Artemisia

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ARTEMISIA GENTILESCHI STORIA DI UNA PASSIONE

a cura di Roberto Contini e Francesco Solinas

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ARTEMISIA GENTILESCHI

pa l a z z o r e a l e · m il a no 22 · settembre · 2011

STORIA DI UNA PASSIONE

MOSTRA

Cultura

Sindaco Giuliano Pisapia

Direttore Domenico Piraina

Presidente Salvatore Carrubba

Assessore alla Cultura, Expo, Moda, Design Stefano Boeri

Coordinamento mostra Giuliana Allievi

Amministratore Delegato Antonio Scuderi

Organizzazione Luisella Angiari Giovanni Bernardi Filomena Della Torre Patrizia Lombardo Christina Schenk Diego Sileo Giulia Sonnante Roberta Ziglioli

Direttore comunicazione, mostre e libri Natalina Costa

Direttore Centrale Cultura Giulia Amato

Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana

Responsabile Coordinamento tecnico Annalisa Santaniello Una mostra Comune di Milano Cultura Palazzo Reale 24 ORE Cultura

Coordinamento tecnico Patrizia Lombardo Luciano Madeo Responsabile Amministrazione Renato Rossetti Amministrazione Roberta Crucitti Valeria Giannelli Laura Piermattei Sonia Santagostino Luisella Vitiello Responsabile Comunicazione e Promozione Luciano Cantarutti

In copertina e in quarta di copertina Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. © Archivi Alinari, Firenze. Per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

© 2011 24 ORE Cultura srl, Pero (Milano) © Fondazione Roberto Longhi, Firenze, per il romanzo Artemisia di Anna Banti citato in quarta di copertina Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Prima edizione settembre 2011 ISBN 978-88-6648-001-3

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29 · gennaio · 2012

Responsabile produzione mostre, sviluppo progetti editoriali Balthazar Pagani Coordinamento organizzazione e produzione mostre Francesca Biagioli Organizzazione e produzione mostre Paola Corini Eventi e iniziative speciali Francesca Belli Ufficio stampa Giulia Zanichelli Realizzazione editoriale Coordinamento editoriale Giuseppe Scandiani Redazione Stefania Vadrucci

Progetto allestimento DWA Interior Architecture Alberto Artesani Frederik De Wachter Progetto illuminotecnico Piero Castiglioni Progetto grafico PITIS Massimo Pitis con Aurora Biancardi Allestimento multimediale N!03 studio ennezerotre

Ricerca iconografica Alessandra Murolo

Impianto illuminotecnico Volume

Fotolito Valter Montani

Assicurazioni Lloyd’s Axa Art Kuhn & Bülow Marsh

Ufficio stampa Comune di Milano Elena Conenna

Con il contributo di

Comunicazione visiva Dalia Gallico Art Lab

Coordinamento relazioni esterne e fund-raising Chiara Giudice

Assistenza Operativa Palma Di Giacomo Maria Loglisci Giuseppe Premoli Luciana Sacchi

Relazioni esterne e fund-raising Paola Cappitelli Federica De Giambattista

partner istituzionale

Scenografie Emma Dante

Realizzazione allestimento World Wide Stands

Segreteria di redazione Elisabetta Colombo

Palazzo Reale è stato restaurato grazie a

Comitato scientifico Alessandro Cecchi Roberto Paolo Ciardi Mina Gregori Judith W. Mann Lorenza Mochi Onori Wolfgang Prohaska Renato Ruotolo Nicola Spinosa

Responsabile produzione e impaginazione Maurizio Bartomioli

Comunicazione e promozione Francesca La Placa Leda Toschi Maria Trivisonno

Servizio Custodia Corpo di guardia Palazzo Reale

A cura di Roberto Contini Francesco Solinas

Ufficio mostre Sara Lombardini Roberta Proserpio Ufficio stampa Elisa Lissoni

Trasporti Arteria Conservazione opere Conservazione e restauro di Perticucci Fiori Laboratorio didattico MUBA, Museo dei Bambini Milano Audioguide Antenna Audio Servizio di biglietteria e prevendita MostraMi Servizio di guardiania Domina Catalogo 24 ORE Cultura

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ALBO DEI PRESTATORI

CATALOGO

Bassano del Grappa, Museo Biblioteca e Archivio Biblioteca Reale di Torino, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte Bologna, Musei Civici d’Arte Antica, Collezioni Comunali Budapest, Szépmüvészeti Múzeum Cannes, Musée de la Castre Collezioni Intesa Sanpaolo, Raccolta Banco di Napoli Firenze, Archivio Storico Frescobaldi e Albizzi Firenze, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo museale della città di Firenze Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa Londra, Matthiesen Gallery Los Angeles, Rita R.R. and Marc A. Seidner Collection Madrid, Museo Nacional del Prado Minneapolis, Curtis Galleries Napoli, Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico per Napoli e Provincia New York, The Metropolitan Museum of Art Pozzuoli, Diocesi, Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici Robilant+Voena, Londra-Milano Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi Roma, collezione Fabrizio Lemme Saint Louis, The Saint Louis Art Museum Sorrento, Museo Correale di Terranova Ville du Mans, Musée de Tessé

A cura di Roberto Contini Francesco Solinas

e tutti i collezionisti privati che hanno gentilmente messo a disposizione le opere di loro proprietà. In occasione delle mostra sono stati eseguiti i seguenti restauri e interventi conservativi G. Franca Carboni, Genova (cat. 23) Vincenzo Centanni, Daniela Menna (cat. 35) CO.R.ART. Conservazione e Restauro, Napoli (cat. 47) Laura Ferretti, Francesco Alvisini, Roma (cat. 25) Leonetto Giovannini, Firenze (cat. 36) Maria Jesús Iglesias, Madrid (cat. 31) Olivier Nouaille, Parigi (cat. 9) Andrea Porzio, Angelo Romano, Napoli (cat. 37) Studio di restauro Garosi, Firenze (cat. 14)

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Saggi Roberto Paolo Ciardi Roberto Contini Mina Gregori Rodolfo Maffeis Judith W. Mann Renato Ruotolo Francesco Solinas Schede di catalogo Luciano Arcangeli Carla Bernardini Paolo Biscottini Piero Boccardo Roberto Contini Jesse Locker Judith W. Mann Benedetta Moreschini Michele Nicolaci Yuri Primarosa Francesco Solinas Nicola Spinosa Andrés Úbeda de los Cobos Appendici Michele Nicolaci Yuri Primarosa Traduzioni dall’inglese e dallo spagnolo Arianna Ghilardotti Progetto grafico PITIS Massimo Pitis con Aurora Biancardi

Si ringraziano Cristina Acidini, Francesco Alvisini, Laura Auciello, Lászlo Báan, Giovanni Barrella, Andrea Bayer, Maurizio Bettoja, Catherine Brandt e il personale della Bibliothèque de l’Institut National d’Histoire de l’Art, Bettina Bryant, Roberto Cannatà, Alberto Chiesa, Keith Christiansen, Valentina Ciancio, Antoine Compagnon, Francesca Curti, Brigitte Daprà, Alessandro Della Latta, Francesca De Luca, Myriam Di Penta, Vicky e Isabella Ducrot, Giuliana Ericani, Gerolamo e Roberta Etro, Laura Ferretti, S. E. Frà Robert Matthew Festing, Gabriele Finaldi, Giuliana Forti, la famiglia Frescobaldi, Lisa de’ Frescobaldi, Vittorio e Bona de’ Frescobaldi Franceschi Marini, Federico Gargallo di Castel Lentini, Martina Ingendaay, Roeland Kollewijn, Anna Lo Bianco, Giancarlo e Georgia Lodigiani, Stéphane Loire e il personale del Département de la Documentation des peintures del Museo del Louvre, Elena Lombardi, Maurizio Marini, S. E. Nicolás Martínez-Fresno y Pavía, Luciana Mustilli Ottone, Antonio Natali, Franco Paliaga, Manuela Papucci, S.E. Monsignor Gennaro Pascarella, Nicholas Penny, Almudena Pérez de Tudela, Ugo Ruggeri, Paola Santucci, Giovanni Sarti, Maria Sframeli, Vittorio Sgarbi, Desmond Shawe-Taylor, Dominique Simon, Sotheby’s Archives, Fabio Speranza, Riccardo Spinelli, Claudia Tempesta, Mariella Utili, Martine Valentin, Maria Lucrezia Vicini, Francesco Vivoli, Alexandre Wakhevitch, Miguel Zugaza.

Sponsor

Sponsor Tecnico

ARTERIA

Con il supporto di

in collaborazione con

Acqua ufficiale della mostra

Gratitudine specialissima a Marco Voena e a Edmondo de Robilant per aver reso possibile l’esposizione del Ritratto di Antoine de Ville (cat. 24) da loro scoperto.

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Giuliano Pisapia • Sindaco di Milano

Milano accende i riflettori su Artemisia Gentileschi, un’artista affascinante e controversa, sul cui valore pittorico ha spesso fatto velo il cliché sociologico e storiografico. Con oltre cinquanta opere e con documenti inediti, la rassegna ci consente un incontro diretto con Artemisia e la sua pittura, per costruire un giudizio più informato. È la mostra più completa mai realizzata su Artemisia. Nessuna delle rassegne precedenti aveva realizzato una panoramica così esaustiva, in grado di documentare l’intero percorso dell’artista e della donna nelle città della sua vita: Firenze, Roma, Venezia, Napoli. Il percorso ci svela un’Artemisia che va oltre le etichette: quella di donna artista, di femminista ante litteram, di pittrice caravaggesca amica di Galileo. Ci troviamo a tu per tu con la nitidezza di una straordinaria creatrice, piena di personalità, capace di trasfondere nella figurazione la più alta cultura artistica della sua epoca e un vissuto femminile indipendente e libero, forse l’idea stessa di libertà. La curatela di Roberto Contini e Francesco Solinas e il contributo del comitato scientifico hanno consentito di realizzare

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un’esposizione completa ma non didascalica, capace di restituire la forza di un linguaggio artistico straordinariamente dinamico. Artemisia, camaleontica inventrice di un originale lessico pittorico, si è confrontata con i maggiori artisti europei del tempo, grazie a una personalità aperta e vivace: la scuola caravaggesca, i coevi fiorentini, i naturalisti attivi a Roma nel terzo decennio del XVII secolo, i contatti con la corte inglese nel 1638-39. Palazzo Reale conferma il proprio ruolo di polo espositivo di prima grandezza nel panorama italiano, ma anche la propria funzione di ricerca e di approfondimento sulle personalità artistiche che meritano di essere riproposte al grande pubblico. Accanto ai nomi di grande richiamo può e deve esistere una coraggiosa riproposta di ciò che oggi è meno conosciuto. Questa è la dinamica della vera storiografia artistica, ed è la cifra di poli espositivi davvero vitali. Il Comune di Milano intende potenziare questa dimensione a vantaggio degli amanti dell’arte, della bellezza di ogni cultura e di ogni tempo.

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Domenico Piraina • Direttore di Palazzo Reale

Venti anni fa presso Casa Buonarroti a Firenze e per iniziativa di Pina Ragionieri venne, per la prima volta, organizzata una monografica di Artemisia Gentileschi che, sebbene si avvalesse di un catalogo limitato di opere della pittrice, ebbe il considerevole merito di elevarla prepotentemente sul palcoscenico dell’arte europea del Seicento. Nel 2001, con la curatela di Keith Christiansen e Judith W. Mann (quest’ultima peraltro coinvolta anche nella nostra impresa con un saggio sui rapporti di Artemisia con i caravaggeschi, tema vivamente dibattuto tra gli studiosi) fu realizzata una mostra su Orazio e Artemisia Gentileschi, esposta a Roma in Palazzo Venezia, quindi al Metropolitan Museum of Art di New York e al Saint Louis Art Museum di Saint Louis. In tale esposizione, meritevole anche per aver rafforzato la conoscenza della figura della Gentileschi negli Stati Uniti, la figlia risultava ancora profondamente debitrice nei confronti del più noto e apprezzato genitore, tardo-manierista poi approdato al caravaggismo, di cui fu uno dei primi seguaci. Anche Palazzo Reale, fin dalla ormai mitica mostra su “Caravaggio e i caravaggeschi” (1951), curata da Roberto Longhi, e poi grazie a esposizioni più recenti quali “Caravaggio e l’Europa” (2005) e l’“Arte delle donne” (2008), ha significativamente contribuito alla conoscenza e all’affermazione della Gentileschi. Date queste premesse, abbiamo quindi ritenuto interessante, tanto per la comunità scientifica quanto per il sempre più vasto pubblico affascinato da Artemisia, tentare di realizzare un progetto in cui la figura della Gentileschi venisse considerata a tutto tondo; di conseguenza l’impianto espositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello – il più ampio possibile – di genere monografico. Dopo un paio di anni d’intenso lavoro scientifico e organizzativo, abbiamo maturato la convinzione che la sostanza del nostro progetto fosse sufficientemente documentata. Questa esposizione consente dunque di valutare in maniera compiuta l’opera di Artemisia, attraverso una soluzione narrativa, semplice ed efficace allo stesso tempo, che ci permette di seguire la multiforme produzione artistica della Gentileschi nei suoi molteplici spostamenti.

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Ne sortisce una figura affascinante e complessa, sia per le note vicende biografiche che le hanno conferito, a partire dalla seconda metà del XX secolo, fama planetaria grazie anche a romanzi, opere teatrali, un film e diverse intitolazioni di scuole, di alberghi e perfino di un asteroide e di un cratere venusiano, sia per l’attività artistica, indagata dalle esposizioni sopra segnalate e dalle fondamentali monografie di Mary D. Garrard e di Raymond W. Bissell. Dopo questa esposizione milanese, ove ve ne fosse ancora bisogno, si può affermare in maniera definitiva che Artemisia fu artista di eccezionale levatura, ricercata dalle corti di mezza Europa e forte di notevoli relazioni diplomatiche e intellettuali (tra gli altri, con Michelangelo Buonarroti il Giovane, Galileo Galilei, Cassiano dal Pozzo, Simon Vouet, i Barberini, Cosimo II de’ Medici, Carlo I d’Inghilterra). In questa mostra sono precisati e circoscritti (come aveva già indicato Anna Banti nel lontano 1947) i debiti della figlia verso il famoso genitore, con il quale ebbe un rapporto di difficile decrittazione, così come si attribuisce peso appropriato ai dati biografici, nella convinzione, ormai unanime tra gli studiosi, che né il pur acclarato magistero paterno né la violenza usatale da Agostino Tassi siano da considerare fattori determinanti della sua configurazione di artista, che è, invero, caratterizzata da una spiccata e precisa individualità, sostenuta da un precoce talento naturale (a diciotto anni la giovane esegue la celebre Susanna e i vecchioni di Pommersfelden e a ventuno viene ammessa, prima donna nella storia, alla fiorentina Accademia del Disegno, fondata da Giorgio Vasari). Altri contributi di questa rassegna sono l’approfondimento della genealogia della famiglia di artisti da cui Artemisia proviene e la pubblicazione, sulla base di documenti inediti, di un altro capitolo della sua già appassionante biografia. Se possiamo consegnare agli studi storico-artistici tali significativi progressi, lo dobbiamo anzitutto ai curatori: Roberto Contini, già protagonista con Gianni Papi e Luciano Berti della mostra fiorentina del 1991, e Francesco Solinas. E poiché le mostre devono sapere rappresentare l’arte, perché essa venga meglio valorizzata, capita e amata, ci siamo avvalsi di Emma Dante, che ha saputo, da par suo, capire l’anima appassionata e complessa di Artemisia.

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sommmario

Premessa

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Artemisia Gentileschi e le eroine

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I Lomi Gentileschi: una famiglia di artisti dalla Toscana a palcoscenici internazionali

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Roberto Contini e Francesco Solinas Mina Gregori

Roberto Paolo Ciardi

“Fino a qual segno giungesse l’ingegno, e la mano d’una tal donna”. 36 Geografia e rango di Artemisia Gentileschi

Roberto Contini

Artemisia Gentileschi nella Roma di Orazio e dei caravaggeschi: 1608-1612

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“Di un tuono e di una evidenza che spira terrore”. Artemisia Gentileschi a Firenze: 1612-1620

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Ritorno a Roma: 1620-1627

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Napoli: anni Trenta

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Judith W. Mann

Rodolfo Maffeis

Francesco Solinas Roberto Contini

“Quello che sa fare una donna”: Napoli, anni Quaranta

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Committenti e collezionisti napoletani di pittura ai tempi di Artemisia: 1630-1656

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Roberto Contini

Renato Ruotolo

Catalogo Una stirpe di artisti Firenze, Roma, Venezia, Napoli

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Appendice I Profilo biografico di Artemisia Lomi Gentileschi (Roma 1593 - Napoli dopo il 1654)

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Michele Nicolaci Appendice II

Artemisia Gentileschi nelle collezioni europee (1612-1723)

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Bibliografia

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Yuri Primarosa

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premessa

Roberto Contini e Francesco Solinas

istrarre il grande pubblico dalle semplificazioni scandalistiche sul destino di “essere umano” di Artemisia Lomi Gentileschi, vittima non solo di un accadimento amaramente banale (uno stupro) ma dell’allora immensa cassa di risonanza di un processo per deflorazione (con pesanti sfondi professionali da parte del padre denunciante), così da rendere la tragica banalità pubblica e infamante, non è altro che lotta donchisciottesca. Anche perché il mito letterario della adolescente offesa è cresciuto sul famoso romanzo di Anna Banti (1947), riscritto nel dopoguerra dopo che il primo manoscritto era andato bruciato. Solo una ventina d’anni più tardi il Bissell (1968), nel ristabilire i natali della donna arretrandoli di quattro anni (1593 e non già 1597), aveva già provveduto a sfumare i contorni della violenza usata ad Artemisia da Agostino Tassi, intrinseco del padre nonché suo mallevadore, di cui era stata oggetto una giovane donna sì, ma già matura e seducente, e istradata nella sua maggiore età. Nel riverbero di una notorietà cullata da tali crude premesse, è operazione salutare premere il pedale sui risultati della professione di artista della Gentileschi Lomi figlia, occupazione ritenuta a un di presso circense in una società le cui regole erano tutte al maschile, equivocata magari quale passatempo muliebre.

Artemisia Gentileschi, La ninfa Corisca e il satiro, particolare. Collezione privata.

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Ma i luoghi comuni con Artemisia non reggono, nemmeno l’unico veramente giustificabile: il vantaggio del suo provenire da lombi addetti per pratica dinastica alle arti figurative. Anche questo punto non tiene, in virtù di una dote innata e non sempre geneticamente trasmissibile: il talento. Nessun Vecellio è stato pari a Tiziano, nessun Caliari a Paolo Veronese; Artemisia, pur rampolla di un sommo del Seicento – sommo tuttavia per applicazione tardiva su formule da altri inventate e per qualità tecniche di eccellenza inusitata –, non ne diventò la sbiadita controfigura. Seguendo la norma del Seicento italiano non idealizzante, Artemisia Gentileschi in termini di riesumazione critica moderna è tutt’al più un’arzilla vecchietta: l’omaggio che Milano oggi le tributa non ha ancora veste centenaria, se quale primo gemito bibliografico vorremo nominare il glorioso saggio di Roberto Longhi in “L’Arte”, licenziato – con riferimento congiunto e sperequato a Orazio – nel 1916. Molto tardi, nel 1991, una benemerita iniziativa di Casa Buonarroti e della sua direttrice, Pina Ragionieri, ha immesso la non facile artista nel circuito delle rassegne monografiche. A scadenze decennali seguiranno la mostra a carattere familiare (Orazio e Artemisia assieme) di Roma, New York e Saint Louis, infine questa dell’autunno 2011.

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introduzione

In vent’anni i progressi non sono stati esili, come prova il mezzo centinaio di opere radunate, e pur con la tara di pezzi contumaci non per bizzarra amnesia dei curatori: vi sono istituzioni pubbliche che non hanno ritenuto di dar manforte a un’impresa che è andata crescendo in completezza a dispetto dei disturbi originati dagli strascichi ritardatari del centenario caravaggesco. Quasi senza eccezioni, scrupoli di natura conservativa hanno consigliato lo stallo; nondimeno, amari sono stati i calici di Pommersfelden, Detroit e delle Royal Collections, per alludere a tre opere capitali. Il fronte privato ha addotto altre ragioni, sulle quali non mette conto discutere, ma, essendo fronte diramato e teso ad addizioni fortunate, le compensazioni hanno raddrizzato i piatti della bilancia. Regina di Roma e dei caravaggeschi di prima come di seconda ondata, indiscussa primattrice a Firenze, Artemisia riuscì come un’intera costellazione, piuttosto che stella isolata a Napoli, dove spese il grosso della propria esistenza. Il bilancio sulla figlia di Orazio, oggetto di prudente understatement in larghe porzioni di questo catalogo, può essere tratto con maggior credibilità in queste righe introduttive, licenziate secondo l’uso al penultimo momento. La chiave di volta è stata offerta dai restauri di due tra le poche opere pubbliche di Artemisia, il Miracolo di san Gennaro nell’anfiteatro e i Santi Procolo e Nicea, due delle sue tre pale destinate nei medi anni Trenta del Seicento alla cattedrale dell’allora internazionale porto di Pozzuoli. Opere giudicate approssimativamente per il diminuito stato di conservazione e per la difficoltà di illuminare tele di tre metri d’altezza, esse – o comunque quelle menzionate – sono state latrici di un’inaspettata esplosione di lava cromatica e perizia fisiognomica. Affermare che la Gentileschi sia stata una grande nella Napoli del secondo quarto del secolo non può più essere ritenuto enfatico o immeritato. Forse anche un talento supremo tra i tanti della scuola partenopea quale il Cavallino deve ritenersi schiuso nel tepore di una chioccia di tale esuberanza. Pari considerazioni varrebbero anche per gli altri nominati palcoscenici, per i quali la gran signora del naturalismo ma anche del barocco ebbe a prodursi. A Roma fu certo una pari grado del grande Vouet e, volendo un giorno concedere un taglio orizzontale a quanto Artemisia produsse nei vari contesti, aprendo il dialogo ai suoi più o meno eletti contemporanei, ne vedremmo delle belle: sul tipo del seducente Nudo disteso del

museo di Cahors, certamente francese e di orbita vouettiana, ma quanto anche nelle corde della nostra beniamina, camaleontica bohème d’ogni regola e scuola. La mostra risponde inoltre con carte immacolate, mai adoperate prima, a quesiti storici, biografici, ma anche tecnici e collezionistici, a dimostrazione della forza della donna, del suo irrefrenabile fascino e successo ovunque operasse. A rivoluzionare ogni congettura pregressa, è una messe di nuovi documenti, trentasei lettere, autografe, come nessun’altra fino a oggi nota, scritte dalla pittrice e da Pierantonio Stiattesi, il marito – complice e factotum –, indirizzate all’amore della sua vita. Sono affiorate come d’incanto da una pista archivistica da noi già frequentata. Ed ecco riapparire, in tutta la sua avvincente complessità, il sontuoso teatro della corte fiorentina, il magnifico, e ancora solo episodicamente studiato, palcoscenico galileiano delle arti creato attorno a Cosimo II, amante e conoscitore della pittura, della musica e della poesia moderna, come nessun altro principe d’Europa. Confermano il posto centrale dell’Artemisa a corte, “pittora” e musicista, amica di illustri compositori come Marco da Gagliano e Bellerofonte Castaldi, affezionata a diplomatici scrittori come Michelangelo il Giovane, a nobili librettisti come Neri degli Alberti e Ottavio Rinuccini, e perdutamente innamorata di un suo aristocratico Signore, socio in affari di Matteo Frescobaldi, banchiere di Galileo. Piena di debiti, scappa a Roma col marito connivente, richiedendo “patti” nuovi e più danarosi al sovrano di Toscana, ormai troppo malato per ritenerla. Scrive all’amante, ben ricevuto a corte, per promettere al principe quadri vecchi e nuovi, da finire con l’azzurro lapislazzulo oltremarino consegnatole in anticipo dagli ufficiali della Guardaroba Medicea. Tempo un mese e la formidabile mattatrice si rinsediava nella città papale, nonostante la morte (e l’autopsia) del figlioletto Cristofano, le scenate del padre iracondo, niente affatto felice di rivederla, e lo spauracchio di Agostino Tassi, avvertito del suo ritorno a colpi d’archibugio. Fenomenale nella passione, profondamente libertina nell’essere, e pronta a tutto pur d’arrivare al riconoscimento della sua arte, del suo stato di signora e di pittrice fuoriclasse, l’artista scriveva di suo pugno lettere di passione e d’interesse, conoscendo poco l’ortografia, la grammatica e la sintassi. Riappariva a Roma, pittrice di storie antiche e di ritratti, festeggiata dall’internazionale corte borghesiana, e dalle commesse favolose del duca di Baviera (“paga a prezzo di carbone”!), del connoisseur cardinal Montalto, della ricchissima principessa

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– a r t e m isi a ge n t il esc hi –

Savelli. Il ritrovamento documentario ci illumina sulla donna e sull’artista, apre nuove piste alla ricerca su vita e opere, annuncia il sodalizio con Vouet e l’incontro con Cassiano. Questa impresa, così magnificamente soccorsa dal Comune di Milano e da 24Ore Cultura, ha in sé tutte le stimmate per invogliare a progredire nelle ricerche. Fuori tempo massimo si è aperto anche uno spiraglio, un sospetto per l’Artemisia disegnatrice. L’applicazione grafica, procedura preventivabile tanto per suo padre Orazio, toscano verace, quanto per lei, inevitabilmente erede di tali normalissime pratiche, è sempre stata una sorta di incognita critica, zona d’ombra rappezzata nell’abusiva assimilazione dell’artista ai fautori del naturalismo, apparentemente alieni da siffatte cure. Ecco: abbiamo tenuto a che venissero chiariti punti non sempre limpidi per il grande pubblico, quali la genealogia della famiglia di artisti toscani dai quali la romana discende, e, mostrando numerati esempi di arthemisiana methodus, abbiamo cercato di cogliere i confini tra autografia e imitazione, tenendo conto del fatto che – per tacere di altri frequentatori dell’atelier

Alle pagine seguenti Orazio Gentileschi e Agostino Tassi, Concerto con Apollo e le Muse. Roma, Palazzo Pallavicini, Casino delle Muse.

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napoletano – almeno due figlie si erano dedicate all’arte bidimensionale sulle tracce materne. Vi sarà in futuro necessità di ulteriori scavi e distinguo. Gli stessi che la disamina di intere scuole o tendenze reclama. Siano esse il caravaggismo a Roma tra il 1608 e il 1630 oppure e soprattutto le variegate espressioni dell’arte a Napoli. Ovunque la si ponga – e confidiamo che le sale di Palazzo Reale ci siano alleate –, Artemisia non dovette mai entrare dalla porta di servizio delle arti figurative. La mostra e il catalogo recano un sottotitolo (Storia di una passione) che, pur non scelto dai curatori, anche in seguito alle eclatanti scoperte biografiche ben dipinge alla fine e senza possibilità di equivoco la natura della passione in epigrafe: non banalmente quella dei sensi, cui Artemisia certo soggiacque energicamente – e ne abbiamo adesso ulteriori prove concrete –, né quella per il denaro, per quanta venalità attraversi come un fil rouge l’intero carteggio della Gentileschi junior. Bensì quella, strombazzata con amabile superbia, del riuscire bene nel proprio mestiere.

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a rt e m i si a g e n t i l e s c h i e l e e r oi n e

Mina Gregori

esidero fare ammenda per il giudizio con riserve che ho talvolta espresso nei confronti di Artemisia Gentileschi. Ciò dipendeva in primo luogo dal pensarla contestualmente al padre Orazio con le ovvie conseguenze. Ma Artemisia deve essere considerata in proprio nella sua intensa e prolungata attività da grande professionista e nel suo forte temperamento. Così ce la presenta la mostra attuale, nel lodevole sforzo compiuto riunendo un grande numero di sue opere che ci consentiranno anche di verificare le attribuzioni, come quella dell’Aurora che mi riesce difficile accogliere nel suo catalogo, e le datazioni. Da Orazio, Artemisia aveva appreso i postulati dell’eredità caravaggesca e ne aveva estratto in piena autonomia anche la violenza e la crudeltà della tematica mirata che ben conosciamo. E aveva appreso altresì come modularli con le finezze di una visione luministica in chiaro. Come Orazio, Artemisia non esitava a ripetersi nelle composizioni e negli atteggiamenti dei suoi personaggi, ricorrendo volentieri a uno stesso modello, disponendone anche a distanza di anni. Tale è il caso significativo della Susanna e i vecchioni. Fatto salvo qualche episodio di evidente derivazione (ricordo almeno la Danae del museo di Saint Louis e la Cleopatra di collezione privata), la pittrice seguì nella sua attività un percor-

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so diverso e autonomo da Orazio, affermandosi non già come la vittima dello stupro e come seguace del padre. Come autonoma personalità forte e vincente, fu capace di aprire alle donne un nuovo corso professionale, al di là dei suoi meriti come pittrice, e anche per questo dobbiamo ammirarla. Ma i tempi non erano maturi. Salvo i casi di specialiste in campi minori, si dovrà arrivare alla Vigée-Lebrun per trovare una donna pittrice di così vasta attività e di simile successo. Già a Firenze, dove arrivò nel 1613 con la scorta del marito Pier Antonio Stiattesi, e in seguito a Roma, Artemisia manifesta la sua capacità di affermarsi come professionista, attiva per grandi committenti. Negli ultimi anni napoletani una nutrita corrispondenza la rivela amica di don Antonio Ruffo. Si è voluto spesso associare la tematica trattata da Artemisia e il suo esclusivo interesse per i soggetti femminili e la loro problematica alla sua storia privata. Possiamo affrontare analiticamente questo punto di vista spesso proposto più o meno esplicitamente. Dai suoi inizi, dipingendo dal naturale, Artemisia ha potuto probabilmente servirsi soltanto di modelle, una realtà di ordine pratico di cui occorre tener conto. Non c’è dubbio, del resto, che nel Seicento i soggetti prevalenti nella pittura di destinazione privata hanno protagoniste femminili. Da Guido Reni e seguaci

Artemisia Gentileschi, Giaele e Sisara, particolare. Budapest, Szépmüvészeti Múzeum.

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artemisia gentileschi e le eroine

al Vouet e ai fiorentini affermatisi tra il 1620 e il 1640, questa è la regola. Per Artemisia, l’istanza caravaggesca recuperata direttamente a dispetto di Orazio sposta l’approccio al tema femminile dalla contemplazione della bellezza all’azione, un atteggiamento che derivava certamente anche dal forte temperamento personale. Ecco una spiegazione, per di più di carattere artistico, che attenua l’importanza che si è voluta assegnare alla sua storia privata per le scelte tematiche. Le eroine – Giuditta, Cleopatra, Betsabea, Susanna, Giaele e altre ancora – popolano i quadri da stanza di Artemisia, e rappresentano una tematica assai più vasta delle opere chiesastiche, affermandosi come esempi a cui riferirsi e da imitare. Grazie a lei, il tema femminile di eroine famose si diffonde a Firenze e a Roma, mentre non si sono abbastanza approfondite le conseguenze del suo soggiorno veneziano. Giunta a Napoli, la nostra pittrice riceve un incarico pubblico a Pozzuoli nel 1637, un anno prima della sua partenza per il breve soggiorno inglese. È anche chiamata a collaborare con i maggiori colleghi per il Buen Retiro del re di Spagna e affronta temi biblici a grande formato che assecondano preferenze compositive locali, ripensando con più forti e densi contrasti l’assetto luministico. Ma nell’Ester e Assuero del Metropolitan Museum of Art di New York, proba-

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bile opera del primo periodo napoletano, ancora una volta la donna è intensa e drammatica protagonista. In quegli anni la pittrice affronta il tema femminile adeguandosi disinvoltamente ai vari umori napoletani, sempre con la carica personale che le conosciamo. Nella Maddalena della cattedrale di Siviglia, che Keith Christiansen ritiene una copia, e nelle altre simili versioni la santa è rappresentata con il viso appoggiato alla mano nella posa della Malinconia e l’affondo sulla sua verità fisica e psicologica va ben oltre il modello. Ancora il tema della Maddalena penitente, consentaneo al severo e spagnoleggiante clima napoletano, si esprime nelle varianti della santa che medita sul teschio già nella collezione Marc A. Seidner di Los Angeles e nella struggente e tesa penitente del Museo Correale di Sorrento. E si può concludere, in questi pochi appunti, affermando che i soggetti femminili hanno arricchito, grazie a lei, con la loro presenza attiva la pittura non solo italiana del Seicento e si pongono, esaminandoli nel suo ampio percorso, come una nuova proiezione oggettiva degli “affetti”, di situazioni psicologicamente e fisicamente reali, non inquinate né indebolite dalla sua triste vicenda giovanile, ma viste, in virtù della sua formazione, da naturalista moderna.

Artemisia Gentileschi, Maddalena, particolare. Los Angeles, Rita R.R. and Marc A. Seidner Collection.

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i lomi gentileschi: un a f a m i g l i a d i a rt i s t i d a l l a t o s c a n a a pa l c o s c e n i c i i n t e r n a z i on a l i

Roberto Paolo Ciardi

priva di fondamento la notizia trasmessaci dal Soprani che il diciassettenne Orazio, figlio di Giovan Battista Lomi, mandato dal padre a Roma per “studiare il buon dissegno” e là amorevolmente accolto da un Gentileschi fratello della madre, capitano delle guardie in Castel Sant’Angelo, ne avesse poi assunto il nome1. In realtà il casato di Giovan Battista, riscontrato anche nei confronti di suo padre Bartolomeo e di suo nonno Pietro, era già, come si ricava da numerose attestazioni documentarie, quello di Lomi Gentileschi, adottato e riconosciuto anche dai discendenti nelle varianti “Gentileschi alias Lomi”, ovvero “seu de Lomis”, oppure “Lomi de Gentileschis”2, e impiegato di volta in volta nell’una o nell’altra declinazione, sia pure con differente frequenza e variata scansione temporale, per far fronte a situazioni solo in parte ipotizzabili3. La moglie di Giovan Battista, madre di Aurelio e di Orazio4, sopravvissuta al marito, era una Lorenzini di Firenze e apparteneva a una famiglia di orafi5, il che conferma che anche la famiglia Lomi era ben inserita in quella strategia di legami familiari che consentiva alleanze professionali, particolarmente importanti per quegli operatori di media levatura destinati a confrontarsi giorno per giorno con le difficoltà dell’esercizio professionale e con le incertezze della committenza. Lo zio Gentileschi è

Aurelio Lomi, Adorazione dei pastori, particolare. Blu, Palazzo d’Arte e Cultura, Pisa / Proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa.

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dunque frutto di quella amplificatio narrativa6 che il Soprani impiegherà poi nel resoconto fantasioso di Orazio invitato a Genova da Giovanni Antonio Sauli, il quale della pittura di Orazio si sarebbe “invaghito” quando era giunto a Roma a capo dell’ambasceria inviata a complimentarsi con Gregorio XV, appena eletto al pontificato. È invece il caso di prendere in considerazione che i Sauli, solo una quindicina di anni prima, avevano allogato al fratello Aurelio le tele per la chiesa di Santa Maria Assunta di Carignano, forse le più impressionanti testimonianze lasciate a Genova dal pittore fiorentino-pisano7. In ogni caso, i due fratelli Lomi erano stati in rapporto con il ceto emergente genovese fi n dagli esordi della loro carriera, da quando nel 1587 il banchiere Giovanni Agostino Pinelli, tesoriere della Camera apostolica, aveva affidato ad Aurelio la decorazione pittorica su tela e ad affresco della sua cappella nella chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma. Cinque anni più tardi il fratello di questi, il cardinale Domenico, aveva commissionato a Orazio la Circoncisione in Santa Maria Maggiore8. Ma allorché, all’inizio dell’autunno del 1575, giunsero a Roma9, il diciannovenne Aurelio e Orazio, appena tredicenne, non potevano contare su protezioni e aiuti: privi di mezzi, furono sfrattati dalla locanda nella quale avevano preso alloggio. Si erano allontanati da Pisa subito dopo la morte del pa-

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dre, avvenuta nell’agosto di quell’anno10, quando la famiglia si era trovata in precarie condizioni fi nanziarie, tanto che i fratelli avevano deciso di rifiutare l’eredità paterna. L’inventario delle povere cose lasciate da Giovan Battista – masserizie in cattivo stato, abiti usati, pochi arnesi da lavoro – è deprimente, se si escludono un Crocifisso, una Madonna e alcuni quadri, probabile opera dei figli pittori: un san Giovanni, un ritratto dello stesso Giovan Battista e – presentimento? presagio? – “una prospettiva di una Susanna”. E i creditori erano molti e di peso, come Silvio Quaratesi e Raffaello del Setaiolo, Operaio della Primaziale11. Giovan Battista si era trasferito da Firenze a Pisa intorno al 155012, quando la città stava già vivendo uno dei periodi più intensi e fervidi della sua storia artistica in età moderna e potevano aprirsi prospettive interessanti per un orafo che avesse deciso di trasferirsi in periferia, nella previsione di successi professionali ed economici. Le cose per Giovan Battista andarono diversamente. La recente, meritoria ricostruzione documentaria della sua attività pisana, che comprende gli anni, appunto, dal 1552 fi no alla vigilia della morte13, non disegna un panorama esaltante: dorature di pastorali per la chiesa primaziale, dorature ed esecuzione di bossoli e cassette, restauri delle insegne liturgiche pontificali e di un turibolo per l’Ordine di Santo Stefano. A Pisa la concorrenza sul campo era fortissima: i regesti documentari ci segnalano l’esistenza di numerosi orafi e, se anche in molti casi si sarà trattato di modesti artigiani, lo stesso non si può dire per quel Matteo di Nicola Mester d’Alemagna, orafo di Eleonora di Toledo, che agli inizi del 1562 risiedeva a Pisa14 ed è da identificare con il Matteo di Nicolò da Ratisbona che nel 1558 era arrivato in Toscana, dove fu attivo fino alla fine del secolo, soprattutto per la corte medicea15. Altra bottega predominante dovette essere quella di Giovan Francesco Sogliani che, trasferitosi da Firenze, si era messo in società con altri orafi veneti e lombardi16. Non è un caso che proprio Giovan Francesco risulti come uno dei creditori nei confronti degli eredi Lomi al momento della morte del capofamiglia17. La famiglia di Giovan Battista era numerosa, anche tenendo conto dei dilatati parametri del tempo. La presenza di tre figlie, Laura, Lucrezia e Livia, nei condizionamenti sociali del tempo significava un impaccio e un aggravio anche dal punto di vista economico. Livia fu destinata al convento e probabil-

mente venne monacata in quello benedettino di San Michele a Prato, uno dei più antichi della città; la scelta del luogo non fu occasionale perché la madre, Maria Lorenzini, possedeva a Prato beni immobili18. La preoccupazione di Giovan Battista di sistemare le figlie fu costante. Non ebbe problemi con Laura, che rimase estranea all’ambiente artistico paterno, si sposò due volte ed era ancora viva nel 162419. Fin dal 1568 si era però dato da fare per maritare Lucrezia 20 ; di lei, rimasta vedova, si era poi fatto carico Aurelio, che l’aveva collocata a Roma presso il fratello Orazio, subito dopo la perdita della moglie di questi, Prudenzia Montoni21. Dopo il 1607 non si trova più menzione di Lucrezia, che probabilmente era morta. Di lei restava il figlio Giovan Battista, che aveva ambizioni di diventare pittore, ma che in realtà era impiegato dallo zio come garzone tuttofare, piuttosto che come apprendista. Questo “nipote del signor Horatio […] un giovane sbarbato […] tutto pieno di rogna” verrà cacciato di casa perché “haveva fatto avvertito” Orazio della condotta ambigua di Artemisia. Di lì a poco morirà, ventenne, all’ospedale di San Giovanni22. Più significativi per i nostri interessi i cinque maschi. Oltre ai ricordati Aurelio e Orazio, a Firenze erano nati Vincenzo, Baccio e Giulio23. Il primo fu destinato a seguire la professione paterna, mentre Baccio, detto anche il Baccino, si era rivolto ben presto alla pittura, campo nel quale acquisterà un certo credito a Pisa e fuori. I giovani Baccio e Giulio avevano dato problemi al padre Giovan Battista. A distanza di pochi mesi, nel corso del 1565-66, furono implicati ciascuno in una rissa 24. Quella nella quale fu coinvolto Giulio pare che fosse poco più di una ragazzata, anche se si concluse con bastonate e sassate alla testa dell’avversario “con rottura di carne et effusione di sangue”25. Più grave quella provocata da Baccio assieme ad alcuni scolari dello Studio e che, all’interno della Sapienza, si era rivolta contro il Rettore. Non ci si limitò alle immancabili sassate, ma furono sfoderate spade e pugnali “contro il Rettore e il Moretto [suo garzone] che ebbe un poco di graffiature alla mano”; per questo Baccio tra il gennaio e il febbraio del 1566 fu incarcerato26. In ambedue i casi le multe furono pagate dal padre, e questo dovette incidere ulteriormente sulla non florida situazione economica della bottega. È difficile sfuggire alla tentazione di ipotizzare una specifica inclinazione familiare alla trasgressione, che si protrarrebbe negli spregiudicati comportamenti di Giulio e soprat-

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tutto di Francesco27, figli di Orazio. Sul carattere di quest’ultimo, che “[dava] più nel bestiale che nell’humano”, le testimonianze coeve, non sempre disinteressate – e alle quali va aggiunto l’aspetto ombroso e risentito del ritratto a matita fattogli da Anton van Dyck –, sono ben note e sono state più volte prese in considerazione. Forse è però eccessivo inserire i Lomi nella tradizione dei “nati sotto Saturno”, alla quale sembra appartenessero di diritto Caravaggio o Agostino Tassi, tanto per fare nomi omogenei per cronologia o tangenze dirette; probabilmente si sarà trattato solo di “una cert’aria […] di braveria comune allora anche agli uomini più quieti”28. In ogni caso, Baccio e Aurelio avevano un carattere vivo e risentito, come risulta dai dissidi e dalle liti giudiziarie nelle quali furono implicati per questioni fi nanziarie ed ereditarie in opposizione a parenti, amici, colleghi e committenti anche di alto livello: i Caetani, i Catignani, i Marracci, i Borghi29. Al contrario, il padre, Giovan Battista, si era dato da fare per trovare situazioni prevedibilmente favorevoli, attraverso mirate scelte di collaboratori professionali, di padrini di battesimo e di cresima, di “compari” di matrimonio. Per esempio, quali padrini di Aurelio furono scelti due scultori attivi anche a Roma, il quasi ignoto Jacopo Castagnola 30 e il fiorentino Tiberio Calcagni, intimo di Michelangelo e amico di Taddeo Zuccari: segno che Giovan Battista desiderava per il figlio un futuro professionale meno modesto di quello di orefice31. Questa tessitura di rapporti di affi nità e di affi liazione, certamente da collocarsi nelle consuetudini del tempo, mirata a favorire connessioni economiche e di patronato, è forte nelle dinamiche familiari dei Lomi Gentileschi e si accentuerà con Orazio e Artemisia 32. Poco possiamo dire sugli esiti professionali di Vincenzo e di Giulio. Vincenzo fu attivo come orefice, anche se per opere non rilevanti33, e su di lui abbiamo notizie fi no all’aprile del 158834. Nulla sappiamo di Giulio dopo il 1566: il fatto che non intervenga mai negli atti che richiedevano la presenza degli appartenenti alla compagine familiare (accettazioni eredita-

1. Baccio Lomi, Madonna col Bambino, san Giovannino e san Giuseppe. Camaiore, collezione privata.

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rie, destinazione di beni indivisi, procure) fa supporre che sia morto in giovane età. Ragionevole e regolare fu invece la carriera pittorica di Baccio, assestata sui parametri espressivi che accomunano tanti petits maîtres attivi in Toscana alla fi ne del Cinquecento in zone periferiche (e periferia sono anche, nelle città maggiori, i conventi e le confraternite meno rilevanti), i quali presentano inflessioni linguistiche omologate che ne attenuano le possibilità di individuazione stilistica. Per quanto in Baccio siano individuabili – e sono stati puntualizzati – i riferimenti alla cultura fiorentina del pieno Cinquecento e, per via indiretta, a quella romana di ascendenza post-michelangiolesca e zuccaresca35, questi si limitano all’assunzione di lemmi singo-

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li, poi variamente ripetuti e montati entro strutture schematiche e fisse, ben accette da determinati livelli di pubblico per il riscontro, memoriale e riduttivo, di quanto era visibile anche a Pisa, per esempio, nel duomo. Era comunque un’operazione di retroguardia che finì per escludere Baccio dalle commissioni di prestigio: l’Opera della Primaziale non volle affidargli neppure la copia del Battesimo del Sogliani36, e i suoi committenti furono istituzioni religiose di secondo piano come la Fraternita di San Guglielmo e l’Opera di Santa Maria della Spina; così i privati di rango lo ricercarono per ritratti, genere nel quale le difficoltà compositive erano ridotte o annullate37, o per dipinti devozionali di collocazione domestica, quali le richiestissime Madonne col Bambino e san Giovannino (figg. 1-2), note in diversi esemplari38, che ripropongono raggelati lessici simil-sarteschi. A differenza del fratello Aurelio, che fin dal 1578 era entrato in rapporto con l’Accademia del Disegno39, Baccio non pensò mai di tentare la fortuna a Firenze: risiedere e lavorare a Pisa fu per lui una scelta elettiva, tanto che si preoccupò per tempo di ottenerne la cittadinanza40, mentre Aurelio la sollecitò solo alla fi ne della carriera, quando, stanco del suo peregrinare, pensò di ridursi stabilmente a Pisa41. Alla fi ne del 1582 Baccio vendette tutti i beni, ereditati dalla madre, che ancora possedeva a Firenze, costretto da evidenti ristrettezze fi nanziarie42. Le commissioni a Pisa scarseggiavano ed egli dovette cercare un suo spazio nel contado limitrofo e nelle vicine zone della Lucchesia. Il rifugiarsi in provincia non condusse però a un progressivo decadimento stilistico: libero dal confronto incombente e avvilente delle grandi prove che si andavano realizzando nel capoluogo, il pittore seppe puntualizzare un proprio carattere linguistico e compositivo nelle opere databili a partire dalla metà del nono decennio, le ultime della sua carriera, che consentono un parallelo con le sigle fisiognomiche, gli atteggiamenti e le impaginazioni che ritroveremo, ampliate, sviluppate e movimentate, nelle grandi tele di Aurelio per il duomo pisano: il confronto della Circoncisione nella chiesa di San Michele a Matraia e soprattutto quello dell’Adorazione dei pastori della Santissima Annunziata presso Lucca, forse l’opera di più alto livello di Baccio, datata 158543, con il dipinto dello stesso soggetto nella cattedrale di Pisa, documentato al 1588, riapre il discorso sulla formazione di Aurelio prima del soggiorno romano. L’intensità della Madonna col Bambino, santa Ma-

2. Baccio Lomi, Madonna col Bambino, san Giovannino e san Giuseppe, particolare con il probabile autoritratto del pittore. Camaiore, collezione privata.

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ria Maddalena, santa Caterina d’Alessandria e monache carmelitane nella chiesa del Carmine a Pescaglia (fig. 3) e della Madonna col Bambino e santi ora nella chiesa pisana di San Matteo, dove è consapevole il recupero della tradizione culturale di Daniele da Volterra44, orientava verso una conduzione austera e trattenuta. Se questa volontà minimalista fosse frutto di una mirata presa di distanza dal caotico ed esteriore sovrabbondare di figure e gestualità della pittura dell’estremo manierismo toscano non “riformato”, che aveva preso d’assalto anche molte chiese pisane, coinvolgendo profondamente Aurelio, oppure derivasse da una sofferta incapacità di adeguamento, è difficile stabilirlo; in ogni caso riduceva drasticamente la capacità di accoglienza. In una lettera del marzo 1581 diretta a Gerolamo Papponi, Operaio della Primaziale45, Baccio, ormai lontano da Pisa da quasi due anni e con problemi di salute, si preoccupava per i quattro figli che aveva lasciato in città: Fulvio, Giovan Battista junior, Livio e Scipione. Alla morte del padre, avvenuta nella tarda primavera del 1595, questi ne rifiutarono l’eredità46, come avevano fatto Baccio e i fratelli per quella del proprio padre Giovan Battista: segno delle endemiche difficoltà economiche della famiglia Lomi Gentileschi. Di Giovan Battista junior, ancora vivo alla fi ne del 1601, e di Scipione sempre in vita, anche se “stroppiato e infermo” nell’ottobre del 1625, non sappiamo altro47. Fulvio, “pittore [che] sta in Pisa”, è immatricolato nel 1596 nella fiorentina Accademia del Disegno e risulta ancora iscritto nel 159748 ; a Pisa ebbe un ruolo preciso nella succursale della medesima istituzione49. Alla sua morte, avvenuta alla fi ne del 160150, si rinvennero nella sua casa gli arnesi indispensabili al mestiere e alcuni quadri, in parte abbozzati. Non raggiunse tuttavia un livello professionale eminente: nella nota degli artisti “pervenuti all’età di anni 20” operanti a Pisa, redatta il 31 luglio 1596 su richiesta dell’Accademia del Disegno51, non compete a Fulvio il titolo di “maestro” che al contrario è riconosciuto, per esempio, a Pietro Francavilla e allo stesso Aurelio Lomi. I legami di Livio con l’ambiente artistico riguardarono invece esclusivamente gli aspetti organizzativi e amministrativi52. Il suo impiego come “offi ziale et veditore di dogana”53, che assicurava competenze giuridico-amministrative, lo rendeva adatto ad assumere il ruolo di amministratore dello zio Aurelio, la bottega del quale risulta assai attiva in zone di varia importanza –

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Pisa, Lucca, Genova, Firenze54 – ma sulla cui organizzazione e partecipazione operativa non possediamo riscontri documentari precisi55. Dopo il rientro di Aurelio da Genova, Livio fu il suo uomo di fiducia: a Pisa abitavano assieme56, assieme acquistarono case, terreni e diritti livellari57, e Livio divenne il procuratore dello zio, rappresentandolo nei non brevi periodi di assenza e nell’intricata amministrazione degli affari, non di rado gravati da esposizioni di insolvenza, per le quali dovette rispondere in solido, tanto da fi nire incarcerato per un breve tempo58 . Quando, il 17 settembre del 1622, Aurelio muore ab intestato, sembrò ovvio a Livio dichiararsene erede in mancanza di figli del defunto59. Non sono certo eccezionali le situazioni nelle quali le strategie professionali si avvalgono dei legami familiari e su di essi si strutturano, ma il clan dei Lomi Gentileschi costituisce un caso peculiare quando si leggano in fi ligrana i riscontri documentari. L’analisi dei nomi imposti ai nuovi nati, che si ripetono di generazione in generazione, attesta la presenza di un sentimento identitario e affettivo mai venuto meno. Il nome di Giovan Battista passerà a uno dei figli di Baccio e a uno dei suoi nipoti, figlio di Livio; lo adotterà Orazio per il secondogenito (1594-1601) e per il terzogenito (1601-1603); e sarà poi quello del nipote, figlio della sorella Lucrezia, morto a Roma, e di uno dei figli di Artemisia60. La memoria del fratello Giulio, scomparso in giovane età, verrà mantenuta da Orazio nel nome di uno dei suoi figli. Così Baccio ricorderà la sorella monaca, Livia, chiamando Livio il proprio terzogenito; il suo stesso nome, Baccio, ripeteva in versione domestica quello del nonno paterno, Bartolomeo61. Le referenze di lignaggio di questa famiglia di artisti prevalgono su quelle etniche: nell’apporre la propria firma a opere e a documenti, Orazio non ricorderà i suoi natali pisani ma si dichiarerà fiorentino, mentre Artemisia espliciterà di volta in volta, con controllata ponderazione, le sue (lontane) origini fiorentine e il luogo della sua nascita (Roma) a seconda delle esigenze del momento. Il legame con Pisa fu invece determinante per Aurelio. Quali che siano state le ragioni che improvvisamente lo condussero ai primi di maggio del 1597 a Genova, peraltro uno dei centri artistici più vivi e più promettenti della penisola, interrompendo lavori importanti e disgustando committenze qualificate62, il pensiero di un rientro nella città natale e il progetto di nuovi impegni in Toscana furono costanti nei suoi

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anni liguri. Da Genova avrebbe inviato a Pisa l’Adorazione dei magi per San Frediano e la pala con il Martirio di santa Caterina per la chiesa omonima63 ; a Lucca avrebbe inviato l’Adorazione dei pastori ora in San Martino in Vignale, mantenendo nel granducato rapporti con personaggi di riguardo e istituzioni altamente qualificate come quell’Accademia del Disegno con la quale ebbe relazioni intermittenti64, in parte giustificate dalle trasferte di lavoro in luoghi lontani, ma che fu sempre da lui assunta come punto di riferimento per un’orgogliosa rivendicazione di appartenenza, e anche quale foro riservato e privilegiato per ogni contenzioso professionale65. Si aggiungano gli stretti – anche se diversificati – rapporti, già iniziati negli anni del primo periodo pisano, con i colleghi: da Santi di Tito allo Stradano, dal Cigoli al Ligozzi, da Nicodemo Ferrucci a Benedetto Veli, intorno ad Aurelio ruotava un significativo florilegio della pittura fiorentina del primo Seicento. Pure a rendere possibile l’ammissione di Artemisia all’Accademia del Disegno (una cooptazione di carattere eccezionale, dato che in precedenza non erano mai state ammesse donne) i buoni uffici di Aurelio, allora uno dei membri più in vista di quell’istituzione (ne era stato console solo due anni prima), ebbero un peso determinante, anche per le amicizie che poteva vantare nel consesso accademico. Tra queste, quella di Giorgio Vasari il Giovane66, anch’egli già console e poi provveditore, in rapporto diretto con la corte in quanto titolare di cariche importanti, e comunque personaggio eminente nell’ambiente artistico granducale; fu lui a pagare personalmente la tassa di immatricolazione67. L’attenzione del Lomi nei confronti dei familiari, anche lontani, era stata e sarà costante. Aveva provveduto – come si è visto – a collocare presso Orazio la sorella Lucrezia, rimasta vedova con un figlio; resosi conto, con ogni probabilità per presa d’atto diretta, dei condizionamenti emotivi e domestici di Artemisia, si era offerto di farla venire a Pisa per procurarle una sistemazione umana e certo anche professionale68. Ma sono i rapporti con Orazio che più ci interessano per la rilevanza sulle problematiche artistiche. Che la formazione di Orazio nei primissimi anni di tirocinio fosse avvenuta sotto la guida di Aurelio era stato affermato dal Baglione, che sulle vicende professionali del Gentileschi poteva parlare per conoscenza diretta69, e così anche il suo precoce trasferimento a Roma molto dovette all’incitamento e alla protezione del

3. Baccio Lomi, Madonna col Bambino, santa Maria Maddalena, santa Caterina d’Alessandria e monache carmelitane. Pescaglia, chiesa del Carmine.

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fratello maggiore. Aurelio tornerà presto in Toscana, dato che nel 1578, come si è visto, frequenta l’Accademia del Disegno. Rimase il giovanissimo Orazio da solo a Roma? Sembra difficile crederlo, anche se vi rientrò prima del 1587, quando i due fratelli sono nuovamente nella città papale e Aurelio riceve un prestito su garanzia di Orazio70, che evidentemente godeva di una situazione economica tale da renderlo mallevadore credibile. Aurelio abitava, forse assieme a Orazio, nella contrada di Parione, nei pressi di quella Chiesa Nuova, ovvero Santa Maria in Vallicella, dove era impegnato nei lavori della cappella Pinelli, di cui si è detto. La decorazione della volta era un

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lavoro ampio e complesso e necessitava di una collaborazione. Fu questa affidata a Orazio? Non si stenta a crederlo. Nel vuoto quasi assoluto che occupa gli esordi della carriera di Orazio (e anche il debutto professionale di Aurelio)71, un tentativo di collazione tra gli incerti frammenti forse a lui riferibili nella decorazione della Biblioteca Vaticana e gli affreschi nella Chiesa Nuova consente qualche ipotesi, poiché nelle pitture della volta (fig. 4) diversa è la mano che esegue i medaglioni da quella che si impegna nelle piccole storie che li rilegano72 ; e non escluderei un intervento nelle decorazioni a stucco, dato che sappiamo che Orazio ai suoi inizi fu attivo come

4. Aurelio Lomi e Orazio Gentileschi, Scene della vita della Vergine. Roma, chiesa di Santa Maria in Vallicella, volta della cappella Pinelli.

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orefice e medaglista73 e, coerentemente, come progettista ed esecutore di apparati74, dove era l’ornato a essere prevalente. E la “miserevole”75 qualità della produzione pittorica rimastaci, prima che anch’egli, come è stato detto, venisse folgorato dalla pubblicazione delle opere romane del Caravaggio – era appena iniziato il “secol novo” –, diventa più comprensibile quando vi si rilevi il residuare di morfologie e sintassi tipiche della bottega dei Lomi, di Baccio addirittura76 (ma le interferenze tra Baccio e Aurelio sono ancora da ricostruire), se si mette a confronto la Presentazione al tempio di Santa Maria Maggiore con le Storie della Vergine già nella chiesa pisana di Santa Maria

5. Aurelio Lomi, Chiamata degli eletti. Genova, chiesa di Nostra Signora del Carmine.

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della Spina (ora nell’ospedale di Santa Chiara); o il bamboleggiamento di volti e atteggiamenti delle pale d’altare del Lomi maggiore, assegnabili all’ottavo o nono decennio, con il Trionfo di sant’Orsola di Farfa; o l’Ester e Assuero nella stessa abbazia con la storia di omologo soggetto affrescata da Aurelio nel Camposanto di Pisa; perché anche Aurelio, se non ci si lascia ingannare dalle esagitazioni superficiali dei moti delle figure moltiplicate e dalle ombre affocate e fluorescenti, si mostrerà sempre affezionato, salvo il periodo genovese, all’impiego di strutture compositive, di impaginazioni e di ambientazioni – lontananze paesistiche e fughe di interni – proto-cinquecente-

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sche; addirittura nelle Storie di san Francesco, ora nei depositi del Museo di San Matteo a Pisa, la struttura compositiva, con i personaggi postati entro precise scansioni paratattiche e come collocati su un proscenio, appare, se spogliata del luminismo tenebroso, quattrocentesca. E Orazio non abbandonò così precocemente e defi nitivamente Pisa come volle far credere nelle arcinote lettere del 1612 e del 1633 dirette alla corte granducale77. A un atto rogato a Pisa il 4 aprile 1588 more florentino (1589 secondo la datazione pisana) 78 intervengono i fratelli Aurelio e Orazio di Giovan Battista “Lomi de Gentileschis”, cittadini fiorentini, che risultano “Pisis existentes”, abitanti cioè a Pisa, dove erano ritornati da pochi mesi. E allora quella Danae, che Cesare Borghi pagherà un anno dopo a Orazio79, era probabilmente stata dipinta proprio a Pisa, nella bottega comune dei Lomi. Forse è possibile immaginare come fosse questa non rintracciata Danae, poiché sappiamo che Orazio, come del resto

Aurelio, non solo spesso riprende temi e soggetti, ma ama replicare, nel variare delle situazioni, le stesse sigle. Nella Chiamata degli eletti di Aurelio in Santa Maria del Carmine a Genova, la figura di Eva (fig. 5) presenta un’iconografia rara, la cui cifra, ruotata di novanta gradi, trova corrispondenza nelle posture delle Danae, appunto, delle Maddalene, delle Cleopatre di Orazio: osservazione consentita come esercizio di ucronìa, per un’ipotesi non manifestamente incongrua. Non sappiamo per quanto tempo Orazio sia rimasto in Toscana e se vi abbia fatto ritorno più tardi80. Ma i rapporti della famiglia Lomi Gentileschi con Pisa ebbero lunga durata: nel maggio 1636 Artemisia aveva intenzione di “trasport[arsi] a Pisa a vendere alcuni suoi beni”, quasi sicuramente quelli della dote costituita per lei da Lelio Guidiccioni81; per essere certi della sua presenza in città, sarebbe stata necessaria una ricerca negli atti notarili di quegli anni, ma è mancato il tempo di farla per questa occasione.

Ringrazio per il cordiale aiuto prestato Lucia Tongiorgi Tomasi e Alberto Ambrosini dell’Università di Pisa e Giuseppe Giari dell’Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore di Firenze.

3. Per il variare delle firme di Artemisia, fondamentale Mann 2009. Per le firme e l’autoattestazione di provenienza di Orazio “Lomi” e “florentinus”, cfr. Bissell 1981, pp. 1, 80, 150.

1. La notizia risale a Soprani 1674, p. 316 (poi mantenuta nell’ampliamento di G. Ratti 1768) ed è in seguito accolta da Baldinucci 1845-1847, III, pp. 708-711, che ne dipende; in questa direzione va precisato quanto detto da Paliaga 2002, p. 229, nota peraltro opportuna perché riconferma la data di nascita di Orazio al luglio 1562, secondo la riduzione allo stile comune, proposta da Tanfani Centofanti 1897, p. 55, ma a tutt’oggi non recepita nella letteratura relativa. L’accertamento del doppio cognome Lomi Gentileschi è fondato sulle preziose raccolte documentarie di Fanucci Lovitch 1991-1995, delle quali mi sono ampiamente servito qui e altrove e alle quali rimando: indico l’esatta collocazione dei documenti solo nel caso che la collazione sugli originali abbia portato al reperimento di nuove notizie.

4. Giovan Battista aveva avuto anche una prima moglie, perché in un rogito dell’aprile del 1588 (Archivio di Stato di Firenze, d’ora innanzi ASF, Not. mod., 1749, c. 70v) Vincenzo e Baccio Lomi sono indicati come “fratres germani” di Aurelio e Orazio.

2. Cfr., per esempio, Fanucci Lovitch 19911995, I, pp. 29, 47; II, p. 41.

5. Risulta ancora in vita nell’agosto del 1588, quando Aurelio nomina suo procuratore Andrea Lorenzini, orafo fiorentino, suo zio o, forse, cugino (Fanucci Lovitch, 1991-1995, II, p. 41).

6. Il particolare dello zio castellano è tralasciato dai biografi più vicini cronologicamente e geograficamente; non ne fa parola Baglione 1642 ed. 1995, pp. 260-261 (pp. 359-360), vi accenna dubitativamente Baldinucci 1846 , III, p. 711.

7. M. Newcome Schleier in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001.

8. Bissell 1981, pp. 6, 134.

9. L’ipotesi di Ciardi in Ciardi, Galassi, Carofano 1989, p. 27, è stata poi favorevolmente accolta; cfr. Bissell 1999, p. 238.

10. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 216.

11. ASF, Not. mod. 36, cc. 97r, 98r-v; delle operazioni successorie si occupa, anche a nome dei fratelli, Vincenzo, il maggiore dei figli di Giovan Battista. Dai documenti non appare che Giovan Battista fosse proprietario di immobili, risulta soltanto come affittuario.

12. Giovan Battista era ancora a Firenze nel 1547 quando il 14 aprile gli nacque il figlio Giulio: “Giulio e Romolo di Giobatta di Bartolomeo Lomi, popolo di S. Jacopo in campo Corbolini nacque adì 14 [aprile 1547] a h. 13” (Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, d’ora innanzi AOSMF, Fedi di battesimo, reg. 11, alla lettera G, e alla data). Dato che il padre risiedeva nel popolo di Sant’Jacopo in Campo Corbolini, dove Maria Lorenzini possedeva

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beni, è probabile che Giulio fosse figlio della seconda moglie. Poi nel 1572 i Priori di Pisa, nel concedere a Baccio la cittadinanza, rimarcavano che era residente “in hac civitate […] per annos 20 et ultra” (Tanfani Centofanti 1897, p. 58).

19. Fanucci Lovitch 1991-1995, I, p. 189. Conosciamo i nomi dei due mariti, il primo Giovanni Fabroni, fiorentino, il secondo Silvio Orsi (1991-1995, I, pp. 29, 189). 20. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 216.

13. Carofano, Paliaga 2001, pp. 59-60, 193-194, che integrano ampiamente quanto riportato da Tanfani Centofanti 1897, p. 219, il quale aveva già rilevato la scarsità e media levatura dell’attività di Giovan Battista, quale risulta dalle testimonianze archivistiche. Carofano 1992, p. 35 e Carofano, Paliaga 2001, p. 60 riportano un documento parzialmente trascritto da Fabbrini 1978, p. 5, e messo in relazione con Giovan Battista. Il numero citato della piccola rivista è introvabile, ma il riscontro con l’originale in ASF, Guardaroba Mediceo 13, fasc. 2, c. 12v , datato 18 ottobre 1552, conferma la descrizione di una corona ducale d’oro e di gemme, “mandata alla ecc.ma duchessa” insieme ad altre “gioie” grandi e piccole, sciolte e incastonate, insieme a “pendenti con dua figurette”, con e senza gemme, e – cosa interessante – insieme a “un giglio d’oro” con brillanti e rubini; ma non vi si ritrova affatto il nome di Giovan Battista Lomi, né di alcun altro artefice. 14. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 293, con l’aggiunta che il testo in ASF, Not. antecos. 20505, c. 164r indica la provenienza “de [Re]censpurg, gentium alemaniae”. 15. Supino 1901, pp. 41-42. 16. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, pp. 193, 225; Giovan Francesco era figlio di quel Giovan Battista, imparentato con Giovan Antonio, del quale è ben nota l’attività pittorica a Pisa. 17. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 394. 18. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 41. I beni pratesi più quelli fiorentini (una casa in Campo Corbolini ) costituirono il palafermo della monacanda, che però nell’aprile del 1588 risultava “adhuc in saeculo” (ASF, Not. mod. 1749, c. 70v).

21. La sorella “Lucrezia vedova” è registrata tra i familiari nella casa di via del Babuino ancora nel 1607. Cfr. Lapierre 2000, p. 50 (lavoro importante che, al di là della piacevole veste letteraria, risulta imprescindibile per la ricchezza della documentazione anche inedita). 22. Della “famiglia” faceva parte anche un altro pisano, il garzone e apprendista pittore Nicolò Bedini (notizie e citazioni documentarie sono qui desunte dalla sintesi, sistemata organicamente e mirata agli interessi storico-artistici, di L. Cavazzini in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 432, 434, 435, 438, 439). 23. “Vincentio […] di m° giovanbatista di bart°, po. di s° romolo, adì 11 octobre [1524]” (AOSMF, Fedi di battesimo, reg. 9, c. 30v). Per Giulio cfr. supra nota 12. 24. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, pp. 47, 232. 25. Ferito fu l’altro contendente, Biagio di Bastiano Rosso da San Marco, che riconobbe però che il danno patito “fu poca cosa” (Archivio di Stato di Pisa, d’ora innanzi ASP, Commissariato, 377, cc. 75r, 76v) . 26. ASP, Commissariato, 377, cc. 180-201. Qui Giovan Battista è indicato come scultore, facendo riferimento, probabilmente, a piccole opere di plastica in parte connesse con la sua produzione di orafo; ma si veda quanto detto oltre a proposito dei padrini di battesimo di Aurelio. Da notare che dal 1566 al 1572 mancano notizie di Baccio. 27. Bissell 1981, pp. 115-117; K. Christiansen in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 4, 5.

28. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. II. 29. Per Baccio cfr. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 47; per Aurelio cfr. Ciardi, Galassi, Carofano 1989, pp. 285-289. Le liti tra committenti e operatori artistici erano, comunque, frequenti (cfr. Paliaga 2009, p. 36). 30. È all’opera nel 1566 a Roma per la tomba di Paolo IV in Santa Maria sopra Minerva. 31. Ciardi, Galassi, Carofano 1989, pp. 20, 24, 273. Per Orazio (atto di battesimo in Carità 1946, pp. 81-82) la scelta cadde su personaggi “laici”: il capitano Desiderio Calonetti e Ludovico Poschi da Pescia, che incontreremo ancora nel 1574 come procuratore di Giovan Battista (Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 216). 32. La documentazione più completa in Lapierre 2000, passim. 33. Carofano, Paliaga 2001, p. 194. 34. Il 4 del mese Aurelio e Orazio lo indicano, benché assente da Pisa, come procuratore della sorella Livia (ASF, Not. mod. 1749, c. 71v); ma il successivo 3 agosto Aurelio, che agisce da solo, lo sostituisce con l’orafo fiorentino Andrea Lorenzini, già ricordato; forse Vincenzo era già morto (ASF, Not. mod. 5326, c. 27r-v; cfr. Fanucci Lovitch 19911995, II, p. 41). 35. La sua attività è stata ricostruita nel pionieristico saggio di Carofano 1992 e meglio precisata da Carofano, Paliaga 2001, pp. 60-67. 36. L’importante documento è stato reperito e pubblicato da Carofano 1992, pp. 62, 68-69; cfr. anche Carofano, Paliaga 2001, p. 64. 37. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 48; sui ritratti di Baccio cfr. Ciardi, Contini, Papi 1992, p. 77.

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i lomi gentileschi: una famiglia di artisti dalla toscana a palcoscenici internazionali

38. Oltre a quella qui pubblicata – dove la figura del san Giuseppe, che indica sé con la mano ed è quasi identica all’analoga nell’Adorazione dei pastori della Santissima Annunziata di Lucca rivolta verso lo spettatore, va probabilmente intesa come un autoritratto – un’altra è passata in asta da Christie’s (Londra) l’11.7.1975, n. 191, con attribuzione allo Stradano (segnalazione di Alberto Ambrosini) ed è stilisticamente affine a quella nei depositi del Museo di San Matteo a Pisa, riferita a Baccio da Carofano, Paliaga 2001, p. 62; una di queste è forse da mettere in rapporto con quella citata negli inventari dei Lanfranchi-Mazzei (Ciardi, Galassi, Garofano 1989, p. 25, nota 5). Per il ritratto di Cesare Borghi, cfr. Paliaga 2009, pp. 84, 103. 39. I rapporti di Aurelio con l’Accademia del Disegno sono stati ricostruiti, con precisione e ricchezza di documenti inediti, in Ciardi, Galassi Carofano 1989, pp. 283-289, documentazione successivamente ripresa da altri senza la corretta e doverosa citazione del precedente studio. 40. Alla fine del 1572; nella richiesta sottolineava il proprio radicamento pisano per durata di residenza e legami familiari (Tanfani Centofanti 1897, p. 58). 41. La ottenne nel marzo 1619 (Tanfani Centofanti 1897, p. 55). 42. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 48. 43. Ciardi 1994, pp. 29, 30, 42. 44. Ciardi, Contini, Papi 1992, pp. 63-65. È significativo che la tavola sia stata attribuita a Giovan Paolo Rossetti (Jaffè 1986, pp. 184-191). 45. Carofano 1992, pp. 68, 69. 46. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, pp. 47, 176. 47. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, pp. 176, 265.

48. Matteoli 1997; Zangheri 2000, p. 186. 49. ASP, Commissariato 308, cc. 392r, 393r, alla data 29 gennaio 1597.

in ogni caso, che Aurelio, come del resto Baccio, impartiva lezioni di pittura (Fanucci Lovitch 1991-1995, II, pp. 45, 48). Per l’allievo genovese Simone Balli cfr. Ciardi, Galassi, Carofano 1989, pp. 73, 87, 89, 122, 125 nota, 289; Galassi 1991. Putativo, per difficoltà cronologiche, il discepolato di Domenico Fiasella (Soprani 1674, p. 248).

50. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 176. 51. ASP, Commissariato 107, c. 886v; il documento è ricordato, ad altro proposito, da Paliaga 2009, p. 17. 52. L’erronea indicazione di Colnaghi 1928, n. 29 A, B, C, che ritiene Livio iscritto all’Accademia del Disegno, scambiandolo con Fulvio, è all’origine della confusione tra i due che passa poi in Ciardi, Galassi, Carofano 1989, p. 161 e in Ciardi, Contini, Papi 1992, pp. 73, 74 ed è stata corretta da Matteoli 1997, pp. 415, 417.

56. Nella “cappella” di San Matteo, “di contro alla chiesa di s. Luca” (Ciardi, Galassi, Carofano 1989, p. 286); poco lontano aveva abitato Baccio, nella “cappella” di San Paolo all’Orto (Fanucci Lovitch 1991-1995, II, pp. 47, 264); anche Vincenzo aveva avuto residenza nei paraggi, in via San Lorenzo (Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 394). 57. Fanucci Lovitch 1991-1995, I, p. 187; II, pp. 41, 264. 58. Ciardi, Galassi, Carofano 1989, p. 286.

53. ASP, Consoli del mare 113, processo 32; ibidem, 1038 alla data 1615; passò poi alla dogana di Livorno per tornare nel 1624 a quella di Pisa. A Livorno restò, almeno fino al 1653, il figlio Giovan Battista (Fanucci Lovitch 1991-1995, I, p. 189). 54. A Firenze Aurelio fu in rapporto, tra gli altri, con Ridolfo Sirigatti, Vincenzo Ricasoli, Roberto Pucci (per quest’ultimo cfr. Carofano, Paliaga 2001, pp. 24-25). A Lucca era ben inserito negli ambienti letterari: nel ms. 1500 della Biblioteca Governativa di Lucca, segnalato da Laura De Ferrari, sono conservate le poesie di Giulio Rutati, Annibale Gherardi e Francesco Bracciolini (cc. 87v, 124v-126r, 228r) in onore del Lomi – apprezzato anche come scultore in legno e come autore di opere profane (una donna seminuda) – e la risposta in versi di Aurelio (c. 232r). 55. Le ipotesi sugli eventuali discepoli di Aurelio – Angelo Cancelli, Giovan Battista Gabbani, Sebastiano Odiardi, Ranieri Borghetti, Giovan Battista Vanni e Orazio Riminaldi – sono puntualmente recensite da Carofano, Paliaga 2001, pp. 43, 67 e da Paliaga 2009, pp. 27, 35, 44, 60; da avvertire tuttavia che le concrete testimonianze documentarie sono inversamente proporzionali alla notorietà degli allievi. Sappiamo,

59. “Preteso erede” è detto in ASP, Consoli del mare 113, processo 32. La sorella Laura e il fratello Scipione gli intenteranno causa per aver parte all’eredità (Fanucci Lovitch 1991-1995, I, pp. 30, 189; II, 1995, p. 265). 60. Cropper 1993. 61. E in effetti con questo nome fu battezzato: “Bartol/° di Giobatta di Bartolomeo L’omi popolo di san Piero Maggiore nacque detto dì [venerdì 3 agosto 1543] a h. 7 ¼” (AOSMF, Fedi di battesimo, reg. 11, lettera B, alla data). 62. Ciardi, Galassi, Carofano 1989, pp. 72, 73. 63. L’accertamento documentario della data, 1597, e il suo invio da Genova è in ASP, Consoli del mare 113, processo 32. 64. Cfr. supra nota 39. 65. Fanucci Lovitch 1991-1995, II, p. 41.

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66. Olivato 1970. La cordialità dei rapporti tra i due è testimoniata dalle lettere del Lomi al Vasari (Ciardi, Galassi, Carofano 1989, p. 288; ASP, Consoli del mare 113, processo 32). 67. Bissell 1999, p. 141; l’anno seguente sarà ancora Vasari junior a versare la tassa di immatricolazione, questa volta proprio per Aurelio (cfr. Matteoli 1997, p. 416). 68. Nella testimonianza resa da Marco Coppino nel corso del processo per stupro si legge che “uno zio che stava a Pisa voleva maritare del suo detta figliola del Gentileschi, e che lui [Orazio] non la voleva mandare” (L. Cavazzini in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 435; Carofano, Paliaga 2001, p. 89) .

72. Gli affreschi sono in mediocri condizioni e ridipinti, ma vi si possono cogliere assonanze fisiognomiche e tipologiche addirittura con quelli in Palazzo Pallavicini Rospigliosi. 73. Bissell 1981, pp. 2, 99. 74. In questo perimetro si situa la collaborazione del 1595 con Onorio Longhi agli apparati funebri per le esequie del cardinale Marco Sittico Altemps in Santa Maria in Trastevere. È vero che le sculture decorative furono eseguite dal coetaneo Ippolito Buzzi, ma le “storie grandi [… e] piccole” dipinte da Orazio erano inserite entro “ornamenti, arme picciole e morti” (Bissell 1981, p. 215).

78. ASF, Not. mod. 1749, cc. 70v, 71v. 79. Un documento reperito e trascritto da Paliaga 2009, p. 213, integra, con inoppugnabile riferimento a Orazio, quanto già emerso da altro documento meno preciso, reso noto da Ciardi, Galassi, Carofano 1989, p. 25, nota 5 e p. 36, nota 41. 80. La controversa questione sulla presenza effettiva di Orazio all’atto dell’immatricolazione di Artemisia all’Accademia del Disegno è riassunta, con discussione delle opinioni precedenti, in Bissell 1999, pp. 406-411. 81. Lapierre 2000, p. 221.

75. K. Christiansen in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 5, 6. 69. Baglione 1642 ed. 1995, pp. 260-261 (pp. 359-360). 70. Masetti Zannini 1974, p. 43. 71. La giovanile pala d’altare con i Santi pisani, già nella chiesa di San Francesco a Pisa, è perduta o non rintracciata (Ciardi, Galassi, Carofano 1989, p. 266).

76. Carofano, Paliaga 2001, p. 67, nota 36, indicano la presenza di Orazio nella bottega di Baccio riferendosi a un documento del 1573, riportato da Carofano 1992, p. 64. Purtroppo il nome di Orazio qui non c’è, sebbene la trascrizione, controllata sull’originale, appaia completa. 77. Le si veda, per esempio, in Bissell 1981, p. 99.

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“ fino a q ua l s e gno gi u ng e ss e l’ ing e gno, e l a mano d ’ u na ta l d onna ” : g e o g r a fi a e r a n g o d i a rt e m i si a g e n t i l e s c h i

Roberto Contini

l votarsi alla carriera di pittore enormemente facilitato dal ruolo protagonistico del padre nella Roma stregata dalla rivelazione pubblica di Caravaggio, pubblicità assicurata, nel male – certo – quanto nei postumi benefici collezionistici, Artemisia Gentileschi, a volersi tenere bassi e non agitati da faziosità, fu artista di rilievo medio-alto, con punte di assoluto “tuttotondo”, in almeno i primi luoghi da lei frequentati: Roma e Firenze. Su Venezia (1627-29) non si hanno prove in solido certe; a Napoli la sua lunghissima presenza non si staccò forse che raramente da una argentea medietas, ma mai il suo rango fu quello di comprimaria. Persino dalle sue creazioni meno riuscite si sprigiona il respiro caldo del suo forse innato talento. Difficile vederla seconda a parecchi dei primi caravaggeschi, specie a Roma negli anni Venti del secolo, di fatto incomparabile ai colleghi fiorentini, a eccezione del superbo Cristofano, non a caso suo intrinseco; non contò tra i sommi a Napoli, ma certo si stabilizzò ben salda tra i non pochi “second best” di quella scuola così insigne. Dunque non aspettiamoci da Artemisia di occupare il medesimo scranno di un Orazio Gentileschi, di un Battistello, di uno Stanzione o di un Ribera, non vediamola tuttavia nemmeno subalterna nelle capacità a un Baglione, a un Gramatica, al grande Vouet, ai vari Beltra-

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no, Finoglio, De Rosa, Guarino, Palumbo. La Gentileschi figlia è indubbiamente artista “da manuale”, ma non vi deve essere inclusa per meriti – se così si può dire – extracurriculari, esclusivamente invece, se siamo in democrazia esegetica, per la bontà del suo specifico talento. Diciottenne al tempo del fin troppo famoso processo intentato dal padre contro il collega e socio delle parti sue, il labronico Agostino Tassi, la giovane aveva già alle spalle, a dar retta a Orazio, un rodaggio almeno triennale nel mestiere di pittore. Artemisia non approdava dunque nel 1613 a Firenze in termini di apprendista o aspirante addetta ai lavori, e nella sua prima opera documentata del soggiorno fiorentino – ma possibilmente non prima a esservi stata eseguita – l’Allegoria dell’Inclinazione nel soffitto della Galleria di Casa Buonarroti (fig. 1), confine operativo dei giovani delle maggiori botteghe fiorentine, tutti coetanei o quasi della Lomi, lei ha appena ventidue anni. Se esiste almeno una pittura a testimoniare il precoce talento di Artemisia, la Susanna e i vecchioni di Pommersfelden, con la sua brava autocertificante iscrizione a una data, 1610, che la voleva non ancora maggiorenne, questa è stata spesso interpretata quale falso in atto pubblico a fini promozionali, dunque opera di Orazio, integrale o in compartecipazione.

Artemisia Gentileschi, Giuditta e Abra con la testa di Oloferne, particolare. Firenze, Galleria Palatina.

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“fino a qual segno giungesse l’ingegno, e la mano d’una tal donna”: geografia e rango di artemisia gentileschi

Per sanare tale sorta di falsa partenza della figlia, bisognerebbe domandarsi con qualche foga quale compatibilità di fatto si dia sul fronte dello stile tra questo e altri dipinti della cosiddetta prima fase romana di Artemisia e quelli licenziati dal padre nel primo decennio del nuovo secolo, primi della sua inedita pelle di moderato naturalista. Se guarderemo senza preconcetti, non ne troveremo in misura sovrabbondante. E nodale, nei precisi limiti indicati (1608-12), verrà a segnalarsi il ciclo di pitture parietali nel soffitto del Casino delle Muse, allora Borghese, contestuale al 1611 del pasticciaccio col direttore dei lavori Tassi. Non si conoscono opere di Orazio databili con certezza al 1610 o al 1611 o al 1612, dovremmo dunque promuovere a cartina di tornasole per tale fase giusto i murali Borghese, oggi Pallavicini. Si conoscono per contro capolavori del Gentileschi del quinquennio precedente, tra questi la Vergine col Bambino di Bucarest, del 1609, con valore così prototipico verso quelle poco posteriori della figlia e la pala comasca (oggi a Brera) con I santi Valeriano, Tiburzio e Cecilia, antecedente la visita pastorale del cardinal Sfondrato nel 1607. Dei tipi vivamente volumetrici, gravi, sodi e tondeggianti impiegati a questa altezza cronologica dal Gentileschi vi è scarso riscontro nelle fisionomie luciferine, per loro natura scorciatissime, a tratti grintose, a tratti alterate se non grottesche del Casino delle Muse, sì da imporre l’interrogativo: dove finisce, ma anche – addirittura – eventualmente comincia la parte di Orazio e dove s’innestano i collaboratori, siano essi della medesima o magari anche altra maestranza? Non vi è ancora unanimità di vedute sui percorsi dei due principali fra i Gentileschi, nemmeno a seguito della pur determinante rassegna del 2001-02. Ingeneroso è l’esercizio critico svolto post factum, a mostra messa in piedi, con tanta fatica, pervicacia e inevitabile parziale frustrazione da parte dei suoi ideatori. Tutti gli ingredienti lì sul tavolo, è fin troppo agevole pronunciarsi sull’esecuzione della ricetta; resta tuttavia il dato obiettivo che la cronologia del Gentileschi sia fortemente minacciata dalla costruzione presuntiva proprio del segmento corrispondente all’assenza da Roma della figlia. Se personalmente trovo ovvio retrodatare al tempo della pala comasca la pregevole Allegoria del museo di Houston, capisco il punto di Christiansen nel vedere un’automatica relazione tra la Cleopatra di proprietà privata milanese e una determinata

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1. Artemisia Gentileschi, Allegoria dell’Inclinazione. Firenze, Casa Buonarroti.

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figura del soffitto Borghese a Montecavallo. Non però l’automatismo – nella singolare congerie di stili offerta da un’impresa evidentemente a carattere collettivo – di riconoscervi la mano di Orazio anziché di Artemisia. Se il padre è francamente da identificare con qualche arbitrio e senza obiettive pezze d’appoggio, perché non domandarsi, ma seriamente, se in tale committenza Borghese la figlia non abbia ricevuto abbondante delega? La raffinata composizione dei principi di Schönborn, già proprietà di Benedetto Luti ma ancora mascherata da ridipinture la firma di Artemisia, offre la più robusta delle gomene per l’attracco all’Inclinazione di Michelangelo Buonarroti il Giovane, sotto specie di una coerenza di stile larga un lustro. Ma cosa venne prima e in mezzo a tali ottime pitture, la seconda offesa sciaguratamente dall’intervento censorio del Volterrano? Venne, naturalmente, la Giuditta. Nelle due varianti dell’eroina di Betulia già provveduta del macabro referto simbolico della salvezza della sua gente e di lei colta nello sforzo indicibile di resecare all’arma bianca il collo massiccio dell’avversario assiro. Della seconda specie di immagine – oramai identificata nella versione blu-amaranto di Capodimonte (cat. 10) – non vi è corrispettivo nell’albero figurativo paterno, a meno di avvalersi della misura, equivalente all’indispensabile deus ex machina, di assegnarla direttamente al carnet di lui1. Dell’altra, testimoniata per la figlia dal sottovuoto caravaggesco della Galleria Palatina (cat. 13), variabilmente datata tra Roma e Firenze, con escursione decennale tra il 1609 e il 1620 circa, a meno di essere convinti di un suo poggiare sul primo termine, va oggi riconosciuta con qualche fondamento a Orazio la paternità dell’archetipo. Questo non solo sulla base della pregevole tela della Nasjonalgalleriet di Oslo, la quale ben concorda col punto di stile delle prime pale naturalistiche del pisano, mentre, a dispetto dell’insistenza nello sfarzo suntuario, pare aliena dai modi della figlia. Si conosce difatti un ulteriore esemplare, in formato verticale e non sovrapporta come nella pacata raffigurazione precedente, della quale è nettamente inferiore per qualità eppure assai più aggressivo – sì: caravaggesco – nello spirito. L’interesse dell’oggetto, che un tempo era presso la Colnaghi Gallery (Londra - New York), di per sé cospicuo, è accresciuto dall’apposizione tergale di

un’iscrizione – o meglio, trascrizione posteriore – nella quale il nome di Orazio è completato dall’indicazione millesimale “1612”. Non discutendo in questo luogo del margine di affidabilità di tali righe, si può rilassatamente almeno affermare, da una parte, che lo stile di Artemisia appare diverso, più solido e rotondo, più ricco, mentre per Orazio si documenterebbe una sorta di regresso almeno ponendo questa Giuditta e la fantesca in progressione rispetto, poniamo, alla gran pala oggi a Brera o alla stessa, ben più tornita Vergine allattante di Bucarest. Una volta che volessimo però essere fedeli alle pseudo-certezze del referto Colnaghi, allora fa mestieri allineare la tela ai murali dell’anno precedente al Casino delle Muse. Ma, una volta di più, senza poter fare chiarezza. La committenza Borghese, guadagnata dal Tassi, sarà stata anche ideata da Orazio per la parte figurata, per cantanti e suonatrici varie, ma in termini di esecuzione da mani altre dalle sue. Generici, se mai disponibili, i paragoni con la tela di Oslo, sfolgorante negli apparati tessili quanto atona nell’espressione ebete dell’eroina, con quella Colnaghi, naturalmente anche con quella magnificamente essenziale e compressa della Galleria Palatina, la quale rischia di suturarsi con grave possibilità di rigetto al catalogo di Artemisia, non calzano granché. In assenza di testimonianze obiettive, sospetti e certezze quanto ai contenuti di stile di un ciclo, studiato piuttosto su riproduzioni che in originale, navigano a vista. La protagonista del quadro già Colnaghi è invero di una specie affine agli angeli inseriti nella centina della Circoncisione anconetana, dipinta da Orazio sei-sette anni prima, mentre pare essersi dissolta nei capricci di quell’uomo selvatico la grosso modo contemporanea sapienza esecutiva del San Gerolamo del Museo Civico di Torino, alias il Giovan Pietro Molli, modello di Orazio nonché teste al processo del 1612. Il punto, va da sé, non è qui quello della cronologia di Orazio negli anni di condivisione domiciliare con la figlia, che pure è snodo primario, quanto il diritto di primogenitura della fortunata composizione e il tempo da attribuire alla redazione palatina di Artemisia. Con gli occhi di oggi, verrebbe quasi automatico detrarre dalla dote della figlia la Giuditta con la fantesca fiorentina, che a suo turno lega assai meglio con la Circoncisione paterna, con la Visione di santa Cecilia di Brera, con l’angelo a sinistra nel Battesimo di Santa Maria della Pace, meno forse con la Vergine

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di Bucarest del 1609. I confronti interni al catalogo di Artemisia paiono di fatto meno confortanti; tuttavia orientativamente, e indipendentemente da chi possa esserne responsabile, questa pittura famosa è da vedere semmai svincolata dal tempo fiorentino della pittrice e a esso anteriore. E già dal 1609, giusta l’asserzione paterna nell’interrogatorio processuale di tre anni successivo, Artemisia si produceva in proprio, in una Madonna col Bambino tratta dal vero del suo contesto di vita – chissà se coincidente col parlante dipinto appena riemerso a una vendita di Drouot (cat. 9) – e, certamente tra altre, in quella inviata da Orazio al granduca Cosimo II quale documento delle capacità della ventenne in vista del di lei possibile impiego, conseguente all’imminente trasferta della figlia. Costretta dunque la Giuditta e la fantesca in altro contenitore temporale, se non proprio di paternità, il resto della produzione nota di Artemisia a Firenze dà prova di coerenza e può distribuirsi vagamente negli anni 1613-19, ma sempre nel filone annunciato da determinati personaggi riprodotti nel soffitto del Casino delle Muse, ciò che per lo scrivente equivale a una sicura compartecipazione – letta per fallace via stilistica, beninteso – della diciottenne Gentileschi. La giovane, tutt’altro che emaciata, dama con ventaglio (fig. 2) che assiste al concerto accompagnata da androgina assistente di colore (spunto per l’ancella a destra nelle tarde Betsabee di Artemisia), dama spesso interpretata come ritratto della figlia (eventualità francamente non destituita di fondamento), sa molto di autorappresentazione e tiene ben vivo un legame fisionomico non meno che stilistico con l’Inclinazione del 1615 e con la dorata Maddalena penitente di Pitti della Lomi (cat. 11), e ancora, più vagamente tuttavia, con la Susanna del 1610. All’altro capo della pittura centrale del soffitto oggi Pallavicini, la suonatrice rosso-azzurra descritta reclinata all’indietro in accentuato sott’in su è stata a ragione vista quale preliminare al gran nudo della Cleopatra in collezione privata milanese – supremo esercizio neoveneziano – e al rame con la protagonista salariata questa volta in vesti di Danae del Saint Louis Art Museum (cat. 19). Anche qui i pareri sono discordi, tra chi vuole riconoscere l’autografia della figlia e chi al contrario impugna tale incontestabile relazione per passare deterministicamente all’autore putativo delle pitture nel Casino delle Muse la responsabilità di entrambe le opere, a dispetto di una perizia o comun-

que attitudine alla descrizione del nudo femminile sprovvista di oraziana casistica almeno fino al tempo genovese di questi, 1621-23 circa, e ai diversissimi quadri Sauli (Maddalena, New York, collezione privata; Danae, collezione Feigen). Chiara dunque la posizione dello scrivente in merito, resta da stabilire quale delle cronologie suggerite dalla critica, favorevoli proprio a un chissà se mai in apprezzabile termine esistito tempo genovese della figlia oppure a una coincidenza con il romano Concerto per Apollo e le muse, sia da privilegiare. Sull’onda di opere nuovamente romane, quali la seconda versione della Giuditta che scanna Oloferne degli Uffizi o la magnifica Giuditta con Abra di Detroit, dunque dei primi anni Venti, sembra più remunerativo cercare accoglienza per la Cleopatra nel compartimento più antico, in prossimità della prima edizione, napoletana, della donna in vesti di attivo giustiziere. Un quadro capitale nella distribuzione delle opere nel tempo, e indiziato più di altri di essere il quadro “non fornito” di una “Giuditta”, di cui si fa menzione nel processo del 1612 come sottratto a casa Gentileschi dal Tassi. Il quadro, presumibilmente tagliato in alto e a sinistra, giusta il paragone col campo più ampio del quadro mediceo, e abraso abbondantemente nel primo piano di materassi, lenzuola e sangue in variabile reazione al riflettore esterno all’accadimento, avrebbe forse anche titolo per essere considerato non integralmente portato a termine, laddove l’illazione colpisca la lama della spada, ridotta, sotto il volto agonizzante del generale, a mera spalmatura di carbone, a negra sinopia del ferro inesorabile2. Dal 1613 al 1621 Artemisia è documentata dunque a Firenze, dove giunge col fratello del notaio di suo padre, quel fiorentino Pierantonio Stiattesi che ebbe a indirizzare su “canali regolamentari” la giovane depredata della sua verginità. Un bel pezzo di esistenza, ma anche una sede dalla quale era possibile assentarsi con relativa rapidità in altre direzioni, tenendosi aggiornata sui nuovi stili, sulle nuove mode. Le forze artistiche gigliate, né migliori né peggiori di altre, né estranee al raggio di conoscenze della collega, proveniente da una Roma fittamente colonizzata da artisti toscani, non dovettero rispondere particolarmente ai criteri di gusto e di veemenza rappresentativa della donna, così da potersi denunciare una situazione di stallo tra il dare e l’avere, Firenze versus Artemisia e il suo contrario. Effetti superficiali certamente la Lomi ne sortì, anche nel lungo tempo (Martinelli su tutti), e forse frutto del foraggio

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fiorentino sarà stato l’allargarsi della sontuosa tavolozza, già rodatissima nei rossi e nei blu, verso il caldo giallo-oro così congeniale alle corde locali e – non si può tacere – allo stesso toscanissimo padre. Di certo, la figlia di Orazio, prevedibilmente non incantata dalle giovani forze assoldate dal Buonarroti per la propria magione, sapeva scegliere i suoi pari, legandosi di un’amicizia che certo si sarà travasata nella simpatia per i frutti professionali del tanto di lei maggiore Cristofano Allori, padrino del figlio che ne portava il nome, morto infante3. Non onorata da committenze chiesastiche, né da partecipazione a imprese a fresco collettive continuamente in auge, magari un po’ sottotono nei suoi anni, per riprendere grande vigore tra il 1620 e il 1624 nei cicli notissimi nelle residenze del Casino Mediceo e della Villa del Poggio Imperiale, ove, non fosse Artemisia quasi contestualmente rimpatriata, c’è da scommettere che i Medici non avrebberto mancato di impiegarla, la pittrice lasciò di sé una manciata di formulazioni al femminile dal taglio affatto inedito. Non si conoscono a Firenze, almeno in questo tempo, immagini di Madonne, sante, eroine a mezza, trequarti o anche figura intera (Maddalena) esplicate con pari fierezza, volumetrico corpo e velatamente autoriferite. Bisognerà attendere gli anni Trenta, con i vari Furini, Cesare Dandini, Ficherelli, ma con raffinatezze e languori sì di grandissimo mestiere, ma infinitamente minore sostanza realistica e attitudine tridimensionale, compensate da una traslitterazione dei moti dell’anima che non ha eguali altrove. Ciò che non fu mai prerogativa della (dei) Gentileschi. Alla vigilia del rientro a Roma, non riemerso il sesquipedale Bagno di Diana per il quale l’artista riceve pagamenti nel 1619, la data 1620 è monumentalmente abbinata alla firma in capitali letteralmente scolpita sulla guasta Giaele e Sisara dello Szépmüvészeti Múzeum di Budapest (cat. 17), a latere di un dramma a due sguarnito d’ambientazione. I paradigmi usuali,

2. Dama con ventaglio, particolare dal Concerto con Apollo e le Muse. Roma, Palazzo Pallavicini, Casino delle Muse.

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fisionomici, coloristici, il gesto sospeso del martello brandito, appena a un passo dall’adeguatamente preparato omicidio, trasmettono un rallentamento d’emozioni, un congelamento del delitto virtuoso che, se appaiono non alieni dall’uso fiorentino, più melodrammatico, mostrano aperture sui naturalisti di Francia intorno al Vouet, come ben visto dalla Mann4. Inviata da Roma è forse l’edizione maggiore della Decollazione di Oloferne oggi agli Uffizi, un gran quadro da sala pienamente barocco, sostanzialmente inascoltato dalla platea fiorentina. E forse va posta in coda alla sequenza delle opere nate in riva all’Arno lo statuario trequarti della Suonatrice di liuto, altrimenti detta Santa Cecilia, uno dei capolavori secenteschi della Galleria Spada. Questo pare a un dipresso il paradigma somatico dell’autrice stessa, secondo il canone del ritratto che di lei fece il Vouet a vantaggio di Cassiano dal Pozzo (cat. 7). Ma siamo veramente in un gioco di triangolazioni fra addetti ai lavori cui non restano estranei un Gramatica nelle sue giornate domenicali e, su di un altro livello, proprio Simon Vouet. Tipici quadri degli anni Venti da leggersi in sovrapposizione a quanto prodotto dall’amico parigino sono il notturno artificiale della Giuditta e la fantesca di Detroit e la possente Mad-

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dalena meditante sul teschio, a mezza figura, mirabilmente prossima alla precedente anche nelle spartizioni di ombre e luce sui volti scultorei, di collezione privata californiana (cat. 28). E forse la sostanziale intenzione autocelebrativa della Suonatrice romana e della Maddalena ruota nel giro d’anni del Ritratto di lei, nel pieno di una comunanza espressiva latrice di brillantezza di risultati per entrambi i pittori. Arrivati a quest’altezza si registra finalmente l’approdo di Artemisia alla specialità attribuitagli dalle fonti, quella cioè di insigne ritrattista, nel mirabile Ritratto di gonfaloniere delle collezioni comunali di Bologna (cat. 22). A figura intera e seppur convenzionale nella nobiltà descrittiva del manufatto da parata, è opera magnificamente rifluente, nell’illuminazione del volto, nella grande ombra strascicata su pavimento e parete, dai pochi esempi dei caravaggeschi, Manfredi e Riminaldi in prima linea. Un genere non frequentato da Orazio, tetragono a porre connotati individualizzanti, il gran ritratto ufficiale a figura intera fu specialità insigne anche di Vouet e non resterà isolato nel carniere di Artemisia, se a questo esemplare se ne possono oggi aggiungere ben due altri, uno nuovamente con modella femminile (cat. 23), l’altro ispirato alle fattezze di un nobile specialista di fortificazioni militari, il lionese Antoine de Ville (cat. 24), opera all’ultimo momento, dopo lunghe esitazioni, magnanimamente concessa alla mostra dal suo proprietario, sia pure limitatamente a cinque settimane, dando spettacolare lustro al compartimento ritrattistico. Databile antecedentemente al 1627 il gran Ritratto de Ville, datato esattamente 1622 quello bolognese, cade ora uno dei bocconi più indigesti – nella sua apparente incongruenza – del cammino della Gentileschi: la sua seconda edizione, in ordine di tempo, e ugualmente contestata a dispetto dell’evidenza incisa nella superficie dipinta di entrambe, del tema “Susanna e i vecchioni”, pertinente le collezioni del Marquess of Exeter a Burghley House, nel Lincolnshire. Sia tollerato, prima di confrontarci, meno drasticamente che in passato, con questo magnifico dipinto, alludere con scoramento all’impervietà del trovar posto nel catalogo della Gentileschi, nei suoi secondi anni romani, alla notevolissima Lucrezia, anch’essa odiernamente in collezione privata a Milano, già in Palazzo Cattaneo Adorno a Genova, traccia topografica che ha spesso invitato al collegamento col passo del Ratti inerente una Cleopatra e una Lucrezia dipinte non da

Artemisia, ma da suo padre per la nobiltà genovese5. Rimosse oggi le inopinate estensioni del dipinto che lo caratterizzavano al momento della sua inclusione nella prima personale della pittrice in Casa Buonarroti a Firenze (1991), l’implodere della suicida virago nei ridotti confini del supporto ne fa una delle più potenti rappresentazioni di tragedia al femminile nella storia della pittura. La possanza della coscia granitica, lo strapotere fisico del busto descritto con competente realismo hanno certo fuorviato la valutazione di molti, tra questi lo scrivente, che ne hanno ritenuto incapace – mentalmente – il genitore di Artemisia. Diversa eppure è sopra ogni luogo la lucidità ottica, iperrealistica del rappresentato, in termini che molto sensatamente hanno fatto evocare il nome di Francesco Boneri, il “Cecco del Caravaggio” di Giulio Mancini6. E tutto sommato, prescindendo dalla ulteriore difficoltà di provvederci di confronti tipologici nell’opera del bergamasco7, versata sperequatamente sul maschile, il parallelo è convincente. Convincente, ma non risolutivo, giacché una patina di gentileschismo non può detrarsi senza danno. Fatta salva l’introduzione del feroce cipiglio, il parallelo somatico più economico chiama alla sbarra almeno una tipologia oraziana, unica degli anni parigini, la Felicità pubblica del Louvre, eseguita per la residenza di Maria de’ Medici al Luxembourg tra il 1624 e il 1626, in parallelo perfetto con le uscite naturalistiche di Artemisia nuovamente romana. Quel che sconsiglia un cambiamento di paternità del dipinto, pur restando nella medesima stirpe, è l’anomalia di quel volto, certamente per la figlia, ma suscettibile di pochi altri controlli nel libro del padre, forse per pari cipiglio unicamente nella sublime Maddalena di Fabriano, di una buona decade più antica, ornata però di tessuti ben lontani dallo spessore del greve mantello vinaccia che áncora a questa terra l’impeto di Lucrezia. Capziosamente, un’immagine che accende più dialoghi con opere del primo tempo da naturalista del Gentileschi, dalla Circoncisione anconitana al Tiburzio della pala comasca al Davide di Dublino (per grinta, ma non meno per la modulazione della mano destra di Lucrezia al cospetto di quella sinistra di Davide) al San Michele Arcangelo di Farnese. Nella formulazione generale di atletico quanto artificiale benessere da pesista, nulla si avvicina di più del meditante Davide della Galleria Spada al paradigma della Lucrezia. Quasi una testa di Orazio innestata sul corpo e i panni di Artemisia.

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Finita la digressione, torniamo alla Susanna di Burghley House (fig. 3), con prudenza di giudizio ma non più con apodittico scetticismo. Liberata dalle pastoie del Caravaggio, poi del padre Orazio, questo così emilianeggante pezzo di bravura fu riportato con stordente preveggenza (la firma essendo ancora celata) nell’alveo della figlia da Mina Gregori8. Il rinvio, quanto mai rivelatore, all’incisione celebre di Annibale Carracci, dove la donna ha pari fattezze di enfiata carnalità e il contesto è nell’insieme a dir poco affine9, non fa che ribadire la costante emiliana di cui la tela è esplicita emanazione. Senza voler necessariamente pensare a un furbesco orientamento di Artemisia (una volta rientrata a Roma), teso all’omaggio verso le coordinate geografico-familiari del nuovo consegnatario del trono di Pietro, assumendo ipso facto vesti guercinesche, dovesse equivalere, se non proprio a firma, a ubbidiente registro dei tempi l’anomala iscrizione rivelata dal restauro del 1995, non potremmo che leggere l’inusitato punto di stile di Artemisia in piena fratellanza con quanto usciva dalle botteghe di un Guercino o di un Massari (troppo presto pensare, come sarebbe lecito, al Cagnacci), per Bologna, o di un Vouet per la variante di possente naturalismo barocco nella tipica formula anni Venti10. Tiepidamente accolta, l’autografia della Gentileschi, rinforzata dall’enunciato della strana iscrizione e dal millesimo 1622, tale da porla in coincidenza col Ritratto di gonfaloniere di Bologna, apparentemente di un’altra galassia espressiva, non può più essere fronteggiata con l’argomento della consequenzialità di modi espressivi. L’assenza del quadro, e anche della sua copia, se tale tuttavia eccellente, di Nottingham11 dal contesto della mostra, non aiuterà a trarre un adeguato bilancio critico, ma di occasioni perdute è costellata la strada delle mostre, né forse la destinazione dei prestiti gode più di illuminato discernimento. Pensando a un itinerario in progress, a un incrocio di rimandi interni, alla persistenza di determinate tipologie, la lancia in favore di Artemisia può essere frantumata in una traiettoria che dalle remote plaghe del Casino delle Muse estragga la giovana matrona con ventaglio e tre girali di perle al collo (1611) e la consolidi una decina d’anni dopo, prima nella cosiddetta Santa Cecilia della Galleria Spada (1620 circa?), quindi nell’abbondante Susanna di Stamford. Su questa genealogia può eventualmente donarsi accento autorappresentativo alle tre immagini e, quel che più conta, una comune responsabilità d’esecuzione.

