate. E davvero critica è la situazione di Tirreno Power, che tra l’altro si ritrova la centrale a carbone di Vado Ligure chiusa per inquinamento.


IV

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moda

green economy BARBARA COTTAVOZ

Tradizione e ambiente

a birra è tutta «verde». Dal chicco di riso e orzo coltivato nel Parco del Ticino alle acque di scarico rilasciate nella fogna: il birrificio agricolo «Hordeum», nato a maggio alle porte di Novara nella ex Centrale del latte, produce con il raccolto dei suoi campi e utilizza il primo depuratore in Europa costruito con tappi di plastica. I soci sono quattro: Paolo Carbone, informatico convertito all’arte della birra, Roberto Lentini, consulente del lavoro, Alessandro Serra, agente immobiliare, e Marco Mario Avanza, risicoltore nonché presidente del Parco del fiume azzurro, confine tra Piemonte e Lombardia. Hanno firmato la nascita della società il 14 febbraio 2012, la produzione è partita a maggio 2014 dopo scelte importanti. La prima è stata la location della nuova azienda: un complesso affittato dalla Fondazione agraria in corso Vercelli 120. «Questa era la vecchia centrale del latte di Novara, vuota e in disuso da tanto tempo. Un vero peccato perché è un’area molto bella. Così, invece di puntare su qualcosa di nuovo, abbiamo voluto riprendere il filo di un pezzo di storia cittadina» dice Lentini. Nel recupero degli allacciamenti si è posto il problema della depurazione delle acque che provengono dal lavaggio delle cisterne. L’alternativa era tra un sistema tradizionale e qualcosa di innovativo: «Non abbiamo avuto dubbi - risponde Carbone - un amico ci ha proposto un apparecchio nuovo creato da Dario Savini, docente pavese che ha costituito una startup a Trento: una sorta di lavatrice con 430 chili di tappi di plastica dove vivono le colonie batteriche che si «mangiano» lo sporco. Questo depuratore costa come uno tradizionale, ma consuma un decimo di energia e l’acqua che ne esce può

Patagoniasceglie lalanarigenerata deipratesiCalamai

L

MARCO TEDESCHI

GIADA CONNESTARI

Uno dei «moduli» dell’innovativo depuratore costruito con semplici tappi di plastica

Hordeum, il birrificio agricolo

Dal riso e dall’orzo del Ticino nasce la birra “verde” di Novara Tutto eco-compatibile, anche il sistema di acque di scarico essere usata per bagnare il giardino. Senza contare che i tappi vengono acquistati da associazioni che li raccolgono con i loro volontari e quindi c’è un risvolto sociale che ci piace». «Hordeum» - lo stabilimento può produrre duemila ettolitri all’anno produce due birre di riso, chiara con il Carnaroli e scura con il Venere ne-

ro, una di farro e altre due in stile belga, bionda e rossa a doppio malto; ne è allo studio una sesta con fermentazione al lampone. Tutto arriva da coltivazioni delle campagne novaresi: «Il 95% per cento delle materie prime è prodotto nei nostri terreni, acquistiamo solo luppolo e malto speciali. Siamo tra i pochissimi birrifici davve-

ro agricoli» continua Carbone. «Forniamo negozi e locali, qualcuno anche “stellato”. Ma siamo particolarmente fieri - è la conclusione - di contribuire allo sviluppo economico della città con un’azienda ecologica e agricola, due caratteristiche a cui teniamo molto e che rappresentano il cuore del nostro progetto».

