Design del Diagramma. Per una Semiotica dei Grafici

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Relat ore

EM I L I O PATUZZO

SALVATORE ZINGALE

Design del diagramma

Per una semiotica dei grafici





Design del diagramma

Per una semiotica dei grafici



Design del diagramma Per una semiotica dei grafici

Studente Emilio Patuzzo Matr. 798621

Politecnico di Milano Scuola del Design

Relatore Salvatore Zingale

L. M. in Design della Comunicazione A. A. 2015/2016



Qu’on ne dise pas que je n’ai rien dit de nouveau: La disposition des matières est nouvelle. PENSÉES DIV ER SES III B LA ISE PA SCA L


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IL PROGETTISTA SEMANTICO

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SÉMIOLOGIE GRAPHIQUE

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IL DIAGRAMMA DI PEIRCE

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LABORATORIO


1. A

DESIGNER

L’OGGETTO DELLA DISCIPLINA

COME TRADUTTORE

IL TECNICO E IL PROGETTISTA CONFINI DEL DESIGN

1. B

LOST

LE FORME DEL LINGUAGGIO

IN TRANSLATION

PERTINENZE LINGUAGGIO OSTRACIZZANTE

2. A

2. B

3. A

3. B

PROPRIETÀ

DIAGRAMMI

E GRAMMATICA

DAL PARTICOLARE AL GENERALE

DEI GRAFICI

LEGGEREZZA DEI DIAGRAMMI

LINGUAGGIO

TERMINOLOGIA E CLASSIFICAZIONE

DEI GRAFICI

APPLICAZIONI E LIMITI

INFERENZA

L’ANALOGIA

E SOMIGLIANZA

IL PENSIERO ANALOGICO

LE ANALOGIE

DIAGRAMMA ICONA

DEI GRAFICI

DIAGRAMMA E CONVENZIONE MODELLI RIGIDI

3. C

LE ANALOGIE

UN MEZZO DI CONOSCENZA

COME STRUMENTI

I MODELLI COME INTERPRETANTI DICHIARATAMENTE SOGGETTIVO

4. A

TEMA

BEATITUDINE IN UNA TABELLA TRATTI DEL TEMA SCALA COME VARIABILE

4. B

FORO

STRUTTURA, PATTERN, VARIABILI VISIVE OSSERVAZIONI SUL FORO

16 28 40

27 39 47

48 62 72

61 71 79

80 96 104

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131 141

142 152

151 159

160 172 180

171 179 185

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N OTA I NT RODU T T I VA

Introduzione

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uesta ricerca si pone come testo volto ad analizzare da un punto di vista inedito la visualizzazione dati, la rappresentazione diagrammatica, troppo spesso considerata esclusivamente come mezzo, come strumento, e perciò trascurata nella sua sintassi, nelle sue possibilità espressive e comunicative. Un’idea nata durante il corso di studi in design della comunicazione – più precisamente durante il laboratorio di sintesi finale diretto da Density Design – che si è poi concretizzata nella costatazione di come i modelli di rappresentazione tendenzialmente utilizzati siano, sul piano espressivo, formalmente identici e limitati nel numero – prendendo a prestito la terminologia hjelmsleviana – nonostante la diversità dei contenuti, delle realtà che descrivono: un fenomeno questo che potremmo identificare sotto il termine di omografia, o di penuria nominum, – sbilanciandoci in un confronto forse un po’ troppo

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II ardito con le osservazioni di Umberto Eco rispetto alla cultura medievale. Osserveremo la disciplina della rappresentazione diagrammatica da un punto di vista della semiotica, dal punto di vista delle sue potenzialità “significative” – che vedremo del resto essere materia di progetto del designer – che vanno oltre quelle supposte da Jacques Bertin nel suo comunque magistrale e fondamentale Sémiologie Graphique. Ci proponiamo cioè di considerarlo rispetto a quel materiale semiotico che esiste implicitamente nel grafico, ma che ancora non è stato definito in maniera appropriata da alcuno studio. Segni, diremmo sinteticamente, che vengono inevitabilmente colti, in quanto tali, in virtù della nostra tendenza a semiotizzare la realtà a noi circostante, a semiotizzare ciò su cui volgiamo la nostra attenzione, sia questo un diagramma o altro. In favore di una formalizzazione concisa e definita della teoria proveremo come, dal nostro punto di vista, le conseguenze del testo del cartografo francese abbiano condotto a uno stato della pratica dove il grado di progettualità, nel disegno di una visualizzazione, sia pressoché irrilevante: la rigidità della classificazione dei dati, derivata da alcune nozioni basilari della statistica, ha certamente contribuito a rendere il linguaggio duttile, universalmente comprensibile e utilizzabile – convenzionalizzato diremo poi, che è peraltro caratteristica basilare di un linguaggio in quanto tale –, ma questo a scapito della correttezza semiotica, dell’articolatezza del linguaggio, delle possibilità progettuali, rendendo la pratica un mero processo meccanico, trasposizione – e non traduzione come invece vorrebbe Salvatore Zingale (2016) – dalla tabella a un modello visivo standard. Emergerà inoltre, in maniera sempre più preponderante dalle pagine che seguono, anche l’idea di una sostanziale parzialità, limitatezza e, se vogliamo, anche arbitrarietà della visualizza-