Quadro ben più complesso delle sue apparenze, il cui processo di lavoro costrinse la Gentileschi a mutazioni di vario ordine, alcune rilevanti – come nel caso della porzione sinistra, dove la fontana con putti aveva avuto inizialmente tutt’altra formulazione e nel vuoto sopra il volto della donna ancora si intravede una gran testa scorciata a occhi chiusi (relitto di precedente composizione?) –, la Susanna e i vecchioni di Burghley House è stata analizzata in tutte le inopinate variabili, tutte da sottoscrivere, da Raymond Ward Bissell12. Fuori d’ogni riserva solo la superba realizzazione, giacché sul fronte inventivo troppo pesa sulle spalle di Annibale. Un dettaglio ancora – fatti salvi i guasti di corrosive puliture antiche – è rivelatore dell’applicazione della Gentileschi Lomi: “the almost wooden character of the hands of the upper elder”, la cui destra è infatti della stessa pasta di quella del Gonfaloniere bolognese. Una densa legnosità non immemore forse dei modi di Cecco del Caravaggio, del Cavarozzi, in buona sintonia col naturalismo a Roma nel segmento iniziale del terzo decennio. Le contaminazioni col Vouet – si vorrebbe credere bipolari – toccano in termini didascalici il notturno mirabile di Detroit, capostipite della formulazione del post factum, con Abra in ginocchio in primo piano a infagottare il capoccione scolcato del raggirato assiro. Tra quest’opera, la cui datazione, ricordiamo, solo presunta, è concordemente posta sulla metà del decennio, e l’Annunciazione di Napoli del 1630 si frappongono chissà quante altre opere, eseguite a Roma e nel triennio veneziano, 1627-29, striato appena di descrizioni inventariali o letterarie. Orfani, auguriamoci solo ad interim, di opere succulente unicamente all’udito, potremo, per minima esemplificazione, leggere in tale congiuntura la Psiche con Amore acquistata nel 1642 dai Gerini, a pendant con un’opera di Giovanni Martinelli, estimatore ritardato della Lomi, la cui incisione è tramite a oggi unico di un citazionismo merisian-mannozziano (Cupido equivalente a quello famoso del Caravaggio, poi copiato da Giovanni da San Giovanni nel 1619-20 sulla facciata di Palazzo dei dell’Antella) e di un’ambientazione notturna all’apparenza in amicizia con la formidabile scacchiera luministica della Giuditta di Detroit13. Del pari, dopo sterile ruminarci sopra, non potrà più – temo – considerarsi un autografo della figlia di Orazio del tem-

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po romano la longilinea Aurora in collezione privata romana (fig. 4), opera di pregio indubbio, anzi altissimo, da doversi magari interpretare, con ogni cautela, quale possibile riflesso (certo non locale, ma a quale latitudine?) del prototipo di Artemisia proprietà del fiorentino Giovanni Luigi Arrighetti (ereditato dal padre Niccolò), così accuratamente parafrasato dal Baldinucci: “in proporzione poco meno di naturale l’Aurora vaga femmina ignuda con chiome sparse, e braccia stese innalzate verso il Cielo, ed essa in atto di sollevarsi dal suo orizzonte, nel quale veggonsi apparire i primi albori, e di portarsi a sgombrare alquanto le fosche caligini della notte. La figura per la parte dinanzi è tutta graziosamente sbattimentata in modo, che non lascia però di far mostra della bella proporzione delle membra, e del vago colorito, restando solamente percossa dalla nascente mattutina luce dalla opposta parte, e veramente ell’è opera bella, e che fa conoscere fino a qual segno giungesse l’ingegno, e la mano d’una tal donna”14. La sospensione di giudizio, in qualche modo professione di incapacità di collocazione critica di tale superbo oggetto, potrebbe in un futuro essere soppressa a vantaggio di risultati, invero variabilissimi, determinatisi nel lungo corso partenopeo. La resa non è dunque incondizionata, quanto figlia dell’inadeguatezza attuale dei parametri di confronto e dal negarsi una comparazione diretta, per ragioni obiettive di impossibile manovrabilità, antagoniste alla generosa disponibilità del proprietario. Sia concesso, a titolo sperimentale, un parere suscettibile di ulteriori sviluppi, tale da far slittare di un quarto di secolo abbondante la presunta collocazione temporale della grande, neomanieristica, composizione. Il gesticolare esagitato di Aurora è captato con effetto singolarmente familiare in opere del napoletano Francesco Di Maria, sorta di autodidatta che dalle modeste istruzioni paterne si volse, a quanto sembra, ai classicisti emiliani su piazza, compendiati nella figura del Domenichino. Ne sono prova bastante il san Giovanni Evangelista incluso a destra nel Calvario della chiesa partenopea di San Giuseppe a Pontecorvo, firmato e documentato tra 1660 e 1664. A quest’opera se ne accompagna una se-

conda, l’Apparizione di san Pietro d’Alcantara a santa Teresa d’Avila, contenente in alto un girotondo di putti in sostanza omologabili all’amoretto che svolazza sopra l’egocentrica dea nel quadro romano. Ove la misura non fosse colma, un ulteriore quarto di secolo più avanti il Di Maria s’ispira ancora all’Aurora nella postura del braccio destro del giovane resuscitato dal beato Bernardo Tolomei nella pala di Sant’Anna dei Lombardi, commissionata nel 1688. Di una stessa pasta e morfologia appaiono per di

3. Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni. Lincolnshire, Burghley House Collection. 4. Francesco Di Maria (da Artemisia Gentileschi) (qui attribuito), Aurora. Collezione privata.

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più – sempre l’Aurora quale referente – le frasche spalmate nel fondo a sinistra e le estremità del giovane in parola, lunghe e ossute. E, avendo chiamato in causa la fazione degli emiliani a Napoli, non sarà superfluo rilevare come la posa di Aurora, specialmente per il braccio destro e il busto, derivi da oppure sia modello per l’angelo descritto in alto a sinistra nell’Estasi di san Gerolamo di Francesco Gessi ai Girolamini: un’opera che,

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benché commissionata al bolognese fin dal 1621, pervenne alla chiesa destinataria solo tra il 1646 e il 1648. Ma torniamo a Roma, 1620-26: nuove addizioni e dati acquisiti rendono ben vivo il ruolo avuto da Artemisia in questo superbo canto del cigno del partito, progressivamente destinato a petalo minoritario nella rosa “parlamentare”, dei naturalisti. Da una parte il Ritratto di dama con ventaglio (cat.

5. Da Artemisia Gentileschi, Salomè con la testa del Battista. Budapest, Szépmüvészeti Múzeum.

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23) non stacca dal repertorio della Giuditta Uffizi e di altre donne latrici di pari menti plissettati, e tuttavia in moderata definizione espressiva, dall’altra la consanguinea Salomè del Museo di Budapest (fig. 5) si ritaglia, assieme al caravaggesco carnefice, un’isola di veementi modi naturalistici, foriera di indirette aperture verso l’applicarsi della Gentileschi alla specialità della natura morta15, della quale – ma per unilaterale testimonianza del Baldinucci16 – Artemisia sarebbe stata sovrana fautrice. È con questa eredità e varietà figurativa che la Gentileschi accenderà a Napoli un contagio di qualche momento, cui lei stessa alternerà o soprammetterà nuovi termini linguistici. Tutta nelle sue corde morfologiche (quelle – intendo – della Giuditta Uffizi, della Salomè di Budapest e della Dama con ventaglio di collezione privata), riesce, per intenderci, la pettoruta, arcigna, moglie di Putifarre in un dipinto assegnato a un robusto artista del giro di Filippo Vitale, provvisoriamente denominato “Maestro di Fontanarosa”, ma forse coincidente col nome storico di Giuseppe di Guido17. Prima di Napoli, il tour peninsulare della Gentileschi ebbe a contemplare un’ulteriore tappa, grosso modo triennale, nientemeno che a Venezia, della quale il magro bottino disponibile si riassume nelle menzioni di opere inidentificate partorite a quelle latitudini18. Suscettibile di adeguata considerazione è il fatto che nel 1627 ha luogo in quel fiabesco centro dell’Adriatico la continuazione del sodalizio con Simon Vouet, il quale, dopo aver licenziato il San Teonisto oggi a Dresda, si rimetterà in marcia per quella Parigi che trentasette anni prima gli aveva dato i natali. Che fine hanno fatto la “Lucrezia Romana” celebrata nei versi forse attribuibili a Gianfrancesco Loredan, e la “Susanna”, e l’“Amoretto” su pietra di paragone per un Giacomo Pighetti? E poi, forse la più dolorosa delle sottrazioni, l’“Ercole e Onfale” acquistato dall’ambasciatore di Spagna a Roma, Iñigo Vélez de Guevara y Tassis, Conde d’Oñate? Un dipinto poi inventariato nell’Alcázar di Madrid nel 163619. Anche a Venezia, come a Roma, come a Firenze, non si ha tuttavia notizia dell’impiego della pittrice nell’ambito della pittura da chiesa. Questa ferita alla sua vocazione di artista universale verrà presto sanata, com’è ben noto e come vedremo poi, nella sua nuova sede di lavoro, questa volta tirrenica, Napoli, in quell’Annunciazione firmata e datata 1630. Napoli,

il territorio nel quale si dipingerà “all’artemisiana”, nel quale il proselitismo della figlia di Orazio si mostrerà dato schiacciante, per quanto non univoco, in un censimento globale connotato da tanta varietà di indirizzi, fu forse anche la palestra – sfidata da tanta messe di specialisti – nella quale la pittrice sollevò con successo il manubrio ingombrante della rappresentazione della natura inanimata o animale in posa, o comunque prestò la sua opera nell’integrarla con figure. La memoria del Baldinucci poté forse confondere il luogo dell’azione, meno facilmente l’essersi data l’azione medesima. Su tutto questo non molto è stato scritto, e di norma caso mai in riferimento alla situazione romana e al Maestro della Natura Morta Acquavella (sia questo da identificarsi o meno con Bartolomeo Cavarozzi), cui spettano alcune delle più frementi delle opere della specialità di aspetto caravaggesco, oppure – in tutt’altra costellazione di stile – a Francesco Romanelli 20. Ci vorrebbero pazienza e obiettività di giudizio, tale da frenare l’involontaria jattanza degli autentici conoscitori dello specifico campo, al fine di allestire una progressione nel tempo, decennio dopo decennio, un albero genealogico fondato della sterminata famiglia delle nature morte prodotte a Napoli, limitandosi all’arco della residenza in città della Gentileschi, fra il 1630 e la peste. Vorrei allora sfidare – non aspettandomi il successo arriso a David – questo Golia figurativo e mantener calda una pietanza abusivamente elargita ad anonimo toscano, sulla quale mi accorgo che ha acceso i riflettori per primo l’occhio esperto di Stefano Causa 21: la vasta apparecchiatura di pollame e ortaggi, canestri e versatoi, accompagnata da due giovani figure femminili, facente parte in origine dell’arredo della cattedrale di Valladolid e oggi ricoverata nel Museo Nacional Colegio de San Gregorio (fig. 6) 22. Non potendosi giudicare nella prevedibile cogenza iconografica la complessa parata di verdure, volatili, carni di altra specie e recipienti vari, non si può altro che inferirne un significato emblematico, rafforzato dalla rara scelta delle interiora di pollame affogate nel piatto antistante la più giovane delle due cuciniere, a sinistra, nel suo ipergentileschiano blu elettrico, e dai gesti delle mani destre di ambo le donne, a indicare l’una in alto (fuori campo, dunque fuori della sfera terrena?), l’altra un gatto teso a rivalersi di un pollo squartato. Solo a Napoli possono trovarsi fisionomie equivalenti a quelle delle due vivandiere, così da indurre – per la parte figurata 23 – Causa a formulare il nome di

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“fino a qual segno giungesse l’ingegno, e la mano d’una tal donna”: geografia e rango di artemisia gentileschi

Onofrio Palumbo e il sottoscritto a rischiare addirittura quello della sua più famosa socia. Forse da questo esempio si potrà recuperare un dossier adeguato di prove in tele e colori di un aspetto effettivamente fondante della rinomata bottega della Gentileschi a Napoli,

1. Bissell 2009a, pp. 23-31 (si consultino anche, in omaggio alla par condicio, almeno: Bissell 1999, pp. 191-198 n. 4; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 308-311 n. 55, dove si dà conto della letteratura precedente). 2. Posto che il quadro del processo sia ancora “in vita”, un candidato che più adatto non si può a collimarvi è stato segnalato con provvidenziale altruismo da Paolo Biscottini (cat. 49), che insospettabilmente aveva dedicato la propria tesi di laurea con Gian Alberto Dell’Acqua giusto a Orazio Gentileschi. Questa prevedibilmente non intatta pittura, di inedita

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un’accademia-non-accademia dove giovani come Pacecco De Rosa e il Palumbo, giovanissimi come Cavallino, ebbero la sorte di assistere al fiotto di incarichi piovuti sull’impegnatissima quanto lamentosa maestra, sulle sue figlie, profittando di occasioni di lavoro, i cui esiti avrebbero dato origine a imbastardimento delle linee di stile, a incroci di responsabilità tali da colmare il mercato di prodotti che lo scrutinatore odierno fatica terribilmente a classificare. Artemisia e Napoli, questa la direzione di ricerca più promettente per gli anni futuri: è pacifico che un grammo di verità sarà proporzionale a una selezione a larghissimo spettro, per raggiungere il quale non ci si dovrà vergognare di esporsi alla formulazione di ipotesi la cui progressiva apostasia sarà lo scotto squisitamente tipico del processo che voglia condurci, se non al vero, almeno al più verisimile24. Artemisia, e a maggior ragione questa specialissima metropoli, valgono bene le necessarie abluzioni d’umiltà.

formulazione, per la quale l’eroina stante ostenta il trofeo affiancata da una Giuditta che anticipa o stinge già più sul Cavarozzi e sul Vouet, indaffarata col suo sacco, reca in sé – oltre alla “capace grandezza” del suo formato – clamorosa denuncia di essere oltre ogni dubbio dipinto “non fornito”. Il volto di Oloferne è disegnato a spesse pennellate negre su preparazione bruna, e anche le mani di Abra non sono compiutamente realizzate. L’identificazione storica – prescindendo dai vincoli della datazione, che la legano al 1610-11, non oltre – è nel caso sopraffatta dalla nobiltà della rappresentazione e dalla quota totalizzante (salvo, per mio conto, il sembiante della fantesca) di fisionomie e apparati tessili gentileschiani, la cui

provenienza dalla riserva paterna oppure filiale è ardua da discernere. 3. Per Cristofano padrino del figlio eponimo di Artemisia, battezzato nel novembre del 1615, si vedano Cropper 1993, pp. 760-761 e Lapierre 1998, pp. 269, 463, 466 (cfr. Appendice I). 4. J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 344-347 n. 61. Non solo per logica onomastica, si lasciano leggere in rapporto al dipinto magiaro datato 1620 tanto uno dei rari dipinti, nonché dei più rilevanti, di Sigismondo

6. Artemisia Gentileschi (?) e naturamortista napoletano, Vivandiere con ortaggi, pollame, cesti e vasellame. Valladolid, Museo Nacional Colegio de San Gregorio.

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Coccapani (Christie’s Roma, 1.12.1998, lotto 233), quanto la tela d’orbita vouettiana (Blanchard?) già presso Clovis Whitfield. 5. Ratti 1780, I, pp. 119-120, 122 (cfr. Appendice II). 6. Lo spunto, in tutto condivisibile, di Mina Gregori (1984, p. 147) è stato da par suo sviluppato da Gianni Papi (1991, pp. 49-50). 7. La relazione si afferma sul piano generale. Papi ha scorto nessi con la “quasi fiorentina” Resurrezione di Chicago, vessillifera per antonomasia di Cecco, ciò che concorderebbe con la datazione bassa, sul 1620 circa, della Lucrezia, qualunque dei Gentileschi Lomi ne sia stato responsabile. 8. Gregori 1968; M. Gregori in Civiltà del Seicento a Napoli 1984, col consenso – insieme ad altri – di Federico Zeri. 9. L’incisione del Carracci valse da modello per più figurazioni del tema in ambito emiliano, ma anche per un dignitoso dipinto di primissimo Seicento (olio su tela, cm 156,5 x 118) del senese Rutilio Manetti (Siena, Pinacoteca Nazionale: M. Ciampolini in Pitture senesi del Seicento 1989, pp. 32-34 cat. 7). 10. Come anticipato, l’iscrizione con la firma di Artemisia accompagnata dall’anno 1622 (“artemitia gentileschi lomi / faciebat: a d. m dc xxii”) venne alla luce solo contestualmente al restauro del 1995 (vedi, ultimamente, J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 355 n. 65). 11. Nottingham, Castle Museum and Art Gallery (dono di Leon H. Wilson nel 1964), olio su tela, cm 162,6 x 121,9 (Bissell 1999, p. 352 entro n. X-42, fig. 257). 12. Bissell 1999, pp. 348-353 n. X-42.

13. I medi anni Venti del Seicento sono topici anche per le formulazioni di drastici effetti luministici a fonte artificiale. Alla fluente casistica nota, cui contribuirono molti stranieri a Roma, sarà da aggiungere il notevole dipinto assegnato a Francesco Rustici (senza tuttavia convincere chi scrive; Roberto Longhi si era schierato a favore di Battistello: cfr. lo studio di Isabelle Auffret-Duriez 2001) in deposito dal Louvre al Musée de Picardie ad Amiens, San Sebastiano curato da Irene. In tale pregevole notturno (inv. MP P 300; inv. Louvre M.I. 1160, olio su tela, cm 224 x 154: Loire 2006, p. 463) la pia donna a destra si fa schermo dalla candela nei medesimi termini dell’Abra artemisiesca di Detroit. 14. Baldinucci 1845-1847, III, p. 716. Bissell (1999, pp. 47-48, 220-222 n. 15, figg. 87, 90; 2009b, pp. 180-181) ha invece letto nell’Aurora (olio su tela, cm 218 x 146) un dare e avere di stampo affatto fiorentino il cui selezionato campionario (Gregorio Pagani, Bilivert) riesce indubbiamente suggestivo e fa riflettere sull’impatto di una tale pittura, posto naturalmente che la datazione dell’archetipo della Gentileschi sia quella immaginata, sul 1625. 15. G. Papi in Artemisia 1991, pp. 154-156 n. 20.

20. Per l’associazione al nome del gigante viterbese, vedi Papi 2006; Papi 2008. Sul dipinto allegato al gruppo “Maestro della Natura Morta Acquavella” (alias Artemisia Gentileschi nel caso specifico), ma con inserto figurato del Romanelli corrispondente – giusta l’asserzione del Baldinucci (1845-1847, III, pp. 714-716) – al ritratto di Artemisia: Papi 1991, pp. 57 con fig. 46, 58, 62 note 92-94; Gregori 1990 (ma susseguente di fatto al catalogo della mostra fiorentina del 1991), pp. 104-106. 21. Causa 2007, pp. 139-140 e note 22-26, fig. 70. 22. La tela misura ben cm 154 x 206. Cfr. Pérez Sánchez in Urrea Fernández 2001. 23. Per il Causa (2007, p. 140) la parte, preponderante, appannaggio del naturamortista, va cercata nei pressi del maturo Giovanni Battista Recco. La congettura è basata sul confronto con un Interno di cucina di collezione privata, siglato “GBR”, ma ancor più con una seconda opera, una Vivandiera di raccolta napoletana – il rapporto con la quale è buono nell’insieme, dunque con estensione alle presenze femminili – col limite della perfidia della riproduzione in nero disponibile.

16. Baldinucci 1845-1847, III, pp. 712-713. 17. Bologna 1991, pp. 119 fig. 115, 147; De Vito 1999; Porzio 2007. Ancora d’orbita del “Maestro di Fontanarosa” e di Andrea Vaccaro è una seconda, sontuosa, redazione del tema del Casto Giuseppe, che conosco grazie a Marco Voena, nella cui collezione è confluita da quella di Luigi Koelliker, dov’era interrogativamente classificata sotto il nome di Artemisia. 18. Le tre/quattro tematiche oggetto di lodi poetiche oppure di menzioni inventariali – nel loro status di unici iconografici per l’artista romana – ostacolano invero il drenaggio delle nostre fauci (cfr. Appendice II).

24. Nei margini della Gentileschi vorrei rapidamente insinuare una riserva di caccia degna di miglior zoologo dello scrivente, costituita almeno dalle seguenti prede: l’Apollo che scortica Marsia di ubicazione ignota, già riferito a Francesco Guarino e classificato tra gli anonimi napoletani da Federico Zeri, e il Ratto d’Europa, rubricato sempre tra i pittori senza nome, comparso sul mercato antiquario a Imperia nel 1980-81 (olio su tela, cm 128 x 180). Il dio del primo dipinto non disdegna il paragone col David vittorioso (olio su tela, cm 202 x 137) trascorso da Sotheby’s a Londra il 9 luglio 1985 (Papi 1996, pp. 157-160), la cui così probabile paternità è stata rigettata dal Bissell (1999, pp. 313-314 n. X-8, fig. 212).

19. Cfr. Appendice II.

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Judith W. Mann

el 1610, quando debuttò ufficialmente come artista con il magistrale Susanna e i vecchioni (fig. 1) – un dipinto di qualità stellare e sorprendente forza narrativa –, Artemisia Gentileschi aveva diciassette anni e dipingeva tutt’al più da due. La tela, firmata e datata dietro la gamba destra della protagonista, stabilì che l’autrice era una pittrice in grado di trattare la forma umana. Tradizionalmente, gli artisti hanno sempre considerato il corpo umano in movimento la sfida più impegnativa che un pittore possa affrontare; e sembra quasi che la pittrice abbia scelto una posa così avvitata per il torso della Susanna seduta con la precisa intenzione di dar prova del proprio virtuosismo. Per raffigurare così abilmente la sua eroina, il cui seno e il cui addome appaiono insolitamente naturalistici, probabilmente Artemisia osservò la sua immagine riflessa in uno specchio; l’eccellente risultato ottenuto indica che si era molto impegnata nello studio della figura umana1. Si deve supporre che Artemisia abbia scelto personalmente il soggetto della Susanna, anche se non possiamo escludere che sia invece stato il padre a farlo, o qualche ignoto committente. Nel corso della sua carriera, Artemisia continuò a regalare quadri suoi a potenziali clienti nella speranza di stabilire con l’uno o con l’altro un rapporto duraturo, e questa

Artemisia Gentileschi, Danae, particolare. Saint Louis, Saint Louis Art Museum.

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giovanile Susanna potrebbe essere stata dipinta a tale scopo. In alternativa, potrebbe essere stata eseguita per essere esposta; a Roma gli artisti erano soliti esibire i loro lavori in mostre allestite in varie sedi. Il padre di Artemisia, Orazio, partecipò a una mostra al Pantheon nel 1610; forse proprio quell’occasione indusse la giovane artista a produrre, o almeno a esporre, una così brillante dimostrazione del suo talento. La scelta della storia veterotestamentaria della virtuosa Susanna non sorprende affatto, nel fervido clima religioso della Roma della Controriforma; l’episodio biblico è tra quelli che conobbero una rinnovata popolarità nel tardo Cinquecento. Il testo si trova nel libro di Daniele e riguarda la bella matrona Susanna, la quale, mentre passeggiava nel proprio giardino, fu vista e concupita a sua insaputa da due anziani. Un giorno Susanna decise di fare il bagno in giardino e dopo che ebbe mandato le ancelle a prendere olio e unguento, i due le si avvicinarono e pretesero che essa giacesse con loro, minacciando che l’avrebbero denunciata, dicendo di averla vista insieme a un giovane amante, se si fosse rifiutata. Susanna li respinse e i vecchi, come avevano promesso, l’accusarono falsamente. Alla fine Daniele li interrogò separatamente, e dato che alcuni particolari dei loro resoconti non collimavano, capì che avevano mentito e li condannò a morte. La genialità di Artemi-

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sia, già evidente in questo dipinto giovanile, sta nel suo modo particolare di sintonizzarsi sui dettagli della narrazione e nell’abilità di strutturare la rappresentazione così da ampliarne al massimo l’impatto emotivo. Impiegando un formato verticale e collocando i vecchioni in modo che sembrino schiacciare Susanna (la loro massa scura è letteralmente sopra la testa della nuda eroina), Artemisia realizzò quella che a tutt’oggi è la rappresentazione più convincente del disagio psicologico di Susanna; il muro compatto dietro di lei, senza un’apertura come possibile via di fuga, accresce la sensazione di intrappolamento2. È significativo che pochi altri artisti abbiano raffigurato l’eroina nell’atto di immergere effettivamente un piede nell’acqua; di solito la fontana è lì soltanto come simbolo del giardino del desiderio erotico. Qui Susanna voleva veramente fare un bagno, ed è stata interrotta e affrontata dai due intrusi durante un suo momento privato. Artemisia, con un colpo di genio, ha conglobato i due vecchioni in un’unica forma greve e massiccia, per cogliere un elemento essenziale della narrazione: solo complottando insieme, infatti, i due riescono a minacciare Susanna. Quando vengono separati e interrogati singolarmente, si scopre l’inganno e la donna è salva. Artemisia rivela il suo talento narrativo anche nell’adattamento del gesto della mano di Susanna. Mary Garrard è stata la prima a notare che la sua posa è ispirata a una figura femminile su un sarcofago romano del II secolo, in cui è raffigurata la storia di Oreste3. È più probabile che Artemisia abbia preso a modello l’Adamo michelangiolesco cacciato dal Paradiso nel soffitto della Sistina (derivato anch’esso dallo stesso sarcofago), che fa quel gesto per difendersi dall’angelo vendicatore, con una funzione analoga al rifiuto, da parte di Susanna, di cedere alle pretese dei vecchioni. Artemisia forse non vide mai personalmente la cappella Sistina, ma è probabile che ne conoscesse l’iconografia da un’incisione; gli artisti dell’epoca potevano facilmente procurarsi riproduzioni a stampa del ca-

polavoro di Michelangelo4. Benché il gesto di Susanna non abbia la forza necessaria per opporsi fisicamente agli assalitori, esso comunica in modo visivamente molto efficace l’angoscia dell’eroina, nel momento in cui essa si rende conto di essere impotente nei loro confronti. La Susanna di Artemisia rivela strette affinità stilistiche con l’opera del padre Orazio, il cui Davide che contempla la testa di Golia fu dipinto più o meno nello stesso periodo5 (fig. 2). In entrambe le tele sono presenti la sottile ombreggiatura nell’incarnato delle braccia e delle cosce, il naturalismo esasperato di certi dettagli come il gradino di pietra incrinato dietro Susanna o la morbida pelle lanuta che indossa Davide, e la vivida descrizione dei particolari anatomici. Orazio era

1. Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni. Pommersfelden, Stiftung Schloss Weissenstein. 2. Orazio Gentileschi, Davide con la testa di Golia. Roma, Galleria Spada.

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artemisia gentileschi nella roma di orazio e dei caravaggeschi: 1608-1612

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giunto a Roma verso la fine degli anni Settanta del Cinquecento, portandovi uno stile ancora impregnato dei principi manieristi della sua Toscana natale: composizioni intricate con figure compresse in spazi poco profondi e pose artificiose, e un disegno non sempre accurato. I dipinti di Caravaggio nelle cappelle Contarelli e Cerasi fecero una profonda impressione su Orazio e lo indussero a ripensare completamente il suo stile. L’impiego, da parte di Caravaggio, di forti lumeggiature e ombreggiature profonde per suggerire le forme, la sua scelta di modelli non idealizzati osservati di prima mano e la sua attenzione alle trame e ai dettagli di superficie offrirono a Orazio nuovi spunti per la sua evoluzione artistica. Verso la metà del primo decennio del Seicento Orazio usava modelli di studio e aveva adottato uno stile pittorico in cui l’osservazione attenta, l’evocazione di trame di superficie e l’uso della luce diretta per accarezzare e definire le forme erano diventati altrettante costanti del suo lavoro 6. Fu per mezzo di Orazio che Artemisia arrivò a comprendere e ad adottare il severo naturalismo di Caravaggio. Gli anni di apprendistato di Artemisia coincisero con il periodo in cui Orazio recepì con maggiore attenzione il mondo naturale, com’è evidente nella fisionomia individualizzata e nella resa particolareggiata degli abiti della sua Madonna col Bambino del 1609 (fig. 3). In verità, la chiave del disagio che Artemisia riesce abilmente a trasmettere nella sua interpretazione della vicenda di Susanna sta proprio nello spietato naturalismo della sua rappresentazione del nudo femminile. L’artista ha evitato di dipingere un’immagine suggestiva di erotismo femminile o un modello idealizzato di perfezione, raffigurando il ventre arrotondato, il seno leggermente pendulo e le cospicue cosce di Susanna. La risposta di Artemisia all’ambiente artistico romano improntato da Caravaggio fu il suo tentativo di definire il proprio stile narrativo in termini audaci e intransigenti come questi, anche se Caravaggio, nello specifico, non dipinse mai nudi. Il raffinato trattamento del corpo femminile in questo dipinto giovanile solleva la questione dell’eventuale impiego di disegni da parte di Artemisia. Non sappiamo se nella bottega dei Gentileschi si facesse uso di schizzi preparatori, per esercizio o come fasi preliminari nella creazione di composizioni. Caravaggio molto probabilmente non li usava per le sue commesse su larga scala, benché alcuni contratti prevedessero la

3. Orazio Gentileschi, La Vergine che allatta il Bambino. Bucarest, Muzeul National de Arta de României.

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presentazione di disegni; la maggior parte degli studiosi concorda con Walter Friedlaender, il quale sostiene che egli evitasse il procedimento, più monotono, delle prove preliminari, preferendo invece comporre e rivedere direttamente sulla superficie dipinta7. Tuttavia, quasi tutti gli altri pittori suoi contemporanei si affidavano ai disegni preparatori, comunemente in uso nelle botteghe cinquecentesche, anche se è probabile che molti dei seguaci di Caravaggio ne facessero a meno. Le prove a favore dell’impiego di disegni nella bottega dei Gentileschi sono contraddittorie. Nel corso degli anni, alcuni disegni sono stati attribuiti alla mano di Orazio; una Testa di giovane uomo ha ottenuto forse il maggior consenso tra gli studiosi8. Essa fa pensare che, se è vero che Orazio era solito disegnare, i suoi schizzi venissero conservati in bottega e riutilizzati, dato che la stessa testa compare in diversi suoi quadri, e Keith Christiansen ha accertato l’impiego della tecnica del ricalco in dipinti di Orazio eseguiti negli anni Venti del Seicento9. L’unica prova sicura che attesta che Artemisia faceva uso di disegni reca una data molto tarda nella carriera della pittrice; si tratta di una lettera del 13 novembre 1649, in cui essa scriveva a don Antonio Ruffo in Sicilia: “che poi voglia far disegno e mandarlo io ho fatto voto solendissimo di non mandar mai più disegni de mio, perché mie stato fatto belissime burle et in particolare hoggi al presente, mè ritrovo haver fatto un desegno dell’anime del purgatorio al Vescovo di S.ta Gata il quale disegno per spuender manco lo fanno fare a de un altro pittore, e quello pittore laddove sopra le fatiche meie”. In ogni caso, non ci è pervenuto nessun disegno di sua mano, ma è difficile immaginare che abbia potuto rappresentare il corpo di Susanna con tanta finezza senza schizzi preliminari. Artemisia era in grado di imitare così bene lo stile paterno che dipinti chiave risalenti ai primi anni del Seicento sono stati in momenti diversi attribuiti a lei o a Orazio. In verità, autori precedenti hanno supposto che Artemisia non fosse l’autrice della Susanna, anche perché un tempo si pensava che la pittrice fosse nata nel 1597; in questo caso, il quadro sarebbe stato eseguito nella sua prima adolescenza10. Certo il padre guidava e dirigeva da vicino la carriera di Artemisia, e dobbiamo supporre che, nella speranza di promuovere e consolidare la reputazione della figlia tra i romani suoi contemporanei, egli possa averla aiutata a completare questa importantissima dimostrazione11.

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artemisia gentileschi nella roma di orazio e dei caravaggeschi: 1608-1612

La tecnica di Artemisia era la stessa del padre, ma la sua mentalità era completamente diversa. Lo si capisce bene osservando la Madonna col Bambino di Orazio del 1609 (ora a Bucarest). Il dipinto raffigura una madre che allatta il suo bambino; la tenue aureola d’oro che le circonda il capo la identifica come la Vergine Maria. Anche il piccolo Gesù ha tutti gli annessi e connessi del caso. Orazio ha saputo cogliere l’espressione rigida e trasognata dei bimbi molto piccoli, e sicuramente aveva notato come i neonati intenti beatamente a succhiare tendano a scalciare con i piedini serrati. Il lattante succhia così vigorosamente da schiacciare il seno della madre contro il torace di lei, deformandolo; tuttavia, un bimbo così piccolo potrebbe esercitare una simile pressione solo se gli si

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sostenesse la testa. Nell’immagine, così come Orazio la concepì, non è stato previsto alcun sostegno per il capo del neonato, e la mano materna, invece di sorreggerlo, pende mollemente. Benché Orazio studiasse modelli dal vivo e fosse in grado di cogliere singoli elementi dell’anatomia umana, raramente dipingeva nudi; quando lo fa, la figura risulta frettolosa e semplificata e non sembra corrispondere a un serio tentativo di riprodurre le caratteristiche di un corpo reale. Il Davide con la testa di Golia (fig. 2) rivela le sue debolezze come anatomista. Benché alcune singole parti del corpo di Davide siano ben modellate, con una muscolatura credibile, non per questo esse compongono un insieme riuscito; i fianchi sono troppo larghi e la coscia sinistra non sembra attaccata all’anca. La goffa disposizione del seno della Vergine nella Madonna col Bambino di Bucarest dimostra che egli non aveva studiato il nudo femminile. In considerazione della scarsa abilità di Orazio nel dipingere il nudo, viene da chiedersi se sia stato lui a incoraggiare Artemisia a sviluppare tale capacità; sicuramente si rese conto del vantaggio di avere in bottega un secondo artista in grado di produrre quadri da cavalletto per acquirenti privati, e forse anche del richiamo esercitato su potenziali collezionisti di ignude dall’idea che queste fossero eseguite da un’artista donna. Verso la metà degli anni Novanta del Cinquecento, Orazio aveva partecipato a commesse per San Giovanni in Laterano, per il Vaticano, e per Santa Maria Maggiore, quantunque sempre sotto la direzione di altri artisti con agganci migliori dei suoi. In risposta al contatto con il drammatico naturalismo di Caravaggio, egli stava sviluppando un nuovo stile, che espresse in pale d’altare molto belle e di grande effetto per chiese a Roma e nelle Marche. Il fatto di avere una figlia capace di creare quadri da cavalletto raffiguranti storie popolari e riusciti nudi femminili avrebbe sicuramente accresciuto il suo successo. Nonostante questo, l’impresa realizzata da Artemisia nel 1610 è notevole, tanto che ci si chiede come abbia sviluppato una tale abilità a un’età così precoce. Come solevano fare i ragazzi che volevano diventare artisti, probabilmente Artemisia

4. Artemisia Gentileschi, Allegoria della Pittura. Ubicazione ignota.

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cominciò a dare una mano in bottega quando aveva undici o dodici anni (1604-05), imparandovi le innumerevoli mansioni associate al mestiere di pittore. Dato che collocare una fanciulla come apprendista in una bottega tutta maschile costituiva un problema, le ragazze che non fossero figlie di pittori difficilmente ricevevano l’istruzione necessaria a perseguire una carriera artistica. La madre di Artemisia, Prudenzia, morì nel 1605; in quanto figlia maggiore e unica femmina, in quel momento Artemisia avrà preso sulle sue spalle buona parte delle faccende domestiche di casa Gentileschi. In un’epoca in cui non esistevano materiali pronti all’uso, quasi tutto ciò che serviva per creare un dipinto veniva preparato in bottega. Nel decennio tra il 1600 e il 1610, il lavoro di Orazio richiedeva

5. Caravaggio, Giuditta e Oloferne. Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini.

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che egli si assentasse ogni giorno da casa, ma sappiamo che nel corso di quegli stessi anni a casa Gentileschi furono consegnate forniture da pittori, il che fa supporre che Artemisia fosse in qualche modo attivamente impegnata nella pittura. Quantunque, all’inizio, il suo contributo si limitasse presumibilmente a macinare colori, fabbricare pennelli, mescolare tinte e preparare superfici, nel 1608-09, data del suo primo quadro conosciuto (fig. 4), Artemisia doveva aver già cominciato a studiare la propria faccia e con ogni probabilità anche il proprio corpo. Nel 1612, Orazio così scrisse della figlia alla granduchessa madre di Toscana: “Questa femina, come è piaciuto a Dio, avendola drizzata nella professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso ardir

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de dire che hoggi non ci sia pare a lei, avendo per sin adesso fatte opere che forse i principali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”12. Pur ammettendo una lieve esagerazione da parte di un padre orgoglioso e pragmatico, desideroso di procurare commesse alla figlia artista, la maggior parte degli studiosi ha accettato la sua datazione al 1608-09 per il primo lavoro dipinto da Artemisia: si tratta di una tavoletta (la cui attuale collocazione ci è ignota) che faceva parte di una coppia raffigurante La Pittura e La Poesia, di proprietà del collezionista romano Alessandro Biffi13. In un inventario del 1637, redatto quando Biffi dovette vendere la sua collezione per estinguere un debito, compaiono due piccoli ovali con due teste che rappresentano la Pittura e la Poesia, “di mano di Artemisia”. Benché l’immagine della Poesia non sia mai stata rintracciata, l’ovale in esame deve rappresentare la Pittura e corrisponde alla descrizione dell’allegoria che ne fa Cesare Ripa nella sua Iconologia del 1603: “Donna, bella, co’ capelli negri, e grossi, sparsi, e ritorti in diverse maniere, con le ciglia inarcate, che mostrino pensieri fantastichi; si copra la bocca con una fascia legata dietro a gli orecchi, con una Catena d’oro al collo, dalla quale penda una Maschera, e habbia scritto nella fronte Imitatio. Terrà in una mano il Pennello, e nell’altra la tavola”14. Artemisia ha dipinto il pennello, la tavolozza, la maschera appesa a una catena d’oro, la chioma in disordine e le sopracciglia severamente inarcate. I tratti del volto coincidono con quelli, che ora ci sono familiari, del viso di Artemisia: grandi occhi, bocca a cuore, mento importante e carnoso, capelli ramati. La modella è molto più giovane delle immagini dell’artista che ci sono note, accreditando una precoce datazione del quadretto agli esordi di Artemisia. La tavoletta mostra molta più scioltezza nel trattamento del volto e della mano che in quello del panneggio, indicando che la giovane Artemisia si era concentrata sulla forma umana, e molto probabilmente sullo studio del proprio corpo – il che spiegherebbe come possa avere realizzato un lavoro impegnativo come la Susanna e i vecchioni solo un paio d’anni dopo. Tale abilità è efficacemente dimostrata dai pochi esempi finiti a noi pervenuti di figure femminili in movimento o sdraiate databili al primo periodo trascorso da Artemisia nella bottega del padre. La produzione artistica giovanile della pittrice è stata oscurata da quello che diventò l’evento determinante della sua giovinezza, ossia lo stupro da parte di Ago-

stino Tassi, un collega del padre. Nella primavera del 1612, Orazio Gentileschi presentò una petizione alla corte papale accusando il Tassi di aver deflorato con la forza Artemisia nel maggio 1611, quando, giunto a casa Gentileschi in assenza di Orazio, si era introdotto nella camera della giovane e l’aveva violentata. Il processo che seguì si svolse al termine di un anno di calvario, che portò alla luce la doppiezza della vicina e amica dei Gentileschi “Donna Tuzia, moglie di Stefano Medaglia”, gli intrighi nascosti e i difficili rapporti tra Orazio e molte delle sue conoscenze, e anche la perdita di un dipinto della Giuditta biblica. Alla fine Tassi fu riconosciuto colpevole e condannato all’esilio, ma non scontò mai la pena15. Durante e dopo il processo, Artemisia continuò a sperimentare e a sviluppare i suoi mezzi artistici, creando dipinti che rivelano il suo interesse per la narrazione. Uno dei primi lavori che affrontò dopo lo stupro fu la Giuditta che decapita Oloferne ora al Museo di Capodimonte a Napoli (cat. 10). Esiste una vasta letteratura che associa il dipinto all’esigenza emotiva di vendetta, da parte di Artemisia stessa, nel periodo immediatamente successivo alla violenza subita, ma ciò che è veramente notevole è l’approccio logico e metodico con cui la giovane pittrice affrontò una delle sfide più impegnative per un artista, ossia la resa della figura umana in azione. La maggioranza dei pittori che avevano dipinto la storia della bella vedova Giuditta e del generale assiro Oloferne aveva scelto di rappresentare la fase successiva al taglio della testa, in cui Giuditta e la sua ancella cercavano di fuggire portandosi via il loro trofeo. Quel momento era indubbiamente ricco di potenziale drammatico, ma era anche più facile; rappresentare scene d’azione era molto più difficile. Per questo motivo, molti autori hanno ipotizzato che Artemisia si sia ispirata alla Giuditta di Caravaggio (fig. 5)16; con la loro cruda ostentazione del sangue, i dipinti di Caravaggio e di Artemisia sono forse le due raffigurazioni più violente dell’episodio di Giuditta. Tuttavia, Artemisia potrebbe benissimo essere arrivata alla sua interpretazione senza basarsi su quella di Caravaggio, giacché la sua tela mostra proprio come due donne possano, unendo le loro forze, sopraffare un soldato muscoloso, e quella di Caravaggio no. Dopo tutto, non è nemmeno sicuro che Artemisia conoscesse il dipinto caravaggesco. In effetti, valutare l’impatto su di lei di qualunque artista attivo a Roma all’epoca è più difficile di quanto sarebbe se fosse stata un uomo. La Roma

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tardocinquecentesca era una città vivace, plasmata dal fervore della riforma cattolica, dalla visione urbanistica di vari papi potenti e dai gusti di alcune famiglie influenti. Con una popolazione di quasi 110.000 abitanti, la città stava trasformandosi, passando da una configurazione medievale con strade strette, prospettive limitate e rioni angusti a un ambiente urbano più strutturato, con ampie vie principali inframmezzate da piazze accuratamente progettate, chiese rimesse a nuovo e sontuosi palazzi. Tutta questa energia e creatività, però, si manifestava anche in altri modi, meno rispettabili. La città era una calamita per gli immigrati, i quali spesso vi si trasferivano senza mogli. Per questo motivo, e per l’alto numero di ecclesiastici, Roma aveva un’ampia popolazione maschile, che manteneva una comunità considerevole di prostitute. Questa popolazione temporanea portava in città un gran numero di mendicanti e ladruncoli, e molte zone erano infestate dalla violenza e dalla delinquenza. Nell’area compresa tra Castel Sant’Angelo

6. Artemisia Gentileschi (da Orazio Gentileschi), Cleopatra. Collezione privata.

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e la chiesa di Trinità dei Monti vivevano molti artigiani immigrati, tra cui una vasta comunità di artisti stranieri (pittori, scultori, orafi e intagliatori) provenienti dalle Fiandre, dalla Spagna e dalla Germania, oltre che da altre regioni e città d’Italia, tra cui Bologna, Milano, Napoli, Genova e Venezia; era in quel quartiere che abitavano i Gentileschi. Le vie di Roma presentavano molti pericoli per le giovani donne sole, perciò Orazio, nel tentativo di proteggere la figlia da simili insidie, limitò i movimenti di Artemisia. La famiglia Gentileschi fece amicizia con una vicina, Tuzia, la quale, al processo per stupro contro il Tassi, descrisse il proprio ruolo di vigilanza nei confronti della giovane: “Il signor Horatio quando si partiva sempre mi raccomandava questa figliola ch’io gli havessi cura e che gli sapessi dire le genti che capitavano in casa”17. Tuzia accompagnava spesso Artemisia nelle sue uscite, in veste di chaperon. Le testimonianze presentate al processo dimostrano chiaramente che la ragazza non girava liberamente per la

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città, ma si muoveva solo debitamente scortata; il resoconto, pure tra gli atti del processo, di una visita a Orazio, effettuata quando egli stava lavorando al Quirinale, indica che tali escursioni erano rare. Da tutto questo si deduce che Artemisia usciva assai poco di casa, in genere per andare in chiesa o per speciali occasioni liturgiche. Fu cresimata in San Giovanni in Laterano; inoltre assistette a funzioni e celebrazioni solenni in Santo Spirito, Sant’Onofrio e San Carlo ai Catinari. Tutte queste chiese erano state beneficate da potenti mecenati, i quali avevano commissionato decorazioni dipinte di vario genere; molte erano in corso di trasformazione durante l’infanzia di Artemisia, quindi essa probabilmente conosceva le opere d’arte che le adornavano. Tuttavia, in generale non si può presumere che Artemisia avesse una conoscenza di prima mano di tutti i tesori di Roma, e nemmeno di molti di essi. A dispetto delle sue traversie – prima lo stupro, poi il processo – e delle poche opportunità che aveva per studiare ciò che la sua città natale poteva offrirle, Artemisia eseguì alcune delle sue opere migliori proprio nel 1611-12. Oltre alla Giuditta che decapita Oloferne, creò la sua notevole Cleopatra (fig. 6), una drammatica rappresentazione della regina egiziana pochi attimi prima del suicidio, lunga circa m 1,80; l’ardita immagine raffigura una donna completamente nuda, sdraiata su un drappo di velluto sensualmente morbido18. L’uso della stessa posa nella più piccola Danae su rame attesta il favore di cui tale posa godeva. Artemisia dipinse anche due Madonne col Bambino, ma nessuna delle due rivela l’attenzione per la

forma anatomica o per l’invenzione narrativa che caratterizza gli altri suoi dipinti di questo periodo19. Peraltro, le opere sopravvissute costituiscono solo una visione parziale degli anni formativi di Artemisia sotto la guida di Orazio; non sarebbe corretto né sensato cercare di ipotizzare che essa dipingesse solo storie a tinte forti, nudi femminili o seducenti eroine. La lettura della carriera di Artemisia è già stata limitata da simili aspettative, che hanno talora impedito di riconoscere la sua mano in quadri il cui soggetto non rientrava in questa lista 20. In ogni caso, bisogna anche considerare che, quando dipingeva soggetti di quel genere, Artemisia attingeva soprattutto ai propri mezzi e alla propria immaginazione narrativa, e che era straordinariamente attenta all’osservazione. Nell’ottobre 1612, subito dopo il processo per stupro, Artemisia sposò il fiorentino Pietro Antonio (noto come Pierantonio) di Vincenzo Stiattesi; il matrimonio ebbe luogo nella chiesa romana di Santo Spirito in Sassia, al di là del Tevere e vicino alla basilica di San Pietro, a un isolato o due di distanza dal domicilio famigliare. Il 10 dicembre 1612, il marito diede una procura al fratello Giovanni Battista, molto probabilmente in vista della partenza della coppia da Roma per Firenze, dove arrivarono verso la fine del 1612 o all’inizio dell’anno successivo, e dove ebbe inizio la successiva fase importante della carriera della pittrice. Negli anni fiorentini Artemisia produsse risultati notevoli, ma i dipinti del suo primo periodo romano costituiscono alcune delle imprese più originali della sua vita. (Traduzione Arianna Ghilardotti)

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1. Alcuni autori, peraltro, hanno visto nella ricercatezza della Susanna una prova dell’intervento, più o meno esteso, di Orazio nel dipinto. Per esempio, si veda R.W. Bissell in Artemisia Gentileschi 2005, pp. 19-20. 2. Questo elemento può essere stato ispirato dall’immagine di Susanna dipinta da Baldassarre Croce nel suo ciclo di affreschi nella chiesa romana di Santa Susanna. 3. Si veda Garrard 1989, pp. 196-197. 4. Sulle stampe che riproducono gli affreschi della Sistina, si veda Moltedo 1991, pp. 43-44. 5. Si veda Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 101-104 n. 18.

10. Sulla modifica della data di nascita di Artemisia, si veda Garrard 1989, pp. 183-184. 11. Keith Christiansen, durante la mostra Gentileschi 2001/2002, mi ha fatto notare come l’acqua della fontana che lambisce la panca di pietra sia stata eseguita in una sola pennellata, come avrebbe potuto fare qualcuno con anni di mestiere alle spalle, deducendone che la tela potrebbe essere stata dipinta dal padre. 12. La lettera, datata 3 luglio, è riportata in Tanfani Centofanti 1897, pp. 221-224. 13. Su Biffi, si veda Vicini 2000. 14. Ripa 1603 ed. 1986, II, p. 357.

6. Oltre alla testimonianza visiva dei quadri stessi, in un famoso passo de gli atti del processo per diffamazione del 1603 in cui Caravaggio e Orazio furono accusati dall’artista Giovanni Baglione di diffondere versi spregiativi, Orazio testimoniò di aver prestato attrezzi da bottega (un saio francescano e ali piumate da angelo) a Caravaggio. Si veda Bissell 1981, 15; sugli atti del processo, 83, n. 9.

15. Non sorprende che Tassi sia stato riconosciuto colpevole, e condannato (il 27 novembre); il giudice Gerolamo Felice gli impose di scegliere tra cinque anni di lavori forzati e l’esilio da Roma. Tassi scelse l’esilio, anche se rimase in città fino all’aprile 1613, quando riuscì, probabilmente grazie all’intervento di qualche suo committente altolocato, a far annullare la sentenza. Si veda P. Cavazzini in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 287.

7. Si veda per esempio Hibbard 1983, pp. 29 nn. 91, 119-120.

16. Si veda J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 308.

8. Si veda Bissell 1981, p. 111. 9. K. Christiansen in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 21-33. L’impiego di disegni nella bottega di Orazio è accreditato dalla testimonianza al processo per stupro di Niccolò Bedino, il quale parlò di disegni eseguiti da Orazio per il suo lavoro al Quirinale per il nipote di papa Paolo V, Scipione Borghese.

19. Madonna col Bambino, 1610-11, Galleria Spada, Roma (inv. 166), riprodotta in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 301; e Madonna col Bambino, 1610, Palazzo Pitti, Galleria Palatina (inv. 2129), che prima della mostra del 2001/2002 Orazio and Artemisia Gentileschi: Father and Daughter Painters non era accettata da un certo numero di studiosi, benché sia Bissell 1999, pp. 184-187 n. 1, sia R. Contini in Artemisia 1991, pp. 135-138 n. 14, l’avessero attribuita ad Artemisia. Christiansen 2004, grazie ai raggi X, scoprì sotto il dipinto della Galleria Spada una composizione pressoché identica a quella di Palazzo Pitti, il che fa pensare che l’artista avesse creato il quadro della Spada partendo da quel modello precedente. Entrambi si attengono a un formato standard, e benché ciascuno dei due contenga alcuni elementi di osservazione diretta, tra cui il seno realistico che ci siamo abituati ad associare allo stile di Artemisia, la Madonna romana dà l’impressione di derivare dallo studio dell’interazione tra un bimbo e sua madre. In ogni caso, entrambi i dipinti sembrano essere stati realizzati molto più velocemente, senza l’attenzione e la riflessione che caratterizzano le opere di genere narrativo. 20. Un caso esemplificativo è un dipinto, un tempo di proprietà del Metropolitan, che non aveva un’attribuzione prima di essere alienato negli anni Ottanta: si tratta di una raffigurazione del Sinite parvulos venire ad me, in cui appare un Cristo barbuto. Il mancato riconoscimento della paternità del quadro derivava in parte dalla scarsezza di tipi maschili conosciuti nell’opera di Artemisia, in un momento in cui il Lot e le sue figlie di Toledo non veniva accettato come suo e la Corisca e il satiro non era stata ancora pubblicata. Si veda Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 380 fig. 132.

17. La testimonianza di Tuzia fu resa il 2 marzo 1612. Si veda Menzio 2004, p. 27. 18. Sulla pittura di nudo e sulle sue implicazioni per una giovane donna come Artemisia, si veda E. Cropper in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 271-278.

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“ di u n t u ono e di u na eviden z a c h e spira t errore ” artemisia gentileschi a firenze: 1612-1620

Rodolfo Maffeis

Femina di sé ornata

agliente, nel diario di viaggio del 1826 Stendhal: “Afin que l’Italie offrit tous les contrastes, le ciel a voulu qu’elle eût un pays absolument sans passions: c’est Florence”, con un paragone in parte ovvio e in parte provocatore: “Bologne a du caractère et de l’esprit. à Florence, il y a de belles livrées et de longue phrase. [...] En arrivant de Bologne, ce pays des passions, comment n’être frappé de quelque chose d’étroit et de sec dans toutes ces têtes?”1 E... en arrivant de Rome? Come si conciliano le teste strappate segando i colli fibrosi con le spade, che sprizzano sangue come tubature in pressione, i seni che scoppiano nei corpetti, i nudi biondi fra le pareti di tenebra e i velluti rossi: il Caravaggio femmina? A un primo sguardo, il carattere di Artemisia Gentileschi appare del tutto inconciliabile con gli orientamenti della coeva pittura nella sede granducale, che negli anni Dieci del Seicento è in uno dei suoi punti di minore consistenza intrinseca, sebbene – o forse proprio per questo – un sovrano con un gusto spiccato per la pittura caravaggesca incamerasse entro la fine del decennio diversi straordinari pezzi di quella scuola: Manfredi, Hontorst, Cavarozzi, Battistello e – appunto – Artemisia2. Gli studi recenti dedicati ad Artemisia e segnatamente alla precisazione delle sue vicende biografiche, allo sviluppo del suo stile e all’ac-

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crescimento dei suoi riferimenti culturali – non soltanto figurativi – durante il periodo fiorentino sono venuti proponendo una ricostruzione più articolata di questa esperienza, facendo emergere numerosi elementi che modificano in parte l’istintiva impressione di reciproca impermeabilità fra la pittrice e l’ambiente che la riceve3. Artemisia viene portata a Firenze da Pier Antonio Stiattesi, sposato nella chiesa romana di Santo Spirito in Sassia il giorno dopo l’emissione della condanna del suo stupratore Agostino Tassi, il 29 novembre 1612. Il 10 dicembre il marito firma una procura al fratello – il notaio di Orazio Gentileschi Giovan Battista Stiattesi (che tanta parte aveva avuto nel processo come, verosimilmente, nella composizione del matrimonio) – affidandogli la tutela dei propri affari in Roma: passo preliminare al trasferimento della coppia a Firenze. Ci sono due leggere sfocature documentarie sul principio e il termine del periodo fiorentino di Artemisia, ma si può affermare che sia giunta nella città natale del marito fra la fine del 1612 e il principio dell’anno successivo, all’età di 19 anni, e vi sia rimasta per circa otto anni, tornando a Roma quando ne aveva ormai compiuti 27, nel corso del 16204. In questo periodo Artemisia ebbe quattro figli, due maschi e due femmine, di cui solo una – Prudenzia, dal nome della madre di cui Artemisia

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come suonatrice di liuto, particolare. Minneapolis, Curtis Galleries.

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“di un tuono e di una evidenza che spira terrore”. artemisia gentileschi a firenze: 1612-1620

era rimasta orfana a dodici anni – sopravvisse all’età infantile, e seguì la madre a Roma e a Napoli, da cui la pittrice spicca nel 1636 una lettera che ne menziona l’imminente matrimonio. Gli altri tre figli, Giovan Battista, Cristofano – dal nome del padrino Cristofano Allori – e Lisabella – da quello della madrina, moglie di Jacopo Cicognini – morirono nella città dove erano nati5. La vita che condusse ci appare costellata da assillanti problemi di denaro, debiti contratti con farmacisti, carpentieri e bottegai (con le conseguenti cause intentatele attraverso l’Accademia del Disegno) ma anche nei confronti di committenti come Michelangelo Buonarroti il Giovane e il granduca stesso, a seguito dell’accumulo di acconti e prestiti sulle opere da eseguire6. D’altro canto la pittrice risulta in relazioni di lavoro che si evolvono con apparente facilità in relazioni confidenziali con quei medesimi committenti, esponenti di ranghi sociali incomparabilmente più elevati del suo, e nel 1616 viene immatricolata – prima donna a esserlo7 – all’Accademia del Disegno. Le difficoltà economiche e coniugali da lei stessa esplicitamente richiamate in una ormai celebre lettera a Cosimo II stilata il 10 febbraio 1620 (“molte mie indispositioni passate alle quali si sono giunti anche non pochi travagli della mia casa e famiglia”) la porteranno in quel tempo ad abbandonare per sempre Firenze, facendo ritorno a Roma, inizialmente forse per un periodo interlocutorio (“me la passerò colà tra miei per qualche mese”) e poi con una residenza fissa dal marzo 16218. Ogni biografia ha in sé una parte di calcolo e una di fatalità. In un saggio eccellente, Elizabeth Cropper ha svincolato la pittura – intesa propriamente come il lavoro di Artemisia – dall’ombra lunga della fatalità9. “Perché il principio è davvero troppo sconvolgente”10 e distorce la prospettiva di una intera vita professionale inchiodandola anche quando lei dipingerà a Firenze, Venezia, Napoli, e Londra, laggiù in quella camera romana della sua adolescenza, a quel pomeriggio di pioggia, alla lotta furiosa, al fazzoletto alla bocca, al sangue e al coltello11. I due elementi, lo stupro e la pittura, erano troppo collimanti per non illuminarsi (e oscurarsi) a vicenda. Riportare al centro del diagramma dei valori storico-artistici (ma anche semplicemente biografici) l’intera carriera di Artemisia e marginalizzare l’impatto dello stupro subìto a diciassette anni nel cerchio ristretto e mortificante della rude tutela paterna dopo la morte della madre e delle misere condizioni di quel che restava della famiglia, era indispensabile per rendere giustizia sia della

tensione biografica di una donna che nella marcatura dell’indagine documentaria appare continuamente vigile, acuta e in movimento (e capace di agganci e relazioni con personaggi di spicco della cultura e della politica non solo italiane), sia della duttilità di una parabola artistica che si tinge dei diversi lessici delle città in cui risiede, e direi anche dei settori di committenza con cui entra in contatto. Keith Christiansen ha paragonato senza mezzi termini il suo modo di entrare in sintonia con la cultura figurativa del luogo in cui si trova a lavorare al mimetismo di un “camaleonte”12. Ma prima delle modalità secondo le quali Artemisia lavora è fondamentale affermare che: “Quel che la rendeva diversa dalle altre donne è proprio il lavoro, ed è questo l’elemento davvero decisivo in tutta la sua vita”13. Un lavoro che Artemisia concepì e fu in grado di condurre, proprio a partire dall’autodeterminazione che si diede durante il periodo fiorentino, in modo tale da ottenere in vita una fama quasi leggendaria: “e a partire dalla sua esperienza fiorentina si formò lo stile che la rese famosa”14. L’idea è che l’ambiente fiorentino, con la sua accoglienza professionalmente morbida, la totale assenza di concorrenti del suo livello e l’interesse di una committenza molto colta (Buonarroti) o al vertice della piramide sociale (Cosimo II), sia stato l’alveo della formazione “politica” di Artemisia, che vi giunse dotatissima ma umiliata e inconsapevole. Come in una lunga convalescenza in cui, insieme al recupero delle forze, si acquista coscienza di sé, Artemisia avrebbe vissuto una progressiva emancipazione a contatto con un milieu artistico dalle connotazioni radicalmente diverse rispetto a quello del caravaggismo romano, e avrebbe raggiunto la consapevolezza di dove i suoi mezzi – letteralmente eccezionali – di pittrice avrebbero potuto collocarla nella società italiana (ma a tratti pensò e agì anche in prospettiva europea) del Seicento. Ora, l’ironia – ma è fatalità – della sorte, fu che allora come oggi la sua fama fosse legata alla formulazione di una iconografia femminile di bellezza, protervia e violenza sino ad allora inimmaginate. Vale a dire proprio di quegli elementi di cui era fatta la sua caduta iniziale. Per quanto dal punto di vista del lavoro, del calcolo, opere molto importanti siano state l’Annunciazione del 1630 oggi a Capodimonte – ma in origine destinata a una chiesa – o le due pale d’altare con i Santi Procolo e Nicea e San Gennaro all’anfiteatro per la cattedrale di Pozzuoli del

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1636-37, tutti noi sappiamo quali sono i quadri sui quali si basa l’identificazione iconica di Artemisia. È banale, ma è pur vero ed è stato rimarcato15 come, in fin dei conti, i committenti e i collezionisti che ella raggiunse nella sua carriera abbiano continuato a vedere nelle sue Susanne e nelle sue Giuditte corpulente ed energiche, interamente nude o ampiamente scollate, l’autoritratto dell’artista. E nessuno può dubitare della consapevolezza di Artemisia di questo “patto con il lettore”. E oggi? Vorrei sapere quanti anche fra gli specialisti, osservando il disegno di Pierre Dumonstier del 1625 che ritrae la mano destra di Artemisia che regge il pennello fra il pollice e l’indice, sottoscritto di elogio accademizzante con paragone mitologico di prammatica, hanno potuto fare a meno di pensare alla tortura dello schiacciamento dei pollici cui Artemisia fu sottoposta durante il processo per attestare la veridicità delle sue accuse16. Il riferimento personale, sessuale, scandalistico è sempre in agguato dietro l’opera di Artemisia e se ne trova spunto persino in un’apologia, topica e letteraria, come quella di Dumonstier. In senso più ampio fu lei stessa a giocare una ambigua partita (ma poteva fare diversamente?) nel sottile equilibrio fra l’affermazione della qualità assoluta della sua pittura – con ciò intendendo: una pittura non differenziata o depotenziata da distinzioni di genere (“ritrovera uno animo di Cesare nell’anima duna donna”)17 – e l’anticonvenzionalità che tale pittura fosse di fatto prodotta da una donna. Il pregiudizio del secolo fece da volano nell’accrescere la percezione del valore della pittrice fra i contemporanei. Un pregiudizio, anche in questo caso, calcolato18. Roberto Contini ha rilevato come un elemento cardine dell’impressione destata da Artemisia a Firenze sia stato il “paradigma [...] artemisiesco della donna superba”19 che riappare sotto forma di citazione edulcorata in un numero di tele e affreschi licenziati a Firenze negli anni Venti, dove si “coglieva, magari solo superficialmente, il valore drammatico di un gesto risoluto o di un’espressione concentrata e terribile”20 . È il caso, ad esempio, della Venere che piange la morte di Adone di Furini (Budapest, Szépmüvészeti Múzeum) (fig. 1), dove l’impalcatura ellenistica del Laocoonte si incarna in un nudo erotico e prepotente di Baccante che sembra proiettare tutte le urla trattenute delle eroine giovanili di Artemisia. Nel catalogo odierno lo studioso ricorda che, nel panorama fiorentino degli anni Dieci, le sue figure femminili “autoriferi-

te”, fiere e volumetriche, furono un’invenzione e apparvero nel contesto del tutto isolate, al punto da non trovare imitatori per almeno un decennio. Patrizia Cavazzini ha sottolineato che in precedenza “Artemisia, nell’ambiente claustrofobico in cui viveva, si ritrovò ad essere ossessionata dalle proprie fattezze e continuò a riprodurle nei suoi dipinti, quasi come se uno specchio la compensasse di tante limitazioni”21. La posizione di sé nel soggetto o – per dirla con un certo tono – la consustanzialità fra arte e artista era una rivelazione (anche procedurale) di Caravaggio22 che Artemisia interpretò a un grado di interiorizzazione mai raggiunto prima da nessuna altra donna pittrice, e che proseguì nel tempo per tutto il periodo fiorentino e anche oltre, affievolendosi soltanto negli anni di Napoli, ai quali peraltro pertiene (o al biennio londinese, qui non importa)23 il suo courbetiano autoritratto come Pittura in camicia verde, catena d’oro e capelli corvini, in volo radente sulla tela bruna24. Ma perché il pericolo fosse maggiore, e la fama in conseguenza, Artemisia esordì come pittrice di nudo femminile. La Cropper ha definito la Susanna di Pommersfelden un autentico autoritratto25, non solo per lo specchiamento fisionomico, ma perché l’autrice veniva ad autodeterminarsi – sia pure sotto la ferrea regìa paterna evidente in questa tela nello stile e nella firma monumentale dal carattere programmatico (forse non ascrivibile alla giovane analfabeta ma appunto a colui che ne guidava la mano: il senso non cambia, anzi si rafforza)26 – nel nudo femminile fisicamente pugnace, disassato e scosso, in rivolta. Keith Christiansen, proponendo una sequenza compatta di capolavori cristallini e ruggenti fra l’esordio romano e il primo biennio fiorentino (Susanna - Lucrezia - Giuditta - Giuditta: 1610 - 1612/1613 - 1613/1614)27, ha sospinto a una tappa ulteriore le posizioni di Elizabeth Cropper: “We ought not to underrate the role of anger in Artemisia’s work [...] In the Susanna and the Elders, the Lucretia, and the Capodimonte and Uffizi Judiths, we see a progressive assertion by Artemisia of her artistic identity in her father’s workshop”28 . Orientando verso la Giuditta il fulcro dell’autodeterminazione artistica che la Cropper aveva indicato nella Susanna – le due idee non sono in contraddizione ma in complementarità –, Christiansen focalizza il nocciolo della questione non solo nella perentorietà del nudo femminile firmato, ma nella sua dinamizzazione furente, nell’espressione di violenza di cui è capace una donna, e non una donna in ge-

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nerale, ma Artemisia stessa. “It is from the act of self-identification that the painting derives its dramatic intensity”, scrive lo studioso a proposito della Lucrezia, che retrodata di dieci anni rispetto alle schedature recenziori tornando a un’idea di Raymond Ward Bissell29, e di cui sottolinea la denuncia di sé nel mantenere (anziché correggere) lo stiletto nella mano sinistra: esattamente come l’autrice si vedeva nello specchio30. Quindi sigilla il ragionamento con la citazione – inevitabile – del grido di rabbia affidato alla deposizione del 18 marzo 1612: “Ti voglio ammazzare con questo cortello che tu m’hai vittuperata”. “Non dovremmo sottovalutare il ruolo della rabbia nell’opera di Artemisia – non semplicemente contro Tassi (la sua collera verso di lui implicava un senso di tradimento che si estese ben oltre lo stupro) ma anche contro suo padre e le circostanze della sua vita, sia professionale che privata”31. Gli studi hanno dimostrato che la vita condotta da Artemisia fino al matrimonio e al trasferimento a Firenze era stata molto difficile e che lo stupro agisce su questo sfondo come la testimonianza di un ambiente famigliare degradato, coercitivo e promiscuo32. Non c’è spazio qui e ora per riprendere i dettagli portati alla luce dagli studiosi sulle privazioni subite dalla giovane orfana, sull’ambigua tutela della vicina Tuzia, poi denunciata per lenocinio, sull’amarezza di quelle passeggiate che le venivano concesse prima dell’alba, quando era ancora buio perché non fosse vista, sulle maldicenze dei frequentatori di casa Gentileschi che nelle loro chiacchiere la chiamavano “poltrona et puttana”, sulle voci che il padre la facesse posare nuda per il piacere degli amici e tutto il resto. Patrizia Cavazzini ha spiegato anche, sondando criticamente le reali possibilità di movimento della giovane Artemisia, che la sua cultura figurativa non poteva che essere ridottissima: poche chiese (fra cui quella importante di Santa Maria del Popolo, che era la sua parrocchia – importante per i Caravaggio ovviamente) e i quadri del padre. Dell’altra cultura non parliamo neppure. Dopo ci furono lo stupro, perpetuato con le false promesse, la grande umiliazione pubblica del processo, lo scandalo, il matrimonio combinato in fretta con un uomo indebitato con suo padre, e la partenza. In queste condizioni Artemisia aveva imparato a dipingere. Con rabbia. Artemisia arriva a Firenze piena di rabbia e di offese: conosce solo Susanna, Lucrezia e Giuditta, e forse – su questo punto purtroppo non c’è accordo fra gli studiosi33 – scarica presto que-

1. Francesco Furini, Venere piange la morte di Adone. Budapest, Szépmüvészeti Múzeum.

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sta rabbia nel sontuoso sgozzamento di Oloferne apparecchiato per il granduca come per Erode. Lo fa ripetendo la composizione che ha già inventato nella casa paterna, aggiungendovi degli aggiornamenti significativi da lei occhieggiati in Rubens e in Cristofano Allori. Ancora alla fine del Settecento il dipinto turbava – come oggi del resto – gli animi più sensibili: Marco Lastri nell’Etruria Pittrice ricorda che la Granduchessa l’aveva fatto collocare nell’angolo più oscuro della Galleria perché non ne sopportava la vista. Negli stessi anni Luigi Lanzi, sempre implacabilmente esatto, la chiamava: “pittura di forte impasto, di un tuono e di una evidenza che spira terrore”34, mentre nel 1916 un misogino Roberto Longhi arretrava, comicamente stordito: “Ma – vien la voglia di dire – ma questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?”35. Rubens e Allori, dicevamo. Pare infatti molto persuasiva l’ipotesi di Frima Fox Hofrichter che Artemisia abbia derivato il particolare degli zampilli di sangue arterioso che sprizzano verso l’alto e colpiscono la veste e il braccio di Giuditta, schizzando a raggiera, dall’incisione di Cornelius Galle il Vecchio risalente al 1610 di un perduto dipinto di Rubens raffigurante la medesima scena36. Di fatto il precedente più diretto per la tela di Artemisia, la Giuditta di Caravaggio commissionata da Ottavio Costa e allora conservata nella sua collezione romana37 – ammesso che la pittrice vi avesse, non si sa come, avuto accesso –, poteva sì offrire l’idea del fiotto di sangue che sgorga violento dalla giugulare recisa ma non quella della pioggia parabolica degli zampilli. Il fatto che nella Giuditta di Capodimonte, che dopo le radiografie addotte da Mary D. Garrard è stabilita precedente38, tale dettaglio sia assente impone la necessità di una fonte ulteriore. Ciò che non si evince dall’incisione di Rubens, e che pertanto va imputato all’osservazione di Artemisia, è la parcellizzazione di questi piccoli getti in sequenza di gocce, con un verismo che determina la sensazione di spinta del getto sanguigno frammisto all’aria e accentua la meccanica fisiologica della decapitazione, andando a rintoccare sul carattere freddamente tecnico di questa inesorabile macellazione39. Christiansen paragona le gocce di sangue a un filo di perle e ha inglobato il dettaglio in ciò che chiama – traslando il termine dalla critica letteraria in riferimento alla lirica marinista – poetica del contrapposto: il crudo realismo del particolare è abbinato all’eleganza dell’insieme e contribuisce a farla risaltare per contrasto40. Non ci sono

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ragioni per non condividere questa posizione, a patto di vederla non come una semplice accondiscendenza al gusto fiorito e aulico della corte granducale, ma come un’acuta implementazione e un inasprimento di tale poetica che solo Artemisia con la sua “rabbia”, con il suo “tuono” e la sua “evidenza” era in grado di operare nella pittura fiorentina, creando un’immagine inedita. Longhi negava il sadismo di Giuditta, in cui vedeva invece un’“impassibilità ferina”, che è vero, se non fosse che il sadismo sta proprio lì. Per contro, vi metteva in rapporto il Tarquinio e Lucrezia di Ficherelli (Roma, Galleria dell’Accademia di San Luca – che allora si credeva del Bilivert) così definito: “l’opera che è lo specchio fedele di tutte le tendenze toscane, e che si potrebbe attribuire con delizia a tutti indistintamente i toscani operanti verso il 1620 [...] i Gentileschi di certo crearono questo soggetto di scena classica patrizia”41. È significativo il ricorso al toponimo regionale anziché comunale, perché è possibile che il passaggio a Firenze e la conoscenza della Giuditta di Artemisia vadano postulati per uno splendido pittore come Orazio Riminaldi: da Pisa a Roma per dipingere a Tiberio de’ Cavalieri “un quadro di Argho quando li è cavato l’occhio dalle donne”42. Mina Gregori non sottovalutò questa congiuntura e nel 1972 notava che con Riminaldi “il modo di concepire certi soggetti inventati dal Caravaggio stava cambiando di intonazione e al distacco impassibile [...] si stava sostituendo un atteggiamento partecipato, ma nel senso di una profanità morbosa, oppure sulla vena del perverso e del sadico”43. E indicava nella Giuditta di Artemisia e nel Marte che punisce Amore di Bartolomeo Manfredi (Chicago, The Art Institute) la responsabilità esemplare di questo impulso, proseguendo: “La serie dei soggetti di esplicito o larvato sadismo continua con una ‘Giunone che mette gli occhi di Argo sulla coda del pavone’”: il dipinto della Galleria Doria Pamphilj che la studiosa orientò sul nome di Riminaldi distogliendolo da quello, che portava allora, di Artemisia Gentileschi (fig. 2). Si capisce il riferimento alla luce della fisicità espansa e oppressiva della donna, la quale con “impassibilità ferina” si china lasciando traboccare il seno dal corpetto e ficca le dita nelle orbite molli della testa mozzata di Argo, ne strappa gli occhi e li dispone con elegante indifferenza sulla coda del pavone che stringe

come un mazzo di spighe nell’altra mano. Persino il potente movimento delle gambe che il gonnellone rosso di pieghe laminate – manfrediane, anzi già di Régnier44 – non riesce a imbrigliare, ricorda il frusciare inquieto delle cosce enormi della Maddalena di Artemisia sotto le gonne d’oro a Pitti. Una pittura più grassa, più diretta, con minor finezza di passaggi serici o trasparenze, nella scelta sintetica e solida di Manfredi – non c’è dubbio che qui il Marte che punisce Amore sia molto presente –, ma mentre la tela di Chicago è tutta orchestrata su linee curve, movimenti circolari e vorticosi, la Giunone di Riminaldi ha una direzione

2. Orazio Riminaldi, Giunone mette gli occhi di Argo sulla coda del pavone. Roma, Galleria Doria Pamphilj. 3. Orazio Riminaldi, Martirio di santa Cecilia. Firenze, Galleria Palatina.

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sola ed è pesantemente verticale, dove la linea della sopraffattrice si inchioda a piombo sul cadavere orizzontale di Argo, con modo molto più aderente ai vettori compositivi artemisieschi. La cosa che poi veramente convince è il contatto repulsivo. Il Marte di Manfredi stringe Amore per un polso mentre il flagello sibila per aria e le colombe frullano di spavento, ma è tutta scena: i tre dèi sono narcisi e teatrali, ogni dettaglio – l’elmo nero lucido, le frecce spezzate, i glutei sferici – è estetizzante e perfezionista. Il quadro è splendido e completamente falso. La Giuditta e la Giunone invece fanno qualcosa di veramente urtante: dominanti e impassibili, infilano le mani nelle viscere delle loro vittime spingendo molto oltre il senso di intimità carnale insito nella violazione del corpo. Le date di Riminaldi sono poche e malsicure, ma è tendenza degli studi collocare il dipinto Doria al principio dell’esperienza romana, quando Riminaldi è a bottega da Orazio Gentileschi ma appare molto influenzato da Manfredi (la cui morte nel 1622 impone di stringere i tempi), mentre a qualche anno successivo – ma comunque anteriormente all’agosto 162545 – daterebbe il capolavoro dell’artista, il Martirio di santa Cecilia eseguito per il capitolo dei sacerdoti di Santa Maria della Rotonda del Pantheon e poi contestato, ritirato e trattenuto dal pittore nelle proprie collezioni sino alla morte (fig. 3). Il dipinto è senza dubbio un pieno e potente esempio di caravaggismo molto concentrato, con un’azione singola stagliata sul fondo nero, con la citazione del carnefice dal Martirio Contarelli (mentre la giravolta aerea dell’angelo non è quella di San Luigi dei Francesi, ma sembra – gli specialisti del pittore dovrebbero spiegarci come – risentire più nitidamente delle acrobazie in caduta libera degli angeli napoletani e siciliani di Caravaggio) e con la scabra natura morta musicale abbandonata sul terreno al centro dell’occhio di bue. Ma non basta il capo chino della Maddalena Doria a motivare quell’abbondanza di carne bianca lucida e palpitante tra la spalla nuda, il seno felliniano e il collo grosso e teso, la testa strattonata per i capelli e spinta in basso, al punto che le guance si arrossano congestionate. Sottolineava la Gregori: “il fuoco emotivo del tema si concentra, soccorso dalla luce, sul profilo e sul collo reclinato delle due vittime, e non può sfuggire il suo nuovo, insistito significato di morbidezza sentimentale”46. La Susanna di Artemisia potrebbe aver avuto un ruolo nel suggerimento di una nudità femminile (che Caravaggio non dipinse mai) opulenta, vigorosa eppure sopraffatta da

un’imposizione dall’alto, e più nello specifico può aver fornito proprio quel segmento compositivo dello schiacciamento della testa girata fino al limite delle sue possibilità anatomiche di torsione e della forzatura obtorto collo. E ancora la Giuditta (quella degli Uffizi che aggiunge al gesto violento il fasto dei damaschi – santa Cecilia regge fra i polsi legati un manto rosso e oro in broccato) può avere avuto una funzione nella serrata dinamica della forza impressa verticalmente e nel dettaglio eloquente del pugno che stringe i capelli. Allargando di poco il campo d’osservazione, andrebbe rivendicato un non marginale né breve attaccamento di Riminaldi a certi modi compositivi inventati da Orazio Gentileschi47. L’angelo della pala per il Pantheon, ma di nuovo e maggiormente quello della pala per la confraternita assisiate di Santa Caterina raffigurante il martirio della santa, riconducibile alla committenza di Marcello Crescenzi nel 162848, è ritagliato e irreale nel suo avvitamento mortale con una evidenza plastica e una profilatura tagliente che lo fa sembrare un pesante manichino sospeso pericolosamente appena sopra le teste degli attori. La sensazione è la stessa che trasmettono le spagnolesche dissezioni spaziali, gli sbalzi tridimensionali e appunto gli angeli incombenti e iperrealisti dei dipinti di Orazio del primo decennio del secolo in opere come la Visione di santa Cecilia (Milano, Pinacoteca di Brera) o il San Michele e il diavolo (Farnese, chiesa parrocchiale del Santissimo Salvatore). Questo tipo di alterazione delle intavolature obiettive di Caravaggio non è disgiunto dalla distorsione del realismo espressivo del Merisi in senso sentimentale e sensuale di cui parlava la Gregori, e denota un interesse del Riminaldi per entrambi i Gentileschi ad almeno due livelli, come del resto era lecito attendersi dalla mappatura delle sue origini, della sua istruzione e dei suoi percorsi. All’altro capo degli elementi caratterizzanti della Giuditta degli Uffizi, l’adesione alla poetica degli ori alloriani – anche alla luce della documentata frequentazione fra Artemisia e Cristofano49 – non è mai stata messa in discussione e anzi è stata enfatizzata, sebbene permanga qualche incertezza sulla precisazione dei rapporti di dare e avere a motivo del reciproco slittamento cronologico cui sono soggette tanto la Giuditta di Cristofano quanto quella di Artemisia. Ma è senz’altro opportuno dare la precedenza nella sua globalità all’alveo della pittura fiorentina di inizio secolo come contesto ricevente della diciannovenne

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pittrice romana, piuttosto che il contrario. Contini ha richiamato “il campionario variopinto di guardaroba” di tale corrente prendendo a esempio due dipinti degli inizi degli anni Dieci come la Giuditta di Cristofano e l’Arcangelo che rifiuta i doni di Tobia del Bilivert e sottolineando che “Artemisia poteva insomma lasciarsi sedurre dall’accessorio [...] mai rinunciare all’ossatura d’acciaio dei suoi impianti”50. Al di là della seduzione puntiforme dell’accessorio, dell’orecchino di perla che si riflette nello specchio della Conversione della Maddalena o del bracciale d’oro con i cammei e del damasco giallo della veste di Giuditta51, ciò che viene oggi richiesto è che tali inserzioni siano da considerare “far more than a superficial concession to Florentine taste” e più propriamente “an effort, at some level, to embrace the sophisticated visual language that Allori’s art epitomized”52. La direzione indicata da questo indirizzo di ricerca è molto interessante, e rappresenta l’unica strada percorribile per defi nire criticamente la natura del rapporto. Le suggestioni iconografiche dovranno tuttavia essere costantemente verificate sulla materialità delle tele della pittrice romana, dove si scoprono equilibri molto instabili, variazioni e contraddizioni che rendono il percorso di tale avvicinamento più complesso di quanto un apparentamento teorizzato sulla base di topoi analogici di poetica tratti dalla storia della musica e della letteratura non lasci presumere. Per esempio, la Conversione della Maddalena di Pitti, che una tradizione critica vuole deputata a onorare onomasticamente la Granduchessa e che comunque non può sensatamente dissociarsi da un radicamento mediceo53, è considerata un apice dell’adesione di Artemisia alla poetica degli affetti e un omaggio senza mezzi termini agli ori klimtiani della Giuditta di Cristofano. Nondimeno nel dipinto ipersartoriale di Allori i damaschi immobili languiscono d’oro opaco (davanti a essi la testa bronzea di Oloferne oscilla come un pendolo lugubre), mentre nella sgorgante veste di Artemisia è tutto un ruscellare di luci gialle che sfrigolano e smagliano – come notava suo malgrado Longhi: “l’oro della veste è fratto in liquidità magistrali, in lampi molli e grassi, in deliziosi anfratti pittoreschi”54. E mentre

4. Giovanni Martinelli, Olimpia abbandonata da Bireno. Robilant+Voena, Londra-Milano.

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i famosi “affetti” della Giuditta alloriana si risolvono in un greve abbassar di palpebre e in un trattamento cereo del volto (non a caso questo quadro sarà la base formativa anche per la materia impomatata e funebre di Carlo Dolci), la fremente Maddalena di Artemisia contrae tutto il volto in una tensione che increspa il cipiglio, arrossa le guance, vela gli occhi di pianto e attorciglia i capelli, mentre dalla rullante irrequietezza delle grosse gambe sfugge da sotto la veste in primo piano l’artiglio di un piede rustico, calloso e con un’unghia orlata di nero. Questo piede tremendo, che a rigor di teoria non potremmo mai e poi mai inserire nelle guarnite calzature della pittura fiorentina degli anni Dieci e Venti, può essere invece la ragione dell’identica clausola che torna specchiandosi ben due volte in Pittura e Poesia, addirittura dell’etereo Francesco Furini (1625-

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26), naturalmente dopo un’accurata levigatura di pietra pomice accademica. I due dipinti vanno accostati anche per l’idea della veste glissante che scopre la spalla (e/o il seno), e per il volto della Poesia, inclinato sul collo con il medesimo scorcio e la bocca dischiusa con le labbra come applicate e un po’ staccate sull’ovale del viso. È in questo quadro che Furini fissa il tipo fisionomico femminile che d’ora in avanti sarà ricorrente, e mi sembra che ci sia ragione di credere che esso dipenda da un addolcimento di una precisa suggestione artemisiesca. Infine l’abbinamento fra la veste verde oliva bordata d’oro e il mantello giallo, a inversione del rapporto cromatico della veste di Maddalena, gialla bordata di verde. Il tutto anche a voler prescindere dal partito della luce bianca, gentileschiana par excellence. Con ogni probabilità, del resto, l’idea delle due Arti sedute sulle nubi con le gambe accavallate ha avuto come prima fonte proprio l’Inclinazione di Artemisia realizzata fra il 1615 e il 1616 per il soffitto della Galleria della Biblioteca di Casa Buonarroti. In quest’opera che colloca Artemisia nel rapporto importante con Michelangelo Buonarroti il Giovane, l’addomesticamento della pittrice trova il suo punto di massimo successo, e la sua pittura di aureo riposo. Una pittura non più come torchio e rasoio di Orazio, ma come speculazione volatile da fumoir. Era talmente poco abituata lei, a questo mondo, che l’Inclinazione la dipinse nell’unico modo che sapeva: nuda, e a lei somigliante. Ma, finalmente, il nudo di Artemisia ha, adesso, una stella sopra la testa e una bussola, invece di un pugnale, nelle mani. E quelle mani per la prima volta non si stringono a pugno (Lucrezia, Giuditta) e non si tendono a difesa (Susanna), ma sorreggono delicatamente lo strumento caro a Galileo55: ottone stondato e vetro che protegge l’ago in equilibrio tremolante, nubi bianche e cielo azzurro. Qui davvero la cultura libresca, la sottigliezza iconografica e l’ambiente a un tempo dotto e informale che il Buonarroti andava costituendo nella casa di via Ghibellina sembrano aver acquietato la rabbia che Artemisia si portava dentro. Ciò nonostante, è significativo che Baldinucci trovasse l’allegoria “una femmina di bellissimo, molto vivace e fiero aspetto”, segno che Artemisia conservava – anche nel momento in cui faceva le fusa sotto le carezze buonarrotiane – una forza d’urto che veniva rilevata dal timido pubblico locale. È probabilmente nel rapporto – che è stato documentato come molto familiare – fra la pittrice e il committente di

quest’opera che maturano la candidatura e l’immatricolazione all’Accademia del Disegno del luglio 1616, ed è forse qui che Artemisia colma la lacuna del suo analfabetismo. Le facoltà lenitive di una cultura letteraria liberamente circolante nelle piccole stanze della casa e nella cerchia delle amicizie del Buonarroti, che coinvolgevano naturalmente Galileo, sembrano permeare in una sorta di democratica migrazione la tela allegorica, ma anche altre ascrivibili al medesimo momento. Nella Suonatrice di liuto, anzi nel “ritratto dell’artimisia di sua mano che suona il liuto” che nel 1638 era custodito nella villa medicea di Artimino56, è ancora azzurro e bianco, le mani delicatamente atteggiate sui tasti e le corde, e quasi un sorriso, quasi un rossore sotto lo sguardo vivo che fissa oltre la tela. Il panno arrotolato sulla testa come turbante, che sarà apposizione delle migliori allegorie dipinte da Giovanni Martinelli negli anni Trenta, è croccante di trasparenze che solo Artemisia può aver trasmesso ai fiorentini, precedentemente dediti a scampoli di panni stopposi e quasi carnosi della linea Cigoli-Bilivert. Analogamente, nell’organza sullo scollo della Santa Caterina degli Uffizi e nella manica di bianco ghiaccio, c’è l’indizio per il velo stropicciato della Vergine nel quadro giovanile di Furini della Visione di santa Teresa, dove già Contini ha denunciato il rapporto del rosso acceso della veste con la manica della santa57, cui va aggregato il dettaglio inusuale dei capelli neri, crespi e in lizza con corona o velo, che accomuna le due teste. Al circolo del Buonarroti apparteneva anche Niccolò Arrighetti, poeta, matematico e accademico, che fu secondo Filippo Baldinucci il committente di un quadro di Aurora cui il pedante biografo seicentesco dedica un passo fra i meno illeggibili della sua opera 58. Per il dipinto esiste da tempo una proposta di identificazione che non trova un concorde assenso fra gli studiosi59 ; nondimeno se esso riflettesse la composizione originaria di Artemisia – e questo sembra probabile per via dell’aderenza iconografica alla estesa e puntigliosa ekfrasis di Baldinucci –, dovremmo dedurre che l’archetipo fosse notevolmente influenzato dalla pittura aulica fiorentina primo-seicentesca di retaggio tardo-manierista. Al tempo stesso, come nota Bissell, una perpetuazione di tale schema compositivo sembra riaffiorare in diversi dipinti realizzati a partire dei tardi anni Venti, da Bilivert a Melissi e – potremmo aggiungere – a Furini, a Martinelli, a Dandini. Al punto che la capillare risorgiva di questa soluzione compositiva dovrà esse-

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re ricondotta a una pratica didattica condivisa dalle botteghe fiorentine del primo Seicento, i cui motivi ispiratori e la cui autorità andranno ricercati più indietro nel tempo presso prototipi di alto valore esemplare, come potevano essere – sia detto en passant a puro titolo di esempio – i grandi marmi di Giambologna. L’inserimento dell’Aurora artemisiesca entro questo filone non ne sminuisce il significato nella storia della pittura fiorentina di quegli anni, ma anzi da un lato dimostra un consapevole accostamento dell’autrice a modelli intellegibili perché ampiamente assimilati dagli artisti autoctoni, e dall’altro circoscrive l’innovazione di Artemisia che fu quella di porre risolutamente il nudo aperto e raggiante (studiato dal modello) nella sua autonomia espressiva e a dominio femminile del quadro: qualità che radicheranno in questa rivisitazione naturalistica di un composto della tarda Maniera le eroine tragiche fiorentine fino all’Olimpia di Martinelli60 (fig. 4).

5. Rutilio Manetti, Massinissa e Sofonisba. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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L’eventualità non comprovata di un ritorno di Artemisia a Firenze nella seconda metà degli anni Venti (forse in occasione del viaggio a Venezia) è stata proposta da Bissell in relazione al dipinto dell’Aurora, ma era già stata avanzata da Contini (con ampliamento dei termini agli anni Trenta) in riferimento ai problemi posti da un complicato dipinto come Ester e Assuero (New York, The Metropolitan Museum of Art)61 concordemente ambientato dalla critica nel primo periodo napoletano62. La ragione è nella dipendenza che lo studioso addita dalla tela del caravaggista senese Rutilio Manetti raffigurante Massinissa e Sofonisba (Firenze, Galleria degli Uffizi), commissionato da Maria Maddalena d’Austria per la Sala dell’Udienza nella Villa del Poggio Imperiale e documentato negli inventari dal 162563 (fig. 5). L’esame radiografico del dipinto di Artemisia ha dimostrato che esso conserva le tracce di una lunga e complessa rielaborazione con pentimenti, cambiamenti importanti, soppressioni

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di personaggi, e un risultato finale che, come nota opportunamente Judith Mann, “manca in realtà di rigore compositivo, e sembra non avere mai raggiunto un assetto soddisfacente per l’artista”64. Secondo la Garrard le maniche trinciate e sbuffanti di Assuero derivano dal gusto esibito nei giocatori di carte della Chiamata di san Matteo della cappella Contarelli, ma forse sarebbe più opportuno ricondurre i dettagli decorativi (il costume di scena con stivali foderati e ingioiellati, la gorgiera, le piume multicolori sul cappello forbito di corona, il trono con le zampe leonine e la ridondante passamaneria) e il dialogo a due enfatico e vacuo alle pitture storiche fiorentine azzimate e ridicole di Pagani, Ciampelli, Cinganelli, Rosselli e del loro largo entourage rimante di diminutivi e vezzeggiativi. La planarità narrativa, la finzione del dramma e il grande spazio vuoto65 avvicinano il dipinto all’assopimento cigolesco del Giaele e Sisara di Budapest, firmato e datato 1620. Gli interventi successivi e la prolungata, insoddisfacente rielaborazione si spinsero certamente addentro al periodo napoletano cui appartengono gli inserti delle ancelle e, in parte, il trattamento delle superfici nell’incarnato e nelle vesti di Ester. Ricollocato dunque in un contesto di ideazione fiorentina, l’Ester e Assuero può anche aver influito sul dipinto di Manetti, a cui personalmente ero arrivato – nella ricognizione di tratti artemisieschi a Firenze – da un altro punto di partenza, che non implicava le problematiche connesse al quadro del Metropolitan e vedeva invece l’opera del senese in un’inversione di rapporto. Infatti, la figura espansa, ammaccata e intensa di Sofonisba a centro composizione è plasmata sulla volumetrica strutturazione delle donne drammatiche di Artemisia secondo un canone che non le può essere sottratto e convertito in debito: come dimostra la Santa Cecilia della Galleria Spada, proprio allo scadere del secondo decennio. Se le riflessioni svolte in questo saggio non sono del tutto errate, è ad Artemisia che va riconosciuta l’invenzione – carica di tensioni biografiche e programmatiche – di questa donna senza mezzi termini; il pur largo uso fattone da Manetti, come dal concittadino Ru-

stici, con ulteriori accanimenti sanguinosi (penso per esempio alla Lucrezia di collezione Chigi-Saracini) dovrà esserle sempre ricondotto. Con precedenza costante ad Artemisia infatti Alessandro Bagnoli discuteva opere come Ruggero e Alcina, le più intense versioni della Maddalena penitente e lo stesso Massinissa e Sofonisba66, aggiungendo note di influsso vouetiano per dipinti di cronologia più avanzata, in parallelo con quanto tocca allo sviluppo della Gentileschi nel momento dell’innesto nella sua seconda fase caravaggesca, una volta tornata a Roma. In conclusione. Abbiamo cominciato questo scritto concordando con Cropper e Christiansen che hanno saputo vedere dentro la crescita di Artemisia e indicare che è tempo di concentrarsi sul periodo fiorentino con un’analisi a più livelli, perché è da lì che Artemisia si costruisce e diventa la pittrice politica che radunerà su di sé l’ammirazione dei poeti e la brama dei re. Questa è la linea su cui gli studi oggi devono procedere. Ma anche prima di arrivare a quel punto, prima di disporre di tutta la gamma dei riferimenti di quella strategia e di quel successo, di tutti i colori del camaleonte, sappiamo che la ragione che ci spinge non sono l’ammirazione dei poeti o la brama dei re, ma quella manciata di quadri “di un tuono e di una evidenza che spira terrore” che sono usciti quasi dal nulla e hanno agito rapidamente nella storia della pittura fiorentina e romana come un’iniezione di veleno, e quei quadri sono figli della giovinezza e della fatalità. La maturità e il calcolo sono importanti e giusti, ma non sono più l’Artemisia che ha parlato a grandi pittori come Riminaldi, Furini, Martinelli, Manetti e che oggi, improvvisamente, parla al nostro tempo. Quindi la questione alla fine è semplice: siamo disposti a perdere la giovane donna che dipinge imbrattandosi di sangue fino ai gomiti per l’autrice matura che spicca lettere alla corte di Toscana rivendicando il prestigio dei suoi committenti? Siamo disposti a perdere la feroce Giuditta di Capodimonte di cui non sappiamo niente, nemmeno se è sua, per la ben calibrata Nascita della Vergine del Prado dipinta per il re di Spagna? E che cosa ci fa quel diavolo d’un quadro sul manifesto della mostra e sulla copertina del catalogo?

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1. Stendhal 1826 ed. 1987, pp. 278-279, 283. 2. Papi 2010, p. 29, rileva che questo aspetto dell’attività collezionistica di Cosimo II era avulsa dai differenti orientamenti della coeva pittura fiorentina.

5. Cropper 1993, p. 761. 6. Cropper 1993, p. 761 nota 22 con bibliografia precedente. Ma gran parte dell’articolo è dedicato all’argomento e definisce il quadro della vita quotidiana di Artemisia a Firenze alla luce di significativi riscontri archivistici.

17. Lettera del 13 novembre 1649 a don Antonio Ruffo; per una contestualizzazione si veda J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 420. 18. Cropper 2001, pp. 269-270. 19. Contini 1991, p. 184.

3. Al periodo fiorentino di Artemisia Gentileschi sono stati dedicati capitoli appositi nelle monografie di Garrard 1989, pp. 34-53 e Bissell 1999, pp. 19-34 (oltre naturalmente alle schede delle opere collocate dallo studioso in tale periodo: pp. 198-216, 220-222, e gli apparati documentari riguardanti il soggiorno della pittrice a Firenze). Pervasivo è l’interesse ai rapporti con Firenze nel catalogo della mostra Artemisia 1991 e in particolare in Papi 1991, pp. 43-49, nel saggio espressamente dedicato al tema: Contini 1991, e nelle schede delle opere (segnatamente pp. 120-153). Fondamentale l’articolo con ritrovamenti documentari di Cropper 1993. Puntualizzazioni si hanno nella recensione alla monografia di Bissell su “The Burlington Magazine” (Papi 2000). Numerose menzioni inerenti al tema sono contenute nel catalogo della mostra Orazio e Artemisia Gentileschi 2001 nei saggi di Mann 2001, Cropper 2001, e nel saggio apposito di Contini 2001a, nonché nelle schede delle opere a cura di Judith Mann relative al periodo (pp. 320-333). L’articolo di Christiansen 2004 riconsidera aspetti di prima importanza nell’evoluzione della pittura di Artemisia a Firenze alla luce dell’esperienza diretta della mostra del 2001. Cropper 2009 si indirizza al rapporto di Artemisia con Galileo e alla cultura scientifica della Firenze primo-seicentesca. Bissell 2009b si dedica alla ricognizione degli influssi subiti ed esercitati dalla Gentileschi nei confronti dei pittori fiorentini. Papi 2010 ripropone le posizioni dello studioso in materia (si vedano anche le schede a cura di Gianni Papi e Stefano Casciu in Caravaggio e i caravaggeschi a Firenze 2010, pp. 154-170). Ovviamente va preso in considerazione il romanzo di Alexandra Lapierre e specialmente il capitolo III. Oloferne (pp. 215-276 dell’edizione italiana: Lapierre 1999) con le relative note ricche di riferimenti documentari (ivi, pp. 439-449). 4. Per le indicazioni cronologiche che non sono oggetto di controversia fra gli studiosi ci si riferisce normalmente al Register of Documents in Bissell 1999 e alle Cronologie in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. XIII-XX.

7. Bissell 1999, p. 22. 20. Contini 1991, p. 185. 8. Lapierre 1999, p. 442: dalla compulsazione degli Stati d’Anime di Santa Maria del Popolo l’autrice ha ricavato la notizia del trasferimento che include, a differenza di quanto si era precedentemente creduto, oltre alla figlia anche il marito. 9. Cropper 2001.

21. Cavazzini 2001a, p. 290. 22. “It is important to insist on the fact that it was Caravaggio’s practice of painting directly from the model and his abandonment of the objectifying process of disegno that opened the road to Artemisia’s self-identification” (Christiansen 2004, p. 112).

10. Cropper 2001, p. 265. 11. Per una trascrizione della famosa e particolareggiata deposizione del 18 marzo 1612 di Artemisia al processo si può vedere Lapierre 1999, pp. 104-105. 12. Christiansen 2004, pp. 112-113. 13. Cropper 2001, p. 267. 14. Cropper 2001, p. 276. Accenniamo brevemente, come indizi della fama raggiunta, al suo ritratto inciso da Jérome David che la celebra come membro dell’Accademia dei Desiosi, al disegno che ritrae la sua mano destra con il pennello di Pierre Dumonstier, alla lettera di devozione di Gianfrancesco Loredan, alle odi dedicatele da Giovanni Canale e ai versi in suo onore nell’Arpa poetica di Tommaso Gaudiosi.

23. Si veda la scheda di Judith Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, n. 81, pp. 417-421 con le opinioni convergenti in tal senso di Contini, Bissell e Cropper. 24. Un nuovo giudizio, dopo l’emersione dell’Autoritratto come suonatrice di liuto di Minneapolis, è stato espresso da Papi che non considera il dipinto di Hampton Court un autoritratto (G. Papi in Caravaggio e i caravaggeschi a Firenze 2010, p. 160). 25. Cropper 2001, p. 275. 26. Per un nuovo sguardo sulla questione dell’eventuale collaborazione Orazio-Artemisia nella Susanna, non più vincolato alla disputa attributiva ma aperto a una lettura del controllo paterno come elemento coadiuvante nella promozione dell’opera di esordio della figlia, si veda Christiansen 2004, pp. 103-106.

15. È la tesi di George Hersey riportata in Cropper 2001, p. 272. 16. Sul disegno si veda principalmente Rosenberg 2005.

27. La scalatura proposta da Christiansen utilizza nuovi argomenti derivati in parte dall’analisi delle incisioni superficiali e delle radiografie; per i dipinti qui richiamati si vedano in particolare le pp. 101-111.

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28. Christiansen 2004, p. 111.

35. Longhi 1916 ed. 1961, I, p. 258.

29. Per il quadro completo delle variegate proposte di datazione, generalmente oltre il 1620, si veda J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, n. 67, pp. 361-364. Per la proposta di retrodatazione al 1611-1612 cfr. Bissell 1999, pp. 189-191. 30. La preponderanza dell’intonazione autobiografica del dipinto sui risvolti iconologici di livello più propriamente esegetico venne rivendicata anche da Francis Haskell in un passo scopertamente umoristico della sua recensione alla monografia della Garrard (Haskell 1989, p. 71). 31. Christiansen 2004, p. 111 (la traduzione è mia). 32. Cavazzini 2001a. 33. In quanto icona della percezione globale di Artemisia, l’opera assomma interventi critici da parte di tutti gli studiosi che si sono occupati, estensivamente o incidentalmente, della pittrice. Le opinioni sulla cronologia nondimeno tendono, a partire da Garrard 1989 (pp. 38-39, 51-53, 326, 337-338), a convergere sull’ipotesi che il dipinto spetti a un periodo compreso fra l’estremo limite della residenza fiorentina e il ritorno a Roma, e che sia anzi stato spedito a Firenze entro la data di morte di Cosimo II (1621), segnatamente in riferimento alla lettera a Galileo del 9 ottobre 1635 in cui la pittrice fa riferimento a un quadro di questo soggetto inviato al granduca e corrisposto grazie all’intercessione dello scienziato (così Papi 1991, pp. 49-50; G. Papi in Artemisia 1991, n. 19, pp. 150-153; Bissell 1999, pp. 43-44, 104-105, 213-216, n. 12; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, n. 62, pp. 347-350; Bissell 2009b, p. 174). Recentemente invece Christiansen 2004, pp. 106-107 ha retrodatato l’opera con efficaci argomentazioni tecniche e storico-artistiche al 1613-1614, vedendovi una reinterpretazione fiorentina della composizione da poco trattata nella tela oggi a Capodimonte.

36. Hofrichter 1980, ripresa da Garrard 1989, p. 337, quindi di sfuggita da Bissel 1999, p. 216, fig. 25 ed estesamente da Cropper 2009, pp. 205-206 a cui si rimanda per la duplice illustrazione di un esemplare dell’incisione di pertinenza della National Gallery of Art, Washington (ivi, fig. 6), con il dettaglio della testa di Oloferne recisa che permette di giudicare gli inequivocabili zampilli (ivi, fig. 7). 37. Per una recente e documentata ricostruzione della commissione e della collocazione dell’opera si veda Terzaghi 2007, pp. 144-147. 38. L’ipotesi che il dipinto fosse una replica da ascrivere al periodo napoletano risaliva a Longhi 1916 ed. 1961, I, p. 259. Successivamente all’intervento della Garrard l’inversione delle precedenze è stata accolta da tutti gli studiosi. Di recente è stata avanzata l’ipotesi che il dipinto pertenga a Orazio Gentileschi (cfr. Bissell 2009a, passim). 39. Bissell 1999, p. 216, ha notato, molto incidentalmente, che tale osservazione possa essere ricondotta “to memories of animals being slaughtered in the marketplace”. 40. Christiansen 2004, p. 116. 41. Longhi 1916 ed. 1961, I, p. 266. 42. L’accertamento di tale committenza è espresso in Pupillo 2009, p. 87. La menzione virgolettata del soggetto è dal manoscritto intitolato Vita e Opera del S.re Orazio Riminaldi Pittore Celebre e Eccellente, Firenze, Biblioteca degli Uffizi, ms. 60, I, ins. 31, cc. 711-714 (ma cito da Papi 1992, p. 259, nota 19). 43. Gregori 1972, p. 38. 44. Molto opportuna in tal senso è la lettura di Papi 1992, p. 260.

34. Lanzi 1968-1974, I, p. 182.

45. Si veda il complesso incrocio di riferimenti documentari proposto in Pupillo 2009, pp. 103-106. 46. Gregori 1972, pp. 41-42; il riferimento è plurale perché includeva il Martirio dei santi Nereo e Achilleo della Galleria di Palazzo Corsini di Roma. 47. Papi 1992, p. 258, riprendendo il giudizio di Lanzi, sminuisce recisamente tale influenza, mentre Pierluigi Carofano in Luce e Ombra 2005, p. 144, parla di “fase manfrediana-gentileschiana”. 48. Pupillo 2009, pp. 107-108. 49. Cropper 1993, p. 760; Bissell 1999, p. 28; Contini 2001a, p. 315; Christiansen 2004, pp. 114-117. 50. Contini 1991, p. 182. 51. A proposito del dettaglio del bracciale d’oro lavorato con cammei figurati della Giuditta degli Uffizi, di cui una maglia compare con lievi modifiche come spillone nell’acconciatura della Giuditta di Pitti (per inciso forse questo può essere un argomento a favore di un’ipotesi di prossimità cronologica), la Garrard ha proposto di identificare l’immagine del cammeo centrale come una raffigurazione di Artemide (= Artemisia), mentre rinuncia a leggere il cammeo sottostante e propone che quello della spilla di Pitti raffiguri un san Giorgio o un David (Garrard 1989, pp. 317-319, 326-327). Bissell invece legge nel braccialetto due immagini di un Marte vincitore e di una Baccante (Bissell 1999, pp. 213-216). Vorrei proporre di considerare il cammeo della maglia centrale del bracciale della Giuditta degli Uffizi e quello della spilla del dipinto di Pitti come raffigurazioni di Perseo con lo scudo di Atena, che mi sembra in rapporto analogico più stretto con la scena rappresentata, anche considerando la testa urlante cesellata sul pomo della spada (nella Giuditta di Pitti), che contiene evidentemente un riferimento meduseo (questo è notato anche dalla Garrard 1989, p. 319). 52. Christiansen 2004, p. 116.