Patagonia è un grande marchio internazionale nel campo dell’abbigliamento outdoor. La nuova collezione Truth To Materials è però realizzata completamente con materiali riciclati e rigenerati da fonti alternative.C’è il cotone rigenerato, che viene da un’azienda di Hong Kong, un cashmere privo di tinture, dalla Cina. Ma alcuni di questi capi sono realizzati con lana rigenerata che è prodotta interamente in Italia, presso un’azienda familiare che opera nel settore da anni. Si tratta della «Figli di Michelangelo Calamai», che mette a disposizione di Patagonia lana che deriva da indumenti usati e scampoli di produzione, che vengono mescolati per ottenere filati con trame e consistenze diverse. L’azienda pratese, oggi gestita da Bernardo Calamai, pronipote dei fondatori, da sempre ha operato nel nel campo del recupero dei tessuti usati. Una volta lo si faceva per ragioni economiche, per produrre filati meno cari e dunque abiti poco costosi. Oggi lo si fa per ragioni ecologiche: non ha senso sprecare e gettare indumenti usati, tessuti di seconda scelta o materiali tessili di scarto, perché finirebbero nelle discariche. E così, la lana rigenerata impiegata da Patagonia viene realizzata a partire da maglioni in lana usati ed eliminati, che vengono sfibrati e sminuzzati per ottenere una nuova fibra (esattamente come in passato), successivamente mescolata con poliestere e nylon per offrire maggiore resistenza.

Nuove tecnologie

Arriva Superlizzy, la macchina schiacciarifiuti FRANCO BRIZZO

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Si sa che noi italiani abbiamo un certo geniaccio creativo quando si tratta di inventare macchinari, anche molto particolari, per l’industria. È quello che è successo con la Superlizzy, inventata dalla Co.Ma.Ri, un’azienda del gruppo CMS di Marano sul Panaro, in provincia di Modena. Un’idea che ha risolto un sacco di problemi a un colosso del fast food come McDonald’s, e che ha procurato un sacco di ordini ai suoi inventori. Superlizzy è una macchina compattatrice in grado di ridurre l’ingombro dei rifiuti fino al 90%, separando inoltre liquidi e solidi. Un vantaggio per chi ha a che fare con tanti scarti, ma anche per chi ha il compito di gestire, immagazzinare e recuperare questi rifiuti. La prima macchina prodotta è stata installata in un McDonald’s italiano dieci anni fa, nel 2004: all’epoca era un progetto di avanguardia e forse c’era meno sensibilità in tema di smaltimento rifiuti. McDonald’s ha creduto nel progetto da subito, anche perché sembrava fatto apposta per risolvere le necessità di un fast food. Vista la sua efficienza, nel 2007 l’accordo è stato esteso a tutti i McDonald’s italiani, e quindi in ogni

nuovo fast food che si apre viene installate per default la Superlizzy. A oggi ci sono ben 707 macchine installate in 374 ristoranti (sui quasi 500 del sistema). Una idea utile, anche all’ambiente. Secondo i calcoli di McDonald’s, grazie alle SuperLizzy si riescono a risparmiare 300.000 metri cubi di rifiuti l’anno. E visto che l’esperimento italiano è stato un successo, ad oggi la Superlizzy è in test in diversi McDonald’s europei e del Sudamerica, con conseguenti importanti prospettive di business. Ovviamente, l’azienda modenese ha potuto espandersi verso nuovi clienti: alcune Superlizzy oggi sono installate in luoghi prestigiosi come il Senato della Repubblica e i Musei Vaticani. Gruppo CMS - che ha un fatturato di 100 milioni di euro, e impiega 500 dipendenti in 6 stabilimenti ad oggi conta oltre 1800 macchine installate nel mondo, e ad Ecomondo presenterà una nuova versione di Superlizzu, più grande e per esterni, pensata per un progetto di recupero della plastica con i Comuni, che consentirà loro di utilizzare il ricavato della vendita della «plastica pregiata» delle bottiglie per raccogliere fondi che verranno girati alle scuole del territorio.


SPECIALE LA STAMPA MERCOLEDÌ 5 NOVEMBRE 2014

V

ambiente

Pericoli dal sottosuolo

Olio di fast food, legno e salviettine Un mega-tappo nelle fogne di Londra Rimosso un ammasso di grasso e rifiuti lungo come un Boeing , evitata l’inondazione di acque nere Un gruppo di tecnici ispezionano uno dei tratti della rete fognaria della capitale britannica, alla ricerca di danni o perdite