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zione rispetto al contenuto che veicola. E questo a prescindere da ogni scelta progettuale. L’idea secondo cui qualsiasi diagramma non potrà mai rappresentare in maniera oggettiva, completa e assolutamente veritiera un certo fenomeno è premessa essenziale ai fini della nostra argomentazione. Sebbene, come vedremo nei primi capitoli, talvolta si sia provato a dimostrare il contrario, mascherando l’arbitrio del progettista dietro ai vincoli stabiliti dal linguaggio, ogni sorta di visualizzazione non potrà che essere, oltre che parziale, soggetta alle soluzioni interpretative ed espressive che il designer privilegerà. Comprendere appieno questo principio è stata una delle premesse fondamentali che ci ha consentito di immaginare nuove possibilità di visualizzazione, di immaginare un nuovo modus operandi, un nuovo modo di interpretare la disciplina della rappresentazione diagrammatica. In questo testo proveremo a ridefinire, aggiornare le potenzialità del linguaggio dei grafici e, in funzione di ciò, ristabiliremo in questa inedita concezione della disciplina il ruolo del designer, la cui partecipazione allo sviluppo di prodotti di visualizzazione verrà definitivamente legittimata. Esamineremo perciò quello che secondo noi coincide con l’oggetto della disciplina del design, prima genericamente e poi più specificamente rispetto all’info-design; analizzeremo con Hjelmslev e Jakobson in cosa consistano i rischi, gli ostacoli e le difficoltà del design, e li rivaluteremo in funzione della teoria della pertinenza di Sperber e Wilson cercando di descrivere, in una teoria relativamente concisa, di cosa si occupi – e di cosa si dovrebbe occupare – un progettista grafico. Vedremo le criticità e i limiti di Bertin proponendo, peraltro, un’alternativa definizione di “diagramma”. Proveremo inoltre come ogni sorta di rappresentazione giaccia su un rapporto analogico servendoci, a questo scopo, di Charles Peirce e del-

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IV le sue eleganti considerazioni sul diagramma-icona. Premessa, questa, che ci condurrà allo studio di una piccola porzione dell’immensa letteratura proprio attorno all’analogia: prenderemo perciò in prestito da Aristotele l’efficace modello della proporzione analogica cercando di capire in che modo possa tornarci utile a fini pratici e operativi nella proposta di una nuova metodologia del progetto dei diagrammi; la rileggeremo attraverso le interpretazioni di Eco, Zingale, Perelman, Hesse e Hofstadter provando a conciliarla con le illuminanti idee di Arnheim nell’ambito della psicologia: il diagramma, lo schema vedremo essere l’esempio più tipico del nostro movimento inferenziale. Esamineremo poi l’analogia in quanto strumento, definendone le proprietà euristiche, di scoperta, e tenteremo di arricchire, per quanto possibile, il modello sopracitato in funzione delle nostre necessità: definire quanto della proporzione si presta a essere manipolata, alterata al fine di stabilire le basi per una proposta di metodo che svilupperemo nell’ultimo capitolo, in quello che potremmo altrimenti chiamare “Laboratorio”. Preso a prestito il modello di analisi componenziale sviluppato da Eco e basandoci su alcune sue considerazioni rispetto al “modo simbolico” affrontate già nel 1984 – ma comunque attuali –, vedremo come gli elementi di una tabella veicolino significati ben più ampi rispetto alle limitate categorie statistiche cui si rifanno i dati nella teoria di Bertin, e proveremo come, questa indagine, possa divenire una pratica proficua: stimolo e suggerimento per ripensare il diagramma attraverso un approccio radicalmente diverso da quello che si è sempre posto come unica soluzione metodologica e progettuale. Precisiamo tuttavia, sin dall’introduzione, come il nostro intento non sia quello di proporre un approccio che si sostitu-