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53. Cfr. Stefano Casciu in Caravaggio e i caravaggeschi a Firenze 2010, p. 162: l’opera è documentata forse fin dal 1620 ad Artimino, sicuramente dal 1683. Inoltre lo studioso richiama l’attenzione sulla lettera dell’inventario del 1683 che menziona il dipinto come “Artemisia Lomi da Santa Maria Maddalena in abito giallo” evidenziandone la connotazione ritrattistica, accentuata dall’accompagnarsi nell’allestimento della villa ad altri due autoritratti allegorici: la Suonatrice di liuto di Minneapolis e l’Amazzone oggi perduta. La precisazione è di estremo interesse, ma forse può indebolire l’ipotesi tradizionale che la Maddalena si riferisse alla Granduchessa.

96; Bissell 2009, pp. 180-181, fig. 18. Da notare che Bissell data l’opera intorno alla metà degli anni Venti, nell’ambito di una riconsiderazione del percorso di Artemisia che l’avrebbe portata di nuovo a Firenze nel corso del terzo decennio del secolo. Per una nuova proposta di ascrizione dell’opera all’ambito napoletano si rimanda ancora al saggio di Contini nel catalogo odierno. Contini 2001a, p. 319, nota 6 è nettamente contrario all’attribuzione. 60. Sull’influenza esercitata da Artemisia sull’opera di Giovanni Martinelli si vedano Contini 1991, pp. 192-195; Papi 2011.

54. Longhi 1916 ed. 1961, p. 258. 61. Contini 1991, pp. 189-191; R. Contini in Artemisia 1991, n. 24, pp. 165-169. 55. Cropper 2009 è quasi interamente dedicato all’approfondimento di questa iconografia nell’ambito del rapporto della pittrice con Galileo. 56. Papi 2000, p. 452, nota 18. 57. Contini 1991, p. 185. 58. Rimandiamo per la citazione in esteso al saggio di Contini nel presente volume. 59. L’opera è stata proposta e ribadita per Artemisia in Bissell 1999, pp. 47-48, 220-222 scheda 15, figg. 87, 90; Mann 2001, p. 251, fig.

62. In realtà c’è un’opinione isolata della Garrard 1989, pp. 72-79, che lo ascrive all’inizio del secondo periodo romano, intorno al 1622-1623. Bissell 1999, pp. 241-244, sostiene che l’avvìo del quadro deve datarsi al 1627-1628 durante il viaggio a Venezia, quando la pittrice avrebbe preso a modello un dipinto creduto del Veronese con lo stesso soggetto, oggi derubricato a bottega del Caliari e conservato al Louvre. L’opinione è condivisa nella scheda dell’opera da Judith Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, n. 71, pp. 373-377. A chi scrive il rapporto derivativo dalla tela di bottega veronesiana (ivi, fig. 130) – la cui conoscenza da parte di Artemisia andrebbe se non provata almeno controllata sulla base di una ricostruzione dell’ubicazione originaria dell’opera

e dei percorsi/testimonianze di Artemisia a Venezia – risulta molto fievole, mentre del tutto estranee e incomunicanti sono ovviamente le culture figurative di Veronese e Artemisia. Su questa estraneità sembra altamente improbabile innestare un interesse replicatorio verso un modesto dipinto di scuola veneziana del Cinquecento, operazione che si configurerebbe come un unicum nell’opera della pittrice. 63. Alessandro Bagnoli in Rutilio Manetti 1978, n. 37, p. 102; Stefano Casciu in Caravaggio e i caravaggeschi a Firenze 2010, n. 42, p. 200. In realtà la commissione aveva avuto come interprete e discernitore il cardinale Carlo de’ Medici durante il suo soggiorno a Roma nel 1623-1624 (per la ricostruzione dettagliata della vicenda si veda Fumagalli 1990, pp. 70-71). 64. Judith W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 376. 65. Ma anche i dettagli come la mano sinistra con l’indice alzato di Assuero (si confronti l’analogia con Sisara) e le guarnizioni a mascherine d’oro del trono, sul genere della testa di scimmia della spada di Sisara. 66. Alessandro Bagnoli in Rutilio Manetti 1978, pp. 100-103. L’opinione è riaffermata da Marco Ciampolini in Luce e Ombra 2005, p. 174.

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Francesco Solinas

icomposta nei dettagli, la partenza di Artemisia da Firenze, l’11 febbraio 1620, fu una vera e propria fuga. Il suo rocambolesco viaggio di ritorno verso Roma iniziava a Prato, il 12 febbraio 1620, quando, con il marito Pierantonio Stiattesi, giungeva inattesa ospite di Gino Ginori (1557-1631), podestà della città1. In quello stesso giorno, Ginori scriveva al granduca Cosimo II: “È comparsa qui la Signora Artemisia Lomi, la quale havendomi narrata la resolutione che haveva fatta d’andarsene fino a Roma con un suo fratello per starci tre, o quattro mesi appena, et che non prima uscita di Firenze ella hebbe aviso, come dalla Guardaroba di Vostra Altezza Serenissima, per via di Corte gl’erano state sigillate tutte le sue robe, et perciò dubitando che l’Altezza Vostra Serenissima non l’haveva havuta a male, rivolto il pensiero, se ne venne a questa volta, il che sentito da me, le dissi che haveva fatto errore al non ne dar conto, et domandarne licenza a Lei, come si conveniva”2.

Quale prova, e garanzia, della sua buona fede, la pittrice consegnava all’aristocratico rappresentante del granduca una copia della sua ben nota lettera inviata al sovrano il 10 febbraio 16203, che il podestà ritrasmetteva accompagnandola col resoconto dell’animato incontro con Artemisia.

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, particolare. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

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Tentando di calmarla, Ginori le consigliava di “tornare a Firenze per finire li quadri che lei deve farli [al granduca], per non condurgli a precisione qua, e là”, ma l’artista rispondeva assicurandolo che avrebbe potuto terminare a Prato i dipinti per il sovrano, sui quali, peraltro, aveva già percepito un anticipo di 50 scudi4. Artemisia mostrava “haver vergognia al tornare, rispetto al caso seguito del sequestro statogli fatto, et inoltre allega di potere mal vivere in Firenze”5. Gravata dai debiti, dopo anni di difficoltà economiche e ben quattro gravidanze6, oppressa da un mal pagato contratto col granduca malato7, Artemisia subiva l’umiliazione dei sigilli apposti dagli ufficiali della Guardaroba medicea alle “sue robe”, alla sua casa e studio di piazza Frescobaldi8. Quest’ultimo “disgusto” l’aveva convinta a lasciare definitivamente la capitale toscana. Del resto, quella fuga a Prato, dietro copertura dell’ignaro fratello Giulio residente a Roma, non era la prima intrapresa dalla pittrice durante il suo lungo soggiorno fiorentino. Nella relazione al granduca, Ginori avvertiva: “intanto, per abbondare in cautela, ho fatto fare precetto al suo marito, che senza licenza di Vostra Altezza Serenissima non la conduca, né [la] facci[a] condurre, fuori dello Stato sotto pena di scudi cento e dell’arbitrio” .

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ritorno a roma: 1620-1627

non andasse [partisse dal Granducato], a ciò non gl’incontrasse, come altra volta, qualche sinistro caso”. Se non abbiamo ancora indicazioni di quell’“altra volta”, e del “sinistro caso” vissuto dall’indomita Artemisia, il suo precipitoso viaggio a Prato è descritto dallo Stiattesi in una lettera al patrizio fiorentino Francesco Maria Maringhi (Firenze 1593 - Napoli dopo il 1653), amante della pittrice e suo protettore11 (fig. 1). Scrive Stiattesi al Maringhi, lo stesso 12 febbraio, mostrando una consuetudine più che amichevole col nobiluomo: “Ci partimmo da dove Vostra Signoria sa e venimmo alla volta di Prato12 e per la strada si passò dua pericoli da rimettervi13 la vita e la roba: una [volta, Artemisia] cascò da cavallo e non si fece male perché cascò in piedi, l’altra fu per cascare in Bisenzio14, che se cascava andava in polvere lei e il cavallo, perché mancò la gamba di dietro del cavallo e cadeva alto più di cinquanta braccia, li valse il sapere cavalcare e non conoscere paura di sorte alcuna”15.

Coraggiosa, provetta cavallerizza e donna fortunata, Artemisia, all’altezza della sua fama, aveva deciso di partire e non subire più le sfavorevoli condizioni impostale da Cosimo II. Interpretando i suoi desideri, Stiattesi, “cavalier servente” dell’artista, ma anche responsabile e garante d’ogni sua azione, si sfogava con l’amante di lei: Com’è noto, la legislazione e i rigidi precetti religiosi del tempo assegnavano a ogni marito la responsabilità legale della propria moglie e d’ogni sua azione pubblica. Ogni donna, eccettuate forse le vedove più ricche e potenti, era sotto la tutela di un uomo, padre, marito, fratello, o addirittura cognato, o figlio. Mantenuto dalla pittrice, Pierantonio era un compagno leale, e nonostante le accuse palesate da Artemisia al Segretario di Stato Curzio Picchena, il 5 giugno 16199, la pittrice sembra sinceramente affezionata al padre dei suoi figli. Stiattesi si occupava di lei con attenzione, la proteggeva ed era il suo più comodo garante10. A Prato, Pierantonio accettava il “precetto”, rassicurava il podestà giurandogli di “esser pronto ad obedire”, e dichiarava di essere “venuto a posta di Pisa per obricare che

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“io sono disposto di volerne scrivere una lettera a Sua Altezza e darli conto d’ogni cosa e se il Granduca non mi fa miglior patti, non voglio più che [Artemisia] torni costì e me ne voglio andare alla volta di Bologna”16.

Facilitata dal Maringhi, la fuga di Artemisia e del marito da Firenze è documentata nel dettaglio da altre quattro lettere scritte da Prato al nobile fiorentino dai coniugi Lomi Stiattesi. A Firenze, tra la sua casa in borgo Sant’Jacopo, nei pressi della piazza Frescobaldi, e la villa di famiglia a Piazza Calda, fuori Porta a Prato, Francesco Maria rispondeva agli appelli angosciati dell’amata, sorvegliava la sua abitazione e i beni sigillati17, trattava con i messi granducali e vigilava sui due bambini,

1. Simon Vouet, Ritratto di giovane uomo (Francesco Maria Maringhi?). Parigi, Musée du Louvre.

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Cristofano e Prudenzia18, lasciatigli in affidamento19. Il giorno dopo, rispondendo a un messaggio dell’amico, Artemisia dettava al marito, esprimendo con ansia le sue emozioni:

Se, nella missiva dettata a Pierantonio, Artemisia si firmava “come sorella” e manteneva un tono molto amichevole ma relativamente distaccato, nella successiva, scritta di suo pugno due giorni dopo, la pittrice si abbandonava alla nostalgia, rivelando particolari più intimi, sul sentimento di “vergognia” che avrebbe provato a un suo eventuale ritorno a Firenze:

dutamente innamorata ed era corrisposta dal ricco gentiluomo suo coetaneo, brillante erede di un’antica famiglia dell’aristocrazia fiorentina, alleata da generazioni ai Frescobaldi24. Socio e agente del banchiere Matteo Frescobaldi (15771652), amico di Galileo, del nobile letterato Antonio Corsi e di Michelangelo Buonarroti il Giovane25, con molte conoscenze a corte, Francesco Maria aveva più volte intercesso presso il granduca per giustificare i ritardi dell’amica; ma ora, vista la reazione del podestà di Prato e degli ufficiali della Guardaroba, le chiedeva di tornare a Firenze per terminare i lavori destinati a Cosimo II. Subissata dai debiti e, da sempre, insofferente dei pettegolezzi, l’ormai matura “pittora” cercava una nuova libertà e inseguiva quel successo, artistico ed economico, che Firenze, in agonia col suo granduca malato, non poteva più offrirle. L’unico legame che la tratteneva nella città dei suoi avi era l’amore per lui, Francesco Maria, una passione travolgente nata attorno al 1617, che per molti anni a venire avrebbe superato vincoli sociali e convenienze, e nel 1623, a Roma, allontanava definitivamente Pierantonio Stiattesi 26. La relazione continuava, tra Roma e Napoli, nel 1635, e probabilmente anche al ritorno della pittrice da Londra, a seguito del definitivo trasferimento del Maringhi nella capitale del regno nel 1648. Così Artemisia conclude la sua prima lettera da Prato a Francesco Maria:

“Io sò risoluta de no venire più costì perché mi pare de no avere for-

“Però, mio carissimo e mio core, Vostra Signoria mi perdoni se io vi so’

tuna in questa città, io so’ disposta de andare sino a Bolonia e qui

disobidente perché non ci veggio la mia riputazione27, questo sibene se

volio vedere se ci trovo melior fortuna, perché se venissi più lì, io

Vostra Signoria mi vole favorire quando li è comodo, vorrei mi venisse

non averei pace e no mi parrebe di potere andare per le strade” 21.

a vedere e che io n’avarò gusto grande, che già che la gente ha comin-

“Io ho receuto la vostra gratissima che ho inteso il tutto di quello [che] segue [a Firenze], la qual cosa mi ha fermato nel proposito di non volerci più tornare e vada come la vole, già la va tanto male che non può andare peggio”.

e aggiungeva, riguardo ai bambini e ai molti quadri lasciati in casa dell’amico: “La prima occhasione che viene di Prato mandatemi i bambini. I quadri non li tirate più su, altrimenti io credo che indubitatamente Fiorenza non me abbia più a vedere. Remediate a quelli che voi vedete che non vi posson fare danno, altro non ho che dire, che se non che dio guardi Vostra Signoria dalli facti di che sono in della anima e del corpo e fo fine”20.

ciato a dire, è melio che finiscono di dire. Intanto se Vostra Signoria

Sognava la più libera e ricca Bologna, con il suo munifico e più aperto patriziato che aveva consacrato la fortuna di Lavinia Fontana (1552-1614), illustre pittrice e ritrattista famosa, sua antesignana e modello22. La Lomi Gentileschi paventava il diffondersi a Firenze delle maldicenze sulla sua storia d’amore sparse da una serva del Maringhi23 e di ulteriori, ingiuriosi pettegolezzi sulla differenza di censo tra lei e l’amato, che l’avrebbero inevitabilmente allontanata da Francesco Maria. Artista, eccentrica, sotto tutela del marito e madre di famiglia, gravata dall’antica vergogna dello stupro del 1612, quella donna battagliera, il cui carattere risoluto era già noto a Roma come a Firenze, si era per-

mi volle comandare niente, vedete dove so’ bona, che io so’ pronta a servirvi e qui fo fine, a dio, di 14. Vostra Artemisia Lomi”.

Nonostante l’ortografia scorretta, da autodidatta, la sintassi approssimativa e la stesura incerta, il senso principale – così come i sensi riposti espressi nella missiva – trapela con chiarezza. In tutte le sue lettere autografe, anche nelle più intime, la contraddizione è solo apparente: ne emerge una personalità forte, talvolta dura, spesso cruda, ma leale e appassionata, di profonda intelligenza e grande ambizione. Oltre all’evidente ignoranza dell’ortografia, all’epoca molto diffusa anche nelle

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donne di rango, affiora la sua cultura letteraria e poetica, ricca e variegata, da Ovidio a Petrarca, dall’Ariosto al Tasso, e naturalmente le Sacre Scritture28. Gli autografi della pittrice non solo ci informano dettagliatamente su un breve periodo della sua vita, dai primi biglietti scritti a Firenze nel 1618 all’ultima lettera all’amante che si è conservata, del 12 settembre 1620, ma svelano l’universo misterioso dell’Artemisia scrittrice, finora noto soltanto attraverso le edizioni corrette di Giovanni Gaetano Bottari (1689-1775) 29 e di don Vincenzo Ruffo principe della Floresta (1857-1918), pur sempre pesantemente emendate30. Dettate a scrivani e a segretari sono le lettere della “pittora” indirizzate ai granduchi Cosimo II e Ferdinando II de’ Medici, al loro segretario di stato Andrea Cioli, al duca di Modena e, per quanto si può desumere dall’unica a noi nota, anche all’amico e protettore romano Cassiano dal Pozzo (1588-1656)31. Sulla scorta delle interessanti problematiche sollevate da Judith W. Mann sulle firme dei suoi dipinti32, le lettere autografe permettono una nuova prospettiva critica nella comprensione della pittura di Artemisia. Ma di quali quadri parla la donna nella sua lettera all’amante? E di quali opere promesse alla Guardaroba medicea ci informa il podestà di Prato Gino Ginori? Il 10 febbraio, Artemisia lasciava la sua casa piena, sigillata dagli ufficiali della Guardaroba, ma molte tele erano state preventivamente trasferite nelle case del Maringhi, che ospitava anche i figli della coppia, Cristofano e Prudenzia, e riteneva per sé un autoritratto dell’amata. Molte di quelle opere, finite e non, saranno mandate ad Artemisia che le riceveva a Roma il 6 marzo 1620. Altri quadri furono tenuti dal gentiluomo, mentre ulteriori decine di “tele e rami dipinti” restavano sigillati nello studio per essere acquistati il 10 febbraio 1621 dallo stesso Maringhi, assieme ad arredi e utensili, per la rilevante somma di 165 ducati. Lasciate all’amante erano anche le opere in corso di elaborazione per il granduca, quelle due che Artemisia assicurava Ginori di poter portare a termine a Prato. All’invio del 6 marzo ne seguiva un altro, pervenuto a Roma il 2 maggio, contenente materiali diversi e la più volte citata oncia e mezzo di azzurro lapislazzulo datole dal granduca. Nessuna menzione dei soggetti né delle dimensioni, comunque ragguardevoli, del “quatro” o dei “quatri”, destinati al sovrano; il grande Ercole, ricordato come suo dalle fonti e destinato a Cosimo II, non è mai citato nelle lettere33.

Sin dal suo trasferimento forzato da Roma a Firenze, sette anni prima, Artemisia aveva dipinto molto. La supplica del padre Orazio indirizzata alla granduchessa Cristina di Lorena, il 3 luglio 1612, aveva presentato le eccezionali qualità artistiche e il talento pittorico della figlia, più che le sofferenze fisiche e morali da lei subite; scriveva Orazio alla granduchessa: “perché quando vederà l’opere [e] la virtù di questa mia povera figlia, unica in questa professione, mi rendo sicuro che haverà cordoglio di un assassinamento così grande”34. Conosciuta per la sua pietà e devozione, Cristina di Lorena riceveva, in accompagnamento, il dono di un quadro della giovanissima pittrice a dimostrazione dell’eccellenza della sua arte35. L’aggressivo e irascibile Gentileschi aveva ben preparato il trasferimento della sua ancora giovanissima figlia a Firenze. Dopo il processo, la vittima, costretta in casa, era diventata un fardello molto ingombrante per un genitore in carriera, particolarmente rude e insofferente. Accompagnata dal neo-marito Pierantonio Stiattesi fiorentino36, la non ancora ventenne Artemisia si era stabilita nella capitale granducale nei primi mesi del 1613, quando la vita artistica e intellettuale della corte fiorentina raggiungeva una delle stagioni più splendide e ricche: brillanti le committenze internazionali di Cosimo II e della moglie arciduchessa Maria Maddalena d’Austria per la sistemazione e decorazione di palazzi, ville e giardini, e per la creazione di una vera e propria quadreria; cospicue anche quelle del fratello principe don Lorenzo e della granduchessa madre Cristina di Lorena 37. Epocali le rappresentazioni teatrali, i drammi in musica, le feste. La reggia brulicava di artisti d’ogni nazionalità, di musicisti, poeti, scienziati; le possibilità erano molte per la ragazza pittrice, assistita, e controllata, dal marito factotum, improvvisatosi agente e impresario della moglie prodigio. Già nei primi mesi del 1616, Artemisia aveva realizzato diverse opere per i principi medicei e per alcuni sofisticati collezionisti privati. Le attenzioni e le commissioni di illustri intellettuali, quali Michelangelo Buonarroti il Giovane e Galileo Galilei, e l’amicizia dell’affermatissimo collega Cristofano Allori la celebravano quale vero fenomeno, incoraggiandola nella creazione di un suo preciso lessico pittorico e qualificandola per il suo ingresso all’Accademia del Disegno (19 luglio 1616) 38, organo di controllo e promozione delle arti toscane. Ricostruita da Roberto Contini e Gianni Papi39, e arric-

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chita in questa sede dallo stesso Contini e da Judith Walker Mann, la cronologia delle prime opere della pittrice permette oggi di individuare con più agio le cifre caratteristiche della sua arte, dalle giovanili collaborazioni con il padre a Roma sino alla sua indipendente ed esuberante attività fiorentina40. A Firenze, il suo linguaggio maturava, si diversificava, allontanandosi visibilmente dalla maniera paterna, e arricchendosi di una nuova, inedita ed esplicita vena caravaggesca di sorprendente potenza, probabilmente richiestale espressamente dalla sofisticata committenza medicea. Risalgono a questi anni le due versioni della Giuditta che decapita Oloferne, capolavori della pittrice romana, magistrali traslazioni dell’opera del Gran Lombardo nella tradizione fiorentina della pittura di luce e nel segno della contemporanea sperimentazione del teatro di corte. Tra la Casa Buonarroti e l’Accademia del Disegno, l’artista rielaborava abilmente le novità della pittura fiorentina del tempo41, interpretando la propria formazione romana nella più strutturata lingua dell’Accademia del Disegno, rappresentando soprattutto figure femminili e spesso dipingendo se stessa (cat. 15). Allegorie, come l’Inclinazione di Casa Buonarroti, diverse Sante martiri soprattutto “da testa”42, Madonne, come la Madonna col Bambino di Palazzo Pitti (cat. 14), Maddalene (cat. 11) e altre primattrici del Nuovo Testamento. Al febbraio 1619, poco prima della fuga, la Guardaroba granducale registra l’ingresso di un monumentale Bagno di Diana dipinto da Artemisia, di circa 2,20 x 3 metri, con ben otto figure femminili. Negli stessi giorni, la pittrice riceveva dai medesimi ufficiali medicei che dopo poco le avrebbero sigillato la casa un’oncia e mezza di “azzurro oltramarino”, cospicua quantità di puro lapislazzulo del valore di ben 50 scudi romani, destinata all’Ercole; ma sia la Diana che l’Ercole sono attualmente dispersi43. Ritratti o autoritratti dell’artista, le eroine rappresentate da Artemisia erano spesso le audaci e determinate protagoniste dell’Antico Testamento che uccidevano il nemico, maschio, violento e arrogante, o che, come Salomè, incoraggiavano terribili omicidi44. Al suo ritorno a Roma, nella primavera 1620, le antiche mattatrici delle storie sacre, il cui coraggio e il cui valore evocavano le vicende personali e il carattere fiero dell’autrice,

2. Artemisia Gentileschi, Ritratto di dama. Ubicazione ignota, già collezione Barbara Piasecka Johnson.

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lasciavano progressivamente il posto alle più celebri amanti della storia, a quelle Cleopatre, Lucrezie, Danae nelle quali la perdutamente innamorata Artemisia si identificava e che, proprio nella città eterna, divennero le migliori ambasciatrici della sua fama europea. Per la corte toscana, la figlia aveva eguagliato il padre. Autrice dell’alloriana Salomè, della Giuditta e la fantesca dal quasi onirico realismo (cat. 13), delle due versioni autografe della Giuditta che decapita Oloferne (cat. 10, 21) – eccelsi tributi al Caravaggio –, così come delle tre versioni, altresì autografe, della Maddalena (cat. 11, 12), già nel 1618 la fama e la stima godute da Artemisia a Firenze rivaleggiavano con l’ampia fortuna di Orazio a Roma45. Eseguite con sorprendente ricchezza di materiali, azzurri lapislazzuli e preziose lacche di garanza, le

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opere fiorentine di Artemisia denunciano l’apprezzamento dei principi medicei e una diffusa ammirazione per la sua pittura. Ma, a differenza delle ricche e variegate committenze romane, numerose e suscettibili ai repentini cambiamenti del potere e del gusto, quelle toscane, anche religiose, erano allora accentrate attorno alla corte e seguivano i gusti del granduca e della sua famiglia; quando la tubercolosi di Cosimo andò aggravandosi, nell’autunno del 1618, di mese in mese, sino alla sua morte il 28 febbraio 1621, la vita di corte, come quella delle arti, s’andò gradualmente spegnendo attorno a lui46. Denunciati dall’Accademia del Disegno, praticamente sin dal suo ingresso, i debiti contratti da Artemisia e dal marito a Firenze riguardavano vestiti, farmaci, mobili, suppellettili più o meno preziose, strumenti di lavoro47. Con la già ricordata supplica dettata al Picchena il 5 luglio 1619, Artemisia tentava di svincolarsi dalla legale tutela del marito, attribuendogli la dilapidazione della sua dote e la più parte dei passivi, ai quali, comunque, sembra aver sostanzialmente contribuito anche lei. La coppia spendeva e Artemisia, travagliata da ben quattro gravidanze in sei anni, ambiva a condizioni di vita agiata, com’è evidente dalla lista degli arredi e dei dipinti rimasti nella sua casa in piazza Frescobaldi, e come attestano a più riprese le nuove lettere e quelle già note; la pittrice sentiva di appartenere a un livello sociale più alto, vicino a quello del suo nobile amico e amante Francesco Maria. Il ritorno a Roma, ai primissimi di marzo 1620, segnava la seconda tappa della sua eccezionale fortuna internazionale. La lunga esperienza fiorentina e il suo “amore benedeto” l’avevano preparata a dare il meglio di sé nella pittura, e nel giro di un anno, l’ultimo di regno di papa Borghese e di Cosimo II, la sorprendente “pittora” si affermava internazionalmente con altri capolavori, come la Giaele e Sisara di Budapest, riconosciuta da Ágnes Szigheti nel 197948. Il 2 marzo del 1620, da Roma, Stiattesi annuncia al Maringhi: “Siamo per dio Grazia arrivati a Roma venerdì sera a ore 23 sani e salvi […] e per la strada aviamo auto di molta neve pure ce la siamo passata allegramente e dove facemmo risoluzione, quando noi era-

Consci delle probabili reazioni negative dell’irascibile Orazio, che non tardarono a manifestarsi in tutta la loro violenza, Artemisia e Pierantonio trovavano subito un alloggio “dietro alla Chiesa Nova” e aspettavano di potersi sistemare con più agio: “in quanto alle nostre cose, Vostra Signoria ci farà grazia di tenerle appresso di se, fino a tanto che noi non li diamo altro ordine, perché aviamo poca voglia di starci ateso, che non è vero che Agostino Tasso sia in galera, pure staremo a vedere quel che segue e del tutto gli darò aviso. Lei [Artemisia] finirà i quadri e darà satisfazione a tutti e poi farà tanto quanto dio vorrà”50.

Ancora presente a Roma, il Tassi, condannato, ma libero e al lavoro per clienti prestigiosi51, costituiva una reale minaccia per Artemisia, che sembrava nondimeno pronta a riprendere il lavoro e soprattutto a portare a termine quei quadri (o quel quadro) per il granduca del quale Maringhi era riuscito a far slittare la consegna52. Infatti, continua Stiattesi: “Ora stiamo aspettando che giunga la cassa e subito si darà fine al quadro del Gran Duca, però Vostra Signoria stia col animo reposato che averà satisfazione e sarà desobrigata della promessa che ha fatto per lei [Artemisia], per fare mentire i sua nemici e qui si sta aspettando che arrivi e subito si darà ordine a darli fine”53.

Contro l’avviso di “sua nemici”, che in corte denigravano l’artista, Francesco Maria aveva dunque garantito la consegna differita delle opere (o dell’opera) da parte di Artemisia. La cassa con il prezioso azzurro oltremarino e altri colori necessari al completamento del dipinto sarebbe arrivata solo due mesi dopo, il 2 maggio54. Fuggendo da Firenze, gli Stiattesi avevano lasciato il certo per l’incerto, ma la scelta fu vincente, e quell’anno di vantaggio sulla diaspora dei pittori di Cosimo II, calati in massa nell’Urbe alla sua morte, poco prima dell’elezione del nuovo papa Gregorio XV Boncompagni, fu provvidenziale55. I primi tempi nella città eterna furono molto duri, ma già il 20 marzo Stiattesi informava Maringhi:

vamo per strada, di non volere scavalcare a casa il suocero e tanto mettemmo in esecuzione e subito pigliammo casa da noi e stiamo

“Artemisia non n’è mai a suo dì stata mai meglio che adesso, sì della

dalla Chiesa Nuova in una bella casa e l’aviamo fatta mettere a ordi-

vita come ancho della quiete d’animo e qui va aumentando in gran-

ne per adesso di quel pocolino che si è posuto”49.

dissimo credito fra questi principi”56

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e il 5 aprile la pittrice così rispondeva appassionata a una lettera dell’amato: “Se Vostra Signoria si potesse inmaginare quanto sia l’allegrezza che io o avuto quando ebbi la sua, la si stupiria, se Vostra Signoria non diventasse uno angiolo non è mai inpossibile che altremente lo potesse vedere”57.

L’affettuosissima apertura lascia campo alla cruda descrizione delle liti furibonde avute col padre e col fratello Giulio durate un’intera settimana, costellata da episodi di gravi violenze sulla donna. A seguito di un elogio di Pierantonio, suo leale e coraggioso difensore dalle aggressioni fisiche dei familiari, Artemisia conclude perentoria: “Basta, io ho conosciuto il mio marito, adesso io sto bene in tutte le cose e già o avuto de’ lavori in quantità, e io o una casa assai bella e bene in ordine, non ci manca se no voi”.

Forte del sostegno incondizionato dell’amante, e delle reazioni positive dello Stiattesi – uomo, tutto sommato, con qualche qualità –, l’eccellente e coraggiosa pittrice, ancora una volta battuta e sgridata da padre e fratello, si abbandona, nella sua prosa scorretta, a una struggente dichiarazione d’amore: “Io ho tanto gusto che voi mi voliate bene che più non si puole inmaginare, massimo come mi pare che Vostra Signoria me ne volia, serbativi sano acciò che la veggia presto, che con grande disiderio vi aspetto. Ricordatevi di me la millesima parte che io fo di voi, io so tutta vostra e vi ricordo quelle promesse e tutte tutte. La mia cassa non è venuta, che subito che è giunta, so quanto io sono in obrigo. State allegramente più che sia inpossibile. A dio vita mia carissima, senza voi io non so niente e vi bacio le mano che tanto mi piacciano, di Roma il 5

probabilmente per avere favorito la fuga dell’artista e occultato in casa molti suoi quadri, alcuni dei quali era riuscito a inviarle a Roma già a fine febbraio. Sebbene il 6 marzo giungesse la prima cassa con “li quadri”60, i coniugi continuavano a reclamare le loro “robbe”, in parte distribuite dai funzionari medicei in pegno ai loro creditori. Per due ordinari61, il gentiluomo inquisito non aveva risposto alle loro missive e l’11 aprile, con due lettere diverse, Artemisia e Pierantonio gli annunciano la morte del loro figlioletto Cristofano, di cinque anni. La donna cadeva in una profonda depressione. L’imboscata tesa al Tassi, ferito da due archibugiate, non bastava a tranquillizzare Artemisia, dilaniata dal dolore e tartassata dalle violente scenate del padre, che finalmente interrompeva ogni rapporto con la figlia62. Dopo poche settimane, con la sola piccola Prudenzia-Palmira, la coppia cambiava casa per trasferirsi, a spese del Maringhi, nella vicina via Sora, nell’abitazione romana del nobile Luigi Vettori, ricco fiorentino, amico e compare del cavalier Matteo Frescobaldi dal quale Artemisia aveva già affittato un altro locale a Firenze63. Appena rilasciato dalla giustizia granducale, Francesco Maria riusciva finalmente a spedire a Roma un’altra cassa per la “pittora” contenente il tanto atteso “azzurro del Granduca” (2 maggio) per terminare l’opera del sovrano morente. Artemisia dipingeva giorno e notte, cercava di superare il dolore per la scomparsa del figlioletto, mentre vinceva la partita d’onore e di bravura con il padre. Si tornava ai tempi d’oro, Stiattesi gestiva e proteggeva la moglie come poteva e – forse non era all’oscuro del grande amore che la univa al ricco fiorentino – teneva al corrente Maringhi dei progressi dell’amata. Già il 30 maggio, mentre la pittrice gli scriveva in segreto lettere emozionate, non senza un certo sussiego Pierantonio lo informava dell’eccezionale successo riscosso dai dipinti della moglie:

di marzo 1619, Di Vostra Signoria, Serva Fedele, Artemisa Lomi”58. “Vostra Signoria abbia per scusata Artemisia se non scrive perché

Precoci capolavori dell’epistolografia amorosa , le sgrammaticate quanto intense e appassionate lettere dell’artista non facevano altro che aumentare la passione del patrizio fiorentino che si prodigava per aiutarla, come e quanto più poteva, a proprio rischio e pericolo, sino a essere fermato dalla polizia granducale. Tra la fine di marzo e i primi d’aprile, infatti, Francesco Maria venne inquisito e trattenuto dalla giustizia 59

ha tanto che fare e tanti lavori, e qui ci corre tutti questi Cardinali e Principi che sempre ho la casa piena a tale che non ha tanto tempo di potersi mettere le mane a bocha, però Vostra Signoria la scusi perché non può fare altro”64.

Le commissioni aumentavano e Artemisia portava a termine dipinti già iniziati e tele ancora vergini. Non si conosce il

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numero dei quadri giunti a Roma il 6 marzo, né di quelli del secondo invio, ma l’artista, ormai indipendente e autonoma, era richiestissima. Accoglieva gli ordini di cardinali e principi per nuove e inedite storie delle sue eroine e riceveva giovani nobildonne, appartenenti a famiglie dalle storie antiche, che le commissionavano i propri ritratti. Al tempo, le sedute di posa di una donna con una pittrice erano certamente più facilmente accettabili da parte della vecchia nobiltà romana. Qualche decennio prima, in piena Riforma Cattolica, quella stessa facilità del sesso aveva determinato la fortuna di Lavinia Fontana, eccelsa ritrattista nella Bologna del cardinal Bellarmino. Documentata alla primavera del 1620 è l’esecuzione di un Ritratto della principessa Savelli, forse Caterina (1590 circa - 1639), figlia del nobile Paolo Savelli, appartenente al ramo secondogenito dell’antica famiglia romana, andata in sposa a Paolo Savelli

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primo principe di Albano (1607), figlio di Bernardino, duca di Castelgandolfo e di Laura dell’Anguillara. L’effigie dipinta da Artemisia potrebbe essere stilisticamente e cronologicamente plausibile con la splendida tela, già attribuita alla pittrice, raffigurante una giovane donna a sedere in un ricchissimo – ma leggermente démodé – abito di velluto nero ricamato d’oro, corpetto e maniche in tela d’oro, collana di diamanti, orecchini di perle e diamanti65 (fig. 2). Notato e avvicinato all’arte della “pittora” da Hermann Voss66, prudentemente attribuito ad Artemisia da Federico Zeri e Nicola Spinosa67 e considerato positivamente dal Papi, il ritratto è stato studiato da Ward Bissell68 che ne affermava con certezza l’autografia nella monografia del 1999. Ma Bissell collocava la tela al 1630, rifacendosi a una lettera della pittrice al cavalier Cassiano dal Pozzo del 21 dicembre di quell’anno69. Considerate le strette analogie di stesura con il

3. Artemisia Gentileschi, Giaele e Sisara, particolare. Budapest, Szépmüvészeti Múzeum.

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Gonfaloniere del 1622 (cat. 22) e con l’Antoine de Ville del 162526 (cat. 24), di cui anticipa i meticolosissimi merletti (in questo caso l’oro attorno al colletto), il Ritratto potrebbe effettivamente collimare con l’effigie di Caterina Savelli, allora principessa en titre, dipinta da Artemisia nel marzo-aprile 1620, con moduli molto vicini a quelli di Lavinia Fontana. Certamente inclusa nella prima spedizione giunta dal Maringhi, arrivata alla Dogana Vecchia il 6 marzo 1620, era la tela raffigurante Giaele e Sisara, firmata e datata sul pilastro di pietra: “artemitia. lomi faciebat mcxx” (fig. 3). Con un lungo pedigree imperiale, la tela orizzontale pervenne a Budapest a fine Settecento70. “Vieni e ti farò vedere l’uomo che cerchi”, disse Giaele (Forza di Dio) invitando nella sua tenda il generale ebreo Barac e mostrandogli il corpo morto di Sisara, l’oppressore cananeo da lui ricercato, appena ucciso dalla donna con un chiodo nella tempia71. Punto fermo della cronologia dell’artista, il dipinto mostra un’altra vittoria femminile, una storia d’intelligenza e forza d’animo, favorita dalla debolezza dell’arrogante nemico, nella perenne ricerca di libertà e giustizia. L’invenzione di Artemisia, ispirata da una stampa di Philipp Galle (1537-1616) e da un celebre dipinto del Cigoli (cat. 17), nasceva dalla sua raffinata elaborazione della pittura dei massimi artisti toscani di fine Cinquecento, da Santi di Tito a Ludovico Cigoli, ed è collocabile in quegli “esiti finali” del suo soggiorno fiorentino magistralmente descritti da Gianni Papi, ricchi del luminismo caravaggesco che tanto era piaciuto alla corte di Toscana. Il quadro, copiato dal Guercino72 e ripreso dal Fiasella73, era quasi certamente tra quelli da finire per il granduca, forse quello distrattamente citato da Pierantonio nella sua lettera al nobiluomo del 20 marzo 1620. Economicamente sempre più coinvolto dal successo della moglie, il marito-impresario ripete nella missiva, per l’ennesima volta, l’urgenza di ricevere le “robbe” al fine di arredare convenientemente la loro casa, che accoglieva ormai clienti d’alto rango:

Che si trattasse dell’Ercole perduto? Con un’eventuale, bellissima Iole (o Onfale) a carico? 74 Il quadro era stato richiesto in copia dal cardinale Alessandro Damasceni Peretti Montalto (1571-1623), pronipote di Sisto V, collezionista rinomato e parente della principessa Savelli75 ritratta da Artemisia; se ne realizzava subito un cartone per poterlo replicare, purché sempre variato76, anche per il conte d’Oñate nel 1628. Ma la menzione della Iole potrebbe anche trattarsi, più semplicemente, di una svista di Stiattesi, che adottava una storpiatura romanesca dell’allora desueto nome ebraico di Giaele. Com’è evidente dalle diverse redazioni della Maddalena di Palazzo Pitti (cat. 11, 12), delle teste di Sante martiri e della celebre Giuditta oggi a Napoli (cat. 10), già a questa data Artemisia ripeteva e variava frequentemente le proprie invenzioni utilizzando cartoni e spolveri, avvalendosi spesso di assistenti

“[raccomando] sopra tutto la spedizione, e non la metta a lungo, acciò noi possiamo mettere la nostra casa a l’ordine, perché qui i lavori vanno crescendo e della Iole il cardinale Montalto ne vole una copia che si è dato già l’ordine a farla”.

4. Simon Vouet, Autoritratto. Lione, Musée des Beaux-Arts.

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casa è avanti che si arrivi a Ripetta e si domanda il palazzo del Vantaggi, e domandi della pittora che subito li sarà in segniato” 79.

che le preparavano le tele e i colori, com’era il caso dell’ingrato Alessandro Bardelli, pittore di Pescia77. L’attività quasi forsennata di quella tarda primavera romana vedeva gli infaticabili Stiattesi cambiare ancora una volta d’abitazione, in giugno, per trasferirsi in un più spazioso appartamento nel palazzo del Vantaggi, sull’omonima traversa del Corso presso piazza del Popolo. “Finalmente le cose ci vanno mellio assai di quello ci pensavamo”, scrive un quasi incredulo Stiattesi a Maringhi il 9 luglio. “I sua parenti la guardano e la lasciano stare”: il padre Orazio e i fratelli di Artemisia dovevano essere esterrefatti del successo della “pittora” e intimoriti dalle maniere forti del marito, probabile committente dell’agguato ad Agostino Tassi78. Lusingato dalle attenzioni del gentiluomo, il compiacente Pierantonio invitava Maringhi nella loro nuova residenza: “Se a sorte Vostra Signoria viene a Roma ce l’avisi innanzi, acciò li possiamo fare quello honore che merita e che poteremo. La nostra

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Le ricche e variegate commissioni romane e il florido mercato artistico dell’Urbe, in espansione anche negli ultimi mesi del regno borghesiano, corteggiavano Artemisia ricompensandola delle angosce fiorentine. Nel 1622 l’ormai insigne pittrice conosceva il francese Simon Vouet (1590-1649) (fig. 4), forse già incontrato a Firenze quand’era pensionnaire della Reine mère Maria de’ Medici80. Di ritorno dal suo viaggio di formazione nel Nord Italia, dove aveva soggiornato più mesi, anche al servizio di Marc’Antonio Doria, l’astro nascente della pittura romana ritrovava il prudente cavalier Cassiano dal Pozzo (1588-1657), esperto e cognoscente d’arte molto vicino all’anziano cardinale Francesco Maria del Monte (1549-1626). Nel 1615 Cassiano aveva riconosciuto il talento del venticinquenne Vouet, appena giunto nella capitale papale a spese della regina fiorentina, dopo un viaggio a Costantinopoli al seguito di Achille de Harlay barone di Sancy (1581-1646), ambasciatore francese presso la Sublime Porta. Allora, Dal Pozzo l’aveva introdotto nelle residenze del cardinal Del Monte per arricchire la sua formazione artistica e favorirlo nel programma, richiestogli da Parigi, di copiare le opere del Caravaggio. Erano passati sette anni e ora, alla sua ricomparsa a Roma, carico di memorie, disegni e schizzi della pittura emiliana, lombarda, veneta e genovese, Vouet ritrovava Cassiano e dipingeva per lui81. La cerchia dei colti ammiratori delle sue creazioni lo incoraggiava spingendolo verso il successo: il vecchio del Monte, divenuto appassionato della nuova pittura chiara del giovanissimo Andrea Sacchi (1599-1661), prelati potenti e letterati eruditi, come il cardinale Maffeo Barberini – futuro Urbano VIII – e Ferrante Carlo, gravitanti attorno al cardinal Borghese, “padrone” e nipote del regnante Paolo V. A dir poco coinvolgente fu l’incontro del francese con Artemisia, sino al punto di arricchire la pittura magistrale di Vouet con quel misterioso fasto della seduzione proprio dell’arte della pittrice nella sua maturità romana82. Libero, generoso, colto, dotato di un’incredibile facilità di tratto, Simon si preparava a vivere

5. Artemisia Gentileschi, Lucrezia, particolare. Collezione privata.

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la più fulgida stagione della sua vita alla corte dei Barberini. L’elezione del papa-poeta, il 6 agosto 1623, e l’ascesa ai massimi ranghi del suo consigliere dal Pozzo, antico protettore del francese, l’avrebbero proiettato nell’empireo dei grandi nomi dell’arte romana, e dunque a quel tempo europea, incoronandolo Principe dell’Accademia di San Luca nel 162483. Costellata di sensuali Lucrezie, Cleopatre e Danae, di storie antiche al femminile avvolte da un’aura di teatrale caravaggismo, ma sempre cariche del suo evidente realismo emotivo, le tele di Artemisia fecero furore nel breve regno del bolognese papa Ludovisi84. Pensiamo alla Lucrezia di collezione privata milanese (fig. 5), vero capolavoro, ancora fiorentino nell’altissima applicazione tecnica, ma finito a Roma a pochi mesi dal rientro, carico di emozionante drammaticità e intriso di quel realismo scevro che aveva abbandonato il teatro di corte, le rifiniture preziose delle scenografie, le tracce delle riuscitissime interpretazioni delle Giuditte caravaggesche. Lontana dagli eleganti palcoscenici, antichi e moderni, della Maddalena Pitti o della Giaele, la Lucrezia è un ritratto intimo della pittrice di ragguardevole intensità, che senza dubbio impressionò il pubblico internazionale della capitale papale. Artemisia tornava ai suoi primi temi romani, come la Cleopatra della stessa collezione milanese (cat. 32), o la Danae di Saint Louis (cat. 19), che mostrano la geniale rivisitazione dei classici temi veneti ed emiliani dei lascivi quadri da camera85. Il genere aveva appassionato il cardinal Borghese e altri aristocratici collezionisti che si erano accaparrati a colpi di migliaia di scudi d’oro i grandi nudi di Tiziano e di Correggio, del Veronese e dei Carracci, e in esso si era cimentato con ampio successo anche l’ormai anziano Giovanni Baglione (1563-1643) 86. Ma Artemisia era una donna e ai suoi grandi nudi infondeva una bellezza opulenta, reale, senza belletto né idealizzazione, e quell’abbandono che solo una donna appassionata può conoscere. Fu l’originalità dell’artista, oltre al fascino della donna non ancora trentenne, a incantare Vouet, fortemente toccato dalla sua pittura sino a esserne sensibilmente ispirato. Prova della loro intensa amicizia è il

6. Simon Vouet, Ritratto di Artemisia Gentileschi, particolare. Collezione privata.

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ritratto di lei dipinto dal francese tra il 1623 e il 1626 per Cassiano dal Pozzo87. La pittrice vi appare trionfante, sicura e affascinante, con pennelli, tavolozza e toccalapis in mano, guarnita di orecchini di perle e, poggiata sulla spalla sinistra, la collana d’oro con il grande medaglione di Mausolo, l’uomo del suo destino, ancora in vita (cat. 7 e fig. 6). Dopo la burrascosa fuga da Firenze dell’amata, che l’aveva pienamente coinvolto in reputazione e denaro, Francesco Maria Maringhi aveva certamente rivisto Artemisia a Roma prima del 10 febbraio del 1621, data dell’acquisto delle “robbe” lasciate in casa dell’amico Matteo Frescobaldi e sigillate dalla Guardaroba medicea. I due si incontreranno, credo, sempre più di frequente, sino alla fine delle loro vite. Purtroppo il loro carteggio ulteriore non si è conservato e l’ultima carta di lei è datata al 12 settembre 1620. Una lettera di fuoco, una scenata di gelosia nella quale pretestuosamente Artemisia accusava il gentiluomo di volerle sottrarre i suoi beni. Scrive la pittrice: “Io so stata unno gran pezo in collara co’ Vostra Signoria, ma poi mi so risoluta di dire il mio parere acciò che no si possa lamentare di me il qual parere è questo che mi promestesti subito che li scrivevo che

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aiutare il saggio e generoso Matteo Frescobaldi nei suoi molteplici e fortunati mercati di generi di lusso, per poi partire per un lungo viaggio di lavoro a Costantinopoli. Intanto, lei assurgeva alla gloria ed era nominata in pectore all’Accademia di San Luca93, dove ormai sedevano l’ammiratore Monsù Vouet e il sempre più potente cavalier dal Pozzo, divenuto amico e protettore della pittrice (fig. 7). Dopo poco, il 5 aprile 1623, appena sbarcato ad Ancona di ritorno dalla Turchia, Francesco Maria era accolto da una lettera di Antonio Selvatico, gentiluomo al servizio del cardinale Maffeo Barberini di stanza a Roma. Futuro amministratore della ricca Arciconfraternita del Gonfalone, Selvatico rispondeva a una carta del Maringhi e riferiva: “Son stato in nome di Vostra Signoria dalla Signora Artemisia, bella più che mai et desiderosa di veder Vostra Signoria quanto dir si possa, io l’ho assicurata del presto suo ritorno, et mi ha comandato che io gli scriva che la sta aspettando et fra tanto gli fa mille bacia mano con quell’affetto maggiore che lei si può imaginare”94.

venissi a Roma che saresti venuto e ancora quando io vi mandavo a cercare le mie robe che subito mi aresti mandato ogni88 cosa, ma io no vedo niente di queste promesse, io veggo che sete tutto spagnolo89, cioè90 che la vostra parola se la porta il vento, no porta niente”91.

E seccamente conclude: “Basta, io vedrò forse quel che io penso e si farà a un pezzo per uno, e qui fo fine e tenete a mente questo che è92 scritto su questa carta e fate conto che sia il Vangelio di San Giovanne e dio vi guardi, questo dì di settembre dodice in del ano mili seicento e viti”.

Dopo aver saldato quei 165 ducati all’amante, il 10 febbraio 1621, Francesco Maria ritornerà ai suoi affari e riprenderà ad

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Artemisia viveva comodamente nei suoi appartamenti del Corso, con la figlia Palmira e due servitori; Stiattesi era partito per non far mai più ritorno; riapparivano i fratelli Giulio e Francesco, che talvolta dimoravano da lei95. La “pittora” aveva seguito la propria strada, grazie a Cassiano era entrata a far parte della cerchia dei primi artisti di Roma e dipingeva per le più ricche committenze dell’epoca. La storia con Francesco Maria continuava a Roma, così come a Napoli, dove attorno al 1630 Artemisia dipingeva quel misterioso Autoritratto allo specchio con l’effigie di un cavaliere (fig. 8), la cui storia potrà presto essere ricostruita. Figlia di uno dei più quotati pittori del suo tempo, cresciuta nell’aura della stupefacente pompa del regno borghesiano e delle sontuose anticamere cardinalizie, probabilmente presente, come un ragazzo, sui ponteggi dei più prestigiosi cantieri del genitore, sin da giovanissima la talentuosa pittrice aveva lottato per affermare quel suo naturale, straordinario talento artistico. Grazie all’apprezzamento dell’amato Maringhi, all’incoraggiamento dei clienti, degli ammiratori e di amici quali Vouet, il coltissimo dal Pozzo e il pittore napoletano Massimo Stanzione,

7. Gian Lorenzo Bernini, Ritratto del cavaliere Cassiano dal Pozzo. Windsor Castle, Royal Library, inv. R.L.5542.

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8. Artemisia Gentileschi, Autoritratto allo specchio con l’effigie di un cavaliere. Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini.

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sua guida preziosa nella città del Golfo, negli anni, con immensa fatica, la donna era riuscita a riscattare la stima di sé e anzi a considerarsi quella fuoriclasse che realmente fu Artemisia. Evidenti nel carteggio, la certezza del suo valore, l’innato senso di superiorità meritevole di un trattamento speciale, oltre all’aspirazione alla fama e a una vita nobile e ricca, l’accompagneranno per tutta la vita. Nel 1635, ormai ben installata a Napoli, a capo d’una popolosa bottega formata da giovani di eccezionale talento, la Signora dettava lettere dal tono sbalorditivo a Francesco I d’Este duca di Modena (25 gennaio) e al granduca Ferdinando II de’ Medici (20 luglio). Nello stesso anno scriveva anche al suo vecchio amico Galileo Galilei (20 ottobre) pregandolo, tra l’altro, di risponderle “sotto coperta” del signor Maringhi, anch’egli residente a Napoli! Tutt’altra padronanza e sicurezza: cambiata la donna, caparbia e autocelebrativa; riuscita l’artista, e ancora battagliera. A Napoli, nel 1635, prima dell’ancora lacunoso viaggio in Inghilterra del 1637-39, dov’era stata chiamata dal padre, ma dove giungeva anche in qualità di agente diplomatico dei Barberini, la quarantaduenne Artemisia è vicina al suo uomo, e forse addirittura sposata

1. Recentemente rinvenute all’Archivio Storico Frescobaldi e Albizzi (Firenze) da chi scrive, trentasei lettere autografe di Artemisia e del marito Pierantonio Stiattesi a Francesco Maria Maringhi sono pubblicate integralmente e discusse nei dettagli in Lettere di Artemisia 2011.

a lui in segreto. In quel momento di forza e sicurezza, poteva senza mezzi termini informare il duca di Modena di “haver servito tutti li maggiori Potentati d’Europa, alli quali [i miei quadri] son graditi, come frutti d’un arbor impotente à partorirli”96. Si vantava con il giovane granduca di Toscana di aver fatto aspettare Carlo I: anche se “Sua Maestà d’Inchilterra […] molte volte prima mi haveva richiesto a quel servitio”, il suo viaggio in Inghilterra era stato ritardato: “perché mi trovavo in Napoli, al servitio di questo Viceré, per dar fine ad alchune opere comingiate per Sua Maestà Cattolica [Filippo IV di Spagna], non potei in nessuna maniera contentare la Maestà d’Inchilterra”97. Poteva, infine, lamentarsi del silenzio dello stesso giovane granduca con Galileo Galilei già in esilio in Arcetri, dichiarandogli apertamente: “da Sua Altezza Serenissima, mio Prencipe Naturale98, non ho ricevuto gratia nessuna; assicurando Vostra Signoria che più haverei stimato un minimo delli suoi favori, che quanti ne ho havuti dal Re di Francia, il Re di Spagna, dal Re d’Inghilterra, et da tutti li altri Prencipi dell’Europa, stante il desiderio che ho di servirlo et di rimpatriarmi; et a consideratione della servitù c’ho fatta al Serenissimo Suo Padre [Cosimo II] tant’anni”99.

Appendice I e relativa bibliografia. 5. ASF, Mediceo del Principato, 998, c. 206r.

si manifestarono proprio nel 1613, pochi mesi dopo l’arrivo di Artemisia a Firenze; si veda il classico, documentatissimo Pieraccini 1886, II, pp. 323-345 e infra nota 46. 8. Per la descrizione dell’ultima abitazione di Artemisia a Firenze, presa in affitto, si veda Contini, Solinas 2001 e Lettere di Artemisia 2011.

3. Discosta da due sole carte dall’inedita da noi ritrovata nello stesso manoscritto, la missiva non autografa è conservata in ASF, Mediceo del Principato, 998, c. 204, pubblicata in Crinò 1960, e in una nuova trascrizione in Lettere di Artemisia 2011.

6. Si veda la supplica allo stesso Cosimo II rilasciata il 5 giugno 1619 da Artemisia al segretario di stato Curzio Picchena (1553-1626) – e non Pulini come erroneamente letto da Ward Bissell – in ASF, AD, Atti e sentenze, LXIV, c. 724 r. Colto uomo politico toscano e amico di Galileo Galilei, Picchena accoglieva la dichiarazione dell’artista che imputava al marito Stiattesi il suo stato d’indigenza e chiedeva la grazia della sentenza emessa contro di lei dall’Accademia del Disegno per debiti (se ne veda la trascrizione in Lettere di Artemisia 2011); su Artemisia a Firenze, si veda Cropper 1992 e Cropper 1993.

4. Per l’anticipo ricevuto da Artemisia per la pittura di un Ercole nel gennaio 1619, si veda

7. “Gracilis totius corporis” sin dall’infanzia, le prime avvisaglie della tubercolosi del granduca

11. Sull’affascinante e avventuroso personaggio, si veda infra nota 24 e Lettere di Artemisia 2011.

2. La lettera, inedita, è conservata nell’Archivio di Stato di Firenze (d’ora innanzi ASF), Mediceo del Principato, 998, c. 206r. Per una più esaustiva discussione, si veda Lettere di Artemisia 2011.

9. Per la supplica di Artemisia a Cosimo II, si veda supra nota 6. 10. La vita di una donna era al tempo garantita – e di solito gestita – dal marito, dal padre o dai fratelli maschi; erano poche le eccezioni, e Artemisia una di esse.

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12. Il luogo dal quale partirono Artemisia e Pierantonio potrebbe identificarsi con la villa di Piazza Calda, fuori Porta al Prato, tenuta appartenente al Maringhi. 13. mettervi nel testo. 14. Il fiume Bisenzio, che s’incontrava sull’antica strada da Firenze a Prato, scorreva al tempo in gole impervie e profonde. 15. Trascritta e annotata in Lettere di Artemisia 2011. 16. Lettere di Artemisia 2011, con ulteriori precisazioni critiche e notizie sullo spesso evocato viaggio a Bologna della pittrice.

24. “Signori” sin dal Duecento, ricchi possidenti e mercanti, i Maringhi discendevano da un nobile Meringo, attraverso diversi matrimoni si erano alleati con potenti famiglie fiorentine. Figlio naturale di Niccolò di Francesco, morto senza altri eredi nel 1602 (sepolto il 5 gennaio nella tomba di famiglia in Santa Maria Novella) e alleato dei Frescobaldi, Francesco Maria era solo al mondo, proprietario di un discreto capitale e di numerosi immobili e terre. La sua parente più prossima era la zia Maddalena, sorella del padre e moglie del cavalier Giovan Battista di Carlo Rimbotti, nobile famiglia molto legata ai Medici. Prima di morire, con una specifica menzione nel testamento, il padre lo affidava alla protezione del cavalier Matteo Frescobaldi, che per tutta la vita lo sostenne e lo aiutò; per il personaggio, per i suoi carteggi intrattenuti con Matteo Frescobaldi e con i suoi figli, si veda Lettere di Artemisia 2011.

30. Si veda Ruffo 1916, pp. 46-54. 31. In tutte le missive note, solo le firme di Artemisia sono autografe; in quella a Galileo Galilei, del 20 ottobre 1635, anche quella è apposta da uno scriba. 32. Mann 2009. 33. Sull’Ercole si vedano qui Appendici I e II e relativa bibliografia; nel 1628, un altro Ercole e Onfale di grandi dimensioni eseguito da Artemisia era acquistato a Roma dal conte de Oñate, ambasciatore di Spagna presso papa Urbano VIII; si veda Appendice II. 34. Il tutto in ASF, AD, Atti e sentenze, LXIV, f. 724.

17. Alcuni suoi dipinti erano stati preventivamente depositati a casa dell’amante. 18. In seguito chiamata più frequentemente Palmira, unica figlia superstite dei quattro avuti dalla pittrice; si veda Appendice I. 19. Sui figli degli Stiattesi, nati tutti a Firenze tra il 1613 e il 1617, si veda Cropper 1992 e Cropper 1993; durante la fuga, i due bambini erano probabilmente ospitati alla villa di Piazza Calda, fuori città.

25. Sono estremamente grato a Elena Lombardi dell’Archivio della Casa Buonarroti di Firenze per avermi gentilmente comunicato il contenuto di due lettere di Antonio Corsi a Michelangelo il Giovane, del 18 e del 20 maggio 1624, nelle quali lo scrittore e nobile cortigiano dei Medici informava il nipote di Michelangelo, allora a Roma, degli avvenimenti fiorentini. Tra le notizie, Corsi riportava di una rissa con diversi accoltellamenti, nella quale era stato coinvolto il loro comune amico Francesco Maria Maringhi, gravemente ferito; si veda Lettere di Artemisia 2011.

35. Sul dono, si vedano qui Appendici I e II. 36. Su Pierantonio Stiattesi, si veda Cropper 1992 e Cropper 1993, oltre a Lapierre 1998. 37. Per la sfavillante fioritura artistica e culturale del principato di Cosimo II, si veda Barocchi, Gaeta Bertelà 2002, I, vol. 2; Barocchi, Gaeta Bertelà 2005, II, vol. 1. Per il gusto raffinato di don Lorenzo, resta valida la ricostruzione di Borea 1977.

26. Per l’allontanamento dello Stiattesi, si veda qui Appendice I e relativa bibliografia. 20. Trascritta e annotata in Lettere di Artemisia 2011; nella grafia di Stiattesi, solo la firma autografa di Artemisia.

38. Bissell 1999, p. 141. All’Accademia Artemisia è garantita dal padre. 27. ripozone nel testo. 39. Artemisia 1991.

21. Lettere di Artemisia 2011. 22. Per i rapporti formali con le opere di Lavinia Fontana, si veda qui la scheda di Carla Bernardini sul Ritratto di gonfaloniere (cat. 22). 23. Sulla vicenda di Ginevra Manciulli, serva del Maringhi gelosa di Artemisia, incarcerata a Prato per un furto commesso nella casa del gentiluomo, si veda Lettere di Artemisia 2011.

28. Tra gli studi recenti sulla cultura delle donne in Italia tra Cinque e Seicento, si veda Pomata, Zarri 2005; oltre al tradizionale De Blasi 1930. 29. Dotto filologo fiorentino, al servizio del cardinal Neri Corsini, avvezzo a riscrivere e correggere le lettere artistiche da lui pubblicate nella celebre Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura (Roma, Eredi Barbiellini, 1754).

40. Artemisia 1991. 41. Per il clima culturale di Firenze, si veda in questa sede il saggio di Rodolfo Maffeis. 42. Tra le diverse versioni autografe della Santa martire, ce ne segnala una Franco Paliaga, di superba qualità, dipinta su tavola, conservata in

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una collezione pisana e di prossima pubblicazione per sua cura. 43. Si vedano qui Appendici I e II e relativa bibliografia. 44. Riconosciuto come opera di Artemisia da Gianni Papi e a ragione posto in stretta relazione con la Giuditta che decapita Oloferne di Capodimonte, il dipinto andò distrutto in un incendio dei depositi del Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra; cfr. Papi 1991, pp. 38, 40, 59.

53. Lettere di Artemisia 2011. 54. Lettere di Artemisia 2011, lettera di Stiattesi a Maringhi. 55. Fenomeno ancora poco studiato, ma rilevato dalle fonti contemporanee, la diaspora degli artisti di Cosimo II poco prima e subito dopo la sua morte portò a Roma alcuni tra i più valenti artisti del suo regno, tra i quali Jacques Callot, Claude Lorrain, Filippo Napoletano, Poelemburg, Breenberg, Giovanni da San Giovanni.

via del Moro. Qualche anno dopo, nel 1626, il nobile fiorentino accompagnava la principessa Claudia de’ Medici a Innsbruck nei suoi sponsali con l’arciduca Leopoldo V del Tirolo; Vettori fu quindi inviato alla corte di Vienna in qualità di ambasciatore del granduca e gli fu concesso il titolo di marchese; si veda Lettere di Artemisia 2011 per le sue rimostranze al Frescobaldi sullo stato nel quale Artemisia lasciava l’alloggio di sua proprietà. 64. Lettere di Artemisia 2011 (27 aprile). 65. Caterina avrebbe allora poco meno di trent’anni ed era madre di almeno quattro figli.

45. Come ribadiva Andrea Cioli, segretario di stato di Cosimo II, in una lettera del 16 marzo 1615 a Piero Guicciardini, ambasciatore dello stesso granduca a Roma. 46. La salute di Cosimo II peggiorava drammaticamente a partire dal marzo 1616, con crisi sempre più frequenti. Il sovrano era spesso assente per lunghi soggiorni a Pisa e a Livorno, e la vita di corte ne era pressoché paralizzata; si veda Pieraccini 1886. 47. Cropper 1992; Cropper 1993.

56. Lettere di Artemisia 2011. 57. Lettere di Artemisia 2011. 58. Lettere di Artemisia 2011 (anno fiorentino: 1620). 59. Si dovrà aspettare circa un secolo per trovare in Francia un analogo carteggio d’amore tra il Cavalier d’Aydie (1692-1761) e la bella schiava circassa Charlotte-Elisabeth Aïssé (1693 circa 1733); si veda Dusolier 1924. 60. Scrive Stiattesi: “aviamo ricevuto li quadri e prego V. S. a darci qualche nuova di costà; non aviamo anchora potuto cavarli di dogana per essere la quadragesima”; si veda Lettere di Artemisia 2011.

48. Szigheti 1979. 49. Lettere di Artemisia 2011. 50. Lettere di Artemisia 2011.

61. Il corriere ordinario tra Roma e Firenze aveva decorrenza settimanale.

51. Per gli impegni assolti dallo “stupratore”, eccellente pittore di vedute, architetture e ottimo frescante, nella primavera del 1620, si veda Cavazzini 2008. 52. Tra febbraio e marzo, l’inadempiuta commissione granducale oscilla tra plurale e singolare, per stabilirsi in maggio su un solo dipinto, probabilmente consegnato a fine settembre dalla stessa pittrice.

62. Nella lettera del 27 marzo, Stiattesi annuncia al Maringhi: “Stamattina, che siamo di sabato, finalmente Artemisia et io laviamo rotta chon il Signor Orazio suo padre per sempre ed è venuta [Artemisia] alle brutte bene et io sono entrato per terzo e finalmente mi ha detto a me che non vole mai più mettere piede in casa nostra e questo ho caro e più perché è finita”. 63. Risale all’8 ottobre 1619 il contratto di affitto di un altro appartamento a Firenze in

66. Al momento della dispersione dell’antica collezione inglese di Sir Foster Cunliffe ad Acton Hall; Sotheby’s London, 1 febbraio 1950. 67. All’epoca del suo passaggio nella collezione della Barbara Piasecka Johnson Foundation a Princeton (1987). 68. Bissell 1999, pp. 237-239, fig. 120. Il ritratto è fermo e dettagliatissimo, ma raffinatamente sfumato nella definizione dei tratti somatici e degli incarnati, preciso nella resa del ricchissimo abito, corpetto e doppia manica, modello d’influenza spagnola relativo agli anni Venti. La posa a sedere e la sedia girata verso destra riprendono i parametri della ritrattistica romana del tempo, condivisi da Lavinia Fontana attiva nella papale Bologna. 69. “Nel mio ritorno in Napoli, son stata assente molti giorni con occasione di servire una Signora Duchessa del suo ritratto”. Si vedano Appendici I e II e Lettere di Artemisia 2011. L’indizione potrebbe piuttosto riferirsi al cat. 23. 70. Riconosciuta nel 1978, durante il laborioso restauro presso lo Szépmüvészeti Múzeum; si veda Szigethi 1979, p. 35; G. Papi in Artemisia 1991, pp. 143-147; Bissell 1999, pp. 211-213. 71. Libro dei Giudici, 4, 17-24, riportato da G. Papi in Artemisia 1991, p. 143.

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72. Bissell 1999, che avvicina alla Giaele un disegno della Fondation Custodia di Parigi e un dipinto del Guercino, giunto a Roma via Firenze nel 1621.

81. Per Vouet e Cassiano, si vedano Solinas 1992, pp. 135-147 e le schede di F. Solinas in I segreti di un collezionista 2000, pp. 65-67 e in I segreti di un collezionista 2001, pp. 150-153.

87. Il ritratto è stato riconosciuto da Roberto Contini nel 2001 e da lui pubblicato in I segreti di un collezionista 2001; si veda qui cat. 7. 88. oni nel testo.

73. Papi 1991. 74. Dipinta da Santi di Tito nello Studiolo di Francesco I de’ Medici, la storia della bella figlia di Eurito è ricorrente nell’iconografia e nel teatro musicale seicentesco. Iole era stata offerta in sposa da Eurito, maestro di tiro di Ercole bambino, a chi l’avesse superato nell’arte del tiro coll’arco; vincitore della gara sul valente arciere suo antico maestro ma anche sui suoi tre figli, Ercole pretese la mano di Iole in premio, ma Eurito impedì l’unione fra sua figlia e il semidio. 75. Felice Peretti († 1650), nipote del cardinale e unica erede delle ingenti fortune dei nipoti di Sisto V, sposava, proprio attorno al 1620, don Bernardino Savelli, secondo principe di Albano e figlio dei principi Caterina e Paolo. 76. Sull’uso di cartoni per replicare le tele, si veda qui la scheda di Michele Nicolaci sulla Betsabea di Londra (cat. 41). 77. Sulla collaborazione del Bardelli con Artemisia si veda Lettere di Artemisia 2011. 78. Le maniere forti di Pierantonio sono anche documentate da una denuncia (ritrovata da Alexandra Lapierre) che lo vedeva accusato, nel giugno 1622, di aver ferito al volto uno spagnolo sotto la propria abitazione; Lapierre 1998, pp. 462, 471. 79. Lettere di Artemisia 2011. 80. Su Vouet si veda il catalogo della mostra a cura di Jacques Thuillier (Vouet 1990) e gli Actes du colloque international, a cura di Stéphane Loire, Paris 1992, che arricchivano cospicuamente la biografia dell’artista e le notizie sul suo soggiorno italiano. Ipotizzato a più riprese e documentato dalle opere, per un soggiorno giovanile di Vouet a Firenze si veda Vouet 1990.

82. Famosa è l’esclamazione della pittrice nella lettera a don Antonio Ruffo del 13 novembre 1649: “quando io domando un prezzo non fo all’usanza di Napoli che domandano trenta e po’ danno per quattro, io so’ romana e perciò voglio procedere sempre alla Romana” (Lettere di Artemisia 2011).

89. Spanolo nel testo. 90. cio nel testo. 91. Lettere di Artemisia 2011.

83. Su Vouet principe di San Luca nel 1624, si veda Vouet 1990. 92. e nel testo. 84. Il 28 gennaio 1621, moriva al Quirinale il sessantanovenne Paolo V Borghese, dopo ben sedici anni di regno. Attesa da tempo, la fine del pontificato trovava già ben schierati i tre principali partiti dei Cardinal Nipoti. Alessandro Montalto Peretti, nipote di Sisto V, e committente di Artemisia, poteva contare su sei cardinali, mentre Pietro Aldobrandini e soprattutto Scipione Borghese detenevano la maggioranza. In soli due giorni di scrutinio, eliminati il troppo anziano Roberto Bellarmino e il molto discusso Francesco Maria Del Monte, filo spagnolo “cardinale di Firenze”, si optò all’unanimità per il bolognese Alessandro Ludovisi (1554-1623), cardinale di Paolo V e candidato del nipote papale Scipione. Ludovisi prendeva il nome di Gregorio XV. Durante il suo corto regno, di appena due anni e cinque mesi, il nuovo papa mantenne l’ordine stabilito da Paolo V, perpetrando l’incoraggiamento dell’esuberante fioritura artistica romana, accrescendola con nuove commissioni e circondandosi di artisti appositamente chiamati a Roma, come il Domenichino e il Guercino.

93. Benché nessun atto sia stato ancora ritrovato a prova della sua appartenenza alla prestigiosa istituzione, un Ritratto di Artemisia era conservato nelle collezioni accademiche sino a qualche decennio fa. 94. Per il personaggio e i suoi contatti col Maringhi, si veda Lettere di Artemisia 2011; Maringhi è sempre più di frequente documentato a Roma, agente e socio in affari di Matteo Frescobaldi al quale, nel 1628, firma una procura notarile sui suoi beni romani, informazione che devo alla cortesia di Francesca Curti (Archivio di Stato di Roma, Uff. 36, vol. 39, c. 404). 95. Per le abitazioni di Artemisia e per il personale al suo servizio, si veda qui Appendice I e relativa bibliografia. 96. Si veda la nostra nuova trascrizione in Lettere di Artemisia 2011.

85. Di solito coperti da tende, come il “quadro con una donna con un amore senza cornice coperta con suo tafetta verde della Gentilesca”, registrato in Palazzo Barberini nel 1644 (si veda Appendice II e relativa bibliografia).

97. Lettere di Artemisia 2011. 98. Citando la supplica dettata dal padre a Cristina di Lorena nel 1612.

86. Sulla pittura del Baglione si veda Aurigemma 1994, pp. 23-53; Smith O’Neil 2002. 99. Lettere di Artemisia 2011.

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Roberto Contini

legittimo immaginarsi un approdo della Gentileschi a Napoli non poi così largamente pregresso al 24 agosto 1630 della sua lettera indirizzata a Cassiano dal Pozzo, dalla quale traspare una certa qual avvenuta familiarità con la nuova sede. Il termine post quem è fissato al 19 gennaio dell’anno precedente, 1629, nel quale l’artista è ancora documentata a Venezia, nonché qualificata come consorte di Pierantonio Stiattesi1. Che poi l’impulso a spingersi nella metropoli mediterranea sia davvero da segnare sul conto del nuovo viceré, Fernando Afám de Ribera, duca d’Alcalà e che addirittura la pittrice si aggregasse nell’estate del 1629 al suo estimatore nella calata verso il di lì a un paio d’anni di nuovo eruttante Vesuvio, è congettura a suo modo fiabesca ma per la quale non si conosce alternativa maggiormente verisimile. Un pur non cospicuo anticipo sul 1630 iscritto – rara occorrenza – sulla tela con l’Annunciazione, prima pittura (fig. 1) a possibile destinazione chiesastica della Gentileschi, deve evidentemente essere preventivato. Solo così si potrebbe giustificare l’inclusione di sue opere in inventari di collezioni partenopee dell’abbrivo del quarto decennale del secolo. Ciò che equivale a un trasloco dalla Laguna a Mergellina con Roma quale mera tappa intermedia, tinteggiata di misure

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essenzialmente di ordine pratico-organizzativo, irrilevanti nell’autobiografia figurativa di Artemisia. Se il biglietto da visita della romana va necessariamente identificato nella convenzionale opera passata da Palazzo Reale a Capodimonte, senza che si sappia granché della destinazione originaria della pittura 2, è ben chiaro che molte tessere dell’evoluzione espressiva della figlia di Orazio difettano ancora al quadro complessivo. Concesso che Artemisia sia l’artista prensile per antonomasia, e che tra le sue creazioni meno digeribili contino alcune delle poche provviste di specificazione d’autografia e di determinazione temporale, si configurerebbe per eccesso di scetticismo destituzione di verosimiglianza e addirittura di autenticità per tali sigilli di garanzia. Ecco che, però, due firme associate ad altrettante date ci offrono – nel biennio che segue – la Gentileschi in pelle sempre più variabile: al 1631 con la Santa Caterina d’Alessandria già in una galleria antiquaria pavese3 (fig. 3); al 1632 con la musa Clio (cat. 30) confluita da qualche anno nelle raccolte della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa. Non toccando gli arbitrî di ciascun esegeta tesi a ricostruire una propria immagine di Artemisia, è epistemologicamente paradossale trovarsi costretti a revocare in dubbio persino talune delle certezze d’autografia e di posizione cronologica de-

Artemisia Gentileschi, Clio, musa della Storia, particolare. Blu, Palazzo d’Arte e Cultura, Pisa / Proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa.

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nunciate sui quadri medesimi. Si dovesse radicalmente epurare il catalogo della Gentileschi di questi numeri, ci perderemmo in qualità e varietà di segno, ma daremmo una verniciatura di plausibilità a un cammino cui queste pitture riuscirebbero d’intralcio. Ma è proprio grazie a esse che sul camaleontismo della figlia di Orazio – lui che lo fu solo una volta, ma quanto dirimente, al momento della conversione verso gli esempi del naturale, rimosso così il sovrappiù di cerebralmente manieristico – non si finirà mai di sentenziare. Così della “Musa della Storia, Clio”, dichiarata opera di “artemisia”, risulta fededegno caso mai il millesimo ugualmente segnato, 1632, senza però che la condizione di hapax legomenon cui la tela legittimamente dovrebbe aspirare sia veramente tale (giusta il caso pregresso esattamente di un decennale di una possente quanto vagamente guercinesca Susanna coi vecchioni a Burghley House e almeno ancora quello del rame spagnolo con la Vergine del Rosario, identificato con menzioni epistolari di un’opera estrema della Gentileschi) e possa anzi essere per via di stile, anche se non confortevolmente, controbattuta. Che cosa c’è di comune con il vouettismo della Santa Caterina d’Alessandria di Pavia, dell’anno precedente, cosa poi con l’Annunciazione napoletana del 1630? Forse, più che nelle altre, il vivo ricordo del fumare elettrico della materia nei veneti, postfazione di un Polidoro da Lanciano? Forse invece un raccordo col neovenetismo, a Napoli, del Ribera? Una familiarità, sulle opere, con Rubens e van Dyck? Mal si concilia, questo gonfiarsi di maniche, questo spalmare di biacca l’alloro e la toga, con i modi romani e napoletani. Vi è caso mai un sentore di Strozzi, e una capziosa familiarità con la squadra altotirrenica, con gli Assereto (Servio Tullio con i capelli in fiamme, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia), con gli Orazio De Ferrari (Ecce Homo, Chiavari, Quadreria di Palazzo Torriglia). È dunque solo in funzione di Ribera che un quadro dotato di tali coordinate di stile può trovare una giustificazione, un impatto mancato in passato per difetto di unità di tempo e di luogo, ma deflagrato nella pittrice immersa in una realtà di nostalgie caravagge-

sche, di osservanza di asettica norma classicista (Domenichino, Albani), di geniali innesti (giusto il valenzano). Se si pensa alla manica del Giacobbe dell’Escorial, coevo all’Allegoria di Artemisia, o al tipo della Vergine nella Trinitas Terrestris di Palazzo Reale, le pezze d’appoggio assumono particolare concretezza. Ma che cosa resta di una tale proiezione sul poco più anziano Ribera? Vi è forse un fil rouge da tenere sotto osservazione nel prosieguo della carriera della Gentileschi a Napoli? Da quel che al momento può nutrirsi il nostro giudizio, solo a intermittenza. Cedere alla vena “senza tempo” dei bolognesi a Napoli è forse più raccomandabile quando ne sia percettore l’ufficialità della corona della quale la città del Golfo è tributaria. Minata nella sua appetibilità da alterazioni in corso di rimozione preliminarmente alla mostra milanese, l’episodio della Nascita del Battista (cat. 31), destinato ad arredare il Buen Retiro in compagnia di un telero di Paolo Finoglia e di ben quattro, assai solenni, di Massimo Stanzione, è costruito da Artemisia secondo il canone di anodina ripetibilità di neutri lineamenti, almeno nel gruppo fondato dal neonato Giovanni e dalle quattro ancelle. Una sintesi descrittiva degna certo di un Domenichino, ma anche congeniale alle confezioni naïf dello Zurbarán, sorta di ritorno all’ordine suscettibile dell’apprezzamento del palato castigliano. Lodato da Longhi, forse oltre i suoi effettivi meriti, quale migliore rappresentazione d’interni del secolo, il dipinto

1. Artemisia Gentileschi, Annunciazione. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. 2. Artemisia Gentileschi (?), Gesù Bambino addormentato su un prato fiorito. Collezione privata.

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non pare tuttavia poter togliere il primato alla quaterna del Cavalier Massimo, controllato sì, ma pur sempre naturalista di classe nella scena della Decapitazione del Precursore; e non minore ne è il pregio quale generista in quella del Battista che prende congedo dai genitori. Detto questo, è però significativo della considerazione guadagnatasi dalla pittrice in pochi anni dal trasferimento in Meridione poter registrare che, nella promozione, o ascesa, entro la gilda artistica partenopea, si affiancassero al grande Stanzione, sia pure in termini di subalternità, proprio Artemisia e il Finoglia. Non, che so, il Maestro degli Annunci o lo stesso Ribera. Per quanto il grido al momento dell’affacciarsi di Artemisia Gentileschi sul palcoscenico napoletano arridesse da una parte proprio allo Stanzione, nella sua equidistanza tra Reni e Caravaggio, e giusto all’iberico, col patriarca Caracciolo in chiusura di nobile carriera, il dipinto madrileno della pittrice – pur distante dai modi del Cavalier Massimo, del cui influsso il De Dominici la pretenderebbe prigioniera4 – è certo orientato piuttosto su di una ricetta intimista e su fisionomie interscambiabili (lei, la grande ritrattista!), in scoperto omaggio alla vague classicista di un Domenichino, al tempo attivo per la cappella del Tesoro di San Gennaro in cattedrale. Non che abbia avuto corso da parte di lei una pregiudiziale bocciatura del collega valenzano, giacché per la maggior committenza chiesastica (da parte del vescovo di Pozzuoli, l’unica a oggi concretamente documentata) toccata in appalto alla Gentileschi, su rotte di tenuissimo cabotaggio, la pelle dell’artista è già scottata sulla griglia dei naturalisti, certo anche del Ribera. E siamo grosso modo in una medesima congiuntura temporale. Non so dire, ma starei quasi per farlo, se Artemisia spremesse da una fisarmonica di stili e di prezzi a seconda dell’intuito e del contesto, certo è che la concomitanza rende l’anamnesi dei posteri quanto mai fallibile. La Natività del Battista, per spiegarsi, tiene più dei repertori fisionomici di un Domenichino, se volessimo – esemplificando – rivolgerci alla Presentazione della Vergine al tempio in Nostra Signora della Misericordia di Savona (1623-27 circa), che di qualunque contemporaneo sudista, e forse si potrebbero ancora saggiare prelievi dal mondo veneziano, tanto la facies ordinata e scintillante della memorabile domestica chinata, sulla destra della composizione, potrebbe essere classificata nei paraggi del Régnier lagunare, modello, a confronto col curri-

3. Artemisia Gentileschi, Santa Caterina d’Alessandria. Ubicazione ignota.

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culum pregresso del franco-fiammingo, poco meno che stucchevole, artificiale. Ma giusto questa specifica figura nel telero di Artemisia potrebbe anche essere altrimenti chiarita, quasi risposta speculare all’Eusebia prona a raccogliere il sangue di san Gennaro nel riquadro di sinistra del sottarco soprastante l’ingresso alla cappella del Tesoro, un’impresa cui l’emiliano si applicò – non senza significato per la collega romana – a partire dal 1631. Chissà se Artemisia avesse calcolato che una moderazione espressiva poteva essere ragionevolmente sulle corde del gusto madridista, quasi fosse poi consapevole degli impianti sacri da casa delle bambole impiantati a Siviglia dallo Zurbarán, in un ossequio al vocabolario senza tempo che di volta in volta aveva scatenato la fortuna di apostoli della Controriforma figurata quali un Muziano, un Pulzone, un Azzolino o appunto lo Zurbarán. Basterà evocarne il Gesù Bambino che si ferisce con la corona di spine a Cleveland, la Vergine bambina del Metropolitan oppure – pescando a caso nella non scarna casistica – la Santa Rufina di Dublino, per assaporare affinità di atmosfera che non possono non inquietare. E sono pitture, queste dell’estremadureño, contestuali o quasi (1630-35 circa) al quadrone di Artemisia. Pretestuose quanto si vorrà queste congiunzioni filoiberiche, è un fatto che il viceré di Napoli Afám de Ribera non solo avesse ricoperto l’incarico giusto all’abbrivo del trasferimento della Gentileschi, ma avesse addirittura contato fra i più cospicui estimatori della sua opera, se è vero che nell’inventario dei beni del nobile spediti a Madrid allo scadere del suo mandato figuravano ben cinque pitture di Artemisia 5. E anche a voler prescindere dalla chiamata a teste dello Zurbarán, non so se sia davvero saggio sottostimare l’occasione della trasferta romana del formidabile Diego sivigliano, prima a Roma, quindi, preliminarmente al suo imbarco per la Spagna, a Napoli, negli anni – davvero topici – 1630-31. Sia o non sia di Artemisia il Ritratto di pittrice della Galleria Nazionale d’Arte Antica a Palazzo Barberini, e probabilmente non lo è, pare almeno plausibile che la protagonista della raffigurazione sia la Gentileschi, mentre il pollice verso sull’identificazione del baffuto effigiato, quadro nel quadro, col Velázquez parrebbe ancora suscettibile di non preconcetto dibattito6. Fatta la tara alla disparità di talento tra il prodigioso andaluso e la dignitosa Gentileschi, non so vedere in termini altro

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che ineluttabili la conoscenza diretta dei due artisti, e non solo per mero fatto di cavalleria da parte del più giovane straniero, vorrei credere, tanto meno sotto specie di curiosità da luna park. Il capzioso ritratto romano, simbolo e forse niente più di strumentalizzate equivalenze fisionomiche, introduce un argomento certamente non accessorio, se vorremo per una volta dare un peso a coincidenze di luogo e di tempo. Nel 1629 Velázquez mette piede a Roma, con Artemisia forse alle prese con i frettolosi preliminari al proprio trasloco dalla Laguna alle falde vesuviane, e in ogni caso lo spagnolo s’imbarcherà poi da Napoli nel 1631 per fare ritorno in patria. Inevitabile concludere che i due colleghi abbiano avuto sentore fisico l’uno dell’altra, prescindendo dall’ovvia constatazione della sperequata qualità e fama del Velázquez rispetto alla più matura pittrice romana, la cui reputazione (ma lo si afferma dal piedistallo di oggi), e non vorrei dire in crosta univocamente fenomenologica, era certo rifluita anche nell’epicentro del Reame. Non disponendo dei necessari tre indizi da aggregarsi in prova, vorrei dischiudere l’inconfessata fantasia che non siano legate al caso le analogie sintattiche che toccano un quadro famoso dello spagnolo nel suo primo soggiorno romano, la Tunica di Giacobbe dell’Escorial (le cui misure sono cm 223 x 250) e il meno celebre quadrone di Artemisia al Metropolitan (cat. 26) con Ester e Assuero (a suo turno, cm 208 x 273), un’opera la cui cronologia è incerta tra il secondo tempo romano e gli esordi a Napoli, ma che converrebbe meglio proprio a quest’ultimi. Prescindendo dal poco peregrino comun denominatore dell’analogo pavimento a grandi piastrelle quadrate e alla posizione del giudicante (nonché all’invertita ma in ultima analisi equivalente posizione delle gambe di lui), offre suggestioni scintillanti la scoperta di una prima idea compositiva di Artemisia, rivelata dalla radiografia del dipinto, ovvero che tra la regina e il sovrano si frapponeva in origine un cane ringhiante, maggiore di stazza rispetto al botolo descritto dal Velázquez7. Val la pena rischiare di interpretare l’occorrenza postulando una pregressa conoscenza da parte della Gentileschi della macchinosa ma non meno scalpitante formulazione figurativa di una tempra d’artista tale da aver respinto per innate qualità il mediocre vitto dell’alunnato impartitogli da Francisco Pacheco, ben altra essendo risultata la costellazione avuta in sorte dalla collega ed evidentemente la taglia del suocero del

sivigliano, se paragonata al padre e primo istruttore di Artemisia. Il quadro di Velázquez, com’è noto, entrò poi nelle collezioni reali nel 1634 per acquisto dall’artista medesimo da parte di Jerónimo de Villanueva. Il mélange Domenichino-Zurbarán che caratterizza la Nascita del Battista e la menzionata memoria riflessa della santa Eusebia del bolognese nella cappella del Tesoro non ha certo annichilito il fiancheggiamento dei naturalisti francesi in Italia, quali il citato Régnier (in una sua fase edulcorata, sopraggiunta nel diario veneziano di Artemisia) e il suo grande “parallelo” Simon Vouet, i cui modelli meno esattamente aulici ancora ben si prestano al confronto con le ancelle del Precursore neonato, specie di quella che lo sta deponendo nel bacile (Giovane donna con tamburello basco a Lons-le-Saumier, Musée des Beaux-Arts). Pur prevalendo nel telero ispanico una certa cautela normalizzante, vi si può ancora dissotterrare qualche memoria del ciclo fondamentale del Vouet romano, pregresso di una decina d’anni (1624), in San Lorenzo in Lucina, in specie fondata sul dipinto laterale destro della cappella Alaleoni con la Vestizione di san Francesco, per la particolare sintassi del quadrante sinistro della composizione. Nel medesimo luogo, porzione peggio conservata dell’opera gentileschiana, l’ancella stante ripete il paradigma del Ritratto di dama con ventaglio (cat. 23) di collezione privata. Sul crinale delle fisionomie femminili di anodina formulazione va posta indubbiamente la Minerva degli Uffizi, troppo spesso abusivamente allineata al tempo fiorentino dell’artista (cat. 40). E per singolare che possa apparire, già l’esordio della pittrice a Napoli, pochi anni prima, nell’Annunciazione, dimostra il suo debito non esclusivamente col Pulzone, ma ancora col Domenichino, ché non vi è iconografia meglio accordata con la scelta della Gentileschi del prototipo affrescato dallo Zampieri nella cattedrale di Fano8. Se questo è verisimile, come precludersi la tentazione di prevedere una visita di Artemisia alla cappella Nolfi (1617-18), in una sorta di pellegrinaggio tra Adriatico e Appennini, aggiornamento post factum sulle imprese paterne? E se d’altro canto ci piace leggere la Maddalena in collezione Seidner (cat. 28), in tutta la sua incontenibile possanza, in contemporanea all’Annunciazione, e ne potremmo saldare l’esuberante fisicità al Guercino dei primi anni Venti e alle tornite volumetrie del Manetti, non si dovrà per questo eludere la prossimità al gi-

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gantismo di cui talvolta dà prova anche il classicista bolognese, specie nella tela di identico tema della collezione Mahon9. Ma dove è andato a celarsi, però, il famoso fil rouge con la scena d’interno per il Buen Retiro? Dove, questo prepotente gonfiarsi di membra? Cerchiamo forse agganci di superiore segno naturalistico in questo avvio napoletano? Ebbene, in parte li possiamo documentare, e giusto nella sola partecipazione al pubblico della pittrice, di cui si abbia memoria concreta: le tre vaste tele licenziate anteriormente al 1637 per la cattedrale di Pozzuoli. Ma è questa, un’altra Artemisia ancora, più corrosiva nel lume, perversamente ruminante le sfoglie (sfogliatelle!) metalliche dei tessuti, con apertura su tipologie fisionomiche inedite e tutte pertinenti al luogo del suo operare. Tanto basta per ratificare la disperante asperità del modellare un percorso attendibile per un ingegno del pari mutevole. E arrendersi di necessità al rischio e al fragile quanto carezzevole arbitrio di ogni speculazione in materia. In un certo senso, una continuità tra le ancelle della Natività e il tipo del Miracolo di san Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli (cat. 37) può ben essere ammessa. Altri sono invero la partitura chiaroscurale, l’affogamento nell’ombra del compagno con le mani legate alle spalle di Gennaro, bronzeo come vasellame di un Recco, o per converso il rilievo che assume sotto lo sparare di una luce più mistica che meteorologica il diacono inginocchiato a mani giunte, superbo nella sua dalmatica tra mattone e sangue di bue, così reminiscente del manto della Lucrezia romana di collezione privata milanese. Tre personaggi, tre tipi, che, lungi dall’essere ritrattisticamente caratterizzati, si concatenano in una diagonale che determina e amplia il campo dell’accadimento. Infelice – o comunque assai meno brillante – il segmento con gli altri martiri sovrastanti il diacono (alla stregua, ma smentite sono ampiamente servite dal restauro in corso di ambo le opere, della porzione analoga con Zaccaria scrivente e due astanti, nella Natività), quattro visi di minore ispirazione, di un medesimo ceppo, grosso modo, di consimili esperiti da Paolo Finoglia, comprimario, com’è noto, dell’impresa puteolana, ma anche, poco prima, di quella spagnola. Le fisionomie più riuscite sembrano parlare di un interesse di Artemisia per uno dei precoci luministi su piazza partenopea, per tali qualificatisi a ruota della fatale comparsa del

Caravaggio: figura largamente scomparsa – gli anni di Gesù Cristo – al momento dell’impatto della Gentileschi in tale insuperabile contesto. Davvero figlie della manciata di pitture di Carlo Sellitto mi appaiono queste teste squadrate, perse nei fondali o accese per quadranti. E quadro fondamentale per il prosieguo dell’arte figurativa bidimensionale nel Viceregno è – fuori discussione – la Santa Cecilia già in Santa Maria della Solitaria, dove in nuce vi è tanta Artemisia, tanto Vaccaro, persino frammenti di Cavallino (come ebbe a notare la Lorenzetti nel 1938, pur credendo l’opera del Battistello)10. L’interlocutorio interesse per Sellitto non è tuttavia applicabile alle due altre tele gentileschiane destinate a Pozzuoli, nelle quali l’allineamento stilistico della pittrice romana ai suoi nuovi colleghi, alla vigilia della partenza per l’Inghilterra nel 1638, è – come osservato dalla Gregori11 – affatto pacifico. Se l’Adorazione dei magi (fig. 4) ha veste corrucciata, naturalisticamente affilata come nel miglior Beltrano, e già con sentori di un Cavallino esordiente, il deferire a modelli dello Stanzione e della sua scuola è esemplarmente manifesto nella figura rosso carminio di quel san Procolo (cat. 38) un poco goffamente “in posa” sulla sinistra dell’ultima tela di Pozzuoli. Vocabolario stanzionesco che stinge quasi nei modi più correnti di un Pacecco e di un Palumbo, per i quali l’orizzonte Stanzione/ Gentileschi sembra a suo turno il tipico fondale d’ispirazione. In quest’ultima curiosa performance di Artemisia, i due santi giganteggiano nella scenografia parossistica di quell’impiantito piastrellato all’infinito, fino a congiungersi all’esterno, verso il pronao visto di fianco, i massi lontani e l’intemperanza lugubre di un cielo che si direbbe ancora proiezione drammatica dell’eruzione vesuviana del 1631. Lo specifico artemisiesco è tutto nella potente sigla della mascelluta popolana che si è improvvisata santa Nicea, infustata nelle spire strapazzate, nelle stagnole lucenti dei suoi tessuti blu, nei bruni affioranti sotto le trasparenze sottili dei veli. Quasi un saluto alla vena pittoricistica dei naturalisti riberiani, merce rara nella romana, ma che offre quasi un ponte tra il Maestro degli Annunci e la solida normalità di un Francesco Guarino (al momento della sempre mirabile Natività della Vergine in collezione Catello). In termini quasi più di determinazione anatomica del volto, ossuto e dalle selle nasali cospicue e scalene, che propriamente di esecuzione, fatto salvo il ricorso a sparati di luce

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squillante risultanti su affogamenti in ombra, i volti di Nicea e della Vergine dell’Adorazione dei magi sono conseguenze, per esempio, dell’Ester nuovayorchese, ciò che porterebbe un argomento in più per favorirne una nascita agli albori del tempo napoletano della Gentileschi. A questa fase (dovesse risultare alla visione diretta meno problematica di quanto appaia in riproduzione) potrebbe incasellarsi la Cleopatra già in una galleria antiquaria parigina, opera talmente anomala da parere quasi da bonificarsi a un Cesare Dandini “dal cuore di Cesare”, se mai fosse esistito12. Se queste di Pozzuoli sono – come veramente è il caso – opere di Artemisia sul 1636-37, se la Natività del Prado reclama su di esse – come in effetti reclama – un anticipo di un paio d’anni (1633-34), non è piano affatto seguire l’evoluzione della figlia di Orazio nel poco tempo che separa dall’Annunciazione di Capodimonte del 1630. Nel 1631 cade – come anticipato – una Santa Caterina d’Alessandria comparsa negli anni Novanta in una galleria antiquaria di Pavia, uno degli sparuti casi nei quali a una firma si associ un millesimo temporale, il cui aspetto normalizzato risente ancora di Vouet e Domenichino, sbattuti dai riflettori di scena. La posa della santa tuttavia parla ancora di Roma, di famiglia, dell’acquisizione del lessico paterno sciorinato nel San Francesco stigmatizzato nella cappella Savelli in San Silvestro in Capite. A questa sfocata immagine di un’imprevedibile Gentileschi figlia verrebbe la tentazione di avvicinare un’opera di ben altra sapienza, per invenzione, esecuzione e intelligente proiezione delle ombre sulle carni, e tuttavia assai affine nello spirito, quale il Sansone brandente la mascella d’asino (fig. 5) trascorso dalla Galleria Verde di Roma13. Comunque sia, il balzo dalla Santa Caterina d’interlocutoria pertinenza pavese alla musa Clio già Wildenstein e ora proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa pare assai più lungo della differenza di un solo anno, quel 1632 segnato – come detto – col nome di battesimo della pittrice sul libro squadrato sul tavolo nella tela allegorica. E non si può che reiterare la considerazione che il pittoricismo del quale è intrisa l’immagine spande sì effluvi tirrenici, ma piuttosto nella variante tosco-ligure che in quella di Posillipo. Eppure sono rilievi mai toccati dagli esegeti, sì da relegarsi a isolamento dettato da eccesso di tomistico scetticismo…

Ben più comprensibili, spostandosi nuovamente verso la metà del decennio, sono la forma e la solennità esecutiva della grande pittura a destinazione barberiniana, ben nota al vaglio epistolare ma solo da poche lune identificata da Luciano Arcangeli (cat. 34). Nobile quale risulta da questa grande Samaritana al pozzo, a suo agio almeno nell’occasione persino nella resa – in fondo neo-reniana – del modello maschile, la Gentileschi reclama – a dispetto di suoi eventuali denigratori – una posizione medio-alta (ancor più che nella parte avuta nel ciclo di Pozzuoli) nel gran concerto figurativo della Napoli anni Trenta, in termini di naturalismo già proto-barocco. Certo, la distanza dalle volitive energumene protagoniste degli anni fiorentini e romani (almeno iniziali) non potrebbe essere maggiore. Gli accenti caravaggeschi, pur verniciati a forza di viola, blu cobalto, permangono, se riuscirà a guadagnare simpatizzanti l’idea di riconoscere nella Gentileschi l’autrice anche del Dalila e Sansone del Banco di Napoli (cat. 35), la cui protagonista è palesemente della medesima stirpe della Samaritana Barberini, ma di conio tale da doversi davvero stornare nelle competenze del socio Onofrio Palombo? Se così fosse, tanto di cappello a questo poco considerato comprimario. Fortemente sospetta, in questa congiuntura, è la Sant’Agata liberata da san Pietro del Musée Municipal di Nevers, che, beneficiabile o meno alla Gentileschi, ne illuminerebbe quanto meno il ruolo di protagonista e il rispettabile ascendente all’interno del filone naturalistico/sentimentale che da Stanzione passa il testimone al Guarino e – tra gli altri – a Niccolò de Simone14. Ma la cronologia di Artemisia a Napoli, problematica la sua parte, paradossalmente anche a fronte di dati oggettivi, si distende dunque, volubile e capziosa, sull’intero decennio del suo esordio, con punti fermi al 1630, al 1631, al 1632, al

4. Artemisia Gentileschi, Adorazione dei magi. Pozzuoli, cattedrale. 5. Artemisia Gentileschi (attr.), Sansone brandente la mascella d’asino. Ubicazione ignota.

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1634-37 circa, ovvero con una qualche regolarità, giù fino al suo dar seguito all’invito da parte della corona d’Inghilterra, inevitabilmente di ben più che qualche mese pregresso al 16 dicembre 1639, che fissa fino a questo segno la prima traccia epistolare inoltrata dall’isola da parte della pittrice. Che cosa annettere ancora a questo primo tempo della partita napoletana, dal 1630 al 1638? A rigor di logica, per analogia di stile col gruppo Pozzuoli, un candidato idoneo è la Maddalena del Museo Correale di Sorrento (cat. 27), del cui ritrovamento non si può che essere riconoscenti a Riccardo Lattuada15. Dove sono finite però la Susanna, la Lucrezia e la Betsabea di undici palmi e mezzo, cui Artemisia si applicava per il principe Karl Eusebius di Liechtenstein (mèntore del fiorentino, giovane collega di Artemisia tra il 1615 e il 1616 nella galleria di Michelangelo il Giovane, Giovan Battista Ghidoni) nel maggio 1636? E quali sono le altre due opere di cui si tace il soggetto, sempre di gran formato, che la pittoressa invia nel 1635 al granduca Ferdinando II Medici? Può essere una di queste ultime la rovinata Betsabea di Palazzo Pitti (cat. 43), o si trat-

1. Notizia esumata da Vittorio Mandelli, in Lapierre 2005, pp. 169, 170 nota 5. 2. L’ipotizzata provenienza da San Giorgio dei Genovesi è congettura miseramente naufragata (Bissell 1999, p. 233 n. 24). L’unica certezza è la provenienza della “pala” dalla collezione napoletana del cavalier Francesco Saverio di Rovette, dal quale l’opera fu venduta nel 1815 (oltre a Bissell 1999, pp. 56-73, passim, pp. 233234 n. 24, si veda anche J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 392-394 n. 72). Per analogia con le fisionomie ricciute dei cherubini accennati nell’Annunciazione e per altre con frammenti paesistici contenuti in opere napoletane di Artemisia, verrebbe vaghezza di riferirle il Gesù Bambino addormentato su un prato fiorito di collezione privata (fig. 2)

ta invece di quadro recessivo il rientro da Londra dell’artista? Ha un senso voler distribuire dai primi anni Quaranta in giù tutte le serie di Betsabee di analoga iconografia, in forza della pretesa discendenza dell’attendente di sinistra in tali composizioni dal modulo paterno impiegato nel dipinto con Apollo e le muse, già in collezione privata a New York, opera certamente del periodo inglese di Orazio, dunque accessibile alla figlia solo dal momento del suo ricongiungimento col familiare e nel susseguente contesto della stanza inglese della donna oramai quarantacinquenne tra il tardo 1638 e il tardo 1641? Un medesimo spirito normalizzante, una certa qual ripulsa dal far valere le patenti qualità di ritrattista di Lady Artemisia, potrebbero – solo potrebbero – rinviare al telero madrileno e al domenichinismo di riflesso romano, se non invece a quello geograficamente contestuale. “Aut tace aut loquere meliora silentio” sia alla fine anche il nostro motto, giacché la ripresa delle “ostilità”, chiuso l’intervallo londinese, si sottrarrà definitivamente dall’inseminare di certezze questo acquitrino di sabbie mobili.

ultimamente presentato da Nicola Spinosa nella caleidoscopica mostra Ritorno al barocco (p. 118 n. 1.42). La tela, cm 73 x 127, è riferita a Hendrick van Somer dopo metà secolo da Spinosa e mi è facile ammettere di suggerire esitante la paternità alternativa – almeno alla stregua di memoria da un originale della Gentileschi? – cedendo alle chimere della descrizione, nell’ottobre 1716, di analoga pittura, ma di formato all’apparenza verticale (cinque palmi per quattro), nella raccolta del napoletano Domenico Perrino: “chierchio di fiori, nel mezzo de quali vi è dipinto un bambino corcato, mano di Artemisia”: Bissell 1999, p. 359; cfr. Appendice II). 3. La grande tela, di misure che calcolerei approssimativamente sui cm 180 x 130, aveva ahimè sofferto tutto il soffribile quanto a cattiva

manutenzione pregressa. Sull’attributo della santa compare l’iscrizione: “artemisiae gentile / schi [?] 1631”. Non si può escludere il suo coincidere col “quatro che da un pezzo ho finito con l’immagine di Santa Caterina” offerto dalla pittrice al segretario di stato di Ferdinando de’ Medici, Andrea Cioli, in una lettera del dicembre 1635 (Crinò 1960, p. 264; Appendice II). 4. Nella vita di Massimo Stanzione, Bernardo De Dominici, 1742-1745, III, pp. 44-69, raggiunge una delle vette della sua preconcetta visione dello svolgersi delle arti figurative. Massimo, del tutto anacronisticamente, è qui dipinto come stregato dalla “maga” Artemisia e diventato prontamente suo imitatore (pp. 45-46). Comportamento tale e quale quello – a dire dell’inaffidabile biografo – mostrato dalla putativa maestra dello Stanzione

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nei confronti del Reni a Roma, molla per lo “scolaro” del suo trasferimento nell’Urbe! 5. Fernando Enríquez Afám de Ribera, III Duque de Alcalà, era stato ambasciatore presso la Santa Sede (1625-26), quindi viceré del Regno di Napoli dal 1629 al 1631. Nell’inventario della sua residenza sivigliana (novembre 1637: Appendice II), si registrano un San Giovanni Battista, una mezza figura di David che suona l’arpa – in virtù di tale taglio, purtroppo non identificabile col dipinto della sagrestia della cattedrale di Toledo, creduto del Domenichino (Pérez Sánchez 1965, p. 126, tav. 16), che pure forse ne mantiene qualche memoria; chissà poi se nell’Apollo con la lira omaggiato dai poeti Girolamo Fontanella e Francesco Antonio Cappone (Locker 2007) non possa celarsi pittura analoga al quadro toledano: Appendice II, ad annos 1632-1643 – e un Salvatore che pone la destra su dei fanciulli, copia da originale della pittrice previsto “para la cartuxia” (sulla sua identificazione, vedi R. Lattuada in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 380, 390 nota 16; Lattuada, Nappi 2005, pp. 82 con fig. 5, 83). Il diplomatico possedeva inoltre due ritratti e una Maddalena su una seggiola, addormentata e col capo reclinato nel grembo, che in forza di tale accurata specificazione iconografica è stata identificata con la tela della cattedrale di Siviglia (J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, n. 68; poi dequalificata a rango di copia antica,

come la versione già presso Feigen e oggi nel Museo Somaya di Città del Messico: Christiansen 2004; Mann 2005). Su tutto questo si ricorra a Burke 1984, II, pp. 9-13; Brown, Kagan 1987, in particolare pp. 239-240, 243, 248. 6. Cfr. R. Contini in Artemisia 1991, pp. 172-175 n. 26 (p. 175). Chi è dunque l’effigiato nella tela che occupa in formato ovale il cavalletto entro il quadro Barberini? L’indirizzo verso Velázquez, già denunciato per “più che arduo”, faceva aggio sul sembiante specifico accertabile dagli autoritratti e dall’età presumibile dell’uomo, “sulla trentina o poco più”. 7. Per la radiografia dell’Ester e Assuero: Garrard 1989, pp. 72-76, 505 note 120-121 (in particolare p. 75 con figg. 66-67). 8. Spear 1982, I, pp. 201-210, in particolare p. 204 n. 56.iii; II, fig. 200. 9. Spear 1982, I, pp. 261-262 n. 92; R.E. Spear in Domenichino 1996, pp. 464-467 n. 46.