la storia ROBERTO ANTONINI

na massa di grasso, salviettine umidificate e altra roba gettata negli scarichi dei lavandini e nei wc: un blocco lungo come un Boeing 747, circa 80 metri. L’ha rimossa a settembre Thames Water, la società che gestisce acquedotti e fognature a Londra, sotto Shepherd’s Bush Road, nella zona ovest della capitale britannica. La mostruosità è stata battezzata «fatberg»: un iceberg di grasso. Decisivo per formare l’orrido ammasso, l’olio da frittura che dai fast food e dalle abitazioni finisce nelle fogne. Al grasso, però, si sono legate le resistenti salviettine che non si disfano in acqua e non dovrebbero finire negli scarichi, al pari di indumenti intimi, palle da tennis e assi di legno, anche loro tra gli habitué delle fogne di Londra. La rimozione del terribile bolo ha evitato che le case e gli uffici finissero inondati dalle acque nere che sarebbero ben presto sgorgate dagli scarichi di tutto il quartiere. La massa, un «immenso e solido blocco» fatto a pezzi con potenti getti d’acqua, rivaleggia con il «fatberg più grande di sempre» rimosso nell’agosto 2013 dalle fognature di Kingston upon Thames a Southwest London, grande come uno dei classici bus rossi a due piani. Certo meno lungo di un Jumbo Jet, ma pesante ben 15 tonnellate. «Abbiamo 108mila chilometri di fognature, il che fa un sacco di tubi da tener puliti - spiegano a Thames Water - spendiamo 12 milioni di sterline l’anno (oltre 15 milioni di euro, ndr) per rimuovere le ostruzioni, la maggior parte delle quali si forma perché la gente butta grassi da cucina negli scarichi e salviette umidificate nei wc». I grassi «scendono negli scarichi con facilità, ma quando incontrano le fognature, più fredde, si rapprendono formando disgustosi fatberg che bloccano le tubature», lamentano da Londra. Ma ci sono dei leviatani di grasso nelle fogne italiane? Sembra di no, ma a quanto pare quel che si trova rappresenta un po’ l’anima del Belpaese. «Ammassi di grasso? Capita, ma piccole situazioni che non raggiungono quelle dimensioni», fanno sapere a Metropolitana Milanese, l’azienda che si occupa delle fognature meneghine. Ne sono stati trovati qualche anno fa in prossimità di grandi catene di fast-food, che evidentemente gettavano olii negli scarichi. «Abbiamo inviato segnalazioni - dicono - e fatto sì che ciò non si ripetesse». Una delle criticità maggiori, probabilmente una particolarità di Milano, è la presenza di materiale cementizio negli scarichi: «In città ci sono tanti cantieri, e purtroppo spesso troviamo bentonite proveniente dai cantieri sotterranei, o cemento da quelli di superficie, sversati negli scarichi». La rete di Roma gestita da Acea, l’Azienda Comunale elettricità e acque, invece, ha mai prodotto un fatberg capitolino? «Situazioni come quella no, è un caso particolare», spiegano dall’azienda, ma che i grassi si ammassino nelle tubature «è una cosa che normalmente avviene.

U

LUKE MACGREGOR/REUTERS

Oro

Graffiti

Nessun coccodrillo albino a San Antonio (Texas), ma lo scorso luglio è stato trovato un «rat snake» decisamente grosso

Nel gennaio 2009 a Suwa, Giappone, nella cenere dei fanghi del depuratore è stato trovato oro per 15 milioni di yen

Dal ’95 lo street artist brasiliano Zezão disegna le sue creazioni nelle fogne di São Paulo

italiani, poeti e ricercatori

Serpente

VERONICA ULIVIERI

Il vecchio vetrocemento ora produce elettricità

innovazione in edilizia può arrivare anche da un materiale costruttivo rimasto uguale per un secolo: il vetrocemento. SBskin, spinoff dell’università di Palermo nata l’anno scorso, ha reinventato il vetromattone, trasformandolo in un modulo per facciate e coperture in grado di isolare l’edificio e produrre allo stesso tempo energia elettrica, grazie alle sue celle fotovoltaiche trasparenti. Un piccolo capolavoro di ingegneria e di design «che è il risultato di ricerche iniziate nel 2008, per l’ottimizzazione energetica di elementi capaci di captare la luce naturale», spiega Rossella Corrao, professore del dipartimento di Architettura dell’ateneo palermitano e fondatrice dell’azienda insieme a tre giovani: un ingegnere elettrico, un dottorando e un dottore di ricerca. Grazie ai vetromattoni bre-