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isca all’attuale e condivisa concezione della disciplina, ma di rimarcare possibilità progettuali alternative che privilegino, di una rappresentazione, proprietà differenti. Proveremo, quindi, a trascurare in questo testo le caratteristiche di universalità e duttilità formalizzate e realizzate da Bertin entro l’elenco finito dei “tipi di imposizione” e delle corrispondenze tra il grafico da adoperarsi e le tipologie di componenti presenti nella tabella di riferimento. I vantaggi apportati dallo studio del cartografo sono immisurabili, è evidente, ma dal punto di vista della teoria sarebbe miope non prevedere, non considerare altre possibilità operative. E colmare questo vuoto è uno dei propositi di questo lavoro.

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I l p r o g et t i sta s e m a n t i c o

Designer come traduttore

Introduciamo la tesi definendo in che cosa consista il mestiere del grafico, delimitandone i confini ed evidenziando le questioni su cui dovrebbe concentrarsi. Rivedere il suo ruolo nella pratica della visualizzazione e, piĂš specificamente, nella pratica della rappresentazione dati. Questo con lo scopo di riqualificare e legittimare la sua competenza nella disciplina e di problematizzare le questioni a esso relative.

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L’o g g e t t o d e l l a d i s c i p l i n a

Il progettista è un traduttore – nell’accezione comune del termine – con la sola riserva che i sistemi segnici entro cui esegue la traduzione possono essere di natura differente: verbo-icona.

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mberto Eco is a very good friend of mine. We grew up, in a way, in a sense, together. And we’re partners in culture. And I remember, one day I was telling to Umberto, “Umberto, but we never study, really, semiotics. We are semiotics.”

Benché Vignelli non avesse mai studiato semiotica, come recita la citazione sopra riportata, era senz’altro produttore di segni. A onor del vero, ogni essere umano è produttore e interprete di segni, volontariamente oppure no. Addirittura potremmo estendere, senza timore d’incorrere in errore, la classe di produttori di segni agli esseri viventi in generale – e la zoosemiotica ce ne sarebbe grata –. Ma se il processo di semiosi è comportamento comune non solo al progettista, ma all’intera specie umana e persino – almeno a buona parte – degli esseri viventi, in che modo ci torna utile introdurre queste pagine con tale citazione? We are semiotics – although we never stu-

VIGNELLI, 2 01 1 INTERVISTA

Tradurre non trasporre. Interpretazione, non mera corrispondenza.


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died semiotic – ha i tratti di un aforisma e, giacché tale, risulta essere per certi versi brillante, per altri scontato e per altri ancora un po’ stridente, restando pur tuttavia un eccellente spunto da cui partire per riflettere sulle mansioni che un designer della comunicazione dovrebbe assolvere. Partiamo allora dall’intuizione di Vignelli per parlare di qual è l’oggetto della disciplina del progettista, per capire in cosa consiste, in sintesi, il suo mestiere. Riprendiamo la domanda introduttiva e cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sulla questione. Se la semiosi è un processo comune a tutti gli esseri viventi, in quale modo il progettista si può qualificare come semiotico al contrario di un altro professionista che tale non si può considerare? Innanzitutto è necessaria una precisazione preliminare: Being semiotics, in questo caso, è da considerarsi non nell’accezione aggettivante del termine, ma in quanto sostantivo: non esseri viventi mossi dal processo semiotico, ma essere semiotici, conoscitori ed esperti di semiotica e del processo di semiosi. Sotto questa luce, l’asserto risulta già essere più preciso e più rilevante ai fini della nostra argomentazione, e ci consente di delineare più precisamente i motivi per cui un buon progettista grafico può considerarsi “esperto produttore di segni” a differenza, invece, di un ingegnere meccanico la cui professione non richiede, almeno principalmente, di essere un buon semiotico. Poniamo per un momento la questione sotto altri termini. Quanto caratterizzava il lavoro di Vignelli, dei suoi colleghi di ieri e dei suoi eredi di oggi, era la capacità di produrre, attraverso un certo tipo di linguaggi/o artefatti comunicativi di diversa natura, complessità e applicazione. Ma quanto accomuna tutta la sua produzione di designer, più specificamente, era il presuppore un destinatario a cui comunicare un contenuto. Nonostante lo stesso Vignelli avesse idee ben chiare rispetto a