11. Gregori 1984, p. 150. La prima monografista moderna della Gentileschi nomina, tra i napoletani suscettibili di interferenza di stile con Artemisia, lo Stanzione, il Beltrano e Aniello Falcone. 12. Bissell 1999, pp. 77-78, 244-245 n. 29, tav. XIX in colore. 13. Poco meno che un capolavoro, giudicando in riproduzione, l’olio su tela (cm 112 x 90) è stato solo ultimamente pubblicato sotto il nome di Andrea Vaccaro dal Lattuada (2009, p. 106 con fig. A*). 14. L’opera (olio su tela, cm 72 x 105) è dal 1962 in deposito dal Louvre (inv. 20245) – dove pervenne dalla collezione Campana a Roma nel 1861 – al Musée municipal di Nevers (inv. N.P. 701) ed è assegnata con dubbio a Francesco Guarino (Brejon de Lavergnée, Volle 1988, p. 190; Loire 2006, p. 449). Sebastian Schütze (comunicazione al museo nel 1987) e Riccardo Lattuada (2000, p. 264) suggeriscono un dubitativo riferimento a Niccolò de Simone. 15. Lattuada, Nappi 2005, pp. 81 con fig. 3, 82.

10. C. Lorenzetti in La Mostra della pittura napoletana 1938.

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“ q u ello c h e sa fare u n a do n n a ” : n a p ol i , a n n i q u a r a n ta

Roberto Contini

arlare di un secondo periodo napoletano ha un senso per Artemisia in termini di rudimentale scansione biografica per un quarto di secolo di vita, 1630-1654, trascorso interamente, salvo il vulnus bi- o triennale sui banks del Tamigi, nella metropoli mediterranea. Avendo temporeggiato – nonostante l’affermata scarsezza di lavoro – confidando di legarsi piuttosto a Francesco I d’Este, duca di Modena, ripetutamente blandito, senza dar corso agli inviti, di cui si era fatto tramite fin dal 1635 il fratello Francesco, da parte di Carlo I d’Inghilterra, Artemisia volle però infine soddisfare le richieste del sovrano inglese, come provano non solo le fonti, ma – risolutivamente – la corrispondenza superstite di Artemisia, che da Londra mantiene comunque vivi i rapporti col duca di Modena a una data, 16 dicembre 1639, cui corre l’obbligo di concedere un ragionevole pregresso1. Si è sempre affermato, con determinismo non certo illogico, che motivo della trasferta fosse stato anche il ricongiungimento tardivo col padre, la cui declinante salute lo avrebbe eliminato dalla scena nel febbraio di quel medesimo anno. Tuttavia nel corso di quello precedente, 1638, Orazio aveva ricevuto pagamenti conclusivi 2 per le tele allegoriche nel soffitto della residenza di Greenwich House, così da far dubitare

Artemisia Gentileschi, La ninfa Corisca e il satiro, particolare. Collezione privata.

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del fatto che alla sua morte una quota parte del suo mediocre canto del cigno fosse ancora da integrare, e, nel caso, da chi se non dalla figlia? Per una tale compartecipazione non vi sono sufficienti necessità, se uno dovesse basarsi sul giudizio di stile risultante dalle vaste tele dedicate al dio del Sole e alle nove muse. Ma è ben vero, d’altro canto, che dopo le opere di Pozzuoli, databili comunque antecedentemente il 1637, non disponiamo che di arbitrarie speculazioni sull’evolversi linguistico della figlia. Fortunatamente sopravvive uno dei dipinti registrati negli inventari reali, l’Allegoria della Pittura di Kensington Palace (fig. 1), alla quale va ipso facto sottratta ogni intenzione autocelebrativa, la quale dovette essere pertinente ad altra opera, al momento dispersa 3. Giacché la nascita della tela fu ovviamente precedente l’esecuzione di Carlo I nel 1649, né essa compare nel primo inventario delle collezioni del re, redatto nel 1637-39, essa non dovette dunque essere contestuale al primissimo tratto della trasferta londinese della pittrice. Non si starà a sottolineare l’amarezza di non poter offrire al pubblico l’occasione di stimare un tale punto fermo, radi quali essi sono, nella carriera della Gentileschi junior, e di calcolare sulla qualità obiettiva di vivida naturalezza negli incarnati e di virtuosistico pregio

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nel verde bottiglia cangiante dell’abito i capitoli successivi dell’operare di Artemisia, tale ponendosi la premessa. L’Allegoria di Artemisia insinua dunque i modi napoletani, di un naturalismo inedito a Londra in quella forma, che la gran parata messa in atto dal van Dyck e le glaciali raffinatezze delle supreme quanto timeless storie o allegorie paterne proprio non contemplavano. I valori tattili dell’abito della giovane pittrice finta nella tela mostrano la figlia di Orazio conseguire risultati analoghi a quelli di un Ribera, per effetto delle desunzioni neovenete (neotizianesche) che erano valuta comune e unica nel gusto degli anni Trenta, non esclusa la variante perseguita dal ritrattista di corte anversese. La poca varietà, ma verrebbe da dire verità, delle fisionomie adottate da Orazio nel suo tempo franco-britannico (1624-39) è a usura compensata dalla sua perizia da orefice, nello spalmare lamine tessili abilmente acciaccate in pieni e vuoti, a un’altezza di consumata grandiosità tecnica, da non avere l’eguale in alcun contemporaneo, ma forse nemmeno nella compagine degli “antichi”. L’oro della Danae Feigen, l’argento della donna inginocchiata nel Ritrovamento di Mosè del Prado rappresentano i vertici della finzione pittorica, worldwide. Per quanto a volte si erga al livello di “second” o “third best” (abito della Maddalena Pitti), Artemisia non riuscirà quasi mai della “stoffa” di suo padre. Lungi dal voler innalzare la Gentileschi figlia a quota cui non seppe portarsi (perché di fatto non solo a lei preclusa, ma alla comunità artistica in generale), che non fu dunque quella di Orazio, né del van Dyck, né di Ribera, nondimeno il suo status di addetta ai lavori di rango viene a intermittenza ornato da una rimarchevole quanto vindice versatilità di stile, che per nostro esclusivo difetto tacceremo di “camaleontica”. Artemisia ricompare a Napoli forse già nel 16404, ma un solo quadro – nell’abbondante decennio che si frappone all’esaurirsi delle notizie su di lei, nel gennaio del 1654 – ci consegna una tessera da disporre nel deserto di un percorso senza date. Tutt’altro che un capo d’opera, la Susanna e i vecchioni di Brno (cat. 44) chiude il sipario su una carriera che aveva significativamente preso le mosse giusto da quel medesimo tema, e che – purtroppo in absentia – pare testimoniato ancora dal dipinto posseduto da Averardo de’ Medici, che si fregiava del millesimo “1652”5.

1. Artemisia Gentileschi, Allegoria della Pittura. Windsor Castle, Royal Collections.

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Le aspettative incastonate nella volitiva primattrice dei reali d’Inghilterra sono malamente disattese, almeno all’anno 1649 vergato sulla Susanna morava, e accusano in apparenza il fiato corto di un’artista in esaurimento di idee e di virtù esecutive, oppure il binario alternativo di un listino prezzi aperto a tutte le borse, ma anche ai solecismi di una sciatta officina. Perché allora scegliere proprio questo infelice manufatto quale ricetto di una delle rare autodenunce di autografia da parte della pittrice? È ben verisimile che il tema dovette esserle richiesto reiteratamente, e, giusta l’orgoglioso stratagemma dialettico di promuoversi paladina di varietà iconografica6, l’esistenza di una desunzione dell’Officina Artemisia nel Museo Civico di Bassano del Grappa (cat. 45) prova, da una parte, l’apprezzamento dello schema, dall’altra il perseguimento di pochi, comunque variati dettagli. È questa una normale consuetudine nelle botteghe degli artisti, e l’esempio del padre – la cui opera risulta sempre suscettibile di minime varianti o altrimenti di un turn over cromatico – era certo ben presente ad Artemisia7. Quel che lascia l’esegeta disarmato è, piuttosto, l’ignorare per quali vie colmare il gap intercorrente tra l’Allegoria della Pittura e la Susanna e quale evoluzione sarà plausibilmente da congetturare per questa decade. Ebbene, non vi è via alcuna, le poche pedine disponibili vanno ahimè disposte fuor di scacchiera. Si potrà del resto affermare apoditticamente che alcune di queste pedine non siano pertinenza della fase antecedente alla cesura londinese? Quel che disturba della goffa tela di Brno è la coincidenza temporale con le ambiziose mitologie multifigure che la Gentileschi stava approntando – a evidenza in conflitto con altre contemporanee committenze – per il messinese don Antonio Ruffo8. Orfani di qualunque indiscrezione riguardo all’apparenza di un Casto Giuseppe o di un Giudizio di Paride, mentre del Bagno di Diana (fiaba già trattata per i Medici, nel 1619) può magari aiutarci – come fonte ispirativa, se non, a rovescio, quale desunzione – il magnifico telero di Capodimonte di Pacecco De Rosa (fig. 2), la spina nel fianco è da sempre per la critica la menzione di un Trionfo di Galatea (tema poi replicato per altro committente, e che sappiamo oggi – grazie all’inedito dossier autobiografico riesumato da Solinas9 – già richiestole nel tempo fiorentino).

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Di questo soggetto, francamente peregrino a livello figurativo, era noto dall’ultimo quarto del secolo passato il meraviglioso quadro già presso le Trafalgar Galleries, da pochi anni integrato nelle collezioni della National Gallery of Art di Washington (fig. 3). Di norma si intende oggi questa pittura fondamentale del medio Seicento a Napoli nell’univoca costellazione Bernardo Cavallino, talento supremo dell’intero secolo, così come la dea viene oggi preferibilmente identificata in Anfitrite10. Eppure in passato, forse più per analogia col passo descrittivo del proprio dipinto da parte di Artemisia stessa, che per sincera fiducia nei dati di stile, si era venuta formando la prospettiva

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del classico oggetto eseguito a quattro mani, nel quale la sola figura della protagonista sembrava da stornarsi sul conto di Artemisia. Com’è noto, rispetto all’esemplare (“prototipo”?) della Gentileschi mancherebbe nella composizione statunitense uno dei cinque tritoni denunciati, ciò che converrebbe ai trascorsi di una tela che pare in realtà compositivamente incongrua, sì da far supporre una sua dimidiata natura, che contemplasse, a sinistra, la resecazione di una regione del quadro, magari in origine riempita davvero dal tritone oggi mancante. Sul profilo dello stile, non si può negare l’aspetto artemisiesco della Anfitrite, mentre le sigle sardoniche dei quattro tritoni

2. Pacecco de Rosa, Bagno di Diana. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

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residui sono quanto mai nelle corde del Cavallino, il quale – con buona pace della professione di rispetto verso la più anziana collega di cui si è fatto portavoce il De Dominici11 – non s’intende che necessità potesse ancora avere, oramai più che trentenne, a collaborare con la romana. A meno che non si sia all’oscuro di un accordo bipolare quale quello messo in evidenza dalla documentazione ultimamente addotta12, accesasi in quel torno di tempo tra Artemisia e Onofrio Palumbo. Anche orientandosi verso la soluzione più prudente, che cioè la tela di Washington sia integrale pertinenza del Cavallino (opinione prevalente, ma ai limiti dell’abuso critico), e che la sua sistemazione cronologica possa essere stata diversa dal 1649 cui è legata la tormentata commissione Ruffo – e quel preciso dipinto di Artemisia aveva subito danni durante il trasporto in Sicilia13 –, è inevitabile considerare questo documento figurativo afferente in ogni caso la carriera della figlia di Orazio, indipendentemente dalla percentuale di incidenza stilisticoiconografica, al momento impossibile a determinarsi, almeno a livello di lussuoso riflesso del suo autografo. Ma vi è del nuovo. Nel 2009 Nicola Spinosa ha esposto alla “sua” mostra giubilare di Capodimonte un formidabile Trionfo di Galatea (questo sì ineccepibilmente tale: cat. 53), non meno ampio di formato, di una privata collezione, ancora una volta sotto l’insegna di Cavallino. Forse in questo dipinto, nel quale la lucidità ottica dell’immensa valva sottostante la dea è pagina altissima nel libro d’ore del Seicento partenopeo, le affinità con lo stile tardo di Artemisia sono più ficcanti, e dovrà pur avere un qualche significato la citazione dal precedente lontano di Aurelio Lomi, significativamente sottratto a un’opera del tempo genovese dello zio (la Chiamata degli eletti in Santa Maria del Carmine). E risulterà d’acchito come Galatea sia descritta analogamente alla formula impiegata dalla pittrice nella Susanna di Brno (anch’essa evidentemente riflesso di Aurelio), ciò che forse è indizio di prossimità temporale, mentre resta interrogativo ancora aperto chiedersi se le fisionomie tutte maschili e giovani dei tritoni possano avere avuto coincidenze con analoghe altre adottate dalla pittrice, inter-

3. Bernardo Cavallino e collaboratore, Trionfo di Anfitrite. Washington, National Gallery of Art.

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rogativo che pianamente la rarità dell’assunto – non si conoscono giovani uomini nella “vita figurata” finora conosciuta di Artemisia – lascia ahimè insoluto. Disponiamo, anche censendo a memoria, giusto dei due senili voyeurs di Brno/Bassano, dell’anodino Tarquinio nel dipinto già farnesiano di Potsdam, altrimenti una galleria di Betsabee e di loro ancelle, sguarnite di accenti tali da restituirne individuale varietà, se si eccettua la scugnizza che arresta a destra un inedito dipinto (cat. 41), di curiosa Arthemisiana methodus, della Matthiesen Gallery di Londra. È irrevocabile concludere che al ritorno dall’Inghilterra, anziché mostrarsi rinvigorita dalla scintillante vertigine estetizzante captata dalle opere tarde del padre, Artemisia venisse prosciugata un po’ alla volta della linfa vitale della sua ispirazione? O può darsi invece che il pronosticato declino sia abusivamente aggregato a un incidentale infortunio (al di là degli obiettivi guasti conservativi della tela di Brno) su cui non deve pesare una pretesa equivalenza allo standard medio dell’artista negli anni Quaranta del secolo? E i pezzi buoni di Artemisia napoletana, quelli dei quali nulla è noto riguardo la provenienza antica e che con esagerata libertà si è voluto immaginare non solo farina del suo sacco, bensì, per segnalazioni di fonti non contemporanee, spesso prodotti in coabitazione con specialisti, vuoi di vedute architettoniche, vuoi di

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paesaggi (referto rifluito dal De Dominici, e quasi esclusivamente da lui)14, saranno allora da scalarsi nel secondo oppure ancora nel primo dei suoi larghi contesti vesuviani? Di una compartecipazione di terzi si ha obiettiva dichiarazione solo negli anni finali e con un artista di scuola stanzionesca, indubbiamente ben più notevole dei rari certificati di stima al momento tributatigli, quale Onofrio Palumbo. Il collega ovvero al quale maggiormente Artemisia somiglia (o viceversa) nella coppia di belle e così diverse tele – Annunciazione e Adorazione dei pastori (fig. 4) – in Santa Maria della Salute, svincolate oramai dalla necessità di una loro datazione intorno al 1641 e magari in parte dall’integrale assegnazione a Onofrio15. Altrimenti si accorderebbe smisurata fiducia alla voce non, si badi, di un teste, bensì di un compilatore di biografie d’artisti di medio Settecento quale De Dominici e alle speculazioni critiche moderne, nel volere Artemisia – fin dal momento di Pozzuoli – assistita da altri (Codazzi, Spadaro…) nelle porzioni non figurate delle sue pitture16. Non è dirimente la presenza nel 1642 nella fiorentina col-

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lezione Gerini di una sua Psiche con Cupido addormentato a pendant di consimile realizzazione di Giovanni Martinelli, dal momento che l’esecuzione può essere stata largamente pregressa, fino agli anni romani (1622-26) nei quali la coesistenza di due colleghi così intimamente legati (per riflesso – tardivo – della romana sul più giovane toscano) potrebbe corrispondere a ben più di un sospetto. L’importante informazione, dissepolta da Martina Ingendaay17, e l’identificazione dell’oggetto nell’incisione deviantemente promotrice dell’autografia di Giovanni da San Giovanni (forse facendo aggio sulla descrizione supina del dio bambino, per analogia col celebre fanciullo che il valdarnese riprodusse da Caravaggio) da parte di Riccardo Spinelli18 sembrano favorire ancora l’immagine – di seconda mano, d’accordo – di un punto di stile più antico di quel 1642. Più utile alla causa riesce allora la corrispondenza intercorsa – da Londra – tra Artemisia e il duca di Modena e Parma, Francesco I d’Este, per il quale la Gentileschi aveva in corso d’opera commesse già nel 1635, poi ancora in quel declinante 1639. Anche la provenienza dal parmense Palazzo del Giardino favorirebbe un’esecuzione post-albionica delle grandi tele installate fin dal secondo Settecento nelle enormi cornici che le imprigionano soffocandole alle pareti di un ambiente del Neues Palais di Potsdam. Il programmato restauro di tale sala, già in corso, e la conseguente rimozione dei dipinti dopo due secoli e mezzo di “paralisi” consentiranno certamente adeguate controdeduzioni, ivi compreso, finalmente, l’esame tergale delle ampie pitture. Se la Betsabea di Potsdam (fig. 5) venne dunque – con le sue semplificazioni formali – eseguita negli anni Quaranta, ne consegue che tutte le altre redazioni “tarde” di tale fortunato specimine condividono una più o meno equivalente datazione, e un variabile intervento dell’atelier della Gentileschi. In questo

4. Onofrio Palumbo (?), Adorazione dei pastori. Napoli, chiesa di Santa Maria della Salute.

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ambito cronologico occorrerà allora far scendere la Betsabea di Palazzo Pitti (cat. 43) e quella dispersa, già presso l’Earl of Wemyss19, mentre ci sarà ancora da discutere in ordine alle redazioni, solo in parte affini per stile, di Vienna, collezione Haas, e di collezione privata, già a Conversano, l’ultima delle quali – con grande soddisfazione, è da pronosticare, di un eminente esegeta della pittrice20 – è appena riaffiorata (giugno 2011) a una vendita milanese di Sotheby (cat. 49). Altro schema e altro stile documenta per contro la Betsabea già in collezione privata a Halle, Sassonia, intimamente legata alla versione recentemente presentata dalla galleria londinese Matthiesen (cat. 41), percorsa com’è da ben diversi accenti di verità ritrattistica (inedito sembiante, potente ma tutto fuorché calato in cavalliniana raffinatezza, per l’ancella stante, a destra), tali da indurre a non scartare a priori una retrodatazione ai medi anni Trenta. Ecco che la sublimazione formale dei racconti biblici aventi a protagoniste la vezzosa Betsabea e l’irriducibile Lucrezia arriva a connotare con buona plausibilità l’ultima fase evolutiva della figlia del Gentileschi, esibendo – per tacer d’altro – qualità da scenografa provetta talmente sovrastanti le debolezze della Susanna morava da convincere, per quest’ultima opera, della necessità ermeneutica del cosiddetto incidente di percorso, ovvero di una banale giornata di neghittosa predisposizione d’animo nell’altrimenti agguerrita sua responsabile. Troverebbe così conferma la nuova familiarità di Artemisia con le opere oraziane, tanto il Leitmotiv dell’ancella stante, in torsione, invariabilmente ripetuta a sinistra nelle varie Betsabee, riesce debitore non solo di quella tal, già in-

5. Artemisia Gentileschi, Betsabea. Potsdam, Stiftung Schlösser und Gärten Berlin-Brandenburg, Neues Palais.

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dicata, figura nell’affollata composizione paterna con Apollo e le muse, bensì, più liberamente, del capitale monolito della Diana documentata al 1630, oggi a Nantes. Un unicum è a tutt’oggi il formidabile Tarquinio e Lucrezia di Potsdam (fig. 6) 21, inafferrabile nelle sue cospicue virtù sulla mera base delle riproduzioni fotografiche: danza mortale tra sprechi di stoffe pietrificate in barba a ogni forza di gravità e cipigli neoclassici, davidiani: il lessico di Orazio, scongelato e condito delle spezie e delle polveri combuste di un altro mondo.

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6. Artemisia Gentileschi, Tarquinio e Lucrezia. Potsdam, Stiftung Schlösser und Gärten Berlin-Brandenburg, Neues Palais.

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1. Appendice I, 1634; Appendice II, 1635, 25 gennaio (lettera a Francesco I d’Este); 20 luglio (lettera a Ferdinando II de’ Medici); 1639, 16 dicembre (lettera a Francesco I d’Este). 2. Finaldi 1999, p. 32; Finaldi, Wood 2001, pp. 229-230, 231 note 53-58. 3. Negli inventari relativi alle raccolte di Carlo I, compilati tra il 1649 e il 1651 (Millar 1970-1972, p. 186; Appendice II, 1649), compaiono infatti tanto “A Pintura A painteinge: by Artemisia” (a evidenza la tela monogrammata di Kensington Palace) quanto un Autoritratto della figlia di Orazio: “Arthemisia gentelisco. Done by hercselfe” (giusto il dipinto mancante).

9. Lettere di Artemisia 2011. 10. N. Spinosa in Ritorno al barocco 2009, p. 198 n. 1.96. 11. De Dominici 1742-1745, III. 12. Lattuada, Nappi 2005, pp. 93-94, 96 note 36-37, 98 docc. 3, 6. 13. Guasti denunciati nella citatissima lettera del 13 marzo 1649 (Appendice II). 14. De Dominici 1742-1745, III, p. 199.

4. Lo si induce – prova, invero, debolissima – dalla contestuale data di stampa della raccolta di poesie di Girolamo Fontanella, Nove Cieli, nella quale ben sette componimenti sono celebrativi di altrettante opere di Artemisia (Locker 2007, p. 151). Comunque, tre anni dopo, nel 1643, le Poesie liriche di Francesco Antonio Cappone le sono – si vuol credere – non contumacemente dedicate. 5. Morrona 1812, II, pp. 487-488; Locker 2010, p. 30. 6. Insuperabilmente mistificatoria la lettera al Ruffo del 13 novembre 1649 (Appendice II). 7. Esemplare il caso delle redazioni del tema Lot e le figlie secondo l’archetipo Sauli (Los Angeles, J. Paul Getty Museum), minimamente differenziate, se non si desse invertito ordine cromatico (vedi replica autografa di Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie). 8. Appendice II, 1648, 1649 e 1650.

i prospettici Viviano Codazzi. Non vi è prova risolutiva che, per esempio, la Betsabea sia quella menzionata dal De Dominici come quadro a sei mani tra Artemisia, Gargiulo e Codazzi: è solo una possibilità, una delle candidate, resa più appetitosa dalla qualità sopraffina di tutte le parti (cfr. in ultimo Bissell 1999, pp. 263-266 n. 37, tav. XXIII a colori; pp. 267-269 n. 39, tav. XX a colori; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 414-417 n. 80 e pp. 408-410 n. 78; B. Daprà, in Ritorno al barocco 2009, pp. 148-149 n. 1.62: Betsabea). 17. Di Dedda 2008; Ingendaay 2009, pp. 189-198. 18. Spinelli 2011, pp. 43, 52-53 note 88, 91-92; Spinelli c.s.

15. Un’aria “delle parti nostre” spira con continuità tra Artemisia e Onofrio, specie dal 1640 circa in giù. Ancora problematico è assestare su basi obiettive il catalogo palombesco, sulla scia di Stefano Causa (1993), nel consenso come nell’eventuale dissenso. Per il loro aspetto tremendamente gentileschiano, invito a leggere, o rileggere, in chiave onofriana una manciata di pitture, dalla Carità, già sul mercato a Firenze intorno al 1998 (Archivio Zeri, Anonimi napoletani, foto inv. 109565), alla Santa Cristina di Bolsena, apparsa sul mercato romano prima del 1993 (Archivio Zeri, Anonimi napoletani, foto inv. 109258). Sul Palumbo si vedano, più recentemente, Porzio 2006; Porzio 2008.

19. Pagliarulo 1996, pp. 151-156, figg. 270-272. Eccessiva mi pare la prudenza liberata dal Bissell (1999, pp. 296-298 n. 53, fig. 200) nella sua successiva monografia sulla Gentileschi riguardo la lettura (a mio avviso ineccepibile) e il giudizio di qualità, sia pur basato su una mediocre immagine (tale tarda tela, cm 269 x 222, fu annientata da un incendio nel 1940), da parte del Pagliarulo. Bissell rubrica peraltro anch’egli il dipinto tra quelli autografi.

16. Non è pleonastico precisare come i fulgidi dipinti del granaio d’America – Betsabea di Columbus, Lot e le figlie di Toledo –, ai quali non è stato rilasciato il visto sul passaporto per la rassegna commentata dal presente catalogo, siano considerati frutto di compartecipazione di specialisti di distinti compartimenti figurativi per arbitraria decisione della critica. Per i figuristi dunque la Gentileschi, per i paesaggisti Domenico Gargiulo (il quale riuscì nondimeno fior di figurista!), per

21. Su questo e sulla Betsabea incluse in pesanti cornici nella medesima Obere Galerie del Neues Palais di Potsdam, superbo dittico in incerto stato di salute e da sempre non agevolmente “visitabile”, ho notizia dalla collega Franziska Windt che per i prossimi anni è stato programmato un intervento di restauro, per cui corollario le tele potranno così dopo secoli essere adeguatamente ispezionate (il punto su di esse in Bissell 1999, pp. 281-286 nn. 48-48b, figg. 185-190).

20. Bissell 1999, p. 279 n. 53, fig. 200: “Maintaining that it is merely a copy of a lost original, the owner of the canvas has refused my request to study it”.

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Renato Ruotolo

l 1630, scelto come punto di avvio di questo studio sul collezionismo napoletano, è puramente indicativo, determinato non dal fatto che proprio allora si trasferì a Napoli la Gentileschi, ma dalla constatazione che intorno a quell’anno prese corpo un modo di intendere l’arte e di accostarsi a essa che apparenterà i collezionisti napoletani a quelli di altre città italiane. La documentazione nota ci porta, infatti, ad affermare che fra gli anni Venti e Trenta del secolo XVII, in ritardo su centri come Roma o Venezia, nelle raccolte napoletane si sia verificata la piena affermazione della pittura contemporanea, a scapito delle antichità e delle cosiddette Wunderkammern. Una conferma di questa asserzione si ricava anche dalla lettura del Forastiero di Giulio Cesare Capaccio1, edito nel 1634 ma già scritto nel 1630, dove si fa il punto sulla situazione: le raccolte segnalate, composte da antichità, pitture, naturalia e artificialia, risalivano tutte al secolo XVI o ai primi del seguente, alcune risultavano già in parte disperse. Il Capaccio, pur essendo uomo del passato, non ignorava l’arte contemporanea; tuttavia si limitò a porre fra quelle di gusto moderno solo le collezioni di Santi Francucci e di Gaspare Roomer. Ciò non per ignoranza ma per il fatto che, quando lui scriveva, non avevano ancora raggiunto fama e consistenza definitiva

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le quadrerie più rilevanti, inventariate negli anni QuarantaSessanta, dunque messe insieme a partire dagli anni Venti. Ancora: negli anni intorno al 1630 si accentuò e definì il ruolo di Napoli come centro di diffusione di opere d’arte verso l’impero spagnolo. Viceré, nobili e funzionari iberici commissionarono quadri di grande rilievo per conto proprio o dei sovrani asburgici, schiudendo ai maestri napoletani un mercato vasto e di prestigio. Per i decenni che ci interessano va segnalata almeno l’attività del duca d’Alcalà e del conte di Monterey, che fecero pervenire in patria alcuni dei capolavori di Ribera, Stanzione, Lanfranco, De Leone, Falcone. I due si annoverano fra i committenti di Artemisia e forse il primo ne favorì la venuta a Napoli. Ma su questo aspetto della committenza rimandiamo, per mancanza di spazio, alle tante pubblicazioni che ne trattano2. Il flusso, a senso unico, di opere d’arte verso la Spagna durò per tutto il secolo XVII, senza subire battute d’arresto neppure per la terribile peste del 1656, l’altro termine della nostra ricerca, scelto perché allora e nei primi anni Cinquanta scomparvero non solo Artemisia ma pure i più rappresentativi esponenti della vecchia scuola napoletana, cioè molti dei suoi colleghi, e a volte collaboratori. La loro uscita di scena spianerà la via al barocco, già in parte emerso negli anni precedenti la peste, e all’affermazione di

Bernardo Cavallino e collaboratore, Trionfo di Anfitrite, particolare. Washington, National Gallery of Art.

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Mattia Preti e Luca Giordano. Ma questa è un’altra storia, che appena sfioreremo. Questioni di spazio non ci consentono di affrontare molti dei problemi posti dall’argomento, fra gli altri l’affermazione della pittura di genere e l’attendibilità degli inventari, costringendoci a rimandare agli studi nostri e di Labrot 3, e neanche di render conto delle fasi più antiche della committenza seicentesca. Neppure possiamo dilungarci sulla parte giocata dalla Chiesa, preponderante a partire dal tardo Cinquecento non tanto in termini di quantità ma, soprattutto, di cultura. Gli stretti rapporti degli Ordini con Roma facilitavano i contatti con gli artisti lì presenti e la conoscenza delle novità, né si deve trascurare il fatto che essi disponevano di possibilità economiche costanti, derivate da continue eredità, da elemosine e da altre rendite, mentre molte delle famiglie del regno fondavano i loro bilanci su entrate variabili e spesso minate dall’indebitamento. Salvo le eccezioni, fra le quali troveremo alcuni dei maggiori collezionisti. Per limitarci al secondo quarto del secolo XVII, va detto che l’arrivo in città di alcuni dei maggiori pittori del momento, di Lanfranco, Reni, Domenichino, Mellin, Gessi, delle loro opere e di altre di Pietro da Cortona e di Vouet, si deve a gesuiti, oratoriani e certosini, o a istituzioni religiose come il Tesoro di San Gennaro. Quei rari privati che si inserirono nel giro di committenze fatte fuori del regno risultano personaggi atipici o legati al mondo della Chiesa, come nel caso del cardinale Filomarino, di cui parleremo in seguito. In effetti gli Ordini furono committenti molto appetiti dagli artisti napoletani e tuttora l’immagine del Seicento in tutte le sue manifestazioni è affidata ai monumenti sacri, esempi massimi la Certosa di San Martino e il Tesoro di San Gennaro, mentre i palazzi si presentano come vuoti e decaduti involucri, privi degli arredi e dei dipinti, a volte dispersi poco dopo la morte dei collezionisti, raramente sopravvissuti fino alla metà del XIX secolo. Caratteristica costante del collezionismo napoletano è il non aver avuto un punto di riferimento stabile, costituito dalla presenza di una corte. La mancanza non fu compensata dalla presenza dei viceré, destinati a restare in carica soltanto fra i tre e i sei anni e più desiderosi di incettare quanto di meglio si producesse che di dettare indirizzi di gusto. Stando così le cose, la fama di un maestro era decretata dalla presenza pubblica di opere, di solito in una chiesa, il che gli schiudeva la

via di qualche commissione privata, ma di un certo rilievo era il ruolo giocato da quei pittori-mercanti, ancora poco studiati, che trattavano opere per conto di colleghi o di venditori privati: nel periodo che ci interessa fu molto attivo Giacomo di Castro e si sa che la stessa Artemisia si preoccupava di segnalare al duca di Alcalà dipinti da acquistare a Venezia4. Una funzione molto importante nell’indirizzo del gusto fu svolta da alcuni personaggi socialmente in vista e stimati per la loro competenza, talvolta mercanti d’arte oltre che collezionisti, un cui acquisto poteva fare la fortuna di un artista, stimolando l’emulazione dei molti che non possedevano altrettanta cultura. Fra questi fu a lungo ricordato Gaspare Roomer: “dilettantissimo di pittura, ed intelligente delle nostre arti, possedeva quadri de’ primi pittori del mondo, e ne dava esquisito, e savio giudizio; onde al suo parere si riportavano tutti gli amatori della pittura in quel tempo, fra i quali contavasi il nominato Vandeneinden, i Garofali, Samuele, Arici, Casa d’Anna ed altri”5. La lunga vita di Roomer gli consentì di avere rapporti con questi esponenti del ceto mercantile che però si affermarono dalla metà del Seicento circa, quindi erano più vicini nel tempo al De Dominici che li ricordava ancora nel 17426 e che conosceva molto meno i committenti degli anni che ci interessano, alcuni dei quali ebbero pure a che fare con Roomer, partecipando al fenomeno diffuso della raccolta di quadri, non solo visti come segno di uno status symbol ma in vari casi scelti con competenza, criticati con amici e consulenti, apprezzati per la qualità. Protagonisti non solo gli aristocratici ma molti mercanti, burocrati, professionisti, gente agiata, quando non decisamente ricca, membri di un ceto allora definito “popolo” e che in seguito sarebbe stato denominato borghesia. Sono questi i “modernes” di cui parla Labrot, che “se soucient très fort d’acheter les vivants”, in misura molto maggiore che gli antichi, i “grands morts”7. Inventari, variamente attendibili, documenti e altre fonti ne ricordano le quadrerie, composte prevalentemente da pitture napoletane ma a volte con interessanti aperture verso artisti attivi a Roma, in Emilia o stranieri. Né mancano citazioni di pitture cinquecentesche, rese poco credibili dai nomi altisonanti: troppi i Raffaello, i Tiziano, i Bassano. Questo aspetto delle quadrerie qui ci interesserà solo marginalmente. Alcuni personaggi di questa complessa vicenda iniziarono a interessarsi di pittura fin dai primi anni Venti, talora con

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acquisti sorprendenti ma motivati dalle loro relazioni romane, come nel caso del principe Marcantonio Filomarino della Rocca che, oltre ad acquisire quadri di Battistello, Finson e Borgianni, seguendo i consigli del suo parente Ascanio, residente a Roma e gravitante nell’entourage dei Barberini, entrò in possesso molto presto di opere di Simon Vouet: nel 1620 fece commissionare all’artista un grande quadro con più figure che la Lorizzo identifica con la Circoncisione già in Sant’Angelo a Segno e ora a Capodimonte, datata 1622. Il soggetto si ritrova segnato nel 1634 nell’inventario post mortem dei beni di Marcantonio insieme con altri Vouet, ora dispersi: un’Annunciazione, una Visitazione, una Santa Caterina e, soprattutto, le quattordici tele con gli Apostoli, Cristo e la Vergine, commissionate sempre tramite Ascanio nel 16238. Queste opere attestano la fortuna del maestro francese a Napoli e le straordinarie doti di conoscitore del futuro cardinale Ascanio, di cui diremo in seguito. Mancano opere di Artemisia e neppure ne vide il Celano nel 1692, quando segnalò la raccolta, divenuta ben più importante e consistente grazie ai numerosi acquisti di maestri antichi e contemporanei effettuati dai successori di Marcantonio9. Negli stessi anni il non meglio noto Domenico della Vigna veniva in possesso di una Crocifissione di Vouet e di paesaggi del Tassi, venduti nel 1630 al Roomer dalla sua vedova10. Presso di lui li segnalò Capaccio che riconobbe in Gaspare il maggior collezionista del tempo, fornendoci, seguendone le indicazioni, un preciso elenco dei suoi dipinti, centinaia, diventati più di 1.100 al momento della sua morte nel 1674. L’inventario allora redatto è privo di autori ma la descrizione del Capaccio, documenti e fonti successive ci consentono di ricostruire in parte il gusto del Roomer e il ruolo rilevante svolto nella società del tempo. La sua eccezionale ricchezza derivava dal commercio internazionale, anche di quadri, svolto spesso con proprie navi, e da attività finanziarie come operazioni di cambio, prestiti alla corona spagnola e a privati. Tra il 1636 e il 1671 ebbe come socio Jan Vandeneynden, anversano come lui11. Le enormi disponibilità economiche e i rapporti con le maggiori piazze commerciali europee permisero ai due di formare delle quadrerie di respiro europeo sia per i nomi degli artisti sia per la qualità e quantità delle opere. A loro, oltre che ai pittori nordici di passaggio, è imputabile la presenza di tanta pittura fiamminga di genere e di figura nelle raccolte napo-

letane, di rado segnalata negli inventari coi nomi degli autori ma più spesso soltanto come “di mano di monsù”, “opera forestiera”, “di mano fiamenga”, data la difficoltà di attribuirla. Molte di queste opere provenivano da Roma, dove Jan era in rapporto con suo fratello Ferdinand e con i pittori-mercanti Corneille de Wael e Abramo Breughel, che trattavano gli artisti fiamminghi presenti nell’Urbe. Presso Roomer, Capaccio ne vide moltissime, specialmente paesaggi, e qualche autore era rappresentato in grandi quantità: troppi i 168 paesi di Jacob Sibraut, i 60 di Gottfried Wals o i 40 di Bramer, per non far supporre che al diletto si univa il senso degli affari. Inoltre opere di Paul Brill e Cornelio Poelembourgh, frutti e animali di Gerard van den Boss, le figure di Van Dyck, David de Heere, “Pierino Reniero”, forse Nicolas Régnier, e del tedesco Pietro Candido12. Alle speculazioni commerciali rimanda pure un pagamento di copie effettuato nel 1643 a Guglielmo Valscart, fiammingo e perciò più adatto di un italiano a copiare i propri connazionali13. Molti Rubens e Van Dyck degli inventari napoletani erano opere di copisti come Valscart o usciti dalle botteghe dei seguaci dei due maestri14. Anche Jan Vandeneynden, la cui raccolta dovette iniziare verso il 1635, e poi suo figlio Ferdinand possedettero importanti opere fiamminghe, molte di genere, inventariate nel 1688 da Luca Giordano che le attribuì a Brill, a Pierre de Neef, Jan Fyt, a Van Laer, Jan Miel, Jan Both, a Rubens e Van Dyck, o più genericamente a “mano forestiera” o “fiamenga”. Di queste almeno una è nota e attesta l’alta qualità dei due nuclei nordici: Il banchetto di Erode, del Rubens, ora nella National Gallery of Scotland di Edimburgo, già di Roomer15 ed ereditata nel 1674 da Ferdinand Vandeneynden con altre 90 opere. Poco sappiamo dei quadri di altre scuole italiane posseduti da Roomer – Saraceni e Valentin, Spadarino, Pietro da Cortona e Claude –, di più sul nucleo dei Vandeneynden che comprendeva le varie tendenze della pittura romana ed emiliana della prima metà del secolo XVII, da Caravaggio ad Annibale e Agostino Carracci, da Vouet a Guercino a Sacchi e Camassei, da Lanfranco a Castiglione a Giacinto Brandi e Romanelli. Fra gli altri una Giuditta e Oloferne, data a Orazio ma che per il soggetto farebbe pensare piuttosto ad Artemisia, e quel Riposo nella fuga in Egitto, di Poussin, del Metropolitan Museum di New York, collezione Heinemann (fig. 1), opera di alto livello, che si è supposto di provenienza Roomer16. La presenza di que-

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sti quadri e di altri degli stessi ambiti presso altre raccolte poteva rafforzare, più che determinare, delle tendenze che i pittori napoletani del tempo potevano acquisire ed elaborare nel corso dei viaggi a Roma e a diretto contatto con le fonti. Forse più stimolanti furono i dipinti nordici dei due fiamminghi, data la loro qualità, in un momento di grande evoluzione dell’arte napoletana, tanto che ancora nel Settecento veniva ricordato l’impatto della tela di Rubens sui pittori locali17. Di grande rilievo fu il ruolo svolto dai due fiamminghi sia come mercanti ed esportatori di quadri napoletani sia come committenti dei più significativi artisti locali tra naturalismo e barocco, da Roomer, giustamente, individuati in Battistello, Stanzione, Ribera e Falcone. A loro affiancò dopo il 1634 Andrea Vaccaro, Cavallino, Codazzi, Spadaro e poi Luca Giordano e Mattia Preti, tanto per fare qualche nome. Troppo poco sappiamo di questa raccolta per poter chiarire fino a che punto Jan Vandeneynden si lasciasse consigliare dal suo amico e socio; di certo egli possedeva gli stessi pittori napoletani, e in più Do, Salvator Rosa, Schönfeld e i generisti Porpora, Forte, Giovan Battista Ruoppolo, Giovan Battista e Giuseppe Recco, oltre a numerosi Preti e Giordano. Ad attestare l’alta qualità di queste collezioni sono non solo le fonti ma anche le poche opere individuate, in particolare due capolavori già di Roomer come Sileno ebbro, di Ribera, del 1626 (Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte), appartenuto a Giovan Francesco Salernitano, barone di Frosolone, venduto a Roomer nel 1653 da Giacomo De Castro ed ereditato da Ferdinand Vandeneynden18, e la Fuga in Egitto, di Aniello Falcone (Napoli, Museo Diocesano). Per limitarci a opere del periodo che ci compete, possiamo segnalare, fra quelle già dei Vandeneynden, un San Gerolamo di Ribera, tuttora in raccolta privata, e l’Adorazione del vitello d’oro, di Schönfeld, delle Städtische Sammlungen di Biberach, provenienti da una famiglia legata ai Carafa di Belvedere, loro eredi. La terza grande raccolta della prima metà del secolo giunse a Napoli nel 1642 con il cardinale Ascanio Filomarino, nuovo arcivescovo della città19. Qui tutto rimanda all’ambiente romano e dei Barberini, al cui entourage il prelato era strettamente legato: amico di Cassiano del Pozzo e di Urbano VIII, maestro di camera del cardinal nepote Francesco Barberini, cortigiano e fine politico. Con le cariche ecclesiastiche si acquistò una notevole ricchezza che gli consentì di dotare di titoli nobiliari i suoi nipoti e di formare una magnifica qua-

1. Nicolas Poussin, Riposo durante la fuga in Egitto. New York, Metropolitan Museum of Art.

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dreria dove erano presenti i nomi più rappresentativi dell’arte romana degli anni Venti-Quaranta, fra i tanti il giovane Poussin e Pietro da Cortona, Valentin, Vouet, il Cavalier d’Arpino. Né mancavano un Caravaggio, appartenuto al cardinal Del Monte20, gli emiliani Annibale, Reni, Domenichino e Albani, e un Battista di Artemisia, di cui parla anche l’artista in una lettera a Cassiano del 163721. Opere raccolte con competenza e non soltanto per decorare la sua recente ascesa, movente non secondario, o per ricalcare i gusti della famiglia papale, acquistate spesso direttamente dagli artisti, talora ancor poco noti come nel caso di Poussin. A Roma fu pure in gran parte eseguita la sua cappella per la chiesa napoletana dei Santi Apostoli, progettata da Borromini, con mosaici del Calandra e sculture di Finelli, Bolgi, Duquesnoy. E anche nelle commissioni napoletane il cardinale preferì artisti ben noti a Roma, come il Lanfranco, impegnandolo nelle pitture del nuovo episcopio. Fra i napoletani scelse per le tele del duomo il solo Giordano, di cui ebbe nella raccolta due quadri, insieme a poche opere di Preti e dei Fracanzano. Il massiccio innesto di tante importanti opere d’ambito romano interessò certamente gli artisti napoletani ma non fu determinante per gli sviluppi dell’arte locale: dipinti di gusto neoveneto e classicheggiante erano presenti a Napoli ben prima del 1642, così come artisti del calibro di Reni, Domenichino, Lanfranco, Finelli. Per non dire delle conoscenze acquisite direttamente nel corso dei viaggi a Roma. La raccolta Filomarino, al contrario di quelle Roomer, dispersa alla sua morte, e Vandeneynden, divisa fra due famiglie napoletane, rimase nel palazzo gentilizio fino al 1799, quando fu saccheggiata dalla plebe. Ne resta solo qualche quadro, di grande qualità, come Le tre Marie al sepolcro, di Annibale, ora al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, i due Angeli con simboli della Passione, di Vouet, a Capodimonte, il Sacrificio di Abramo, di Valentin, del Musée des Beaux-Arts di Montréal, il Ritratto del Filomarino da prelato, dello stesso pittore, degli Châteaux di Montrésor, o l’altro Ritratto del cardinale, di Francesco Di Maria, di Palazzo Corsini a Firenze. Queste tre raccolte eccezionali devono la loro origine alla volontà di un singolo collezionista, altre si formarono nel corso di più generazioni per successive aggiunzioni di nuclei, dal valore variabile a seconda della personalità e della cultura dell’acquirente. In certi casi non parlerei neppure di collezio-

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nismo, ma piuttosto di accumuli di quadri destinati a rivestire le vaste superfici dei grandi appartamenti e a conferire prestigio al complesso. Queste grandi quadrerie, disperse durante tutto l’Ottocento, privilegiavano spesso la quantità, affidando la qualità a un numero relativo di opere. Lo ricaviamo dai tanti inventari rinvenuti, pieni di lavori anonimi, copie, attribuzioni non verificabili, e lo si nota anche nell’unica antica raccolta conservatasi, quella dei d’Avalos, principi di Montesarchio e marchesi di Pescara, formatasi nel tempo per il confluire di varie branche della famiglia e donata allo Stato nel 1862 da Alfonso, ultimo del suo ramo22. Fra le pitture migliori, esposte a Capodimonte, si individua un nucleo del secondo

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quarto del secolo XVII la cui committenza si può far risalire al principe Giovanni e al figlio Andrea, fedelissimi degli Asburgo di Spagna, impegnati in cariche pubbliche e a portare ai massimi fasti il ramo di Montesarchio. Difficile distinguere gli acquisti in quanto Giovanni morì nel 1638 e Andrea gli successe a ventidue anni ma già ben inserito in un sistema di potere e destinato a divenire generale dell’armata del mare. È probabile che al padre possano ascriversi l’acquisto della Salomè, del Vouet (fig. 2), dell’Apollo e Marsia, di Ribera, e di alcuni Stanzione, ma fu certamente Andrea a comporre il nucleo più omogeneo, caratterizzato da pitture pervase di sottile erotismo, di tonalità idilliache e a volte dal sapore vagamente cortigiano, eseguite con grande eleganza da artisti come Pacecco De Rosa, Andrea Vaccaro (fig. 3), Cavallino e De Bellis. Spesso trapela una sensualità che permea anche le opere richieste da Andrea dopo la metà del secolo a Luca Giordano, ad Abramo Breughel a Giuseppe Recco. Questo gusto quasi cortese, ammantato di mitologia e di narrazioni da Tasso e da Ariosto, dà lustro al committente, immergendolo in un’aura colta ed ergendolo quasi a protagonista di certi fatti rappresentati. Esso riemerge in altre raccolte di grandi famiglie del regno e di signori che ricreano piccole corti nei loro feudi, con poeti, musici e pittori preferiti. Fra questi basterà ricordare gli Acquaviva, conti di Conversano, che con Giangirolamo celebrarono i loro fasti nel feudo pugliese, dove abitarono in prevalenza, rinnovando la dimora e fondando chiese, accogliendo dal 1635 al 1645 Paolo Finoglio, pittore dallo stile colto e brillante che ben soddisfece il conte, come si vede nelle tele con Fatti della Gerusalemme liberata (fig. 4), nella Pinacoteca del Castello di Conversano23. Accanto ad esse dipinti del Caracciolo, di Stanzione, di Reni, una Carità e una Madonna, di Artemisia, e un’infinità di opere cui il redattore dell’inventario del 1666 non era in grado di dare un nome, soggetti sacri ma tanti mitologici e letterari che davano vita alla più interessante quadreria di metà Seicento nelle province meridionali, non dissimile da quelle dei grandi palazzi napoletani

2. Simon Vouet, Salomè con la testa del Battista. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

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dell’aristocrazia24. Famiglia potentissima sul territorio, questa degli Acquaviva, così come i romani Orsini, duchi di Gravina, sempre in Puglia, che a Napoli svolsero un’intensa attività di committenza, continuata nel feudo dopo il trasferimento verso il 1656. Anch’essi ebbero un pittore di casa, impiegato lungo tutti gli anni Quaranta, e fino alla morte, nei feudi e a Napoli, quel Francesco Guarino da Solofra, altro feudo Orsini, naturalista raffinatissimo, di cui avevano almeno una cinquantina di opere nelle varie dimore, con soggetti tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, a dimostrazione che la “corte” di Ferdinando II Orsini fu ben più rigorosa di quella di Conversano, troppo “improntata all’edonismo mondano”25. Fra la decina di quadri di Guarino individuati, basterà citare Isacco che benedice Giacobbe ed Esaù che vende la primogenitura, delle Kunstsammlungen di Pommersfelden, o la Santa Cecilia, di Capo-

3. Andrea Vaccaro, Rinaldo e Armida nel giardino incantato. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

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dimonte26. Ma nel palazzo napoletano degli Orsini la presenza dei nomi dei maggiori artisti locali, da Battistello a Ribera a Stanzione, fino a Vaccaro, Cavallino e Pacecco, attesta un’attiva e continua committenza, giunta fino alle soglie del barocco con Farelli e Giordano. E accanto a questi, molte opere pervenute dai palazzi romani, di pittori del XVI secolo e poi di Caravaggio, di Annibale e dei soliti emiliani famosi, di Dughet, Pietro da Cortona e di altri romani27, a contrassegnare una lunga storia di collezionismo svoltasi in un vasto contesto geografico. Un po’ tutti i palazzi dell’aristocrazia presentavano un gran numero di dipinti, spesso opere anonime o attribuite a maestri minori insieme ai soliti grandi nomi napoletani. In molti casi non si colgono un gusto e una scelta precisi ma solo il bisogno di rappresentare uno status e di organizzare un arredamento. Del resto non molti compratori disponevano di

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una cultura dei fatti d’arte, come Roomer, Vandeneynden o il già ricordato Giovan Francesco Salernitano, barone di Frosolone, che nel 1648 possedeva anche i testi di Vasari, Lomazzo, Baglione, Armenini, Ripa, oltre a una cinquantina di quadri, scelti secondo un criterio antologico che affiancava a Ribera (il Bacco poi di Roomer) e Filippo d’Angeli, artisti d’ambito romano come Caravaggio, Poussin, il “Gobbo dei frutti” o Pietro da Cortona, genovese come Castiglione, emiliani come

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Ludovico e Agostino Carracci o Reni, oltre ai soliti fiamminghi. Allo stesso modo sono assortiti anche i quadri più antichi, tanto da far pensare che venissero messi assieme dallo stesso barone28. Altri esponenti del ceto aristocratico raccolsero quadrerie concentrate sulla scuola napoletana ma non prive di interesse, dimostrando un preciso gusto per i contemporanei. È il caso di Giuseppe Carafa dei duchi di Maddaloni, ucciso nel 1647 durante i moti di Masaniello29. Il suo inventario post

4. Paolo Finoglio, Scena dalla Gerusalemme liberata. Conversano, Sala del Comune.

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mortem presenta elementi che ci consentono di avvalorare le attribuzioni e, pertanto, di asserire che don Giuseppe seguì con interesse la corrente dei naturalisti e i seguaci di Stanzione, affiancando alle opere di Massino e di Ribera (ben sette) quelle di Agostino Beltrano, di Annella e Pacecco De Rosa, di Francesco e Cesare Fracanzano, Passante e Scipione Compagno, oltre a una Giuditta di Artemisia. Molto interessante il gusto per il paesaggio e la natura morta, rappresentata con dipinti di Luca Forte, Giacomo Recco, Ambrosiello Faro, Paolo Porpora, cioè dei primi esponenti locali di questo genere. Un gusto simile ma su più ampia scala si afferma contemporaneamente presso Ferrante Spinelli, principe di Tarsia30, che nel 1654 lascia tante nature morte, quattro di Giovan Battista Recco e ben diciassette di Forte, autore inoltre dei fiori in un paese con figure di Aniello Falcone, l’altro grande preferito del principe con quarantadue opere di ogni soggetto, dal ritratto alla battaglia, dal soggetto mitologico, biblico e sacro, ai paesi con figure, segno di un apprezzamento per la pittura di genere e naturalista che trova riscontro nella presenza dei soliti nomi di Stanzione e Ribera, accompagnati da Sellitto, Filippo Napoletano, De Bellis, Micco Spadaro, De Nomé, Giovan Battista Recco, oltre che da alcuni eccellenti nomi “romani”, fiamminghi ed emiliani, forse più dubbi dei precedenti ma che dimostrano una certa apertura verso l’esterno. Altri membri dell’aristocrazia formarono simili collezioni nel corso del secondo quarto del Seicento, ma, onde evitare un discorso ripetitivo, ci limiteremo a ricordarne alcuni che possedettero opere di Artemisia: Ettore Capecelatro marchese di Torella, che nel 1655 lasciò una Madonna e una Maddalena, Davide Imperiali, nel cui inventario del 1672 appaiono una Lucrezia, una Maddalena e le teste di Cristo e della Vergine31,

5. Rembrandt, Aristotele contempla il busto di Omero. New York, Metropolitan Museum of Art.

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e soprattutto Camillo Colonna, dei duchi di Zagarolo, morto nel 1647, possessore di quadri d’ambito romano, dello Spadarino e Fabio della Cornia, e di una Speranza e tre ottagoni, dal soggetto imprecisato, della Gentileschi, che potrebbero essere stati acquistati tanto a Napoli quanto a Roma. Questo personaggio fu iscritto a diverse accademie e nella sua casa napoletana fondò quella “del Nome Romano”, frequentata dai più importanti intellettuali locali e anche dal futuro cardinale Gerolamo Casanate32. Si ripropone qui quel rapporto fra Artemisia e i letterati che è accertato in tutti i centri dove l’artista visse, e anche a Napoli dove alcuni accademici oziosi, negli anni 1632-43 circa, dedicarono versi in lode della sua opera: Gerolamo Fontanella ricorda un Apollo che uccide Pitone e un Apollo con la lira, donatogli dalla pittrice, e tre ritratti, il suo,

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quello di Adriana Basile, sorella di Giovan Battista, e l’autoritratto di Artemisia33. Questi dipinti sono sconosciuti al pari di quella Madonna del Rosario, di due palmi, soggetto inconsueto per la pittrice, col paese di Micco Spadaro, posseduto da Fabrizio Pinto, leguleio e letterato di un certo rilievo, che fra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta mise insieme “molti e molti quadri di prezzo per essere di ottimi e famosi dipintori, essendomene molto dilettato”, come scrisse nel suo testamento del 170134. Il Pinto comprò presso artisti e venditori secondo un preciso gusto che lo portò a unire Stanzione e Cavallino, Vaccaro e Andrea De Leone, Guarino, Falcone, Codazzi, Spadaro e Schönfeld, le cui opere a volte accompagna con competenti annotazioni, formando una raccolta dove la più moderna arte napoletana si affianca a espressioni di quella che si svolgeva nella provincia salernitana. Motivi di spazio non ci consentono di trattare ulteriormente l’argomento, ma non possiamo ignorare un collezionista siciliano, animato da autentica passione e competenza che, dalla metà degli anni Quaranta, creò un’eccezionale quadreria nel suo palazzo di Messina, il principe Antonio Ruffo della Scaletta,

morto nel 1678. Egli possedette le opere dei contemporanei più rappresentativi, ricercati con tenacia, richiedendo loro precisi soggetti e tentando spesso di limare i prezzi, come si ricava da varie lettere e anche da quelle scrittegli dalla Gentileschi che da Napoli gli inviò tre opere importanti. Questa quadreria, del tutto atipica nel contesto meridionale, fu dispersa e distrutta da vari disastri naturali e incendi, ma la sua eccezionalità è attestata da uno dei pochissimi dipinti superstiti, l’Aristotele che contempla il busto di Omero, di Rembrandt (fig. 5), ora al Metropolitan Museum di New York, e da inventari, note di spese e lettere di artisti, agenti e parenti, sparsi in tutta Italia35. La collezione Ruffo mise insieme pochi pittori siciliani e i principali napoletani, soprattutto Ribera, Stanzione, Falcone, Vaccaro e Preti, i maggiori generisti nordici e Van Dyck, Jordaens, Rembrandt (tre opere ben documentate), oltre ai contemporanei romani ed emiliani, con tanti Guercino e Reni, Pietro da Cortona, Ciro Ferri, Romanelli, Camassei, Poussin, Claude e Dughet, costituendo “una cittadella della cultura europea [...] che senza dubbio stimolò gli artisti che per essa lavoravano”, senza però coinvolgere l’ambiente circostante36.

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1. Capaccio 1634, pp. 853-866.

2. Importante punto di riferimento il volume España y Nápoles. Inoltre Lattuada 2001, pp. 380 ss.

3. Ruotolo 1984; Labrot 2010. A questo testo si rimanda per la vasta bibliografia e le molte tematiche affrontate.

4. Muñoz González 1999.

5. De Dominici 1742-1745 ed. 2008, III, p. 639.

6. Su questa fase del collezionismo napoletano cfr. Borrelli 1989.

7. Cfr. Labrot 2010, pp. 213-214.

14. Per le copie cfr. Labrot 2005.

25. Lattuada 2000, p. 34.

15. Burchard 1953.

26. Cfr. Lattuada 2000, pp. 192-197, 242-243.

16. Weston-Lewis 2007, p. 783. Non credo che la documentazione sia sufficiente per sostenere con Weston-Lewis che la tela sia stata del Salernitano e poi di Roomer.

27. Rubsamen 1980, in particolare pp. 47-67.

17. Cfr. De Dominici 1742-1745 ed. 2008, III, p. 65. Sulla controversa influenza del dipinto di Rubens si veda ivi la nota 7 di Riccardo Naldi alla vita del Cavallino.

29. Cfr. Labrot 1992a, pp. 75-78, 82-85.

18. Cfr. Weston-Lewis 2007, pp. 781-783.

19. Ruotolo 1977, pp. 71-82. Essenziale Lorizzo 2006, cui si rimanda per la bibliografia.

28. Cfr. Labrot 1992a, pp. 79-81.

30. Cfr. Labrot 1992a, pp. 92-100.

31. Cfr. Labrot 1992a, pp. 101-104 e 118-119.

32. Ricciardi 2001, pp. 53-56, 60.

33. Locker 2007. 8. Labrot 1992a, pp. 62-64; Lorizzo 2006, pp. 13-18, 33.

20. Cfr. Lorizzo 2006, pp. 53-63. 34. Avino, Del Grosso 1989, p. 47. 21. Menzio 2004, p. 121.

9. C. Celano, giornata III, pp. 98-99.

10. Ruotolo 1982. Salvo notazioni diverse, si fa sempre riferimento a questo testo trattando delle raccolte dei due fiamminghi.

22. I tesori dei d’Avalos 1995, cui si rimanda per la bibliografia precedente.

23. D’Elia 2000, passim.

35. La ricca documentazione in Ruffo 1916. Si veda la ricerca recente di De Gennaro 2003.

36. Haskell 1966, p. 328. Per la situazione del collezionismo siciliano del XVII secolo si veda Abbate 2011.

11. Nappi 2001.

12. Capaccio 1634, pp. 863-864.

24. Inventario delli beni remasti nell’heredità del quondam eccellentissimo signor don Giovanni Geronimo Acquaviva d’Aragonia conte di Conversano, Galatina 1983.

13. Cfr. Nappi 2001, p. 83.

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una stirpe di artisti

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1. Aurelio Lomi

Adorazione dei pastori

————— 1610 circa - 1622 Olio su tela, cm 175 x 133 Blu, Palazzo d’Arte e Cultura, Pisa / Proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa, inv. P18 (11184) ————— Bibliografia R.P. Ciardi in Ciardi, Galassi, Carofano 1989, pp. 258-259; Di Giampaolo 1992, p. 60; Moreschini 2010; B. Moreschini in Palazzo Blu 2010, pp. 190-191, n. P18.

tra i massimi rappresentanti della tarda maniera toscana, Aurelio Lomi (Pisa 1566-1622), zio di Artemisia, conobbe un notevole successo che lo portò a viaggiare nella Penisola, a partire da un lungo soggiorno giovanile a Roma, tra il 1579 e il 1587, di cui rimane povera testimonianza nella cappella dell’Assunta in Santa Maria in Vallicella. Tornato in patria, le committenze, ma senz’altro anche l’indole indomita del pittore, lo portarono a spostarsi ancora. Dieci anni dopo il rientro a Pisa si trasferiva a Genova, e da lì continuerà a spedire opere a Lucca, a Firenze e ancora a Pisa, dove nel 1604 si stabilirà definitivamente. Tale irrequietezza, o tale ambiziosa ricerca di successo e di stimoli, si ritrova, in una coincidenza tutt’altro che casuale, nella biografia del fratello Orazio (Lomi) Gentileschi, che da Pisa vorrà seguire le orme del fratello, venendo anch’egli a Roma per poi viaggiare tra le Marche, Genova e addirittura Parigi e Londra, o, ancora di più, nella vita della nipote Artemisia, la cui avventurosa carriera si articolò tra Roma, Firenze, Venezia, Napoli e Londra. Orazio, inizialmente prossimo agli insegnamenti del fratello poco più anziano, maturerà a Roma, grazie soprattutto alla conoscenza diretta dell’opera di Caravaggio, un proprio peculiare stile e una predilezione per temi “nuovi”, intraprendendo una strada sostanzialmente divergente da quel tardo manierismo toscano di cui il Lomi rappresenta uno degli ultimi campioni. Ancor più Artemisia, formatasi all’ombra del padre e sempre pronta ad assorbire le più innovative tendenze artistiche presenti nelle città dove emigrava, sembra non mantenere nessun contatto con la maniera dello zio, che conobbe assai approssimativamente. A questo proposito, per notare il divario nettissimo formatosi tra le due generazioni, basterà confrontare questa Adorazione dei pastori – databile su base stilistica al secondo decennio del Seicento (R.P. Ciardi in Ciardi, Galassi, Carofano 1989, pp. 258-259) – con le coeve tele fiorentine di Artemisia. La tela in esame, apparsa sul mercato antiquario americano nella primavera del 1989, fu acquistata dalla Cassa di Risparmio di Pisa ed è oggi confluita nelle collezioni

della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa insieme al San Sebastiano dello stesso autore, alla Madonna col Bambino e i santi Sebastiano e Francesco di Orazio e alla Clio di Artemisia in una suggestiva riunione dei tre maggiori protagonisti di una vera e propria dinastia di pittori (si veda il saggio di Roberto Paolo Ciardi nel presente volume). Numerose le versioni di questo soggetto, almeno cinque documentate nell’oeuvre lomiana, comprese le grandi tele per il duomo di Pisa e per San Martino in Vignale di Lucca, rispetto alle quali questa versione rappresenterebbe una più tarda derivazione, connotata da una “progressiva semplificazione dei partiti decorativi” e da una maggiore adesione a quella “pittura di affetti di chiara e piana lettura iconografica” (B. Moreschini in Palazzo Blu 2010, p. 90). Di questa Adorazione dei pastori si ignorano, a oggi, notizie relative alla committenza, forse da ritenere di carattere privato anche in base alla vicinanza con la pregevole prova, qualitativamente assai prossima, pur se di formato orizzontale e diminuita su tutti i lati, dell’Adorazione oggi in collezione privata (R.P. Ciardi in Ciardi, Galassi, Carofano 1989, pp. 258-259, n. 69 bis). Dal punto di vista compositivo, una seconda redazione, con probabili interventi di bottega, espliciti nella minore qualità che si intravede attraverso le ridipinture, è la tela oggi conservata presso la pieve di Calci (Pisa) (R.P. Ciardi in Ciardi, Galassi, Carofano 1989, p. 258, n. 69). In quest’ultima, interessante è la divergenza della figura di san Giuseppe, di cui esiste un disegno preparatorio reso noto da Mario Di Giampaolo (1992, p. 60). È possibile che nella redazione di Calci, destinata a una sede semi-periferica, il Lomi abbia preferito riconsiderare la figura del santo attraverso una caratterizzazione più esplicita e canonica rispetto alla figura quasi naturalistica, e priva di qualsiasi attributo, presente nella tela in esame. Il riutilizzo di cartoni preparatori o di formule compositive e tipologiche, comunque già ampiamente consolidate nella lunga pratica artistica del Lomi, è facilmente estendibile per confronto con una serie di composizioni a più figure, incentrate sullo stesso schema della

Madonna col Bambino al centro e un gruppo di astanti disposti su più piani, così come a una formula di successo, più volte riproposta, rimanda il fondale architettonico quasi monocromo in cui si distinguono rovine antichizzanti, di indubbio fascino scenografico. Pur se fortemente pervasa da stilemi e virtuosismi tecnici di chiara matrice manierista, quali il cangiantismo delle vesti, rischiarate dalla luce sovrannaturale emanata dall’aureola luminescente del Bambino, o ancora l’esibizione degli scorci delle poderose mani dei pastori e degli angeli, questa tarda prova di Aurelio non manca tuttavia di una certa attenzione al dettaglio naturalistico, ben leggibile nella caratterizzazione dei volti dei personaggi in primo piano e nella mangiatoia sulla quale poggia la cesta-culla e uno degli intervenuti adagia il simbolico agnello sacrificale. Michele Nicolaci

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2. Orazio Gentileschi

Santa Cecilia

————— 1603-05 circa Olio su tela, cm 110 x 79,5 Iscrizioni: nell’angolo inferiore sinistro, in vernice gialla, il numero “207.”; a tergo sul telaio, in nero, la sigla: “S.C.” (Sciarra Corsini?), un cartellino abraso col numero “357.” preceduto da scritta illeggibile (“… aroetto” o “…arosello”, ossia Carosello, intendendosi il pittore romano Angelo Caroselli?) e un’etichetta che legge: “1915 / Proveniente / dall’eredità / Corsini / Barberini”. Collezione privata, per cortesia di Bigli Art Broker, Milano ————— Bibliografia Inedito.

di nobile provenienza BarberiniColonna, Barberini-Sciarra, poi Corsini, quindi Antinori, la fresca, adolescente Santa Cecilia è parsa sia a Francesco Solinas sia allo scrivente opera del primo tempo (beninteso in vesti di naturalista, indossate non prima dell’apparizione pubblica del Caravaggio a San Luigi dei Francesi, allo scoccare del nuovo secolo) di Orazio Gentileschi, non senza rapporto, onomastico quanto di stile, con l’evoluzione della medesima santa nella pala comasca, antecedente il 1607, oggi a Brera. Il viraggio del Gentileschi padre, oramai circa quarantenne, verso il suo nuovo corso, gettata la perniciosa zavorra del linguaggio impersonale dei colleghi controriformati – inciampo al fluire delle arti figurative –, lo vede pronto invece, con esaltante trasformismo, ad aggredire il vero o il verisimile della vita. Orazio batte conio di sublime formula di caravaggista col freno tirato, reattivo alla terza dimensione, allo spessore di membra e cose, come prova a usura il broccato chiaro a motivi di foglie di rovere dorate con fodera rosso mattone, che riveste a cascata la giovane organista. Con analogia ardua quanto perversamente ficcante, non si potrebbe percorrere la drastica rivoluzione oraziana meglio che sull’acciottolato che mentalmente separa dalla nostra Cecilia l’iconica ma disossata santa del Trionfo di sant’Orsola affrescata allo scadere del Cinquecento dal pisano nell’abbazia dei benedettini di Farfa. Se non si mancherà di riconoscere nostro malgrado una certa qual aria di famiglia, promossa dall’analogia dello scorcio del viso, col caratteristico celarsi del subordinato frammento perdu di guancia e occhio, tanto più eclatante risulterà la distanza nella peritissima affermazione della martire su tela rispetto al frusto linearismo del prodotto su parete, cincischiante ancora l’eredità di tardovasariani dello stampo dei fratelli Brina. E a date per le quali Barocci e Santi di Tito avevano cambiato già da par loro i termini del visibile riprodurre, così da sottolineare con matita sempre più blu il fiasco del trentacinquenne Orazio in un cimento da artista non davvero esordiente.

È probabile che, solo una volta consapevole di Caravaggio, il Gentileschi abbia deglutito la propria boria e si sia messo a puntare i fanali anche sui modi semplici e tuttavia veridici di suoi corregionali, il cui ciarlare risuonava forte dagli edifici di culto. La combinazione dei troppo eversivi segnali emessi da quel lombardo, col quale intratteneva per eccezione passabili rapporti, con i moduli a marcia lenta e obiettiva, fuor di ogni estremismo, di un Agostino Ciampelli, sta alla base del magic blend oraziano. Lo possiamo verificare nel primo lustro o poco più del Seicento nella Circoncisione di Ancona, onusta di nobili drappi nella figura del sacerdote, per vero leggibili in una col corrispondente apparato calato su Cecilia, e in taluni di quei volti angelici, che appaiono già però un passo oltre – in termini di cronologia interna – rispetto al volto vispo della santa qui disvelata. Nella grande pala marchigiana, come non cogliere nella fanciulla con chignon ultimissima a destra un taglio del volto mèmore sì di un Lilio, ma pur anche del menzionato Ciampelli? La mano destra, soda, quasi una protesi, di Cecilia è evidentemente della medesima pasta di quella della Maddalena che chiude a destra un altro insigne quadro del Gentileschi sul 1605 o poco oltre, il Cristo portacroce di Vienna. Altri, a voler spaccare il capello in quattro, sono gli amplificati, massicci modi, delle donne ritratte (a memoria?) da Orazio sulla fine del decennio, quali la Vergine allattante di Bucarest, utilmente datata 1609, o la non distante Giuditta con Abra di Oslo. Se questo è vero, accordare status di primizia (1603-05?) alla Santa Cecilia entro il nuovo corso del Gentileschi non appare misura illegittima. Roberto Contini

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3. Artemisia Gentileschi (?)

Giuditta e la fantesca Abra con la testa di Oloferne

————— 1607-10 circa Olio su tela, cm 130 x 99 Roma, collezione Fabrizio Lemme ————— Bibliografia Marini 1981, pp. 39 nota 1, 48 fig. 12; Giffi Ponzi 1986, pp. 25-27; Berti 1991, p. 20; R. Contini in Artemisia 1991, p. 149; Papi 1991, pp. 38, 42, 50; G. Papi in Artemisia 1991, pp. 96, 106-109 n. 6; Spike 1991a, p. 733; Salerno 1992, p. 355 nota 17; Aurigemma 1994, p. 40 nota 114; S. Loire in Il Seicento e Settecento romano 1998, pp. 148-150 n. 58; Bissell 1999, pp. 320-323 n. x-14, fig. 221.

capolavoro, anche nell’incongruenza, della pittura romana post-caravaggesca, ambientato nella spoglia camera allusa dalla porzione di panca di pietra grigia su cui poggia una florida Giuditta in vesti domenicali e dalla nuda parete giallastra solcata dalla diagonale, spartiacque caravaggesca di chiari e di scuri (fiotto di luce dal fuori campo a destra e penombra), è quanto di più squisitamente nelle corde del duo Gentileschi si possa immaginare, senza che ne possa conseguire patente di autografia definitiva, favorevole all’una o all’altro. Se è ammesso procedere in negativo, si dovrà subito sgombrare il campo da equivoci autobiografistici, tanto si discosta il volto largo, il naso forte e camuso, lo sguardo tra l’imbarazzato e il placido della modella dal canone tipico di Artemisia e dalle certezze disponibili sulla sua effettiva effigie (cat. 7). Si tratta per contro di tipologia non aliena da altre del ritrattista del mondo caravaggesco (ma non univocamente), Ottavio Leoni, e da quelle d’impiego paterno, sotto specie di plastico tuttotondo tipico delle opere licenziate da Orazio nel primo decennio del nuovo secolo. In questo senso il rinvio all’omologa nella tela della Nasjonalgalleriet di Oslo, anche nel ricorso a un medesimo campionario di guardaroba, di quasi identico tono di rosso, e di preziosa bigiotteria, è poco meno che obbligatorio. Per converso, se la protagonista di questa tela d’imperatore riesce indubbiamente aliena da quanto si conosce – o si cerca di modellarle a misura – dell’Artemisia del calante primo decennio del Seicento (la Madonna col Bambino Spada e la nuova versione di collezione parigina: cat. 9), in un solo caso si dà nel repertorio della pittrice una definizione somatica femminile grosso modo equivalente a quella della fantesca. È naturalmente quella, in tutt’altra macerazione luministica e risolutezza di espressione, dell’assassina nella prima versione dell’omicidio di Oloferne, a Napoli (cat. 10), al cui cospetto il plantigradico incedere da “portaborse” della padrona, l’occhio semichiuso per la tarda ora e l’improvvida soluzione della mano destra a confusamente puntare l’indice teso, non si sa se sulla capoccia bronziniana del generale o sul valore didascalico dell’impresa,

distraggono questa specifica Abra ad altra sfera linguistica. Siamo perciò a un bivio ermeneutico: se si vorrà mantenere una cronologia alta per un risultato di tanta magica perizia, pur non scevro di segmenti d’opinabile riuscita compositiva, non pare esserci oggi altra via che quella di mantenere la tela nella casa romana di Orazio e Artemisia Gentileschi e interrogarsi sulle percentuali d’intervento dell’una sull’altro o viceversa. Risolvendosi invece di non seguire quella deterministica opzione, un’alternativa porterebbe a scrutare nel contesto romano tra il 1615 e il 1620 – contumaci tanto la figlia (a Firenze) che il padre (nelle Marche) – alla caccia di chi avrebbe potuto indossare tali panni (è il caso di dirlo!) di stile. Fuor dall’estremismo caravaggesco generale, molti sono i volti di Francesco Boneri – per esempio nell’angelo candidissimo della rifiutata Resurrezione di Chicago (documentata al 1619-20) – a corrispondere al canone della Giuditta Lemme, e analoghi se ne trovano anche nel sommo Bartolomeo Cavarozzi. In termini più accostanti, popolari, si pone poi qualche frammento di Giuseppe Vermiglio, il milanese protetto a Roma dai Giustiniani, sempre che sia davvero suo – come sembra – il perduto Miracolo dei pani e dei pesci del Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino. Sul primo piano di quel vasto dipinto due donne seggono commentando lo stupefacente accadimento: quella di profilo, protetta da un velo e schiacciata ai limiti del supporto, offre il massimo di analogia somatica con la più rotonda eroina. Eppure, anche a chi scrive – cui non convince la da più parti pretesa affinità con Angelo Caroselli (Bissell 1999) – par sempre che il profumo sprigionato da una pittura così ricca di eccellenza inventiva, di quasi maniacale resa naturalistica degli accessori (il borsello blu, la lucentissima elsa tridimensionale dello spadone) sia ben quello di un Seicento ancora bambino. Sul piano più specifico delle fisionomie adottate, una pala del primo tempo “caravaggesco” di Orazio Gentileschi, il Battesimo famoso di Santa Maria della Pace, conta tra i referenti privilegiati di questa variante – unica, direi,

per scelta iconografica – di Giuditta con Abra e con la canonica testa resecata di Oloferne: nella convinzione che l’incrocio sopraffino tra un quadro chiesastico di quella specie e uno da collezione, quale la versione norvegese della Giuditta, si accordi con l’alchimia di casa Gentileschi capziosamente dichiarata da questa meditata istantanea, la cui formula – o meglio proporzione negli ingredienti impiegati dai consanguinei artefici – sarà un giorno finalmente (magari come conseguenza di questa rassegna milanese) con minore vaghezza percepibile. Roberto Contini

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4. Orazio Gentileschi (attr.) e aiuti

Giuditta ostenta la testa mozzata di Oloferne

————— Ante 1611 Olio su tela, cm 145 x 115 Collezione privata ————— Bibliografia Inedito.

negli atti del processo del 1612 intentato da Orazio contro Agostino Tassi, accusato di “stupro e lenocinio” a danno di Artemisia, si fa cenno anche alla sottrazione di “alcuni quadri di pitture di suo padre et in specie una juditta di capace grandezza” (cfr. Bertolotti 1876). In data 24 marzo 1612, nel corso del processo, nella deposizione di G.B. Stiattesi riferita al Tassi, si legge: “So che amava Artemisia da cui aveva avuto un quadro figurante una Giuditta, non finito” (Bertolotti 1876, pp. 201-202). Il rinvenimento, avvenuto negli anni Settanta grazie alla segnalazione di Giovanni Testori e di Geo Poletti a beneficio della mia tesi di laurea, del presente dipinto in una collezione privata milanese (dove esiste tuttora, proveniente dal mercato antiquario milanese e acquistato negli anni Sessanta dall’attuale proprietario) raffigurante una Giuditta con la servente, chiaramente riferibile all’ambito dei Gentileschi e per di più non finito, legittima la supposizione che si tratti proprio del quadro di cui si parla nel processo del 1612 e di cui tace tutta la letteratura sui Gentileschi, perché fin qui inedito e sconosciuto. Dagli scarni dati desumibili dal processo è impossibile ricavare informazioni precise, anche su chi lo abbia realmente dipinto, se Orazio o Artemisia. L’analisi esterna e il confronto con le opere certe di Orazio porterebbero a una sua attribuzione (confortata dal parere che al tempo venne dato dallo stesso Testori e da Gian Alberto Dell’Acqua), senza escludere il contributo della figlia che, nata nel 1593 (cfr. Liber babtizatorum 1590-1603, S. Lorenzo in Lucina, Archivio Storico del Vicariato, 7, fol. 78, n. 157, S. Giovanni in Laterano, Roma), si sa aver iniziato presto gli studi e la collaborazione col padre. Il dipinto si collocherebbe entro il 1611 (considerando la data del processo e il riferimento a fatti già avvenuti) e dunque vicino alla Giuditta di Oslo, datata dal Christiansen al 1608-09 (K. Christiansen in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 82-86) e dal Bissell al 1611 circa (Bissell 1999, fig. 40) e certamente molto distante dalla Giuditta di Wadsworth, del 1621-24 circa.

Non sembrando utile un confronto con il dipinto conservato in collezione privata milanese (K. Christiansen in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 85, fig. 46), per la differente impostazione compositiva, si vorrebbe innanzi tutto rilevare la somiglianza del volto di questa Giuditta con quello della Salomè perduta di Ginevra (fino a legittimare l’ipotesi che si tratti della stessa modella che potrebbe aver posato anche per la Giuditta di Capodimonte, con le considerazioni che se ne trarrebbero leggendo Bissell 2009a, p. 23), ricondotta a Orazio “per via della tipologia facciale, delle ombre trasparenti, dei drappi complessi, ecc.” (Bissell 2009a, p. 27). Il riferimento vorrebbe insistere sulla dimensione meditativa del volto, assorto in una propria convinzione interiore e del tutto impermeabile sul piano emotivo: caratteristica ricorrente, specie negli anni in questione, nella fisiognomica di Orazio e piuttosto estranea a quella di Artemisia, dal taglio fortemente espressivo e drammatico. A Orazio paiono riconducibili anche l’incarnato caratterizzato dall’epidermide luminosa e giallina, il candore della camicia di lino garzato e la qualità della stoffa pesante, damascata, della veste, nonché il panneggio di azzurro cangiante della sopravveste. La testa di Oloferne, non realizzata, resta allo stato di abbozzo, una sorta di maschera ancora da dipingere. Analogamente i capelli di Giuditta sono appena individuati, un’ombra bruno-rossiccia appena più chiara del fondale, contro cui si staglia, alle spalle di Giuditta, la figura della serva dall’incarnato scuro, che accende l’intensità del candore del copricapo, e dallo sguardo attonito, che non ha riscontri nella produzione di Orazio e neppure in quella di Artemisia. Del resto il dipinto di cui si fa cenno nel processo del 1612 non era finito, né è dato sapere a quale stadio di incompiutezza fosse. La questione attributiva, ricondotta fin qui a Orazio, si apre dunque a ipotesi diverse, allo stato attuale non definibili. Non solo Artemisia collaborava con il padre, ma anche altri, fra i quali lo stesso Agostino Tassi, riconosciuto colpevole anche della sottrazione del

dipinto. E poiché negli atti del processo non si insiste su questa accusa, anche per l’evidente prevalere dell’altra, non si può escludere che non solo Artemisia abbia contribuito all’opera, ma forse anche il Tassi stesso, magari proprio dipingendo il volto della serva Abra. Paolo Biscottini

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5-6. CopiE RISPETTIVAMENTE da Orazio E DA ARTEMISIA Gentileschi

David contempla la testa di Golia e Giuditta decapita Oloferne

————— Ante 1650 Olio su lavagna, cm 32 x 22 Milano, Quadreria Arcivescovile, inv. 47-48 Opere non in mostra ————— Bibliografia Santagostino 1671 ed. 1980, p. 82; Torre 1674 ed. 1714, p. 372; Cochin 1773, I, p. 45; Bartoli 1776-1777, I, p. 166; Calvi 1880, p. 10; Nicodemi 1914, p. 287, n. 2; Longhi 1916 ed. 1961, pp. 258, 275, n. 32; Voss 1924, p. 460; Zeri 1954, pp. 86-87; Bissell 1981, pp. 149-150; Schleier 1985, pp. 153-154; G. Papi in Artemisia 1991, pp. 116-120; F. Frangi in Le stanze del Cardinale Monti 1994, pp. 224-225; Bissell 1999, pp. 191-198.

le piccole lavagne centinate replicano en pendant due celebri invenzioni di Orazio e Artemisia Gentileschi: il Davide che contempla la testa di Golia, prossimo al rametto a figura intera della Gemäldegalerie di Berlino e alla rifilata tela della Galleria Spada, e la Giuditta che uccide Oloferne, che ripropone con qualche variante la celebre Giuditta della Galleria degli Uffizi (cat. 21). Per primo, nel 1914, Giorgio Nicodemi notava la dipendenza del Davide e Golia dal dipinto di Orazio nella collezione Spada, allora attribuito al Caravaggio (Nicodemi 1914, p. 287, n. 2); Hermann Voss e Federico Zeri ritenevano invece l’opera replica autografa del pittore pisano (Voss 1924, p. 460; Zeri 1954, pp. 86-87). Nel 1916, nel suo fondamentale saggio sui Gentileschi, Roberto Longhi attribuiva entrambi i dipinti ad Artemisia (Longhi 1916 ed. 1961, pp. 258, 275 n. 32, 281), ipotesi giustamente smentita dal Bissell, che ritiene le due lavagne copie da originali perduti, forse già in origine concepiti en pendant (Bissell 1981, pp. 149150; Bissell 1999, pp. 191-198). Prima del 1627, la collaborazione fra padre e figlia a serie di “quadri compagni” è del resto documentata dalla presenza nel testamento di Giovanni Battista Bolognetti, potente segretario apostolico di Paolo V, di “Una sibilla con un sciugatore in testa del Gentileschi [e di] un’altra sibilla con un libro in mano della Gentilesca” (Mazzarelli 2005, p. 180; si veda Appendice II). Qualora non si vogliano ammettere delle varianti apportate autonomamente dall’anonimo copista, le operette milanesi rimanderebbero “a due versioni in grande che ci sono sconosciute” (G. Papi in Artemisia 1991, pp. 119-120). Le due copie, infatti, presentano alcune importanti differenze rispetto ai supposti modelli oggi noti: l’assenza del paesaggio e la diversa inclinazione della testa del gigante Golia e l’aggiunta di un mobile con candela a sinistra davanti al letto di Oloferne, assente nelle due versioni artemisiesche conservate a Napoli e a Firenze. Epurato dei macabri schizzi di sangue, variato nell’abbigliamento della fantesca e nell’aggiunta di una caravaggesca fonte di luce interna alla composizione, il dipinto su pietra di

paragone omette, inoltre, il ginocchio sinistro del condottiero assiro, chiaramente visibile nella Giuditta medicea (sulle numerose Giuditte di Artemisia nelle collezioni romane, fiorentine, napoletane, veneziane e parmensi si veda Appendice II). Le due lavagne appartenevano a Cesare Monti (1593-1650), arcivescovo di Milano succeduto nel 1632 a Federico Borromeo, ricco mecenate e instancabile collezionista legato ai Barberini e corrispondente di Cassiano dal Pozzo (M. Bona Castellotti in Le stanze del Cardinale Monti 1994, pp. 2938). In una missiva del 29 febbraio 1641, il colto e raffinato prelato raccomandava al cavalier dal Pozzo il suo agente e archiatra personale Branda Borri, pregando di metterlo in condizione di “vedere le case di Roma et in quel che parerà a Vostra Signoria, dato che è intelligente di pittura” (M. Bona Castellotti in Le stanze del Cardinale Monti 1994, pp. 29-30). Erroneamente attribuiti al Guercino nell’Instrumentum donationis della collezione dell’arcivescovo al capitolo del Duomo, alla città di Milano e ai conti della Valsassina, il 19 febbraio 1650 i due dipinti sono descritti come “Duoi Quadri […] sopra la pietra di paragone ovati nella parte di sopra [raffiguranti] una Iuditta, che con la mano sinistra taglia la testa ad Oloferne, con la destra tiene i capelli, un’altra figura, e un Scabello con lume sopra acceso; l’altro un David nudo con poca pelle, e panno bianco sopra una spalla, piede alzato sopra una pietra, la Testa del Gigante, Cornice d’Ebano con frontespicio, alti in mezzo onz. 6, e mezza, larghi onz. 4” (Basso in Le stanze del Cardinale Monti 1994, p. 123; F. Frangi in Le stanze del Cardinale Monti 1994, pp. 224-225; si veda Appendice II). Pregevoli ricordini del soggiorno romano dell’alto prelato, le due lavagne accentuano in chiave schiettamente caravaggesca lo stile dei prototipi gentileschiani sfruttando l’uniforme fondo scuro del supporto. Marmo tenero di origine calcarea, la lavagna consentiva pregevoli effetti di lucentezza paragonabili a quelli della pittura su rame. Benché già al centro delle sperimentazioni tecniche e stilistiche di Sebastiano dal Piombo (1485-1547), la

pittura a olio su lavagna prese piede a Roma nella seconda metà del Cinquecento in alcune celeberrime opere di Taddeo e Federico Zuccari, Girolamo Muziano e Scipione Pulzone, diffondendosi largamente all’inizio del Seicento grazie ad Alessandro Turchi, detto l’Orbetto (1578-1649) e a Pasquale Ottino (1578-1630), eredi dell’importante tradizione veronese avviata da Bernardino India, Paolo Farinati e Felice Brusasorci. Le due copie qui esposte costituiscono un’importante testimonianza del vasto successo di mercato riscosso dall’arte dei Gentileschi. Grazie alla traduzione a stampa, le invenzioni e i poemetti dedicati alle composizioni di Artemisia circolavano in tutt’Europa insieme alle numerose copie dei suoi dipinti. Un caso eclatante a tal proposito è costituito dalle antiche repliche dei “tre quadroni […] opere assai belle” di Artemisia commissionate prima del 1680 al pittore Francesco Maria Retti (1624-1686) dal duca Ranuccio Farnese II di Parma (1630-1694), proprietario della Betsabea al bagno e del Tarquinio e Lucrezia oggi al Neues Palais di Potsdam e della Giuditta di Capodimonte (si veda Appendice II, ad annos 1671-1680). Yuri Primarosa

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7. Simon Vouet

Ritratto di Artemisia Lomi Gentileschi

————— 1623-26 Olio su tela, cm 90 x 71 Collezione privata ————— Bibliografia R. Contini in I segreti di un collezionista 2001, pp. 151-153.

stupefacente ritratto della pittrice, identificato da Roberto Contini nel settembre 2001 in una collezione privata bergamasca, il dipinto è citato negli inventari della collezione dell’erudito e cognoscente d’arte Cassiano dal Pozzo (1588-1657), amico e protettore dell’artista (Sparti 1992; Bissell 1999). La più tarda e puntuale di queste liste è datata al 1740 e fu commissionata dalla pronipote di Cassiano, la marchesa Maria Laura dal Pozzo Boccapaduli (1706-1771), per far ordine in ciò che restava della prestigiosa collezione di quel ministro di Urbano VIII a seguito della dissennata dispersione avviata da suo padre, Cosimo Antonio dal Pozzo (1684-1740), terminata a fine Settecento dai suoi figlioli, Giuseppe e Luigi Boccapaduli (I segreti di un collezionista 2000; I segreti di un collezionista 2001). Rinvenute da Timothy Standring e da lui pubblicate criticamente nel catalogo della prima mostra sulle collezioni dal Pozzo (Standring 2000, pp. 205-224), le Osservazioni del perito Antonio Maria Bozzolani descrivono nei dettagli i dipinti non ancora alienati citandone le menzioni nei precedenti inventari della collezione; al numero 72 delle sue Osservazioni si legge: “Altro quadro in tela di 4 palmi in circa per alto rappresentante una mezza figura di donna, che rassembra una Pittrice con tavolozza ad uso de’ Pittore e toccalapis nelle mani […] originale di Monsu Vouvet […] con sua cornice fatta à cassa color di noce con filetti dorati […] Questo è nel Inventario di Carlo Antonio sotto del n. 71” (Standring 2000, p. 210). Inequivocabili sono dunque le identificazioni della tela e del suo autore, Simon Vouet, uno degli artisti più amati e incoraggiati da Cassiano dal Pozzo, sostenitore della sua fortuna romana. Magistrale fu il riconoscimento del Contini che scioglieva la rara iconografia cesellata sul medaglione d’oro poggiato sul seno sinistro della pittrice, in prossimità del cuore. “Mausoleion” recita l’iscrizione sul pezzo d’oro dipinto, appeso a una doppia catena non indossata dall’artista, ma esibita come una decorazione sul corpetto di seta zafferano: rebus arguto e divertito escogitato dal maestro francese per segnalare il nome

dell’amica senza implicarne l’illustre vedovanza. Il Mausoleo, terza meraviglia del mondo, fu innalzato in ricordo di Mausolo (377-352 a.C.), satrapo di Alicarnasso e sovrano della Caria, per ordine della principessa Artemisia, sua sorella e moglie. L’immagine trionfante dell’artista, presente e parlante, dall’intenso sguardo diretto, è dipinta sul caratteristico fondo bruno dall’amico pittore per il nuovo protettore romano della donna (straordinaria la coincidenza del triplice ritrovamento!). La tela ha permesso al felice scopritore di ritrovare le esatte sembianze di Artemisia e di riscontrarle con la più o meno coeva acquaforte di Jérôme David e con i frequenti autoritratti lasciatici dalla pittrice nelle sue opere: dalle più giovanili due Giuditte che decapitano Oloferne, alla Santa martire, alle Maddalene, all’altra Giuditta e la fantesca, o alla bellissima Suonatrice di liuto riemersa solo qualche anno fa e databile entro il 1617-18. Nel ritratto accademico, carico di attributi (ben sei pennelli e una tavolozza tenuti nella sinistra e nella destra levata il toccalapis), Artemisia ha trent’anni e ci accoglie da protagonista. Ha raggiunto una certa agiatezza e tranquillità, nel suo appartamento del Corso vive con la figlioletta Palmira ed è servita da una coppia di domestici, si è liberata del povero Stiattesi, mentre ha ripreso i contatti con i fratelli Giulio e Francesco, che spesso abitano da lei (si veda Appendice I). Alla produzione di grandi nudi “da camera” alterna importanti ritratti – al 1620 è documentata una Principessa Peretti, il Gonfaloniere (cat. 22) al 1622 e l’Antoine de Ville (cat. 24) al 1625-26 – e altre storie, sempre femminili, dall’Antico Testamento, come la tutta romana, baglionesca e vouettiana Giuditta di Detroit, splendida tela perfettamente coerente al seguito della Giaele e dei suoi intensi scambi con Monsù Simone francese. Altamente psicologico, il Ritratto è quello della “Signora Artemisia bella più che mai”, colta al lavoro nel suo studio. Vestita riccamente d’un abito di seta zafferano ordito d’argento, adorna di orecchini di grosse e costose perle a goccia, Artemisia si mostra sprezzante d’ogni imposizione. L’elegante corsetto è slacciato, la camicia di

finissima tela di lino è molto scollata, il suo sguardo va lontano e porta altrove, e il sorriso appena accennato mostra arguzia e ingegno, nella soddisfatta attesa del ritorno del suo uomo da Costantinopoli (Lettere di Artemisia 2011): l’uomo di cui non cinge il medaglione e la catena d’oro, finezza tutta vouettiana. Francesco Solinas

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8. Artemisia Lomi Gentileschi

Cinque lettere a Francesco Maria Maringhi

————— Penna e inchiostro su carta bianca Firenze, Archivio Storico Frescobaldi e Albizzi a. Da Firenze, senza data, ma 1618-19, mm 274 x 200 b. Da Firenze, senza data, ma 1618-19, mm 77 x 211 c. Da Roma, 1° maggio 1620, mm 285 x 205 d. Da Roma, 26 giugno 1620, mm 273 x 200 e. Da Roma, 9 luglio 1620, mm 285 x 205 ————— Bibliografia Lettere di Artemisia 2011, nn. 3, 4, 22, 31, 33.

autografe della pittrice, le cinque lettere qui presentate fanno parte del carteggio intrattenuto da lei e da suo marito Pierantonio Stiattesi con il gentiluomo fiorentino Francesco Maria di Niccolò Maringhi (Firenze 1593 - Napoli dopo il 1653), amante di Artemisia. Ricco di trentasei missive scritte da Firenze, Prato e Roma, il carteggio è univoco e non include le risposte del nobile amico all’artista e a suo marito. Relative all’ultimo periodo del soggiorno fiorentino della coppia, al loro viaggio verso Roma e ai primi sette mesi di ritorno nella capitale papale nel 1620, le lettere pervennero nell’Archivio Frescobaldi – con altre corrispondenze d’affari e atti notarili lasciati da Francesco Maria Maringhi – al senatore Lorenzo Maria Frescobaldi, figlio del senatore Matteo (1577-1652) (F. Solinas in Frescobaldi, Solinas 2004). Guida, protettore e amico di Francesco Maria, il più anziano Matteo era stato, a sua volta, molto aiutato da Niccolò Maringhi († 1603), padre del giovane nonché alto funzionario e autorevole ufficiale mediceo. Nella sua stupefacente ascesa economica, che avrebbe ristabilito le fortune dell’antica famiglia tradizionalmente opposta al principato di Cosimo I, Matteo si era avvalso dei consigli di sua madre, la ricca Caterina Strozzi, dama di corte della granduchessa Cristina di Lorena. Niccolò Maringhi aveva facilitato l’ingresso di Matteo alla corte del granduca Ferdinando I, ammissione sino ad allora frenata dal difficile rapporto tra i nuovi principi regnanti e gli antichi aristocratici Frescobaldi di fede repubblicana. Alla sua morte, nel 1603, Niccolò lasciava l’ancora minorenne Francesco Maria in affidamento a Matteo; figlio naturale, avuto da una donna di censo inferiore mai sposata dal padre, Francesco Maria fu l’ultimo erede della nobile e antica casata dei Maringhi, seguito e aiutato per tutta la vita da Matteo che spesso amministrò le sue sostanze e garantì per lui. Pervenute ai Frescobaldi con una parte delle carte Maringhi e con ciò che restava dell’ingente patrimonio immobiliare di Francesco Maria, le lettere di Artemisia sono frammiste al carteggio d’affari del gentiluomo, coinvolto sin da giovanissimo nei ricchi mercati di generi di lusso e negli

importanti negozi agricoli intrapresi con successo da Matteo Frescobaldi (Archivio Storico Frescobaldi e Albizzi, Filza Ottava. Affari Diversi. Collocazione moderna: 59). Quasi certamente, Francesco Maria aveva incontrato la coetanea Artemisia a Firenze, nella cerchia di Michelangelo Buonarroti il Giovane e del Galilei, amici e clienti di Matteo Frescobaldi (F. Solinas in Frescobaldi, Solinas 2004). La protezione esercitata sulla giovane romana dalla granduchessa madre Cristina di Lorena aveva favorito il suo arrivo a Firenze nel 1613 e promosso la prodigiosa “pittora” nelle più alte sfere dell’intellighenzia medicea, garantendole un ingaggio regolare alla corte di suo figlio Cosimo II (si veda Lettere di Artemisia 2011). Tenendo conto delle ripetute gravidanze della pittrice, la storia d’amore con Francesco Maria, passione fisica assai sensuale, potrebbe essere iniziata nel 1617, a seguito dello svezzamento di PrudenziaPalmira, battezzata il 2 agosto di quell’anno (Cropper 1993), o anche prima. Relativi a questo periodo sono cinque biglietti senza data, nei quali la pittrice mostra ancora distanza e indipendenza rispetto all’aristocratico corteggiatore. Scritti dalla casa-studio di piazza Frescobaldi, presa in affitto da Matteo tra il 1616 e il 1617, i biglietti dovevano raggiungere Maringhi a breve distanza, nel suo palazzo di borgo San Jacopo. Le iniziali resistenze di lei furono vinte dall’eleganza del giovane, dalle insistenti attenzioni, dalla sua prestanza fisica, e presto scivolarono in un’irresistibile passione amorosa. Sono emblematici di questo periodo i due biglietti (a, b) nei quali Artemisia chiama Francesco Maria “mio carissimo core”, cerca la sua compagnia “per cose d’importansia” e la sua presenza fisica: “Io vorrei che Vostra Signoria venisse qui quanto prima”. Colta autodidatta, la pittrice non era stata educata alla scrittura: come molte donne del tempo, anche di rango elevato, Artemisia era soprattutto una lettrice: nelle sue missive sgrammaticate sembra conoscere i classici latini, le Sacre Scritture, i romanzi cinquecenteschi dell’Ariosto e del Tasso, così come i versi più famosi della poesia petrarchista. Ma la ragazza pittrice, portata dal padre-padrone

come sua prima assistente sui ponteggi del Casino delle Muse, non aveva mai imparato a scrivere correttamente. Nel corso della sua carriera, Artemisia si avvalse spesso di scriba professionisti, dettando volentieri ad amici o segretari sempre diversi. Le lettere ritrovate da chi scrive sono le uniche interamente autografe della pittrice, che per solito si limitava ad apporre unicamente la propria firma (come quelle a Cassiano dal Pozzo, ad Andrea Cioli, ai due granduchi, al duca di Modena). La terza lettera (c), del 1° maggio 1620, ci porta a Roma, dove ormai Artemisia si è perfettamente reinserita: ben alloggiata in un ampio appartamento in via del Vantaggio, in prossimità della piazza del Popolo e del Corso, lavora giorno e notte per nuovi prestigiosi committenti. Ormai tutta epistolare, la sua relazione amorosa col Maringhi è a tratti estremamente contrastata da interessi economici e d’affari: il celebre quadro da terminare per il granduca, la questione delle sue “robbe”, in parte distribuite dagli ufficiali medicei ai creditori, e l’attesa della spedizione di altri arredi per lei preziosi conservati dall’amante. La pittrice ammette: “so bene che io vi ho amato tanto che io n[’h]o a rendere conto a dio”; ma aggiunge: “e vi amo sebbene ne so contracambiata al contrario”. Rispondendo disillusa ai messaggi senza dubbio affettuosi di Francesco Maria, afferma: “So benissimo tutti li fatti vostri e so quando voi andate da donne e quando andate all’ostaria, in fine so ogni cosa”, tagliando corto e costantemente mettendo alla prova il suo innamorato, dai tratti fin troppo eleganti: “e io so tribolata qui in Roma, basta che me dite che debitore volete essere voi, se tanto bene avesse voglia di fare voi, me mandareste di quando in quando qualche partita di denare e cosi acquistarei costui e conosciarei che mi volesse fare il servizio”. Ancora più apparente nelle lettere scritte dallo Stiattesi, l’immensa disparità di censo tra il gentiluomo e Artemisia riaffiora spesso nelle esplicite richieste economiche della coppia. Ma l’artista è profondamente innamorata e spera in una pronta discesa a Roma di Francesco Maria, bloccato dalla giustizia granducale per aver favorito la sua “fuga”: “Se

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voi veniste a Roma ritornaresti in sù co me [la pittrice minacciava di voler consegnare di persona al granduca il tanto atteso quadro], ma voi no ce pensate più a me, cattiva disgrazia mia e dio vi guardi”. Al 26 giugno data la quarta lettera qui esposta (d), straordinario canto d’amore sensuale, sconvolgente ed esplicita dichiarazione del desiderio, inaudita per quell’epoca: “Core, io o riceuto da Vostra Signoria una di quelle che son il mio rifrigerio che mi fanno ritornare da morte a vita, che se vi fusse noto la legreza che io sento, io credo certo che se vero che mi volliate benne voi parareste di alegreza. Vostra Signoria mi dice che no connose altra donna che la sua manno dritta da me tanto [in]vidiata che posede quel che io no posso posedere io, poi mi rigrazia che li habia offerto la mia casa, o cara vita mia mi fate torto, che sapete puro che sò vostra sin’a che

durarò avere fiato. Io no mi strugo se non di non vedervi appresso che sapete puro che vi aspetto, come s’aspetta la grazia di dio, che so risoluta de no fare quel negozio se no fo co’ voi e se non vinise, mai mai non vorrei rompere la mia castità, ma te lasso considerare a te come sto, anima mia”. Uniche nell’epistolografia del tempo per libertà di espressione e intensità della passione, le lettere di Artemisia mostrano il carattere della donna e spiegano la sua arte. Spesso firmate con lo pseudonimo di Fortunato Fortuni, che identificava anche il destinatario, le missive sono ricche di dettagli sulla produzione della “pittora”. Ancora, nella quinta lettera presentata (e), il 9 luglio, Artemisia rilancia l’invito dell’amante a Roma: “Se Vostra Signoria verrà a Roma vedrà che io sto melio assai che no stavo lì, quando che Vostra Signoria verrà a casa mia, vedrà che è una casa da vedere e da starci un

galantuomo”. Lusingata dall’affetto sincero e dall’eleganza di Francesco Maria, la pittrice apre la stessa missiva con un’invocazione: “Speranza, riceveti una letara di Vostra Signoria compita come è conforma a sua costumi che veramente no mi è novo, cara la mia vita dolce”. Ormai sicura del suo successo, avverte il compagno lontano della prestigiosa commissione ricevuta dal cognato di Cristina di Lorena, Massimiliano I Wittelsbach principe elettore e duca di Baviera (1573-1651), ammiratore della sua arte: “Io sto benne, so caminata per una bonna via ho lavori per il duca di Baviera per uno gran pezzo e sina adesso ce ho fatto dua quatri con gran soddisfazione di detto duca e si tratta che io abbia andare la co’ mille scudi di provvisione. Ma ho da lavorare più di uno anno qui in Roma e mi paga a misura di carbone.” Francesco Solinas

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9. Artemisia Gentileschi

La Vergine che allatta il Bambino

————— 1608-09 circa Olio su tela, cm 116 x 89,3 Collezione privata ————— Bibliografia “La Gazette de l’Hôtel Drouot”, n. 9, 5 marzo 2010, p. 46.

precoce , forse precocissimo documento di Artemisia pittrice, la tela, trascorsa a una recentissima vendita parigina (26 febbraio 2010; cfr. “Gazette Drouot”, 5 marzo 2010) e battezzata come “Attribuée à Artemisia Gentileschi”, è stata acquisita dall’attuale proprietario su consiglio del restauratore Olivier Nouailles, che ne ha poi curato la non troppo preoccupante riabilitazione. Chiaro esempio di cimento di artista giovane e dal gran potenziale, la pittura associa brani supremi a incertezze da addebitare a giovanile, adolescenziale inesperienza. Composizione notissima del catalogo della Gentileschi, ne erano finora note due sole accezioni – entrambe sottoposte a ingiustificate riserve in ordine all’autografia – custodite, in successione cronologica, rispettivamente alla Galleria Spada di Roma e alla Galleria Palatina di Firenze (cat. 14). Diversissime fra loro al di là dell’identica iconografia, la prima titolare nella Protagonista di pacioso, gonfio sembiante e nel Figlio di modulo raffinato d’origine ancora tardo-cinquecentesca (reminescente di Pulzone – com’ è stato spesso denunciato – ma specialmente dei fiorentini a Roma Santi di Tito e Ciampelli), la seconda pigiando piuttosto su anodina, quasi classicistica compostezza. Il nuovo dipinto – nell’idiosincrasia così accattivante di quella chioma strabordante, a mo’ di superfetazione artificiale, e nell’icasticità realistica degna di un’istantanea di vita vissuta, quale poteva essere sott’occhio alla sedici-diciassettenne artista in erba nel quotidiano confrontarsi con le manifestazioni da neogenitrice della contubernale Tuzia – potrebbe essere promosso a incunabolo del tema, limitatamente almeno alle competenze della Gentileschi figlia. Esisteva beninteso l’applicazione del padre documentata dalla tela del Muzeul National de Art al României di Bucarest, che ha rivelato tergalmente la data 1609, contestuale agli inizi quale addetta ai lavori in proprio della figlia, giusta l’asserzione divulgata da Orazio stesso nel corso degli atti processuali del 1612, dove afferma Artemisia essere stata attiva già da tre anni.