L’

vettati da SBskin, si possono creare facciate e coperture energicamente attive: «Attraverso una cintura in materiale plastico posta tra le due conchiglie di vetro che compongono il vetromattone si realizza il taglio termico, ottenendo livelli di isolamento paragonabili a quelli dei doppi e tripli vetri». La produzione di energia avviene grazie a celle solari di terza generazione (DSC), brevettate dal Politecnico di Losanna: «Nonostante siano meno efficienti di quelle in silicio, hanno alcuni importanti vantaggi: generano energia anche se non sono perfettamente orientate verso il sole, in giornate dove c’è poca luce diffusa e anche di notte, utilizzando l’illuminazione artificiale. Inoltre, sono trasparenti, e realizzabili in diversi colori». Caratteristiche che permettono di ridurre di molto il fabbisogno energetico di un edificio e

risparmiare sui costi di costruzione: «Con la stessa operazione si costruiscono sia le facciate o le coperture che l’impianto fotovoltaico. Inoltre, abbiamo brevettato anche il sistema di assemblaggio dei vetromattoni che avviene totalmente a secco: in cantiere arrivano i pannelli preassemblati e precompressi», continua la docente. Se le buone idee ci sono tutte, adesso per passare dal laboratorio al mercato servono i soldi: «Per mettere a punto i prodotti finiti avremmo bisogno di 1 milione di euro. Stiamo cercando finanziatori per completare la fase di prototipazione», spiega Corrao. SBskin è stata selezionata anche nel bando Smart&Start del Ministero dello Sviluppo economico, «ma per ora le risorse assegnateci non sono per noi disponibili: per accedervi è richiesta altra liquidità che non abbiamo».

È quasi inevitabile». Pulendo regolarmente non si rischia, ma «succede più spesso nei tubi più piccoli e nelle zone ricche di ristoranti»; perché all’origine degli ammassi «c’è anche la materia grassa nell’acqua di lavaggio di piatti e pentole, che una volta nelle fogne si separa e solidifica». Il problema di Roma, semmai, «più che le salviette sono i preservativi: si ammassano sulle griglie dei depuratori insieme a cotton fioc ed altri oggetti grossolani», e tocca rimuoverli. Neanche a Torino sono stati avvistati fatberg paragonabili al mostro di Londra. «Una roba del genere vuol dire che non si sono mai accorti di quel che si stava creando», rassicurano dalla Società metropolitana acque Torino, la Smat. «Il fenomeno si presenterebbe anche da noi se non si pulisse»; ma la differenza sostanziale è che a Torino e nel resto d’Italia per cucinare si usa l’olio. «In Gran Bretagna spuiega la Smat - adoperano molto di più i grassi, specialmente animali; oppure burro e margarine che raffreddandosi nelle tubature si solidificano, aderendo alle pareti e diminuendo la capacità di scorrimento». Un dato che emerge dai confronti sui benchmark con i nostri colleghi in Gran Bretagna o in Germania, dove c’è un’indiscutibile evidenza dell’apporto dei grassi animali, in relazione alle variazioni di temperatura. È un problema che noi italiani non abbiamo». Anche a Torino, però, c’è un problema salviette umidificate, che non dovrebbero essere mai gettate nel water. Insomma, sembrerebbe che dalla dieta mediterranea arrivino vantaggi sia per le arterie che per le fognature, limitando ammassi di grasso nel primo caso responsabili dell’arteriosclerosi, nel secondo di perniciose ostruzioni. Certo è che le fogne rivelano abitudini e segreti di una città: «da quel che arriva - concludono alla Smat - capiamo usi e costumi dei torinesi: sia la loro attività sessuale», per i soliti preservativi che finiscono dove non dovrebbero, che l’uso di droga. Attraverso i metaboliti rinvenuti nelle acque dei depuratori, si sa, si sono stimati i consumi di sostanze stupefacenti in città. Consumi impressionanti.


VI

SPECIALE LA STAMPA MERCOLEDÌ 5 NOVEMBRE 2014

In breve

vivibilità Riciclaggio

Il rapporto di Legambiente

Le città italiane, ecosistemi in crisi Verbania al top, Agrigento è ultima La recessione strangola il trasporto pubblico; segnali positivi per la raccolta dei rifiuti FRANCESCO GRIGNETTI cosistema urbano, quanto è difficile rendere amiche le nostre città. L’ultimo Rapporto della Legambiente sulla vivibilità ambientale dei capoluoghi di provincia italiani, presentato a Torino nei giorni scorsi, è l’ennesimo grido di dolore. Le città italiane si rivelano a tre velocità: lente, lentissime, o statiche. Un pianto al confronto con quello che si può vedere in giro per l’Europa. La classifica sulla vivibilità urbana, che tiene conto dell’aria, dell’acqua e dell’energia, lo stato della mobilità, della raccolta rifiuti e anche degli incidenti stradali, propone al vertice Verbania, Belluno, Bolzano, Trento e Pordenone. A passarsela meglio sono in genere le città medio-piccole, soprattutto del Nord, anche se tra le prime 10 in classifica troviamo tre città del Centro: Oristano, L’Aquila e Perugia. Agrigento, all’opposto, è ultima assieme a Crotone e Isernia. A Crotone, per dire, sono appena 0,02 i metri quadrati di superficie pedonale a disposizione di ogni residente; soltanto il 16,6% dei rifiuti è raccolto in modo differenziato. Isernia dichiara l’8% di rifiuti raccolti in maniera differenziata, 71 auto ogni 100 abitanti, zero metri equivalenti di strada destinata ai ciclisti, zero potenza installata da solare termico e fotovoltaico negli edifici comunali. Quanto allo smog, aumentano le situazioni critiche nei Comuni più grandi: lo mostrano gli indici di biossido di azoto a Trieste, Milano, Torino e Roma. «Solo a Bolzano - si legge - le politiche di mobilità sono riuscite a limitare gli spostamenti motorizzati privati al di sotto di un terzo degli spostamenti complessivi». In 26 città invece il 66% degli spostamenti si fanno con auto e moto private. Eppure, in tanto sfacelo, ci sono diverse esperienze che fanno ben sperare. A TorinoMirafiori c’è la prima e unica Zona 30 chilometri l’ora di concezione «europea»: 50 ettari in cui vivono 10.000 abitanti. Nel giro di due anni il traffico nelle ore di punta è diminuito del 15% circa e del 30% per i mezzi pesanti; si sono ridotti del 74% i giorni di prognosi per incidenti; il rumore è diminuito di 2 decibel; il risparmio complessivo è stato di 1,5 milioni di euro, di cui 500.000 soltanto di costi sanitari. E il 68% dei residenti si dichiara soddisfatto. Ad Andria, in Puglia, la raccolta differenziata dei rifiuti era del tutto sconosciuta fino all’estate del 2012: in pochi mesi, «per merito innanzitutto dei cittadini andriesi - riconosce Legambiente - che hanno operato un profondo cambiamento nel loro stile di vita quotidiano», le cose sono cambiate radicalmente. Ad Andria ora si raccoglie il 66,7% di rifiuti in maniera differenziata. In generale la raccolta dei rifiuti è diventata una cartina

E

di tornasole della vivibilità urbana. Si osservano, al solito, due Italie: un terzo dei Comuni non raggiunge nemmeno l’obiettivo del 35% da centrare nel lontano 2006. Un altro terzo invece supera abbondantemente il 50%. E 8 Comuni virtuosi tra cui due città campane, Benevento e Salerno - hanno superato l’obiettivo di legge del 65%, «ponendo le basi per lo sviluppo di un’economia basata sul riciclo e riuso delle risorse che è una dei pilastri fondamentali dell’agenda europea per il 2020». È in grave ritardo, invece, lo sviluppo del trasporto pubblico, che anzi arretra sot-

Verbania

to i colpi della crisi finanziaria. «Eppure - ragiona il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza - è proprio la crisi economica in edilizia, la pessima qualità della mobilità urbana, le opportunità offerte dalla digitalizzazione e dalle nuove tecnologie energetiche, che rendono possibile e necessario avviare concreti percorsi di rigenerazione urbana. Serve un piano nazionale che mostri una capacità politica di pensare un modo nuovo di usare e vivere le città. Purtroppo, il decreto SbloccaItalia rappresenta solo l’ennesima occasione persa».