Il composto originale paterno difetta – nell’algido pregio, nell’asettico nitore – del dinamismo che l’atto del nutrire di sé una creatura difficilmente esclude. Come in Orazio il bimbo effettivamente poco più che neonato se ne sta inteccherito a suggere dal seno materno, in ogni applicazione di Artemisia il già cresciuto pargolo è protagonista di un dialogo con la madre e segnato da una spontaneità cinetica che – magari per disinteresse alla pratica, lui comunque abbondantemente propagatore della propria specie – in Orazio rimane sopita. Ma questa attitudine a genericità fisionomica, a bloccata sentimentale quanto fisica dei propri attori, pur nella sovrana, inimitabile, perizia, è altamente tipica del Gentileschi e mai sarebbe passata per testa di critico – anche prima della conferma d’autografia rivelata dalle cure rivolte al dipinto nei postumi della rivolta rumena – di obiettarne la paternità di Artemisia. Inedita è l’aggraziata mascheratura del busto della Vergine, garantita, e un poco dismessa unicamente per ragioni funzionali, dall’ampio velo violetto, mentre su toni piuttosto malva che rosso carminio (esemplari di Roma e Firenze) ne è virato l’abito. Personalità da vendere mostra pure il Bimbo, affine al suo Omologo palatino, ma privato delle croccanti ciliegie impugnate da quest’ultimo. Pur di specie affatto diversa da quella, d’intenzioni quasi ritrattistiche, del Fanciullo della Spada, questo Gesù ben si distingue dal più convenzionale compagno fiorentino per un’affilatura di sguardo e definizione vivamente personalizzata nel profilo paffuto, con rotondità di guancia e raddoppiamento di mento certamente registrati in presa diretta, a sorvolare sulla tipica attitudine di ogni infante a tormentarsi le estremità superiori. Al di là della fiction rappresentativa (per attenermi all’espressione di Alexandra Lapierre), tale da forzare l’immaginazione fino al punto di pretendere equivalenza con la nota allusione di Artemisia al dipinto che aveva realizzato a casa, approfittando di modelli gratuiti quali la compagna di appartamento Tuzia e il suo infante, non si sarà lontani dal vero a prevedere un diritto di

precedenza assoluto, piuttosto che solamente relativo, all’interno delle tre versioni del soggetto note, nel catalogo della Gentileschi, certamente figlio degli anni precedenti il trasferimento a Firenze con neoconsorte allo scadere del 1612. Dovesse essere stato momento di faceta sfida tra Orazio e Artemisia, dal confronto nessuno dei due uscì sconfitto. Roberto Contini

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10. Artemisia Gentileschi

Giuditta decapita Oloferne

————— 1612 circa Olio su tela, cm 159 x 126 Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, inv. Q378 ————— Bibliografia Longhi 1916 ed. 1961, pp. 258-259; De Rinaldis 1929, p. 111; Molajoli 1955, p. 51; Bissell 1968, p. 158; Borea 1970, p. 77; C. Whitfield in Painting in Naples 1982, p. 168; Gregori 1984, p. 150; Garrard 1989, pp. 32-34, 305-313, 494-495 n. 35; L. Berti in Artemisia 1991, pp. 22, 29 n. 18; G. Papi in Artemisia 1991, pp. 116-120; Bissell 1999, pp. 191-198; Pollock 1999, pp. 115-124, 126-127; B.L. Brown in The Genius of Rome 2001, pp. 292, 296-297, n. 110; E. Cropper in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 263-264; P. Cavazzini in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 290; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 308-311; L. Berti in Berti et al. 2002, pp. 12, 25; Loughery 2002, p. 295; G. Magherini in Berti et al. 2002, pp. 40-42, 63-64; M. Toraldo di Francia in Berti et al. 2002, pp. 83-85, 111-114; R. Barthes in Menzio 2004, pp. 149-150; R.W. Bissell in Artemisia Gentileschi 2005, pp. 26-28 (come Orazio); M. Bal in Bal 2005, pp. 134-138; E. Ciletti in Bal 2005, pp. 66-78; G. Pollock in Bal 2005, pp. 203-204; S. Biancani in Italian Women Artists 2007, pp. 206-207; Mann 2010, p. 410.

nelle immagini del tardo Medioevo e nel Rinascimento, Giuditta, che escogitò un piano per uccidere il generale assiro Oloferne, era ritratta come un’eroina vittoriosa; incarnava virtù nobili come la castità e il coraggio, ed era associata alla Vergine Maria. Alcuni artisti cinquecenteschi esaltarono la bellezza della giovane vedova che sedusse Oloferne con le sue grazie e con l’inganno lo attirò alla morte. Artemisia, appena diciannovenne, riuscì a creare una delle più credibili e insieme potenti rappresentazioni dell’eroina biblica, fondendo un approccio pragmatico – in che modo due donne potevano sopraffare un uomo – e un insieme compositivo veramente esplosivo, che trasmetteva l’idea del potere femminile, preannunciando la dirompente drammaticità dell’alto barocco. Giuditta era una bella vedova di Betulia. Quando l’esercito assiro strinse d’assedio la sua città, la donna si introdusse nel campo nemico accompagnata da un’ancella. Il generale Oloferne, affascinato dalla sua bellezza, la invitò a cenare con lui; in un primo momento essa declinò l’invito, ma quando finalmente si sedette a banchetto con Oloferne, questi si ubriacò e cadde addormentato. Giuditta allora gli prese la spada e gli tagliò la testa, poi fuggì dall’accampamento insieme alla sua ancella. Gli altri artisti che si erano già occupati di questo soggetto avevano per lo più preferito raffigurare la solidarietà delle due donne durante la loro drammatica fuga, ma Artemisia, come Caravaggio prima di lei, scelse di rappresentare il momento più violento e difficile, quello della decapitazione; e infatti molti autori (Garrard, Papi, Bissell, Biancani) hanno collegato il dipinto ai primi contatti della pittrice con l’arte di Caravaggio. Tuttavia, sapendo quanto poco Artemisia abbia potuto esplorare Roma, all’epoca, non possiamo avere la certezza che essa conoscesse il dipinto di Caravaggio. La composizione può benissimo essere di suo disegno, creata atteggiando gli attori nelle posizioni desiderate, dando alla scena il senso di un evento osservato e cogliendo, così, tutto l’orrore e il coraggio dell’azione. Il groviglio di pallide membra, illuminate da una luce

proveniente da sinistra, in primo piano, suscita coinvolgimento drammatico e contribuisce a fissare l’impressione di lotta e disordine suggerita dalle lenzuola disfatte. L’inquadratura serrata accresce la forza dell’immagine. L’opera, spesso inclusa nei manuali di storia dell’arte, è diventata un’immagine famosa che ha profondamente influenzato la lettura dell’arte di Artemisia e dato origine a una grande varietà di interpretazioni da parte degli studiosi, che non possono essere riportate tutte in questa sede. Alla luce della biografia della pittrice, alcuni autori non hanno resistito alla tentazione di associare il dipinto con le sue personali esperienze sessuali. Bissell (1968) ha osservato che è difficile non vedere in Oloferne un sostituto di Agostino Tassi. La Garrard (1989), nel rilevare l’importanza che tale soggetto sembra aver avuto per Artemisia, ammette, esaminando la tela napoletana: “È impossibile ignorare gli echi dell’esperienza personale in questa Giuditta […]; in verità, l’iconografia stessa di questa sanguinosa scena d’alcova rievoca il resoconto di Artemisia di come il Tassi la assalì nella sua camera da letto”. Whitfield ha commentato, in generale, che le vicende della vita di Artemisia la inducevano a scegliersi come soggetti donne “le cui vite erano minacciate dagli uomini”. La Daprà osserva che il gusto dell’artista per le decapitazioni dev’essere rapportato alla sua vita. Più recentemente, Levinson ha scritto che “la scelta dei temi per il dipinto napoletano, nonché l’estrema violenza della rappresentazione, sono state collegate, non senza ragione, al trauma di quegli eventi”. Anderson ha osservato che i dipinti della storia di Giuditta rispecchiano il trauma dello stupro subito da Artemisia. Studi psicanalitici hanno proposto diverse associazioni per una simile violenza, tra cui riferimenti al parto e alla castrazione. (Si vedano Pointon 1981, che sostiene che il dipinto può essere interpretato come una scena di parto; e Slap 1985, che, sulla base di discutibili somiglianze formali negli oggetti raffigurati, ha ipotizzato una possibile allusione a genitali maschili.) La Pollock, nella sua analisi, ammette che è difficile valutare la reazione a un trauma, ma sostiene

che il dipinto può essere esaminato come un’affermazione di responsabilità (Pollock 1999, pp. 118-122). Il dipinto è meno equilibrato e ponderato della versione agli Uffizi, e per lungo tempo si è pensato che fosse più tardo; per di più, la sua provenienza napoletana lo associava con quel periodo della carriera di Artemisia, per cui alcuni studiosi lo avevano datato agli anni Trenta. (Tra gli autori che sostengono una data più tarda vi sono Longhi, Borea, Whitfield e Pérez Sánchez; tra i sostenitori della datazione più precoce, citiamo Papi, Stolzenwald, Bionda, Bissell, Margherini, Toraldo di Francia, Christiansen e Biancani.) Comunque, nel 1989 la Garrard pubblicò una radiografia che rivelava numerosi pentimenti, provando che questa è la prima Giuditta di Artemisia. Christiansen (2002) ha contribuito ulteriormente a farci comprendere il ruolo del dipinto nell’ambito dell’opera di Artemisia, dimostrando, sempre per mezzo dei raggi X, che esso rappresenta il primo vero momento di distacco di Artemisia dalla tecnica paterna, e che quindi dev’essere considerato un’importante affermazione di indipendenza. La finezza del modellato degli incarnati nonché il trattamento un po’ goffo dello spazio e dell’anatomia suffragano una data precoce, che ora è comunemente accettata. Il dipinto ha sofferto per l’abrasione e le puliture corrosive. Le zone d’ombra sono ammalorate, e la spada è ormai traslucida. La tela è stata ridotta su un lato; forse un tempo era più simile alla versione degli Uffizi, più simmetrica, ma su questo gli studiosi non sono concordi. Bissell 1999 riassume tutti i punti relativi al tentativo di ricostruire il dipinto. La Garrard è a favore di una composizione più bilanciata, mentre Papi 1991 ipotizza che Artemisia avesse inteso i due quadri come composizioni diverse, con diverse sensibilità. Judith W. Mann (Traduzione Arianna Ghilardotti)

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11. Artemisia Gentileschi

Maddalena

————— 1617-18 Olio su tela, cm 146,5 x 108 Iscrizioni: firmato “artimisia lomi” sulla spalliera della sedia Firenze, Galleria Palatina, inv. 1912 n. 142 ————— Bibliografia Longhi 1916 ed. 1961, p. 258; Voss 1924, p. 463; Moir 1967, I, p. 101; Bissell 1968, p. 156; Borea 1970, pp. 74-75, n. 47; A. Sutherland Harris in Women Artists 1977, n. 12; C. Whitfield in Painting in Naples 1982, n. 58; M. Mosco in La Maddalena 1986, pp . 159-160; R. Contini in Artemisia 1991, n. 12; Spike 1991a; Bissell 1999, pp. 209-211; Papi 2000; Contini 2001a, pp. 315, 318; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 325-328, n. 58; Christiansen 2004, pp. 103, 117-118; Mann 2009.

principesca la seggiolina da camera, tappezzata di velluto di seta rossa, gallonata e infrangettata, borchiata dalle palle medicee e firmata dall’artista con cesellato ghirigoro lomiano. Pregiato lo specchio d’ebano istoriato col motto latino Optimam partem elegit (quae non auferetur ab ea in Aeternum), esortazione del Cristo nel Vangelo di Luca (10, 42), nella vanitas poggiata sulla toletta. Ricchissimo il raso pesante di seta gialla, che avviluppa questo famoso autoritratto della pittrice nelle vesti della santa cortigiana – di lusso – pentita, ravveduta e convertita. Saggio di bravura di Artemisia per il suo “principe naturale” Cosimo II, caratterizzato dalle due didascaliche iscrizioni dipinte in punti strategici della tela: la firma su una delle frequenti cuciture (J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 325-328) spesso lasciate apparenti nelle opere della “pittora”, e l’esortazione cristologica sulla cornice in ombra dello specchio. Non specificatamente citata negli inventari antichi delle collezioni medicee, la Maddalena rientra comunque, a nostro avviso, nelle opere realizzate da Artemisia per la committenza principesca. Giallo, colore distintivo delle cortigiane, è l’abito che avvolge il corpo sensuale della bella peccatrice, prostrata in un’espressione di sincera, emozionata apprensione e attesa. La reazione è, anche qui, dinamica, coinvolta nella torsione del busto e della testa, nello scomodo incrocio delle gambe troppo lunghe, nel piede nudo sollevato e nei gesti eloquenti della mano destra sul petto, mentre la sinistra scarta lo specchio e il suo riflesso – ancora prezioso – del volto e della perla. Sterminata la bibliografia su questo non ancora abbastanza considerato capolavoro della giovane pittrice, punto fermo della sua arte negli anni del soggiorno fiorentino. Posteriore, a nostro avviso, all’Allegoria dipinta per Michelangelo Buonarroti il Giovane tra il 1615 e il 1616, la tela, di circa due braccia per due, ci sembra collocabile agli anni tra il 1617 e il 1618. Come ipotizzato da Bissell (Bissell 1999, pp. 209211), l’opera le fu molto probabilmente commissionata dallo stesso granduca per

la moglie Maria Maddalena d’Austria, particolarmente devota alla santa del suo nome. In uno dei più recenti ed estensivi contributi sul dipinto, Judith W. Mann (in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 325-328) sottolinea la rilevanza del tema della rinuncia ai beni terreni nell’arte della Riforma cattolica, argomentando la centralità della figura e della leggendaria vicenda della Maddalena. Contini, per parte sua, osservava la dipendenza stilistica, e a tratti anche tecnica, dai modelli di Jacopo Ligozzi (1547-1627), pittore e miniatore granducale dal “lenticolare naturalismo”. Con Santi di Tito (1536-1603), l’oriundo veronese Ligozzi fu tra i massimi esponenti dell’arte della Riforma cattolica in Toscana (Conigliello 1992; Conigliello 2005 e relativa bibliografia). Alle chiare influenze del minuziosissimo Ligozzi, esperto illustratore scientifico, possiamo aggiungere i riferimenti alla pittura riformata e preziosa dello zio Aurelio Lomi (1556-1622), esponente di rilievo dell’arte toscana del tempo. Come la Madonna del latte (cat. 14), tela con riferimenti lampanti a Cigoli, Titi e Allori, anche la bella Maddalena rientra nelle geniali prove fiorentine della “pittora”, abituata sin da giovinetta a imitare e contraffare la maniera dal padre, e ora in cerca di una sua cifra originale, alta, retoricamente eloquente, per soddisfare il curioso Cosimo II. Saggi di stile classico e gusto naturalistico, al tempo stesso, sintesi tra l’internazionale Babele artistica della Roma borghesiana nella quale era cresciuta e il rigoroso lessico toscano delle arti del disegno, la Maddalena e l’allattante Madonna mostrano due diversi approcci al luminismo caravaggesco, prerogativa e vantaggio dell’Artemisia a Firenze. Riservato alla Maddalena è l’interno del palazzo, il lusso macabro della vanitas, col teschio (ligozziano e lomiano al tempo stesso) che fa capolino dietro allo specchio, in una dissolvenza più dolce e misteriosa, dove la figura appare ben illuminata dall’alto, come la più tarda e drammatica

Lucrezia di collezione privata milanese: esercizi di stile, variazioni di maniera che quasi inconsapevolmente portavano la camaleontica ragazza romana a rinnovare profondamente la pittura della corte granducale. Francesco Solinas

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12. Artemisia Gentileschi

Maddalena (composizione mutilata)

————— 1615-18 circa Olio su tela, cm 146,5 x 110 Collezione privata ————— Bibliografia Inedito.

una delle due altre varianti finora riemerse – la seconda delle quali riaffiorata solamente nel 2002 – del celebrato capolavoro di Artemisia della Galleria Palatina (cat. 11), la tela, di misure conformi a tale preziosa versione fiorentina, ha sofferto della brutale asportazione nel 1945, per fini palesemente mercantili, dell’area superiore al centro della composizione, avente per epicentro il volto della santa, tramutato in potente ritratto autonomo. Le ricerche volte alla sua identificazione tramite il sussidio dei serbatoi informativi inerenti le opere d’arte disperse nell’ultima guerra – postulata la invero difficile sopravvivenza dell’oggetto nelle maglie a grana necessariamente rada della documentazione – non hanno dato esito. Giunto in dono all’odierno proprietario, in funesto stato di conservazione, una quarantina d’anni fa, il dipinto è stato riabilitato nel corso di un biennale intervento di restauro da Dorothee BeckmannBuczynski, con conseguente scelta di una zona neutra a compensazione dell’amara perdita. Sulla provenienza del dipinto è noto solamente che esso fece parte della collezione di Alfred Berliner (Berlino 1861-1943), industriale ebreo membro della presidenza della Siemens-Halske AG fino al 1937, domiciliato nella Rheinbabenallee, restando presso gli eredi fino agli anni Settanta del secolo passato. La sostanza meno virtuosistica delle gialle, grevi stoffe dà la mano piuttosto a quelle indossate dall’angelo nell’Annunciazione del 1630, capostipite del corso partenopeo di Artemisia, ciò che è vero non univocamente nei termini cromatici. Col pensiero, sorridente, alle risentite dichiarazioni della pittrice (Appendice I, sub anno 1649, 13 novembre) riguardo la sua integrale, filosofica istanza di originalità rappresentativa, mette conto analizzare le non poche differenze tra le due pitture, chiamate simultaneamente a teste in un vulnus all’evoluzione nel tempo, suggerita dal percorso espositivo. Diversa e più blanda ne è l’illuminazione, per effetto della quale al dipinto consegue facies chiarista, per se stessa remota dal quadro Pitti. La manica della camicia sboccia intorno al mutilato braccio destro in candido

dilagare, non dissimilmente dal menzionato angelo di Napoli, così che, leggendola con quel che resta dell’altro braccio, si inferisce la mancata – o ben diversa – sovrapposizione dell’abito sulla camicia. Meno preziosa si direbbe poi la resa della bassa seggiola, in ispecie nel velluto che ne ricopre il dorso, e meno svolta ci si affida la descrizione del tavolo inguainato nel suo verde velluto e il riflettente specchio. Fondamentale, pur nel piccolo cabotaggio, è infine l’alterata morfologia della mano sinistra di Maddalena, che nel quadro palatino mostra una flessione dell’indice non contemplata in questo inedito esemplare, dove il polso della mano viene in luce, scivolando dall’ampia fisarmonica dell’orlo della manica. Seppure non ci sia consentito di allontanarci dal settennato trascorso dalla Gentileschi a Firenze (1613-20), è autorizzabile l’interrogativo, piuttosto che sul tempo preciso di esecuzione delle due redazioni della Maddalena convertita, sulla loro precedenza interna. Non disponiamo del sussidio d’indagini tecniche per alcuna delle due pitture, così da eventualmente apprezzare resipiscenze compositive che inducano a pronunciarsi per una priorità archetipica. Non può tacersi tuttavia il sospetto che, a fronte del maggiore sfarzo sfoggiato nell’esemplare mediceo, quello qui presentato possa documentare uno stadio precedente. Vero è che il livello non sperequato di competenza realizzativa potrebbe anche essere appropriato in riferimento a una commissione susseguente al successo del prototipo, inoltrata da percipiente di inferiori lignaggio e aspettative. A completamento dello stemma genealogico di questa insigne raffigurazione, un terzo esemplare, apparentemente di assai inferiore grazia, è comparso quale “Circle of Artemisia Gentileschi” a una vendita londinese di Sotheby (11 luglio 2002, lotto 180), contenente però svariati, accattivanti nuovi elementi di giudizio. La santa è agghindata di inedite vesti arancio-ruggine, apparentemente esperite con minor perizia, ma la sua apparenza generale deferisce al dipinto berlinese, offrendo forse una visualizzazione dell’aspetto da attribuire alle

parti mancanti di quest’ultimo, inclusa forse (in quanto mancante nell’opera qui presentata) la minore apertura del compasso tra il pollice e le altre dita della debole mano destra. Sorprendente è il viraggio, tanto per stile quanto per definizione, del volto di Maddalena, sorda, introversa espressione girata di scatto verso un esterno non tenuto in conto, lunghissime fulve trecce equine filanti su petto e spalla sinistra. In questi termini, lunghe circonflesse sopracciglia, l’immagine tiene fino a un certo segno lo specifico morfologico della Gentileschi, afferendo pianamente ai modi di un grande caravaggesco della prim’ora, convocato dai Medici a Firenze sul finire della cittadinanza gigliata della collega: il napoletano Battistello. La coincidenza esteriore col Caracciolo, clamorosa nel presceglierne la tela di analogo tema e formato (cm 158 x 97) già appartenuta alla collezione Busiri Vici, ma ben viva anche nel più edulcorato sembiante della Vergine nel Riposo nella fuga in Egitto della Cappella delle Reliquie a Palazzo Pitti, suggella la necessità di tastare il polso a reciproche interferenze e pone un fondato interrogativo sulla possibile nascita delle Maddalene fiorentine di Artemisia in prossimità di quel 1618 che vide la coesistenza – curiosamente, giusto in riva all’Arno – di due mattatori del naturalismo tra Roma e Napoli. Roberto Contini

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13. Artemisia Gentileschi

Giuditta e la fantesca Abra con la testa di Oloferne

————— 1617-18 Olio su tela, cm 114 x 93,5 Firenze, Galleria Palatina, inv. 1912 n. 398 ————— Bibliografia Longhi 1916 ed. 1961, p. 258; Voss 1924, p. 463; Gregori 1962, pp. 38-39; Moir 1967, I, pp. 101, 122; Bissell 1968, p. 155; Borea 1970, pp. 75-76, n. 48, C. Whitfield in Painting in Naples 1982, p. 168; Garrard 1989, pp. 8-9, 39-41, 200, 313-314, 318, 497 n. 55; R. Contini in Artemisia 1991, pp. 120-124; Papi 1991, p. 46; Stolzenwald 1991, pp. 22-24, 36, 86; Bionda 1992, pp. 327, 333 n. 50; Bissell 1999, pp. 198-203; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 330-333 n. 60; Christiansen 2004; Ciletti 2005, pp. 86-97; Bissell 2009b, pp. 177-178.

questo celeberrimo dipinto, più volte copiato, è precisamente identificato nei registri della Guardaroba medicea sin dal 1636: “83. Un quadro su tela entrovi Judith con la sua compagna con la testa di Oloferne in una paniera di mano della Artemisia con sua cornice di noce alto braccio 2½ largo 1 e 2/3” (ASF, Guardaroba Medicea 525, c. 45; R. Contini in Artemisia 1991): senza esitazione gli attentissimi intendenti granducali ne riconoscevano l’iconografia e l’autografia “della Artemisia”. La cronologia del dipinto è stata variamente dibattuta: Bissell la colloca presto, quando la prodigiosa ragazza è ancora a Roma, attorno al 1612, anno della pubblica denuncia contro il Tassi e del processo per violenza carnale. Lo studioso americano identifica la tela con la famosa Giuditta di “capace grandezza” rubata da casa Gentileschi nello stesso 1612 dal furiere papale Cosimo Quorli e da Tuzia, amica del Tassi e inquilina dei Gentileschi dal 1610 (Bissell 1999; si veda Appendice I). Mary Garrard propende di collocare la tela ai primi anni del periodo fiorentino dell’artista, attorno al 1613-14 (Garrard 1989), mentre Roberto Contini e Judith Mann propendono per il 1616-17 l’uno, per il 1618-19 l’altra (R. Contini in Artemisia 1991; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001). La precisa menzione della Guardaroba è avvalorata dall’episodio di altri dipinti inviati in dono dalla “pittora” al giovane granduca Ferdinando II nel 1635, omaggio mai riconosciuto dal sovrano all’artista che vivacemente se ne lamentava con l’amico Galileo (Lettere di Artemisia 2011, 44). L’arte e il peculiare carattere della pittrice, nel 1635 al massimo della sua fama internazionale, erano dunque ben noti al personale altamente qualificato che proprio l’anno dopo recensiva i beni artistici del nuovo granduca, recentemente arricchiti dall’arrivo dei favolosi dipinti, arredi e oggetti della principessa Vittoria della Rovere, sua moglie e cugina prima, nonché ultima erede del Ducato di Urbino (Barocchi, Gaeta Bertelà 2005). Sfiorando i margini del fittissimo dibattito attributivo del dipinto, iniziato nel 1916 con il riconoscimento dell’autografia di Artemisia da parte di Roberto Longhi

(Longhi 1916 ed. 1961), condivido la datazione della Mann al 1618 sia per la desueta e “psicologica” concezione della scena, in quella stupefacente sospensione notturna della fuga dalla casa del nemico, sia per il tratto maturo e per l’accuratezza del disegno. La tela, evidentemente rifilata in alto, in basso e a sinistra, appare certamente posteriore alle almeno tre versioni autografe della Santa Maria Maddalena (cat. 11, 12), e della Madonna col Bambino (cat. 14), più calligrafiche e meno levigate. La rivisitazione pacata, a posteriori, della sua fortunata cifra caravaggesca, che nel 1613-14 l’aveva acclamata a Firenze come prodigiosa ambasciatrice dell’arte romana, l’insistenza sulle stoffe, sui loro drappeggi, consistenze e colori, nel virtuosistico studio di panneggi del costume della fantesca Abra, che ci riporta ai tanti tracciati, tra Cinque e Seicento, dai campioni della fiorentina Accademia del Disegno (dal Cigoli al Rosselli all’amico Cristofano Allori), fanno della Judith un frutto squisito degli ultimi tempi della “pittora” nella raffinatissima capitale granducale, prima della sua fuga per Roma nel 1620. Attenta al costume e alle apparenze, lei stessa donna elegante malgrado le sue spesso dissestate finanze, Artemisia connotava con precisione, attraverso i tessuti e i gioielli, le differenze sociali tra la nobile Judith e la fantesca Abra, in quell’attimo d’ansia e di esitazione in cui le due donne si apprestano a lasciare la tenda del generale nemico appena ammazzato. Ucciso con inganno sottile, per la vendetta e la libertà di un popolo, Oloferne, l’odiato oppressore babilonese della città israelita di Betulia, aveva ceduto alla sottile seduzione di Giuditta, “bella, giovane e di indiscussa virtù”. Bionda e dal bianchissimo incarnato, la ricca vedova di Manasse è vestita d’un sontuoso abito contemporaneo, l’acconciatura ingioiellata da un fermaglio antico, preziosa gemma intagliata, o cammeo, montato in oro e perla pendente. Di perle a goccia gli orecchini, e ancora perle ricamate sul lussuoso gallone intessuto d’oro; definiti con estrema cura sono il cesellato mascherone dell’elsa della spada da parata e i costosi merletti che orlano la camicia. Nella desueta composizione, il viso

negato della fantesca lascia il campo al vistoso studio di panneggi e all’incombente profilo dell’eroina, quasi sproporzionato nell’economia della scena, mutilata e ridotta da pesanti rifilature. Ben caratterizzate nelle loro differenze di censo, le due figure sono rivolte verso destra: la padrona, più alta, brandisce la spada pesante, mentre l’ancella nasconde, con gesto teatrale, la grossa “paniera” riempita della testa di Oloferne. Il caravaggesco taglio di luce, richiamo filtrato alle precedenti e più virulente Giuditte, sigla di sensazionale teatralità che aveva suggellato il successo fiorentino dell’Artemisia, coglie le due donne a sinistra e illumina la prosperosa ma casta scollatura di Judith, evidenziata dal bianco manicone e dal turbante avorio di Abra. Il miracoloso triangolo della composizione, il dinamico movimento mentale di questo notturno, ci riportano inevitabilmente alle contemporanee produzioni del teatro musicale mediceo, e risale solo a qualche anno dopo la prima rappresentazione in musica della Giuditta (1621) composta, su libretto di Ottavio Rinuccini, da Marco da Gagliano (15821643), eccelso musicista e maestro di cappella dei granduchi. “Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri, e uscirono tutt’e due, secondo il loro uso, per la preghiera; attraversarono il campo, fecero un giro nella valle, poi salirono sul monte verso Betulia e giunsero alle porte della città” (Libro di Giuditta 13, 4-10). Francesco Solinas

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14. Artemisia Gentileschi

La Vergine che allatta il Bambino

————— 1616-18 Olio su tela, cm 118 x 86 Firenze, Galleria Palatina, inv. 1890 n. 2129 ————— Bibliografia Jahn-Rusconi 1937; Zeri 1954, p. 88; Emiliani 1958, pp. 19, 66; Bissell 1968, pp. 154-155; Ciaranfi 1964, p. 155; Borea 1970, n. 46; Sricchia Santoro 1974, p. 44; Menzio 1981, pp. 40, 48, 64; Gregori 1984, p. 147; A. Emiliani in Giovan Francesco Guerrieri 1988, p. 68; Garrard 1989, pp. 23-25; Stolzenwald 1991, p. 18; R. Contini in Artemisia 1991, p. 13; G. Papi in Giovan Francesco Guerrieri 1997, p. 56; Bissell 1999, pp. 184-187; Papi 2000, p. 450; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 302; M. Chiarini in La Galleria Palatina 2003, p. 195; Christiansen 2004, pp. 113-114.

tracciata dal Bissell (1999, pp. 184-187), la complessa storia critica di questa Madonna del latte è anticipata nell’approfondita analisi del Contini (in Artemisia 1991, pp. 135-138), che per primo rivendicava la tela di Palazzo Pitti e il suo precedente della Galleria Spada quali opere giovanili di Artemisia eseguite nei primi tempi del suo soggiorno fiorentino, in una fase già distaccata dalla diretta influenza del padre. Per altri, anche recentemente, la Madonna è inequivocabilmente d’altra mano, e vicina allo stile del marchigiano Giovan Francesco Guerrieri (1589-1657) (Zeri 1954; Emiliani 1958; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001). Il restauro del 1970 l’ha liberata da pesanti ridipinture e restauri debordanti, permettendo a Evelina Borea di riaffermarne la tradizionale assegnazione ad Artemisia (Borea 1970, pp. 119-120 ss.), già formulata con sicurezza nei primi cataloghi moderni della Galleria Palatina (Jahn-Rusconi 1937, p. 140). Da allora, non sempre con convinzione, il quadro è stato accolto come opera giovanile della “pittora” a Firenze. La tela è in stretta consonanza con la più precoce Madonna del latte della Galleria Spada e con l’ancora precedente tela, d’identico soggetto, di collezione svizzera (1608-09), recentemente riemersa sul mercato parigino (cat. 9). Difficile stabilire i primi passi di Artemisia nell’arte del padre, da lui stesso descritti come stupefacenti nella supplica alla granduchessa Cristina di Lorena del 1612 (Lettere di Artemisia 2011), ma se la Susanna e i vecchioni di Pommersfelden resta il primo punto fermo datato 1610, e se l’Allegoria dell’Inclinazione di Casa Buonarroti (1615-16) e la firmata Maddalena della stessa Palatina (cat. 11) rappresentano altre tappe sicure dell’esordiente, immaginiamo, con Roberto Contini, un intenso apprendistato romano della giovane accanto al padre, nella casa-studio di via della Croce, e sui ponteggi del Casino delle Muse del cardinal Borghese. Per una moltitudine di caratteristici dettagli – le mani della Madonna, i suoi piedi, i drappeggi, l’anatomia e l’espressione del putto, ispiratole dai Gesù Bambini ormai classici di Santi di Tito (15361603) –, il quadro in esame rientra a pieno titolo nelle plausibili esperienze autonome

della donna, a seguito del suo trasferimento forzato nella capitale toscana. Quadro di due braccia, come molti lasciati nel suo studio prima della fuga per Roma, sofisticata rivisitazione del modello Spada e dell’ancora precedente tela oggi in Svizzera, la Madonna della Palatina mostra l’esperienza acquisita da Artemisia nella capitale granducale, e la ricerca di una cifra per una pittura nuova, che alla sua esperienza romana e caravaggesca univa la nobilissima tradizione del disegno fiorentino. Confrontata ai più illustri artisti dell’Accademia e rigidamente controllata dagli esperti intendenti della corte medicea, Artemisia, ancora ragazza, stipendiata dal granduca, inventava una lingua nuova, di transizione, tra la pittura riformata e quella barocca. Dalla stesura più liscia e levigata – le curve soffici dei drappi di lana sono accompagnate con la grazia quasi di un Barocci –, ci appare ineccepibile lo studio del panneggio, al quale senza dubbio poté esercitarsi con stoffe fornitele dai ricchi mercanti suoi amici. Più slanciata ed elegante dei suoi precedenti, la Madonna Palatina riecheggia lontani modelli michelangioleschi (Bissell 1999, pp. 184-187) e classici. Il gruppo – dalla posa studiatissima, e rivista rispetto al prototipo – cita apertamente le eccellenze artistiche della corte di Toscana, da Santi di Tito (1536-1603) a Ludovico Cigoli (1559-1613) all’amico Cristofano Allori (1577-1621). Il gruppo ci appare stagliato in piena luce, quasi ritagliato e posato sul naturalistico fondo scuro, paesaggio appena accennato quasi fosse stato aggiunto al finire, su una tela ancora da completare. La provenienza granducale di questo saggio accademico sul tema caravaggesco del notturno è giustificata dai molteplici accenni presenti nelle nuove lettere, come nei documenti già conosciuti, e dal fatto che Artemisia fosse tra gli artisti tenuti a contratto da Cosimo II (Lettere di Artemisia 2011): forse destinata alla granduchessa Maria Maddalena d’Austria nell’occasione della nascita di uno dei suoi otto figli, di cui l’ultimo, il principe Leopoldo, vide la luce il 6 novembre 1617. Francesco Solinas

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15. Artemisia Gentileschi

Autoritratto come suonatrice di liuto

————— 1617-18 circa Olio su tela, cm 65,5 x 50,2 Minneapolis, Curtis Galleries, inv. 1998.07.09 1 ————— Bibliografia Garrard 1989, pp. 204, 393; Papi 1991, p. 34; Papi 2000, p. 452; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 322-325; Mann 2005; Mann 2010, p. 411.

apparsa sul mercato internazionale nel 1998, la Suonatrice di liuto fu dipinta a Firenze attorno al 1617-18 ed è il quarto autoritratto della pittrice, più o meno idealizzato, dopo la precoce Santa martire, l’Inclinazione di Casa Buonarroti e la Maddalena Palatina (cat. 11), e prima di quello eseguito a Roma, non ancora ritrovato, preso a modello dall’incisore Jérôme David per la traduzione all’acquaforte (Artem. pinxit). Come molti suoi colleghi, sin da giovanissima, l’artista suonava il liuto ed è più volte stato ipotizzato di riconoscerla nel bellissimo Ritratto di fanciulla che suona il liuto (1608-10 circa) dipinto dal padre e oggi conservato alla National Gallery di Washington. Amica di Bellerofonte Castoldi, illustre compositore per liuto e tiorba, conosceva bene la musica. Prossima alla bionda Maddalena della Palatina, per fisionomia ed età, la Liutista di Minneapolis è l’immagine più prossima allo splendido ritratto di Simon Vouet, dipinto tra il 1623 e il 1626 a Roma (cat. 7). Raffigurata nel fulgore dei suoi trent’anni, il quadro dell’amico francese ritrae Artemisia con estrema precisione e attinenza al vero, come imponeva la commissione da parte del loro comune protettore, il cavalier Cassiano dal Pozzo. Nell’immagine di Vouet, Artemisia appare più matura e meno avvenente rispetto all’idealizzata – ed effettivamente più giovane – Liutista, ma nelle due tele si ritrovano i capelli ricci, di color castano chiaro tendente al rosso, e l’altissima fronte, l’incarnato chiaro e il naso dritto dalla punta larga leggermente all’insù, le labbra piccole, prospicienti e ben disegnate, le grandi mani e il collo forte. Nel trattare la produzione artistica del soggiorno fiorentino, dal 1613 al 1620, ci si dimentica troppo spesso dell’enorme sforzo vissuto da Artemisia nelle sue ben quattro gravidanze in quegli anni; nonostante l’assistenza del marito, di qualche donna, amico, collega o garzone, dovette essere molto difficile per lei dipingere e soprattutto sostenere il ritmo creativo degli altri artisti stipendiati dal granduca Cosimo II. Nonostante ciò, com’è evidente dalla lista dei suoi beni rimasti sigillati nella casa e studio di piazza Frescobaldi (Lettere di Artemisia

2011), la pittrice riusciva a produrre molto. Ma come la sua arte, in quegli anni fondamentali della sua vita, cambiava anche la sua apparenza fisica. In una lettera da Roma, il 25 marzo 1620, Artemisia scriveva all’amico Francesco Maria Maringhi informandolo di quanto fosse riuscita a ristabilirsi fisicamente dopo l’ultimo periodo difficile passato a Firenze: “Io [ho] caro di vedervi, ma credo che Vostra Signioria avarà cara di avermi visto, che quando mi vedrà de altra maniera che quando io mi partì di costì, so’ appunto per dua volte finalmente, non mi conos[ci]arete, io sarò mutata di corpo e Vostra Signoria di animo e così averemo fatto le Metamorfise di Ovidio” (Lettere di Artemisia 2011, 16). Con la sua caratteristica sagacia e con la citazione colta delle Metamorfosi di Ovidio, Artemisia annunciava soddisfatta di essersi talmente ingrassata (“so’ appunto per dua volte finalmente”), da non essere quasi riconoscibile (“non mi conos[ci]arete”), essendo naturalmente implicito nelle parole della donna, come nei suoi dipinti, che l’ideale di bellezza del tempo prevedesse un’opulenza oggi, a dir poco, aborrita. L’Autoritratto di Minneapolis raffigura l’artista a circa venticinque anni, attorno al 1617, anno della nascita di PrudenziaPalmira, battezzata il 2 agosto di quell’anno (Cropper 1993, p. 761), unica dei suoi quattro figli, tutti nati in Toscana, a sopravvivere in età adulta. L’aspetto prosperoso della pittrice è forse dovuto alla vicinanza del parto. Citato nell’inventario della villa medicea di Artimino del 1638 (Papi 2000, p. 452; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 322-325), “il ritratto dell’Artemisia di sua mano che suona il liuto”, perfettamente corrispondente nelle misure alla tela di Minneapolis, è un documento di eccezionale importanza relativo ai primi tempi della sua storia d’amore con il nobile fiorentino Francesco Maria Maringhi (1593 - dopo il 1653), anch’egli, come molti suoi amici e committenti, favorito del dono di un autoritratto dell’amante pittrice. Il 26 giugno 1620, Artemisia scrive da Roma a Francesco Maria, a proposito dell’autoritratto lasciatogli: “Vi vorei pregare con tutto [il]

core che su quel mio ritratto voi ci fareste ma con quella cosa che fuse inpossibile che sapete che mi promettesti di non fare quello che forse Vostra Signoria fa, io non mi ricordo se non che è uno grande peccato e vorrei che pensasti che vollio benne al[la] vostra anima quanto vollio al corpo” (Lettere di Artemisia 2011, 31). Chiarissime sono le funzioni rivestite dalla tela, potente ricordo sensuale dell’amata che teme il peccato ed esorta l’amante a non abusare della verosimiglianza dell’immagine. Non ci è dato sapere che tipo di ritratto possedesse Francesco Maria: una tela da testa? O un nudo allungato, come quello della Danae di Saint Louis (cat. 19)? Durante la sua lunga carriera saranno diversi gli autoritratti inviati dalla pittrice ad ammiratori e collezionisti. Segno di stima e favore, come nel caso del cavalier dal Pozzo, proprietario, oltre a quello di Vouet, anche di un autoritratto della “pittora” per la serie degli artisti da lui più amati. Nel corso degli anni, la richiesta e l’invio della propria immagine dipinta rappresentarono per Artemisia un chiaro segnale della sua fama internazionale. Concentrata in un dialogo intensamente emotivo con l’astante, la seducente Liutista è la prima immagine dichiarata di se stessa dipinta dalla pittrice. Francesco Solinas

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16. Artemisia Gentileschi

Santa Caterina d’Alessandria

————— 1618-20 Olio su tela, cm 77 x 62 Firenze, Galleria degli Uffizi, depositi, inv. 1890 n. 8032 ————— Bibliografia Bissell 1968, p. 167; Borea 1970, pp. 72-73, n. 44; Garrard 1989, p. 48; R. Contini in Artemisia 1991, pp. 147-149, n. 18; Papi 1991, p. 45; Bissell 1999, pp. 203-204; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 328-329, n. 59; Bissell 2009b, p. 173.

ritratto di giovane donna: il viso e gli occhi volti al cielo, la mano destra posata sul seno sinistro, all’altezza del cuore, tiene una foglia di palma simbolo del martirio dei “Cristiani primieri”; la sinistra è poggiata su una ruota provvista di aculei metallici, strumento di tortura ancora in uso nei primi decenni del Seicento. Sulla testa, ben riconoscibile, anche se priva del giglio centrale, è la corona granducale, aperta, monumentale, come quella disegnata per Ferdinando I de’ Medici (1587-1609), e per lui realizzata in oro, rubini, smeraldi e perle dal grande orafo fiammingo Jacques Bylivelt. La corona di Toscana è più volte riprodotta nei ritratti e nelle insegne dei granduchi Ferdinando I, Cosimo II (1609-21) e suo figlio Ferdinando II (1628-70). L’abito porpora ricamato d’oro denota l’alto rango della giovane Caterina (287-305 d.C), santa e filosofa cristiana, identificata dalla leggenda come aristocratica rampolla d’un principe d’Egitto. Le sue straordinarie doti oratorie, d’intelligenza e cultura della fede si misurarono durante le celebrazioni per l’arrivo del console Gaio Galerio Valerio Massimino Daia, nuovo governatore della provincia. Rifiutandosi di prostrarsi ai pubblici sacrifici pagani e di rinnegare il suo credo in Cristo, Caterina fu obbligata a un confronto pubblico sui dogmi della fede cristiana con i sapienti della città: la giovinetta li convertì tutti. Torturata alla ruota armata per ottenerne la pubblica abiura, la ragazza fu salvata dagli angeli che spezzarono lo strumento del martirio. Massimino fu dunque obbligato a ordinarne la decapitazione. Più di quelle di altri martiri cristiani, la vicenda aveva appassionato gli illustri cultori della Riforma cattolica: la giovinezza, l’aristocratica eleganza della scomoda erudita del IV secolo, trucidata per aver pubblicamente affermato la sua fede, divennero le caratteristiche di un culto estensivamente celebrato dai pittori, che per tutto il Cinquecento promulgarono immagini di una sempre più aristocratica Caterina quale raffinata icona della lotta all’eresia dei principi cattolici (J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 328330). All’epoca della creazione di Artemisia,

la leggenda di Caterina era già stata illustrata nei suoi particolari dai maggiori interpreti della pittura nuova. Caravaggio e Guido Reni avevano ritratto la santa per i più raffinati cultori della storia sacra quali i cardinali Francesco Maria Del Monte (1549-1626) e Paolo Emilio Sfondrati (1560-1618). Con maestria tecnica e poesia, l’invenzione della pittrice sintetizza gli attributi del personaggio e i simboli della sua vicenda in una semplice tela “da testa”. Il ritratto concentra la bellezza spirituale e l’alto rango della donna, la sua ispirata fede in Cristo e la palma del martirio, come lo strumento spezzato dagli angeli, minuziosamente descritto nella ruota armata. Drammaticamente illuminata dall’alto e posta su un fondo di scuri vibrati, l’immagine della santa fu ricondotta all’opera della “pittora” dal Bissell (1968) e dalla Borea (1970), ma la data della sua esecuzione è ancor oggi oscillante nel periodo fiorentino di cui reca l’evidentissima insegna principesca. Posta attorno al 1615 dal Bissell e dopo il 1616 dal Contini (in Artemisia 1991), la Mann (in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 328330) la situa tra il 1618 e il 1619. La studiosa americana, da ultima, rammenta l’improbabile possibilità, evocata dal Bissell, di identificare il dipinto degli Uffizi con una Santa Caterina offerta da Artemisia all’inossidabile Andrea Cioli (1573-1641), segretario di stato di Cosimo II, delle Reggenti, e ancora in carica nel 1635. Da Napoli, l’11 dicembre di quell’anno, la pittrice annunciava al ministro toscano, “perché habbia maggior memoria della sua serva”, l’invio di “un quatro che un pezzo fa ho finito con l’Imagine di Santa Caterina dedicato per Vostra Signoria Illustrissima” (Lettere di Artemisia 2011, 46, con precedente bibliografia). Seguendo Roberto Contini, si individua in un’altra tela, purtroppo consunta e ridipinta, l’omaggio al devotissimo Cioli, un quadro più grande, la santa a tre quarti di figura, perfettamente calzante con lo stile di quegli anni napoletani. La Santa Caterina fu dipinta a Firenze alla fine del suo soggiorno, entro il 1620, quando Artemisia era ancora tra gli artisti stipendiati da Cosimo II: è il ritratto

di una donna vivente, certamente idealizzato, ma fortemente caratterizzato nella morfologia del volto, nella struttura del naso, nel taglio degli occhi. In veste della santa, la tela potrebbe forse essere un altro autoritratto della pittrice, le cui sembianze si riconoscono, quasi specchiate, nel precedente Autoritratto di Minneapolis (cat. 15): le stesse labbra, lo stesso naso e arco sopracciliare. Ma l’idealizzata effigie potrebbe anche alludere alla sua “padrona” fiorentina, la devotissima granduchessa Maria Maddalena d’Asburgo, arciduchessa d’Austria (1589-1631), figlia dell’arciduca Carlo e sorella dell’imperatore Ferdinando II, andata in sposa a Cosimo II de’ Medici nel 1608. Chi, se non la granduchessa regnante, avrebbe potuto fregiarsi di tale tiara? Tramandate dai ritratti realizzati alle corti asburgica e medicea, le sembianze di Maria Maddalena furono fissate da Frans Pourbus il Giovane, Tiberio Titi, Domenico e Valore Casini e Justus Suttermans. Ancorché fortemente connotata dal peculiare prognatismo degli Asburgo, la struttura del volto allungato di Maria Maddalena, gli zigomi alti, il naso lungo e irregolare, il suo chiarissimo incarnato possono avvicinarsi ai tratti reali, ma idealizzati, della santa Caterina degli Uffizi. Divenuto prestigioso segno di appartenenza alla casa imperiale, il prognatismo dell’arciduchessa è rispettato dal Pourbus e dal Titi, attenuato dai Casini e dal Suttermans e qui, eventualmente, annullato da Artemisia. Educata all’arte e al gusto del collezionismo dal marito, Maria Maddalena fu un’appassionata cultrice delle eroine dell’Antico Testamento; negli anni della sua co-reggenza di Toscana (1621-28), l’arciduchessa avrebbe commissionato, per la villa del Poggio Imperiale, dipinti e affreschi dedicati alle protagoniste dell’epopea biblica e della storia romana (Acanfora 2003; Barocchi, Gaeta Bertelà 2005; Spinelli 2008), di cui, solo qualche tempo prima, per il granduca defunto, Artemisia aveva narrato le gesta. Francesco Solinas

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17. Artemisia Gentileschi

Giaele e Sisara

————— 1620 Olio su tela, cm 86 x 125 Iscrizioni: firmato e datato sul pilastro di pietra “artemitia. lomi facibat mcxx” Budapest, Szépmüvészeti Múzeum, inv. 75.11 ————— Bibliografia Salerno 1960, pp. 95, 682; Garas 1969, pp. 91, 97-98, 102 n. 29, 116, 193; Szigethi 1979, pp. 35-44, 52; R. Lattuada in Civiltà del Seicento a Napoli 1984, pp. 40-42; G. Papi in Artemisia 1991, pp. 143-147; Stolzenwald 1991, pp. 33; Á. Szigheti, in L’Europa della pittura 1997, pp. 90, 92-93; B. Baumgärtel in Die Galerie der starken Frauen 1995, pp. 232-233; Bissell 1999, pp. 211-213; Pollock 1999, p. 161; Garrard 2001, p. 61; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 344-347; Mann 2009.

storia dell’Antico Testamento (Giudici IV, 17-24) celebrante la forza e l’efficacia dell’azione divina contro il male attraverso i più deboli, la vicenda narra della donna beduina Giaele che uccise nella sua tenda il generale cananeo Sisara, nemico d’Israele. Identificato da Ágnes Szigethi nel 1978 (Szigheti 1979) durante il restauro presso il Museo di Belle Arti di Budapest, il dipinto vanta un’illustre provenienza asburgica che, già nel Settecento, ne comandava il trasferimento nel palazzo imperiale della capitale ungherese (Szigheti 1979; Bissell 1999). A seguito di una battaglia vinta dal generale israelita Barac, Giaele accolse il nemico fuggiasco, capo dell’esercito del re Lubin che per vent’anni aveva oppresso Israele. La donna nascose Sisara nella sua tenda, lo dissetò, rassicurandolo e favorendone il riposo, ma, una volta addormentato, in un’improvvisa furia divina contro l’oppressore, la beduina conficcò un piolo della tenda nella sua tempia. All’arrivo di Barac, Giaele gli annunciava: “Vieni e ti mostrerò l’uomo che cerchi”. “Donna benedetta due volte, è la più benedetta delle donne, perché ha avuto il coraggio di eliminare il male che minacciava il popolo di Dio”. Per la storia di Giuditta, Artemisia poté certamente ispirarsi al ricco repertorio di fonti iconografiche a stampa (Bissell 1999, pp. 191-198), oltre che al celebre quadro da stanza del Caravaggio, allora conservato a Roma nella collezione del banchiere genovese Ottavio Costa. Ma per quella di Giaele, la “pittora” aveva pochissimi esempi, oltre alle stampe cinquecentesche di Luca di Leida (1517 circa), di Maarten van Heemskerck (1551), di Hendrick Goltzius (1595 circa), e soprattutto al foglio realizzato da Philipp Galle (1537-1612) (Bissell 1999; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001). A Firenze, un solo esempio illustre si offriva in pittura ad Artemisia, la bellissima tela dipinta da Ludovico Cardi detto il Cigoli (1559-1613), caposcuola toscano della pittura di luce e astro delle arti medicee. Databile tra il 1595 e il 1598, secondo Miles Chappell (2009), il grande quadro del Cigoli (una delle versioni è di cm 162 x 131)

raffigurante Giaele che uccide Sisara fu dipinto per il nobile fiorentino Ascanio Pucci e ripetuto in diverse repliche autografe, o di bottega, e in copie degli allievi, con vari formati e tecniche. Colta nello stesso attimo del teatrale modello cigolesco, col braccio destro levato, prima di sferrare il colpo, l’eroina di Artemisia è pressoché nella stessa posizione della Giaele del maestro toscano. In piedi, con ricchi abiti contemporanei, la donna dell’illustre accademico del disegno colpisce il nemico supino, addormentato (e sorridente!) e posto in una diagonale verticale, in prospettiva, che arriva sino al primo piano. La Giaele di Artemisia è in ginocchio, saldamente piantata a terra per sferrare con la massima forza il colpo fatale alla tempia del cananeo. Vestita con meno sfarzo, ma pur sempre ben acconciata, l’eroina indossa una veste in seta gialla e corpetto gallonato, ed è ornata di grossi orecchini di perle. Nessuna traccia, nei due quadri, della tenda menzionata nelle Sacre Scritture, ma piuttosto ambientazioni in edifici contemporanei: l’ingresso di una casa, con uno sfondo paesistico per il Cigoli, e per Artemisia l’interno di un palazzo che riprende pedissequamente la stampa del fiammingo Phillip Galle (Bissell 1999). Diversamente dal vasto teatro inscenato dal celebre incisore fiammingo, dal quale la pittrice riprende anche il pilastro di pietra su cui è apposta l’iscrizione della sua firma, nel quadro di Artemisia la scena è ritagliata in un “piano americano”, di un’estrema concentrazione, un silenzio intimista e una caravaggesca drammaticità dei lumi, assolutamente originali e intensi. Secondo Babette Bohn (2005), il modello del Cigoli e il capolavoro ancora fiorentino della “pittora” condividono un conforme assunto filosofico nell’essenza positiva della protagonista, la buona e ospitale Giaele improvvisatasi assassina per liberare il popolo di Dio. Storia al tempo desueta, senza dubbio suggerita ad Artemisia da qualche letterato della corte fiorentina, che le avrebbe anche fornito la rara stampa del Galle, questo quadro da stanza è uno spartiacque nella pittura della donna tra Firenze e Roma e fissa il momento culminante della sua carriera alla corte di Cosimo II. A seguito delle sue

Giuditte, Giaele continuava con successo l’ideale serie delle eroine antiche eseguite per Cosimo II e per sua moglie Maria Maddalena d’Austria, rappresentate in un lessico attuale, contemporaneo, dal naturalismo caravaggesco e d’estrema intensità, che suggestionò non poco i musicisti e gli scrittori legati al teatro della corte medicea. Dati i preziosi colori impiegati, la tela era, quasi certamente, tra quelle ancora da fi nire per il granduca lasciate dalla pittrice a Firenze prima della sua fuga per Roma. Probabilmente inclusa nella prima spedizione di quadri a lei inviati a Roma da Francesco Maria Maringhi, giunta alla Dogana Vecchia il 6 marzo 1620, la Giaele e Sisara è un raro punto fermo della cronologia dell’artista. Il quadro fu copiato dal Guercino (Bissell 1999) e ripreso dal Fiasella (G. Papi in Artemisia 1991, pp. 143147), ed è forse identificabile con la “Jole” citata da Pierantonio Stiattesi nella sua lettera al Maringhi del 20 marzo 1620, che fu replicata in quella primavera per il cardinale Alessandro Peretti Montalto (si veda nel presente volume il saggio di chi scrive e Lettere di Artemisia 2011, 15). Diversamente dall’idealizzato e teatrale generale cananeo del Cigoli, il Sisara di Artemisia è un ben caratterizzato ritratto di un uomo reale. Ancora allo studio da parte di chi scrive, l’immagine di Sisara potrebbe collimare con la fisionomia di Francesco Maria Maringhi, amante della pittrice, al quale la “sua amatissima serva fedele” scriveva il 5 marzo 1620 da Roma: “A dio vita mia carissima, senza voi io non so niente, e vi bacio le mano che tanto mi piacciono” (Lettere di Artemisia 2011, 12). Francesco Solinas

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18. Artemisia Gentileschi

Ritratto di monaca

————— 1613-18 circa Olio su tela, cm 70 x 52,5 Collezione privata ————— Bibliografia Contini 2001a, pp. 317, 318 con fig. 114.

consunta ma potentissima immagine di risolutezza nel proprio ufficio terreno, sia pur in rappresentanza di iperuranee istanze, il ritratto era noto da fotografie primonovecentesche, in nero, che la qualificavano opera di Bernardo Strozzi e proprietà a Venezia del pittore e collezionista Italico Brass (Gorizia 1870 - Venezia 1943). Nonostante tale informazione topografica e il buio tuttora calato sulle imprese figurative di Artemisia nate in tale magico luogo, che la vide residente per circa un triennio (1627-29), non vi è spazio per una seriazione così tarda del dipinto, solo per debole ipotesi parte di un fondo di lavori pregressi trascinato con sé dall’artista col trasloco da Roma. Nessuna reazione è conseguita al rinvio a tale arcigno ritratto da parte dello scrivente (Contini 2001a), né saprei dire se la comparsa dell’originale a una vendita di Bloomsbury (Roma, 19 novembre 2009, lotto 126), disarmante la sua parte nella mediocre conservazione e in assenza del lenocinio accattivante di una cornice, abbia fatto breccia nel cuore degli appassionati della Gentileschi. Evidente ne è il difficile contesto natale, nel tempo in cui opere anche firmate della figlia hanno indotto a sospettare un’attiva supervisione paterna a vigilare sul buon esito del prodotto. Se chi scrive è sedotto dal figurarsi una retrospettiva corsa parallela di padre e figlia Gentileschi Lomi – segnata da sintomatici essudati, specifici esclusivamente dell’uno oppure dell’altra – a cavallo tra primo e secondo decennio del Seicento, non vi è dubbio che si vada a scalfire qui la carne dolente di un dibattito critico all’apparenza irresolubile. Ma il tipo di questa donna quasi rancorosa e ancor relativamente nel fiore degli anni è della medesima specie della maschera di spaventato fastidio della Susanna di Pommersfelden del 1610, della Maddalena della Galleria Palatina (cat. 11) e della Santa martire di collezione privata e già presso le Newhouse Galleries a New York. Fuori d’ogni parametro l’incoercibile sdegno verso il riguardante (o magari castigo di se medesima) scolpito nell’espressione della donna, bocca sigillata su pronunciato doppio mento, occhio affilato più d’ogni lama

prestata all’assassina dell’eventuale Oloferne di rito, esso tradisce una pertinenza alla galleria di Artemisia piuttosto che a quella del padre, nella confidenza sul fatto che tertium davvero non datur. A questo tempo – tra Roma e Firenze – dovrà appartenere anche l’esplosione carnale della famosa Cleopatra di collezione privata, la cui assenza in mostra assume accenti di fatalità nel vanificare l’irripetibile circostanza di un arco ben teso di paragoni. A differenza della religiosa, gli occhi chiusi in coraggiosa attesa del compiersi del suicidio, l’aspide ancora strizzata nel pugno da boxeur, Cleopatra è titolare di medesimi tratti somatici – naso diritto, lunghe scure sopracciglia, chioma corvina – magari appena addolciti, seppure non al livello della traduzione in termini estatici sul medesimo corpo nella Danae di Saint Louis (cat. 19). A questa specie femminile sembrerebbe appartenere anche la Lucrezia di provenienza genovese, oggi anch’essa in collezione privata a Milano, la quale per chi scrive trova miglior ricetto negli anni romani di Artemisia, senza che necessariamente ne sia stata veramente lei l’esecutrice. Questo busto di monaca trova il suo contesto più adatto nelle pitture murali del Casino delle Muse, un’impresa appaltata nel 1611 da Scipione Borghese ad Agostino Tassi e Orazio Gentileschi, in assenza tuttavia di indiscutibile conformità di stile ai due artisti tirrenici, rispettivamente livornese e pisano, che tra le maestranze impiegate avranno offerto una chance a colleghi in difetto di lavoro (il Caroselli nella musa Melpomene?) o a esordienti delle rispettive botteghe, in tale secondo caso la figlia di Orazio. Dovessimo retrocedere negli anni, più addietro del 1610-1611, nel fissare i natali della tela qui censita, calerebbero improvvisamente le azioni della figlia e prevarrebbe un’eventualità favorevole al Gentileschi senior. Se anche chi scrive è pronto a riconoscere una qualche familiarità con opere di Orazio documentabili al primo decennio del secolo (nonché primo della sua rinascita come artista notabile, anzi elettissimo), è al tempo stesso incapace di stornare il terribilismo di questo pezzo dal paesaggio figurativo di

Artemisia. Un difetto di grinta caratterizza, in stringatissima antologia di volti paragonabili ritagliati dall’album del Gentileschi, l’Assunta del Museo Civico di Torino, così come una patina dal sapore quasi letterario è deposta sul volto dell’Arcangelo Michele di Farnese (Viterbo). Roberto Contini

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19. Artemisia Gentileschi

Danae

————— 1612 circa Olio su rame, cm 41,3 x 52,7 Saint Louis, The Saint Louis Art Museum, inv. 93:1986 ————— Bibliografia Settis 1985, p. 219; Tableaux anciens et du début du XIXe siècle, Sotheby’s, Monaco (22 febbraio 1986), lotto 243; Matthiesen, Londra, 1986, p. 52; Garrard 1989, pp. 539-540; G. Papi in Artemisia 1991, pp. 48, 51 figg. 34, 61; Mann 1996, pp. 39-45; Mann 1997, pp. 6-9, 56; Zarucchi 1998-1999; Bissell 1999, pp. 310-313 n. X-7, pp. 377-378; Testi Christiani 2000, p. 83; Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 305-308; Loughery 2002, p. 295; DeTurk 2003, p. 293; Henehan 2003, p. 160; Steiner 2004, p. 164; Mann 2005, p. 9; J.W. Mann in Italian Women Artists 2007, pp. 202-205.

questo dipinto giovanile, una delle rappresentazioni più cariche di sensualità della storia di Danae, è una dimostrazione dello straordinario talento narrativo di Artemisia. Il mito deriva da Apollodoro. Al re Acrisio di Argo era stato predetto che sua figlia, Danae, avrebbe partorito un figlio che lo avrebbe ucciso; nel tentativo di sfuggire al proprio destino, il re la imprigionò, ma Zeus, innamorato, penetrò nella fortezza in cui Danae era rinchiusa trasformandosi in una pioggia d’oro (qui rappresentata come una cascata di monete). In questo modo il dio riuscì a infi larsi nel letto di Danae e la ingravidò; da quell’amplesso nacque Perseo, che in seguito avrebbe ucciso il nonno. Il dipinto ritrae Danae che, in preda a un’evidente eccitazione sessuale, stringe nel pugno alcune monete mentre altre le si accumulano tra le gambe, secondo un’interpretazione del tutto originale del mito. Le monete, che dagli anni Trenta del Cinquecento erano diventate la norma per raffigurare la pioggia d’oro, alludono all’atto di forza con cui Zeus entrò nella fanciulla. (Sull’evoluzione dell’iconografia di questo mito nel XVI e XVII secolo, si veda Kahr 1978.) Il pugno stretto di Danae, con le monete apparentemente spinte a forza tra le dita serrate della fanciulla, diventa una metafora della penetrazione sessuale non voluta. (L’autrice è grata al compianto Leo Steinberg per la sua acuta lettura delle forme visive, illuminante per comprendere la vera natura di questo gesto. Sull’interpretazione della Danae come commento intenzionale di Artemisia allo stupro, che ritengo meno convincente, si veda Zarucchi 1998-1999.) Danae tiene le gambe serrate, in una posa esplicitamente impacciata, mentre le monete le si accumulano in grembo, in un’allusione all’amplesso amoroso. Questa è una delle poche immagini in cui Danae è ritratta durante l’atto del concepimento e non assume invece i ruoli, più tipici, di una seduttrice che si aspetta ciò che sta per accadere o della casta innocente inconsapevole del suo destino. Artemisia, che sicuramente conosceva le rappresentazioni cinquecentesche della

storia di Danae, ha sviluppato modelli precedenti (si veda Santore 1991). La magistrale Danae tizianesca del Prado (o una qualche sua versione) deve aver ispirato la collocazione e la posa dell’ancella. Inoltre, nella Danae tizianesca di Capodimonte, un lenzuolo di lino copre in parte l’addome di Danae, mentre in quello di Artemisia la zona pubica è completamente libera; Artemisia ha aggiunto il suggestivo effetto delle monete sulla pelle nuda. Non fu la prima a sfruttare questa sensazione tattile (Tintoretto ha dipinto monete posate sulle cosce di Danae), ma nessun altro artista è stato così esplicito. Un altro motivo ripreso da Tiziano (Prado) è probabilmente il contrasto tra l’ancella completamente vestita, con tanto di turbante, e la principessa nuda; tuttavia, nel dipinto su rame il fazzoletto più ampio e le spalle coperte fanno risaltare ancora più efficacemente la totale nudità di Danae. Una simile innovazione iconografica rivela la mano di Artemisia, anche se alcuni studiosi hanno attribuito l’opera al padre Orazio. (Per un riassunto delle argomentazioni a favore dell’attribuzione a Orazio, si veda Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 97-100; per gli argomenti a favore di Artemisia, si veda Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 302-305. Il dibattito è presentato in forma un po’ più ampia in Mann 1996.) Raramente, però, Orazio si soffermava sui particolari narrativi; per esempio, il pugno serrato con le monete che ne sfuggono non sembra uscito dalla sua mente. Anche la sensualità così esplicita non è tanto tipica di Orazio; nella sua rappresentazione di questo mito, egli presentò una vereconda vergine, ignara dell’incombente amplesso. Il dipinto va messo in rapporto con una tela di dimensioni maggiori, che Artemisia realizzò più o meno nello stesso periodo, ossia la Cleopatra della Collezione Etro (Milano), anch’essa oggetto di dibattito ma, nella mia opinione, sicuramente opera di Artemisia. (Per le prove di questa attribuzione ancora contestata, si veda Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 9798 per Orazio, e pp. 302-305 per Artemisia.) Il dipinto raffigura il momento in cui Cleopatra, sola, si prepara a togliersi la vita

facendosi mordere dall’aspide che tiene in mano; la posa è identica a quella di Danae. Le imponenti dimensioni della Cleopatra milanese rendono la tela un’audace esibizione di nudo femminile. Sicuramente un collezionista deve aver apprezzato questo aspetto del dipinto a tal punto da ordinare una versione ridotta della figura (non si sa se per ragioni di economia o di decenza). Le sottili variazioni nell’incarnato e la composizione serrata sono caratteristiche del periodo romano di Artemisia e non possono suffragare una collocazione nei primi anni Venti – datazione che ebbe origine da un’interpretazione, ora messa fortemente in dubbio, secondo la quale Artemisia si sarebbe recata a Genova con il padre proprio durante quel periodo. Ma soprattutto, il dipinto fu eseguito quando Artemisia lavorava nella bottega del padre, impiegando le tecniche che egli le aveva insegnato, come appare evidente nel trattamento del pigmento e delle vernici trasparenti nell’incarnato. Anche l’ombreggiatura caravaggesca nel corpo e il trattamento delle lenzuola derivano direttamente dallo stile di Orazio. Il trattamento alquanto più sciolto di queste ultime rispetto a quelle della Cleopatra milanese è dovuto alla superficie più liscia della base di rame, piuttosto che a una mano chiaramente diversa. Questo è il periodo della carriera di Artemisia in cui i suoi lavori, dal punto di vista tecnico, si avvicinano di più a quelli del padre. Christiansen 2004, pp. 101-126, sulla base di radiografie eseguite al Metropolitan Museum all’epoca della mostra sui Gentileschi del 2002, ha sostenuto che il modo in cui la figura di Cleopatra è stata stesa sulla tela e poi condotta a compimento corrisponde al modo di dipingere di Orazio. Tuttavia, dato che Artemisia, all’inizio, era stata addestrata a dipingere esattamente come il padre, non stupisce che nei suoi primi dipinti imitasse il procedimento seguito da lui. Judith W. Mann (Traduzione Arianna Ghilardotti)

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20. Artemisia Gentileschi

Cleopatra

————— 1620-25 Olio su tela, cm 97 x 71,5 Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi, inv. D.A. 114 ————— Bibliografia Papi 1994, pp. 197-202; V. Sgarbi in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 472-473; V. Sgarbi in Caravaggio e l’Europa 2005, pp. 216-217.

l’exemplum virtutis incarnato da Cleopatra, che preferì il morso letale dell’aspide all’infelicità amorosa e alla pubblica umiliazione, rappresenta per Artemisia un nobile pretesto per poter raffigurare, con potente ed esplicito naturalismo, un seducente nudo femminile. Il tema del legame d’amore, abbinato al dolore e all’eroismo, è trasposto dalla pittrice in chiave schiettamente erotica all’interno di una raffigurazione di grande impatto visivo. Il braccio destro proteso in avanti – linea sinuosa che divide in due parti la composizione – espone alla vista le turgide nudità della protagonista, evidenziando un’intensa riflessione sulla coeva produzione romana di Giovanni Baglione – acerrimo rivale di Orazio – e una ripresa dei modi di Simon Vouet (cfr. la Lucrezia della Národní Galerie e, di Charles Mellin, La Pittura che dipinge Amore del Musée des Beaux-Arts di Bordeaux). Ritratta al naturale e di tre quarti, la regina egiziana consuma il tragico epilogo della propria vicenda con gesto stilizzato e teatrale: in un misto di sofferenza e languore, la donna avvicina la serpe al petto, dischiudendo le labbra e alzando gli occhi al cielo. Adornata di perle nell’acconciatura e nei lobi, la vigorosa e carnale Cleopatra è seduta sopra un drappo rosso corallo, felicemente accordato con il chiarore eburneo delle carni e la scura penombra del ventre, lasciato audacemente scoperto. Comparso sul mercato romano negli anni Sessanta del Novecento, il sensuale quadro da stanza è stato restituito alla mano di Artemisia da Gianni Papi, che ha acutamente corretto la precedente attribuzione a Guido Cagnacci formulata da Roberto Longhi (Papi 1994, pp. 199-200). L’autografia artemisiesca è stata confermata in occasione della mostra del 2001, quando, per la prima volta, la tela è stata presentata al pubblico dopo la pulitura (V. Sgarbi in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 472-473). La fluidità della pennellata, distante dal nitore oraziesco della Cleopatra e della Lucrezia oggi conservate in collezione privata a Milano, consente di datare il dipinto agli anni del secondo soggiorno romano della pittrice (1620-26). Non è da escludere una vaga trasposizione

autobiografica nel volto della protagonista, prossimo alla fisionomia della Gentileschi ritratta negli stessi anni da Simon Vouet per Cassiano dal Pozzo (cat. 7). Il volto di Cleopatra è simile per stile e fattura alla più antica e compassata Allegoria dell’Inclinazione di Casa Buonarroti, alla Santa Cecilia Spada e alla poco più tarda Maddalena di collezione privata americana (cat. 28), contraddistinte da labbra arcuate e dai contorni marcati, da nasi piccoli e lievemente appiattiti e da vaporosi capelli bruni con riflessi dorati, sciolti attorno al viso. Diversa per cronologia e composizione dalle Cleopatre morenti di collezioni private rispettivamente milanese e romana (cat. 32) – di formato orizzontale e a figura intera –, l’opera in esame condivide con queste due altre redazioni l’originale carica sensuale ed espressiva, decisamente agli antipodi rispetto all’algido distacco emotivo proprio della maniera di Orazio. Yuri Primarosa

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21. Artemisia Gentileschi

Giuditta decapita Oloferne

————— 1620-21 Olio su tela, cm 199 x 162,5 Iscrizioni: firmato in basso a destra: “ego artemitia lomi fec.” Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 1567 ————— Bibliografia Baldinucci 1845-1847 ed. 1974-1975, III, p. 714; Longhi 1916 ed. 1961, I, pp. 258, 281; Bissell 1968, p. 156; Gregori 1968, p. 416; Borea 1970, pp. 76-78; Gregori 1984, p. 147; Garrard 1989, pp. 51-53, 377, 500-501; G. Papi in Artemisia 1991, pp. 150-153; Papi 1994; Bissell 1999, pp. 213-216; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 347-350; Christiansen 2004, pp. 107-108.

forse più d’altri pittori del loro tempo, i Gentileschi de Lomis si servirono profusamente di disegni e cartoni per replicare le loro invenzioni; se Orazio li impiegava sia al dritto che al rovescio nelle sue più brillanti composizioni, Artemisia sapeva valersene con altrettanta maestria. Il gioco era evidente e antico come la pittura stessa. Sin dalle sue prime opere, la pittrice si servì di cartoni e d’accurati disegni preparatori, eseguiti dal vero e da modello, com’è evidente in quelle Madonne del latte dipinte in più versioni e senza dubbio legate alla sua produzione di fenomenale giovinetta (cat. 9). Effettivamente, un’invenzione originale era molto più ardua e lunga da concepire e da realizzare, e non sempre alla portata della pur eccezionalmente inventiva e creativa, ma spesso “presciolosa”, Artemisia. Come la prima versione della Giuditta, oggi a Capodimonte (cat. 10), le sue sorprendenti creazioni originali, al tempo riconosciute come capolavori da collezionisti e artisti, sono cosparse di innumerevoli pentimenti (cat. 26, 37); d’altra parte, nelle sue lettere sono frequenti gli accenni a repliche di tele da lei già dipinte. Se nel marzo 1620, su richiesta del cardinal Alessandro Peretti Montalto, Artemisia si affrettava a preparare una copia, o variante o replica, del misterioso quadro con la “Iole” da lei già dipinto (si veda Appendice II), ben ventinove anni dopo, il 13 novembre 1649, è la stessa pittrice a descrivere all’affezionato cliente messinese don Antonio Ruffo la centrale importanza dell’invenzione nel suo processo creativo e la facilità della copia: “perché quando è fatta l’inventione, et stabilito con li suoi chiari et uscuri, e fundati sui loro piani[,] tutto il res[t]o ei baia” (Lettere di Artemisia 2011). All’aristocratico siciliano Artemisia confessa di aver talvolta prestato i suoi disegni e cartoni ad altri artisti che ne avevano plagiato le invenzioni e per questo dichiarava: “io ho fatto voto colendissimo di non mandar mai più disegni de mio” (Lettere di Artemisia 2011). Trattando di una Galatea ordinatale da un amico dello stesso Ruffo, proprietario della prima versione del quadro, Artemisia lo rassicura che,

quantunque simile, il dipinto non sarà uguale: “e che la Galatea sia differente da quella di Vostra Signoria Illustrissima non occorreva di esortarmene in questo[,] che per gratia di Dio et della Gloriosissima Vergine vengono ad una donna che è piena di questa merentia [benemerenza] cioè di variar soggetti in della mia pittura; et mai sie trovato ne’ quadri miei corrispondentia d’inventione etiam in duna mano” (Lettere di Artemisia 2011). Questa premessa sulla tecnica e sugli intenti della pittrice, ma anche sulla pratica corrente di replicare e variare una sua composizione originale, può meglio illustrare la celebre Giuditta che decapita Oloferne degli Uffizi, iniziata per il granduca a Firenze, poco prima della sua fuga a Roma, e terminata nella città papale nel 1620-21 sulla base dei cartoni della prima e più antica redazione oggi a Capodimonte (cat. 10). Eseguito con preziosi colori di lapislazzulo e lacca di garanza, il cui uso era inimmaginabile nella sua prima giovinezza romana e soprattutto nell’anno del processo, il quadro di Capodimonte fu, a mio avviso, ideato e dipinto agli esordi di Artemisia alla corte fiorentina, tra il 1615 e il 1618. Probabilmente concepita su espressa richiesta di Cosimo II, la Giuditta di Capodimonte costituisce uno dei primi saggi caravaggeschi di Artemisia che, a pochi anni dalla morte del Merisi, ne interpretava la carica emotiva e il luminismo fortemente chiaroscurato. Originariamente, le due tele avevano pressoché le stesse dimensioni, ma rispetto alla seconda versione degli Uffizi il quadro di Capodimonte risulta essere stato successivamente tagliato e rimpicciolito di circa 40 centimetri in alto e 30 a sinistra. Se di quella prima Giuditta, dipinta a Firenze quale saggio estremamente ricercato della nuova pittura romana, si perdono le tracce sino al 1827, quando ricompare nella raccolta De Simone a Napoli (si veda cat. 10), la Giuditta degli Uffizi, firmata sull’elsa della spada (“EGO ARTEMITIA LOMI FEC.”), è ricordata, pur senza identificazione dell’autrice, negli inventari medicei sin dal 1637, per esser quindi menzionata, nel 1663, nelle liste di Palazzo Pitti (Borea 1970), dove

l’ammirava Filippo Baldinucci quale capolavoro di Artemisia: “opera al certo, che ogn’altra di sua mano avanza in bontà, e tanto ben pensata, e sì al vivo espressa, che solamente il mirarla così dipinta mette non poco terrore” (citato in Bissell 1999, p. 214). Nel 1774, in un trasporto da Palazzo Pitti agli Uffizi, la tela era identificata come opera del Caravaggio, e la firma di Artemisia non letta. Nonostante l’uso dei cartoni, ampiamente serviti nelle diverse versioni della Maddalena palatina (cat. 11, 12), anche nelle due Giuditte decapitanti, più distanti nel tempo tra loro rispetto alle redazioni della santa pentita, sono evidenti sensibili varianti non solo nei drappi e nei colori delle vesti, ma nelle attitudini dei personaggi e nelle loro diverse stesure pittoriche. Al confronto con la prima versione, ricca nei colori e cosparsa da pentimenti, la redazione degli Uffizi appare più sontuosa, non solo per una maggiore integrità della superficie pittorica e un migliore stato di conservazione, ma per la sua stesura, più meticolosa e attenta. Studiato, e meno immediato, è il movimento delle figure, leggibile in tutta la sua forza nella riuscitissima composizione triangolare; un maggiore movimento e dinamismo è conferito dalla più evidente torsione della figura di Giuditta, che accentua lo sforzo della macabra operazione nella rotazione della spalla e nell’inclinazione del braccio e del polso destro, ulteriormente aperti verso l’esterno, o semplicemente messi più in luce. Con un lieve spostamento del cartone, l’artista disloca l’elsa della spada al centro del dipinto, a coprire il pugno della fantesca Abra che immobilizza il generale assiro nel suo ultimo singulto di vita. Tale sottile trasferimento intensifica l’efficace dinamismo del dipinto, la cui stesura, comunque, ci appare più ricca e corposa di materia. Altri dettagli impreziosiscono la meditata versione degli Uffizi, come l’ampio fondo misterioso della stanza, in parte tagliato nel primo quadro, ma più profondo e narrativo nel secondo, i descritti volumi di letto e materassi, l’accurata acconciatura della signora, il bracciale d’oro con cammei antichi – gemme allusive alla sua condizione

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di ricca ereditiera e non a particolari iconografie –, i finissimi merletti della camicia e la resa di tutti i tessuti. Dalla tela del turbante di Abra, al damasco giallo dell’abito dell’eroina, al rosso velluto di seta della coperta di Oloferne, sino ai sottilmente sfrangettati lenzuoli di lino, i drappi sono realizzati con diversi passaggi e velature, insistiti e dettagliati in ogni loro piega. Inondata di luce appare la testa della vittima, spinta verso il basso da Giuditta, ma

insorgente verso l’alto nella sua ultima reazione alla stangata mortale inferta dalla donna; l’elsa più vistosa della spada tocca il braccio piegato dell’uomo. Utilizzando i suoi preziosi cartoni, l’artista, stipendiata dal granduca, avrebbe potuto terminare l’opera a Firenze come a Roma. Magistrale derivazione del primo capolavoro caravaggesco di Artemisia, la Giuditta degli Uffizi ripete la redazione più antica con coinvolgimento spettacolare, più

che autobiografico o psicoanalitico. Degna anticipazione della Judith, dramma in musica di Marco da Gagliano su libretto di Ottavio Rinuccini, messo in scena al teatro mediceo nel 1621, questo secondo eroico ammazzamento si consuma nel fasto meditato dello zampillio del sangue. Francesco Solinas

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22. Artemisia Gentileschi

Ritratto di gonfaloniere pontificio

————— 1622 Olio su tela, cm 208,4 x 128,4 Bologna, Collezioni Comunali d’Arte, inv. P4 ————— Bibliografia Dolfi 1670; Boccia 1991, p. 466; G. Papi in Artemisia 1991, pp. 50-51, 157-160; Bissell 1999, pp. 45, 216-219 n. 13 (con bibliografia precedente); J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 358-361 n. 66; Spear 2001, p. 339; G. Papi in Caravaggio e l’Europa 2005, pp. 214-215; S. Biancani in Italian Women Artists 2007, pp. 210-211 n. 48; Failla, Merletti 2007; Pianea 2007.

da tempo riconosciuto fra gli esempi più sensazionali della ritrattistica di ambito caravaggesco, di poco successivo all’Alof de Wignancourt del Merisi conservato al Louvre, il ritratto risale al 1622, due anni dal ritorno di Artemisia nella capitale (si veda Appendice I), secondo quanto dichiarato dalla scritta seicentesca “ARTEMISIA GENTILESCA / FACIEBAT ROMAE 1622” visibile sul retro della tela prima della rifoderatura del 1964 (cfr. Bissell 1999, p. 217). La figura del cavaliere si staglia, al centro della tela, in uno spazio delimitato dal pavimento e dalla parete, reso misurabile dalla luce direzionata da sinistra, che esalta la valenza emblematica degli elementi relativi alla carica, al rango, all’appartenenza aristocratica del personaggio: il vessillo con l’insegna papale di scorcio alla sua sinistra, il mobile rivestito di velluto rosso su cui poggia l’elmo con l’elaborato cimiero piumato a tre colori (rosso, bianco, nero), la croce argentea trilobata e la fascia verde dei Santi Maurizio e Lazzaro, ordine creato nel 1572, con l’unificazione di due ordini distinti, dal bolognese Gregorio XIII Boncompagni, e affidato a Emanuele Filiberto di Savoia e ai suoi discendenti. I riflessi sul metallo dell’armatura e sull’elsa dello stocco ne evidenziano i particolari decorativi; esalta il tessuto e le pieghe della gorgiera e dei polsi, lambendo la seta verde della fascia e soffermandosi sul colore dorato del merletto e della bordura, dove emergono “brani di vibrante tensione cromatica […] ottenuti con una pennellata di sbalorditiva nitidezza”. Nella resa del volto, “quasi spartito a metà dalla luce” (G. Papi in Artemisia 1991, p. 158), questa dà vita al realismo dei tratti somatici e all’immediatezza con cui sono colti i tratti d’espressione e di carattere. Pur nell’omaggio, ancora, alle rigide regole del “ritratto di Stato”, questo dipinto marca la scelta realistica e caravaggesca di Artemisia al suo arrivo nella capitale, su una linea divergente dalla ritrattistica – formale e densa di spessori e affetti – di Van Dyck, presente a Roma nel 1621 (Spear 2001, p. 339). Il ruolo di quest’opera nell’ambito della pittura contemporanea è emerso

progressivamente in un denso quadro critico: da influssi sull’opera di Orazio Riminaldi e di Cecco del Caravaggio (G. Papi in Artemisia 1991) a un più complesso rapporto di dare e avere profilatosi rispetto alla ritrattistica di Velázquez: un’originale interpretazione dei suoi ritratti a figura intera degli anni 1618-20 (Gregori 1985, p. 229), ma probabilmente anche un testo di riferimento per l’artista spagnolo, così come le luminose pennellate e le vibrazioni cromatiche sembrano indirizzare verso le creazioni di Simon Vouet a queste date (G. Papi in Artemisia 1991, p. 158; G. Papi in Caravaggio e l’Europa 2005, p. 214). Il legame strettissimo con l’immediato ambito caravaggesco per quanto riguarda il ritratto a figura intero è rappresentato dal presunto Ritratto di Asdrubale Mattei (Chantilly, Musée Condé) di incerta attribuzione, assai contiguo al Gonfaloniere, oltre che per l’impostazione generale, per il “taglio della luce, che agisce da strumento introspettivo”, e per la “resa virtuosistica e pittorica dei particolari decorativi” (G. Papi in Artemisia 1991, p. 158 e fig. 91). Nell’ambito della tradizione ritrattistica “di Stato” e “internazionale” fra Cinque e Seicento, un riferimento fiammingo-piemontese è inoltre identificato da Ward Bissel nel Ritratto di Carlo Emanuele I di Savoia di Joan Caracha, quel “Giovanni Caracca” originario di Haarlem e tanto attivo alla corte sabauda (1600 circa, Saluzzo, Museo Civico Casa Cavassa; Bissell 1999, p. 218; per il dipinto cfr. anche Pianea 2007); il motivo del mobile su cui poggia l’elmo e cui il ritrattato accosta la mano è inserito in uno spazio ambientato, analiticamente descritto, con una veduta di paesaggio sullo sfondo. Si tratta di un’opera realizzata nell’ambito della ritrattistica “internazionale” connessa alla dinastia sabauda e all’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, aperto ai membri dell’aristocrazia europea. Radici ancora più significative e antiche per il Gonfaloniere, per la ritrattistica di Artemisia e per l’intera sua attività vanno ricercate a ponte fra Roma e Bologna, seconda città dello Stato Pontificio, nell’età di Gregorio XIII Boncompagni, in particolare nell’attività di Lavinia Fontana, figura che costituì certamente un esempio per

Artemisia fin dalla più tenera età, anche attraverso l’azione educativa del padre Orazio. La città, dall’epoca dell’incoronazione di Carlo V a imperatore (1530) e della presenza di Tiziano (che vi dipinse il Ritratto di Carlo V a figura intera, ora al Prado), in età post-tridentina aveva assistito all’affermarsi di una diffusa e altissima cultura della ritrattistica di rango, in rapporto all’autorappresentazione dell’aristocrazia pontificia e dei membri dell’oligarchia senatoria, sorgente di numerosissime commissioni artistiche. Colta collaboratrice di Achille Bocchi per l’edizione delle Symbolicae Quaestiones, figlia d’arte come Artemisia, in occasione dei soggiorni romani Lavinia certamente rappresentò per questa un modello sotto il profilo della ritrattistica aulica, ma probabilmente anche dal punto di vista delle possibilità di affermazione professionale in quanto donna (Sutherland Harris 2007, p. 54). Negli anni Ottanta e Novanta del Cinquecento, l’esprimersi del suo particolare talento nel ritratto a figura intera le aveva garantito un ruolo preminente nella rappresentazione di personaggi appartenenti all’élite sociale e professionale. La volontà di visitare la seconda capitale pontificia, ripetutamente ribadita anche nelle lettere del 1620 recentemente rinvenute (“me ne volio andare in bolonia”, “vado in bolonia “; si veda nel presente volume il saggio di Francesco Solinas e Lettere di Artemisia 2011), annoverava certamente fra i punti di maggiore interesse l’attività della pittrice. Il Ritratto di gentiluomo in arme di Lavinia, recentemente comparso sul mercato (Sotheby’s, Milano, 14 giugno 2011), firmato e datato 1581 (la croce rossa sul petto qualifica il soggetto quale cavaliere di Santo Stefano), può essere di fatto considerato un significativo precedente cinquecentesco del Gonfaloniere. Nella tela dipinta da Lavinia, la figura monumentale è isolata nell’oscurità di uno spazio descritto e reso reale dal gioco prospettico del pavimento marmoreo e della luce, sia filtrata dalla finestra sullo sfondo sia diffusa sul primo piano, come avviene in diversi ritratti di mano della Fontana e del padre Prospero (Ritratto del senatore Orsini, Bordeaux, Musée des Beaux-Arts; Ritratto di

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donna, Bologna, Museo Davia Bargellini). Sul mobile rivestito di tessuto sono presenti oggetti con valore di insegna, fra cui l’elmo con cimiero piumato. Principale motivo di interesse inoltre, in un probabile soggiorno bolognese di Artemisia attorno a queste date, fu certamente il contatto con i testi principali della riforma carraccesca, in particolare con l’approccio diretto al personaggio che caratterizza la ritrattistica di Ludovico, ma anche col luminismo “meteorologico” e col naturalismo delle scene sacre da questi eseguite negli anni Ottanta e Novanta del Cinquecento. L’antica provenienza del Gonfaloniere è ignota. Agli inizi del Novecento il dipinto era conservato in Palazzo Pepoli “vecchio” di Strada Castiglione, donato alla città dal conte Agostino Sieri Pepoli nel 1910 con gli arredi e le ricchissime collezioni artistiche, con l’intenzione (presto disattesa) che vi fosse realizzata una casa-museo. Fa parte delle Collezioni Comunali d’Arte dall’epoca della fondazione (1936), dopo essere stato esposto per un decennio presso la Regia Pinacoteca. L’ipotesi di identificazione del personaggio con un membro della celebre casata bolognese è da tempo caduta (Bissell 1999, p. 217), mentre si rivela plausibile quella di un acquisto da parte dello stesso Pepoli, guidato probabilmente dall’interesse per la presenza di uno stemma (ridipinto in epoca imprecisata su quello attualmente visibile e

rimosso nel 1964), con cinque file di scacchi, vagamente evocante la più fitta scacchiera del blasone Pepoli. Lo stemma posto al centro del pannello in tessuto reca due galloni argentati alternati a uno nero, con la punta rivolta verso il basso, e tuttora non è identificato. Poiché non segue perfettamente la prospettiva del tessuto su cui è applicato, assecondando piuttosto la visione frontale del dipinto, non è stata esclusa la possibilità che sia stato aggiunto in un secondo momento (Bissell 1999, p. 218). La cornice originale di colore nero con decorazioni dorate a intaglio, non presente in mostra, è riconducibile a manifattura genovese; ciò non è probabilmente da interpretarsi come indizio geografico per l’estrazione della committenza o del personaggio. Non ha trovato conferma una trascorsa proposta in favore di Pietro Gentile, nobile genovese legato al cardinal Ludovisi, nel cui palazzo erano registrate nel 1780 la Cleopatra e la Lucrezia di Artemisia (si veda Appendice II e relativa bibliografia). Sulla traccia della data 1622, in ambito bolognese si è profilata un’ipotesi di identificazione con un membro dell’illustre casato bolognese Vizzani, quel Costanzo di Giasone, senatore, che scomparve in quell’anno, trentanovenne, nella capitale dove ricopriva la carica di gonfaloniere pontificio, con l’appartenenza – peraltro assai diffusa nell’ambito della nobiltà dello Stato Pontificio – all’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro

(Dolfi 1670, p. 711). Il padre aveva sposato in seconde nozze Ippolita Ludovisi, sorella di papa Gregorio XV, deceduta a Bologna nel 1625 (B. Carrati, Defunti, III, Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, ms. B 912, c. 291). L’atto di morte lo registra come “Capitano di cavalli della guardia di Papa Gregorio XV e Senatore di Bologna” (ibidem). Va ricordato che intorno all’ordine Mauriziano si registra un rinnovato interesse intorno agli anni Venti del Seicento, scandito dall’esecuzione del San Maurizio che riceve la palma del martirio di Guido Reni per il santuario della Madonna dei Laghi ad Avigliana, probabilmente su commissione del cardinale Maurizio di Savoia, a ridosso del soggiorno romano in rapporto col cardinale Ludovico Ludovisi, mecenate dello stesso Reni. Per quanto riguarda i riferimenti di costume, è stato osservato che nella rappresentazione realistica dell’armatura indossata dal Gonfaloniere convivono componenti in linea con l’uso del tempo (gorgiera, spallacci simmetrici, ampi stivali, detti anche “forti”, di foggia assai moderna) ed elementi di più remota datazione (i ginocchiali, l’elmo, il cimiero con piume; cfr. Boccia 1991, p. 466). Si può presumere che quanto nel dipinto riconduce a una data anteriore alla sua esecuzione si riferisca probabilmente a precise richieste della committenza. Carla Bernardini

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23. Artemisia Gentileschi

Ritratto di dama con ventaglio

————— 1620-25 circa Olio su tela, cm 127 x 95,3 Collezione privata ————— Bibliografia Ratti 1766, p. 171; Ratti 1780, p. 196; Descrizione 1818 ed. 1969, p. 79; Bissel 1981, p. 219; Giffi Ponzi 1994, p. 53; Cataldi Gallo 2003, pp. 345-353; Christiansen 2003, p. 588; Cataldi Gallo 2004, pp. 161-163; Mann 2005, pp. 16-17, note 16-17; Boccardo 2009, p. 123; M. Cataldi Gallo in L’eredità donata 2009, pp. 58-60.

il ritratto, identificato nel 2003, è stato da allora pubblicato più volte inizialmente con l’attribuzione a Orazio Gentileschi, documentata negli inventari sette-ottocenteschi della collezione dei Balbi marchesi di Piòvera da cui proviene e riportata anche dalla letteratura odeporica (alla quale fecero riferimento Bissel e Giffi Ponzi dandolo ancora per disperso), e poi presto ricondotto alla figlia Artemisia. Rispetto a quanto già noto, merita segnalare che la sua prima menzione è precedente agli inizi del XVIII secolo, in quanto nell’inedito inventario allegato al testamento di Francesco Maria Balbi (16191704) rogato il 3 settembre 1682 lo si trova descritto come “Ritratto grande al naturale d’Artemisia Gentileschi e di sua mano”, ovvero con il riferimento attributivo oggi condiviso, reiterato peraltro negli inventari dei successivi testamenti del 5 settembre 1688 e del 20 dicembre 1701, che invece sono stati già pubblicati (cfr. Belloni 1973, pp. 6870; Boccardo, Magnani 1987, p. 85). Questa anticipazione non è però sufficiente per risalire alla precedente provenienza, conoscendosi per un verso solo in parte il succedersi degli acquisti d’arte del Balbi, ma nel contempo risultando assai diversi gli ambiti geografici degli stessi, apparendo comunque il personaggio più un disincantato e abile raccoglitore di quadri piuttosto che un colto e appassionato collezionista (Boccardo 1988, pp. 99-101). Alla luce di quanto sopra e della recentemente molto ridimensionata relazione con Genova di Artemisia, è improbabile una presenza di questa effigie ab origine nel capoluogo ligure, tanto più che la sua identificazione come autoritratto dell’artista indicata nelle carte d’archivio, e recentemente ripresa da Christiansen, appare, dato il suntuoso abito, fuori luogo, tal che potrebbe essere nata attraverso più di un passaggio di proprietà, anche fuori Genova. Proprio in conseguenza dell’ultimo testamento di Francesco Maria Balbi, la tela, con i quadri sistemati nel primo salotto a ponente del salone nel palazzo del gentiluomo genovese, venne destinata, diversamente dal resto della quadreria, non al nipote primogenito e omonimo, ma al

secondogenito Costantino (1676-1740), che dall’avo ereditò anche il contiguo palazzo, che nella via tuttora dedicata alla nobile casata corrisponde al civico 6. In questa nuova sede il Ritratto, a questo punto citato come “Una matrona con una piuma in mano del Gentileschi” e dunque riferito a Orazio e, come tale, non più autoritratto, è menzionato negli inventari del 1724 e del 1740, poi dal Ratti e, infine, nell’inventario del 1823, l’ultimo prima della dispersione della raccolta, dove il perito, il pittore Santino Tagliafichi, lo stimò 60 lire, una cifra piuttosto bassa a fronte delle 2.000 ma anche 5.000 dei pur più splendidi ritratti di Van Dyck o delle 1.500 delle grandi tele di Luca Giordano (cfr. Boccardo 1987, p. 84 nota 41). Ereditato dalla figlia maggiore dell’ultimo Costantino Balbi (1747-1823), Violante, andata sposa a Giacomo Spinola, finì poi nella villa che quest’altra famiglia possedeva tra Rapallo e Santa Margherita, e in quella collocazione è rimasto fino a oggi, dato che il bisnipote della coppia, Franco (1878-1958), ha lasciato in eredità la residenza al Sovrano Militare Ordine di Malta. Dalla storia fisica della tela, ovvero dagli inventari settecenteschi citati, si ricava altresì che le misure, indicate in palmi genovesi 6.3 x 5.4, corrispondenti a cm 156 x 133 circa, erano maggiori rispetto alle attuali: la cospicua riduzione risale credibilmente al XIX secolo, e, ora che dell’opera è in corso il restauro, è risultata comprovata dal fatto che la catena d’oro del ventaglio risulta brutalmente interrotta dal margine inferiore della tela. Sulla base di questi elementi, è anche ipotizzabile che il Ritratto in origine potesse essere addirittura a figura intera, cioè in grande formato: con questo taglio risulterebbero ancor più evidenti gli influssi vandyckiani già rimarcati da Christiansen. Più problematico è invece al momento attuale giudicare il dipinto in termini stilistici, giacché il restauro, condotto da Franca Carboni ma avviato da poco quando si licenziano queste righe, implicando le operazioni conservative più consuete (la foderatura, che ha provveduto al consolidamento della pellicola pittorica decoesa dal supporto e molto “vetrosa”, ovvero priva di elasticità, e la rimozione della

vernice alterata, che offuscava la leggibilità e la cromia dei pigmenti), ha messo in luce una notevole disomogeneità degli strati pittorici. Come ha segnalato la stessa restauratrice, che ringrazio per la disponibilità, sotto la vernice si sono rilevate più ridipinture di natura e di epoca diversa: in particolare la materia dello sfondo e della veste è da attribuirsi a un intervento più recente rispetto a quello degli incarnati, la cui materia appare maggiormente cristallizzata. Tuttavia proprio sugli incarnati e in corrispondenza del guanto che riveste la mano sinistra della dama appaiono con chiarezza due strati pittorici sovrapposti, nessuno dei quali comunque coerente a quello dello sfondo e della veste e la natura dei quali potrà essere verificata solo in seguito a un’analisi scientifica (radiografia e stratigrafia). Resta quindi per ora da capire se lo strato più profondo visibile al microscopio nei solchi della crettatura dell’incarnato debba interpretarsi come un livello cromatico preparatorio al colore definitivo. I dubbi circa l’originalità della materia superficiale sono incrementati dall’emergere in corrispondenza del décolleté di uno strato bruno che sembra più pertinente alla preparazione che non a una cromia finita. L’impegno di un intervento di rimozione delle presunte ridipinture, congiuntamente ai limiti di tempo imposti alla conclusione del restauro, ha escluso, d’accordo con la Soprintendenza, che si potesse andare oltre le operazioni sopra descritte; nel contempo sono state predisposte le analisi scientifiche di cui si è detto. Pur non mettendo in discussione l’originaria autografia di Artemisia Gentileschi, evidente nell’impostazione e nel carattere dell’effigie, e sancita dai documenti più antichi e dalla critica moderna, non è al momento precisabile se quanto di ciò che si vede spetti per intero all’artista, potendosi perfino ipotizzare che il dipinto, lasciato incompiuto, sia stato terminato da altri. I risultati delle analisi che aiuteranno a comprendere meglio la situazione saranno però disponibili solo quando il presente catalogo sarà ormai andato in stampa. Piero Boccardo

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24. Artemisia Gentileschi

Ritratto di gentiluomo (Antoine de Ville?)

————— 1626-27 circa Olio su tela, cm 204,5 x 109,2 New Bryant Collection, New York / courtesy Sperone Westwater Gallery e Marco Voena ————— Bibliografia J.W. Mann in Italian Paintings 2011, pp. 30-33.

sontuoso alfiere della ritrattistica caravaggesca a figura intera, il vivido e compiaciuto gentiluomo aggiunge un numero nuovo, per merito di Marco Voena, a quella che le fonti giurano essere stata l’autentica specialità di Artemisia, al di là di ogni riduttiva qualifica delle specifiche competenze solitamente attribuite a una “femmina” nel campo delle arti figurative. Le iniziali della pittrice sono abilmente ricamate nel pizzo pendente sul petto dell’uomo (“A”) e su quello che ne orna la manica sinistra (“G”): un’apposizione di autografia invero pleonastica, una volta registrate le parti confrontabili scoperte da indumenti. Tra quanto prodotto dai suoi contemporanei, il gran ritratto si legge perfettamente in serie con molti di quelli licenziati dall’amico Simon Vouet nel corso degli anni Venti del Seicento, ancora nei suoi anni italiani, fra Roma e Venezia, luoghi del concomitante operare di entrambi gli artisti, oppure in quelli immediatamente seguenti il suo rientro a Parigi. Dove Vouet adotta pose assai disinvolte, mostrandosi in panni di innovatore nella specialità, la Gentileschi ricorre ancora alla posa più o meno frontale, ma con l’addizione di espedienti vitali, nella ferma del fotogramma sul passo incedente del nero protagonista, il volto raggiante girato in posizione inversa, ma con lo sguardo ben posato su chi fuori campo scruta lui e la sua trascrizione in progress di qua dal cavalletto. A differenza dell’unico altro esemplare maschile finora conosciuto, quello così insigne di Bologna, datato 1622 (cat. 22), l’ambientazione è inesistente, limitata alla nuda muratura dell’atelier o camerone di posa, mentre l’ombra proiettata su pavimento e parete dalle gambe del baffuto personaggio ne è quanto mai affine. Niente affatto peregrina la posa prescelta per il braccio sinistro (col dubbio su cosa debba simbolicamente ricavarsi da quell’indice putativamente teso a indicare verso il nulla, in basso a sinistra, ma forse niente più di un manierismo); una firma di Artemisia riesce per contro la piegatura ad angolo isoscele del braccio con la mano riversa poggiata sul fianco e magnificamente vulnerata dall’ombra prodotta su di essa dal gomito.

Vorrei essere coraggioso abbastanza dall’affermare che il refrain è vecchio quasi quanto gli esordi della romana, riflettendo – difatti: specularmente – la posa di quello della magnifica giovane con ventaglio nel murale col Concerto offerto ad Apollo e alle muse nel Casino che fu del cardinale Scipione Borghese. Posteriormente, per vero anche al Ritratto qui commentato, una simile, meno radicale, flessione del braccio è offerta, sempre in inversione, dalla Clio della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa (cat. 30), sulla quale l’autrice volle lasciare la data 1632. La figurazione allegorica pertiene oramai al primo tratto della nuova vita a Napoli della Gentileschi, un luogo temporale che a Judy Mann (in Italian Paintings 2011) è sembrato, non senza ragione, da mantenersi anche per questa grande tela. Forse i caratteri del presente esemplare inducono a preferire un arretramento ai medi anni Venti, ai modi ancora elegantemente naturalistici della Roma giunta quasi al pensionamento di quei gloriosi parametri di comunicazione figurativa. Ma l’argomento per il regresso cronologico non corre sull’esclusivo binario di una pur sempre arbitraria alternativa critica, bensì su più obiettive considerazioni storiche. Dei pochi ricordi incisorî di opere smarrite della Gentileschi, ve ne è uno sul quale si è diffuso Raymond Ward Bissell (1999, pp. 226-227, fig. 102). Riguarda un personaggio eminente della Francia di quel tempo, l’architetto militare Antoine de Ville (1596-1656), il cui sembiante fissato da Jérôme David nell’incisione, dichiarata essere tratta da un originale di Artemisia, pare allo scrivente fornire dati incontrovertibili di identità col nostro personaggio. L’immagine del de Ville, cavaliere dell’ordine savoiardo dei santi Maurizio e Lazzaro (il tolosano era stato al servizio del principe Tommaso di Carignano), impreziosisce il frontespizio della prima edizione, pubblicata a Lione nel 1629, della sua opera Le fortifications du chevalier Antoine de Ville…, nella quale la cartouche che circonda il busto dell’effigiato porta la data 1627, inevitabile termine ante quem se non ad quem di questo grande prototipo di Artemisia.