A Roma un nuovo sistema «incentivante» 1 Dopo

la postazione di Colli Aniene, che in meno di due mesi ha raccolto quasi due quintali di plastica PET, a Roma è stata inaugurato un secondo riciclatore incentivante nel quartiere Casal de’ Pazzi. Si tratta di un sistema per la raccolta e la riduzione del volume dei rifiuti, che eroga in cambio un ecobonus per ogni pezzo conferito, da utilizzare nelle attività commerciali che hanno aderito all’operazione. Ideato e prodotto dalla veneta Eurven, e installato da Ecolife Italia, il riciclatore incentivante di Casal de’ Pazzi accetterà lattine in alluminio, bottiglie in plastica PET e tappi PVC.

Eolico offshore

Sarà italiano il parco più grande degli Usa 1 Trentamila ettari a largo

delle coste del Maryland, energia per 300mila abitazioni, valore dell’investimento 2,2 miliardi di dollari. L’impianto sarà realizzato da US Wind, amministrata da Alfonso Toto e controllata da Renexia, società italiana che opera nel campo delle energie rinnovabili, che si è aggiudicata per 8,7 milioni di dollari la gara per la progettazione, realizzazione e sviluppo del parco eolico sulla costa ovest degli Stati Uniti. La potenza erogata sarà di 500 MW.

Stop trivellazioni

Greenpeace occupa una piattaforma Eni 1 Gli

attivisti di Greenpeace hanno protestato in maniera pacifica sulla piattaforma di estrazione Prezioso di Eni Mediterranea Idrocarburi, nel Canale di Sicilia, al largo della costa di Licata (Agrigento). Con l’appoggio della nave Rainbow Warrior, a bordo di gommoni, una decina di attivisti ha scalato la piattaforma aprendo uno striscione di 120 metri quadri su cui era raffigurato il presidente del consiglio Matteo Renzi, che promette “Più trivelle per tutti”. L’azione di Greenpeace è durata 30 ore.

Rifiuti

Dall’Europa in arrivo pesanti multe 1 Depositata

la sentenza della Corte di Giustizia che ha condannato l’Italia per non avere garantito che la totalità dei rifiuti urbani conferiti nelle discariche del Sub-Ato di Roma, ad esclusione di Cecchina, e in quelle del Sub-Ato di Latina fossero sottoposti ad un idoneo trattamento ai sensi della normativa comunitaria sui rifiuti. Per quanto riguarda la Campania, si rischia di dover pagare la cospicua somma di circa 228 milioni di euro.

Sovvenzioni energetiche

L’Ue aiuta ancora le fonti fossili 1 Uno

studio presentato dalla Commissione Ue mostra che se le rinnovabili in questi ultimi anni hanno ricevuto incentivi cospicui, carbone, gas e nucleare continuano a contare su ingenti sussidi che vanno ad aggiungersi agli aiuti storici che producono effetti ancora oggi. A questo si aggiungono le esternalità negative, che nell’Ue pesano tra i 150 e 310 miliardi di euro all’anno e sono imputabili quasi totalmente alle fossili.


SPECIALE LA STAMPA MERCOLEDÌ 5 NOVEMBRE 2014

VII

cooperazione

1,1 milioni di ettari FORESTE PERDUTE

Negli ultimi dieci anni, queste sono le aree trasformate in campi e allevamenti

EMANUELE BOMPAN

T

ransChaco, così si chiama la strada che taglia, come una linea retta, la regione settentrionale del Paraguay: il Chaco. Una strada percorsa quasi esclusivamente da lunghi e frequenti camion carichi di Acqua bestiame destinati al macello della Le donne capitale Asunción. Qua li chiamano della comuni“gli autobus delle vacche”. In questa tà Armonia zona, dal clima semiarido, l’allevainstallano un mento ha avuto un boom senza precedenti. La vendita di terra – soprat- sistema d’irrigazione a tutto a capitali stranieri – cresce a basso consuritmi vertiginosi. Tanto che negli ulmo d’acqua timi mesi la regione, secondo uno in una parcelstudio dell’Università del Maryland, la di terra ha raggiunto il più alto livello di defodestinata a restazione al mondo, con punte che un progetto toccano i 280mila ettari l’anno. Albedi agricoltura ri tagliati per fare posto ai bovini. per il miglio«Il Chaco Paraguayano – racconramento dei ta Miguel Lovera, ex-presidente del mezzi di Senave, l’ufficio governativo per la sussistenza qualità ambientale e agricola – ha della comunisubito, a causa dell’espansione delle frontiere delle coltivazioni di soia, tà , promosso dalla Ong una riallocazione degli allevamenti. COOPI Sospinti dall’agrobusiness i ganaderos, gli allevatori, si sono rilocati in zone un tempo marginali, come il Chaco». Non solo: la legge “Deforestazione zero”, nata per fermare la il taglio selvaggio, ha accelerato il fenomeno. Gli allevatori, nel timore di un blocco al disboscamento, hanno Così il processo di salinizzazione terdisboscato a dismisura. mina con la desertificazione del terri«La deforestazione sta avendo poi torio, la degradazione dell’habitat e la rilevanti impatti sulla fertilità del perdita di biodiversità. terreno», continua Lovera. La vege«Oggi il Chaco Paraguayo è considetazione nativa, alrato una delle zone tamente speciaL’«EFFETTO DOMINO» più a rischio siccità lizzata, riusciva continente Si riduce la fertilità della terra, del ad isolare la suAmericano», spieaumenta la salinità, si rischia ga Manuel Simonperficie terrestre siccità e desertificazione celli dell’organizzadall’acqua salmastra di un enorme zione non governalago sotterraneo IL LEADER INDIO tiva Coopi. Tanto nelle profondità entrare a fare «Tutti attendono la pioggia, da del Chaco. Con il parte dei programcosì è impossibile produrre mi di Preparazione taglio delle piante e non si può più cacciare» ai Rischi e Disastri invece, l’acqua piovana penetra di ECHO, la direzioin profondità e si mescola a quella ne generale per gli Aiuti umanitari e la salmastra. Questa poi riaffiora in su- protezione civile dell’Unione Europea. perficie, lasciando depositi di sale «Un tempo la popolazione era solita che il vento spargerà per tutta l’area. spostarsi in un territorio molto vasto,

GIADA CONNESTARI

Paraguay, a rischio le popolazioni indigene

L’avanzata delle vacche che ha devastato il Chaco

buone idee da copiare

Ogni anno gli allevamenti intensivi provocano la sparizione di 280mila ettari di alberi

ALESSANDRO CANEPA

A

cercando luoghi dove vi fossero acqua e cibo in abbondanza.», continua Manuel. «Poi sono arrivate le colonie mennonite, dedite all’agricoltura e all’allevamento, e con esse sono apparsi i recinti e la proprietà privata che hanno posto fine al nomadismo degli indigeni. E infine sono arrivati i grandi latifondisti e le compagnie internazionali, dal Brasile e l’Uruguay». Addio autosostentamento. Presi nella morsa della scarsità idrica, dell’allevamento a grande scala, del disboscamento selvaggio per gli indigeni si va delineando una situazione tragica. Chi riesce lavora negli allevamenti o parte per le colonie o la capitale. «Tutti attendono la pioggia» – racconta Eladio Rojas, leader della comunità di Campo Loa. «Ma con queste condizioni è impossibile produrre qualsiasi cosa. Nemmeno la caccia è più redditizia».