Si pone immediatamente l’interrogativo di dove eventualmente il cavaliere e la pittrice possano avere avuto l’occasione di posare l’uno per l’altra. Ma qui al momento si può solo vagamente congetturare sull’estrema propaggine della stanza romana della Gentileschi, oppure sull’inizio della sua avventura veneziana (1627-29). Mancano al riguardo dati sugli spostamenti del de Ville, certamente visitabile a Torino, e chissà che per una volta mediatore dell’incontro non possa essere stato Orazio (Bissell 1999), magari da Parigi. Roberto Contini

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————— Les fortifications du chevalier Antoine de Ville tolosain, avec l’arque de la defence des places: frontespizio col Ritratto di Antoine de Ville inciso da Jérôme David in base a originale di Artemisia Gentileschi Iscrizioni: “antonivs. de. ville. tolosas aet xxxi 1627 eques st mavritii. et: lazari.” (intorno al perimetro dell’immagine); “artemisia g. p.” (a sinistra in basso); “hieron. dauid f.” (a destra). Nel sottostante cartiglio l’omaggio in versi di L. Garon: “Ni Zeuxis, ni Le docte Apelle / Ne Sçauvoient peindre Son esprit, / Son Discours mieux te Le d’escrit / Qu’il ne paroist en ce modelle. // Veux tu donc Ses Vertus apprendre, / Qui Surpassent L’art du pinceau: / Regarde en un mesme tableau / Ulysse, Minerue, Alexandre // L. Garon”. Torino, Biblioteca Reale Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

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25. Artemisia Gentileschi

Suonatrice

————— 1628-29 Olio su tela, cm 64 x 78 Iscrizioni: firmato sul castone della spilla: “a.g.r.f.” Collezione privata —————

Artemisia Gentileschi, Santa Cecilia. Roma, Galleria Spada.

riemersa dall’oblio, nel suo fugace e anonimo passaggio sul mercato dell’arte parigino, questa splendida giovane e ispirata suonatrice di liuto è stata avvicinata all’arte di Artemisia da Ugo Ruggeri, con i concordi pareri di Vincenzo Pacelli e Pierluigi Carofano. A un esame attento della tela, magistralmente pulita e liberata da vecchi e debordanti restauri da Laura Ferretti, l’evocativo ritratto è parso a Roberto Contini e a chi scrive palesemente attinente all’opera della “pittora” nella sua fase intensamente vouettiana, verso la fine del terzo decennio, quando, tra Roma e Venezia, la pittrice frequentava assiduamente il prodigioso amico francese, in uno stretto sodalizio artistico. Scoperta dalla pulitura di Laura Ferretti, la minutissima sigla potrebbe essere sciolta in“Artemisia Gentileschi Romana Fecit”; apposta sul castone della grossa spilla di bigiotteria, l’iscrizione rivelerebbe

l’autografia di questa rara figurazione musicale profana, tradizionalmente legata alla rappresentazione dei sensi. La bella ragazza è coronata di fiori, adornata d’un filo di piccole perle di vetro e vestita d’un abito corrente, con ampia camicia e scialle, o surtout, fermato dalla spilla. Ancorché vagamente pervasa degli elegantissimi ricordi di quelle grandi e idealizzate Muse dipinte in abiti “neoclassici” da Giovanni Baglione per Ferdinando Gonzaga (1620 circa), e da questi donate a Maria de’ Medici per il suo cabinet doré del palazzo del Lussemburgo (oggi deposito del Louvre al Musée des Beaux-Arts di Arras), la Suonatrice è intrisa di contemporaneità ed è il ritratto della concreta bellezza messa in posa per l’occasione. Come nell’autobiografica Suonatrice di Minneapolis datata al 1617 circa (cat. 15), lo strumento in primo piano è descritto analiticamente da un modello reale, di cui l’artista conosceva perfino il peso, toccato con maestria da mani morfologicamente molto somiglianti a quelle dell’autoritratto. Conformi al ritratto siglato, a nostro avviso dipinto a Venezia, sono anche le mani della giovanile Santa Cecilia della Galleria Spada, solitamente datata al 1610-12 e in stretto rapporto con gli affreschi della loggetta del cardinal Borghese a Montecavallo. Circa quindici anni dopo la Santa Cecilia, nella nostra cantatrice bruna sono ancora evidenti le analogie stilistiche e compositive con la santa, leggibili nei tagli di luce dall’alto, come nel trattamento delle bianche pieghe della camicia, certo più fluide e vaporose nel dipinto eseguito attorno al 1628-29, forse proprio nella città lagunare. Predilette da Artemisia, le raffigurazioni di giovani musicanti erano state da lei inaugurate, sotto la guida del padre, in quel fatidico Casino delle Muse dove la gara di bravura tra Agostino Tassi, pittore delle architetture e capo del cantiere, e l’illustre figurista Orazio, si era trasformata in faida disgraziata, e dove l’Artemisia, principale assistente alle figure, aveva dipinto le fenomenali visioni di sotto in su delle giovani musicanti. Tra le diverse suonatrici della loggetta del “cardinal padrone”, arpiste, celliste, chitarriste, violiste, e sapienti

interpreti al virginale, si scorge un’altra giovane cantatrice con liuto probabilmente ascrivibile alla stessa Artemisia che qualche tempo prima aveva inventato nella Cecilia Spada la stupefacente versione sacra delle concertiste affrescate per Scipione Borghese. Lei stessa abile suonatrice di liuto e di chitarra, Artemisia conosceva bene lo strumento e doveva probabilmente possederne più d’uno; nella perfetta ripresa dal vero, il liuto della Suonatrice qui presentata è molto simile a quello della Cecilia Spada. Come la sua più matura collega, anche la ragazza in giallo accenna al canto con gli occhi al cielo. Ma nella bella musicista veneziana la pittura di Artemisia è ormai sicura, spedita, senza incertezze: i tratti ancora acerbi dell’adolescente Cecilia hanno lasciato il posto alla sicura e compassata bellezza della bruna cantatrice. D’altra parte, le similitudini con la pittura italiana di Simon Vouet, con la Carità romana di Bayonne o con la Circoncisione di Capodimonte (1623) in particolare, sono evidenti nell’impaginazione, nella posa movimentata, nei tagli di luce, nel fondo bruno vibrato, sul quale si stagliano i capelli e i fiori freschi che adornano la testa della giovane donna. Ancora non ricostruita nei dettagli, la liaison artistica tra Artemisia e il grande francese è provata dall’evidente simpatia stilistica dimostrata dalla pittrice per le opere dell’amico. Il filtrato e preziosissimo caravaggismo di Vouet l’aveva sedotta sin dalla stesura delle grandi tele con le Storie di san Francesco dipinte da Simone nell’inverno 162324 per la cappella di Paolo Alaleoni, maestro di cerimonie del nuovo papa Barberini. Immortalata nell’attimo intenso dell’ispirazione e del canto d’amore, questa moderna seguace di Flora potrebbe forse essere un’attrice, o una musicista professionista, come quelle ingaggiate da Marco da Gagliano, maestro di cappella dei granduchi di Toscana, che il 14 ottobre 1628 inaugurava a Firenze la sua Flora, favola in musica o Natal de’ fiori, su testo del poeta di corte Andrea Salvadori. Francesco Solinas

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26. Artemisia Gentileschi

Ester e Assuero

————— 1626-29 circa Olio su tela, cm 208,3 x 273,7 New York, The Metropolitan Museum of Art, inv. 69.281, dono di Elinor Dorrance Ingersoll ————— Bibliografia Voss 1924, pp. 105-108; L. Salerno in Il Seicento europeo 1956, p. 131; Bissell 1968, p. 163; Da Costa Kaufmann 1970; Greer 1979, pp. 197-198; Garrard 1989, pp. 72-79; R. Contini in Artemisia 1991, pp. 165-169 n. 24; Spike 1991b; Bionda 1992; Bissell 1999, pp. 75-76, 241-244 n. 28; R. Spear in Orazio and Artemisia Gentileschi 2002, pp. 342, 373-377 n. 71; Borean, Cecchini 2002, p. 207.

ester e assuero (New York, Metropolitan Museum of Art) raffigura il momento culminante del Libro di Ester, quando la regina Ester si presenta, senza essere stata convocata, al cospetto del marito, il re persiano Assuero – un delitto punibile con la morte – per avvertirlo del complotto contro gli ebrei ordito dal suo ministro Aman. Debole per il digiuno cui si è sottoposta a favore del suo popolo, e timorosa della collera del re, Ester sviene non appena mette piede nella sala del trono. Invece di adirarsi, Assuero si alza immediatamente per confortarla e ascolta la sua supplica; alla fine, grazie a questo atto, il popolo ebreo sarà salvo. Il dipinto, secondo l’ipotesi più comunemente accettata, fu probabilmente concepito sul modello dell’Ester e Assuero (Parigi, Louvre) che Carlo Ridolfi riferisce essere ancora a Venezia nel 1648 (Bissell 1999, pp. 241-244, n. 28; Orazio and Artemisia Gentileschi 2001, pp. 373-377, n. 71; Spear 2001; Borean, Cecchini 2002, p. 210). Artemisia dipende da Veronese non soltanto per quanto riguarda l’assetto generale del dipinto, ma anche per l’ambientazione vagamente classica, il pavimento a riquadri, l’incombente vicinanza delle ancelle e le mani aperte, inerti di Ester. Lo stato di conservazione è diseguale; il quadro presenta tracce di ridipintura, nonché rilevanti perdite di colore nei volti di Ester e dell’ancella, il che conferisce a parte dell’incarnato uno sgradevole velo verdastro. Tuttavia, altre zone sono dipinte con una freschezza e una finezza che ricordano Artemisia al suo meglio. Per esempio, l’ancella all’estrema sinistra dà forse l’impressione più vivida dell’effetto che poteva fare il dipinto nel suo stato originario, in particolare nel gioco delicatamente modulato di luce e ombra sul suo volto e nel velo traslucido che le scende a cascata sulle spalle. I raggi X hanno rivelato le difficoltà affrontate da Artemisia nel realizzare il dipinto e, al tempo stesso, il suo coinvolgimento nell’arte veneziana. In verità, la composizione originale comprendeva numerosi tocchi tipicamente veronesiani: un paggio africano in piedi davanti alla regina, nell’atto di trattenere un cane ringhiante, nonché un cagnolino ai piedi del trono, la cui collocazione fu ripensata varie volte. Questi elementi rimasero nel

quadro fino a una fase molto avanzata: il paggio, per esempio, è così ben rifinito che è ancora visibile la luce riflessa nel bianco dei suoi occhi. In ogni caso, alla fine tutti questi elementi vennero coperti di pittura. Analogamente, Artemisia ritornò più volte sulla posizione del trono del re e della pedana su cui esso è collocato, ma non riuscì a sviluppare uno schema prospettico interamente coerente. Si direbbe quindi che la pittrice avesse concepito Ester come una istoria su grande scala secondo il modello veronesiano, piena di personaggi e di particolari secondari, ma, come Caravaggio (e a dire il vero come suo padre), non fu forse in grado di realizzarla e così decise di ripiegare su uno schema che le era più familiare, ossia la contrapposizione drammatica di due gruppi di figure. In questo caso, però, tale soluzione lasciava uno spazio vuoto alquanto insoddisfacente al centro della composizione, tanto che si è ragionevolmente dubitato della compiutezza dell’opera. Considerato lo stato di conservazione non omogeneo del dipinto, è difficile proporne una datazione: le ipotesi variano dal 1625 circa ai primi anni del decennio successivo. La dipendenza da Veronese – fino ad allora senza precedenti nell’opera di Artemisia –, in concomitanza con l’accenno, nuovo, di idealismo postcaravaggesco, fa pensare a origini veneziane, ossia a un terminus post quem verso la fine del 1626. Per di più, il dipinto appare solo minimamente correlato alle prime opere napoletane dell’artista, come l’Annunciazione (1630) e la Clio (1632), caratterizzate da pennellate fluide, morbido chiaroscuro, sfondi neri come l’inchiostro. Pertanto, è probabile che il quadro sia stato eseguito a Venezia tra il 1626 e il 1629. Nonostante il suo debito veneziano, Artemisia si scosta significativamente da Veronese. Come argomenta Mary Garrard, il dipinto capovolge le tradizionali rappresentazioni del rapporto tra il re e la regina (Garrard 1989, pp. 74-79). Veronese, per esempio, segue lo schema tradizionale – e il testo apocrifo – presentando Assuero come un impassibile despota orientale, “scintillante d’oro e pietre preziose: una visione imponente”; Artemisia, invece, lo raffigura giovane e senza barba, con gli occhi spalancati

dallo stupore. Inoltre, invece di indossare un abito regale di tipo orientale, egli è vestito come un dandy, in un costume antiquato completato da un cappello piumato sormontato dalla corona, stivali tempestati di gemme e una sciarpa purpurea guarnita d’oro. Gli elementi che non sono totalmente inventati sono caratteristici della seconda metà del XVI secolo; quando un abbigliamento del genere compare nel teatro o nell’arte del Seicento, è quasi sempre in un contesto comico, ed è presentato come azzimato e démodé. (Orgel, Strong 1973, II, fig. 361; analogamente, in un anti-masque, o intermezzo comico, intitolato For the Honour of Wales, Ben Jonson si ispirò per i suoi danzatori gallesi a stampe tedesche cinquecentesche, usando “costumi arcaici per dare l’impressione che il Galles fosse un posto retrogrado “: Orgel, Strong 1973, I, pp. 292-293, fig. 94, II, figg. 369370; un simile espediente è usato anche nella Bottega del macellaio di Carracci, Oxford, in cui l’abbigliamento antiquato e la posa contorta del cliente all’estrema sinistra vogliono ridicolizzare un modo di dipingere goffo e sorpassato.) In altre parole, l’Assuero di Artemisia è molto diverso dal temibile sovrano delle rappresentazioni tradizionali. La regina Ester e le sue ancelle, viceversa, mantengono una dignità conforme a quella di altre raffigurazioni dell’episodio, tra cui quella di Veronese. Pertanto si direbbe che Artemisia prenda gentilmente in giro il re, mostrando una sorta di scherzosa irriverenza. Questo bizzarro trattamento è in linea con l’atteggiamento dei letterati che aveva conosciuto a Venezia, come Giovan Francesco Loredan, anche loro interessati alla tematica dei ruoli di genere. (Sul rapporto tra Loredan e Artemisia, Ivanoff 1965, p. 188; Bissell 1999, pp. 165-166; su Loredan, sull’Accademia degli Incogniti e su altri pittori attivi a Venezia, Valone 1982; Ruggeri 1993, pp. 40-42; Aikema 1990, in particolare cap. 5; Lemoine 2007, pp. 137-152; per l’attrazione esercitata dalle donne potenti del passato sulla Venezia del Seicento, Miato 1998; Heller 2003, pp. 50-57, 75-77.) In ogni caso, Ester e Assuero è un dipinto affascinante e sottovalutato nell’opera di Artemisia, e attesta il passaggio dal caravaggismo dei suoi anni giovanili all’idealismo della maturità. Jesse Locker (Traduzione Arianna Ghilardotti)

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27. Artemisia Gentileschi

Maddalena

————— 1630 circa Olio su tela, cm 100 x 73 Sorrento, Museo Correale di Terranova, inv. 2925 ————— Bibliografia R. Contini in Artemisia 1991, pp. 166 fig. 94, 169 (entro n. 24); Bissell 1999, pp. 339-340 n. X-34, fig. 236; Lattuada 2009, pp. 81 con fig. 3, 82, 95 note 5-6.

pudicissima peccatrice contadina, manica arrotolata su avambraccio di travertino, l’oliva dell’abito una misura meno del necessario. Il rame della libera chioma sfila sul mantello rosa antico, pizzicato sulla costa nel più tipico dei vezzi di Artemisia napoletana, per risorgere sullo scranno petroso – dove la donna s’incastra con l’inguine –, intaccandone la spalla; una ciocca biforcando viperina sul dorso della mano. L’espiazione di Maddalena riflessa ahimè su supporto e pellicola pittorica, come provato dal recente restauro provocato da Riccardo Lattuada (2009), il quasi ignoto dipinto resiste tuttavia a ogni ingiuria per le riserve – in potenza – di terrena vitalità, espresse in moderato dispiego di risorse cromatiche e tuttavia in sobrietà affatto accattivante. Arditamente assicurata alla Gentileschi (R. Contini in Artemisia 1991) sulla base vacillante di una foto del Kunsthistorisches Institut di Firenze che dichiarava la santa pertinente alla collezione napoletana Matarazzo Cascianelli e opera di Massimo Stanzione, la tela è stata scovata nella sua attuale collocazione sorrentina dal Lattuada, che ne ha appoggiato la nuova paternità, facendo giustizia dell’intercorsa, impropria assegnazione a Antiveduto Gramatica (Bissell 1999). Certamente contestuale allo stile di Artemisia nei primi anni Trenta del Seicento, ancora fragrante del naturalismo romano della decade immediatamente pregressa, la Maddalena si salda come meglio non si potrebbe al canone fisionomico reclamizzato dalla regina Ester nel telero oggi al Metropolitan Museum (cat. 26), in uno scorcio di tre quarti del viso, palpebre abbassate, d’inconfondibile marchiatura. Tuttavia, il poco cavalleresco insistere sul rilassamento muscolare tanto delle gonfie gote quanto del triplice mento parla ancora delle attrici romane dei quadri di Artemisia, aggregatesi attorno al formidabile archetipo della Giuditta degli Uffizi. Inesorabile chiamare in correità la temibile Salomè della discussa pittura dello Szépmüvészeti Múzeum di Budapest (G. Papi in Artemisia 1991), nonché il Ritratto di dama con ventaglio di collezione privata (cat. 23), a

dispetto delle remore nel giudizio imposte dallo stato di consunzione del brillante ritratto. È in altre parole ben viva in questa Maddalena la sovrapposizione di un enunciato formale tipico del primo tempo napoletano dell’artista sullo scheletro – come dire – bene in carne di un’accessione volentieri ripetuta negli anni trascorsi nuovamente in patria dalla figlia di Orazio tra il 1620 e il 1627, non senza il pleonastico avviso che lo stereotipo femminile reimpiegato conserva anche una qualche congruità col tanto più generico repertorio paterno. L’inclinazione a prodursi in repertori di volti scorciati, di tre quarti, in prospettiva ascendente, in sotto in su estremi, se per prudenza dovrà leggersi quale costituente di un DNA famigliare, passato il guado della political correctness non può che far strapendere il piatto della bilancia a vantaggio di Artemisia. Tali esperimenti, rimontando evidentemente a data antica quanto il 1611 delle pitture murali del Casino delle Muse, dove si ammirerebbe una sorta di preistoria della figlia, oppure una virata icastica del ben più compassato genitore, si suturano a una delle grandi assenti a questa mostra milanese, la Cleopatra di collezione privata milanese. Non mettendo più conto ripetere le difficoltà critiche – sostanzialmente in stallo – scatenate da tale superba pittura, sulla quale il catalogo non è davvero avaro di discussione, si chiederà piuttosto al lettore di auscultare le proprietà eventualmente gentileschiane di un seducente, strapazzato Studio di giovane addormentato, olio su carta di privata collezione (cm 32,5 x 24,5), rivelato agli studi da Nicholas Turner quale autografo di Annibale Carracci e per ipotesi rivelatore del sembiante dell’allievo Baldassarre Aloisi, il Galanino (Turner 2000, pp. 75, 76 fig. 1). Punto dolentissimo delle investigazioni gentileschiane è, come arcinoto, la singolare vacanza di ogni esercizio grafico, attività della quale si tenderebbe a offrire cospicua apertura di credito tanto al padre – nel silenzio è precipitata la proposta dello scrivente (R. Contini in Artemisia 1991, pp. 103 con fig. 75, 105) riguardo a un foglio del Louvre – quanto alla figlia, ivi compresi

bozzetti di qualunque tecnica e supporto. Sopravvivono onesta documentazione per lo zio di Artemisia, Aurelio Lomi, e una limitatissima produzione di piccoli formati, su tavola e rame, per fratello e nipote, teoricamente ampliabile sulla fede delle referenze di fonti e inventari di collezione. Ma questo putativo “Galanino” mi pare segnare, se non un’illuminazione – certamente troppo arbitraria – su questo compartimento così caparbiamente occultato nell’opera di padre e figlia, almeno una fonte cui eventualmente addebitare le scelte formali della Cleopatra di collezione privata milanese e della Danae del Saint Louis Art Museum (cat. 19). Roberto Contini

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28. Artemisia Gentileschi

Maddalena

————— 1630 circa Olio su tela, cm 65,7 x 50,8 Los Angeles, Rita R.R. and Marc A. Seidner Collection ————— Bibliografia Bissell 1999, pp. 208-209 n. 9; Mormando 1999, pp. 119-120; Papi 2000, pp. 450-452; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 395-397 n. 73.

identificata da Burton Fredericksen e per primo pubblicata dal Bissell (1999), questa Maddalena penitente a mezzo busto, a stento piegata alla misura della tela che la imprigiona, parla – come ineccepibilmente dimostrato dalla Mann (in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001) – il medesimo icastico vernacolo dell’Annunciazione napoletana del 1630, ponendosi senza dubbio ad apripista del nuovo corso geografico di Artemisia. Ben vive sono qui le suggestioni romane decantate dal secondo soggiorno della Gentileschi nel terzo decennio del Seicento, i cui inizi sostengono la determinata, esplosiva Giuditta degli Uffizi, epitome di atletica attitudine, debito preliminare all’implosa Maddalena qui discussa. Il punto cromatico della veste dorata coincide con quello del grand’abito da cerimonia indossato dalla Ester del Metropolitan Museum (cat. 26), ancor più palpabile e soda mostrandosi la spessa sostanza della manica destra, esibita con grande perspicacia dalla Gentileschi nel carminio della foderatura. Quelle mani contadine, energiche, fortissime, sono della medesima specie di quelle di cui è dotata la serva Abra nel notturno romano (sul 1625) di Detroit, ma trascritte in termini ancor più plastici. Sono accenti formali ancora affatto caravaggeschi, come si potevano discernere nei più rotondi dei manfrediani, e non senza – una volta di più – unità di vedute con Simon Vouet. Donne di questa taglia popolano il mondo figurato di Nicolas Régnier, a Roma in quei medesimi anni e ai medesimi recapiti rionali della Gentileschi e del cospicuo collega parigino. Non so cosa meglio della truffaldina giocatrice al centro dei Giocatori di carte di Budapest, vetta del Régnier nell’Urbe sul 1622-23, possa documentare i reciproci reflussi dai cataloghi dei nominati artisti. Allo stesso modo in cui – silhouette più controllata – a confronto della nostra Maddalena legittimamente si propone l’incoronata personificazione della Memoria nella famosa tela del Vouet alla Pinacoteca Capitolina, ma piuttosto per le analogie specifiche dei volti e – nella metà sinistra

di questi – per gli analoghi effetti di corrosione luministica. Anche al cospetto del Régnier già edulcorato dall’iniziata fase veneziana – condivisa, non scordiamolo, fino al 1629 con la Gentileschi – la matrona Seidner certo non sfigurerebbe, e anzi volentieri la fantasticheremmo in serie con le allegorie commissionate al pittore di Maubeuge dalla corte sabauda (sovrapporte nella Galleria di Daniele in Palazzo Reale a Torino, del 1626, tra cui particolarmente significativa quella allusiva della Vanità), se non anche partecipe dell’opulenza della sua omologa nel Martin-von-Wagner Museum dell’Università di Würzburg. Clausole che Artemisia porta in dotazione alla compagine napoletana, selezionando i tutto sommato freschi ricordi dello stile romano anni Venti, alimentato in tale variante, a esser stretti esuberante, da un collega spesso scambiato con la figlia di Orazio Lomi, quale Antiveduto Gramatica, e da un toscano virato in quel decennio verso un naturalismo stereoscopico e dalle drammatiche partiture luministiche: il senese Rutilio Manetti. Le protagoniste, ma non meno parecchie delle comprimarie nel cast divulgato – ahimè, sovente con monotonia – dal Gramatica, osservanti un canone abbondante, parallelo alle scelte figurative di Artemisia e non a caso spesso portatole erroneamente in dote (l’omologa al sepolcro di Cristo dell’Ermitage), possono riassumersi nella Vergine dell’Adorazione dei pastori in San Giacomo in Augusta, senza meno uno dei pezzi più pregevoli di Antiveduto, canto del cigno del romano di nascita ma senese di stirpe, scomparso di lì a poco, nel 1626. L’anno che precede il trasloco della Gentileschi in Laguna. Roberto Contini

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29. Artemisia Gentileschi

Allegoria della Fama

————— 1630-35 circa Olio su tela, cm 57,5 x 51,5 Robilant+Voena, Londra-Milano ————— Bibliografia Papi 2000, pp. 450-453.

mirabile nell’epitome di supponenza che ne è l’espressione, il busto allegorico della Fama, il cui attributo musicale a fiato, liscia sommità d’ottone, luccica nel quadrante destro del dipinto, in basso, è integrazione relativamente recente al catalogo di Artemisia (Papi 2000). Certamente da accludere al comparto napoletano della produzione della Gentileschi – con attacchi convincenti alla Musa Clio (cat. 30), della quale la piccola tela condivide il punto di rosso dell’abito, in parte all’Ester e Assuero newyorkese (cat. 26), nonché al “trittico” di Pozzuoli (cat. 37, 38) –, limitatamente alle coordinate fisionomiche i riflessi determinanti su di essa sono però da cogliere nel quartetto muliebre della Nascita del Battista al Prado (cat. 31) e in ispecie in quell’ancella stante, pronta a fornire rinforzi all’igiene del neonato. La mezza figura della Fama è dunque con forte probabilità opera del primo tempo della Gentileschi nella metropoli mediterranea e nondimeno quanto mai evocatrice delle variegate costituenti lo stile romano della decade precedente, di cui la pittrice fu attiva partecipante. Non si osserva alcunché di insolito nel richiamare i modi di un mattatore quale Simon Vouet: tanto intima ne fu l’intesa professionale con la poco più giovane figlia di Orazio, da stingere spesso l’opera dell’uno in quella dell’altra e senza che Artemisia figuri necessariamente quale alter-ego a scartamento ridotto rispetto al collega parigino. Partiture luministiche abbacinanti, snobistico sussiego, sono segni distintivi di entrambi, che – per la parte del Vouet a Roma – terremo a identificare nella formalmente sovrapponibile Maddalena del Quirinale, tavoletta di dimensioni affini (cm 63 x 49) al dipinto qui commentato, nell’Erodiade della Galleria Nazionale d’Arte Antica a Palazzo Corsini e – entro il ciclo capitale del francese nell’Urbe, ossia le tele della cappella Alaleoni in San Lorenzo in Lucina – nel chierico perso nel fondo a destra nella Vestizione di san Francesco. Peraltro le affinità col Vouet sono l’autentico fil rouge dell’Artemisia anni Venti, moltiplicandosi oltre l’avventura romana,

incitando anzi a volgere lo sguardo alle pitture lasciate dal francese a Genova, dal David di Palazzo Bianco alla Crocifissione del Gesù, estraendo da quest’ultima il san Giovanni Evangelista, per tacere di infinite altre, sul tipo del Ritratto di Virginia da Vezzo come Maddalena (Los Angeles, County Museum of Art). Inevitabile, a spostarsi nei territori autografi della pittrice, evocare la pièce de résistance di Artemisia a Roma, la Giuditta che si fa schermo della candela, a Detroit. Giurare sul piedistallo temporale sul quale erigere questa preziosa piccola mitologia è ancora iniziativa ad alto rischio, tant’è che, se gli indizi accumulati porterebbero a orientarsi sugli anni finali romani o – autentico salto nell’ignoto – veneziani, non si dovrà tacere delle analogie con la migliore delle opere napoletane, la Corisca astutamente opponentesi alla cupidigia del satiro (cat. 39), analogie acute tanto nei termini fisionomici quanto nell’accensione cromatica del rosso mantello. Con la trascrizione figurativa del raro episodio del Pastor Fido guariniano, Artemisia ci oppone un referente, la cui datazione oscilla ancora tra la prima e la seconda delle sue fasi partenopee, ovvero tra il quarto e il quinto decennio del Seicento. Lo scrupolo inerente l’eventuale datazione più tarda della trascrizione allegorica della Galleria Voena, entro cioè la decade postlondinese, è tenuto – per vero dire stentatamente – vivo dalla percentuale di “orazismi” contenuta nella tipologia vagamente anodina della donna, giusto sulla falsariga, se non norma, del Gentileschi franco-britannico (l’Apollo dormiente circondato dalle muse, già in collezione di New York, ne è il più tipico dei paralleli). Non saprei dire tuttavia se le conseguenze da trarre da questo fragile argomento autorizzino il postulare un’esecuzione contestuale oppure immediatamente susseguente al soggiorno a Londra di Artemisia, sul 1640 o giù di lì. Anche forzandoci a riguardare la parata di figurazioni allegoriche di Marlborough House (traslatevi dalla Queen’s House di Greenwich), testamento figurativo di Orazio completato nel 1638, ogni possibile liceità

comparativa è sottesa per una volta alla sperequazione di qualità, a tutto detrimento del padre. È beninteso da escludere l’identificazione della mezza figura in discussione con la pittura di medesimo tema inventariata tra il 1637 e il 1639 nelle collezioni reali inglesi conservate nel Palazzo di Whitehall da Abraham van der Noort (in Millar 1960, pp. 46, 203). La donna allegorica della Fama vi è difatti descritta in vesti blu, una tromba nella sinistra, una penna nella destra e con misure ben superiori, cm 99 x 74 (cfr. Bissell 1999, p. 367 n. 30). Un accomodamento nella tratta cronologica 1630-35 dell’Allegoria Voena offre al momento indubbiamente maggiori garanzie. Roberto Contini

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30. Artemisia Gentileschi

Clio, musa della Storia

————— 1632 Olio su tela, cm 127,5 x 97,5 Iscrizioni: firmato e datato sul libro a sinistra: “[1]632 / artemisia / [f]aciebat / all illu.te m. / sme.ro frosier[s]” Blu, Palazzo d’Arte e Cultura, Pisa / Proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa, inv. P 16 ————— Bibliografia Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 267-268, 400-402 n. 75; Italian Women Artists 2007, p. 212, n. 49; B. Moreschini in Palazzo Blu 2010, p. 87, n. 16.

l’opera qui esposta, redatta negli anni Trenta del secolo durante il soggiorno napoletano della Gentileschi, esula dal più noto repertorio dell’artista, impostasi fino ad allora all’attenzione della critica d’arte più avveduta dell’epoca soprattutto come autrice di narrazioni intensamente drammatiche, le cui protagoniste erano state sovente opulente e passionali eroine. La figura femminile occupa la campitura spaziale con classica e ponderata compostezza, una mano appoggiata sul fianco; con fare spavaldo e al contempo regale porta i propri parerga – la corona d’alloro simbolo di immortalità e la tromba, simbolo della Fama, sorretta con la mano destra – indossando vesti lussuose non tanto nella foggia, che anzi è piuttosto sobria, quanto nei materiali: l’artista, ancora memore della trascorsa e non lontana esperienza fiorentina, si spende soprattutto nel modo di trattare la consistenza materica delle stoffe, che risulta tuttavia scaldato da un calibrato uso della fonte luminosa capace di assicurare i trapassi chiaroscurali, evitando bruschi sbalzi tonali. Quanto al personaggio il cui nome compare inciso nelle pagine del libro, è probabile che si tratti di un François Rosières, consigliere della potente famiglia dei Guisa, duchi di Lorena, per i quali nel 1580 aveva composto con intento adulatorio una sorta di storia genealogica (gli Stemmata Lotharingiae ac Barri Ducum) nella quale, sulla base di documenti falsificati, avallava la discendenza dei propri protettori nientemeno che da Carlo Magno; il Rosières, suscitato il disappunto del re Enrico III, era stato fatto rinchiudere dal sovrano, fino al 1583, nella Bastiglia, da cui era uscito solo per intercessione del duca di Guisa. A un quarto di secolo dalla morte del Rosières, il quarto duca di Guisa, Carlo di Lorena – autorevole personaggio per il quale sappiamo Artemisia aveva lavorato (in una lettera a Galileo, datata 1635, la pittrice ricorda di aver ricevuto duecento piastre per un dipinto) –, potrebbe aver commissionato questo dipinto per commemorarne la figura e la fedeltà, ma anche per sottolineare la propria posizione di esiliato (a Firenze) per cause sfavorevoli, dato che egli stesso aveva

sperimentato l’avversione dei potenti, perdendo il favore del re Luigi XIII e del cardinale Richelieu. A ciò si aggiunga l’intento non secondario di scegliere come latrice del proprio messaggio ai posteri una artista che era risaputo essere stata al centro di violenti e all’epoca clamorosi fatti giudiziari: chi, dunque, meglio di Artemisia avrebbe potuto effigiare la personificazione della speranza nel futuro e del tempo “galantuomo” per i più deboli? Il dipinto, originariamente conosciuto come La Fama, rappresentava anche questa figura allegorica, come dimostra il rinvenimento, dopo l’ultima pulitura, di tracce di “ali” (attributo generalmente associato alla Fama) in corrispondenza delle spalle. La tromba, invece, era una caratteristica comune sia alla Fama sia alla musa della Storia. Il libro, attributo dirimente in questo caso, compare aperto se la protagonista è la Fama, chiuso se la protagonista è Clio. Sembrerebbe, quindi, che il soggetto sia stato modificato in itinere, operando una sorta di licenza figurativa, eliminando le ali e mantenendo aperto il libro anche per la Storia. In questo modo era possibile, peraltro, assicurare all’eternità non solo il nome del dedicatario Rosières ma anche e soprattutto quello dell’autrice, Artemisia, che compare in caratteri ben evidenti. Segno, questo, di una profonda autostima da parte della pittrice, consapevole di essere riuscita, come poche altre e anzi in misura assai più rilevante, a imporsi sulla scena europea come professionista dell’arte nonostante le pesanti convenzioni sociali dell’epoca. Benedetta Moreschini

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31. Artemisia Gentileschi

Nascita di san Giovanni Battista

————— 1635 circa Olio su tela, cm 184 x 258 Iscrizioni: firmato su un cartiglio in basso a sinistra: “artemitia gintiles[chi]” Madrid, Museo Nacional del Prado, inv. P00149 ————— Bibliografia Testamentaría 1701 ed. 1981; Fuda 1989, pp. 170-171; Vannugli 1989b; Vannugli 1994; Bissell 1999, p. 249; Lattuada 2002; Úbeda de los Cobos 2005; Finaldi 2007, pp. 754-755; Mann 2009.

il 20 luglio 1635 la stessa Artemisia comunicava da Napoli a Ferdinando II de’ Medici, granduca di Toscana: “mi trovo in Napoli al servitio di questo viceré [il duca di Monterrey], per dar fine ad alchune opere comingiate per S.M. Cattolica” (Fuda 1989, pp. 170-171). Il presente dipinto doveva far parte di quella commissione, sicuramente destinata al Palazzo del Buen Retiro di Madrid, inaugurato appena un anno e mezzo prima; e in effetti in quella sede fu visto da Lázaro Díaz del Valle, che lo definì “cosa excelente” (1657-1659, p. 250). Come si può dedurre dalla Testamentaría (inventario) compilata a seguito della morte di Carlo II (1700; il volume riguardante il Buen Retiro fu redatto nel 1701), la tela faceva parte di un gruppo di sei quadri che raffiguravano scene della vita di san Giovanni Battista. Di questi, quattro erano opera di Massimo Stanzione (Annuncio della nascita del Battista a Zaccaria; Il Battista si congeda dai genitori; Predicazione del Battista nel deserto; La decollazione di san Giovanni Battista, ora tutti al Prado, inv. P256, P291, P257 e 258); uno, perduto, di Paolo Finoglio (La prigione di san Giovanni Battista) e l’ultimo, appunto, di Artemisia. Come per buona parte dei dipinti commissionati per la nuova residenza del monarca spagnolo Filippo IV, alcuni dettagli rilevanti, come la datazione o la collocazione originale, sono oggetto di controversia. Il recente restauro del quadro e la sua analisi nel contesto della decorazione del palazzo permettono di formulare nuove ipotesi. Innanzitutto, la data comunemente accettata (1633-34) appare troppo precoce se si tiene conto dei ritmi e delle modalità della decorazione del Retiro (Bissell 1999, p. 249). In effetti, non c’è traccia di commissioni italiane anteriori al 1635, e tutta la documentazione relativa all’acquisizione di beni suntuari precedente a quella data si riferisce ad acquisti o donazioni spagnole (Úbeda de los Cobos 2005). La stessa pittrice lo conferma nella succitata lettera al granduca di Toscana, in cui rivela che nel luglio del 1635 stava lavorando a un numero imprecisato di dipinti per il sovrano spagnolo, di cui purtroppo ci è noto solo quello qui in esame.

Un’altra questione che è stata ampiamente dibattuta riguarda la collocazione originaria del quadro. La prima notizia relativa alla sua ubicazione indica che tutto il gruppo si trovava nel Palazzo del Retiro nel 1701. Antonio Vannugli ha ipotizzato, prima nel 1989 e poi ancora nel 1994, che il dipinto fosse destinato a uno degli eremi situati nei giardini del palazzo, nello specifico quello dedicato a san Giovanni, per la cappella omonima (Vannugli 1989b, p. 33), oppure a “un ambiente di studio” (Vannugli 1994, p. 69). Secondo la sua argomentazione, le tele – come conseguenza della caduta del conteduca di Olivares nel 1643, o in una data successiva – “a motivo della loro qualità” (Vannugli 1989b, p. 33), furono trasferite a palazzo, dove la coerenza originaria dell’insieme si perse. Benché non esista alcuna testimonianza storica a suffragio di tale affermazione, l’ipotesi di Vannugli è stata accettata da tutti gli studiosi che si sono occupati di questo gruppo di quadri. Il rigore dell’analisi di Vannugli parla a favore della validità della sua tesi; tuttavia, vari sono gli argomenti che le si oppongono e che inducono ad abbandonarla. In primo luogo, se il motivo per cui i dipinti furono trasferiti a palazzo fu la loro alta qualità, a maggior ragione si sarebbe dovuto traslocare il più prezioso del gruppo, ossia San Giovanni Battista nel deserto di Jacopo Tintoretto (perduto), valutato 200 dobloni (Testamentaría 1701 ed. 1981, p. 346), rispetto ai 70 del quadro di Artemisia: ora, nel 1701 la tela del Tintoretto risulta ancora ubicata nell’eremo di San Giovanni. In effetti, dalla Testamentaría si desume che nel 1701 un certo numero di dipinti si trovava in un importante contesto religioso; essi vi sono descritti con un certo ordine, insieme ai relativi sovraporta (Testamentaría 1701 ed. 1981, pp. 312, 314, nn. 446-470). Infine, Gabriele Finaldi ha identificato un’altra serie di quattro dipinti dedicati alla vita del Battista, realizzata da Alessandro Turchi; sulla base degli stessi argomenti, è plausibile supporre che fossero queste le tele che ornavano le pareti della cappella dell’eremo di San Giovanni (Finaldi 2007, pp. 754-755). Il recente restauro ha evidenziato il

precario stato di conservazione del quadro. Oltre a una notevole alterazione dei pigmenti, sono presenti lacune irreversibili nei volti di due delle tre donne intente alla cura del neonato, in primo piano. La tela fu ampliata lungo la parte inferiore e sinistra, apparentemente da un’altra mano, meno abile di quella di Artemisia; tale ampliamento esisteva già nel 1701. Si tratta di un dato importante, che potrebbe giustificare i dubbi sulla cronologia del dipinto; si può comunque anche avanzare l’ipotesi che la pittrice abbia utilizzato un dipinto già ultimato, che fu ampliato per adattarlo alle misure richieste da Madrid e in questo modo inserito nella commissione del Retiro. Andrés Úbeda de los Cobos (Traduzione Arianna Ghilardotti)

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32. Artemisia Gentileschi

Cleopatra

————— 1635 circa Olio su tela, cm 117 x 175,5 Collezione privata ————— Bibliografia M. Gregori in Civiltà del Seicento a Napoli 1984, p. 306 cat. 2.115; Grabski 1985, pp. 56-63; Garrard 1989, pp. 105-106, 108, 274-276, tav. 17; Contini 1991, pp. 70, 73 fig. 59, 85 note 30-31; Stolzenwald 1991, pp. 41, 52-53, fig. 38; F. Bologna in Battistello Caracciolo 1991, p. 180 nota 303; Causa 1993, p. 27; Bissell 1999, pp. 230-231 n. 22, tav. XV; R. Lattuada in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 399, 402-404 n. 1.61; Christiansen 2004, p. 121; Garrard 2005, pp. 110, 111 fig. 20; Lattuada, Nappi 2005, pp. 93, 94 con fig. 22, 96 nota 37; B. Daprà in Ritorno al barocco 2009, p. 147 n. 1.61.

pur sempre nei confini della scuola napoletana, l’attribuzione di questo spettacolare nudo femminile giacente è afflitto tuttora da sussulti di controversia. Stimata opera dello Stanzione, la Cleopatra fu dirottata in grembo alla Gentileschi da Mina Gregori (in Civiltà del Seicento a Napoli 1984), con unanime consenso, al quale in un secondo tempo si sottrasse il Bologna (in Battistello Caracciolo 1991), beneficiandone uno scolaro della pittrice, Onofrio Palumbo, addenda che ne costituirebbe la prova di gran lunga più rilevante. Il punto di vista di Bologna è stato poi accolto da Stefano Causa (1993), ma respinto – ineccepibilmente, anche per conto dello scrivente – da parte di Riccardo Lattuada (in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, ma si veda anche Lattuada, Nappi 2005 per una compartecipazione del Palumbo) e, ultimamente, da Brigitte Daprà (in Ritorno al barocco 2009). L’evidenza dell’annessione al primo periodo trascorso dalla Gentileschi nella città del Golfo poggia certamente sul terreno dal quale ebbe origine la Natività del Battista del Prado (cat. 31), e particolarmente, tenendo conto dell’ancella più prossima alla regina suicida, in chiara assimilazione di paradigma con la Maddalena penitente Seidner (cat. 28). Quel che può legittimamente denunciarsi per ingrediente anomalo nelle coordinate per definizione ballerine della pittrice – e che ha comprensibilmente suscitato l’avocazione, quale diverso responsabile, del nome per vero non così pertinente del Palumbo – è l’olivastro ovale del volto di Cleopatra, sodo, marcato, dai lineamenti a un dipresso androgini in virtù di quelle prolungate sopracciglia, e inscritto in una corona di ramata chioma, congeniale semmai al Cavallino. Artista, quest’ultimo, che sarebbe confortante saper essere stato – beninteso, come primo della classe – parimenti allievo di Artemisia. Resisteremo alla tentazione di leggere in quel volto serenamente grintoso (se mi si passa l’ossimoro) – e, in tale clausola, così prossimo al lombardo Francesco Cairo – una compartecipazione del tanto più giovane genietto partenopeo.

Non potrà neppure passare inosservato il viraggio gentile e proto-rococò di un modello di tale potenza nella Vergine della tarda Adorazione dei pastori cavalliniana di Cleveland (The Cleveland Museum of Art, Mr. And Mrs. William Marlatt Fund, monogrammata). Già ai suoi esordi, in presumibile unità di tempo col dipinto di Artemisia, Cavallino si era avvalso di fisionomia analoga in un astante dell’Incontro tra Anna e Gioachino del museo di Budapest, e non si sbaglierà a vedere ancora ben salda in trasparenza la vecchia amicizia col da tempo contumace Vouet, una sorta di rilettura della donna gesticolante sul primo piano della Circoncisione per Sant’Arcangelo a Segno (oggi a Capodimonte), del 1622. Una rilettura che mostra la romana condividere col parigino una “concezione delle ombre, che conferisce al nudo una crudezza realistica, sconosciuta a Orazio” (Gregori), del tutto tipica, per contro, del contesto napoletano. Il viso così specificamente connotato, “nell’effetto di sotto in su che inverte l’azione della luce” (Gregori), non può non richiamare la Testa del Battista deposta in un bacile, vivamente battistelliana, della Pinacoteca del Castello Sforzesco. Del resto come sottacere ulteriori collisioni col Caracciolo, per tutte col san Giovanni Evangelista (?) nel margine sinistro in primo piano della Vergine d’Ognissanti nel duomo di Stilo, documentata al 1618-19? All’origine della posa di Cleopatra si è a buon diritto indicato (fa eccezione solo il braccio destro, inarcato sopra la testa anziché steso sul grembo) l’esempio della cosiddetta Arianna dormiente, marmo romano del terzo secolo (Musei Vaticani), che nel Seicento si volle identificare giusto quale “Cleopatra” (Garrard 1989). Un referente moderno, per contro, d’ambito anzi familiare, è stato letto nella Maddalena Sauli di Orazio Gentileschi, opera dei primi anni Venti, e anche nella fiera incisione di Claude Mellan, databile al 1630 circa, ricavata da altro prototipo del padre. Non vi è ragione di porre il dipinto – pur nella quota d’ispirazione latamente giorgion-tizianesca di siffatto nudo femminino disteso – negli anni veneziani e a

maggior ragione neppure in posizione cronologica ancora più arretrata, addirittura negli anni Venti a Roma, come proposto da Bissell (1999). “Compagne di strada” della Cleopatra sono ben l’Ester scorciatissima del Metropolitan (cat. 26), se non anche la Nicea di Pozzuoli (cat. 38), sì da congelare negli anni medio-tardi del quarto decennio la nascita di questa superba pittura, sul paradigma formale della cui protagonista si fonda la Maddalena penitente in collezione privata napoletana (Asta del Barone Franco della Gulfa, Roma, Palazzo Borghese, 1 marzo 1985, lotto 986), questa sì opera del suo scolaro Onofrio Palumbo, che Bissell (1999, pp. 228-230 n. 21, fig. 111), seguendo Maurizio Marini, volle allegare al catalogo della di lui maestra, sul 1629-30. Roberto Contini

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33. Artemisia Gentileschi

Maddalena

————— 1630 circa Olio su tela, cm 100 x 96 Collezione privata, courtesy Marco Voena, Londra-Milano ————— Bibliografia Milano, vendita Finarte 125, 16 dicembre 1971, lotto 8; Milano, Galleria Algranti, s.d.; Milano, vendita Finarte 283, 27 aprile 1978, lotto 73; Contini 1991, pp. 66, 67 fig. 49, 84 nota 13; Papi 1991, pp. 53, 61 nota 77; Bissell 1999, pp. 338-339, scheda X-33.

comparsa già sotto le insegne della Gentileschi sul mercato delle aste milanese negli anni Settanta del secolo scorso, la paternità fu accolta senza riserve da Gianni Papi e dallo scrivente (in Artemisia 1991) con proposta di seriazione nel tempo tra i tardi anni Venti e i primi del decennio seguente, vale a dire agli esordi del tracciato napoletano dell’artista. Il Bissell (1999), pur ammettendo le qualità artemisiesche della tela (“no painting by any other artist offer such striking parallels”), vi legge la stilizzazione esteriore dei modi della romana e, nel vedervi caratteristiche comuni ad Angelo Caroselli – non percepite dallo scrivente –, tende a immaginare un’esecuzione da parte della figlia Palmira (per la quale vige anche la forma: Prudentia), effettivamente attestata documentariamente come pittrice all’età di circa vent’anni, assistente nell’atelier materno nel corso del quinto decennio del Seicento. Questa figlia della Gentileschi, nata nel 1619, avrebbe già avuto occasione di esportare – almeno sul piano delle intenzioni (lettera di Artemisia da Napoli ad Andrea Cioli, 11 dicembre 1635: Appendice I) – verso la platea medicea una sua prova adolescenziale, nel 1635, affiancandosi a una Santa Caterina della madre. In tutto questo più che legittimo fantasticare, non seguirei il Bissell nel vedere – pur nel comune alveo gentileschiano – identità di mano con la (o il) responsabile dell’Allegoria della Retorica (cat. 50), quella sì adamantino esempio di Arthemisiana methodus. Il manipolo di opere della Gentileschi convocate al confronto a suo tempo (1991) – Annunciazione di Capodimonte; Cleopatra (cat. 32); Allegoria della Pittura Barberini, al tempo ottimisticamente creduta suo autografo autoritratto – è stato mantenuto, con l’addizione della Betsabea in collezione Haas a Vienna, anche dallo specialista statunitense, e il prevalere di rinvii a opere del primo tempo di Artemisia a Napoli suggerisce di cercare un comodo giaciglio in tale terreno per questa quintessenza di matronale barocco. I paradigmi volitivi, austeri, che tra Firenze e Roma ebbero a caratterizzare le

varie Maddalene (di Pitti: cat. 11), Lucrezie (per esempio la magnifica tela in collezione privata milanese, per vero di ancora incerta paternità tra Orazio e Artemisia), Allegorie dell’Inclinazione, Caterine d’Alessandria (cat. 16) e Martiri vari, assumono qui enfasi aerostatica, con la denuncia al Confessore da parte della santa penitente di peccati che nel caso furono, se non esclusivamente, soprattutto di gola. Il beige dorato del gran pezzo di guardaroba (Bissell) regge il paragone col più chiaro abito della Giuditta degli Uffizi, così come l’abbandono dello sguardo a un’ispirazione non mondana è ancora quello della Santa Cecilia Spada, così da imporsi un ancoraggio mnemonico all’Artemisia romana sul 1620. Attraverso le analogie con l’aggraziata misura della silfide Ester (cat. 26), la collisione fatale – nei termini di stile e conseguentemente di registro dei tempi – cade ancora oggi col pesante angelo della pala di Capodimonte, datata 1630, e con la massa bianco-grigia delle sue maniche rimboccate di pietrificata meringa, compiutamente, sapientemente sviluppate in questa immagine della Peccatrice. Non meno seducenti di quelle celebri – e ancora adespote – della Ragazza addormentata dello Szépmüvészeti Múzeum di Budapest. Roberto Contini

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34. Artemisia Gentileschi

Cristo e la samaritana al pozzo

————— Ante 1637 Olio su tela, cm 267,5 x 206 Collezione privata ————— Bibliografia Majorca Mortillaro di Francavilla 1905, in particolare p. 90; Arcangeli 2007.

l’opera , che viene in occasione di questa mostra per la prima volta esposta al pubblico, è stata da me pubblicata nel 2007 negli Atti Barberini. Si tratta di uno dei due “quadri grandi” che Artemisia, in due lettere che scrive da Napoli nell’autunno 1637 a Cassiano dal Pozzo a Roma, intende proporre all’acquisto dei cardinali Francesco e Antonio Barberini, e per riuscire in tale operazione chiede i buoni uffici del grande conoscitore al servizio del cardinal Francesco. La pittrice nella prima delle due lettere, del 24 ottobre, confessa di aver bisogno di denaro per poter maritare sua figlia, e che conta quindi sulla vendita delle sue tele; annuncia che appena avrà la risposta invierà i quadri a Roma, assieme a un dipinto – non specificato – per monsignor Filomarino (Lorizzo 2006) e a un suo Autoritratto destinato a Cassiano stesso. La lettera successiva di Artemisia, del 24 novembre, specifica il soggetto dei dipinti che intenderebbe vendere ai fratelli Barberini; si tratta di due temi sacri, di ampie dimensioni: il maggiore, di dodici palmi d’altezza per nove di larghezza, raffigura “la Samaritana col Messia, e’ suoi dodici Apostoli, con paesi lontani e vicini, ec., ornati di molta vaghezza”; il minore “un San Gio. Battista nel deserto, di palmi nove d’altezza, e sua larghezza proporzionata”. Purtroppo non possediamo le lettere di risposta di Cassiano: il volume contenente il carteggio d’artisti di Cassiano dal Pozzo è andato disperso, e anche queste due lettere non sono note in originale, ma nella trascrizione di Giovanni Bottari (1754). Pertanto, non possiamo dire se Cassiano abbia appoggiato la richiesta di Artemisia presso i cardinali nipoti, in particolare presso il proprio diretto signore, Francesco Barberini. È però verosimile che la vendita su cui la pittrice faceva tanto affidamento non abbia mai avuto luogo: negli inventari Barberini non compare nessun dipinto che possa essere ricondotto a quelli citati da Artemisia (l’unico quadro espressamente indicato come della Gentileschi è “una dama con un amore” riportata nell’inventario del 1644 del cardinal Antonio); e d’altronde – come ne conviene Francesco Solinas – il cardinal Francesco aveva sviluppato una

sorta di guardinga avarizia, che dopo l’impresa invero molto costosa dell’edizione della Flora di Giovan Battista Ferrari (1633) lo aveva reso restio nei confronti dei progetti presentatigli da Cassiano come verso gli acquisti caldeggiati dal suo stesso consigliere artistico. Purtroppo non è stato fino a oggi rintracciato il San Giovanni Battista nel deserto, che deve aver senz’altro rappresentato un’interessante risposta di Artemisia a uno dei temi più frequentati dai pittori caravaggeschi; ma fortunatamente mi è stato possibile identificare Cristo e la samaritana al pozzo in una tela conservata in una raccolta siciliana. Sia le dimensioni combaciano sia il soggetto, descritto dall’autrice anche nei particolari (il paese in lontananza sulla sinistra, dalla cui porta, subito dietro le spalle di Cristo, escono gli apostoli); ma anche la datazione dell’opera si inserisce perfettamente nella sequenza cronologica indicata dall’anno delle lettere, 1637, che fornisce il termine ante quem. Il Cristo e la samaritana si aggancia da un lato alla Nascita del Battista per il Buen Retiro di Madrid (datato tra il 1633 e il 1635; cat. 31) e dall’altro ai dipinti per la cattedrale di Pozzuoli (situabili al 1636 o poco dopo; cat. 37, 38). È insomma un prodotto, e tra i più alti, del primo periodo napoletano dell’artista, destinato a concludersi nel 1639 con la partenza di Artemisia per l’Inghilterra. Gioverà qui sottolineare un aspetto particolarmente importante di quegli anni Trenta del secolo che vedono Artemisia attiva a Napoli. È il periodo in cui la pittrice, fino ad allora prevalentemente occupata in quadri da stanza o comunque destinati a un collezionismo privato, affronta la pala d’altare (e quindi il linguaggio della devozione pubblica). Probabilmente è questa nuova dimensione, in cui Artemisia forse non si muove completamente a suo agio, che porta l’artista verso soluzioni più composte, composizioni spesso paratattiche, scelte talvolta arcaizzanti – quando non addirittura ingessate come nel caso dei Santi Procolo e Nicea della cattedrale di Pozzuoli (cat. 38) –, le quali possono spiazzare l’osservatore e giustificare certe riserve a inserire la pittrice

tra i protagonisti tout court della ferventissima stagione che dal passaggio di Caravaggio in poi riempie le chiese di Napoli di una straordinaria serie di nuove immagini del sacro. Questo approccio meno “disinvolto” da parte della pittrice non è comunque riscontrabile nel dipinto in esame, che esula dalla destinazione specificatamente devozionale (e infatti Artemisia serbava il quadro tra quelli da proporre ai grandi collezionisti): l’effetto potente che esso comunica è incentrato soprattutto sulla formidabile figura femminile, indimenticabile sorella di tante eroine della Gentileschi, come queste caratterizzata da una pesantezza di tratti e di forme, da un pigro espandersi che cela l’energia raffrenata. Tale forza è sottolineata dallo splendido gioco cromatico, ancorché scevro delle preziosità del periodo fiorentino: uno studiato contrasto tra il bianco abbagliante della camicia, il giallo del corpetto e della gonna, il prugna cangiante della sciarpa. La forma chiusa e monumentale della samaritana si apparenta alle levatrici della Nascita del Battista di Madrid (oggi al Prado) e alla stanca Madonna dell’Adorazione dei magi per la cattedrale di Pozzuoli (oggi a Capodimonte); ma essa è anche sorella, più torpida e ferina, della Corisca nella pressoché coeva Corisca e il satiro di collezione privata (cat. 39); fino a riapparire nei lineamenti scorciati dell’Allegoria della Pittura delle Collezioni Reali inglesi, opera quasi unanimemente riconosciuta quale autoritratto. Come spesso accade nelle composizioni di Artemisia, l’immagine maschile non raggiunge la forza e la caratterizzazione dei personaggi femminili; va peraltro notato che nel Cristo seduto di fronte alla samaritana la pittrice crea una delle sue figure più ispirate, dove la ricerca di nobile spiritualità si stacca dalla fisicità così terrena della maggior parte dei protagonisti delle sue opere: quanta distanza dal lezioso Assuero dello Svenimento di Ester del Metropolitan Museum di New York, ancora legato al periodo fiorentino, che nell’immagine di giovane bellimbusto agghindato sottolinea più l’effetto di messa in posa teatrale del modello che suggerire la “terribilità” dello sguardo del re assiro! I

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classici colori dell’abbigliamento di Cristo, rosso per la veste e blu (purtroppo oggi impoverito) per il manto, costituiscono un contrappunto a quelli impiegati nella samaritana: le due figure emergono così in primo piano, contro le fronde dell’albero di quinta e della macchia davanti al paese arroccato, rese in modo veloce e sfioccato (come nel cronologicamente prossimo Miracolo di san Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, cat. 37). Mentre non sembra possano sussistere dubbi sull’identificazione del Cristo e la

samaritana col quadro offerto da Artemisia ai Barberini, rimangono ancora da chiarire le vicende dell’opera dopo il 1637. Molto probabilmente il dipinto rimase sempre nel Vicereame. Da notizie raccolte dagli attuali proprietari, sappiamo che sicuramente esso entrò nelle raccolte degli Oneto duchi di Sperlinga, forse già in quella del primo duca, Giovanni Stefano, morto nel 1680, che aveva radunato a Palermo una collezione di circa cento quadri. Quando nel 1801 il duca Saverio Oneto acquistò il palazzo poi Francavilla fuori porta Maqueda (oggi

piazza Verdi) sempre a Palermo, vi trasferì quanto rimaneva della collezione di dipinti di famiglia. Ed è lì che Luigi Majorca conte di Francavilla, erede a fine Ottocento degli Oneto e nuovo proprietario del palazzo, registra tra gli altri dipinti presenti nella galleria “il gran quadro della Samaritana al pozzo”, definendolo però “opera di Luca Giordano”: un’attribuzione, considerati i tempi (siamo nel 1905), neanche troppo peregrina. Luciano Arcangeli

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35. Artemisia Gentileschi

Dalila e Sansone

————— 1635 circa Olio su tela, cm 90 x 109,5 Collezioni Intesa Sanpaolo, Raccolta Banco di Napoli ————— Bibliografia Bissell 1968, p. 167; Szigethi 1979, pp. 36 nota 8, 42 note 20-21; R. Lattuada in Il patrimonio artistico 1984, pp. 40-43; Garrard 1989, p. 518 nota 234; R. Muzii in Capolavori 1989, pp. 30, 31 tav. colore; Bologna 1991, pp. 142 fig. 147, 162; Contini 1991, pp. 79-80, 189; G. Papi in Artemisia 1991, p. 145; Stolzenwald 1991, pp. 46, 56 fig. 41 colore; S. Schütze in Schütze, Willette 1992, pp. 26, 62 nota 62; Bissell 1999, pp. 260-261 n. 35, fig. 152.

quadro che più napoletano non si può, ma forse anche che più Artemisia a Napoli non si può, riesce niente meno che un trionfo cromatico, massimamente di blu e di viola, con la puntura rosso vivo di quel fiocco appiccato a ingentilire il camicione panna della nerboruta assistente, alla quale Dalila affida, pugno nel pugno, testimone di femminile staffetta, il frammento di chioma or ora potato dall’eroe che le si è accoccolato addosso, il capo sul di lei grembo. Se vedo giusto, tassello mai generosamente recensito dello scorcio degli anni Trenta, questo edulcorato passo di ben organizzato teatro caravaggesco si lega sia alle tele di Pozzuoli sia, nella fisionomia delle protagoniste, discendenti da una medesima modella, alla Samaritana al pozzo Barberini (cat. 34). A questo tempo converranno ancora la Betsabea irrintracciabile già in collezione privata a Halle an der Saale e la più secca versione, di studio ma raffinata, presso Patrick Matthiesen (cat. 41). Il circuito da Artemisia, alla quale la tela era per tradizione assegnata, ad Artemisia ha dovuto subire non necessarie manutenzioni, con clamorosa diversione di paternità, che oggi si dovrà registrare quale radicalmente ingiustificata, a beneficio del ligure Domenico Fiasella (F. Bologna, parere citato in R. Lattuada in Il patrimonio artistico 1984; R. Muzii in Capolavori 1989), i cui modi, nelle diverse fasi, sono sempre quanto di meno pertinente si potesse trascegliere. Considerata già poco benevolmente copia da Bissell (1968; 1999), Garrard (1989) e dalla Stolzenwald (1991), la scena biblica è stata poi assai più sensatamente dirottata sul nome di Onofrio Palumbo dal ricreduto Bologna (1991) e dal Causa (1993). È la sola pittura nota della Gentileschi dedicata al fortunato tema. Artemisia percorre la sua amabile, squillante gamma cromatica in un ben congegnato ritmo ascendente, dalla testa ancora oraziana di un brunissimo Sansone damerino, via l’appetibile décolleté di Dalila (congruo al generoso ritaglio esibito per parte sua dalla Samaritana) fino all’androgino sembiante della serva, di un medesimo ceppo col grintoso Davide d’ubicazione ignota (Papi 1996).

Non può passare inosservata la relazione di Artemisia con i modi del giovane Bernardo Cavallino, nei suoi momenti di grazia secentista hors catégorie per chiunque, ma spesso in penetrante odore di compartecipazione ad alcune opere della tanto più anziana maestra. D’accordo sul fatto che a rimetterci nel paragone non sia certo il più giovane dei due artisti, è d’altro canto impossibile non postulare un anticipo della Gentileschi, e in un certo senso dunque un suo corrispondere a carismatico modello per Cavallino. È così – per esemplificare – sulla scia della Clio (cat. 30) della romana che lo spesso tessuto della manica della Giuditta cavalliniana di Stoccolma fonderà la sua tensione evolutiva. Appena sedicenne all’anno 1632 segnato sulla tela della Cassa di Risparmio di Pisa, Cavallino avrà prodotto il proprio nobile quadro difficilmente prima del 1638-40, così da potersi implicare una qualche suggestione formale dalla Gentileschi, liberata giusto dalla composizione appartenente alla raccolta del Banco di Napoli. Centrale è naturalmente la formulazione in controparte del volto del generale Oloferne, la cui pacifica clausola di frammento rispetto al prototipo è allusiva non di riposo indotto, temporaneo, ma di fatale, irreversibile condizione. Ancor più che nel Dalila e Sansone di Artemisia, nel post factum dell’eccidio del comandante assiro, Cavallino prescinde da ogni pur minima allusione efferata. La modella è in posa, catafratta nella sua veste blu e oro, ponendo la destra su quel capo mozzato, mediata dal mirabile panno avorio; la sinistra impugna bensì l’elsa dello spadone, la lama presumibilmente non immacolata affonda però nel gorgo blu elettrico del mantello. L’interesse che il dipinto suscita è almeno duplice, in quanto illustra sì un tema di cui il catalogo attuale di Artemisia risulta altrimenti sprovvisto (senza obliterare la menzione di una sua Dalida und der schlafende Simson al numero 914 del catalogo della collezione Esterházi a Budapest del 1820: Meller 1915, p. 233; Szigethi 1979, pp. 36 nota 8, 42 note 20-21), ma vale al contempo da adeguato termometro per l’avvio di carriera del

Cavallino, che De Dominici ci racconta avvenuto nell’orbita del cavalier Massimo, ma che oggi collocheremmo piuttosto nel cono d’ombra dell’influentissima figliola di Orazio Gentileschi. Si dovesse, del molteplice fluttuare di tipi umani tra Artemisia e Cavallino, prescegliere un unico esempio, esso non può che cadere sull’ancella che sorregge la regina nell’Ester e Assuero del Cavallino in collezione privata elvetica, quadro datato da Ann Percy (in Bernardo Cavallino 1984, cat. 21) verso il 1640, certo abbondante termine ante quem per la datazione di questo Sansone e Dalila di Artemisia. Se la Gentileschi ebbe veramente ruolo esemplare per la giovane generazione dei napoletani, si potrebbe speculare sulla base del gran pezzo di commedia dell’arte che è l’Ercole e Onfale di collezione privata svizzera (1640 circa: A. Percy in Bernardo Cavallino 1984, cat. 22), in ordine all’aspetto delle tele che Artemisia aveva eseguito tanto per Filippo IV (iniziata a Venezia nel 1628, è inventariata nel 1636 nel Salón Nuevo dell’Alcázar Real) quanto per Carlo di Cárdenas conte di Acerra e marchese di Laino (Appendice II: 1636; 1699). Scomponendo invece il notissimo Trionfo di Anfitrite oggi a Washington, la parte avuta effettivamente dal Cavallino parrebbe allo scrivente da circoscrivere alla figura del sardonico tritone dal volto completamente in ombra e appena un cenno di adolescenziale peluria sul mento, all’immediata destra della nereide, nonché a quella del tritone in primo piano con tanto di baffi e barba, il cui così caratterizzato sembiante è riproposto nel massacratore di fanciulli stante a destra in una tela attribuita al Cavallino (Sotheby’s, Londra, 13 luglio 1973, lotto 80: A.T. Lurie in Bernardo Cavallino 1984, p. 118 al n. 34 e p. 186 n. 68, che aggiunge ineccepibilmente l’Eliodoro del rame del Puškin: pp. 218-219 n. 83). Roberto Contini

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36. Artemisia Gentileschi

Abbraccio tra la Giustizia e la Pace

————— 1635 circa Olio su tavola di faggio, diametro cm 25,3 Collezione privata ————— Bibliografia Inedito.

unicum nella produzione superstite della Gentileschi, la sostanza preterintenzionalmente saffica di questo dialogo in forma d’allegoria si direbbe allusiva dell’abbraccio tra la Pace (della quale, a sinistra, è descritto il solo profilo del busto, ornato di un ramoscello d’ulivo) e un’altra donna, la quale (cingendo il collo della Pace con la destra chiusa sull’impugnatura di uno spadino dalle larghe ali dell’elsa) regge o meglio appena sfiora un ulteriore attributo della compagna: quella che sembra essere una croce, sullo stoppino posto alla cui sommità arde una fiammella. Meno probabile il rinvio agli attributi della Carità, il cui traslato figurativo non prescinde, ma con maggior enfasi, da tale allusione d’ardore religioso, la somma delle attitudini delle due giovani donne ben corrisponde al pronostico espresso nei Salmi (85,12): “giustizia e pace si baceranno”. Prendendo alla larga il repertorio gentileschiano, quasi automatico è il vincolo della Giustizia, nel suo volto descritto diagonalmente, alla Giaele della tela di Budapest (cat. 17) datata 1620, quando tuttavia l’ancoraggio temporalmente più soddisfacente avviene con l’ancella a sinistra della Ester del Metropolitan Museum (cat. 26), vittima di maggiore oltranza chiaroscurale. Fuori discussione la coerenza formale col firmamento partenopeo della Gentileschi, esplicita è la congiunzione, in tale nuovo contesto geografico, coi modi di Paolo Finoglia, abbonato nella visone della critica ad analogie di stile, tali a volte da indurla a comprensibili scambi favorevoli all’artista irpino. Del pari viva è ancora a queste date l’amicizia di modi (impari di norma la qualità dei medesimi a fronte della collega) con protagonisti e comprimari operanti nell’Urbe, tali evidentemente Giovanni Baglione e Giovan Francesco Guerrieri, come se verso il primo vi fosse stata frequentazione al tempo delle pitture allegoriche Gonzaga, poi giunte nelle mani di Maria de’ Medici, e del secondo, oltre alla antica piattaforma dei murali di Palazzo Borghese, vi fosse stata cognizione – in una con i prodotti paterni – degli esercizi elargiti alla propria patria, a Fabriano e altrove.

Del Finoglia mette conto richiamare giusto il Casto Giuseppe del Fogg Art Museum di Cambridge, talvolta creduto di Artemisia, e in ordine al profilo in parziale controluce della Pace, inevitabilmente, il sembiante della consorte di Putifarre. Quanto a confronti interni al catalogo della pittrice, sarà sufficiente alludere per ambo le virtù cardinali ai volti rispettivamente dell’angelo e (manipolato) della Vergine nell’Annunciazione del 1630. E se il clima della Maddalena di Los Angeles (cat. 28) appare in qualche modo affine, addirittura cogente è il rapporto con l’ancella che schiude il tendaggio nella grande Cleopatra in orizzontale di collezione romana (cat. 32). Tutto avvisa di una cronologia nei medi anni Trenta del Seicento ed è solo a titolo statistico che si sente l’urgenza di indicare per la Giustizia l’aria familiare che sprigiona dall’assistente che sorregge lo specchio nelle tarde redazioni del tema Betsabea nella variante di Palazzo Pitti (cat. 43) e quindi di Potsdam e Gosford House, quest’ultima ahimè perduta (Pagliarulo 1996). Se infine appare arduo immaginarsi coordinate genealogiche per pittura di tale ridotta misura, ma ancora, si badi bene, nel suo formato tondo d’origine, irresistibile – proprio in virtù della rara natura del supporto – è pensarla elemento della serie ordinata oppure solo successivamente pervenuta a Pietro Mellini, nell’inventario della cui collezione romana in Palazzo Capranica, redatto con scarso acume nel 1680, compaiono tre tondi di un palmo romano circa (cm 22,5 circa) di tematiche patentemente allegoriche, ma includenti ciascuna una sola figura (specialmente evocativo, in rapporto alla nostra Pace, quello contenente una “Donna fino sotto il petto che mostra scoperto coronata di lauro”: Fernandez-Santos Ortiz-Iribas 2008, p. 519; Appendice II, sub anno 1680). Il cardinale Giovan Garzia Mellini si era distinto quale mecenate di artisti toscani nella Roma degli anni Venti e Trenta (Giovanni da San Giovanni in Santa Maria del Popolo e ai Santi Quattro Coronati), così da alimentare speculazioni su eventuali legami stretti dalla Gentileschi con tale famiglia al suo rientro da Firenze. Roberto Contini

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37. Artemisia Gentileschi

Miracolo di san Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli

————— 1635-37 Olio su tela, cm 308 x 200 Iscrizioni: firmato in basso a destra: “artemitia” Pozzuoli, basilica ————— Bibliografia Morrona 1792, II, p. 485; Longhi 1916 ed. 1961, pp. 262, 277 n. 66; Voss 1920, p. 409; Pevsner 1928, p. 139; S. Ortolani in La Mostra della pittura napoletana 1938, pp. 46, 48; Bottari 1943, p. 370; Brunetti 1956, pp. 60, 63 n. 28; Bologna 1958, p. 127; G. Scavizzi in Caravaggio e i caravaggeschi 1963, p. 37 n. 26; Moir 1967, I, p. 100, n. 105, II, pp. 74; Bissell 1968, pp. 159-160; Borea 1970, p. 92; Causa 1972, pp. 949, 989; D’Ambrosio 1973, p. 30; Novelli 1974, pp. 70-79, n. 10; P. Leone de Castris in Painting in Naples 1982, p. 65; C. Whitfield in Painting in Naples 1982, pp. 148, 166; M. Gregori in Civiltà del Seicento a Napoli 1984, pp. 305-307; Garrard 1989, pp. 99-104; Contini 1991, pp. 66-70; Stolzenwald 1991, pp. 37-40, Marshall 1993, p. 155; G. Sestieri in Sestieri, Daprà 1994, pp. 91-92; P. Pagano in Tra luci e ombre 1996, p. 100; Bissell 1999, pp. 256-259; N. Barbone Pugliese in Paolo Finoglio e il suo tempo 2000, p. 173; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 411-414; Mann 2009.

oltre a una vasta produzione di “quadri da stanza ” per raffinati mecenati e ricchi collezionisti (si veda Appendice II), Artemisia ottenne a Napoli anche importanti commissioni per quadri devozionali, pale d’altare e prestigiose opere pubbliche. Professionista affermata, perfettamente integrata nel teatro artistico partenopeo, la pittrice collaborò tra il 1635 e il 1637 con Giovanni Lanfranco, Paolo Finoglio e Massimo Stanzione al vasto cantiere decorativo della cattedrale di Pozzuoli (D’Ambrosio 1973). La riedificazione del tempio flegreo fu avviata dal vescovo della città Martín de León y Cárdenas (1631-50) poco dopo la devastante eruzione del Vesuvio del dicembre 1631, che risparmiò miracolosamente la città puteolana. La Gentileschi realizzò tre tele con figure più grandi del naturale – San Gennaro nell’anfiteatro, i Santi Procolo e Nicea (cat. 38), l’Adorazione dei magi –, facenti parte di un programma iconografico più esteso che comprendeva episodi delle vite di Cristo, della Vergine, di san Gennaro e dei martiri legati alla storia di Pozzuoli. Citate nel 1792 dallo storico pisano Alessandro da Morrona (1741-1820), “le due grandi tele che adornano le pareti del Presbiterio della Cattedrale di Pozzuoli colle dipinte storie di S. Gennaro” (Morrona 1792, II, p. 485) furono attribuite ad Artemisia da Roberto Longhi, ancor prima che il restauro eseguito dopo il disastroso incendio del 1964 svelasse un’apocrifa fi rma della pittrice (Longhi 1916 ed. 1961, pp. 262, 277 n. 66). Grazie alla rimozione delle vernici ingiallite e alla pulitura dell’opera, eseguita in occasione di questa mostra da Andrea Porzio con la collaborazione di Angelo Romano, la prima fi rma autografa apposta dalla pittrice è tornata nuovamente visibile nell’angolo inferiore destro del dipinto. La Relatio ad limina del 1635 costituisce un valido termine post quem per l’esecuzione delle tele, menzionate per la prima volta nella successiva Relatio del 1640 (D’Ambrosio 1973, pp. 29-30); pertanto, le due pale qui esposte vennero realizzate dopo il 1635 e prima della partenza della pittrice per

l’Inghilterra, avvenuta dopo il novembre 1637 (si veda Appendice I). Il dipinto raffigura uno dei numerosi miracoli compiuti da san Gennaro, vescovo di Benevento, martirizzato al tempo dell’imperatore Diocleziano insieme ai diaconi Procolo, Sossio e Festo e ai seguaci Desiderio, Eutichete e Acuzio. Condannato ad bestias nell’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli, san Gennaro ammansì miracolosamente le belve (due leoni e un orso), che, anziché assalirlo, si prostrarono docilmente ai suoi piedi. Mina Gregori (in Civiltà del Seicento a Napoli 1984, pp. 148-150) ha rilevato l’affinità del dipinto con lo stile di Aniello Falcone, Agostino Beltrano e Massimo Stanzione, respingendo l’intervento di un’ipotetica “bottega” avanzato da Alfred Moir (1967, I, p. 100, n. 105, II, p. 74). Meno plausibile appare la partecipazione dello Stanzione proposta da Pierluigi Leone de Castris (in Painting in Naples 1982, p. 65), già supposta da Roberto Longhi nel volto della Vergine dell’Adorazione dei magi. Clovis Whitfield (in Painting in Naples 1982, pp. 148, 166) ha messo in evidenza l’influenza della pittura classicista di ambito bolognese (Domenichino, Reni e Lanfranco) nella formulazione di questa “immagine devozionale di uso liturgico” (J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 413). Da notare sono le analogie compositive con il San Gennaro con il cardinale Alfonso Gesualdo, opera tardo-cinquecentesca del fiorentino Giovanni Balducci detto il Cosci (Firenze 1560 circa – documentato a Napoli fino al 1631), già nella cattedrale di Napoli e oggi conservata al Museo Diocesano. Il dipinto del Balducci costituiva, in effetti, un importante termine di paragone – iconografico, ma anche stilistico – per la nuova pala del duomo di Pozzuoli, in parte suggestionata dalle fisionomie del Cosci nella stesura del volto di profilo del giovane seguace di Gennaro con le mani incrociate e lo sguardo rivolto al cielo. La Gentileschi, inoltre, sembra ispirarsi all’ideale prototipo cinquecentesco anche per le figure del san Gennaro e del giovane Procolo (o Sossio?) orante e genuflesso in basso a sinistra, che presenta un lieve pentimento

nell’inclinazione delle mani giunte e una leggera sproporzione della gamba destra. Simile per stile e fattura al manto rosso della Lucrezia oggi conservata in collezione privata milanese (Contini 1991, p. 68), la dalmatica di velluto purpureo indossata dal diacono è caratterizzata da sapienti riflessi di luce di ascendenza neo-veneta. Il piviale aperto del monumentale san Gennaro, fulcro fisico e simbolico della composizione, lascia a vista un abbagliante camice di lino bianco dalle rigide e frastagliate plissettature, interrotto da una semitrasparente stola dorata e dall’antica croce gemmata, gioiello certamente appartenuto al tesoro della cattedrale o al ricco vescovo spagnolo. Il vasto successo di mercato riscosso a Napoli consentì alla pittrice di poter contare sull’aiuto di validi collaboratori e pittori specializzati (Viviano Codazzi, Domenico Gargiulo, Onofrio Palumbo, Bernardo Cavallino). Ferdinando Bologna (in Caravaggio e i caravaggeschi 1963, p. 37 n. 26), seguito da Mary D. Garrard (1989, pp. 99-104), ha attribuito al Codazzi l’esecuzione della sofisticata quinta architettonica alle spalle del san Gennaro, in conformità con l’arrivo a Napoli del pittore bergamasco nel 1634. Estella Brunetti (1956, pp. 60, 63 n. 28), Mina Gregori, Giancarlo Sestieri, Brigitta Daprà (1994, p. 91) e Raymond Ward Bissell (1999, p. 259) ritengono invece più probabile l’intervento di Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro, attivo insieme ad Artemisia e al Codazzi nella Betsabea oggi a Columbus. Secondo David Ryley Marshall (1993, p. 155), infine, lo sfondo architettonico sarebbe stato ideato dal Codazzi e poi eseguito da Artemisia stessa o da Gargiulo. Il trattamento libero e compendiario delle rovine dell’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli, denominato già allora “Carcere di San Gennaro”, si discosta dal più freddo rigore codazziano e meglio si avvicina, anche a mio avviso, al pittoricismo proprio dello stile di Micco Spadaro, possibile autore anche delle figurine affacciate al primo piano dell’arena, tornate ben leggibili a seguito di quest’ultimo restauro. Il miracolo di san Gennaro è incongruamente ambientato all’esterno dell’anfiteatro in rovina, simbolo del trionfo della religione cristiana sul mondo pagano.

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Diversamente dall’affresco eseguito tra il 1632 e il 1635 da Battistello Caracciolo sulla volta della cappella di San Gennaro nella certosa di San Martino, l’anfiteatro è descritto senza alcun intento ricostruttivo. Facilmente riconoscibile dai fedeli flegrei, il “Colosseo puteolano” consunto dal tempo e dalla morsa di piante rampicanti è ritratto con libero realismo anche nell’accurata descrizione delle diverse murature impiegate nell’edificio antico (opus reticulatum e opus latericium). Visibili anche a occhio nudo, altri pentimenti interessano il dito medio della mano destra di san Gennaro, lievemente abbassato, e la sua mitra vescovile, ingrandita a sinistra e leggermente ruotata. Il profilo sinistro del santo è interessato da una limitata caduta di colore, estesa dalla fessura dell’occhio alla guancia in ombra, già esageratamente reintegrata dal restauro del 1964 e oggi correttamente risarcita. Vistosa appare la copertura di un personaggio dietro il braccio destro di Gennaro, evidentemente obliterato dalla stessa Artemisia per conferire maggior risalto al gesto imperioso e solenne del protagonista. Perfettamente leggibile, riaffiorato tra le modanature della cornice marcapiano dell’Anfiteatro Flavio, il volto coperto del seguace del vescovo di Benevento attesta la travagliata redazione di

questo ambizioso quadro di storia, posto a diretto confronto con le opere di alcuni tra i massimi artisti attivi alla metà del quarto decennio sulla scena partenopea. Yuri Primarosa Relazione di restauro L’imponente tela era stata già sottoposta a un restauro nei primi anni Settanta del Novecento. L’intervento che si presenta, eseguito in occasione di questa mostra, ha riguardato la sola superficie pittorica. A seguito di un’attenta valutazione si è ritenuto opportuno non intervenire con un nuovo rifodero ma mantenerne il precedente, ancora in buone condizioni, limitando l’intervento alla pulitura e a un nuovo, più circostanziato, risarcimento delle numerosissime ma millimetriche mancanze. La pellicola pittorica si presentava offuscata da uno spesso strato di polvere sedimentata e da una leggera, ma fastidiosa, patina di vernice ossidata. In seguito alla pulitura, intervenuta con solventi misti, sono emersi più chiaramente i numerosi pentimenti, in corrispondenza delle parti anatomiche, ma anche nelle vesti del santo. In particolare, la mitra vescovile risulta dipinta più volte in posizioni diverse; lo stesso dicasi per il volto del primo seguace di Gennaro sulla sinistra. Si è smontata l’invasiva stuccatura debordante sulla

superficie pittorica all’altezza dell’occhio destro del santo. Nella parte inferiore a destra si sono evidenziate due firme: la più antica, in caratteri lapidari, legge “ARTEMITIA” ed è apposta sullo scalino sotto la coda del leone; l’altra, sicuramente apocrifa, è in corsivo. I colori usati per le vesti del santo e del personaggio in ginocchio sono quelli correntemente usati al tempo: anziché il bianco di piombo, molto in uso nel XVII secolo, Artemisia preferiva il più freddo e luminoso bianco di zinco, di più lenta essicazione, ma la cui resa cristallina e abbagliante impreziosiva la superficie. Colore friabile, il bianco di zinco è soggetto a screpolature e a ingrigire nel tempo. I drappi sontuosi degli abiti presentano una prima campitura con terre rosse, terra di Siena bruciata e un poco di nero. Le lumeggiature sono stese a piccoli tocchi che si intersecano con la costosa lacca di garanza ottenuta dall’estratto delle radici della Rubea Tinctorum. Le lacune sono state risarcite con gesso biidrato e colletta animale, per esser quindi integrate con pigmenti vegetali e minerali stemperati e colori a vernice con la tecnica del “tutto effetto”; una nuova verniciatura ha restituito brillantezza e saturazione cromatica a questo capolavoro napoletano di Artemisia Gentileschi. Andrea Porzio, Angelo Romano

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38. Artemisia Gentileschi

I santi Procolo e Nicea

————— 1636 circa Olio su tela, cm 300 x 180 Iscrizioni: in basso al centro: “s. procvlvs levita et. nicea mater / martires et cives pvteolani” Pozzuoli, basilica ————— Bibliografia Morrona 1792, II, p. 485; Longhi 1916 ed. 1961, pp. 262, 277 n. 66; Voss 1920, p. 409; Pevsner 1928, p. 139; S. Ortolani in La Mostra della pittura napoletana 1938, pp. 46, 48; Bottari 1943, p. 370; Brunetti 1956, pp. 60, 63 n. 28; Bologna 1958, p. 127; Annecchino 1960; G. Scavizzi in Caravaggio e i caravaggeschi 1963, p. 37 n. 26; Marangelli 1967; Moir 1967, I, p. 100, n. 105, II, pp. 74; Bissell 1968, pp. 159-160; Borea 1970, p. 92; Causa 1972, pp. 949, 989; D’Ambrosio 1973, p. 30; Novelli 1974, pp. 70-79, n. 10; P. Leone de Castris in Painting in Naples 1982, p. 65; C. Whitfield in Painting in Naples 1982, pp. 148, 166; M. Gregori in Civiltà del Seicento a Napoli 1984, pp. 305-307; Garrard 1989, pp. 99-104; Contini 1991, pp. 66-70; Stolzenwald 1991, pp. 37-40; Marshall 1993, p. 155; G. Sestieri in Sestieri, Daprà 1994, pp. 91-92; P. Pagano in Tra luci e ombre 1996, p. 100; Bissell 1999, pp. 256-259; N. Barbone Pugliese in Paolo Finoglio e il suo tempo 2000, p. 173; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 411-414.

quando nel 1631 Martín de León y Cárdenas fu nominato vescovo della città di Pozzuoli (1631-50), decise immediatamente di intraprendere i lavori di riedificazione della cattedrale della città che verteva in condizioni di abbandono (D’Ambrosio 1973, pp. 29-30). A una successiva fase decorativa va ascritto il ciclo di undici tele destinate al coro dell’edificio, raffiguranti storie della vita di Gesù, della Vergine e dei santi Gennaro e Procolo, contitolari della cattedrale, tra cui le tre affidate ad Artemisia Gentileschi raffiguranti l’Adorazione dei pastori, San Gennaro nell’anfiteatro (cat. 37) e i Santi Procolo e Nicea. Tale disposizione si poteva osservare fi no al maggio del 1964, quando un terribile incendio distrusse quasi integralmente l’edificio e gran parte della decorazione. L’identificazione della coppia raffigurata nella tela in esame non è scontata. La città di Pozzuoli venera due santi martiri di nome Procolo, entrambi spesso fusi in un unico personaggio, come appare evidente anche nel quadro della Gentileschi. Il primo Procolo, infatti, fu martirizzato nel 253 insieme alla madre Nicea sotto Decio, per ordine del prefetto Tiburnio; il secondo è il compagno di san Gennaro, diacono di Pozzuoli, con lui martirizzato sotto Diocleziano nell’anno 305 (Annecchino 1960, pp. 320-324). La compresenza della dalmatica purpurea del diacono e della donna identificata da una scritta sottostante come Nicea non lascia dubbi sull’identificazione dei due santi locali in un solo personaggio. I dipinti, non ricordati nella Relatio ad limina del vescovo Cárdenas del 1635, sono invece menzionati in quella successiva del 1640, permettendo di fissare con certezza gli estremi cronologici dell’esecuzione. Tra i pittori incaricati, insieme ad Artemisia, Cesare Fracanzano e Massimo Stanzione, fu anche Paolo Finoglio, la cui presenza è documentata in Puglia nello stesso 1635 (Marangelli 1967). Tale dato ha permesso di ipotizzare una consegna di parte delle tele già nello stesso anno o comunque, anche nel caso di Artemisia, a una data prossima al biennio 1636-37.

La tela in esame, probabilmente resecata o rifilata ai lati e in mediocri condizioni conservative, è per la prima volta presentata in una rassegna dedicata alla pittrice. La composizione ha un andamento fortemente verticale e simmetrico, evidenziato dalla fuga prospettica dell’architettura del loggiato – dalla semplice pavimentazione bicolore – che domina la parte superiore del dipinto. Al di là del fornice centrale si distingue un’architettura antica in rovina di cui si riconoscono i capitelli corinzi e l’alto basamento, a ricordare la preesistenza di un tempio antico dedicato a Ottaviano Augusto nel luogo ove fu costruita l’antica cattedrale. I santi guardano in alto con atteggiamento estatico, dominando il primo piano con la loro presenza scultorea resa dalla forte illuminazione di impronta naturalistica, proveniente dal lato sinistro. A questo proposito sorprende notare come nella santa Nicea si possa riconoscere un riferimento classico alla prigioniera barbara detta Tusnelda, evidente nella posizione della gambe accavallate e nel premere del ginocchio sotto la veste; Artemisia ne conosceva probabilmente un modello originale oltre alle diverse traduzioni a stampa, così come le interpretazioni del Caravaggio nella Madonna di Loreto e nella Madonna dei Palafrenieri. Arrivata a Napoli nel 1630 e subito incaricata di dipingere la pala d’altare con l’Annunciazione (oggi a Capodimonte), la Gentileschi fu per la prima volta investita di un’importante commissione pubblica. L’impresa di Pozzuoli rappresenta per lei il massimo riconoscimento della sua carriera, in un periodo particolarmente ricco di occasioni lavorative. Immediatamente prima di ottenere questo incarico aveva infatti portato a termine la grande tela della Natività del Battista (Madrid, Prado) per il Buen Retiro di Filippo IV, anch’essa concepita come parte di un ciclo: sei grandi tele, di cui cinque eseguite da Massimo Stanzione. Il rapporto stretto, umano e professionale, che verosimilmente intercorse tra Artemisia e il collega napoletano è stato più volte sottolineato dalla critica per le tele di Pozzuoli (fuori dal coro la voce di Contini 1991, pp. 68-69). Tale contatto, avvenuto

forse già a Roma alla metà degli anni Venti, si palesa stilisticamente nei primi anni napoletani, quando è possibile che lo Stanzione introduca la più giovane romana facendole ottenere importanti incarichi (una situazione simile a quella verificatasi a Firenze con Cristofano Allori e a Roma con Simon Vouet). Come nota Bissell (1999, pp. 256-258), l’annosa questione della collaborazione di altri pittori a questa tela è resa ancor più difficile dalle sue condizioni di conservazione. Ciò nonostante, la critica ha in più occasioni ipotizzato la parziale autografia della tela: Moir (1967, I, p. 100) proponendo un generico intervento di bottega; altri, tra cui già Bottari (1943, II, p. 347) o Gregori (in Civiltà del Seicento a Napoli 1984, pp. 305-306, n. 2.114), citando il “classico” nome di Viviano Codazzi, la cui presenza nel cantiere anche al servizio di Beltrano è sottolineata dal Marshall (1993, p. 155); Bissell (1999, p. 258) avanzando la collaborazione di Domenico Gargiulo per il ductus più libero e la resa quasi sommaria delle campiture. La fuga di arcate su pilastri e il rudere di tempio antico che si intravede sullo sfondo dell’opera mostrano peraltro una stretta affinità con l’anfiteatro romano dove Artemisia ambienta il martirio di San Gennaro (cat. 37), anch’esso da ritenere opera dello Spadaro. Per cura della Soprintendenza BAPSAE di Napoli e Provincia, Giovanni Barrella ha diretto il restauro della pala eseguito da Silvia Pissagroia di Roma. Tra il maggio 2010 e il febbraio 2011 la restauratice ha consolidato la pellicola pittorica, eliminato le vernici alterate, le ridipinture e le precedenti stuccature. Alla meticolosa integrazione delle lacune e di alcune velature compromesse è seguita una nuova verniciatura. L’intervento ha notevolmente migliorato la lettura e la fruibilità della grande tela, opera di capitale importanza nella carriera napoletana di Artemisia Gentileschi. Michele Nicolaci

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39. Artemisia Gentileschi

La ninfa Corisca e il satiro

————— 1635-40 circa Olio su tela, cm 155 x 210 Iscrizioni: firmato a destra, su un albero: “artemisia / gentiles / chi” Collezione privata ————— Bibliografia Novelli 1989, pp. 151-153, fig. 3 (come Annella De Rosa); Christie’s 1990, n. 129 (come attribuito a Massimo Stanzione); L. Rocco in Battistello Caracciolo 1991, p. 326, n. 2.97 (come Artemisia Gentileschi); Garrard 1993, pp. 34-38; Bissell 1999, pp. 245-247; Agnati 2001, fig. p. 38; Lattuada 2001, p. 386; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 397-399, n. 74; Mann 2009.

il soggetto illustrato è tratto dal secondo atto, scena sesta, del Pastor fido, tragicommedia pastorale del ferrarese Giovan Battista Guarini scritta nel 1590 e diventata molto popolare nel Seicento: la scena è quella nella quale il satiro Satto, invaghitosi della bella ninfa Corisca – alla quale, in cambio di un promesso rapporto amoroso, aveva inutilmente donato, togliendoli ad altre ninfe, un arco, una veste e un velo preziosi e un paio di eleganti coturni –, dopo essere riuscito ad afferrarla per i capelli, si trova tra le mani, cadendo al suolo nel tentativo d’inseguirla e possederla, una fi nta treccia con cui l’astuta fanciulla aveva adornato il capo, riuscendo così ancora una volta a ingannarlo e a sfuggirgli. La Garrard nel 1993 aveva rilevato che l’episodio sarebbe stato dipinto da Artemisia, che fi rmò la tela in argomento, perché la pittrice sarebbe stata interessata a rappresentare, come con altri soggetti affi ni da lei illustrati, quanto variamente potesse alludere alle capacità delle donne di sfuggire con l’astuzia e con l’inganno alle mire di lussuriosi pretendenti. In realtà, come ha poi annotato la Mann, è più probabile che il soggetto qui illustrato, di cui si conoscono poche altre rappresentazioni e le cui poche note sono soprattutto di area nordeuropea, sia stato indicato alla pittrice da un ancora ignoto, anche se colto, committente. Poco probabile anche l’interpretazione che ne ha dato la Garrard, ponendo la scelta del soggetto illustrato in relazione alla nota vicenda personale vissuta dalla pittrice, che si sarebbe identificata con la ninfa quale esempio di opposizione delle donne alla prepotenza maschile, sebbene nel testo teatrale del Guarini venga presentata, invece, come simbolo della natura femminile: subdola e ingannevole, oltre che immorale, lussuriosa e bugiarda. Il dipinto era stato segnalato nel 1989 dalla Novelli come possibile opera della pittrice napoletana Annella o, più correttamente, Dianella De Rosa, sorella di Pacecco e figliastra – con una sorella di nome Grazia (sposa nel 1626 del pittore Juan Do, nato nel 1601 a Játiva, presso Valencia, città natale di Ribera, e attivo a Napoli, nella

cerchia di quest’ultimo, dal 1620-22 circa, ma da non confondere con il cosiddetto Maestro dell’Annuncio ai pastori) – di Filippo Vitale, tra i primi naturalisti napoletani operanti nel solco dei modelli prima di Giovan Battista Caracciolo, poi dello stesso Ribera. La proposta della Novelli era motivata, significativamente, dalle affinità stilistiche riscontrabili tra la tela in argomento e le due scene sacre dipinte dalla De Rosa per la chiesa napoletana della Pietà dei Turchini, segnate da soluzioni di non marginale dipendenza da esempi di Massimo Stanzione e di Artemisia a Napoli subito dopo il 1630 (Petrelli 2009, pp. 87-92; Spinosa 2010, p. 226, n. 117 a-b). Per questi stessi riscontri la tela fu poi presentata con l’attribuzione a Stanzione in occasione della vendita effettuata presso Christie’s, Roma, l’8 marzo 1990. Fu restituita da chi scrive ad Artemisia, nei suoi primi anni a Napoli, quando fu acquistata dall’attuale proprietario e prima che, sottoposta a un successivo intervento di pulitura delle superfici cromatiche, offuscate da uno spesso strato di vernici ossidate, rivelasse la presenza della sua firma (indicazione riportata dalla Rocco in Battistello Caracciolo 1991, ma ignorata negli studi successivi del Bissel, del Lattuada e della Mann). In occasione della stessa mostra napoletana del 1991-1992, dove la Corisca era esposta, la Rocco, nella relativa scheda di catalogo, collocò l’esecuzione del dipinto nel biennio 1630-32, riscontrandovi precise affinità stilistiche con la Nascita del Battista di Artemisia (Madrid, Museo del Prado), facente parte, con il disperso San Giovanni Battista in carcere di Paolo Finoglio, di una serie di sei tele, con altre “storie del Battista” e tutte di grandi dimensioni (cm 188 x 337 o cm 184 x 258), di cui quattro dipinte da Massimo Stanzione: serie oggi databile più esattamente verso la metà degli anni Trenta, quando la pittrice era ormai già da qualche anno nella capitale meridionale, perché commissionata dal Conde de Monterrey, viceré di Napoli dal 1633, per essere destinata alla decorazione della Ermita de San Juan, edificio situato nel Parco del Retiro a Madrid e residenza del Conde Duque de Olivares, potente primo ministro di Filippo IV e cognato dello stesso viceré (Spinosa

2010, pp. 305-306, n. 254, e p. 408, n. 434 a-b). La datazione della Corisca negli anni 163335 e in prossimità delle tele per il Retiro con “storie del Battista” è stata avanzata anche dal Bissel nel 1999 e accolta nel 2001 dalla Mann, che vi riscontra precise concordanze – soprattutto per la resa ampia e sontuosa delle vesti e del manto che coprono la ninfa, come per le preziose stesure di luminoso colore – da un lato con l’Annunciazione del Museo di Capodimonte, firmata e datata da Artemisia nel 1630, e con l’Ester e Assuero dello stesso momento (New York, The Metropolitan Museum of Art), dall’altro con la citata Nascita del Battista della serie al Museo del Prado. Meno convincentemente, la Garrard ha preferito, invece, suggerirne una collocazione al tempo del secondo soggiorno napoletano della pittrice di ritorno da Londra, subito dopo il 1640. Si sono riscontrate, inoltre, possibili derivazioni, per la figura del satiro, da esempi del vigoroso naturalismo di Ribera tra il 1616 e il 1620 circa (Bissel): con soluzioni affini a quelle presenti, per la trattazione della figura del diavolo in particolare, nella tela con l’Angelo custode della chiesa della Pietà dei Turchini a Napoli, dipinta da Filippo Vitale intorno al 1630 (L. Rocco in Battistello Caracciolo 1991, p. 280, n. 2.31). Non meno evidenti, soprattutto per la resa del volto di Corisca e dei suoi caratteri somatici, i riferimenti soprattutto a modelli di Simon Vouet a Roma, riscontrabili, peraltro, in varie altre composizioni di Artemisia al tempo del soggiorno romano e al tempo dell’attività napoletana. Generiche, invece, le affinità riscontrate dalla Mann tra la posa di Corisca e quella di Deianira nella tela di Guido Reni al Louvre con Nesso e Deianira, dipinta a Bologna nel 1621 per il duca di Mantova e forse ignota alla pittrice. In ogni caso, è ben noto che esempi vari del pittore emiliano non mancarono di esercitare su quest’ultima, come su altri pittori della stessa generazione e dalle diverse inclinazioni stilistiche, una qualche influenza, limitata prevalentemente, tuttavia, alla sola adozione dei suoi modelli compositivi, poi altrimenti risolti pittoricamente. Nicola Spinosa

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40. Artemisia Gentileschi

Minerva

————— 1635 circa Olio su tela, cm 131 x 103 Iscrizioni: firmato sull’egida: “artemisia gentileschi faciebat” Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1980 n. 8557 ————— Bibliografia S. Ortolani in La Mostra della pittura napoletana 1938, p. 317; Bissell 1968, p. 161; Borea 1970, pp. 79-80; Gregori 1984, p. 147; Garrard 1989, pp. 48-51, 159-164; Contini 1991, p. 70, 85 nota 29; Stolzenwald 1991, pp. 24, 28; Hersey 1993, p. 333 n. 65; Bissell 1999, pp. 261-263; Garrard 2001, p. 149 nota 40; Mann 2009.

nata senza madre dalla testa di Giove già adulta e armata, Minerva è la dea vergine e saggia, immune dalle passioni d’amore. Ritratta al naturale e distrattamente rivolta verso destra, l’impassibile e compiaciuta divinità guerriera impugna una lancia nella mano destra e regge mollemente nella sinistra un ramoscello d’ulivo, allusione al mitico dono da lei accordato al popolo ateniese. Il patronato della dea sulle arti e sulle scienze è precisato dalla corona di lauro che le cinge la vaporosa chioma bruno dorata raccolta dietro la nuca. Florida e monumentale, la figlia prediletta di Giove mostra un casto, seppur scollatissimo, décolleté tenuto da un corpetto orlato e ricamato, simile per stile e fattura a quello indossato da Artemisia nell’Allegoria della Pittura di Kensington Palace. Apotropaico trofeo donato a Minerva da Perseo, l’egida in basso a sinistra, su cui è apposta la firma “ARTEMISIA GENTILESCHI FACIEBAT”, mostra somiglianze con lo scudo nell’angolo inferiore sinistro della Giuditta e la fantesca di Capodimonte (cat. 47), emerso dopo il restauro del dipinto effettuato in occasione di questa mostra. La terribile Gorgone Medusa al centro dello scudo in metallo sbalzato, intagliato e dorato mostra analogie con la vasta produzione, soprattutto lombarda, di “rotelle da pompa”, veri e propri oggetti d’arte assai apprezzati e diffusi nelle corti italiane. La pittrice, del resto, poteva aver già visto a Firenze analoghe rotelle di metallo all’antica “con una maschera di medusa di rilievo”, conservate nell’Armeria medicea insieme a preziosi equipaggi da parata e alla paradigmatica Medusa di Caravaggio, donata nel 1598 dal cardinale Francesco Maria del Monte al granduca Ferdinando I (si veda Heikamp 1966; F. Rossi in Caravaggio 2004, pp. 47-53, 102-103). L’ipotesi avanzata da Mary D. Garrard, che ritiene il dipinto un ritratto allegorico della quattordicenne Anna d’Austria (16011666) alla vigilia delle nozze del 1615 con Luigi XIII di Francia (1601-1643), non pare sostenibile sia per ragioni stilistiche – che spingono indubitabilmente a una datazione più tarda – sia per la mancanza di prove documentarie sulla provenienza medicea

della tela, acquisita solo nel 1926 dall’Ufficio Esportazione della Sovrintendenza fiorentina. Il riferimento al primo cognome del padre Orazio Gentileschi de Lomis costituisce, inoltre, un’ulteriore conferma di una datazione avanzata, giacché Artemisia utilizzò più frequentemente il solo cognome dei Lomi durante il soggiorno fiorentino, prima del rientro a Roma nel 1620 (si veda il saggio di R.P. Ciardi nel presente volume). Raffigurata a sedere, l’algida e scultorea Minerva mostra intriganti analogie con l’ampia produzione di allegorie femminili attribuite alla pittrice negli inventari seicenteschi: dall’autoritratto “in habito [di] hamazzone con spada, ruotella e morione”, documentato nel 1638 nella villa medicea di Artimino, alla Fama descritta nel 1637-39 nelle collezioni d’arte di Carlo I d’Inghilterra (“a woemans picture […] with a trumpett in her left hand Signifying ffame with her other hand having a penn to write being uppon a Straining frame painted uppon Cloath”), sino alle discinte allegorie su tavola registrate nel 1680 nella quadreria del romano Pietro Mellini (“Donna fino sotto il petto che mostra scoperto coronata di lauro […] Donna in profilo con manto turchino, che guarda verso il Cielo […] Donna ammantata di giallo con alcune bende bianche in testa”) (cfr. Appendice II). Svelata e fortemente compromessa da incauti restauri, la tela degli Uffizi è legata alla prima produzione napoletana della pittrice; meno plausibile sembra invece una datazione più tarda, come proposto da Evelina Borea (1970). I tratti del volto e la rigida fattura del panneggio mostrano stringenti somiglianze con l’Annunciazione del Museo di Capodimonte, pubblico esordio partenopeo della pittrice, e con la musa Clio (cat. 30), firmata e datata al 1632 (Bissell 1968; Bissell 1999), caratterizzata tuttavia da una pennellata più ricca e filamentosa. La tela presenta affinità anche con l’Allegoria della Fama (cat. 29) e con la Nascita di san Giovanni Battista del Prado (cat. 31) “nella formulazione anodina dei dati somatici, nell’asciutta prensilità della mano che tiene il ramoscello d’alloro e forse memore del Vitale della Pietà dei Turchini nella potenza plastica che ancora spira dal volto bronzeo di

Medusa dipinto sullo scudo” (Contini 1991, p. 70). Suggestionata dal chiaroscuro lunare e dalla solidità di volumi di Battistello Caracciolo, come dalla produzione più aggiornata alle tendenze romane di Massimo Stanzione, Artemisia attenua il magistero di Simon Vouet offrendo un’originale declinazione del tardo caravaggismo partenopeo particolarmente in voga alla corte dei viceré Fernando Afán de Ribera (1629-31) e Manuel de Acevedo y Zúñiga (1631-37). Yuri Primarosa

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41. Artemisia Gentileschi, Bernardo Cavallino e collaboratori

Betsabea al bagno

————— 1636-38 circa Olio su tela, cm 185,2 x 145,4 Londra, Matthiesen Gallery, inv. 1385 ————— Bibliografia Inedito.

versione autografa del fortunatissimo soggetto del Bagno di Betsabea (2 Samuele 11, 2), più volte dipinto da Artemisia a Napoli, si presenta qui una redazione di collezione privata inglese, resa nota da Patrick Matthiesen. Per il soggetto raffigurato, tra i più frequentati dalla pittrice nei suoi lunghi soggiorni partenopei (1630-38 circa; 1640 circa - 1654), e per un utile confronto si rimanda alle altre versioni presenti in mostra (cat. 43, 46, 49). Come nelle altre redazioni, anche in questa la scelta ideativa della Gentileschi si concentra sul momento del bagno della bella fanciulla, dando il massimo risalto al nudo femminile e giocando sulle variazioni degli atteggiamenti delle ancelle come dei paesaggi e delle architetture degli sfondi, che raggiungono in questa grande tela il livello forse più alto. Sempre attenta a modificare i dettagli delle sue composizioni, al fine di renderle tutte originali, come si vantava esplicitamente con don Antonio Ruffo (lettera del 13 novembre 1649, si veda Appendice I), nelle molteplici varianti note si riconoscono sostanzialmente due “macro” schemi utilizzati dalla Gentileschi per le sue Betsabee (un terzo è quello adottato nella tela oggi al museo di Columbus, Ohio), ipotizzando, di conseguenza, l’impiego di cartoni, o di più leggeri spolveri preparatori, utili per tracciare le vaste composizioni e gli interventi affidati ai collaboratori. A un primo schema possono essere ricondotte le versioni di Potsdam, di Gosford House (perduta), quella recentemente passata sul mercato milanese (cat. 49), l’esemplare rovinato ma d’alta qualità della Galleria Palatina di Firenze (cat. 43) e, pur se solo parzialmente, la redazione già in una collezione privata viennese (cat. 46). La tela in esame ha invece un suo evidente riscontro in quella documentata in collezione privata tedesca a Halle (Bissell 1999), con l’ancella di sinistra intenta ad asciugare i piedi di Betsabea, mentre una seconda, in piedi, le intreccia i lunghi capelli dorati. Tale iconografia coincide con quella riportata nella descrizione di Vincenzio Fanti (Vienna 1767) dell’esemplare già nella collezione del principe Karl Eusebius von Liechtenstein appassionato cliente di Artemisia. Purtroppo

sia la mancanza dello “specchio in cui si mira” sia la sostanziale differenza delle dimensioni impediscono di ipotizzare una coincidenza con quella tela, ricordata dalla pittrice nel pagamento del Banco di Napoli del 5 maggio 1636 (Nappi 1983, p. 76; Appendice I), facendo presumere l’esistenza di un’altra tela. Ben sottolineata, la vasta scatola prospettica è costruita grazie alla sapiente soluzione della doppia balaustra, aperta in primissimo piano e ricolma di rami d’alberi d’arancio e dal disegno geometrico del pavimento che ricorda il simile selciato dipinto della Nascita del Battista (Madrid, Museo del Prado; cat. 31). Ben distaccate in secondo piano, si osservano le architetture molto dettagliate, tutte giocate sui toni grigi della pietra e azzurri del cielo, squisitamente variato nelle sue infi nite sfumature sino a riprendere il bel manto di ricco lapislazzuli che cinge i fianchi della protagonista. Proprio le architetture, qui più nitide e composite rispetto alle altre versioni, impongono una riflessione sull’affascinante questione della collaborazione della “maestra” con altri pittori napoletani ricordata dalle fonti antiche. Il noto passo del De Dominici (1742-1745, III, p. 199), pur se attinente ad altre opere, ricorda: “Due quadri grandi con figure al naturale, che esprimon le storie di Betsabea e Susanna, che sembran di mano di Guido sono dipinti dalla famosa Artemisia Gentileschi, e l’architettura di Viviano, con gli albori dello Spadaro”. Pur se la Betsabea citata dallo storico napoletano è identificata oggi con la tela di Columbus (B. Daprà in Ritorno al barocco 2009, I, p. 148, n. 1.62, con bibliografia), il riferimento permette di ipotizzare anche per la redazione inglese un vero palinsesto a più mani. La raffi nata impostazione ed esecuzione delle architetture lascerebbe pensare al peritissimo Viviano Codazzi (a Napoli tra il 1634 e il 1647), forse coadiuvato dall’altrettanto abile Micco Spadaro (1610-1675) per i piccoli, curiosi personaggi che abitano questi spazi; la bellissima ancella stante sulla destra, sicuramente di mano diversa rispetto alle altre due, ricorda i modi di Bernardo

Cavallino (1616-1656), amico e intimo collaboratore della pittrice, evidenti nell’incarnato pallido ravvivato da un intenso rossore attorno agli occhi e dalle labbra carnose e pronunciate. Armonioso e affascinante puzzle artistico napoletano, la tela attesta la fama e il vivace riscontro destato dalla pittura di Artemisia nella compagine artistica partenopea, pagina ancora da studiare nella storia dell’arte europea. Le già notate affinità stilistiche con la citata Nascita del Battista, collocabile con certezza alla prima metà del quarto decennio (J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 405-407, con bibliografia precedente), sono tangibili soprattutto nei volti, nonché nello scorcio architettonico sulla sinistra, e farebbero propendere per una datazione ai tardi anni Trenta, comunque precedente al viaggio in Inghilterra (1638 circa). Michele Nicolaci

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42. Artemisia Gentileschi

Santa Lucia

————— 1636-38 circa Olio su tela, cm 63 x 53 Collezione privata ————— Bibliografia Inedito.

segnalata da Renato Ruotolo in una collezione privata napoletana, questa inedita tela rappresenta un’importante aggiunta al corpus napoletano di Artemisia Gentileschi, la cui produzione devozionale di destinazione privata è, a oggi, limitata a poche opere, ma è ampiamente documentata dal carteggio della pittrice e dagli inventari contemporanei (Appendici I e II). Nessuna menzione documentaria è riconducibile con certezza al dipinto, il cui soggetto è facilmente identificato come “Santa Lucia”, in base al doppio attributo iconografico della palma del martirio e degli occhi contenuti nella coppa. La figura femminile è orientata di tre quarti, con le mani bene in evidenza; l’illuminazione dall’alto investe in piena luce l’ovale del volto, leggermente inclinato verso la spalla sinistra, che proietta una netta ombra sul collo robusto, tipico delle fisionomie femminili della pittrice. La resa pittorica è di grande finezza, con l’incarnato che si arrossa sulle gote e sulla punta del naso, gli occhi leggermente umidi e la descrizione particolareggiata degli splendidi capelli ramati. Raccolti sul retro da una larga treccia tenuta da un nastro bianco, i capelli sono lasciati liberi a ciocche vicino alle orecchie e poi in una lenta coda che sfiora la base del collo, acconciatura che ricorre più volte in altre opere napoletane di Artemisia. A tal proposito è utile il confronto con le due donne con catino che compaiono nella Nascita del Battista (cat. 31) o con la stupefacente Samaritana al pozzo (cat. 34), cui è affine anche la trattazione delle labbra carnose e il profilo di Lucia. Se la grande perla che pende all’orecchio sinistro è facilmente confrontabile con un gran numero di soggetti femminili, anche dei periodi fiorentino e romano, è però nelle mani che l’autografia della Gentileschi trova la sua prova più circostanziata: in particolare, si noti, la quasi sovrapposizione del disegno tra la mano che regge la palma e quella della santa Nicea nella pala di Pozzuoli (1635-37) (cat. 38), cronologicamente prossima, a mio avviso, alla tela in esame. Le misure ridotte e la preferenza del mezzo busto rimandano ad alcune prove fiorentine, quali la Suonatrice di liuto di

Minneapolis (cat. 15) e la Santa Caterina d’Alessandria degli Uffizi (cat. 16), anche per l’utilizzo del fondo scuro omogeneo animato da una generica vibrazione luminosa su cui la figura si staglia grazie al contrasto dell’incarnato chiarissimo. In base a questi stringenti confronti, ci pare che questa splendida Santa Lucia appartenga agli anni 1635-38, quando le classiche formule compositive della Gentileschi si fondevano con nuove istanze stilistiche e nuovi accenti devozionali: il seducente patetismo esibito nella posa ricercata, la gamma cromatica impoverita rispetto a Firenze e a Roma, ma raffinatissima e tutta giocata al risparmio con verdi, bruni e grigi. Dallo scialle di seta verde bosco, al damasco rossastro dell’abito, al velo bianco trasparente e al castano luminescente dei capelli, la scala dei colori è quella tipica della produzione napoletana della pittrice. La tela mostra il fruttuoso dialogo di Artemisia con la ricca congerie artistica partenopea durante il suo primo soggiorno nella capitale del Regno (1630-38). Allora, ricca di commissioni internazionali, l’artista si affermava con clamore nel nuovo contesto elaborando un’ennesima trasformazione della propria maniera e generando il massimo entusiasmo nei colleghi pittori, solitamente diffidenti verso i maestri forestieri. Non estranea alle analoghe composizioni di José Ribera e dell’amico Massimo Stanzione, la Santa Lucia della Gentileschi è un tramite e uno stimolo per le prove di intimistica devozione e trattenuto espressionismo create in quegli stessi anni dal giovane amico e allievo Bernardo Cavallino. Michele Nicolaci

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43. Artemisia Gentileschi

Betsabea al bagno

————— 1640 circa Olio su tela, cm 286 x 214 Firenze, Galleria Palatina, inv. O.d.A. Pitti 1803 ————— Bibliografia Conti 1875, pp. 21-24, 73; Longhi 1916 ed. 1961, p. 262; Voss 1924, p. 463; Gamba 1932, p. 58; Bissell 1968, pp. 163-164; Borea 1970, pp. 78-79, n. 50; Garrard 1989, pp. 130-132; R. Contini in Artemisia 1991, pp. 176-180, n. 27; Berti 1991, p. 25; Palmer 1991, p. 280; Marshall 1993, p. 154; Pagliarulo 1996, pp. 153-154; Bissell 1999, pp. 295-296; F. Paliaga in Il Cannocchiale e il Pennello 2009, pp. 370-371.

tratta dal secondo libro di Samuele dell’Antico Testamento, la storia di Betsabea è ambientata dalla Gentileschi su un’ampia terrazza aperta, esposta a sguardi indiscreti. Al di là della balaustra, oltre una fitta vegetazione, si distinguono l’architettura del palazzo reale e la figura di David che assiste alla scena appena nascosto dalla penombra della grande arcata del loggiato. Ammaliato dalla bellezza della donna, il re d’Israele la convocherà a palazzo e concepirà con lei un figlio. Betsabea, moglie del capitano Uria, è rappresentata nell’atto di liberarsi degli ultimi gioielli che ancora le ornano il viso e i capelli. Tre serve assistono la giovane donna: la prima è intenta a reggere uno specchio, mentre la seconda, dalla carnagione nera, è vezzosamente distratta dallo splendore del filare di perle; una terza ancella infine è indaffarata a portare l’acqua per le abluzioni presso il grande catino ai piedi di Betsabea. Sebbene non si conoscano informazioni relative alla committenza, è possibile supporre un’appartenenza del dipinto alle collezioni medicee già seicentesca, quando il fiammingo Pierre Fèvere fu incaricato di derivarne una versione ad arazzo nel 1663, probabile causa dei danni riportati dalla tela (inv. Arazzi 1912-1925, n. 488). Secondo una suggestiva ricostruzione, il quadro dalle notevoli dimensioni potrebbe essere identificato con uno dei “dui quadri grandi” per i quali Artemisia chiede a Galileo Galilei di intercedere presso il granduca Ferdinando II il 9 ottobre 1635 (R. Contini in Artemisia 1991, p. 178; F. Paliaga in Il Cannocchiale e il Pennello 2009, p. 370; cfr. Appendice I). Le diversificate carnagioni delle quattro donne sono state inoltre interpretate quali raffinati omaggi all’amicizia con lo scienziato pisano, a ricordare l’illustrazione delle fasi lunari disegnate da Galileo (Tosi 2007, p. 243) nonché un riferimento alla scoperta dei satelliti di Giove (F. Paliaga in Il Cannocchiale e il Pennello 2009, p. 371). Andrà però rilevato come la presenza dell’ancella dalla carnagione scura non sia un’invenzione della Gentileschi, comparendo infatti in altri prototipi rinascimentali e manieristi, ma sia piuttosto da leggere quale variazione sul tema da

parte di un’artista attenta a non fare copie pedisseque del proprio lavoro (R. Contini in Artemisia 1991, p. 178), ricomparendo, peraltro, nella versione quasi identica già a Godsford Park (Pagliarulo 1996). Per un’appartenenza dell’opera al lungo periodo napoletano della pittrice sembra propendere generalmente la critica, con l’importante eccezione della Borea (1970, p. 79) che la considerava del periodo fiorentino, opinione condivisa in parte da Berti (1991, p. 25) che ne riconosceva una vicinanza a modelli figurativi e stilistici toscani, dall’Empoli ad Alessandro Allori e Jacopo Zucchi. Il Bissell, arrivando a valutare stilisticamente l’opera quale testimonianza degli anni estremi di Artemisia, ne rilevava una stanca pratica di riproposizione quasi meccanica ormai subentrata nel modus operandi della pittrice (1968, p. 164; 1999, p. 295). Il rinnovato interesse per l’opera tarda del padre Orazio, evidente nella resa naturalistica del pavimento in prospettiva con il gradino sbeccato, dei metalli scintillanti e dei preziosi, è altresì palese nella figura dell’ancella di sinistra che deriva strettamente da modelli tratti dalla produzione inglese del Gentileschi (Apollo e le muse, ma anche la Diana cacciatrice) e confermerebbe una cronologia napoletana. Inoltre il riutilizzo della figura femminile appena citata all’interno del dibattuto Achille alla corte di Licomede, che Judith Mann restituisce ad Artemisia datandolo ai primi anni Quaranta (2001, p. 418), conforterebbe, a mio avviso, anche per la Betsabea una datazione immediatamente a ridosso del rientro dall’Inghilterra, ovvero intorno ai primi anni Quaranta del Seicento. Discorso aperto rimane la possibile collaborazione alle architetture e al paesaggio da parte di Vincenzo Codazzi e Domenico Gargiulo, di cui narra sommariamente il De Dominici a proposito di una Betsabea per il collezionista napoletano Luigi Romeo e su cui mancano sufficienti elementi per una definitiva ricostruzione (1742-1745 ed. 1979, III, p. 199). L’opera a sei mani è generalmente riconosciuta dalla critica come la Betsabea di Columbus (Ohio), anche se nulla esclude

possa trattarsi di un’altra o, addirittura, che tale collaborazione, se di fatto fosse avvenuta, possa essere estesa a più di una versione. Il tema biblico di Betsabea e re David è, insieme alla storia di Giuditta, tra i più fortunati della produzione napoletana della Gentileschi, conoscendosene oggi altre sei versioni autografe, tra cui quelle presentate in mostra (cat. 41, 46, 49). Tra queste, la versione oggi a Potsdam, ma già di proprietà Farnese e conservata presso il Palazzo del Giardino di Parma, è con ogni probabilità da considerarsi il diretto prototipo della tela fiorentina. Riprendendone la composizione con leggere variazioni di pochi dettagli, la tela in esame è però caratterizzata da una stesura meno accurata e da alcune rigidità nelle rese dei volti e degli incarnati. Il diretto legame tra le due opere e la conseguente commissione medicea di una copia della Betsabea già a Parma si potrebbero far risalire, secondo Bissell, al matrimonio tra Odoardo Farnese e Margherita de’ Medici (1999, p. 295). Interessato da estese lacune e da ingenti svelature, il dipinto della Galleria Palatina è stato recentemente (2008) sottoposto a un delicato intervento di restauro promosso dalla Soprintendenza di Firenze. Michele Nicolaci

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44. Artemisia Gentileschi

Susanna e i vecchioni

————— 1649 Olio su tela, cm 206 x 167,5 Iscrizioni: firmato e datato sulla base della balaustra, a destra: “artemitia / gentileschi. f. / mdcil” Brno, Moravská Galerie v Brne, inv. M 246 Opera non in mostra ————— Bibliografia Böhmová-Hájková 1956, pp. 307-308; Bissell 1968, pp. 164-165; Garrard 1989, pp. 99, 130-131, 134-135, 189, 518 n. 234; Contini 1991, pp. 76-78; Hersey 1993, pp. 330-331 n. 3; L. Daniel in Tra l’eruzione e la peste 1995, pp. 56-58 n. A11; Bissell 1999, pp. 72, 292-293 n. 50; Garrard 2001, pp. 81, 92-93; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 424-426 n. 83; Christiansen 2004, p. 121; Lattuada, Nappi 2005, pp. 89, 90 fig. 19; Mann 2005, pp. 8, 10 fig. 12; Mann 2009.

il consunto e, proprio in quanto tale, non appetibilissimo dipinto assume rilevanza tutta speciale, equivalendo all’unica carta da giocare con confidenza sull’arido tappeto della Gentileschi retour de Londres. Ultimo documento figurativo concretamente noto dell’artista, simbolicamente per giunta il medesimo tema col quale Artemisia quarant’anni prima aveva esordito, la Susanna di Brno, datata 1649, è anche la sola opera della seconda fase napoletana per la quale si disponga di “estratto dell’anno di nascita”, venendoci dunque risparmiate le consuete più o meno arbitrarie divinazioni sul tempo d’esecuzione. Proprietà nel tardo Ottocento di Heinrich Gomperz nell’allora germanofona Brünn, la grande tela (la cui iscrizione con attestato d’autografia rimase mascherata da vecchie vernici fino agli anni Cinquanta del Novecento) fu legata al museo del capoluogo della Moravia nel 1894, per atto testamentario di due anni pregresso. Occorre mitigare la spontanea severità di giudizio suscitata da questo oggetto, comunque carico di notevole significato storico, e tener conto di quanto le goffe mani della donna, il volto di lei e almeno ancora quello del voyeur di destra abbiano sofferto di guasti e abrasioni irreparabili. L’ovale del viso di Susanna, gli occhi dall’ampia sclera rivolti in alto alla protezione iperurania, se implica un parallelo con istanze classiciste ben radicate a Napoli dagli anni Trenta (Domenichino) e con passi (l’estremismo del sott’in su) recuperabili in ambito locale (Francesco Guarino: Contini 1991), invita a uno sforzo di ottimistica proiezione integrativa, tale da portarlo idealmente sui livelli del piacevole rame de La Granja (cat. 52), nel quale il volto della Vergine – che a chi scrive era sempre parso referente spurio –, cristallizzato in brano pittorico di competente, scura delicatezza chiaroscurale, si mostra addirittura in anomala sincronia con i risultati del giovane Francesco Cairo. Peraltro, la schematica geometrizzazione dei due sembianti maschili – così contrastanti con lo schema adottato per la protagonista

– potrebbe trovare ancora giustificazione (in termini di biografia “interna”) con l’assunzione di paradigmi paterni, sui quali Artemisia poté documentarsi a usura dieci anni innanzi. Il volto dell’anziano glabro è difatti di generica koiné gentileschiana e richiama vivamente la clausola del san Gregorio Magno nella pala del duomo di Ripatransone, la quale, non fosse che per sparuti corti circuiti di qualità, più oraziana di com’è non potrebbe essere. Memorabile almeno nella lucente stereometria del cupo bacile ad accessori zoomorfi, che basta da solo a determinare la profondità di campo, il dipinto non offre alcuno spunto associabile anche solo vagamente allo specifico stilistico di Bernardo Cavallino, come a queste date ci si potrebbe ben aspettare. Tuttavia, sul piano morfologico, la formula di Susanna è ripetuta letteralmente (salvo la posizione del braccio destro) nel formidabile Trionfo di Galatea di collezione privata (cat. 53), sì da stimolare lo scrivente – a suo esclusivo rischio – a leggere in quella grande pittura mitologica una coincidenza di tempo, e magari (solo in parte?) anche di autore. Probabilmente in forza del deferire a un comune prototipo (fortemente indiziato il nudo femminile al centro della Chiamata degli eletti dello zio Aurelio Lomi in Santa Maria del Carmine a Genova), la formulazione della protagonista di questa tela è traslata – in pletorica enfatizzazione mondana – in una Cantante alla spinetta della Pinacoteca del Castello Sforzesco (olio su tela, cm 189,5 x 144; inv. 843), ritenuta di pittore cremasco di metà Seicento, ma anche non aliena di venetismi alla Pietro Vecchia. Così da spingere l’immaginazione verso il luogo che dette ospitalità a Artemisia dal 1627 al 1629 e accarezzare l’eventualità che un’opera affine, non solo nella tematica, al quadro di Brno possa aver coinciso con quella citata dalle fonti letterarie. Christiansen (2004) è dell’opinione – non semplice da condividere – che il paesaggio sia opera di Domenico Gargiulo, alla pari del brano contenuto nella Betsabea del museo di Columbus, mentre la balaustra difetterebbe della “crispness of

Viviano Codazzi” per poter essere attribuibile allo specialista bergamasco. Una derivazione ridotta dalla Susanna morava è nelle collezioni del Museo Civico di Bassano del Grappa (cat. 45). Roberto Contini

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45. Atelier napoletano di Artemisia Gentileschi

Susanna e i vecchioni

————— 1650 circa Olio su tela, cm 168 x 112 Bassano del Grappa, Museo Biblioteca e Archivio, inv. 457 ————— Bibliografia J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi, 2001, p. 426; Mann 2002-2003, p. 163.

appesa in un ufficio della direzione del Museo Civico di Bassano, la tela è derivazione in formato ridotto dal prototipo della Gentileschi, firmato e datato 1649, della Moravská Galerie di Brno (cat. 44). È da chiedersi se questa onorevole replica sia nata in queste vesti oppure sia stata oggetto di amputazioni, in quanto a petto dell’opera morava si accusa la dismissione di una porzione equivalente a circa quaranta centimetri, a sinistra della protagonista. Peraltro, portata a questa più concitata misura, la composizione sembra guadagnarci in coesione formale e ordine, nella pur un po’ soffocante compressione. L’angustia del taglio compositivo adottato non parrebbe d’altro canto propriamente volontaria, atteso che la porzione del piatto ovale della (quasi solo allusa) fontana sgorgante si offre in definitiva quale elemento di disturbo, poco più che un solecismo. Tacciare brutalmente di inispirata desunzione una pittura quale questa bassanese, lascito (1973) di Mary Dirouhi Megrditchran, vedova Agostinelli – pittura peraltro contraddistinta da gran copia di varianti rispetto al putativo archetipo –, non sarebbe asserzione legittima. Nelle sue differenze essa corrisponde perfettamente al modus operandi e alla spavalderia dialettica professata dall’orgogliosa quanto mendace Artemisia, quando arriva a dichiarare originalità a tutti i costi e in ogni dettaglio (Appendice I, sub anno 1649, 13 novembre) per ciascuna delle sue creazioni! Si tratta dunque dell’iterazione di un tema e di un’iconografia per le quali la pittrice dovette essersi guadagnata un rimarchevole consenso, nella quale la regola della sua intransigente – ma tutt’altro che ferrea – inclinazione etica verso la varietas risulta in linea di massima rispettata. A prescindere dalla quasi totale rinuncia al fondale paesistico, ridotto a mera allusione di cielo annuvolato, a destra, e a sparuti lacerti vegetali, inclusivi di un nudo, spezzato tronco, sul lato opposto, le differenze più eclatanti toccano la sostituzione della balaustra mediante un muro continuo in mattoni e naturalmente la soppressione del magnifico bacile, primattore inanimato del quadro di Brno. Altra, e più larga, è poi la

ricaduta del mantello del personaggio di destra, la cui fisionomia, ulteriormente semplificata, gli occhi più aperti, ne viene come ringiovanita; il più anziano compagno sfoggia, a suo turno, barba più folta e fluente. Il volto meglio conservato di Susanna (tale, almeno, a confronto con l’omologa di Brno) appare anch’esso in non trascurabile rispondenza alla casistica fisiognomica di Francesco Guarino e di Onofrio Palumbo, quest’ultimo documentato collaboratore della Gentileschi nella sua fase estrema (Appendice I, sub anno 1653, 3 gennaio; sub anno 1654, 31 gennaio). Le pecche che si sarebbero volentieri abbonate, stornandole sulla cattiva conservazione, al dipinto moravo – fra queste, la gommosa, anatomicamente sciatta sostanza delle mani della prediletta di Davide –, le vediamo però trasferite automaticamente da un quadro nell’altro. Si dovrà allora accettare il dato di fatto che nella bottega famigliare della Gentileschi non ci si curasse più di tanto di verosimiglianza anatomica, patente contraddizione di un abito che, per frammenti, fu spesso gloria specifica della maestra. Roberto Contini

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46. Artemisia Gentileschi

Betsabea al bagno

————— 1645-50 circa Olio su tela, 225 x 226 cm Iscrizioni: sulla base della balaustra immediatamente sotto il piede destro di Betsabea: “artimisia gentilesca / fecit” Collezione privata ————— Bibliografia A. Sutherland Harris in Women Artists 1976, p. 123 nota 28; Garrard 1989, p. 133; Contini 1991, p. 85 nota 33; Bissell 1999, pp. 277-279 n. 45, fig. 180; Mann 2001, pp. 259 con fig. 101, 260; Mann 2009.

la più inconsueta delle rappresentazioni del tema “Betsabea al bagno accudita dalle ancelle” e al contempo fra tutte la meno vista in originale, questa pittura abrasa e ampiamente ridipinta (nonostante il rintelo e il trattamento conservativo del 1965) è approdata alla mostra per la condiscendenza della proprietaria e per l’inestimabile scavo indiziario di Wolfgang Prohaska. Già presso i principi di Liechtenstein, dai quali il dipinto di formato quadrotto era stato acquistato nel 1918, la Betsabea passò nella collezione viennese di Friedrich Otto Schmidt, dal quale fu venduta nel 1940 a Eduard Haas, rimanendo fino al presente presso tale famiglia. Già il nudo in precario equilibrio della protagonista, sigla riconoscibile quanto di per sé inedita per la Gentileschi (madre, si vorrebbe aggiungere), riesce diverso dai moduli impiegati nelle varianti PittiPotsdam-Gosford House e dal tipo femminile della tela già in collezione Ramunni a Conversano, riemersa a una recentissima vendita Sotheby’s di Milano (giugno 2011; cat. 49). Il giudizio non cambia a spostare l’attenzione sulla servente alla sua immediata sinistra, un modulo largo, nondimeno evocativo della figura in simile atteggiamento nella tela a più mani di Columbus, ma non senza precedenti in ambito toscano, tra Jacopo da Empoli e Pietro da Cortona. A essa prelude uno studio del Kupferstichkabinett degli Staatliche Museen di Berlino, conservato sotto il nome del Furini e poggiante su un prototipo di Raffaello, nel Parnaso (Contini in corso di stampa). Francamente inedite al repertorio artemisiesco riescono poi tanto l’ancella inturbantata quanto la notevolissima figura-quinta giallovestita, a torso nudo e in ripresa tergale. Per l’arcigna, solida attrice con turbante, sorta di corrispettivo del lombardo Carlo Francesco Nuvolone, la memoria la vorrebbe inclusa tra gli spettatori in costume orientale affrescati dal Saraceni nel Palazzo del Quirinale. Né l’evocazione del naturalista veneziano apparirà così fuori luogo, pur remota di fatto, una volta che si sia fatto luogo alla sant’Anna nella composizione famigliare della Galleria

Nazionale d’Arte Antica a Palazzo Corsini e alla sua brachimorfa costituzione. La pista Saraceni è d’altro canto promettente proprio in ordine alla Betsabea, la cui postura pare, in inversione sinistra-destra, la medesima della dea nella Venere e Marte con amorini del Museo de Arte di San Paolo, se si vuole un refrain del veneziano (angioletto in volo nel Martirio di sant’Erasmo della cattedrale di Gaeta e altro angelo nella decorazione murale minore della cappella Ferrari in Santa Maria in Aquiro). Ripescaggio ancor più palmare dal maestro parzialmente partecipe della “schola” del Caravaggio è naturalmente il braccio destro teso con l’indice puntato sciorinato dalla turbantata assistente, secondo il canone stabilito da Saraceni per esempio nel Giuseppe del Riposo nella fuga in Egitto di Frascati o nel San Rocco di Capodimonte o ancora nell’anziana accusatrice nella Negazione di Pietro della fiorentina Galleria Corsini. Non dandosi alcun rapporto di stile, questo florilegio di desunzioni non fa che gonfiare il serbatoio di conoscenze figurative della Gentileschi, alla quale verrebbe da attribuire un notebook di schizzi sulla falsariga del van Dyck, anche per giustificare i fiorentinismi protobarocchi dell’inedita seminuda in visione tergale, così deferente alle invenzioni di un Furini o di un Ficherelli, e per tali implicitamente ancorati alla necessità di ritorni in riva all’Arno posteriori al soggiorno del 1613-20, ben dentro il terzo decennio se non oltre, dunque attuati su carrozze aventi origine in Napoli. Precario quanto si vuole lo stato di salute della tela, la sinfonia di gialli, verdi e rossi, la preziosità dei tessuti, la varietà delle pose, la filante, infinita chioma di Betsabea sono pallidi sì ma veridici testimoni del pristino splendore. Giudicabile solo a grandi linee, il cast delle attrici pare rinnovato e la larghezza di modi non può che lasciare aperto l’interrogativo su chi, nell’avviata officina della Gentileschi, possa aver compartecipato all’esecuzione: un’esecuzione già forse proiettata sul medio Seicento, non compatibile in questo caso coi modi del socio Onofrio Palumbo, quanto magari con quelli di un dotato collaboratore

(un famigliare?), nelle more della raffinata e largamente imperscrutabile koinè artemisiesca. Roberto Contini

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47. Artemisia Gentileschi

Giuditta e la fantesca Abra con la testa di Oloferne

————— 1645-50 circa Olio su tela, cm 272 x 221 Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, inv. Q 377 ————— Bibliografia De Rinaldis 1928, p. 109 n. 377; Mostra del Caravaggio 1951, p. 68 n. 102; Garrard 1989, p. 133; Contini 1991, p. 85 nota 33; R. Muzii in Museo Nazionale di Capodimonte 1995, p. 95 (con bibliografia completa); Bissell 1999, pp. 286-287 n. 48c, fig. 192.

fondata sul formidabile prototipo del Detroit Institute of Arts (1625 circa), ma con ripresa assai meno ravvicinata, la grande tela è stata finora osservata con qualche indifferenza (Garrard 1989 la vuole opera di bottega; R. Muzii in Museo Nazionale di Capodimonte 1995 la identifica con la copia eseguita da Francesco Maria Retti), certo in ragione della sporcizia che ne alterava affatto la lettura. Dopo il sensibile intervento di Luigi Coletta e Claudio Palma (si veda infra) la composizione ha riguadagnato perfetta visibilità (ciò di cui dubitava Bissell 1999), inclusiva dell’immane cadavere ruggine (costituito com’è di mera preparazione) di Oloferne, ancora scalpitante alle spalle di quelle donne invero tanto poco pie. Il clangore dei riguadagnati punti cromatici, dal tipico blu elettrico della stoffa accalcata in primo piano al lilla del mantello di Giuditta al mattone delle vesti di Abra col magnifico riverberare sull’abito giallo-oro della padrona, ci proietta in un contesto sopraffino, degno di Artemisia ma, almeno per la ferina fisiognomica, da lei un poco distante. Non potendosi proporre che coordinate d’esecuzione generiche, ovviamente del tempo partenopeo e quasi certamente della frazione post-londinese, non anteriore dunque al quinto decennale, si dovrà anche guardare con sospetto – secondo l’autorevole consiglio di Paola Santucci e Mariella Utili – alla provenienza farnesiana, unanimemente asserita. Da una parte il dipinto non ha tradito, non senza stupore, alcun riferimento a tale casato, né dall’altra sul profilo dello stile vi è cogente necessità di leggerlo in comunità di committenza col dittico di Potsdam (Betsabea e Tarquinio e Lucrezia), quello sì proveniente dal Palazzo del Giardino a Parma, ma che rimane velata da mistero, specialmente in ordine alla presenza inventariale nel tardo Seicento di copie del citato carneade Retti (1624-1686), ciò che ha fatto a intermittenza dubitare dell’autografia gentileschiana di tutte e tre le pitture, provvedimento patentemente non autorizzabile. Queste ombre sono destinate a essere dissolte tra pochi anni, quando – come mi informa Franziska Windt – le due ampie tele di Potsdam verranno finalmente

schiodate dalla parete dove sono state fissate da circa due secoli e mezzo e restaurate. Le insolite grimaces delle due alleate, fiera l’eroina, poco meno che grottesca la pachidermica assistente, chissà se frutto di peritissimo pennello di figlia, denunciano quasi una rinnovata familiarità con le maschere meno scelte di forestieri a Roma, quali Nicolas Berchem per Giuditta e Jacob Pynas per la prosperosa Abra. Di quest’ultima, un adeguato precedente può rintracciarsi, a destra, tra il popolo accorso alla Predica del Battista della Galleria Palatina. Alle accusate deviazioni somatiche si accompagnano passi di grande maestria, quali il maculato panno in cui è avvolta la testa mozzata del tiranno, sul quale si strascica mirabilmente l’ombra procurata dal braccio sinistro dell’ancella, o quelle porzioni di elmo e bracciale guarnite di vaporoso piumaggio tricolore, preziosamente rilucenti come in un Vecchia o un Ricchi, sul tavolo a sinistra, contro una bugia allo zenit del suo chiarore. Roberto Contini

Relazione di restauro Tecnica di esecuzione e stato di conservazione La tela di supporto, in fibra di canapa, è composta di tre parti, due delle quali aggiunte lungo il lato sinistro tramite una cucitura verticale. La preparazione è composta da una mestica costituita da olio e terra bruna. La pellicola pittorica è a olio. Il dipinto presentava una vecchia foderatura, apparentemente eseguita “a pasta”, che risaliva a un restauro ottocentesco, riconducibile all’intervento documentato nel 1806 a cura di Giovanni D’Episcopo. Alla stessa epoca risaliva anche il telaio. La tela era deformata da rigonfiamenti dovuti alla scarsa tensione. La pellicola pittorica presentava una diffusa crettatura causata da una mediocre adesione della preparazione al supporto. Uno spesso strato di vernice ingiallita offuscava la cromia sottostante; infine erano visibili sparsi restauri alterati, concentrati soprattutto sul fondo; l’indagine UV ha fornito ulteriori conferme all’analisi visiva.

Intervento di restauro Per arrestare il processo di degrado si è intervenuti per fasi graduali. Poiché le condizioni della pellicola pittorica non consentivano di procedere direttamente a una pulitura puntuale e approfondita, si è ritenuto indispensabile rimuovere preliminarmente un primo strato di vernice. Si è proceduto quindi alla velinatura protettiva e, dopo aver smontato la tela dal telaio e aver rimosso la vecchia tela di rifodero, si è proceduto all’operazione di consolidamento, realizzata con colla animale, al fine di migliorare l’adesione degli strati pittorici al supporto. In questa fase, sul retro della tela originale si è potuto leggere una “A” rovesciata e un volto di profilo, disegnati a pennello con colore a olio. Il dipinto è stato quindi foderato con la tradizionale tecnica della foderatura “a pasta”, composta da farina e colla animale. È stato così possibile eseguire la pulitura, che ha dato risultati molto buoni per la leggibilità complessiva dell’opera, recuperando la preziosità e la brillantezza delle stesure pittoriche, ancora in buono stato di conservazione. Sono emersi la figura in scorcio del corpo di Oloferne nel fondo scuro a destra, il panneggio della tenda in alto e a sinistra e accanto all’armatura uno scudo, molto simile a quello raffigurato nella Minerva di Firenze. Sono emersi inoltre numerosi pentimenti. In particolare, quelli più significativi interessano la mano sinistra con cui Giuditta si protegge dalla luce della candela e la mano e il braccio sinistri della fantesca con il risvolto bianco. Le lacune sono state colmate con stuccature a base di gesso e colla e integrate con colori a tempera e a vernice. La verniciatura finale è stata eseguita a pennello con resina mastice. Luigi Coletta, Claudio Palma

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48. Artemisia Gentileschi

Giuditta e la fantesca Abra con la testa di Oloferne

————— 1640-45 circa Olio su tela, cm 235 x 172 Iscrizione sulla lama della spada: “art. gen.” Cannes, Musée de la Castre, inv. 2006.O.751 ————— Bibliografia Women Artists 1976, p. 119; Bilous in Soubiran 1983, pp. 81-83, n. 22; Biedermann 1988, p. 39; Contini 1991, p. 79; R. Muzii in Museo Nazionale di Capodimonte 1995, p. 95; Bissell 1999, p. 280; Mann 2009.

questa interpretazione del drammatico postludio all’uccisione di Oloferne da parte di Giuditta è uno dei dipinti meno studiati e più raramente esposti di Artemisia. La sua presenza in mostra offre una rara opportunità di valutare il suo ruolo nell’ambito della carriera dell’artista. (Il dipinto è accettato come autografo da N. Bilous nel catalogo del museo di Cannes, pp. 81-83, n. 22 come riferito da Bissell; Biedermann 1988, p. 39; Contini 1991, p. 79; R. Muzii in Museo Nazionale di Capodimonte 1995, p. 95; Bissell 1999, p. 280.) Basato su una composizione che Artemisia elaborò per la prima volta negli anni Venti del Seicento, presenta miglioramenti compositivi rispetto a quella prima versione; al tempo stesso, rivela che la pittrice (o forse la sua bottega) produceva repliche di composizioni popolari prive della scintilla creativa delle sue opere migliori. Ciò nonostante, il dipinto esibisce begli esempi di illuminazione drammatica, un’eroina credibile che reagisce a un pericolo nascosto, e un abile trattamento di consistenze e stoffe diverse. La vedova Giuditta sosta in un interno buio, dopo aver decapitato il generale assiro. La sua fantesca avvolge la testa della vittima in un panno mentre le due donne si preparano a fuggire dall’accampamento nemico, con l’intenzione di esibire la testa come prova della riuscita del loro piano di uccidere il comandante dell’esercito assiro. Le due donne si arrestano e guardano fuori, verso sinistra, avendo presumibilmente udito un rumore. Giuditta alza la mano per segnalare alla sua complice di fermarsi, creando un momento drammatico che avvince lo spettatore. Questa versione, che si basa sul dipinto del 1625 ora al Detroit Institute of Arts, presenta alcune revisioni rispetto all’opera precedente. L’artista ha corretto un errore del dipinto di Detroit, in cui la palma della mano di Giuditta, rivolta verso lo spettatore, era illuminata dalla candela in realtà collocata dietro di essa. Nel quadro di Cannes, la mano è girata in modo da ricevere correttamente luce dalla fiamma tremolante. La mano di Giuditta, così rivista, accenna ancora un gesto di avvertimento, ma ora potrebbe anche

essere pronta a spegnere rapidamente la candela nell’eventualità dell’arrivo di un intruso. Lo spazio del dipinto è stato ampliato, in modo che ci sia una certa distanza tra la fantesca inginocchiata e la figura di Giuditta in piedi. L’illuminazione, più selettiva che nella versione precedente, rende più pervasiva l’oscurità in cui le due donne si accingono a immergersi. L’artista ha ripreso le braccia incrociate della tela originale, ma in questa versione successiva esse appaiono quasi parallele e più vicine l’una all’altra. Forse qui Artemisia intendeva alludere al gesto di pudicizia tipico delle antiche sculture della Venus pudica, in cui la dea tenta di nascondere la propria nudità coprendola con le mani. Richiamandosi in tal modo alla dea della bellezza, la pittrice fa riferimento alla rinomata bellezza di Giuditta, mettendo al tempo stesso in rilievo, per contrasto, l’atto di coraggio della sua eroina. A dispetto di tali raffinatezze nell’interpretazione del racconto, il quadro contiene esempi di ripetizione meccanica di elementi di studio, quali ci si può aspettare nella produzione di soggetti popolari molto richiesti. La posa dell’ancella, come ha rilevato Bissell, ricorre in molte delle sue Betsabee, altro soggetto che sembra essere stato sfornato a ripetizione dalla bottega napoletana di Artemisia (Bissell 1999, p. 280). Anche le stoffe leggere e gli oggetti metallici finemente decorati sembrano essere tipici di questi quadri spesso reiterati, come si vede nel braccialetto di Giuditta, nel guanto di ferro, nell’elmo e nello scudo. Ward Bissell ha proposto una datazione intorno al 1640-45, anche se può essere difficile stabilire con tanta precisione la posizione del quadro nell’ambito della carriera di Artemisia. Il suo complesso argomentare si basa su un gruppo di tre dipinti – una Giuditta e la fantesca simile, conservata a Napoli, una Betsabea e un Tarquinio e Lucrezia ora a Potsdam – che lo studioso data tra il 1645 e il 1650, e sulla sua valutazione del dipinto di Cannes come antecedente a questi. (Il ragionamento è troppo complesso per poter essere riassunto in questa sede; si veda Bissell 1999, pp. 281287.) In considerazione dello stato ancora

embrionale della nostra conoscenza della carriera napoletana di Artemisia, può essere difficile stabilire una datazione più precisa, benché il quadro appartenga sicuramente agli anni di Napoli successivi al 1640, dato che l’incidenza di composizioni di nuova concezione sembra diminuire notevolmente dopo quella data. Documenti relativi all’ultima commessa di Artemisia, scoperti da Eduardo Nappi e pubblicati da Riccardo Lattuada nel 2003, indicano che Artemisia accettò un incarico per un gruppo di tre quadri nel gennaio 1654. (Si veda R. Lattuada, E. Nappi in Artemisia Gentileschi 2005, pp. 93-94, 98. Lo stesso documento fu pubblicato da De Vito 2005, il quale apparentemente non era a conoscenza della pubblicazione precedente.) È possibile che questo dipinto, o uno simile, facesse parte di quel gruppo, giacché la pittrice e la sua bottega continuavano a produrre composizioni popolari per collezionisti interessati. Tanto Bissell quanto Contini hanno giustamente rilevato che il dipinto è stato decurtato ai lati, il che spiega la spalla tagliata dell’ancella e l’elmo inadeguatamente ridotto. L’iscrizione sulla lama della spada (“ART. GEN.”) è sicuramente più tarda, come ha correttamente supposto Bissell; non corrisponde a nessun’altra firma dell’artista, ma soprattutto è priva della creatività che caratterizza il marchio autografo di Artemisia (si veda Mann 2009). Judith W. Mann (Traduzione Arianna Ghilardotti)

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49. Artemisia Gentileschi

Betsabea al bagno

————— 1640-45 circa Olio su tela, cm 288 x 228 Collezione privata ————— Bibliografia Hermanin 1944, pp. 46-47; Voss 1960-1961, p. 81; Bissell 1968, p. 163; A. Sutherland Harris in Women Artists 1976, p. 123, n. 48; Semenzato 1978; Marini 1981, p. 370; Gregori 1984, p. 150; Grabski 1985, p. 52; Garrard 1989, pp. 129-131; R. Contini in Artemisia 1991, p. 179; Bissell 1999, p. 279, fig. 184; Sotheby’s 2011.

la provenienza di questa imponente tela può essere ricostruita solo a partire dal primo dopoguerra, quando è documentata nella collezione Ramunni presso il castello di Conversano (Bari) dove la vide Federico Hermanin che per primo la pubblicò come originale artemisiesco nel 1944. L’opera, passata nel 1978 in collezione privata romana a seguito di una vendita all’asta (Franco Semenzato, Roma, Villa la Castelluccia), è riapparsa sul mercato antiquario nel 2011 (Sotheby’s Milano, 14-15 giugno 2011, n. 27) ed è per la prima volta esposta in una mostra a confronto di altre composizioni dipinte da Artemisia e raffiguranti lo stesso soggetto. L’esame diretto del dipinto non lascia adito ad alcun dubbio relativamente alla sua autografia, pur se la resa pittorica appare semplificata in alcuni passaggi chiaroscurali dell’incarnato di Betsabea, in particolar modo nella zona del volto. L’alta qualità della pittura è comunque evidente nelle stoffe, negli incarnati e nel fondale naturalistico in cui si intravede il palazzo di re David, bizzarra figurina dalle braccia tese e aperte, essenziale alla narrazione dell’episodio veterotestamentario (2 Samuele 11, 2). Come si può notare da un confronto con le altre redazioni del soggetto, Artemisia sembra riutilizzare, con sapiente assemblaggio compositivo e con l’aiuto dei suoi cartoni, alcuni elementi figurativi, variandone altri e modificando sostanzialmente il risultato finale in modo che ogni redazione abbia una sua propria unicità. La figura dell’ancella di sinistra è infatti identica a quella che compare nelle redazioni di Potsdam, della Galleria Palatina di Firenze (cat. 43) e in quella distrutta già a Gosford House; mentre la figura della giovane Betsabea, con il braccio sinistro alzato nell’atto di reggere la lunga treccia di capelli, coincide con la versione in collezione privata viennese (cat. 46). Ancora la bellissima veste ocra con ricami floreali e il corpetto bianco disposta nell’angolo in basso a destra, dietro cui si vede lo splendido catino metallico con protomi leonine, ritorna nelle versioni di Firenze (R. Contini in Artemisia 1991, p. 179) e di Gosford House. Inedita è invece la soluzione del raffinato

tendaggio vermiglio, che scenograficamente sostituisce una quarta figura, altrove presente. Il ricorrere sempre più frequente di questi schemi, presenti anche nelle diverse versioni delle Giuditte o delle Susanne, durante il secondo soggiorno napoletano della pittrice (1640 circa - 1654) è sicuramente da mettere in relazione con una pratica pittorica più semplificata e, contestualmente, con un intervento più organico della bottega che verosimilmente non conta più gli stessi giovani talenti presenti negli anni Trenta, nel frattempo diventati indipendenti protagonisti della scena artistica partenopea. Non è possibile in questo caso particolare avanzare sostanziali prove stilistiche a favore dell’identificazione di una personalità artistica alternativa a quella della pittrice né per la conduzione delle figure, né tanto meno per i dettagli scenografici come l’architettura sullo sfondo. A questo proposito è interessante notare come il confronto con la versione Matthiesen (cat. 41) mostri la sostanziale differenza nell’ideazione e nella conduzione del palazzo di re David, lì da ritenere sicuramente di altra mano, così come nella resa stilistica delle figure femminili, sostanzialmente omogenea nella tela in esame e radicalmente eterogenea nella tela oggi a Londra, dove si è riconosciuto un intervento di Bernardo Cavallino. A proposito del dettaglio architettonico con la statua entro la grande nicchia, Bissell (1999, p. 279) sottolinea la vicinanza ad alcune prove di Paolo Veronese, il cui ricordo fu forse rinverdito durante il soggiorno a Londra, quando, a diretto contatto con i modelli del padre Orazio, Artemisia poté trarre spunto anche per la figura femminile di sinistra (cat. 43) e ritornare con rinnovata attenzione alla resa tattile dei materiali, in particolar modo delle stoffe preziose. Di difficile identificazione è la statua femminile entro il nicchione, dalla chioma agghindata con fiori e reggente nella sinistra un fazzoletto, forse da ricondurre al tragico svolgimento dell’amore illecito tra David e Betsabea. In mancanza di un punto fermo nella datazione delle opere di Artemisia relative al secondo soggiorno napoletano (1640 circa -

1654) si dovrà quindi optare, in base a quanto finora argomentato, per una datazione a ridosso del rientro della pittrice da Londra, tra il 1640 e il 1645 circa, data condivisa da gran parte della critica (con l’eccezione di Gregori 1984, p. 150, che la vede prossima all’Annunciazione oggi a Capodimonte, del 1630). Michele Nicolaci

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50. Ambito di Artemisia Gentileschi

Allegoria della Retorica

————— 1650 circa Olio su tela, cm 90 x 72 Robilant+Voena, Londra-Milano ————— Bibliografia Sotheby’s 1988, lotto 882; Bissell 1999, pp. 338-339.

comparsa sul mercato antiquario alla fine degli anni Ottanta, questa bella tela di collezione privata fu interpretata come Allegoria della Retorica e avvicinata al nome di Artemisia (Sotheby’s 1988, lotto 882). Discostandosi sostanzialmente rispetto alla descrizione letteraria presente nell’Iconologia del Ripa (1603, ed. 1992, pp. 381-382), la donna raffigurata risponde probabilmente a un modello comunque largamente utilizzato, come i cosiddetti “Tarocchi del Mantegna”. A tale prototipo rimandano sia l’aspetto regale della donna, sottolineato dal bracciale prezioso e dai fili di perle che le adornano il capo come una corona, sia la piccola spada parzialmente nascosta sotto la veste. L’atteggiamento ideativo è pertanto molto vicino alla libertà e creatività con cui Artemisia interpreta le iconografie ufficiali, com’è, d’altra parte, evidente anche nell’Allegoria dell’Inclinazione per Casa Buonarroti. Nessun dato storico interviene a illuminare la genesi e la cronologia della tela, né una credibile ipotesi di paternità. La sua finitezza e qualità denunciano esplicitamente i numerosi debiti con l’arte della Gentileschi, ma non permettono tuttavia una piena inclusione nel suo corpus, imponendo quindi di sondare la possibilità dell’esistenza di uno stretto collaboratore, se non addirittura di una vera e propria bottega, già prima del trasferimento a Napoli. Si dovrà credere che l’opera sia nata a diretto contatto con i modelli della pittrice, rimanendo immune da altre fonti, denunciando quindi una formulazione guidata, se non esplicitamente diretta, da Artemisia stessa. In tal senso si potrebbe immaginare un’adesione quasi mimetica a un modello ancora sconosciuto, in modo assai simile a quella formula mimetica che contraddistinse anche gli inizi della Gentileschi presso la bottega paterna. La sontuosità del manto di lapislazzuli, insieme ad alcuni espedienti tecnico-formali nella resa degli occhi umidi e dell’incarnato morbidissimo del viso e della scollatura, cita infatti esplicitamente i modelli artemisieschi della produzione fiorentina – o immediatamente successivi al rientro a Roma – a partire dalla già ricordata Inclinazione per continuare con la

Conversione di Maddalena Pitti, che peraltro indossa gli stessi orecchini, più volte dipinti da Artemisia. Bissell (1999, p. 339) considera la tela in esame e la Maddalena penitente (già Finarte) dipinte da una stessa mano, mentre Contini e Papi giudicano autografa la Penitente, a conferma dell’alta qualità di questa Allegoria (Contini 1991, p. 66 e fig. 49), sebbene l’enfatizzazione di un virtuosismo calligrafico finisca per compromettere, nell’Allegoria più che nella Maddalena, il risultato finale, immobilizzato in un aspetto arcaizzante e artificioso che ne stempera la forza comunicativa, propria del naturalismo della “pittora”. Da rilevare è l’apertura del Bissell (1999, p. 339) che immagina una possibile autografia di Prudenzia, figlia maggiore di Artemisia, nata nel 1617. Scrivendo ad Andrea Cioli l’11 dicembre 1635, la Gentileschi prometteva di allegare un quadretto della figlia raffigurante Santa Caterina. Tuttavia, per immaginare una prova della figlia, bisognerebbe situare l’Allegoria almeno ai tardi anni Trenta, quando questo genere di soggetti sembra ormai desueto nella produzione della Gentileschi. Le superfici levigate e lucide, le cromie brillanti e uniformi possono essere avvicinate ad alcune formulazioni di Angelo Caroselli intorno agli anni Venti (come la Vanitas della collezione Longhi), pittore con il quale è stato più volte proposto un avvicinamento stilistico durante il secondo soggiorno romano della pittrice. In conclusione, si può notare una suggestiva somiglianza tra la mano destra della donna che tiene il pennino d’oca, tra l’indice e il pollice, e la famosa mano di Artemisia con il pennello disegnata da Pierre Dumonstier le Neveu e datata al 31 dicembre 1625 (Londra, British Museum), in una data che confermerebbe, peraltro, le argomentazioni qui presentate. Michele Nicolaci

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51. Pittore napoletano della prima metà del Seicento (Filippo Vitale?)

Allegoria della Pittura

————— 1630-40 circa Olio su tela, cm 95,7 x 132,6 Ville du Mans, Musée de Tessé, inv. 10.69 ————— Bibliografia A.-M. Lecoq in La peinture dans la peinture 1982, pp. 40-41; Brejon de Lavergnée, Volle 1988, p. 161; F. Chaserant in Du Manierisme au Baroque 1995, pp. 92-93; Bissell 1999, pp. 299-301 n. X-1; Papi 2000, p. 452; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 353-355 n. 64; Papi 2003, pp. 146-147 n. 26, tavv. XLII-XLIII; Garrard 2005, pp. 106 con fig. 12, 107, 119 note 13-15; Lattuada, Nappi 2005, pp. 81, 82 con fig. 4; Mann 2005, pp. 2-3, 5 fig. 4; Porzio 2007, p. 288 nota 48.

quest’opera insolita, di iconografia ai limiti della perversione e nell’Ottocento creduta di Guido Cagnacci, è stata rivelata appena nel 1988 da Arnauld Brejon con la paternità, comprensibile anche se non perfettamente calzante, di Artemisia Gentileschi. Già proprietà della famiglia Le Popelinière, la tela è appannaggio del Musée de Tessé dal 1836. In seguito accettata e respinta, l’autografia della Gentileschi, verso il cui nome, almeno quale persona fisica alla quale qui si vorrebbe alludere, concorrerebbero suggestioni esterne, biografiche quanto addirittura autobiografiche (Bissell 1999), non pare reggere alla prova dello stile, ma certo proietta questa rara immagine nel giusto contesto. Bissell, che lega la conclamata oscenità dell’assunto a un famoso dipinto di Giovanni Baglione (Venere fustigata da Cupido, già in collezione Zeri), aggrega ipso facto la donna di Le Mans alla giusta specie (ancora del Baglione, il medesimo tema è trattato in una pittura del Museo Provincial de Bellas Artes di Valencia) ma alla famiglia sbagliata, estendendo alle competenze del pittore romano anche questo magnifico pezzo (zibibbo a lui patentemente inaccessibile), nel quale arriva a vedere consumata la vendetta dell’acerrimo rivale del padre, nel mostrarne in questi “didascalici” termini la scandalosa figlia. Complessa quale si offre l’anamnesi tanto dello stile che dell’iconografia (non bastando il generico rinvio al Ripa, se la maschera vuole mescidare gli attributi della Pittura – chissà mai – con quelli della musa della Commedia, Talia), e tenendo conto del cattivo stato di una porzione decisiva, quale la guancia, al fine di formarsi un giudizio, andrà ancora indicato come la radiografia (J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001) abbia denunciato le incertezze dell’autore a risolvere il tema propostogli (difficilmente propostosi), inizialmente contenente sotto il braccio sinistro della donna la possibile immagine di un vescovo con mitra piegato verso altra figura davanti a lui inginocchiata, oppure il riutilizzo ad altro scopo di materiale giacente in studio. Non ci si deve dunque fidare di quanto la

clausola del volto della donna assopita ci trasmette, nel suo certo divergere dai modi di Artemisia, ma ci si può almeno schierare contro le datazioni nel secondo e terzo decennio del Seicento e il luogo del figurativo delitto, Roma, proposti con qualche unanimità, e seguire piuttosto la datazione più tarda, negli anni napoletani di Artemisia, suggerita da F. Chaserant (in Du Manierisme au Baroque 1995). Il censimento realistico del così veridico impiantito di mattoni e la sostanza spessa, tridimensionale del magnifico broccato bruno operato a losanghe d’oro rinvia, nel generale tono cupo, alla Napoli dei grandi naturalisti di seconda o terza ondata, quali Francesco Guarino, Filippo Vitale e il figliastro di questi, Pacecco De Rosa, al meglio dei loro repertorî sartoriali. A dispetto del consenso (Lattuada, Nappi 2005) o del dissenso (Papi 2000 e 2003 si è schierato con determinazione forse eccessiva verso il nome dello Spadarino) anche meramente – e, si deve pur ammettere, pleonasticamente – censorio (Garrard 2005) sul nome di Artemisia, dirottare su tale congiuntura partenopea il responsabile di questa cruda allegoria (giusto il Vitale?), affatto scevra da ipoteche idealizzanti, parrebbe la più saggia delle opzioni (Porzio 2007, p. 288 nota 48). A questo mondo di nudità femminee non si era certo sottratta la stessa Gentileschi, tanto negli anni romani (cat. 19) quanto in quelli napoletani (cat. 32), così da ampiamente giustificare l’ipotesi attributiva a lei favorevole, fatta salva l’eliminazione dal suo repertorio delle magnifiche, eppure spurie, edizioni del tema “Venere e Cupido”, rispettivamente presso la Fondazione Piasecka Johnson a Princeton e in una raccolta privata, la seconda da confermarsi a Giovan Francesco Guerrieri (cfr. Orazio e Artemisia 2001, nn. 70, 82). D’altro canto, proprio nella Roma del terzo decennio, e particolarmente nell’ambito di Vouet e satelliti connazionali, nascono immagini forti quanto questa del Musée de Tessé. Una di esse è la Donna giacente del Musée di Cahors, assegnata giusto a Simon Vouet nel 1627 sulla fede di goffa iscrizione non antica apposta sulla tela.

L’eccellente (a voler speculare su – auspicabilmente non irreversibili – perduti fasti), comunque anche nello stato attuale spettacolare e rara realizzazione, ancora muta di pedigree bibliografico, occupa paziente la sala d’aspetto del medico che ne ripristinerà i meriti. Roberto Contini

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52. artemisia gentileschi

La Vergine offre il rosario al Bambino

————— 1651 Olio su rame, cm 59,5 x 38,5 Iscrizioni: firmato sul tavolo “artemitia gentileschi” Madrid, Patrimonio Nacional, inv. 10014628 ————— Bibliografia Poleró y Toledo 1857, p. 144, n. 662; Ruffo 1916, p. 53; Pérez Sánchez 1965, p. 500; Borea 1970, pp. 46-47; Pérez Sánchez 1973, n. 22; Nicholson 1974, p. 611; Garrard 1989, pp. 399-400; Contini 1991, pp. 84 nota 23, 86 nota 78; Bissell 1999, pp. 99, 293-295 n. 51; Garrard 2001, pp. 9, 127-128 n. 20; J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 427-429, n. 84; Mann 2005, pp. 2, 4; J.W. Mann in Artemisia Gentileschi 2005, pp. 72-73; Mann 2010, pp. 417-418.

il dipinto in esame è citato per la prima volta nella corrispondenza tra Artemisia e il collezionista siciliano don Antonio Ruffo. In una lettera datata 13 agosto 1650, Artemisia fa menzione di questa “Madonina in piccolo”, e qualche tempo dopo, il 1° gennaio 1651, scrive che il “piccolo rame” è finito per metà. Benché non tutti gli studiosi abbiano collegato l’accenno a questo specifico dipinto, Bissell concluse correttamente, nel suo catalogue raisonné (1999), che quel “rame” era proprio il quadro di cui stiamo parlando. (Pérez Sánchez 1973, n. 22; Nicolson 1974, p. 611. Entrambi datano il dipinto al periodo fiorentino di Artemisia, tra il 1614 e il 1620.) La devozione al rosario conobbe un rinnovato fervore nel tardo Cinquecento; specialmente dopo la vittoria contro i turchi a Lepanto, attribuita all’intervento della Vergine e all’efficacia del rosario, il suo impiego si diffuse ulteriormente. Questa pratica offriva ai fedeli uno strumento personale di preghiera, e il nostro quadretto, che raffigura la Vergine con un rosario in mano, era senza dubbio destinato alla devozione privata. Il rosario era spesso rappresentato per mezzo di una corona o di una ghirlanda di rose; qui l’allusione è espressa dalla rosa che Gesù stringe nella manina, e dal mazzolino sul tavolo. Il dipinto aveva ricevuto scarsa attenzione prima di essere esposto alla mostra Caravaggio y el naturalismo español, nel 1973. Nonostante la firma bene in vista, l’attribuzione non è stata accettata da tutti gli studiosi, il che è comprensibile, in considerazione del formato e dello stile, unici nell’ambito dell’opera di Artemisia. La tavolozza di verde saturo, rosso intenso e ricco blu non corrisponde a nessun altro quadro della pittrice. Contini, per esempio, ha definito incongruo lo stile del quadretto, mentre Borea lo ha attribuito a Caroselli, sostenendo che la firma fu aggiunta successivamente, per aumentarne il valore (Contini 1991, p. 84; Borea 1970, pp. 46-47). Garrard ha messo in dubbio l’attribuzione, dovuta, secondo la studiosa, a una certa tendenza a presupporre una mano femminile quando la rappresentazione appare femminile (Garrard 1989, p. 9). Tuttavia, si possono rilevare alcune analogie tra questo

quadro e altri dipinti, eseguiti da Artemisia nell’ultima fase della sua carriera. Il velo trasparente richiama una stoffa simile che appare in una Betsabea degli anni Trenta (Halle, collezione privata); lo stesso motivo si ritrova nella Betsabea di Columbus e nella Santa Nicea di Capodimonte, e anche la figlia di destra nel Lot e le sue figlie di Toledo (Ohio) indossa un velo del genere. Bissell ha messo in relazione la mano e il braccio destro della Vergine con vari altri dipinti tardi di Artemisia. La Vergine che offre il rosario al Bambino dovrebbe essere collocata nell’ambito delle piccole immagini devozionali della Madonna che cuce, in cui spesso comparivano allusioni al rosario, generalmente per mezzo di una corona di rose. Il gesto di Maria si può far risalire a un piccolo rame dipinto da Guido Reni per il cardinale Borghese nel 1606, di cui si erano perdute le tracce, che è stato riscoperto una decina di anni fa. (Il dipinto è attualmente sul mercato dell’arte a Londra. Per una riproduzione, si veda J.W. Mann in Artemisia Gentileschi 2005, p. 73.) La Vergine di Artemisia alza la mano con il rosario in una posa identica a quella di Reni, che si accinge a infilare l’ago. Evidentemente Artemisia conosceva il dipinto, dato che riprende non soltanto lo stesso gesto, ma anche la stessa tavolozza di colori: la Madonna di Reni ha una veste rossa, e un cuscinetto di un blu brillante appoggiato in grembo. La Vergine che cuce di Guido Reni fu offerta da Scipione Borghese al cardinale Ludovisi l’8 settembre 1622 (si veda Wood 1992). Se la Susanna di Burghley House di Artemisia fu una commissione del Ludovisi eseguita nel 1622, come ritengono molti autori, è possibile che la pittrice avesse visto il dipinto di Reni e ne avesse tratto ispirazione per il suo rame tardo. Questo adattamento, da parte di Artemisia, di un modello di Reni per un dipinto da lei realizzato per don Antonio Ruffo ci fa intuire come l’artista interagiva con i suoi committenti: forse “corteggiò” Ruffo facendo leva sul suo orgoglio di collezionista (questa supposizione si deve a Paul Crenshaw, il quale in un articolo del 2003 ha suggerito che Artemisia possa aver lusingato Ruffo). Una deviazione così palese

dalla tavolozza e dalla tipologia di figure che siamo abituati a collegare all’opera della pittrice fa pensare che Artemisia possa aver copiato intenzionalmente la maniera di Guido Reni, uno degli artisti prediletti da collezionisti rinomati come Scipione Borghese e il cardinale Ludovisi, perché il suo committente se ne accorgesse. Offrendo a Ruffo un tale dono, Artemisia sottintendeva che egli fosse un committente raffinato, alla stregua dei suoi predecessori romani. I lavori napoletani della pittrice sono stati definiti eterogenei dal punto di vista stilistico. È stato detto che Artemisia imitasse la maniera artistica predominante nella città in cui si trovava a lavorare; la testimonianza offerta da questo piccolo rame indica le ragioni strategiche che sottostavano a tali mutamenti stilistici. La cauta negoziatrice che scriveva a Ruffo una frase come “ritroverà un animo di Cesare nell’anima di una donna...” era un’astuta donna d’affari nel mondo artistico napoletano della metà del Seicento (Garrard 1989, p. 397). Judith W. Mann (Traduzione Arianna Ghilardotti)

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53. Bernardo Cavallino

Trionfo di Galatea

————— 1650 circa Olio su tela, cm 190 x 270 Collezione privata ————— Bibliografia Christie’s 2007, p. 112, n. 91; N. Spinosa in Ritorno al barocco 2009, I, pp. 196-197, n. 1.95.

presentato alla vendita presso Christie’s, New York, 13 aprile 2007 con l’attribuzione a Bernardo Cavallino, è stato esposto alla mostra sul barocco a Napoli del 2009-2010, con una datazione al quinto decennio del secolo, insieme al Trionfo di Anfitrite (cm 152 x 205) della National Gallery of Art di Washington, spesso impropriamente indicato, per affinità tematiche, iconografiche e compositive, come Trionfo di Galatea, assegnato allo stesso pittore napoletano, ma con una datazione avanzata al 1650 o poco dopo (N. Spinosa in Ritorno al barocco 2009, I, pp. 198-199, n. 1.96), e in precedenza anche considerato quale risultato di una sua collaborazione con Artemisia Gentileschi (Grabski 1985; R. Contini in Artemisia 1991; Agnati 2001) o con Onofrio Palumbo (Causa 1993). Il dipinto in argomento illustra, dalle Metamorfosi di Ovidio, il mito greco di Galatea, divinità marina dalla pelle bianca come il latte, figlia di Nereo e sorella di Anfitrite, sposa felice di Poseidone, dio del mare, che, disperata per la morte dell’innamorato, il giovane e bellissimo Aci, ucciso per gelosia da Polifemo, ottenne dagli dei che il sangue sgorgato dal suo corpo si trasformasse nelle limpide acque di un fiume in cui potersi tuffare. Significative, anche per la identificazione dei due soggetti, le differenze riscontrabili tra la Galatea e l’Anfitrite: diverse, infatti, le reazioni emotive delle due protagoniste (esagitata nei gesti e supplichevole nei tratti del volto, la sventurata Galatea; serena, sorridente e quasi sognante la più fortunata sorella, felice per la prossima unione con Poseidone); diversi i cocchi su cui siedono le due Nereidi, che, trainati da una coppia di delfini, le trasportano sulle onde del mare (per Galatea, che, manto azzurro al vento, si appoggia con la destra al ramo di rosso corallo, è la valva di un’enorme conchiglia; per Anfitrite, alla guida dei due delfini con preziose redini in seta rossa e seduta su un incredibile tronco di corallo, è la fantastica “corazza”, irta di aculei, di una gigantesca granseola); cinque tritoni e centauri marini, alghe e coralli tra i capelli, un velo di tristezza sui volti, accompagnano Galatea, mentre quattro giovani e “gagliardi” tritoni (non cinque, come altre volte indicato:

Grabski 1985; Agnati 2001) fanno da festoso corteo ad Anfitrite, col suono di flauti e “tofe” marine. Non meno indicative le differenze stilistiche, accentuate dall’ottimo stato di conservazione dell’Anfitrite di Washington e dalle conseguenze di antichi restauri riscontrati nella Galatea: luci diafane e toni quasi freddi in quest’ultima, con una resa plastica meno accorta ed efficace delle singole figure; luci solari e avvolgenti, preziose stesure di calde e dense materie cromatiche, nell’Anfitrite, a definire – con accresciuta sapienza e sensibilità – concretezza e verità “al naturale” di forme e volumi nonché di atmosfere e condizioni emotive. Va inoltre segnalato che, in un inventario, redatto nel 1703, dei 364 dipinti presenti in casa del principe Antonio Ruffo a Messina fin dal 1649, al n. 80 è segnalata, di Artemisia, una “Galatea che siede sopra un granchio, tirata da due delfini e accompagnata da 5 tritoni, di palmi 8 x 10” (Ruffo 1916, pp. 32, 46, 54, 315), identificata dal Grabski nel 1985 e poi da altri con la tela ora a Washington, che, senza prove e poco convincentemente, sarebbe stata ridotta di dimensione, a giustificazione sia di un presunto squilibrio compositivo che della presenza di quattro e non cinque tritoni, come nella Galatea qui esposta. Da una fitta corrispondenza intercorsa dal gennaio 1949 al gennaio 1651 tra Artemisia, tornata a Napoli da Londra, e il principe Antonio Ruffo a Messina, celebre committente e collezionista di dipinti di autori contemporanei, tra i quali non pochi napoletani, si sa che la pittrice dipinse di sicuro per quest’ultimo, tra il 1648 e il 1649, la Galatea descritta nell’inventario del 1703, non identificabile, per i motivi indicati, né con l’Anfitrite di Washington né con la tela qui esposta. Ma si sa anche che, secondo quanto risulta dal relativo inventario del 1744, nella raccolta Arici a Napoli era presente una tela “di palmi 8 e sei [nota bene: non palmi 8 x 6], ove è dipinta una Galatea, con vari putti, che và per mare […] di Bernardo Cavalliero [si tratta evidentemente di Cavallino], per ducati venti” (Labrot 1992a, p. 440). Ne consegue, sulla base di quanto emerge dalla corrispondenza tra Artemisia e Antonio Ruffo, dagli inventari dei dipinti di quest’ultimo del 1703 e degli Arici del 1744,

ma anche da una più estesa e approfondita conoscenza dell’opera di Bernardo Cavallino negli anni dell’avanzata maturità, tra quinto e sesto decennio del secolo, quando era ormai pittore affermato e con vasta committenza privata, che al momento l’ipotesi più probabile, per la Galatea qui esposta, resta ancora, in attesa dell’acquisizione di nuovi e inconfutabili dati, soprattutto documentari, quella avanzata da chi scrive nel 2009. Vale a dire che, senza spingersi a volerla identificare con la Galatea di Cavallino nella raccolta degli Arici, con la quale sembrerebbe, comunque, coincidere per identità di soggetto e di dimensioni, la tela in argomento è, per peculiarità stilistiche, lontana da noti esempi di Artemisia a Napoli, sia prima sia dopo il soggiorno a Londra, e più vicina a dipinti del pittore napoletano dei primi anni Quaranta: come, tra gli altri, l’Allegoria della Pittura di una collezione inglese, la Guarigione di Tobia di Kassel e il Lot e le figlie già presso Gilberto Algranti a Londra (Spinosa 2010, pp. 190-192). Mentre, invece, l’Artemisia di Washington, che continuo a ritenere opera del solo Bernardo Cavallino, anche se non ignaro della presunta Galatea dipinta da Artemisia per Antonio Ruffo (un soggetto, questo, illustrato alla metà del Seicento anche da altri pittori napoletani e non solo), evidentemente appartiene a un momento avanzato dell’attività di quest’ultimo, verosimilmente dopo il 1650, anche per le stringenti concordanze di resa pittorica con un San Bartolomeo “a grandezza naturale” di una privata raccolta newyorkese, con il Ritrovamento di Mosè e l’Incontro di David e Abigail di Brauschweig, con l’Adorazione dei pastori di Cleveland e con la serie dei tre “rami” divisa tra il Museo Puškin di Mosca, il J. Paul Getty Museum di Santa Monica e il Kimbell Art Museum di Fort Worth (per questi e altri dipinti affini, con i segni di una crescente attenzione di Cavallino, pur senza la rinuncia a soluzioni di eleganza formale, di grazia espressiva e di preziosismo cromatico della produzione immediatamente precedente, per alcuni aspetti del luminoso e moderato classicismo di Nicolas Poussin e di altri pittori della sua cerchia a Roma: Spinosa 2010, pp. 196-199). Nicola Spinosa

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Appendice I

Profilo biografico di Artemisia Lomi Gentileschi (Roma 1593 - Napoli dopo il 1654 ) Michele Nicolaci

Questo regesto è basato esclusivamente su dati documentali ed è debitore della cronologia fornita da Raymond W. Bissell nel 1968, ampiamente aggiornata con importanti acquisizioni nella sua monografia del 1999. Altresì fondamentali per l’elaborazione della cronologia dell’artista sono state le ricerche di Mary Garrard (1989), Elizabeth Cropper (1993), Alexandra Lapierre (1998), nonché quelle confluite nelle esposizioni curate da Roberto Contini e Gianni Papi (Artemisia 1991) e da Keith Christiansen e Judith Mann (Orazio e Artemisia Gentileschi 2001) e nel convegno di Saint Louis curato dalla stessa Mann nel 2005. Recentemente la bibliografia su Artemisia si è ulteriormente arricchita di fondamentali dati inediti come quelli forniti da Patrizia Costa sul soggiorno veneziano (2000) o quelli relativi all’ultimo periodo napoletano e alla data di morte della pittrice (in particolare Lattuada, Nappi 2005, De Vito 2005, Locker 2007 e 2010). Il ritrovamento dell’inventario della casa fiorentina della pittrice (anno fiorentino 1620) effettuato da Francesco Solinas nell’Archivio Frescobaldi nel 2001 (Solinas, Contini 2001) ha facilitato l’ulteriore, ingente scoperta di ben 36 lettere scritte da Artemisia e dal marito Pierantonio Stiattesi al gentiluomo fiorentino Francesco Maria Maringhi (Firenze 1593 Napoli dopo il 1653), amante della pittrice, agente e socio in affari del nobile banchiere Matteo Frescobaldi (1577-1652). Riportato in questa sede in forma sintetica, il ricchissimo materiale inedito è integralmente pubblicato in Lettere di Artemisia 2011, per cura dello stesso Solinas, con la collaborazione di Yuri Primarosa e di chi scrive. Le citazioni d’archivio sono segnalate fra parentesi, seguite dalla prima pubblicazione che le ha rese note o dai successivi approfondimenti utili alla comprensione del Documento. I rimandi interni ai testi sono segnalati come infra o supra; per le menzioni inventariali dei quadri e per le ipotesi di identificazione si rinvia all’Appendice II. Le lettere di Artemisia ad Antonio Ruffo e la più parte di quelle a Cassiano dal Pozzo sono andate perdute e si conoscono solo attraverso le trascrizioni pesantemente emendate di Giovanni Gaetano Bottari (prima edizione 1754) e di Vincenzo Ruffo (1916). Per comodità del lettore, le datazioni veneziane e fiorentine, che iniziano l’anno rispettivamente il primo e il 25 di marzo, sono inserite tra parentesi precedute da AV (Anno Veneziano) o AF (Anno Fiorentino). Abbreviazioni ACB, Archivio di Casa Buonarroti, Firenze AGS, TMC, Archivio General de Simancas, Tribunal Mayor de Cuentas AOD, Archivio dell’Opera del Duomo di Firenze APMM, Archivio del Pio Monte della Misericordia, Napoli ASBN, Archivio Storico del Banco di Napoli ASBN, ASS, Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco dello Spirito Santo ASBN, BP, Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco dei Poveri ASBN, BPi, Archivio Storico del Banco di Napoli,

Banco della Pietà ASBN, BSG, Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco di San Giacomo ASF, Archivio di Stato di Firenze ASF, AD, Archivio di Stato di Firenze, Accademia del Disegno ASFA, Archivio Storico Frescobaldi e Albizzi, Firenze ASM, ASE, Archivio di Stato di Modena, Archivio Segreto Estense ASR, Archivio di Stato di Roma ASR, TCG, Archivio di Stato di Roma, Tribunale Criminale del Governatore

ASR, TCiG, Archivio di Stato di Roma, Tribunale Civile del Governatore ASR, TNC, Archivio di Stato di Roma, Trenta Notai Capitolini ASV, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano ASVR, Archivio Storico del Vicariato di Roma ASVe, Archivio di Stato di Venezia BAV, Biblioteca Apostolica Vaticana BM, Biblioteca Marciana, Venezia BNF, Biblioteca Nazionale, Firenze PRO, Public Record Office, London

I. Roma 1593-1611. L’infanzia e la formazione nella bottega di Orazio

1593, luglio 8 • Artemisia Gentileschi nasce a Roma, figlia primogenita del pittore Orazio Lomi, nato a Pisa lo stesso giorno (8 luglio) del 1563, e di Prudenzia Montoni romana, già promessa sposa del pittore Sebastiano Guerra (ASR, TNC, Ufficio 37, vol. 17, c. 712r-v; Curti 2011, p. 72). A Roma, il padre si fa chiamare Gentileschi, riprendendo il cognome completo della famiglia: Gentileschi de Lomis (vedi Ciardi in questo volume). L’illustre cognome fiorentino dei Lomi, condiviso dal cugino Aurelio pittore dell’arcivescovo di Pisa (Ciardi, Galassi, Garofano 1989, pp. 20 e 27 e Ciardi in questo volume), sarà ripreso da Artemisia durante il soggiorno in Toscana (infra 1613-1620). La data di nascita si ricava dall’atto di battesimo, avvenuto due giorni dopo, il 10 luglio, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina (ASVR, Liber baptizorum, 1590-1603, f. 78r; Bissell 1968, p. 153), documento che testimonia anche la residenza della famiglia in via di Ripetta presso la chiesa di San Giacomo degli Incurabili dove è documentata fino al 1596. Il padrino è monsi-

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– a r t e m isi a ge n t il esc hi –

gnor Offredo de Offredis da Cremona, nunzio papale a Firenze e Venezia, e la madrina è donna Artemisia Capizucchi, nobildonna romana, sposa del nobile fiorentino Giovan Battista Ubertini e ben introdotta alla corte di Toscana, che dava il nome alla futura pittrice (Lapierre 1998, p. 428). 1597-1610 • Dal 1597 al 1600 la famiglia Gentileschi abita presso la Platea Santa Trinità vicino a piazza di Spagna e, dal 1601 al 1610, in via Paolina (oggi via del Babuino) dal lato di via Margutta (Bissell 1981, p. 100). Nel periodo compreso tra il 1597 e il 1599, Orazio è attivo per lunghi periodi presso l’abbazia di Farfa, ma è probabile che la famiglia sia rimasta a Roma (Bissell 1999, p. 136). Orazio e Prudenzia avranno altri cinque figli: Francesco (1597), Giulio (1599), Marco (1604) e due, entrambi di nome Giovanni Battista, che moriranno prematuramente. 1605, giugno 12 • Artemisia riceve la cresima presso San Giovanni in Laterano (ASVR, Cresime, vol. 3, 1601-1608; Lapierre 1998, p. 428). 1605, dicembre 26 • Pochi mesi dopo, la madre Prudenzia muore di parto, a soli trent’anni; sarà sepolta il 26 dicembre a Santa Maria del Popolo (ASVR, Santa Maria del Popolo, Libro de’ Morti IV, 1595-1620, LI, f. 140; Bissell 1981, p. 101). 1608-1610 • La critica fa risalire a questo periodo le prime prove pittoriche autonome di Artemisia sotto la guida del padre, come si desume da una lettera di Orazio alla granduchessa di Toscana il 3 luglio 1612 (infra ad annum); è tuttavia verosimile che la giovane abbia ricevuto i primi rudimenti dell’arte del dipingere già in tenera età (Mann 2001, pp. 253-254). Nell’angolo in basso a sinistra della Susanna e i vecchioni oggi a Pommersfelden si legge “artimitia. / gentileschi. f. / 1610”, prima firma autonoma della giovane figlia di Orazio (J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 296-299, con bibliografia precedente).

II. Roma 1611-1613. La violenza e il processo

1611-1612 • Nell’arco di questo periodo il nucleo familiare di Orazio cambia diverse abitazioni. Dal 16 febbraio è sicuramente documentato in via Margutta (ASVR, Status Animarum, S. Maria del Popolo, LXIV, 1611, f. 33; Bissell 1981, p. 137), per poi trasferirsi in via della Croce, dall’aprile successivo fino al luglio (Menzio 1981, p. 57). 1611, maggio 6 • La non ancora diciottenne Artemisia viene violata da Agostino Tassi, collega di Orazio e suo collaboratore ai cantieri della Sala del Concistoro e dell’appartamento del cardinal Lanfranco Margotti (1558-1611) in Quirinale, terminati dopo la morte del prelato, all’inizio dell’anno seguente. Tassi dirige il Gentileschi nella decorazione dell’attiguo Casino delle Muse di Scipione Borghese, conclusa entro l’autunno del 1612 (Bissell 1999, p. 138). Dopo la violenza, Tassi promette di sposare la ragazza convincendola a continuare la relazione per i successivi nove mesi. 1611, ottobre • Artemisia è madrina al battesimo del figlio di Pedro Hernandez, come da questi dichiarato al processo per stupro (Garrard 1989, p. 485). 1612, marzo-aprile • Per ragioni apparentemente d’ordine morale, ma forse anche per interessi professionali, Orazio Gentileschi decide di denunciare e rendere pubblica la violenza perpetrata sulla figlia dal Tassi; invia una supplica a papa Paolo V dove riferisce come Artemisia sia stata “sverginata e carnalmente conosciuta più e più volte da Agostino Tasso pittore e intrinseco amico e compagno dell’oratore” (Menzio 1981, p. 11). L’atto del padre coinvolge pubblicamente la giovane figlia, vittima della violenza subita e, al tempo stesso, dello scandalo ormai pubblico. Il Gentileschi ricorda la complicità della “pigionante” Tuzia, già sua dirimpettaia in via Margutta, e di Cosimo Quorli, furiere papale, colpevoli anche di aver trafugato dal suo studio “alcuni quadri et ispecie una Iuditta di capace grandezza” (Bertolotti 1876, pp. 200-204). Il 2 marzo si apre ufficialmente il processo per stupro contro il Tassi che durerà sette mesi, fino al 29 ottobre (ASR, TCG, busta 104, anno 1612,

Stupri et lenocinij, ff. 270-448; Bertolotti 1876, pp. 200-204, trascrizione integrale in Menzio 1981, a cui si sono aggiunti altri documenti in seguito rintracciati da diversi studiosi contenuti in: ASR, TCG, Miscellanea artisti, sec. XVII, busta 2, fasc. 108a, 108b, 108c; la storia critica del processo è riassunta in Bissell 1999, p. 138, ma si veda anche Cavazzini 2001b, pp. 432-445). Oltre al Tassi e al Gentileschi sono chiamati a testimoniare numerosi esponenti della comunità artistica romana, tra i quali Carlo Saraceni e Orazio Borgianni (Gallo 1992, pp. 332-333). Il Quorli muore poco dopo l’inizio degli interrogatori, l’8 aprile del 1612. Giovanni Battista Stiattesi, già precedentemente entrato in conflitto sia con il Quorli sia con lo stesso Tassi, seguirà tutte le fasi del procedimento giudiziario (Lapierre 1998, pp. 442-443). Secondo la testimonianza fornita dal Tassi durante il processo, Artemisia vive in casa con il padre e i fratelli in Borgo Santo Spirito nei pressi dell’omonimo ospedale (Menzio 1981, p. 45). 1612, luglio 3 • Il toscano Orazio Gentileschi, suddito dei Medici, scrive alla granduchessa Cristina di Lorena, a Firenze, per supplicarla di intervenire affinché sia scongiurato il pericolo che Agostino Tassi torni in libertà confidando che “in questa causa si faccia la giustizia rettamente e si gastighi chi ha errato, ché così facendo io l’assicuro che farà opera meritoria appresso Dio benedetto, perché quando vederà l’opere la virtù di questa mia povera figlia unica in questa professione mi rendo sicuro che haverà cordoglio di un’assassinamento così grande”. Orazio si offre di inviare anche un dipinto eseguito dalla figlia al fine di dimostrarne l’abilità; a quella data, afferma, Artemisia dipinge già da tre anni (ASF, Mediceo, fil. 2 - LVI segn. di N. moderno 6003, 1612; Tanfani Centofanti 1897, pp. 221-224). 1612, novembre 27 • È emessa la sentenza di giudizio: Agostino Tassi è condannato a cinque anni di esilio da Roma “sub pena triremium” nelle galere pontificie, successivamente valutata come ingiusta. Agostino non sconterà mai la punizione inflittagli (ASR, TCG, Registrazione d’Atti, busta 166, 165v, 183r, 192r, 222v; Lapierre 1998, pp. 214-215, pp. 456-457; Cavazzini 1998, pp. 175-176).

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1612, novembre 29 • Artemisia sposa il fiorentino Pierantonio Stiattesi, fratello di Giovan Battista, amico di Orazio (Lapierre 1998, p. 444); Pierantonio, nato nel 1584 a Firenze, è figlio di un calzolaio (AOD, Battesimi maschi, 1577-1588, f. 123v; Lapierre 1998, pp. 444). Il matrimonio si celebra nella chiesa di Santo Spirito in Sassia (ASVR, Libro de’ Matrimoni II: 1607-1630, Sto. Spirito in Saxia, XVII, f. 17; Bissell 1968, p. 154).

misure dei telai della pittrice nonché la notizia della commissione di un costoso “studiolo” e una serie di mobili (ASF, AD, Atti e sentenze, LXV, f. 877; Del Bravo 1967, p. 82, nota 2; Bissell 1968, p. 154; Gregori 1968, p. 419; si veda anche Cropper 1992, pp. 205-206 per la correzione della datazione al novembre e non al settembre). Le vicende di questo debito di Artemisia si protraggono sino al 1618 (infra ad annum).

1612, dicembre 10 • È probabile che Pierantonio Stiattesi accettasse di contrarre matrimonio con una ragazza disonorata anche per ragioni di tipo economico: in questa data, infatti, Pierantonio istituisce una procura a favore del fratello Giovanni Battista affinché si occupi dei suoi affari pendenti in Roma, inclusa l’obbligazione nei confronti di Orazio Gentileschi di cui risulta debitore (ASR, TNC, Ufficio 36, vol. 24, f. 646r-v; Lapierre 1998, pp. 444-445).

1615, marzo 16 • Andrea Cioli, segretario di stato del granduca Cosimo II de’ Medici, scrive a Piero Guicciardini, ambasciatore fiorentino a Roma, richiedendogli informazioni relative a Orazio Gentileschi, notando che sua figlia Artemisia gode già di una certa fama a Firenze; la risposta dell’ambasciatore è molto critica delle capacità disegnative di Orazio (ASF, Mediceo 3508; Orbaan 1920, p. 284; Crinò 1960, p. 264).

III. Firenze 1613-1620. Alla corte del granduca di Toscana

1613, settembre 21 • Trasferitisi a Firenze già nei primi mesi dell’anno 1613, Artemisia e Pierantonio sono documentati in città solo a partire da questa data, quando battezzano il loro primogenito Giovanni Battista nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, alla presenza del padrino Lorenzo di Vincenzo Cavalcanti (AOD, Registro di Battesimo, Maschi 1612-1613, f. 108v; Cropper 1993, p. 760 e nota 2); nel documento la pittrice è chiamata “Artemisia d’Oratio Gentileschi”. Dagli atti di battesimo dei figli di Artemisia, tutti nati nell’arco dei sette anni trascorsi a Firenze, sembra evidente che la famiglia cambi diverse abitazioni variando le parrocchie di appartenenza (Cropper 1993, p. 761). 1614, novembre - 1615, gennaio (AF 1614) • Artemisia prende a credito una serie di strumenti per allestire il suo studio fiorentino. Il mancato pagamento di questi oggetti viene denunciato dal carpentiere all’Accademia del Disegno di Firenze; nella denuncia sono fornite anche le

1615, luglio 10 • “Artemisia d’Oratio Lomi” interviene in qualità di madrina al battesimo della figlia di Annibale di Niccolò Caroti e Ottavia di Marcantonio Coralli, cui darà il nome presso la chiesa di San Pier Maggiore; padrino è il pittore Cristofano Allori (AOD, Registro di battesimo, Femmine, 1614-1615, f. 3; Cropper 1993, p. 760). 1615, agosto 24 - novembre 13 • Il 24 agosto riceve 10 fiorini da parte di Michelangelo Buonarroti il Giovane come acconto per l’esecuzione dell’Allegoria dell’Inclinazione (ACB, MS, 101-4 A, f. 32; Sricchia 1963, p. 266; Procacci 1967, pp. 12-13, Vliegenthart 1976, pp. 172-173). Pochi giorni dopo, il 7 settembre, Pierantonio Stiattesi chiede “altri 4 o 5 ducati” al Buonarroti, sostenendo di essere stato recentemente colpito da “alcune sventure”; la sua richiesta verrà soddisfatta lo stesso giorno (ACB, MS 103, f. 67 e 69, MS 101-4 A, f. 32; Procacci 1967, p. 13; Vliegenthart 1976, pp. 171-172). In un periodo compreso tra questa data e il 13 novembre è ancora Artemisia a chiedere in prestito allo stesso Michelangelo il Giovane 21 lire (ACB, MS 103, f. 67; Procacci 1967, p. 13; Vliegenthart 1976, pp. 171-172). In entrambe queste ultime richieste i coniugi si rivolgono al Buonarroti chiamandolo “Signor compare” e manifestando quindi una consuetudine amicale.

1615, novembre 9 • Presso la chiesa di Sant’Ambrogio viene battezzato il secondogenito, che prende il nome dal padrino, il pittore Cristofano Allori (AOD, Registro di battesimo, Maschi, 1614-1615, f. 74; Cropper 1993, p. 760). La richiesta di denaro viene esaudita il 13 novembre con l’esborso da parte di Michelangelo il Giovane di 3 fiorini che Artemisia riceve quando è ancora costretta a letto in seguito al parto (ACB, MS 100-4 A, ff. 32 e 36; Procacci 1967, p. 13; Vliegenthart 1976, pp. 172-173). 1616 • Dal 3 febbraio al 20 agosto, quattro pagamenti a favore di Artemisia si succedono per un totale di 16 fiorini. Due di essi si riferiscono ancora all’Allegoria dell’Inclinazione per Michelangelo Buonarroti il Giovane. Dall’ultimo documento del 20 agosto risulta che il quadro è stato consegnato e che il conto con Artemisia è chiuso, anche se la pittrice è ancora in debito con il Buonarroti. Risale probabilmente ai primi mesi del 1616 il trasferimento della famiglia nella casa della piazza Frescobaldi, al ponte alla Carraia, presa in affitto da Matteo Frescobaldi, banchiere, latifondista e mercante di generi di lusso. Tra il maggio del 1616 e il gennaio dell’anno successivo Artemisia contrae alcuni debiti con uno speziale “alla Carraia” per un totale di 32 scudi e 3 baiocchi per l’acquisto di alcuni colori e medicinali lassativi, descritti in un dettagliato elenco (ASF, AD, Atti e sentenze, LXIV, f. 422; Bissell 1968, p. 154, nota 14; Cropper 1992, p. 206). 1616, luglio 19 • Artemisia si iscrive all’Accademia del Disegno di Firenze come appare da due documenti, entrambi facenti riferimento anche a Orazio. Nel primo si legge: “Artimisia donna di Pagolantonio Stitesi e figliuola di Oratio Lomi Pittora di contro de havere addi 19 di luglio 1616 y quatro recho il Cavaliere Vasari p[er] principio di sua matricola […] E riconobbe per il padre” (ASF, AD, Debitori e creditori delle Matricole: 1596-1627, LVII, f. 152; Bissell 1968, p. 154); nel secondo: “152 Da mad[on]na Artimisia di Oratio Lomi Pittrice y [lire] 4 p sua mat[ricol]a con il benef[ici]o di Oratio suo Padre addi 19 di lug.o” (ASF, AD, Entrata et Uscita: Entrata E dal 1602 al 1624, CIII, f. 54; Bissell 1981, pp. 34-35; Pizzorusso 1987, p. 72). L’effettiva presenza di Orazio a Firenze non è confermata da alcun documento e il riferimento potrebbe essere spiegato

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con la sua immatricolazione presso l’Accademia risalente forse al 1596 (Colnaghi 1928, p. 157; Pizzorusso 1987, p. 72). È probabilmente in questi anni, grazie al Buonarroti e a Matteo Frescobaldi, banchiere dello scienziato (Frescobaldi, Solinas 2004, pp. 217-218), che la pittrice approfondisce l’amicizia con Galileo Galilei, accademico del Disegno dal 1613 e suo futuro corrispondente (infra 1635, ottobre 9). 1617, maggio 31 • Due documenti dell’Accademia del Disegno riportano il nome di Artemisia: si tratta di una richiesta di pagamento portata di fronte l’istituzione dei pittori da parte di un creditore, forse lo stesso debito per il quale Artemisia si rivolgerà al granduca di Toscana nel giugno 1619 (ASF, AD, Partiti e deliberazioni, segn. B, XVI, f. 41, Atti e sentenze, LXV, numero 152; Bissell 1968, p. 154 nota 14; Cropper 1992, p. 206; Cropper 1993, p. 761, note 18 e 21). 1617, agosto 2 • Viene battezzata Prudenzia, terza figlia di Artemisia e Pierantonio, presso la parrocchia di San Salvatore a Firenze. Padrino è il cavalier Silvio Piccolomini d’Aragona (AOD, Registro di battesimo, Femmine, 1616-1617, f. 59v; Cropper 1993, p. 761). Dai documenti successivi sembra evidente che la piccola risponda anche al nome di Palmira (Bissell 1999, pp. 157-162; infra fino al 1637, ottobre 24). 1617, dicembre 6 • Due carpentieri, Bartolomeo Porcelli e Salvestro Susini, sono convocati dall’Accademia del Disegno al fine di stimare l’effettivo ammontare del debito contratto da Artemisia con il carpentiere tra il 1614 e il 1615 e non ancora saldato (infra ad annos). L’Accademia intimerà alla pittrice di pagare tale somma, ridotta rispetto all’iniziale richiesta, come risulta da un documento del 24 gennaio 1618 (ASF, AD, Partiti e deliberazioni, segn. B, XVI, f. 47; Cropper 1993, p. 760, nota 11). 1617-1619 • A questo periodo risale l’incontro a Firenze tra Artemisia e il nobile Francesco Maria Maringhi (Firenze 1593 - Napoli dopo il 1653), agente e socio in affari del cavalier Matteo Frescobaldi, padrone di casa della pittrice (Contini, Solinas 2001, p. 447; Frescobaldi, Solinas 2004, p. 238). Come attestano le notizie rilevate nel carteggio

buonarrotiano, gentilmente comunicateci da Elena Lombardi, Maringhi era amico di Michelangelo il Giovane e faceva parte della cerchia più stretta di brillanti intellettuali e artisti riunita dal granduca Cosimo II de’ Medici. Nel carteggio inedito tra la pittrice e il nobiluomo fiorentino compaiono lettere non datate, ma tutte precedenti al febbraio 1620, quando Artemisia e il marito fuggono a Prato (vedi qui il saggio di Solinas; Lettere di Artemisia e infra 1620, febbraio 12). 1618, marzo 3 (AF 1617) • “Artemisia pitturessa” viene pagata dal granduca di Toscana per alcune opere già eseguite o da eseguire (ASF, Mediceo 344, f. 386v; Borea 1970, pp. VI e 71). 1618, marzo 5 (AF 1617) - 1619, aprile 20 • In un conto spese conservato tra i documenti dell’Accademia del Disegno di Firenze vengono registrati gli acquisti fatti da Artemisia, con parziali pagamenti e debiti contratti con un sarto e un confettiere (ASF, AD, Atti e sentenze, LXIV, f. 437; Del Bravo 1967, p. 82, nota 11; Bissell 1968, p. 154; Cropper 1992, pp. 206 e 218). 1618, giugno 26-27 • Artemisia si presenta davanti al consiglio dell’Accademia del Disegno protestando per un’istanza presentata contro di lei da un Francesco Lomi, sostenendo che i suoi obblighi sono solo verso la propria istituzione di appartenenza ovvero verso l’Accademia stessa (ASF, AD, Atti e sentenze, LXIV, ff. 651r-v; Bissell 1968, p. 154; Cropper 1992, pp. 207-208; Cropper 1993, p. 761 con la data del 26 giugno 1619). Nonostante l’omonimia con il fratello, l’accusatore di Artemisia è da identificare con il figlio del gioielliere Matteo Lomi di Pisa appartenente all’Arte degli Speziali (Lapierre 1998, p. 466). 1618, ottobre 13 • Nasce Lisabella, ultima figlia di Artemisia e Pierantonio. Il battesimo avviene il giorno seguente presso la chiesa di Santa Lucia sul Prato; la madrina da cui la bambina trae il nome è la moglie del letterato Jacopo Cicognini, il padrino è Jacopo di Bernardo Soldani, sodale di Michelangelo il Giovane (AOD, Registro di battesimo, Femmine 1618-1619, f. 29v; Cropper 1993, p. 761). 1619, giugno 5 • Una supplica indirizzata da Artemisia al granduca Cosimo II de’ Medici,

controfirmata da Curzio Picchena (cognome erroneamente riportato come Pulina in Bissell 1999, p. 142), è presentata all’Accademia del Disegno: la pittrice richiede l’intervento del granduca per bloccare l’ingiunzione intimatagli dall’Accademia di pagare i debiti contratti dal marito Pierantonio con un tale Michele, bottegaio. Artemisia sostiene la sua estraneità “perché una donna non puo far debito mentre che il marito stava con detta donna”, sostenendo inoltre che Pierantonio ha già speso i soldi della sua dote (ASF, AD, Atti e sentenze, LXIV, f. 724; Del Bravo 1967, p. 2, n. 11; Bissell 1968, p. 154; Cropper 1992, pp. 206-207; Cropper 1993, p. 761, nota 19). 1619, giugno 9 • Muore la piccola Lisabella (ASF, Grascia, 194, f. 316r; Lapierre 1998, p. 463). 1619, luglio 4 • Partecipa al battesimo della figlia di Filippo d’Antonio Stinelli e Lisabetta di Alessandro Sapiti, che prende il suo nome, presso la chiesa di Santa Lucia sul Prato (AOD, Registro di battesimo, Femmine 1618-1619, f. 3; Cropper 1993, p. 760, nota 7). 1619, dicembre 18 • L’Accademia del Disegno ordina alla pittrice di saldare il pagamento di 70 lire con un anonimo creditore (ASF, AD, Atti e sentenze, LXV, f. 160; Bissell 1999, p. 143). 1620 • La data 1620 è riportata sull’opera Giaele e Sisara oggi a Budapest, Szépmüvészeti Múzeum. 1620, gennaio 13 (AF 1619) • Cosimo II de’ Medici ordina che venga data un’oncia e mezza di azzurro ultramarino ad Artemisia per finire un dipinto che le era stato commissionato (ASF, Guardaroba Mediceo, 390, inserto 2, ff. 77-78; Sricchia 1963, pp. 251 e 266, nota 24). Tre giorni dopo, il 16 gennaio, un altro documento specifica che si trattava di un Ercole (ASF, Guardaroba Mediceo, 360, Memoriale, f. 146; Gregori 1968, pp. 419 e 420 nota 18; Barocchi, Gaeta Bertelà 2002, I, p. 170, n. 633; infra 1620, febbraio 10; Appendice II). La grande tela fu eseguita da Artemisia al suo ritorno a Roma, nella tarda primavera del 1620, e consegnata dallo Stiattesi a Firenze nell’autunno dello stesso anno all’agente granducale Francesco Maria Maringhi, amante della pittrice (infra 1620, settembre 12).

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1620, febbraio 10 (AF 1619) • Artemisia scrive a Cosimo II, annunciando la sua intenzione di trascorrere qualche mese a Roma “tra amici” a causa delle “molte mie indisposizioni passate alle quali si sono giunti anche non pochi travagli della mia casa e famiglia”. In questa occasione promette che entro due mesi terminerà e manderà a Firenze il dipinto, verosimilmente l’Ercole per il quale aveva ricevuto l’ultramarino (ASF, Mediceo 998, f. 204; Crinò 1954, pp. 205-206; Lettere di Artemisia 2011, 6). 1620, febbraio 12 (AF 1619) • Fuga repentina di Artemisia e Pierantonio da Firenze, forse per i pesanti debiti contratti dalla coppia (infra 1620, febbraio 15) e per un’ingiustificata accusa di furto. I bambini restano a Firenze sotto la tutela di Francesco Maria Maringhi. Due giorni dopo aver scritto al granduca, i coniugi informano Francesco Maria Maringhi del loro arrivo a Prato, dove sono ricevuti dal podestà Gino Ginori, annunciando un loro possibile trasferimento a Bologna (vedi qui Solinas; Lettere di Artemisia 2011, 7). 1620, febbraio 13 (AF 1619) • Artemisia chiede al Maringhi di mandarle a Prato, con urgenza, i bambini e i quadri lasciati a Firenze, alludendo alle spiacevoli ragioni della fuga e alla volontà di non tornare a Firenze (Lettere di Artemisia 2011, 9). 1620, febbraio 15 (AF 1619) • Grazie all’intervento del Maringhi, che garantisce per Artemisia, la Guardaroba del granduca ordina di restituire alla pittrice le “robe” sequestratele a causa del mancato pagamento del colore ultramarino consegnatole (ASF, Guardaroba Mediceo 390, inserto 5, f. 455; Sricchia 1963, pp. 251 e 266, nota 28; infra 1620, gennaio 13 e 15, febbraio 10 [AF 1619]). Ma i sigilli restano a causa dei debiti contratti dalla pittrice.

IV. Roma 1620-1626

1620, marzo 2 • Artemisia e Pierantonio arrivano a Roma e prendono casa dietro la Chiesa Nuova (Lettere di Artemisia 2011, 11). Dopo alcune settimane, la coppia si trasferirà in un alloggio

nelle vicinanze, appartenente al nobile fiorentino Luigi Vettori, futuro ambasciatore del granduca a Vienna e amico di Matteo Frescobaldi. Nel suo carteggio con il Frescobaldi, Vettori si lamenterà della condotta di Artemisia. A distanza di otto anni, Agostino Tassi si riaffaccia nelle loro vite: Pierantonio esprime il timore ch’egli sia libero e non in galera. Gli stati delle anime della parrocchia di San Lorenzo in Damaso risultano lacunosi per il biennio 1620-21. 1620, marzo 5 e 6 • Per ragioni di segretezza, nel loro carteggio, Artemisia e Francesco Maria utilizzano reciprocamente lo pseudonimo “Fortunio Fortuni”. Il post scriptum di Pierantonio (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 12-13) è datato al 6 marzo ed è indirizzato a un fittizio Francesco Francozzi, altro pseudonimo usato dal Maringhi; entrambe le missive riferiscono di una lite furibonda tra Artemisia e suo fratello Giulio Gentileschi, in cui interviene anche Pierantonio. Lo Stiattesi annuncia l’arrivo dei quadri e chiede l’invio dei colori (oro e azzurro) per terminare il quadro del granduca. 1620, marzo 20 • Artemisia (alias Fortunio Fortuni) scrive a Maringhi riferendo di essere stata accusata da Margherita, serva del gentiluomo, di un furto avvenuto in casa sua (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 14). Della stessa accusa riferisce Pierantonio (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 15), che allega la lettera del podestà di Prato in loro difesa. Pierantonio redige un elenco dettagliato delle “robe” di Artemisia ancora a Firenze richieste con urgenza al Maringhi. Per il quadro del granduca in lavorazione, Pierantonio avverte che Lessandro Bardelli ne rivendica la paternità e accenna a una Iole commissionata dal cardinal Alessandro Peretti Montalto. 1620, marzo 27 • Pierantonio torna a scrivere al Maringhi (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 18) riferendosi al quadro del granduca, prossimo alla conclusione; a seguito di una serie di violente dispute familiari, il rapporto tra gli Stiattesi e Orazio Gentileschi sembra essere definitivamente compromesso. 1620, aprile 11 • In una straziante lettera d’amore, Artemisia annuncia a Francesco Maria la morte

del figlio Cristofano (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 20). Pierantonio insiste per ottenere la spedizione delle “robe”, necessarie ad arredare la nuova abitazione con un certo decoro: chiede l’azzurro, indispensabile ad Artemisia per terminare il quadro (Ibidem, 21). 1620, maggio 13 • Artemisia ringrazia Francesco Maria d’aver pagato al Vettori la pigione della casa di Roma. Si situa in queste settimane il trasloco della famiglia nel “palazzo del Vantaggio”, sull’omonima strada, verso via Ripetta (infra 1621, quaresima). 1620, maggio 17 • Dalla lettera di Pierantonio (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 28) si capisce come le masserizie lasciate dalla coppia a Firenze siano state date in garanzia per i debiti; permane, tuttavia, la possibilità di riscattarle con denaro contante. Stiattesi annuncia un suo prossimo viaggio a Firenze per consegnare il quadro del granduca, e forse Artemisia lo accompagnerà. 1620, maggio 30 • Pierantonio riceve dal Maringhi la “scritta” elencante gli acquirenti delle loro masserizie, annuncia una sua prossima visita a Firenze e racconta come Artemisia sia molto impegnata a dipingere per diversi cardinali e principi che continuamente le rendono visita alla loro casa-studio (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 29). 1620, giugno 12 • Pierantonio risponde a due missive di Francesco Maria del 30 maggio e del 6 giugno, ringraziandolo per il pagamento della casa del Vettori e annuncia il suo arrivo a Firenze “tra pochi giorni” (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 30). 1620, giugno 26 • Artemisia chiede a Francesco Maria ospitalità per un suo cugino, parente della madre e nipote del cardinal Lanfranco Margotti (1558-1611) (supra 1611) (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 31). 1620, luglio 9 • Artemisia promette che il quadro sarà terminato in un mese e informa di una commissione ricevuta dal duca di Baviera. Aspetta l’arrivo dell’amante a Roma e lo invita nella sua nuova casa del Palazzo al Vantaggio, nei pressi di Piazza del Popolo, “degna di un galantuomo” (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 33).

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1620, settembre 12 • Artemisia reclama ancora le sue masserizie e annuncia che il quadro del granduca sarà portato a Firenze da Pierantonio. (cfr. Lettere di Artemisia 2011, 36). 1621, febbraio 10 (AF 1620) • Francesco Maria Maringhi acquista gli arredi domestici e gli strumenti professionali rimasti nella casa fiorentina di Artemisia per un totale di 165 ducati (Appendice II). Al momento della vendita viene stilato un inventario delle “robbe” tra le quali figurano diversi dipinti, alcuni non finiti (Solinas, Contini 2001, p. 447) (cfr. Lettere di Artemisia 2011, appendice). 1621, quaresima • Dallo Status animarum della parrocchia di Santa Maria del Popolo, Artemisia risulta abitare con il marito, la figlia Palmira di tre anni e i servitori Domenico Boschi fiorentino e Fulvia viterbese (ASVR, Status animarum, S. Maria del Popolo, LXIV, f.9; Bissell 1999, p. 144). Non registrati, gli altri figli della coppia sono a questa data defunti. 1621, novembre • Affitta un altro piccolo appartamento in via della Croce, vicino alla casa già teatro delle burrascose vicende con il Tassi dieci anni prima (ASR, TNC, Ufficio 19, vol. 121, ff. 385r-v, 396r; Lapierre 1998, p. 472). 1622 • Il retro del Ritratto a figura intera detto il Gonfaloniere (cat. 22), conservato a Bologna, riporta la scritta “artemisia. gentilesca. fa- /ciebat romae 1622”. 1622, quaresima • La presenza di Artemisia è confermata presso la stessa abitazione di via del Corso; abitano con la famigliola Giulio e Francesco Gentileschi, fratelli minori della pittrice, e i servitori Dianora e Giambattista (ASVR, Status animarum ab anno 1622 usque ad 1649, S. Maria del Popolo, LXV, 1622, f. 20; Bosquet 1978, p. 106). 1622, giugno • Pierantonio Stiattesi è accusato di aver ferito al volto uno degli spagnoli trovati sotto la propria abitazione romana, probabilmente durante una serenata per Artemisia (ASR, TCG, processo n. 181, anno 1622, ff. 52-55; Lapierre 1998, pp. 462 e 471).

1623, quaresima • A partire da questa data Pierantonio non abita più con Artemisia e da questo momento si perdono le sue tracce (ASVR, Status animarum ab anno 1622 usque ad 1649, S. Maria del Popolo, LXV, 1623, f. II; Papi 1991, p. 61, nota 74; si veda anche infra 1637, ottobre 24 e 1642); insieme alla “signora Artimisia Lomi romana pittora” abitano la casa del Corso i fratelli Giulio e Francesco Gentileschi, la figlia Palmira e i servitori Dianora e Giambattista. 1623, primavera • Al suo ritorno a Roma dal viaggio nel Nord Italia, il pittore francese Simon Vouet (1590-1649) ritrae Artemisia con pennello e tavolozza in mano e un medaglione d’oro raffigurante un mausoleo (cat. 7). 1624, quaresima • Insieme alla “Signora Artemisia fiorentina Pittrice” sono registrati presso l’abitazione del Corso la figlia Palmira di sei anni e i servitori Pietro Paolo senese e Leonora fiorentina (ASVR, Status animarum ab anno 1622 usque ad 1649, S. Maria del Popolo, LXV, 1624, f. 25; Bissell 1968, p. 157, nota 42). 1625, quaresima • Artemisia è ancora registrata nella stessa abitazione del Corso (parrocchia di S. Maria del Popolo) con la figlia erroneamente censita come Prudentia di sei anni, quando ne aveva almeno otto; con loro sono i servitori Leonora e Bartolomeo (ASVR, Status Animarum ab Anno 1622 usque ad 1649, S. Maria del Popolo, LXV, 1625, f. 27v; Bissell 1968, p. 157, nota 2). 1625, giugno 20 • Risulta affittuaria di un altro appartamento in via Rassella, nella zona della suburra (ASR, TNC, Ufficio 19, vol. 136, 1625, f. 735; Lapierre 1998, p. 472, su segnalazione di Sandro Corradini). 1625, settembre 15 • Artemisia è denunciata dalla sua serva Dianora Turca, pagata solo 20 scudi anziché 30; la richiesta è respinta dal Tribunale Civile del Governatore poco più di un mese dopo, il 18 ottobre (ASR, TCiG, Sentenze, busta 309, 1621-1632; Lapierre 1998, p. 472). 1625, settembre 29 • Interviene, in qualità di madrina, al battesimo della figlia, sua omonima, di Luca da Siena e Domenica da Zagarolo (ASVR,

Liber V Baptizatorum: 1620-1639, S. Maria del Popolo, f. 47; Bissell 1968, p. 157, nota 42). 1625, dicembre • Un disegno della mano destra di Artemisia eseguito dall’artista francese Pierre Dumonstier reca l’iscrizione “Faict à Rome par Pierre Du Monstier Parisien, Ce dernier de Decemb. 1625. / aprèz la digne main de l’excellente et sçavante Artemise gentil done Romaine”, mentre sul retro si legge la dedica: “Les mains de l’Aurore sont louées pour leur rare beauté. Mais celle cy plus judicieux. S.”. 1625, dicembre 9 • Viene stipulato l’accordo tra la pittrice e il suo affittuario di via del Corso a proposito di alcuni lavori da intraprendere (ASR, TNC, Ufficio 19, vol. 138, 1625, f. 523; Lapierre 1998, p. 472). 1626, marzo 16 • È madrina di Prudenzia, figlia del bolognese Giovanni de’ Rossi e della moglie Marta romana (ASVR, Liber V Baptizatorum: 1620-1639, S. Maria del Popolo, f. 52v; Bissell 1968, p. 157, nota 42). 1626, quaresima • Il censimento effettuato durante la quaresima del 1626 sarà l’ultimo a testimoniare la presenza della pittrice a Roma, nella casa al Corso, con la figlia e la serva Domenica (ASVR, Status Animarum ab Anno 1622 usque ad 1649, S. Maria del Popolo, LXV, 1626, f. 6; Bissell 1968, p. 157, nota 42).