«Per uscire da questa situazione le. Attività che questo popolo di cacciaCoopi ha avviato progetti per la gestio- tori e raccoglitori non praticava fino a ne delle risorse idriche», continua Si- pochi anni fa. moncelli. «Cercando allo stesso tempo Eppure per Oscar Rivas, ex mininuovi mezzi di sussistenza per per- stro dell’ambiente paraguaiano, la mettere alle comupriorità è regolare il nità indigene di auIL PIANO COOPI settore privato. «Le mentare la loro cacorporazioAl via progetti per gestire grandi pacità di resilienza ni vengono in Parale risorse idriche e fornire guay perché lo veper far fronte alla nuovi mezzi di sussistenza dono come un paesiccità e adattarsi al nuovo contesto se libero dalle leggi, socio-economico». L’EX-MINISTRO senza restrizioni né In molti villaggi am«Le corporations vengono qui salvaguardia l’associazione sta bientale o sociale, perché non ci sono regole quindi un paese doportando avanti il né sociali né ambientali» ve si può implemenprogetto Chaco Rapére, per formatare facilmente re tecnici per costruire pozzi o inse- qualsiasi cosa». Sempre a favore di un gnare gli abitanti in tecniche agricole rapido guadagno, anche se il prezzo è sostenibili. Come l’agricoltura sosteni- la distruzione di un patrimonio cultubile o l’allevamento di animali da corti- rale e ambientale.

Negli “eco-hotel” la carta igienica è riciclata e senza cloro

ndare oltre il “gettate a terra solo gli asciugamani che volete siano lavati”. Per hotel, navi da crociera e altre infrastrutture turistiche e congressuali la sfida della sostenibilità passa da una assunzione di responsabilità che ha due benefici per il gestore: può portare a una significativa riduzione dei costi e ha un indubbia ricaduta positiva in termini di immagine e di responsabilità sociale. Recenti studi stimano in almeno il 205% di riduzione dei costi ottenibile con pratiche “leggere”, e di un tempo di rientro degli investimenti più importanti attorno ai 5-8 anni. Negli ultimi anni sono nati programmi volontari che incentivano gli hotel, attraverso l’adesione a un marchio e a criteri riconosciuti, a diventare

più sostenibili. E’ il caso di Green Globe e Green Key. Green Globe, olandese, molto rigoroso, fissa 41 criteri e 337 indicatori e richiede che chi vi partecipa centri almeno il 51% dei criteri, con un aumento del 3% annuo. Attualmente ne fanno parte 308 hotel, 8 navi da crociera, 64 centri congressi e società di servizi e 17 attrazioni turistiche. Meno rigido ma non per questo meno interessante - dato che allarga la base degli hotel che possono accedervi - è il danese Green Key, che ha raccolto l’adesione di 2200 hotel di 45 paesi. In questo caso è sufficiente l’adesione al 20% dei criteri entro 5 anni, per arrivare poi al 50% in 10 anni. Il rischio del greenwashing, cioè dell’operazione di facciata, sembra

essere dietro l’angolo, ma stavolta sembra diverso, perché le misure richieste sono impegnative. Il programma richiede infatti che vengano condotti rigorosi corsi per la formazione del personale, installate docce e rubinetti a basso consumo di acqua (massimo 9 litri il minuto), che si vada verso un riutilizzo delle acque meteoriche per alimentale le toilette e irrigare i giardini, che si utilizzi carta igienica non trattata con cloro e preferibilmente parzialmente riciclata, e che si effettui una rigorosa selezione dei rifiuti, sia quelli degli ospiti che quelli dell’hotel, con cura particolare per i prodotti chimici. Va poi installato, almeno nei nuovi hotel, un sistema che blocchi l’aria condizionata in caso di apertura delle finestre e si pre-

vede che l’uso di lampade a basso consumo energetico sia subito del 50% e passi poi al 90%. Sempre per i nuovi hotel, o in caso di ristrutturazione, è necessario che i tubi dell’acqua calda e del riscaldamento, oltre alle centrali termiche, siano isolati, mentre nella ri-

storazione l’indicazione è quella di dare la preferenza a cibi locali o biologici, alla limitazione il più possibile di piatti bicchieri e posate usa e getta, e che venga messa disposizione degli ospiti acqua purificata (per ridurre l’uso di acqua minerale in bottiglia).


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