V. Venezia 1627-1630 circa

1627-1628 • Numerose sono le testimonianze documentarie che certificano la presenza di Artemisia Gentileschi a Venezia, anche se nessuna offre informazioni riguardanti una precisa periodizzazione. Il primo indizio è la pubblicazione nel 1627 di alcuni versi in onore della pittrice per i tipi di Andrea Muschio, già tipografo dell’Accademia Veneta nel 1593. Nell’intitolazione del primo di questi è specificato: “lucretia romana / Opera della Sig. Artemisia Gentileschi / Pittrice Romana in Venetia” (Toesca 1971, pp. 89-92). Il foglio sciolto

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non reca il nome dell’autore, forse da identificare con il letterato veneziano Gianfrancesco Loredan (1606-1661) (BAV, Ott. Lat. 1100, cc. 100101v; Bissell 1999, pp. 39-41). Oltre alla Lucrezia, sono due i dipinti di Artemisia citati in questi componimenti: un Amoretto in parangone (sic) appartenuto a Giacomo Pighetti, e una Susanna, dei quali non è possibile un’identificazione certa. Il rapporto con il Loredan è confermato da due lettere indirizzate dal nobile veneziano alla pittrice tra il 1627 e il 1628 e inserite nella raccolta postuma edita a Venezia nel 1673 (Loredan 1653, I, pp. 262 e 466, rese note da Ivanoff 1965, pp. 189-190; Bissell 1999, pp. 165-166). Al 1627 si data un’incisione di Jérôme David, artista parigino attivo a Roma almeno dal 1623, tratta da un ritratto della pittrice raffigurante Antoine de Ville ingegnere militare al servizio del duca di Savoia (cfr. cat. 24), successivamente utilizzata quale frontespizio di Les fortifications du chevalier Antoine de Ville, contenans la maniere de fortifier toute sorte de places […], edito a Lione nel 1628. Ulteriori prove del soggiorno lagunare della pittrice si ritrovano in tre componimenti del letterato Antonio Colluraffi (Venezia, 1628). Poeta alla moda e precettore di giovani rampolli dell’aristocrazia lagunare, tra i quali lo stesso Loredan, Colluraffi scrive al suo discepolo Alvise da Mosto riportando due iscrizioni latine e due epitaffi in onore della pittrice. Colluraffi chiede ad Artemisia di disegnargli un’impresa, forse da identificare con quella apposta sul frontespizio de L’Accademia. Orazione dell’illustre Signor Alvise da Mosto, recitata nell’aprirsi dell’Accademia degl’Informi in casa propria, fondatore e rettore Antonino Colluraffi, raffigurante una “orsa che lambisce il proprio parto”, idea che compare anche nella prima lettera del Loredan ad Artemisia: “I parti dell’ingegno si rassomigliano a quelli dell’Orsa: bisogna lambirli bene, chi vuole, che non riescano aborti” (Ivanoff 1965, p. 189; Lapierre 1998, p. 473). Altra prova della permanenza di Artemisia a Venezia si ricava dalle carte di Girolamo Gualdo raccolte nel manoscritto Giardino di Ca’ Gualdo cioè raccolta di pittori, scultori, architetti ecc. esistenti nella galleria Gualdo di Vicenza, composto entro il 1650, in cui è tracciata la lunga storia delle vaste raccolte d’arte del suo casato: “La S.a Artemisia

ingenieri la conobbi in Vinetia avanti il contaggio per il quale poi se ne passò a Roma e forse ancora vive questa virtuossissima donna il valore della quale conosciuto dall’Il.mo Barberino operò che si formasse un libro con molta diversità de fiore et erbe, cossì cominciò questa Sig.ra l’opera che riusciva mirabilissima e fu fortuna che ne hebbi da quella pezzi n. 4 in carta pecora che feci insozzare in Venezia e si vede un boccolo di rosa, un mazzetto di viole gialle un pampino di vite e certi animaletti così minuti e diligenti che più non può fare la natura stessa” (BM, Mss. It. IV, 127, n. 5102, 116v; Costa 2000, p. 33). Da questa descrizione si intuisce come la permanenza della pittrice in laguna possa arrivare a comprendere anche parte dell’anno 1630, addirittura fino all’estate, quando, per fuggire all’epidemia di peste, Artemisia lascia la città alla volta di Napoli, dove è documentata almeno a partire dal 24 agosto. Il ricordo di Gualdo evidenzia come Artemisia fosse impegnata nell’illustrazione naturalistica e nella produzione di dipinti di natura in posa, pratica ricordata anche dal Baldinucci che afferma come “ella dava gran saggio di sé per i bellissimi quadri di frutti, che uscivano dal suo pennello” (Baldinucci 1808-1812, p. 254; Papi 1991, pp. 57-58; Costa 2000, pp. 33-34). 1627-1630 • Durante il periodo trascorso a Roma in veste di ambasciatore di Filippo IV di Spagna (1626-1628), Iñigo Vélez de Guevara y Tassis, Conde d’Oñate, acquista almeno un Ercole e Onfale dipinto da Artemisia, per il quale all’artista, ancora a Venezia, vengono pagati 1.467 giulii e 4 baiocchi. Attualmente non rintracciabile, la grande tela è registrata nel Salón Nuevo dell’Alcázar di Madrid del 1636 (AGS, TMC, 2633, 1626-1628; Gerard 1982; Appendice II). 1629, gennaio 19 • Artemisia è ancora a Venezia, identificata come moglie di Pierantonio Stiattesi (ASVe, Notarile Atti, Teseo Zio, registro n. 5956, 19 gennaio 1629, m. v., c. 17; Lapierre 2005, p. 169 e n. 5, p. 170, su segnalazione di Vittorio Mandelli). 1629-1630 • Durante il suo mandato di viceré di Napoli (luglio 1629 - maggio 1631), il duca d’Alcalá, già ammiratore e collezionista della pittura di Artemisia a Roma (supra 1625-1626), acquista tre suoi dipinti, oggi non identificati o dispersi: un San Giovanni Battista e due “ritratti di Artemisia”,

probabilmente raffiguranti il duca e sua moglie, o autoritratti dell’artista. Le opere sono ricordate nell’inventario della “Casa de Pilatos” (Brown, Kagan 1987, pp. 239-240 e 248; Appendice II).

VI. Napoli 1630-1638 circa. Alla corte del Viceré

1630 • A quest’anno è datata sulla tela l’Annunciazione oggi a Capodimonte, forse la prima commissione pubblica di Artemisia nella città partenopea, sebbene se ne ignori la collocazione originale. 1630, agosto 24 • La prima documentazione relativa al soggiorno napoletano di Artemisia è la lettera scritta a Cassiano dal Pozzo il 24 agosto 1630, in cui la pittrice, da poco giunta in città al servizio del viceré, don Fernando Enríquez Afán de Ribera duca di Alcalà suo ammiratore, riferisce di “alcuni quadri fatti per l’Imperatrice” (Lettere di Artemisia 2011, 37) che ritardano l’esecuzione delle opere commissionate dal celebre Cavaliere erudito. La familiarità dimostrata dall’artista nei confronti di dal Pozzo prova una lunga e amichevole consuetudine (infra 1630, agosto 31, dicembre 21; 1635, gennaio 21; 1637, ottobre 24, novembre 24). Artemisia gli chiede l’invio di “sei para di guanti delli più belli […] da regalare alcune dame” (Bottari 1754, I, pp. 255-256; Lettere di Artemisia 2011, 37). 1630, agosto 31 • Seconda lettera al dal Pozzo in cui promette l’invio del suo autoritratto, richiestole prima della partenza da Roma; lo eseguirà appena “finiti che averò alcuni quadri per l’Imperadrice”. Nella stessa missiva la donna chiede aiuto per ottenere un porto d’armi a favore di Domenico Campanili suo famiglio, e annuncia la possibilità di un suo futuro viaggio a Roma “alla rinfrescata”, ovvero appena il clima fosse stato meno torrido (Bottari 1754, I, p. 256; Lettere di Artemisia 2011, 38). 1630, ottobre 2 • Una ricevuta del Banco dei Poveri di Napoli attesta il pagamento versato in favore di Artemisia per “un quadro di Santa

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Elisabetta pittato dalla soprascritta per servizio di una cappella d’Oratio di Paula che lasciò si facesse nel suo ultimo testamento sulla terra di Pisticcio” (ASBN, BP, Giornale copia polizze matr. 122. Partita di 4 ducati del 2 ottobre 1630, Lattuada, Nappi 2005, pp. 92 e 97). 1630, dicembre 21 • Nella terza lettera a Cassiano, Artemisia lo informa di essere appena rientrata a Napoli dopo un periodo trascorso fuori città “con l’occasione di servire una sig. duchessa del suo ritratto”; assicura, inoltre, che la sua effigie “agitata dal freddo patito in tale operazione” sarebbe stata spedita con il “seguente procaccio” (Bottari 1754, I, p. 257; Lettere di Artemisia 2011, 39). 1631, agosto 21 • Artemisia riceve 12 ducati come saldo dei 20 pattuiti per un San Sebastiano di proprietà di Giovanni d’Afflitto in Napoli (ASBN, BSG, Giornale copia polizze, matr. 147, 21 agosto 1631; Nappi 1992, p. 74). Nel 1700 il dipinto si ritrova nella quadreria dell’erede principe Ferrante d’Afflitto (Appendice II). 1631, autunno • Artemisia riceve la visita nel suo studio dell’artista e scrittore Joachim von Sandrart, che ricorda avervi visto un quadro raffigurante David con la testa di Golia, non ancora identificato (Sandrart ed. 1925, p. 290).

1634, marzo 15 e 18 • Artemisia riceve la visita del viaggiatore inglese Bullen Reymes, uomo del duca di Buckingham, che reca lettere di raccomandazione firmate da Orazio Gentileschi. Prudenzia/Palmira è descritta a questa data come pittrice e particolarmente dotata nel suonare la spinetta (Chaney 1998; Lapierre 1998, pp. 374 e 476-477). 1635, gennaio 21 • Sempre da Napoli, torna a scrivere a Cassiano dal Pozzo avvertendolo del prossimo arrivo a Roma di suo fratello Francesco, il quale porterà un dipinto da presentare al cardinale Antonio Barberini (Bottari 1754, I, p. 258; Lettere di Artemisia 2011, 40). 1635, gennaio 25 • Artemisia scrive a Francesco I d’Este duca di Modena annunciando la prossima venuta di Francesco Gentileschi, il quale, già in viaggio per Roma, si recherà a Modena per presentare alcuni dipinti da offrire in dono al duca. Il fratello avrebbe inoltre ricevuto da Carlo I d’Inghilterra l’incarico di accompagnarla oltremanica, anche se la pittrice preferirebbe piuttosto servire presso la corte estense (ASM, ASE, Cancelleria Ducale, Archivio per Materie, Arti Belle e Pittori, busta 14/2; Venturi 1882, p. 218, nota 2; Imparato 1889, p. 424; Lettere di Artemisia 2011, 41).

1632 • La data 1632 è riportata sulla Clio (cat. 30), la cui scritta dedicatoria presente sul libro aperto (“Artemisia / [F]aciebat / All […] illstrmo isg [nre] tr […]osier”), variamente interpretata, non permette un’identificazione certa del committente (Carlo I di Lorena, IV duca di Guisa: si veda Garrard 1989, pp. 92-96; oppure un membro del suo entourage: si veda J.W. Mann in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 400). È probabilmente questo il quadro cui la pittrice si riferisce nella lettera a Galileo Galilei del 9 ottobre 1635 (infra ad annum; Appendice II).

1635, marzo 7 • Il duca di Modena risponde alla pittrice ringraziandola per i doni (ASM, ASE, Cancelleria Ducale, Archivio per Materie, Arti Belle e Pittori, busta 14/2; Imparato 1889, p. 424).

1634 • Un documento conservato presso il Public Record Office di Londra riporta un conto di cornici per alcuni quadri ritenuti di Orazio Gentileschi e per un Tarquinio e Lucrezia registrato come opera di Artemisia negli inventari delle collezioni reali del 1637-1639 (PRO, A.O., 1, 63/2427; Chettle 1937, p. 104; Appendice II).

1635, luglio 20 • La risoluta autopromozione intrapresa in questi anni da Artemisia si articola su diversi fronti, e non ultimo su quello fiorentino: in questa data scrive al diciottenne granduca Ferdinando II de’ Medici comunicandogli l’arrivo del fratello Francesco con due grandi tele eseguite per lui con il benestare del

1635, maggio 22 • Artemisia torna a scrivere all’Este annunciandogli la sua intenzione di estendere fino a Modena un viaggio già pianificato a Firenze (ASM, ASE, Cancelleria Ducale, Archivio per Materie, Arti Belle e Pittori, busta 14/2; Imparato 1889, p. 424; Lettere di Artemisia 2011, 42).

nuovo viceré di Napoli, Manuel de Acevedo y Zúñiga conte di Monterrey (1631-1637). Nella stessa missiva informa il granduca delle direttive ricevute dal padre Orazio che le impongono di raggiungerlo in Inghilterra al servizio di re Carlo I. Priva di nuove commissioni, Artemisia fa capire a Ferdinando II che si vedrà costretta a partire per Londra, scortata dal fratello Francesco con un lasciapassare per la Francia della duchessa di Savoia (ASF, Mediceo, 4157, f. 194; Fuda 1989, pp. 167-171). 1635, settembre 24 • Artemisia riceve una lettera di Andrea Cioli, segretario di stato del granduca di Toscana, non rinvenuta ma nota attraverso la risposta dell’artista del 20 ottobre seguente. 1635, ottobre 9 • A seguito della prima lettera al Cioli, la pittrice scrive a Galileo Galilei, già confinato in esilio ad Arcetri, chiedendogli di intervenire presso il granduca Ferdinando II de’ Medici a proposito dei due suoi dipinti precedentemente inviati senza alcun riscontro né dono o pagamento. Artemisia fa riferimento all’aiuto già ricevuto dallo scienziato per la Giuditta dipinta per Cosimo II (cat. 10, 21; Borea 1970, pp. 76-78; Barocchi, Gaeta Bertelà 2002, I, p. 170 n. 633, Appendice II) e mostra un’amichevole confidenza col Galilei. Nel confrontare il silenzio del granduca con la liberalità dimostratale da altri sovrani, Artemisia ricorda gli onori e le ricompense ricevuti dai potenti di tutta Europa e in special modo dal “Signor Duca di Ghisa [che] in ricompensa di un quadro mio, che gli presentò mio fratello, gli diede per me 200 piastre, le quali non ho avute per essersi incamminato in altra parte”; tale opera potrebbe essere identificata con la Clio oggi a Pisa (supra 1632; Appendice II). In chiusura della missiva, Artemisia prega Galileo di inviare la risposta “sotto la coperta” di Francesco Maria Maringhi, il gentiluomo fiorentino suo amante evidentemente allora residente a Napoli (supra 1618-1620) (BNF, Mss. Gal. P. I. T. XIII, car. 269-270; Galilei 1905, XVI, pp. 318-319; Lettere di Artemisia 2011, 44). 1635, novembre 20 (per errore segnata come “li 20 di 7bre 1635”) • Scrive al Cioli per la terza volta, tornando a chiedere il parere del granduca (e evidentemente una ricompensa) sui due grandi

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quadri inviati tramite il fratello Francesco (ASF, Mediceo del Principato, 1416, c. 748; Crinò 1960, p. 264; Lettere di Artemisia 2011, 45). 1635, dicembre 11 • In una quarta lettera al Cioli, Artemisia esprime la propria gratitudine per le cortesie ricevute e dichiara di voler mandare come dono una Santa Caterina di sua mano e un dipinto eseguito dalla figlia Palmira; auspica anche un futuro viaggio a Firenze “a marzo se come si dice vada via il Conte [di Monterrey], et io fusse degna di servire il mio Prencipe naturale” (ASF, Mediceo del Principato, 1416, c. 748; Crinò 1960, p. 264; Lettere di Artemisia 2011, 46; Appendice II). 1636-1637 • Nel 1640 una relazione del vescovo Martino de León y Cárdenas elenca i quadri dipinti da Artemisia per la cattedrale di Pozzuoli databili al biennio 1636-1637: Santi Procolo e Nicea, San Gennaro nell’anfiteatro e l’Adorazione dei magi (ASV, Sacra Congregazione del Concilio, Relationes ad limina, fasc. Pozzuoli, relazione dei vescovi, vescovo Martino de León y Cárdenas, 1640, f. 3; D’Ambrosio 1973, pp. 29-30; un’antica descrizione è fornita da Averardo de’ Medici citato da Locker 2010, pp. 30-31). 1636, febbraio 11 e aprile 1 • Insiste ancora presso il Cioli per ottenere un invito a Firenze: “me havisi per che dal tempo che io li scrissi, sta ancora voltato per far partenza, et venendoli occhasione con S.A.S. ma la priego non si dimentichi di quello che li accennai per la mia ultima che li scrissi per che in Napoli non ho voluntà de più starce, si per li tumulti di guerre, come anco il male vivere, et delle cose care” (ASF, Mediceo del Principato, 1416, c. 860; Crinò 1960, p. 265; Lettere di Artemisia 2011, 47). Il tentativo è reiterato il 1° aprile, quando Artemisia, pianificando un viaggio a Pisa per “vendere alcuni beni” in occasione del “collocamento” della figlia, intende recarsi anche a Firenze (ASF, Mediceo del Principato, 1416, c. 892; Crinò 1960, p. 265; Lettere di Artemisia 2011, 48). 1636, maggio 5 • Alcuni pagamenti registrati presso il Banco dello Spirito Santo di Napoli documentano incarichi conferiti ad Artemisia da vari committenti. Riceve 250 ducati da Lorenzo

Cambi e Simone Verzone per conto del principe Karl Eusebius von Liechtenstein come saldo finale di un pagamento di 600 ducati; le tele che Artemisia deve consegnare sono una Betsabea, una Lucrezia e una Susanna: “A Lorenzo Cambi e Simone Verzone D. 250. E per loro ad Artemisia Gentileschi, dite se li paghino a compimento di D. 300 che li altri D. 50 l’ha ricevuti contanti, dite in conto di D. 600 che l’ho dato d’ordine dall’eccellentissimo principe Carlo de Lochtensten si li pagano per valore di tre quadri consistenti in una Betsabea, una Susanna et una Lucretia, ognuno del quale d’altezza d’undici palmi e mezzo da dare e consegnare di tutto punto. E per lei all’Alfiere Costantino del Cunto per altritanti” (ASBN, BSS, giornale del 1636, matr. 270, partita di ducati 250 estinta il 5 maggio; Nappi 1983, p. 76). 1636, dicembre 19 • Artemisia riceve un nuovo pagamento: “A Bernardino Belprato D. 20 E per esso alla signora Artemisia Gentileschi a compimento di D. 60, atteso li altri l’ha ricevuti de contanti. E gli li paga in conto di quello che dovrà dargli per un quadro che li haverà da consegnare. E per essa al capitan Niccolò Amoretti per altritanti” (ASBN, BSG, giornale del 1636, matr. 198, partita di ducati 20, estinta il 19 dicembre; Nappi 1983, p. 76). Il Belprato, conte di Aversa, è possessore di due quadri della pittrice, come risulta dal suo inventario post mortem del 1667 (Appendice II). 1637, ottobre 24 • Artemisia scrive a Cassiano dal Pozzo a Roma dimostrandosi bisognosa di una certa somma di denaro per “concludere e perfezionare” il matrimonio di Palmira/Prudenzia, a cui già faceva riferimento nella lettera al Cioli dell’11 febbraio 1636 (supra ad annum). La Gentileschi sostiene anche di avere alcuni quadri di grande formato (“undici e dodici palmi l’uno”) che vorrebbe presentare ai cardinali Francesco e Antonio Barberini, nonché un quadro già pronto per monsignor Ascanio Filomarino e il famoso autoritratto, evidentemente ancora non giunto nella collezione di Cassiano. Artemisia conclude la lettera sperando in un suo futuro ritorno a Roma “per godermi della patria, e servir gli amici e padroni” e chiedendo notizie di Pierantonio, col quale, evidentemente, non ha rapporti da

lungo tempo: “Sia servita darmi nuova della vita o morte di mio marito” (Bottari 1754, I, p. 259; Lettere di Artemisia 2011, 49). 1637, novembre 24 • Nella missiva successiva la pittrice fornisce maggiori ragguagli sulla “istoria” dei quadri suddetti: una “Samaritana col Messia, e’ suoi dodici Apostoli, con paesi lontani e vicini”, recentemente identificato da Luciano Arcangeli (cat. 34; Arcangeli 2007), e “un altro quadro con un San Gio. Battista nel deserto”. 1638 • A Napoli esce la seconda edizione delle Ode, raccolta poetica di Girolamo Fontanella accademico degli Oziosi, che contiene il primo componimento dedicato ad Artemisia, composto in una data compresa tra il 1633 e il 1638 (Locker 2007, p. 246; infra 1640).

VII. Londra 1638-1640 circa. Alla corte di Carlo I

Dall’ottobre del 1637, ultima lettera napoletana indirizzata al Cavalier dal Pozzo, sino al 16 dicembre 1639, data sulla sua prima lettera inviata da Londra, esiste un vuoto documentario. Maritata la figlia e non riusciti i tentativi di trasferirsi a Modena, Firenze o a Roma, Artemisia già nell’autunno del 1626 raggiungeva il padre a Londra, dove si era trasferito. Il lungo lasso di tempo che intercorre tra le due testimonianze permette di ipotizzare che il viaggio attraverso la Francia e quindi in Inghilterra sia potuto avvenire tra la primavera e l’estate del 1638 (Bissell 1999, pp. 59-60) o nel novembre, a seguito di Maria de’ Medici (Lapierre 1998, p. 387). Pur non ancora rintracciate evidenze documentarie sulla presenza di Artemisia a Londra prima del 16 dicembre 1639, gran parte della critica è propensa a riconoscere il suo intervento nelle tele del soffitto della Queen’s House di Greenwich, compiute entro la morte di Orazio. Di diversa opinione è Gabriele Finaldi (1999, p. 32), che propende per un’installazione delle tele del soffitto di Greenwich già tra il settembre 1637 e l’ottobre 1638 e quindi completate da Orazio, con il probabile aiuto del figlio Francesco, diversi

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mesi prima del suo decesso (per i documenti PRO, AO1, 2428/69; Chettle 1937, pp. 104-105).

VIII. Napoli 1640 circa post gennAio 1654. Gli ultimi anni

1639, febbraio 7 • Orazio Gentileschi muore a Londra “regrettato molto da Sua Maestà et da ogn’altro amatore di quella sua virtù” (ASF, Mediceo del Principato, 4199; Crinò 1960, p. 258). Il suo testamento è registrato dal figlio Francesco, suo esecutore, il 2 luglio seguente (PRO, Porb 11/180, f. 473r; Finaldi 1999, p. 33). Liquidata anni prima con la dote, Artemisia non compare tra gli eredi (i soli citati sono i suoi fratelli Francesco, Giulio e Marco). 1639, dicembre 16 • Nella prima missiva inviata da Londra a Francesco d’Este, Artemisia racconta l’avvenuta ambientazione nella capitale inglese e gli annuncia l’arrivo a Modena del fratello, che gli presenterà in dono una sua “piccola fatica”. La pittrice, pur nella generale formalità della lettera, si definisce “non soddisfatta d’esser pervenuta al servizio di questa Corona d’Inghilterra”, dalla quale pure sembra ricevere “honori, et gratie segnalatissime”, tentando in questo modo, ancora una volta, di ottenere il favore e la protezione di Francesco d’Este (ASM, ASE, Cancelleria Ducale, Archivio per Materie, Arti Belle e Pittori, busta 14/2; Venturi 1882, p. 214, nota 2; Imparato 1889, p. 424). 1640 • La data compare su un’incisione di Jean Ganière tratta da un perduto dipinto di Artemisia raffigurante un Bambino che dorme accanto a un teschio, noto anche attraverso altre versioni a stampa (Bissell 1999, pp. 231-233). Nello stesso anno esce a Napoli la seconda raccolta poetica di Girolamo Fontanella, intitolata Nove Cieli, che contiene ben sette poesie dedicate a opere della pittrice, alcune commissionate dall’autore. I soggetti elencati sono sia mitologici (Apollo) sia ritratti (tra cui quello dello stesso Fontanella e l’autoritratto della pittrice); nessuno di questi dipinti è oggi identificabile con certezza (Locker 2007, p. 251; Appendice II). 1640, marzo 16 • Francesco d’Este risponde ad Artemisia ringraziandola per le “pitture” e per i sentimenti espressi (ASM, ASE, Cancelleria Ducale, Archivio per Materie, Arti Belle e Pittori, busta 14/2; Imparato 1889, p. 425).

1642 • Luca Stiattesi, fratello sacerdote di Pierantonio, residente alla Calcinaia, scrive a Matteo Frescobaldi facendo riferimento al rapporto tra Maringhi e la coppia e a ingenti spese da lui sostenute per aiutare Artemisia e il marito. Dalle parole di Luca Stiattesi non è possibile desumere con certezza se a questa data Pierantonio sia ancora vivo (Lettere di Artemisia 2011, appendice VII). 1643 • Escono a Napoli le Poesie liriche di Francesco Antonio Cappone, secondo accademico degli Oziosi a dedicare i propri componimenti alla “Sig. Artemisia Gentileschi Pittrice famosa”. È probabile inoltre che l’artista conoscesse, oltre a Fontanella e a Cappone, anche Giovanni Canale che, amico di Fontanella, le dedica una poesia nella sua raccolta pubblicata postuma in due volumi nel 1662 e nel 1667 (Bissell 1999, p. 167; Locker 2007, pp. 258-259 e 259-260), di cui si conserva un’eco nei versi di Tommaso Gaudiosi (Arpa poetica, Napoli 1671; ripubblicati da Don Fastidio 1898, p. 16; Bissell 1999, p. 168). 1648, settembre 5 • Ad Artemisia vengono pagati 30 ducati da don Fabrizio Ruffo priore di Bagnara, per un quadro “che sta li facendo” (ASBN, BPi, gior. 359, f. 406, 5 settembre 1648; Ruffo 1916, pp. 49 e 51-52, Stazzullo 1955, p. 44 e doc. 128). 1649, gennaio 5 • Il priore di Bagnara, stavolta per conto dello zio don Antonio, senatore messinese e capostipite della casa dei Principi della Floresta e della Scaletta, versa ad Artemisia ben 160 ducati per una Galatea. Il pagamento viene registrato per due volte nei libri dei conti di don Antonio; nella seconda menzione, relativa al periodo 1644-1655, sono riportate le misure e un’estesa descrizione iconografica: “uno quadro di p.mi 8 e 10 – della favola di Galatea con n° 5 trittoni fatto di mano di Artemisia Gentileschi mand[ato].mi da Napoli dal S.r Prior della Bagnara Mio Nepoti” (Ruffo 1919, p. 48). 1649, gennaio 30 • Artemisia scrive a don Antonio Ruffo annunciandogli di aver spedito il

quadro e giustificando il prezzo richiesto di 160 ducati in quanto “qualunque parte io sono stata mi è stato pagato cento scudi l’una la figura tanto a Fiorenza, quanto a Venetia e quanto a Roma e a Napoli”. Nella stessa occasione Artemisia si offre anche di spedire al committente messinese un suo autoritratto affinché egli lo possa tenere nella sua galleria “come fanno tutti l’altri Principi” (Ruffo 1916, p. 48; Lettere di Artemisia 2011, 52). 1649, marzo 13 • Da un’altra lettera di Artemisia si ricava il contenuto di una missiva perduta indirizzatale dal Ruffo, il 21 febbraio da Messina, con la quale l’aristocratico siciliano le inviava una polizza di cambio di 100 ducati per una nuova grande tela, sicuramente una Diana al bagno come sarà esplicitato nel loro successivo scambio epistolare. Nella stessa carta, Ruffo dà notizia dei danni subiti dalla Galatea durante il viaggio per mare. Rispondendogli, Artemisia afferma di volere mandargli in dono “il mio ritratto insieme qualche operetta della mia s.ra figlia la quale hoggi l’ho maritata con un Cavalier dell’Abito di San Giacomo, et mi ha scasato” e, dopo aver cercato di stimolare nuove commissioni da parte del nobile siciliano, lo invita a scriverle prossimamente all’indirizzo di Tommaso Guaragna (Ruffo 1916, pp. 48-49; Lettere di Artemisia 2011, 43). Della figlia nominata da Artemisia non è chiara l’effettiva identità: trattasi forse della stessa Palmira, mai sposata o rimasta vedova? O, come crede il Bissell (1999, p. 162), di un’altra figlia, anch’essa pittrice, nata durante il primo soggiorno napoletano, intorno al 1630? 1649, giugno 5 • In risposta a un’altra missiva perduta del Ruffo, del 24 maggio, Artemisia giustifica il ritardo nel completamento di un nuovo quadro “per indispositione della persona di cui mi servo per modello”, tornando sul suo autoritratto che riprenderà e invierà non appena terminata la Diana. La pittrice fa quindi riferimento alla commissione di altri tre dipinti ricevuta dal nipote Fabrizio Ruffo priore di Bagnara (Ruffo 1916, p. 49; Lettere di Artemisia 2011, 54). 1649, giugno 12 • Chiede al Ruffo un anticipo di 50 ducati per sostenere le ingenti spese relative al pagamento delle modelle, sostenendo di avere

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bisogno di più di una ragazza data la presenza di otto figure nella tela commissionata. I due anticipi a favore di Artemisia, il primo di 100 ducati e il secondo di 50, sono registrati il 22 giugno nel libro dei conti del Ruffo, dove si specifica che tali somme sono state versate ad Artemisia in Napoli da parte dei banchieri Giovanni Battista Tasca e Andrea Maffetti (Ruffo 1916, pp. 46-48; Lettere di Artemisia 2011, 55). 1649, luglio 24 • La Gentileschi scrive al Ruffo ringraziandolo della lettera di cambio ma posticipando ancora l’invio della Diana, che assicura completerà appena possibile, dato che “in questo quatro giè da far tre volte più de la calatea”. Artemisia torna a promettere il suo autoritratto sostenendo che “vendra giunto con il quatro” (Ruffo 1916, pp. 49-50; Lettere di Artemisia 2011, 56). 1649, agosto 5 • Don Antonio Ruffo registra le spese sostenute dal nipote Fabrizio a Napoli per la cassa in cui era stata spedita la Galatea e per la sua cornice scolpita da Sebastiano Gallone (Ruffo 1919, p. 52). 1649, agosto 7 • La Gentileschi ringrazia Ruffo per il nuovo acconto e gli promette di terminare la Diana al bagno entro la fine del mese, aggiungendo che la tela consta in “otto figure, due cani che io stimo più delle figure, e farò vedere a V.S. Ill.ma quello che sa fare una donna”. Ciò nonostante, esattamente un mese dopo, la pittrice è costretta a giustificarsi ancora in una nuova lettera: “Parerà a V. S. Ill.ma strano la tardanza del quadro ma per maggiormente servirla come devo, nel fare il paese tirando il punto della prospettiva è stato necessario rifare due figure, che sono certissima sarà di gran soddisfa.ne e gusto di V. S. Ill.ma che la prego scusarmi, perché essendo li caldi eccessivi e molte infermità, io procuro conservarmi, e travagliar poco à poco, assicurandola che la tardanza sarà in beneficio grandissimo del quadro” (Ruffo 1916, p. 50; Lettere di Artemisia 2011, 57). 1649, ottobre 23 • A tale ennesimo ritardo, Ruffo reagisce con una lettera perduta, del 12 ottobre, minacciando la pittrice di ridurre di un terzo il compenso pattuito per la grande Diana; il 23 dello

stesso mese, Artemisia si affretta a rispondere dichiarandosi mortificata e ribadendo come il prezzo stabilito fosse già inferiore di 115 ducati rispetto a un’altra opera eseguita per il marchese del Guasto contenente due figure in meno (Ruffo 1916, pp. 50-51; Lettere di Artemisia 2011, 59). 1649, novembre 13 • Due lettere di Artemisia consentono di desumere il contenuto di due missive perdute indirizzatele da don Antonio Ruffo il 23 e il 26 ottobre. Con esse, il senatore sembra averla voluta tranquillizzare commissionandole una nuova opera, alla quale Artemisia farà in seguito riferimento, e procurandole un lavoro per conto di un anonimo Cavaliere di Messina. Dalle risposte della Gentileschi si ricavano i soggetti richiesti da Ruffo e dall’ignoto nobiluomo: un Giudizio di Paride e una Galatea. All’esplicita richiesta di Ruffo di variare la composizione di questa seconda Galatea, per evitare la somiglianza con quella da lui posseduta, la pittrice risponde esprimendo tutto il suo disappunto: “non occorreva di esortarmene in questo che per gratia di Dio et della Gloriosissima Vergine vengono ad una donna che è piena di questa merentia cioè di variar soggetti in della mia pittura; et mai si è trovato ne’ quadri miei corrispondentia d’inventione etiam in duna mano”. È inoltre contraria alla richiesta di inviare un disegno preparatorio, ricordando come una volta un suo disegno per “delle anime del purgatorio” fosse stato messo in mano a un altro pittore. Infine, riguardo al pagamento, la pittrice ribadisce orgogliosamente la propria origine romana chiosando: “Avverta V. S. Ill.ma che quando io domando un prezzo non fo all’usanza di Napoli che domandano trenta e po’ danno per quattro […] io so’ Romana e perciò voglio procedere sempre alla Romana” (Ruffo 1916, p. 52; Lettere di Artemisia 2011, 60-61). 1649, dicembre • Tornando a scrivere al nobiluomo col pretesto degli auguri di Natale, Artemisia lo prega d’intervenire nei confronti del nipote Fabrizio, suo procuratore a Napoli, recentemente maldisposto nei confronti della pittrice (Ruffo 1916, pp. 52-53; Lettere di Artemisia 2011, 62). 1650, agosto 13 • Oltre a ringraziare per le lettere di cambio ricevute in precedenza, Artemisia spera

di ottenere ancora commissioni dal Ruffo. Cita una “Madonnina in piccolo” (Ruffo 1916, p. 53; Lettere di Artemisia 2011, 63; per l’identificazione si veda l’Appendice II). 1651, gennaio 1 • Scrive la sua ultima lettera nota al Ruffo, in cui fa riferimento alla malattia e ai “molti acciacchi e travagli” che l’hanno costretta a letto durante le festività natalizie. La pittrice chiede al messinese 100 ducati come anticipo per una coppia di quadri “della medesima misura della Galatea” (Andromeda e Giuseppe con la moglie di Putifarre, entrambi perduti), che intende vendergli a un prezzo vantaggioso (90 scudi). Inoltre il “rametto”, verosimilmente la Madonnina di cui sopra, “è più che mezzo fatto” (Ruffo 1916, p. 53; Lettere di Artemisia 2011, 64). 1651, aprile 26 • Le vengono pagati 48 ducati da Fabio Gentile come saldo finale di 150 ducati pattuiti per l’esecuzione di tre grandi tele (“cioè uno del bagno di Diana di palmi dodici, un altro di Venere et di Adone conforme alla istoria di dieci palmi et l’altro di nove palmi con una figura nuda con suo accompagnamento”) a patto che vengano consegnate entro il 20 luglio seguente. I tre quadri erano destinati alla “Maestà Cesarea” ovvero a Ferdinando II d’Asburgo o a sua moglie Maria (ASBN, BPi, Giornale copia polizze matr. 396. Partita di 48 ducati del 26 aprile 1651; Lattuada, Nappi 2005, p. 92). 1652 • La data è riportata su un perduto quadro raffigurante Susanna e i vecchioni della collezione di Averardo de’ Medici a Firenze (Morrona 1812, II, pp. 487-488; su Averardo si veda Locker 2010, p. 30). 1653 • Nel corso del 1653 è data alle stampe l’opera di Gianfrancesco Loredan e Pietro Michiele Cimiterio: epitaffij giocosi che contiene due epitaffi irridenti nei confronti di Artemisia poi tradotti in latino, in spagnolo e in francese. Il primo (XXXIX) allude ai presunti amori infedeli della pittrice: “Co ’l dipinger la faccia a questo, e a quello / Nel mondo m’acquistai merto infinito; / Ne l’intagliar le corna a mio marito / Lasciai il pennello, e presi lo scalpello”. Il secondo (XL) sembra alludere alla morte avvenuta di Artemi-

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sia, notizia però smentita da ulteriori recuperi documentari (infra 1654): “Gentil’esca de cori a chi vedermi / Poteva sempre fui nel cieco Mondo; / Hor, che tra questi marmi mi nascondo, / Sono fatta Gentil’esca dei vermi” (Battisti 1963, p. 297). 1653, gennaio 3 • Negli ultimi anni della sua vita, il rapporto di collaborazione di Artemisia col pittore napoletano Onofrio Palumbo pare consolidarsi, come dimostrano due ricevute rintracciate presso gli archivi napoletani. La prima recita “Ad. Antonio Galise D. 50. E per lui a Artemisia Gentileschi per il prezzo d’un quadro dell’historia di Susanna venduta di sua mano. Et per lei ad Onofrio Palumbo” (ASBN, BP, giornale mastro 286; Lattuada, Nappi 2005, p. 96; De Vito 2005, p. 749). 1653, aprile 22 • Artemisia paga 10 ducati a Scipione e Gio. Bernardino delle Castelle “in

virtù di mandato della Gran Corte della Vicaria” (ASBN, BP, Giornale copia polizze, matr. 287, Partita di 10 ducati del 22 aprile 1653; Lattuada, Nappi 2005, p. 98). 1653, maggio 13 • Ad Artemisia vengono pagati 4 ducati e 50 grana da Vittoria Correnti per conto di Ettore Capecelatro, possessore di una Madonna cui il pagamento potrebbe riferirsi (ASBN, BP, Giornale copia polizze, matr. 286, Partita di 4 ducati e 50 grana del 13 maggio 1653; Lattuada, Nappi 2005, p. 98). 1654, gennaio 31 • A circa un anno di distanza dalla prima ricevuta, il rapporto di collaborazione tra Artemisia e il Palumbo viene meglio specificato: “Partita di 50 ducati del 31 gennaio 1654. A Fabio Gentile D. 10. E per lui a Onofrio Palombo a compimento di D. 39 per tre quadri

che li haverà da pingere gionto con Artemisia Gentileschi della qualità e bontà conforme all’obligazione fattali dalla sodetta Artemisia per lo Banco del Monte di Pietà. E detti quadri detto Onofrio ce li ha da fenire et consegnare tra il termine di uno mese e mezzo dalli 30 del presente” (ASBN, ASS, giornale mastro 402, 31 gennaio 1654; De Vito 2005, p. 749). È questo l’ultimo documento utile per avere un termine post quem per la morte della pittrice, forse deceduta entro lo stesso anno. Secondo alcune fonti sette-ottocentesche, Artemisia fu sepolta nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Napoli. L’identificazione della sua lastra tombale, andata dispersa già durante i lavori di restauro del 1785 e sulla quale rimangono molti dubbi, recitava semplicemente “heic artimisia” (Medici 1790-1792, p. 464; Morrona 1812, p. 491; Locker 2010, pp. 33-34).

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Appendice II

Artemisia Gentileschi nelle collezioni europee (1612-1723) Yuri Primarosa

Il regesto raccoglie in ordine cronologico le menzioni dei dipinti di Artemisia Gentileschi in inventari, pagamenti, corrispondenze, testamenti, compravendite e altri atti notarili redatti dal 1612 al 1723. La collocazione archivistica è specificata solo per i documenti inediti, come nel caso dell’inventario annesso al testamento di Giovan Battista Croce († 1627), rimandando per tutti gli altri alla relativa bibliografia. Per ogni opera è stata inserita la menzione inventariale più antica, riportando le successive nei casi in cui sono fornite descrizioni più dettagliate o discordanti del soggetto dei dipinti. Si è segnalata, dove possibile, l’attuale ubicazione delle opere. All’interno delle citazioni, i corsivi sono redazionali e hanno lo scopo di evidenziare i soggetti delle opere di Artemisia di volta in volta menzionate. Come nell’Appendice I, si indicano le diverse datazioni dell’anno fiorentino (AF) e dell’anno veneziano (AV); i rimandi interni ai testi sono segnalati come infra o supra. 1612 • Una “Giuditta di capace grandezza” priva di attribuzione è ricordata nella bottega romana di Orazio Gentileschi in via della Croce, all’interno degli Atti del processo contro il pittore Agostino Tassi (1578-1644), accusato di aver “forzatamente sverginata” la giovane Artemisia (Bissell 1999, pp. 198-199; G. Papi in Artemisia 1991, p. 106; Papi 2000, p. 451; Appendice I). La pittrice afferma di aver eseguito “un ritratto per una donna che diceva di essere […] innamorata” di Artigenio, procuratore del cardinale Michelangelo Tonti (1566-1622) e amico di Orazio Gentileschi (Menzio 1981, p. 123). 1615, agosto • Michelangelo Buonarroti il Giovane (1568-1646) paga un anticipo di dieci fiorini “per il quadro che [Artemisia] mi fa per la soffitta della mia galleria dove va dipinta la figura dell’Inclinazione” (Sricchia 1963, pp. 251, 266 n. 24; Procacci 1965, p. 12; pubblicato integralmente in Vliegenthart 1976, pp. 172-173; Appendice I). Il dipinto, in seguito “brachettato” dal Volterrano, è conservato a Firenze nella Casa Buonarroti di via Ghibellina. 1619, febbraio (AF 1618) • un “Quadro Grande in tela alto b[raccia] 5, largo b[raccia] 4 1/3 dipintovi à olio il Bagno di Diana con più Ninfe e Donne igniude al Natur[al]e con una Grotta,

hav[u]to dall’Artim[isi]a Lomi Pitt[ore]ssa” entra nella Guardaroba di Cosimo II de’ Medici (1590-1621). La tela, donata nel 1633 a don Lorenzo de’ Medici dal nipote Ferdinando II, è segnalata nel 1649 nella villa della Petraia (“il Bagno di Diana, con otto femmine che parte nude, e veduta di paese”) (Gregori 1968, pp. 416, 419-420 nn. 18-19; Borea 1970, p. 71; Barocchi, Gaeta Bertelà 2002, I, p. 170 n. 633). 1620, gennaio (AF 1619) • Artemisia riceve un’oncia e mezzo di “azzurro oltremar[in]o” per la pittura di un Ercole commissionatole dal granduca Cosimo II (Sricchia 1963, pp. 251 e 266 n. 24; infra 1620, marzo-settembre). Il dipinto è forse quello citato dalla pittrice il 10 febbraio in una lettera al granduca, dove è promessa la consegna di un quadro entro due mesi (Crinò 1954, pp. 205-206; Gregori 1968, pp. 416, 420; R. Contini in Artemisia 1991, p. 129; G. Papi in Artemisia 1991, p. 150; Barocchi, Gaeta Bertelà 2002, I, p. 170 n. 633). 1620, marzo-settembre (AF 1619-1620) • Il 2 marzo Pierantonio Stiattesi, marito di Artemisia, scrive da Roma al gentiluomo fiorentino Francesco Maria Maringhi per annunciare il termine di un quadro dipinto dalla moglie per il granduca Cosimo II. Lo Stiattesi ricorda anche

altri quadri destinati a Firenze, quasi ultimati dalla pittrice, e chiede al Maringhi l’invio di una “cassa” con gli strumenti di lavoro della moglie (Lettere di Artemisia 2011, 11). Il 6 marzo, Stiattesi menziona alcuni quadri arrivati a Roma da Firenze e accenna a colori preziosi (oro e azzurro) necessari ad Artemisia per ultimare il quadro promesso al granduca. Al centro dell’inedita corrispondenza e forse mai ultimato, il dipinto è quasi sicuramente l’Ercole per il quale due mesi prima la pittrice aveva ricevuto un’oncia e mezzo di “azzurro oltremar[in]o” (Lettere di Artemisia 2011, 13; si veda supra 1620, gennaio). Il 20 marzo, Stiattesi torna sul quadro per il granduca, richiedendo ancora l’invio dell’azzurro, causa principale del ritardo di Artemisia. Nella stessa missiva è citata la copia di una Iole – forse da intendere come Giaele – commissionata alla pittrice dal cardinale Alessandro Damasceni Peretti Montalto (1571-1623) (cat. 17; Lettere di Artemisia 2011, 15). Il 9 luglio, da Roma, Artemisia comunica al Maringhi di aver dipinto due quadri per il duca di Baviera, non specificandone i soggetti, promettendo entro un mese il quadro per il granduca. Il 2 settembre, Artemisia scrive allo stesso annunciando l’intenzione di far portare il quadro per il granduca a Firenze da suo marito (Lettere di Artemisia 2011, 33, 35; si veda Appendice I). 1621, febbraio (AF 1620) • Nell’Inventario di Mobili et [altri oggetti] venduti da Artemisia Lomi a Francesco Maringhi per 165 ducati, sono menzionati un “quadro alto 2 braccia di una Maddalena abbilata”, un “quadro alto 2 braccia di una Madonna”, un “Ritratto di do[n]na senza cornice”, un “quadro d’una Maddalena cominciato alto 2. Braccia”, oltre a una tela e a diversi “rametti dipinti” di cui non viene specificato il soggetto (Solinas, Contini in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, pp. 447-448). 1623, novembre • Nell’inventario dei beni del cardinale Ludovico Ludovisi (1595-1632), redatto

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in occasione della morte di papa Gregorio XV, è registrata “Una Susanna con li vecchi alta p[alm]i 8 cornice nere profilate e rabescate d’oro di m[an]o di artimitia” (Wood 1992, p. 522). Richard E. Spear (in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 356) ipotizza di riconoscere il dipinto nella tela firmata del medesimo soggetto oggi nella collezione del marchese di Salisbury a Burghley House, smentendo l’identificazione con la Susanna e i vecchioni di Pommersfelden (infra 1715, luglio). 1624, febbraio • Nella “Stanza del guercio”, grande anticamera senza finestre al primo piano del palazzo del tesoriere papale Costanzo Patrizi (1589-1624), è registrato un “quadro di Psiche con Amore di mano d’Artemisia Gentileschi con cornice tutta dorata [stimato] scudi 120”, accanto a numerosi dipinti con soggetti sacri e a un ideale ciclo di tele raffiguranti gli amori di Venere, attribuite al Cavalier d’Arpino, Luca Cambiaso e Giulio Romano (Spezzaferro 1983; Bissell 1999, p. 360; M. Minozzi in Pedrocchi 2000, p. 387; infra 1642, novembre). Anna Maria Pedrocchi riconosce il dipinto, di controversa attribuzione, nell’Amore e Psiche oggi all’Ermitage di San Pietroburgo (Pedrocchi 2000, pp. 158-159). 1625, marzo (AF 1624) • Nell’“Inventario Originale [dei] Debiti e Crediti della Villa [del Poggio] Imperiale” è citato “Un quadretto di b[raccia] 1 inc[irc]a alto, con adornam[ent]o d’ebano e legno pardo, dentrovi un aovato dipinto su rame [raffigurante] una Santa Apollonia, di mano dell’Artimisia Lomi pitt[or]a” (Gregori 1968, p. 419 n. 18; Bissell 1999, pp. 377-378; Barocchi, Gaeta Bertelà 2005, I, p. 36 n. 141). Nel 1654-1656, lo stesso dipinto è descritto come una “testa di Sant’Apollonia con tenaglie in mano” (Barocchi, Gaeta Bertelà 2005, II, p. 803). 1626 • Durante il viaggio in Spagna a seguito del “cardinal Padrone” Francesco Barberini (15971679), il cavalier Cassiano dal Pozzo (1588-1657) ricorda un Matrimonio mistico di santa Caterina di mano della Gentileschi nella collezione madrilena del marchese de la Hinojosa (Gerard 1982, p. 12; Bissell 1999, p. 375). 1627, febbraio • Nella lista autografa allegata al testamento di Giovanni Battista Bolognetti,

segretario apostolico di Paolo V, sono ricordati en pendant “Una sibilla con un sciugatore in testa del Gentileschi [e] un’altra sibilla con un libro in mano della Gentilesca” nella divisione dei “quadra picturarum” tra i figli Ulisse e monsignor Giorgio (Mazzarelli 2005, p. 180); per il primo dipinto è stata ipotizzata un’identificazione con la Sibilla del Museum of Fine Arts di Houston (Mazzarelli 2005, pp. 174-175). 1627, giugno • Un “retratto di Artemisia” senza specifica dell’autore è menzionato il 29 giugno durante la “Congregatione generale delli S.ri Pittori et Scultori et Raccamatori di Roma”, in occasione delle dimissioni dal principato di Simon Vouet (ASR, Trenta Notai Capitolini, Uff. 15, vol. 112, c. 708r; il documento è digitalizzato in http://www.nga.gov/casva/accademia/html/ eng/ASRTNCUff1516270629.shtm). 1627, novembre • Reperito da chi scrive, l’inedito testamento del gentiluomo romano Giovanni Battista Croce o della Croce (morto nel 1627) descrive “Una Madonna di mano della S.ra Artemisia Gentilesca” (ASR, Trenta Notai Capitolini, Uff. 33, M.A. Cesius, vol. 121, c. 631r). Il dipinto, del quale non si citano le misure, è legato dal Croce al Convento dei Minimi di Trinità dei Monti con altri diciannove quadri. L’opera, simile nell’iconografia alle tele Maringhi e Biffi (supra 1621, febbraio; infra 1637, dicembre), sarebbe da ascriversi all’attività romana della pittrice, residente nell’Urbe fino al 1613 e dal marzo 1620 alla Pasqua del 1626 (si veda Appendice I). Nella raccolta Croce, la tela è inserita in un ampio florilegio di opere caravaggesche di mano di Baglione, Bigot, Cecco, Grammatica, Honthorst, Manfredi, Régnier, Spadarino, Vignon, Vouet, insieme a importanti originali di ambito emiliano (Galanino, Guercino, Lanfranco, Reni). Nella stessa lista, in corso di pubblicazione da parte dello scrivente, è citato anche “un paese di mano d’Agostino Tassi con cornice negra fatta à fogliami d’oro”, legato al frate Enrico de Enricis di Santo Spirito in Sassia (ASR, Trenta Notai Capitolini, Uff. 33, M.A. Cesius, vol. 121, c. 632r). 1630, ottobre • Artemisia riscuote a Napoli un pagamento per “un quadro di Santa Elisabetta pittato dalla soprascritta per servizio di una

cappella d’Oratio di Paula che lasciò si facesse nel suo ultimo testamento nella terra di Pisticcio”, in Puglia (Lattuada, Nappi 2005, pp. 92-97; Appendice I). 1630-1637 • In una lettera a Cassiano dal Pozzo, Artemisia afferma di aver dipinto un non ancora identificato Ritratto di Duchessa: “Nel mio ritorno in Napoli d’onde son stata assente molti giorni con occasione di servire una sig. duchessa del suo ritratto” (21 dicembre 1630; Appendice I). In altre missive indirizzate al Cavalier dal Pozzo, la pittrice accenna a un suo Autoritratto, nella cui stesura avrebbe “usato ogni diligenza”, dopo aver ultimato “alcuni quadri per la Imperatrice” (24 e 31 agosto, 21 dicembre 1630; Appendice I), tradizionalmente identificata con l’infanta Maria Ana d’Asburgo (1604-1646), soggiornante a Napoli nell’inverno del 1630, prima delle sue nozze con l’arciduca Ferdinando d’Austria (1608-1657), imperatore solo nel 1637, alla morte del padre Ferdinando II. Nel 1630 l’imperatrice in carica era Eleonora Gonzaga (1598-1655), seconda moglie di Ferdinando II (1622). Commissionato per la serie di ritratti di letterati, scienziati, antiquari e artisti dell’illustre mecenate, l’Autoritratto è stato ipoteticamente identificato da Roberto Contini (in Artemisia 1991, pp. 172-175; si veda anche I segreti di un collezionista 2001, pp. 151-153) e da Raymond Ward Bissell (1999, pp. 234-237) con l’Allegoria della Pittura di Palazzo Barberini, diversamente da Levey (1962), che erroneamente ricollega l’opera all’Autoritratto come allegoria della Pittura delle collezioni reali inglesi (infra 1689, ottobre). Il dipinto è menzionato da Artemisia in un’altra lettera datata 24 ottobre 1637: “fra i quali [quadri] ve ne sarà uno per Monsignor Filomarino et un altro per V. S. col mio ritratto a parte, conforme ella una volta mi comandò, per annoverarlo fra’ Pittori illustri” (si veda infra 1685, aprile). Nella stessa missiva la pittrice propone al cavalier dal Pozzo di mediare l’acquisto da parte dei cardinali Francesco e Antonio Barberini di alcuni dipinti “grandi d’undici e dodici palmi l’uno”, meglio specificati nella lettera del 24 novembre: “di grandezza dodici palmi d’altezza, e nove di larghezza […] l’istoria è la Samaritana col Messia, e suoi dodici Apostoli, con paesi lontani e vicini, ec., ornati di molta vaghezza, et un altro quadro con un San Gio. Batista nel

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deserto, di palmi nove d’altezza, e sua larghezza proporzionata”. Luciano Arcangeli identifica la prima grande tela con il Cristo e la samaritana al pozzo di collezione privata (cat. 34; Bottari 1754, I, pp. 255-260; Lettere di Artemisia 2011, 49; Bissell 1999, pp. 234-237, 377; Arcangeli 2007, pp. 249-252; Appendice I). 1631, autunno • Artemisia riceve la visita dell’artista e scrittore Joachim von Sandrart (1606-1688), che ricorda di aver visto nella sua bottega napoletana un David con la testa di Golia, simile nell’iconografia a un’altra sua tela di proprietà del marchese Vincenzo Giustiniani (Sandrart ed. 1925, p. 290; Klemm 1986, p. 61; infra 1638, febbraio). 1632-1643 • Il napoletano Girolamo Fontanella (1612 circa - 1644) e l’irpino Francesco Antonio Cappone (1598-1677), entrambi membri dell’accademia degli Oziosi, menzionano nei loro versi cinque tele dipinte dalla Gentileschi, novella Iride, Flora, Aracne e Artemisia regina di Alicarnasso: Apollo con la lira, Apollo che uccide Pitone, un Autoritratto, un Ritratto di Girolamo Fontanella e un Ritratto di Andreana Basile, sorella di Giambattista membro degli Oziosi (Locker 2007). 1635, luglio-ottobre • Il 20 luglio, in una lettera al granduca Ferdinando II (Fuda 1989; Lettere di Artemisia 2011, 43), la pittrice riferisce di “dui quadri” inviati da Napoli a Firenze, uno dei quali è forse la perduta tela “assai grande [dove] è rappresentato il ratto di Proserpina con gran numero di figure fatte d’assai buon gusto”, citata nelle Notizie de’ professori del disegno di Filippo Baldinucci (ed. 1975, III, p. 714; Bissell 1999, pp. 261-263, 377, 386). Nella missiva dell’ottobre dello stesso anno a Galileo Galilei (1564-1642) Artemisia accenna anche a un quadro realizzato a Napoli per Carlo I di Lorena duca di Guisa (15711640), senza tuttavia specificarne il soggetto: “ultimamente il S.r duca di Ghisa in ricompensa d’un quadro mio, che gli presentò l’istesso mio fratello, gli diede per me 200 piastre, le quali non ho avute per essersi incamminato in altra parte” (il dipinto è stato ipoteticamente identificato con la firmata Clio di proprietà della Cassa di Risparmio di Pisa, cat. 30; Garrard 1989, pp. 92-96, 383-384). Nella stessa lettera è citato dalla

pittrice “quel quadro di quella Giudith ch’io diedi al Ser.mo Gran Duca Cosimo gloriosa memoria, del quale se n’era persa la memoria, se non era ravvivata dalla protettione di V. S., in virtù della quale n’ottenni buonissima ricompensa” (Barbera 1929-1930, XVI, pp. 318-319; Barocchi, Gaeta Bertelà 2002, I, p. 170 n. 633; Lettere di Artemisia 2011, 44; infra 1638, marzo [AF 1637]). 1635, dicembre • Artemisia offre ad Andrea Cioli (1573-1641), segretario di stato del granduca Ferdinando II de’ Medici, “un quatro che un pezzo fa ho finito con l’Imagine di Santa Caterina dedicato per V. S. Ill.ma” (Crinò 1960, p. 264), già riconosciuto da Evelina Borea in una lavagna del Corridoio Vasariano di Firenze (Borea 1970, p. 73). Non è certa l’identificazione del dipinto con la Santa Caterina d’Alessandria della Galleria degli Uffizi (cat. 16; R. Contini in Artemisia 1991, pp. 147-149; Bissell 1999, pp. 331-332 e 378). 1635-1639 • Artemisia invia da Napoli delle “operette” a Francesco I d’Este (1610-1658), umilmente definite dalla pittrice come “cose picciole” (25 gennaio, 22 maggio 1635). Il duca di Modena risponde alla pittrice il 7 marzo 1635: “Ho riceuti da suo fratello i quadri, ch’ella m’ha inviati, et hò conosciuto nella loro vaghezza la virtù e nel dono di essi la liberalità di lei” (Lettere di Artemisia 2011, 41, con bibliografia precedente). In un’altra missiva scritta a Londra il 16 dicembre 1639 allo stesso duca, Artemisia annuncia l’invio di un’altra sua “piccola fatica […] nuda di perfettione, ma ricca d’una profonda osservanza” (Appendice I; Lettere di Artemisia 2011, 51). 1636 • Un Ercole e Onfale di Artemisia, per il quale la pittrice ricevette un primo anticipo a Venezia nel 1628 (si veda Appendice I), è inventariato nel Salón Nuevo dell’Alcázar Real di Filippo IV a Madrid: “Otro del mismo tamano y moldura de la Ystoria de hercules que esta ylando entre unas mujeras ay un cupido que senala lo que esta haçiendo hercules es de mano de la Gentilezca, Pintora Romana” (Gerard 1982, pp. 11-13; Bissell 1999, p. 370). 1636, maggio • Artemisia riscuote un pagamento a saldo per tre grandi quadri eseguiti

per il principe Karl Eusebius von Liechtenstein (1611-1684): “A Lorenzo Cambi e Simone Verzone d[ucati] 250. E per loro ad Artemisia Gentileschi, dite se li paghino a compimento di d[ucati] 300 che li altri d[ucati] 50 l’ha ricevuti contanti, dite in conto di d[ucati] 600 che l’ho dato d’ordine dall’eccellentissimo principe Carlo de Lochtenten si li pagano per valore di tre quadri consistenti in una Betsabea, una Susanna et una Lucretia, ognuno del quale d’altezza d’undici palmi e mezzo da dare e consignare di tutto punto. E per lei all’Alfiere Costantino del Cunto per altritanti” (Nappi 1983, p. 76). Raymond Ward Bissell propone di identificare uno dei dipinti con la Betsabea oggi a Columbus, Ohio Museum of Art (Bissell 1999, pp. 263-265 e 358). 1637, novembre • Un “rretrato de Artemisia gentilesca pintora Romana”, un “S. Juan Bap.ta de Artemissa Gentilesca”, un “medio cuerpo de S.to Patriarcha David con una harpa en la mano de mano de Artemissa Gentilesca” e un “lienço de un Salvador con la mano derecha sobre unos muchachos que es copia del original de artemissa que esta entre los que su Ex.a trujo de Ytalia para la cartuxa” sono ricordati nella collezione sivigliana di Fernando Enríquez Afán de Ribera (1583-1637), molto probabilmente acquistati a Roma nel 1625-1626, quando il terzo duca di Alcalà era stato ambasciatore presso la Santa Sede, o nel 1629-1631, quando aveva ricoperto la carica di viceré di Napoli. Il diplomatico spagnolo possedeva anche una “Mag[dale]na sentada en una silla durmiendo sobre el braço de artemissa Gentileça pintora romana”, identificata con il dipinto conservato nella cattedrale di Siviglia (Brown, Kagan 1987, pp. 239-240 e 248). Riccardo Lattuada identifica il Sinite parvulos con il Cristo che benedice i fanciulli già al Metropolitan Museum of Art di New York (in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 380). Tra gli acquirenti della collezione del terzo duca di Alcalà si segnala il patrizio genovese Pietro Maria Gentile (Burke 1984, II, pp. 9-13), che nel suo palazzo fra via Ponte Reale e piazza Banchi possiede un “Quadro di Oratio Gentileschi che rappresenta Cleopatra con la vipera” e un altro “rappresentante Lucrezia Romana”. Attribuite alla mano di Orazio in una guida tardo-settecentesca e in una lista del 1811 (Ratti 1780, pp. 119-122;

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Boccardo 2000, pp. 212-213), le opere sono forse identificabili con la Morte di Cleopatra e il Suicidio di Lucrezia (entrambe nella collezione Etro di Milano), attribuite ad Artemisia da Antonio Morassi (1947, pp. 101-103). La critica è oggi divisa sull’attribuzione dei dipinti. 1637, dicembre • “Una Madonna d’Artemisia con il putto in braccio”, “Una Santa Cecilia della medesima [che] sona un leuto” e due dipinti raffiguranti “Pittura e Poesia mano di Artemisia, una che ha la cornice rifatta” sono descritti insieme ad altri undici quadri nell’inventario di Alessandro Biffi, a garanzia di un debito pecuniario contratto con la famiglia Veralli per un affitto non pagato (Neppi 1975, pp. 144-145; Cannatà, Vicini 1992, pp. 44, 103, 188, 192, 195; Vicini 2000, pp. 7-12, 20-22). I quadri entrarono nella collezione romana della famiglia Spada – dove i primi due tuttora si conservano – dopo la morte nel 1643 di Giulia Veralli, sorella nubile della marchesa Maria (1616-1686), moglie nel 1636 di Orazio Spada (1613-1687), nipote prediletto del cardinale Bernardino (1594-1661). 1637-1639 • Una Fama (“a woemans picture […] with a trumpett in her left hand Signifying ffame with her other hand having a penn to write being uppon a Straining frame painted uppon Cloath”), una Susanna e i vecchioni (“A Suzanna with 2 eld[e]rs”) e un Tarquinio e Lucrezia (“bin don bij artumisia guntilesko. itm secondlj a tarqin and luckrecia”) compaiono negli inventari delle collezioni d’arte del re Carlo I Stuart (1600-1649), redatti dall’olandese Abraham van der Doort (1575/80 circa - 1640) (Millar 1960, pp. 46, 177, 194; infra 1649). 1638, febbraio • In uno “Stanzino picciolo nuovo à mano dritta della […] Stanza Grande”, nel palazzo romano del marchese Vincenzo Giustiniani (1564-1637), è inventariato “Un quadro con una figura intiegra di David che tiene la testa del gigante Golia dipinto in tela alta palmi 9. larga 6.½ incirca [di mano d’Artemisia Gentileschi] senza cornice” (Salerno 1960, I-II, pp. 26, 96; Danesi Squarzina 2003, I, p. 289; II, p. 57). Christian Klemm (1986, p. 61) ha collegato il dipinto con il David e Golia descritto dal Sandrart presso lo studio di Artemisia a Napoli, che ne potrebbe aver

suggerito l’acquisto ai Giustiniani (Sandrart ed. 1994-1995, I, p. 204; supra 1631, autunno). Mary Garrard (1989, pp. 109, 503 n. 108) riconosce una derivazione del dipinto in una tela conservata a Roma nella Galleria Corsini, ipotesi non accolta da Raymond Ward Bissell (1999, p. 362). Gianni Papi (1996) e Roberto Contini (2001b, p. 66), non seguiti da Bissell (1999, pp. 313-314), ipotizzano che la tela Giustiniani sia da riconoscersi in un dipinto del medesimo soggetto apparso nel 1975 sul mercato inglese. 1638, marzo (AF 1637) • Nella Guardaroba Medicea è registrato “Uno quadro in tela, entrovi Judit con la sua compagna con la testa di Oloferne in una paniera, di mano della Artimisia con cornice di noce alto b[raccia] 2 0/2, largo b[raccia] 1 2/3 inc[irc]a”, identificabile con la Giuditta e la sua ancella di Palazzo Pitti (Borea 1970, pp. 75-77; Barocchi, Gaeta Bertelà 2005, I, p. 92; II, p. 544). Nello stesso anno, in un inventario di Palazzo Pitti è registrata una “Juditta che ammazza Leoferne”, meglio specificata nel dicembre 1663 come una “Giuditta, con un’altra figura, che ammazza Leoferne nel letto […] alta b[raccia] 4 e larga b[raccia] 3 1/3” (Borea 1970, pp. 76-78; infra 1663). Dipinta per il granduca Cosimo II e citata dalla pittrice il 9 ottobre 1635 in una missiva inviata a Galileo Galilei, l’opera è forse identificabile con la tela firmata del medesimo soggetto conservata agli Uffizi; Gianni Papi mette in dubbio tale ipotesi poiché nella lista non è riportata alcuna attribuzione (Papi 1991, pp. 49-50, 150-153; supra 1635, ottobre). 1638 • “Un quadro in tela alto b[raccia] 1 ½ largo b[raccia] 1 ¼ con adornam[en]to nero filettato d’oro entrovi dipinto il ritratto dell’artimisia di sua mano che suona il liuto” è documentato nella villa medicea di Artimino. Il dipinto è stato identificato con l’Autoritratto come suonatrice di liuto della Curtis Gallery di Minneapolis, comparso sul mercato inglese nel 1998 (cat. 15; Papi 2000, pp. 452-453). Nella stessa villa Ferdinanda era conservato anche un altro singolare autoritratto della pittrice: “Un quadro in tela alto braccia 1 ¾ largo braccia 2 ½ con cornice nera filettata d’oro entrovi dipinto l’Artimisia pittrice in habito [di] hamazzone con spada, ruotella e morione” (ibidem).

1642, novembre • Il marchese Carlo Gerini (1616-1673) acquista una Psiche di Artemisia: “Adì 12 detto scudi quaranta per valsuta d’una Siche di mano del’Artemisia con suo ornamento di bolo et oro” (Spinelli 2011, pp. 43, 53 n. 91; vedi ad annum 1624, febbraio). Registrato nell’inventario del 1673 a pendant di una “Siche con Amore con un dardo in mano” di Giovanni Martinelli (1600-1659), il dipinto della Gentileschi è descritto come una “siche con la lucerna in mano et guarda un Armorino che dorme” (Di Dedda 2008, p. 41; Spinelli 2011, pp. 52-53 n. 88). 1644, aprile • Nell’“ultima Stanza de quadri” di Palazzo Barberini alle Quattro Fontane è ricordato “Un quadro con una donna con un’amore senza cornice coperta con suo tafetta verde della Gentilesca”, donato dalla pittrice al cardinale Antonio Barberini (1607-1671) (Aronberg Lavin 1975, p. 165). Il dipinto è menzionato da Artemisia in una missiva datata 21 gennaio 1635, inviata da Napoli al cavalier Cassiano dal Pozzo: “Viene constá il sig. Francesco mio fratello per accompagnare un quadro mio, e di quello farne offerta in mio nome all’eminentissimo sig. cardinale D. Antonio, quando lo trovo di suo gusto” (Bottari 1754, I, p. 258). Gianni Papi (1991, pp. 44-45, 60 n. 46) ipotizza di ricollegare il dipinto al già ricordato Amore e Psiche di San Pietroburgo (supra 1624, febbraio), mentre Raymond Ward Bissell (1999, pp. 247-249) avvicina la menzione barberiniana alla Venere che abbraccia Cupido conservata in Svizzera (Kreuzlingen, Heinz Kisters). Mary D. Garrard (1989, pp. 108-109) e Richard E. Spear (in Orazio e Artemisia Gentileschi 2001, p. 372) sottolineano la somiglianza iconografica con la preziosa Venere dormiente con amorino di Princeton (The Barbara Piasecka Johnson Foundation). 1646, novembre • “Una Giuditta de palmi 5 e 6 con cornice indorata de mano d’Artemisia Gentileschi”, stimata 40 ducati, è ricordata tra i quadri ereditati dal Pio Monte della Misericordia di Napoli alla morte del principe di San Martino Cesare di Gennaro, sopraggiunta nel settembre 1646 (Paolillo 1985, pp. 113-114, 116 n. 1, 119, 128; R. Contini in Artemisia 1991, p. 124; Bissell 1999, p. 372).

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1647, maggio • Nel palazzo romano del “nobile dilettante” Giuseppe Pignatelli sono menzionati “una Susanna, cornice negra, con due vecchi di mano d’Horatio Gentileschi, alto p.mi [spazio bianco]”, “una Bessabea in tela, con cornice nera, alta palmi [spazio bianco], larga [spazio bianco] del Gentileschi” e “Un Christo che porta la croce con quattro altre figure grandi del naturale, cornice intagliata indorata, di mano del Gentileschi, alto palmi [spazio bianco]” (Giammaria 2009, pp. 441-449). Sebbene attribuiti a Orazio, non è da escludere che i dipinti, dei quali non sono riportate le misure, possano essere pertinenti all’attività della pittrice, più volte documentata quale autrice di Susanne e Betsabee al bagno. 1647, luglio • “Tre quadri in ottangolo di mano d’Artemitia con le sue cornici lisce” e un “quadro grande della speranza mano d’Artemitia senza cornice” sono registrati nell’inventario allegato al testamento di Camillo Colonna, accademico degli Oziosi residente a Napoli (Ricciardi 2000, pp. 56, 60). 1648, giugno • “Una Giuditta [che] misura [sei palmi e cinque] di mano di Artemitia Gentilesca con cornice in[d]orata, et intagliata” è documentata nella collezione del napoletano Giuseppe Carafa, fratello di Diomede duca di Maddaloni (Labrot 1992b, pp. 77, 82; Bissell 1999, pp. 372373). Il dipinto è inserito all’interno di un ampio florilegio di opere d’impronta caravaggesca (Ribera, Stanzione, Pacecco, Passante, Cesare e Francesco Fracanzano). 1649, settembre • Nell’Inventario dei beni mobili, stabili et dell’annue entrate del napoletano Vincenzo d’Andrea (giureconsulto, accademico degli Oziosi e amico del cardinale Ascanio Filomarino) sono menzionati due quadri attribuiti alla pittrice: “uno del sacrificio d’Abramo di palmi 4 e 3 di mano di Artemisia Gentileschi con cornice d’oro et un altro picciolo di 2 e 3 di S. Cecilia dell’istessa” (Pacelli 1987, p. 150). 1649 • “A S[ain]t laying his hand. on fruit, by Artemisio”, non menzionato nella lista redatta dieci anni prima dal Van der Doort, è ricordato nelle collezioni reali inglesi a Greenwich House (Millar 1970-1972, p. 315; supra 1637-1639). Nello

stesso inventario dei beni di Carlo I, redatto tra l’esecuzione capitale del re e l’asta di Somerset House dell’ottobre 1651, sono ricordati anche un Autoritratto (“Arthemisia gentelisco. done by her selfe”) e un’Allegoria della pittura nell’atto di dipingere (“A Pintura A painteinge: by Artemisia”), variamente identificati con la tela di Kensington Palace (Levey 1964, p. 91; Millar 1970-1972, p. 186; Bissell 1999, pp. 272-275). Nella lista figurano anche una Susanna e i vecchioni (“Susanna. done. by Arthemesia”), un Tarquinio e Lucrezia (“Lucretia & Tarquin done by Artemisio”), una “Diana washing her with other naked figures done by Artemisio Gentillisco” e una Fama (“Posea w[i]th a trumpett by Arthemisia”), già descritta intorno al 1640 come “A Halfe figure of a Woeman houlding a Trumpett in her left hand, and a penn in her right being colled Fame done by Artemisia Gentilisco” (Millar 1970-1972, pp. 306, 312, 316; Bissell 1999, pp. 363, 367, 388-390; supra 1637-1639). 1649-1652 • Nella fitta corrispondenza scambiata con Antonio Ruffo primo principe della Scaletta (1610 circa - 1678) (Ruffo 1916, pp. 48-54; Lettere di Artemisia 2011, 52-64; Appendice I), nel 1649 la pittrice promette di inviare a Messina un suo Autoritratto: “li manderò ancora il mio ritratto acciò lo tenga nella sua galleria come fanno tutti l’altri Principi” (30 gennaio); “quanto prima manderò il mio ritratto” (13 marzo); “circa il mio ritratto che contro mio merito desidera V. S. Ill.ma” (5 giugno); “Il ritratto verrà giunto con il quatro” (24 luglio). Nella missiva del 13 novembre 1649, Artemisia afferma di aver eseguito “un desegno dell’anime del purgatorio al Vescovo di S.ta Gata” (Ruffo 1916, p. 52). Tra il 1649 e il gennaio 1651, inoltre, dichiara di aver quasi ultimato “due quadri della medesima misura della Galatea che sono mezzi fatti […] la historia di Gioseffo che la moglie di buttifar […] con bellissimo letto di drappi et bellissima prospettiva di pavimento” e “una madonnina in piccolo”, forse il “rametto […] più che mezzo fatto”, erroneamente identificato da Raymond Ward Bissell con la Madonna col Bambino dell’Escorial (Ruffo 1916, p. 53; Bissell 1999, pp. 293-294). Nell’Inventario di quadri del Ruffo, redatto a partire dal 1652, sono ben specificati i soggetti del rametto e dei due “quadri d’Artimisia gentileschi di palmi otto, e dieci”,

acquistati a Napoli nel 1649 da don Fabrizio Ruffo priore della Bagnara (Ruffo 1916, pp. 32, 46-52, 315; Ruffo 1919, pp. 48-52). I dipinti raffigurano “due favole, una di Galatea su una scorza di gran cofollone tirata da dui Delfini, et accompagnata da cinque Tritoni, e l’altra del Bagno di Diana con altre cinque Ninfe con due cani, questo se lo paghò docati 230, e quello d[ucati] 160, la cornice di questo costò Docati 45, e docati cinque di nolo, e cossi dell’altro, che in tutto pigliano la somma di D[ucati] 196, et un altro quadretto, sopra rame, di palmi uno e mezo di quadro, con una Madonnina che va in Egitto mano della medesima, se lo paghò Docati 25, et Docati 5 la cornice di scornabecco, et ebano in tutto Docati 30, che con il prezzo di sopra importano D[ucati] 208” (De Gennaro 2003, p. XXXII n. 114 e p. 65). Il Bagno di Diana, contrassegnato dalla presenza di Atteone in due liste del 1668 e del 1677 (Ibidem, pp. 108 e 127), scampò, insieme a pochi altri dipinti “rovinati interamente”, alla distruzione pressoché totale della quadreria in seguito al terremoto che colpì Messina nel 1783 (De Gennaro 2001, pp. 211-215). ante 1650 • Nel Giardino di Ca’ Gualdo cioè raccolta di pittori, scultori, architetti ecc. esistenti nella galleria Gualdo di Vicenza, opera manoscritta redatta da Girolamo Gualdo entro il 1650, sono citate quattro miniature su pergamena della Gentileschi: “pezzi n[umero] 4 in carta pecora che feci insozzare in Ven[ezi]a e si vede un boccolo di rosa, un mazzetto di viole gialle, un pampino di vite e certi animaletti così minuti e diligenti che più non può fare la natura stessa” (Costa 2000, p. 33). 1650, febbraio • L’arcivescovo di Milano Cesare Monti (1593-1650) dona parte della propria quadreria agli arcivescovi suoi successori, al Capitolo del Duomo, alla Città di Milano e ai conti della Valsassina. Tra i numerosi dipinti sono citate due piccole lavagne di controversa attribuzione, già assegnate alla mano della pittrice da Roberto Longhi (cat. 5, 6) (Longhi 1916 ed. 1961, pp. 258, 275, n. 32 p. 281); si tratta di due copie con varianti dalla Giuditta e Oloferne di Artemisia (Firenze; Galleria degli Uffizi; cat. 10) e dal David di Orazio Gentileschi (Roma, Galleria Spada): “Duoi Quadri del Guercino da

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cento, sopra la pietra di paragone ovati nella parte di sopra, Una Iuditta, che con la mano sinistra taglia la testa ad Oloferne, con la destra tiene i capelli, un’altra figura, e un Scabello con lume sopra acceso, l’altro un David nudo con poca pelle, e panno bianco sopra una spalla, piede alzato sopra una pietra, la Testa del Gigante, Cornice d’Ebano con frontespicio, alti in mezzo onz. 6, e mezza, larghi onz. 4” (F. Frangi in Le stanze del Cardinale Monti 1994, pp. 224-225). 1651, aprile • Fabio Gentile salda ad Artemisia un “bagno di Diana di palmi dodici, un altro di Venere et di Adone conforme alla istoria di dieci palmi et l’altro di nove palmi con una figura nuda con suo accompagnamento”, destinati alla “Maestà Cesarea” ossia a Ferdinando II d’Asburgo o a sua moglie Maria (Lattuada, Nappi 2005, pp. 92-97; vedi Appendice I). 1653 - 1654, gennaio • Artemisia riscuote un pagamento per una Susanna, forse eseguita in collaborazione con Onofrio Palumbo: “Ad. Antonio Galise D[ucati] 50. E per lui a Artemisia Gentileschi per il prezzo d’un quadro dell’historia di Susanna venduta di sua mano. Et per lei ad Onofrio Palumbo”. Nel gennaio 1654 Onofrio Palumbo riceve un pagamento da Fabio Gentile “a compimento di D[ucati] 39 per tre quadri che li haverà da pingere gionto con Artemisia Gentileschi della qualità e bontà conforme all’obligazione fattali dalla sodetta Artemisia per lo Banco del Monte di Pietà. E detti quadri detto Onofrio ce li ha da venire et consegnare tra il termine di uno mese e mezzo dalli 30 del presente” (Lattuada, Nappi 2005, pp. 93 e 98; De Vito 2005, p. 749; Appendice I). 1653, marzo • Manuel de Fonseca y Zúñiga (1590 circa - 1653), conte di Monterrey e cognato di Filippo IV, è proprietario di “Un quadro de Santa Chatalina de Artemisa con un Angel que tiene una espada de fuego con marco negro” (Burke, Cherry, Gilbert 1997, I, p. 507). La Santa Caterina madrilena, contraddistinta da un’iconografia assai rara, entrò forse nelle collezioni di Gaspar de Haro y Guzmán VII marchese del Carpio (1629-1687) (Pérez Sánchez 1965, p. 501; Garrard 1989, p. 511 n. 164; Bissell 1999, pp. 378-379).

1655-1659 • Nella seconda anticamera dello Studio del palazzo napoletano del marchese di Torella Ettore Capecelatro, nell’aprile 1655 è ricordata una “Madonna d’Artemitia” (Labrot 1992b, p. 102). In un’altra lista del marzo 1659, relativa alla divisione patrimoniale tra Filippo e Francesco Capecelatro, figura “Una Madalena di Artemisia di [palmi] 4 e 5 con cornice d’oro”, stimata 26 ducati (Labrot 1992b, p. 113). I dipinti, tuttora dispersi, furono verosimilmente eseguiti da Artemisia negli ultimi anni napoletani, come documentato da un pagamento di 4,50 ducati riscosso dalla pittrice il 13 maggio 1653 (Lattuada, Nappi 2005, pp. 92 e 98). 1656-1659 • La Nascita di san Giovanni Battista del Prado (1633-1635 circa) è ricordata nel palazzo madrileno del Buen Ritiro (cat. 31). Parte di un importante ciclo sulle Storie del Battista, il dipinto fu commissionato dal re di Spagna Filippo IV per una cappella dedicata a San Giovanni, insieme ad altre quattro tele di Massimo Stanzione e una di Paolo Finoglio (Vannugli 1989, pp. 61-64; Vannugli 1994, pp. 59-73; Bissell 1999, pp. 249-256). Tra quelle “opere comingiate per S[ua] M[aestà] Cattolica”, menzionate dalla pittrice nel luglio 1635 in una lettera al granduca Ferdinando II de’ Medici, il dipinto è ricordato nel 1701 nel dettagliato inventario del casino del Buen Ritiro: “Ottra de tres Uaras quartta de largo y dos y quarta de alto Con el Naçimiento de San Juan Baupttista de mano de Arttemise Genttileschi hija del Cauallero Maximo [Stanzione] Con marco tallado y dorado tasada en settentta doblones” (Fernández Bayton 1981, II, pp. 313-314, 346). 1657, maggio • Domenico de Angelis vende per 70 ducati al fratello Antonio de Martino un lotto di quattro quadri, tra cui “una Madonna con Cristo ignudo quattro et quattro incirca per mano di Artemisia Gentileschi”, insieme a un dipinto di Andrea Vaccaro e a due Filosofi di Simone de Bonis (Lattuada, Nappi 2005, pp. 93 e 98). 1661, gennaio • Nella collezione veneziana del procuratore di San Marco Giacomo Correr (1611-1661), protettore dell’Accademia Delfica e molto legato agli Incogniti, “una Pallade testa abbozzo [di] Artemisia Gentilesca romana” è

stimata sei ducati da Nicolas Régnier (1591-1667), il doppio del prezzo di vendita poi effettivamente applicato (Borean 1998; Borean 2003; L. Borean, in Borean, Mason 2007, p. 253). 1663 • Nelle collezioni medicee di Palazzo Pitti sono ricordati una Giuditta e “Un quadro in tela entrovi dipinto la Madonna San[tissi]ma à sedere con Giesù Bambino in collo in atto di volerlo allattare con ador[nament]o tutto dorato alto b[raccia] 2 1/2 largo 1 2/3 di mano [spazio bianco]”, verosimilmente identificabile con la Madonna col Bambino della Galleria Palatina di Firenze (supra 1638, marzo [AF 1637]). La tela è stata ricondotta per la prima volta alla mano della pittrice da Jahn-Rusconi (1937, pp. 138139), trovando discordi consensi da parte della critica (cat. 14). 1663, dicembre • Giovanni di Franco paga 14 ducati al non altrimenti noto Alessandro Balzamo “per il prezzo di due quadri che l’have venduti e consignati di mano di Artemisia, uno di palmi otto e sei con David et l’altro di cinque e sei della Maddalena” (Nappi, Lattuada 2005, pp. 93 e 98). 1666-1667 • Tra i dipinti ereditati dal granduca Cosimo III (1642-1723) dal prozio cardinale Carlo de’ Medici (1595-1666) è menzionato “un quadro in tela alto b[racci]a 2½ largo b[racci]a 1¾, entrovi un Angelo Custode vestito di bianco, che tiene p[er] la mano una anima di mano dell’Artimisia con adornam[en]to d’albero tinto di nero e dorato in parte”. Conservato nella “Camera delli armadini” del Casino di San Marco, il perduto dipinto entra il 6 dicembre 1667 nella Guardaroba Medicea, per poi passare nel 1669 all’Ambrogiana (Borea 1970, pp. 71-72; Barocchi, Gaeta Bertelà 2005, I, p. 167; III, pp. 1127, 1162). 1666 • Tra i numerosi dipinti citati nell’inventario post mortem del conte di Conversano Giangerolamo II Acquaviva (1600-1665), marito di Isabella Filomarino e noto mecenate di Paolo Finoglio, sono menzionati due quadri raffiguranti “La carità d’Artemitia Gentilesca” e “un altro colla Madonna d’Artemitia Gentilesca”, esposti accanto a tele di Reni, Stanzione e Caracciolo (Ruotolo 1977, p. 73).

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1667, febbraio • Nella collezione napoletana del conte di Aversa Bernardino Belprato sono ricordati un “Gioseppe Giusto di Gentileschi con cornice” e una “Galatea di Gentileschi con cornice” (Provenance Index, Getty Art Information Program; Bissell 1999, p. 368; infra 1690). Considerati il soggetto del secondo dipinto e l’ubicazione della quadreria, le menzioni inventariali devono essere riferite alla mano di Artemisia. Il 19 dicembre 1636, infatti, è documentato un pagamento di venti ducati da parte del Belprato “alla signora Artemisia Gentileschi a compimento di d[ucati] 60, atteso li altri l’ha ricevuti de contanti. E gli paga in conto di quello che dovrà darli per un quadro che li haverà da consegnare” (Nappi 1983, p. 76). 1671-1680 • Nel 1671 Giacomo Barri testimonia di aver visto “tre quadroni […] opere assai belle” di Artemisia Gentileschi, esposti nel Palazzo del Giardino del duca Ranuccio Farnese II di Parma (1630-1694) nella “sala dove è la fontana” (Barri 1671, p. 108). In un inventario del 1680 sono menzionati i tre dipinti e tre loro copie, eseguite dal pittore Francesco Maria Retti: “Un quadro alto braccia cinque, oncie cinque, e mezza, largo braccia quattro, oncia una, e mezza, Bersabea nuda a sedere s’acconcia le trecie davanti a un specchio sostenuto da una fantesca. Un’altra di dietro con filze di perle in mano, alla destra una donna con sechia in mano in lontananza sopra di un poggio Davide, di Artemisia Gentileschi; Un quadro alto braccia cinque, oncie una e mezza. Lucretia ignuda sopra un letto, con Tarquinio con pugnale alla mano et un moro che alza un rosso padiglione del letto, di Artemisia Gentileschi; Un quadro alto braccia cinque, oncie una, largo braccia tre, oncie una e mezza. Giudita la quale tiene la mano sinistra opposta al lume, nella destra la spada a piedi, una vecchia sopra il capo di Oloferne, di Artemisia Gentileschi” (Campori 1870, pp. 242246; Bertini 1987). Le tele raffiguranti Betsabea al bagno e Tarquinio e Lucrezia sono oggi conservate al Neues Palais di Potsdam; Giuditta e la fantesca è invece a Capodimonte (cat. 47). 1672, giugno • Davide Imperiale, ricco esponente dell’importante famiglia di banchieri genovesi attivi nel regno di Napoli, è proprietario di quattro dipinti attribuiti ad Artemisia, esposti accanto

a opere di ambito ligure e di scuola napoletana (Caracciolo, de Bellis, Piscopo e Micco Spadaro): “Una Madalena […] alta cinque [palmi] larga quattro”, “Una lucretia […] grande come la sudetta” e “Due Teste, una di nostro Signore Giovine, l’altra di nostra signora” (Labrot 1992b, p. 119). 1677, gennaio [AV 1676] • Il ricco mercante Giovanni Andrea Lumaga (1607-1672) possiede a Venezia un quadro raffigurante “Giudita che hà tagliato il capo ad Holloferne, e datolo alla vechia quale lo assiuga figura più grande del naturale della signora Artemisia Gentileschi” (Borean, Cecchini 2002, pp. 210-212, 222; Moretti 2005; I. Cecchini in Borean, Mason 2007, p. 286). 1680 • Nella collezione del nobile romano Pietro Mellini (1651 circa - 1694), tra i numerosi dipinti “riconosciuti da persone intendenti, con essattiss[im]a diligenza” nel suo palazzo a piazza Capranica, sono documentate tre tavole ovali della Gentileschi raffiguranti Allegorie: una “Donna fino sotto il petto che mostra scoperto coronata di lauro, Stà in tauola ouata di p[alm]i uno in circa per tutti i uersi. Orig[ina]le della Gentileschi, in cornicetta dorata intagliata”, un’altra “Donna in profilo con manto turchino, che guarda uerso il Cielo. Stà in tauola della misura sud[dett]a ouata. Orig[ina]le d[el]la med[esim]a Gentileschi, cornice simile” e una “Donna ammantata di giallo con alcune bende bianche in testa. Stà in tauola ouata della med[esim] a misura. Orig[ina]le della Gentileschi cornice simile” (Fernandez-Santos Ortiz-Iribas 2008, p. 519). 1680, aprile • “Un quadro grande di palmi 13 [e] 8 dipintovi Diana, et Ateone con altre figure ignude cornice jndorata, originale d’Artemisia” è ricordato nella “Galleria grande” della residenza partenopea del ricco mercante fiorentino Santo Maria Cella, duca di Frisa e agente del granduca di Toscana, trasferitosi a Napoli prima del 1656 (Borrelli 1989; Labrot 1992b, p. 147). 1682, settembre • Un “Ritratto grande al naturale d’Artemisia gentileschi e di sua mano” è documentato nell’inedito inventario allegato al testamento del genovese Francesco Maria Balbi (1619-1704) (vedi in questo volume scheda 23). 1685, aprile • Un quadro di circa tre palmi per quattro raffigurante “S. Giovanni Battista

di Artemisia Gentileschi coll’istessa cornice [d’oro liscia intagliata]” è citato nell’inventario dei “beni rimasti nell’Eredità del quondam Sig. D. Ascanio Filomarino Duca della Torre”, nipote dell’omonimo cardinale (1583-1666) (Ruotolo 1977, pp. 73 e 80; Labrot 1992b, p. 161; Lorizzo 2006, pp. 109, 143 n. 9). Il quadro era esposto nella “seconda camera” del palazzo napoletano in piazza San Giovanni Maggiore insieme a una tela attribuita a Caravaggio (proveniente dall’eredità del Monte), a dipinti cinquecenteschi e francesi (Vouet, Poussin) e a importanti originali di scuola emiliana (Annibale Carracci, Domenichino, Reni, Albani, Lanfranco). Il dipinto è probabilmente lo stesso che Artemisia, bisognosa di denaro per l’imminente matrimonio della figlia, inviò da Napoli a Roma nel 1637 (per le lettere a Cassiano dal Pozzo del 24 ottobre e del 24 novembre si veda Bottari 1754, I, pp. 259-260; supra 1630-1637). Nel 1839 Baccio dal Borgo, lodando l’ancora poco nota abilità di Artemisia nel campo della natura morta, descrive il “quadro della Galleria Filomarino in Napoli, rappresentante S. Giovanni Battista nel deserto addormentato, ove trionfa un tal genere di pittura [di fiori e frutta]” (Dal Borgo 1839, p. 32; Papi 1991, p. 62 n. 81; Contini 1991, pp. 85-86 n. 55; supra ante 1650). 1688, novembre • Nell’inventario napoletano dei Quadri dell’eredità del Marchese Ferdinando Vandeneynden è ricordato “Un quadro di pal[mi] 5 e 7 con cornice indorata, [raffigurante] la Giuditta che taglia la testa ad Oloferne, mano di Oratio Gentilesco”, stimato 100 ducati (Ruotolo 1982, p. 34). Anche se attribuito alla mano di Orazio, è plausibile che il dipinto possa essere ricondotto alla mano di Artemisia, presentando dimensioni analoghe alla decurtata Giuditta di Capodimonte (Bissell 1999, pp. 196-197). 1689, ottobre • Tra i beni del defunto Carlo Antonio dal Pozzo (1606-1689), fratello di Cassiano, sono citati per la prima volta “Tre quadri compagni figuranti uno la pittura, l’altro l’astrologia, e l’altro con certe rose in mano di Monsù Ouet” (Sparti 1992, p. 189). Il primo dipinto è descritto più dettagliatamente in una lista dell’aprile 1729: “Un quadro in tela di palmi quattro Ritratto di Artemisia Gentileschi pittrice, cornice color di noce et oro di Vouet” (Sparti 1992, p. 238). La

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tela è stata variamente identificata con l’Allegoria della Pittura di Palazzo Barberini (C. Volpi in I segreti di un collezionista 2000, pp. 48-49; supra 1630-1637), di discussa autografia artemisiesca, e col Ritratto di Artemisia Gentileschi in veste di allegoria della Pittura attribuito a Simon Vouet (cat. 7; R. Contini in I segreti di un collezionista 2001, pp. 151-153), secondo quanto confermato da una più tarda menzione nell’inventario post mortem di Cosimo Antonio (1684-1740), pronipote di Cassiano dal Pozzo: “Altro quadro in tela di 4 palmi in circa per alto rappresentante una mezza figura di donna, che rassembra una Pittrice con tavolozza ad uso di Pittore e toccalapis nelle mani, originale di Monsù Vouvet […] Questo è nel Inventario di Carlo Antonio sotto del n. 71 tra quadri compagni figuranti uno la Pittura di mano di Ouet” (Standring 2000, p. 210). 1690 • “Uno quadro di Gioseppe Giusto grande con cornice liscia indorata, mano di Artemisia” è ricordato nella “Casa palatiata sita dietro il monasterio di Santi Apostoli, detta la Casa grande” del patrizio napoletano Giovanni Battista Capece Piscicelli (Marshall 1998, pp. 493-494). Il dipinto è forse lo stesso inventariato nel 1667 nella quadreria di Bernardino Belprato (supra 1667, febbraio). 1698, aprile • “Un Rame con un putto che dorme con cornice di pero, et oliva opera di Artemisia Gentileschi [stimato] sc[udi] 7” è menzionato nell’inventario redatto alla morte del principe Flavio Orsini (1620-1698), meglio precisato nelle dimensioni e nell’iconografia in una lista del 1723: “rame per traverso di 9: e alto 6:, rapp[resentan]te un puttino, che dorme posando il Capo nel coscino rosso, ed un panno bianco, che lo cinge di sopra per traverso, opera di Artemisia Gentileschi con cornice di pero nero ed oliva di valore scudi dieci” (Rubsamen 1980, pp. 38, 82). 1699, dicembre • “Un quadro di palmi 8 e 9 con cornice intagliata e indorata entrovi Erchole che fila, mano d’Artemisia Gentilesca” è ricordato nella collezione napoletana di Carlo di Cardenas (morto nel 1691), conte di Acerra e marchese di Laino (Labrot 1992b, p. 206; Bissell 1999, pp. 370-371).

1700, aprile • Nella collezione napoletana del principe di Scanno Ferdinando d’Afflitto sono documentati “Tre quadri di 6 larghi et 8 lunghi con cornice nera e con filetto indorato, uno con S. Eustachio e l’altro con Davide, l’altro di S. Sebastiano, e le teste sono di mano di Artemisia”. Dalla tarda menzione inventariale le tele parrebbero eseguite dalla pittrice in collaborazione con altra mano. Tuttavia, uno dei dipinti è probabilmente lo stesso – “fatto di sua propria mano” – che le fu pagato nell’agosto 1631: “Da Gio. Francesco di Afflitto, conte di Loreto D[ucati] 12 a compimento di D[ucati] 20 per prezzo d’uno quatro di Santo Sebastiano di palmi otto alto e sei largo” (Nappi 1992, p. 74; Provenance Index, Getty Art Information Program; Bissell 1999, pp. 360-316, 379 e 383). 1701 • “Un Rosario, con s. Domenico e s. Catarina di Siena d’Artemisia, col paiese di Micco Spadaro” è registrato nel testamento del giurista e letterato salernitano Fabrizio Pinto, che fra la fine degli anni quaranta ed i primi cinquanta mise insieme “molti quadri di prezzo per essere di ottimi e famosi dipintori”. Questa Madonna del Rosario, importante attestazione documentaria della collaborazione della pittrice col Gargiulo, è descritta nell’inventario del 1702 come “Un Rosario di s. Domenico con cornice straforata indorata dell’istessa misura [due palmi]” (Avino, Del Grosso 1989, pp. 50, 93, 142). 1701, dicembre • Nella collezione genovese di Francesco Maria Balbi è ricordato un “ritratto grande al naturale di Artemisia gentileschi di sua mano” (Provenance Index, Getty Art Information Program; Bissell 1999, p. 384). 1704, dicembre • “Un quadro di palmi 6, e 5 con la Fortuna cornice dorata mano di Artemisia” è documentato nella collezione napoletana di Ottavio Orsini, conte di Pacentro e Oppido, duca di Cancellara e principe di Frasso (Labrot 1992b, p. 228). Il dipinto era esposto come sovrapporta nella “Camera prima dell’Arcuovo”, vicino a un “Baccanario con quattro figure” con insostenibile attribuzione a Caravaggio e a quadri di scuola meridionale (Ribera, Vaccaro, Preti, Ciccio). 1707, dicembre • “Due quadri di vergini d’artemisia di palmi 2 e ½”, probabilmente en pendant,

sono ricordati nella residenza napoletana di Salvatore Ciavarella (Provenance Index, Getty Art Information Program; Bissell 1999, p. 371). 1710, settembre • Nella quadreria napoletana dell’avvocato Gennaro d’Andrea (1637-1710), consigliere di Santa Chiara e avvocato fiscale del Real Patrimonio nel Tribunale della Regia Camera, è ricordato “Un quadro grande di p[al]mi 10 e 8 di Artemiggia con una Venere sopra d’una conchiglia tirata da varij delfini con diversi trittoni con cornice grande di legname intagliato a fiorami, e ind[orat]a” (Ruotolo 1987, p. 186). 1715, luglio • Il pittore Benedetto Luti (16661724) dichiara al consigliere di corte Bauer von Heppenstein di “inviare al gradimento di S. A. E. un quadro della mano di Orazio Gentileschi, che possiedo nella mia piccola quadreria”, raffigurante una “casta Susanna”, insieme a una copia da lui stesso effettuata. La tela, che effettivamente non figura tra i numerosi dipinti presenti nella collezione romana alla morte dell’artista fiorentino (Guerrieri Borsoi 2009), è identificabile con la firmata e precoce Susanna e i vecchioni di Pommersfelden, inventariata nel 1719 come “Susanna im bad, lebensgross ganze Figur. von Horatio Gentilesco”. 1715, marzo • Nella collezione napoletana del principe Giacomo Capece Zurlo (1669-1735) è documentato “Un Bambino, misura 2 e 1½, cornice intagliata indorata, mano d’Artemisia Gentilesca, [stimato] d[ucati] 15” (Ruotolo 1973, p. 151). 1716, luglio • Il duca di Sant’Elia Francesco de Palma, “rifutatario Universale di tutti li beni” del padre Marcantonio al momento del suo ingresso nell’ordine dei Gesuiti, rinuncia ai propri diritti sulla collezione di famiglia, nella quale sono registrati “Otto quadri di palmi 4 e 3 in circa con figure uno di Ecce homo, e gl’altri sette con Angioli che ogn’uno tiene qualche mistero della Passione, con cornici mischie e uno stragallo e frondi indorate di mano di Artemisia Gentileschi, [stimati] d[ucati] 80” (Labrot 1992b, pp. 283-284). 1716, ottobre • Nella collezione napoletana di Domenico Perrino è registrato un “quadro di palmi cinque, e quattro, con cornice indorata

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liscia, con chierchio di fiori, nel mezzo de quali vi è dipinto un bambino corcato, mano di Artimisia” (Provenance Index, Getty Art Information Program; Bissell 1999, p. 359). 1718, settembre • Un “Sanzone di palmi 6 e 8 originale di Artemisia Gentileschi di valuta di ducati cento” è ricordato tra i quadri “con cornici negre, stracalli et intagli o dorati” ricevuti da Paolo Francone dal padre Francesco principe di Pietracupa, alla vigilia del matrimonio con Ippolita Ruffo, figlia del duca di Bagnara Fabrizio Ruffo (Caracciolo 1959, pp. 33-37, 47-50; Bissell 1999, p. 383). 1723, settembre • Nella ricca collezione di Giovanna Battista d’Aragona Pignatelli, du-

chessa di Terranova e Monteleone e moglie del duca Niccolò Pignatelli (1648-1725), figurano, tra i “quadri che stanno à Terra” nella “Terza Camera” del palazzo vicino alla chiesa del Gesù Nuovo, “Due quadri di palmi cinque lungo, e palmi quattro e mezo largo l’uno, con due meze figure, uno con la Madonna e l’altro una Vergine, uno copia di Luca Giordano e l’altro mano di Artemisia, sue cornici di pero negro con duoi stragalli, intagliati et indorati” (Labrot 1992b, p. 324). 1723 • Nell’Inventario de mobili fatto dopo la morte della Principessa Orsini ossia Anne-Marie de La Trémoille (1641-1722), moglie del quinto duca di Bracciano Flavio Orsini, è descritto un

quadro “dipinto in Rame p. traverso di 9:, e alto 6: rappresentante un Puttino, che dorme posando il capo nel Cuscino Rosso, ed un panno bianco, che lo cinge di sopra p[er] traverso opera d’Artemisia Gentileschi, con cornice di pero nero ed oliva di valore Scudi dieci”. Nella stessa lista compaiono anche “altri [quadretti] tondi di grandezza onc. 8 ½, dipinti in vetro, rappresentano puttini che giocano con varij cerchi, che fanno à gatta cieca, con loro cornice e fondo d’Olivo”, stimati quindici scudi e attribuiti al non meglio identificato Luigi Gentileschi (Provenance Index, Getty Art Information Program).

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© Pino Abbrescia e Fabio Santinelli, Roma: pp. 16-17, 41, 130-131 © ADP su licenza Archivi Alinari: p. 68 © AISA / Archivi Alinari: p. 205 © Archivi Alinari, Firenze. Per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: pp. 37, 78, 155, 161, 177, 178-179 © Archivi Alinari, Firenze, su licenza Alessandro Vasari, Roma. Per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: pp. 57, 91 © Archivio Beni Archeologici e Storico-Artistici, Intesa Sanpaolo: pp. 8, 215 © Archivio Fotografico dei Musei Civici d’Arte Antica di Bologna, Collezioni Comunali d’Arte: pp. 181, 183 © Archivio Fotografico del Museo Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa: p. 239 © Archivio Fotografico della Biblioteca Reale di Torino: p. 188 © Archivio Fotografico dell’Arcidiocesi di Genova: p. 31 © Archivio Fotografico della Soprintendenza BAPSAE per Napoli e Provincia: pp. 219, 221, 223 © Archivio Storico Frescobaldi Albizzi, Firenze: pp. 145-149 © ArteFotografica, Roma: pp. 8, 191 © Artothek / Tosi / Archivi Alinari. Per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: p. 167 © Mauro Coen: p. 137 © Alessandro Colle, Massa / per gentile concessione della Parrocchia di Pescaglia (LU): p. 29 © Collezione Maurizio Marini, Roma: p. 45 © Collezione privata, Camaiore: pp. 25, 26 © Collezioni private: pp. 59, 88, 143, 159, 207, 211, 212-213, 217, 256-257 © Curtis Galleries, Minneapolis, Minnesota: pp. 62, 165 © DeA Picture Library, concesso in licenza ad Alinari: p. 53 © DeA Picture Library / V. Pirozzi, concesso in licenza ad Alinari: p. 190 © Mathieu Ferrier, Parigi: p. 153 © Finsiel / Archivi Alinari. Per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: p. 69 © Fondazione Caripisa / Gronchi Fotoarte: pp. 22, 96, 133, 203 © Fondazione Cavallini Sgarbi, Ro Ferrarese: p. 175 © 2011. Foto Scala, Firenze: p. 38 © 2011. Foto Scala, Firenze. Per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: pp. 98, 157, 163, 227 © Fototeca della Fondazione Federico Zeri, Bologna: p. 100 © Fototeca della Soprintendenza Speciale per il PSAE e per il Polo Museale della Città di Napoli: pp. 112, 114, 124, 125, 150-151, 243 © Kunstsammlungen Graf von Schoenborn, Pommersfelden: p. 52 © Manusardi Art Photo Studio, Milano: pp. 71, 201, 249 © Musée de la Castre, Cannes / photo Claude Germain: p. 245 © Museo Nacional Colegio de San Gregorio, Valladolid: p. 48 © National Gallery of Art, Washington: pp. 113, 118 © Mario Parodi, Genova: p. 185 © Patrimonio Nacional, Madrid: p. 253 © Luciano Pedicini, Napoli: pp. 12, 99, 108, 225

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Le riproduzioni provenienti dalle Soprintendenze e dalle Biblioteche Nazionali sono pubblicate su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali con divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. Le immagini relative ai beni conservati presso la parrocchia di Santa Maria in Vallicella a Roma e presso la chiesa di Santa Maria della Salute a Napoli sono state utilizzate su concessione del Fondo Edifici di Culto (FEC) del Ministero dell’Interno, Roma. Le immagini relative ai beni conservati presso la basilica di Pozzuoli sono state utilizzate per gentile concessione dell’Ufficio per i Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Pozzuoli. Si ringraziano i collezionisti privati per la preziosa collaborazione prestata. L’Editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche non individuate.

Finito di stampare nel mese di settembre 2011 a cura di 24 ORE Cultura, Pero (Milano) Printed in Italy

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