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quali fossero le forme espressive, i canoni estetici, attraverso cui comunicare, e che imponeva a differenti tipi di fruitori, ciò non toglie che alla base di quanto realizzava soggiacesse comunque un semplice rapporto comunicativo tra un mittente e uno o più destinatari. Al contrario, proprio questa sua radicalità e dedizione alla chiarezza, alla semplicità e all’eleganza nel comunicare lo hanno reso il famoso progettista visivo che è stato: ha creato un linguaggio sulla base di quanto lui sosteneva essere una buona comunicazione. In effetti, un linguaggio altro non serve se non a comunicare, e ogni artefatto realizzato senza questo scopo, si riduce a esercizio di stile, simulazione da laboratorio e nient’altro. Whatever we do, if not understood, fails to communicate and is wasted effort. Il progettista visivo volge allora i suoi sforzi per produrre una buona ed efficace comunicazione e, al contempo, è un semiotico. Noteremo come questa sua prerogativa e come questa sua qualità, in realtà, siano necessariamente l’una conseguenza dell’altra, e in questo il modello comunicazionale di Roman Jakobson ci torna senz’altro utile. L’apporto del linguista russo allo studio della comunicazione risiede nell’aver reso il modello precedentemente elaborato da Shannon e Weaver più appropriato alla comunicazione linguistica inserendo, in prima istanza, la nozione di codice e di contesto e individuando poi, nel processo di scambio, alcune funzioni linguistiche principali. Questa rivisitazione si presta a essere più funzionale a descrivere la comunicazione umana ponendola inequivocabilmente su un piano semiotico più che tecnico: se il modello precedente volgeva a evidenziare quali fossero le diverse fasi negli scambi tra macchine, questo introduce nel processo variabili che privilegiano valori semantici e cognitivi nella comunicazione. Mittente e destinatario, protagonisti della comunicazione, vengono eloquentemente chiamati codificatore e decodificatore i quali appunto, sulla base di un codice condiviso, rielaborano e

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VIGNELLI, 2 009 PAG . 1 4

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processano un messaggio attraverso un movimento inferenziale. E proprio questo processo inferenziale di cernita, di traduzione da un contenuto astratto a un messaggio concreto giace su un procedimento di natura semiosica. Il mittente progetta la forma di un messaggio – quindi una comunicazione – nella scelta e nella produzione dei significanti più consoni allo scopo di trasmettere in modo il più possibile inalterato un contenuto a un destinatario. Un altro modello presentato da Janos Petöfi nel 1998, costruito sulla base del modello di Jakobson, correggerà ulteriormente alcuni limiti emersi nel lavoro del suo predecessore introducendo la nozione di strategia comunicativa e di strategia interpretativa rispettivamente in corrispondenza dell’atto di codifica e di decodifica del messaggio. Questa nuova terminologia meglio si presta a descrivere il procedimento semiosico messo in atto dai protagonisti della comunicazione, e sottolinea la complessità sia della produzione segnica, sia della loro interpretazione. Ma non cambia, in sostanza, quanto già il modello di Jakobson fece emergere a suo tempo: a ogni atto comunicativo soggiace un movimento inferenziale di natura semiotica.

P IS AN T Y - Z IJNO, 2 0 0 9 PAG. 3 0

Alla luce di questa spiegazione, è possibile fare allora una distinzione: tutti coloro che comunicano intenzionalmente attuano un procedimento semiosico, ma non tutti quelli che comunicano sono semiotici. Ma il dubbio posto inizialmente rimane ancora parzialmente irrisolto dal momento in cui non abbiamo risposto al perché il progettista è anche un semiotico. Cerchiamo di risolverlo definitivamente nelle righe che seguono. Come accennato, produrre una comunicazione significa cercare di manipolare in un certo modo la mente di qualcuno, cioè assemblare un insieme di dati bruti in una foggia tale da modificare l’ambiente cognitivo di un interprete nella maniera voluta e proprio questa allora è l’abilità che il progettista visivo, in quanto comunicatore, deve rivendicare. Ne consegue


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che, essendo un comunicatore, è esperto del processo per mezzo di cui la comunicazione stessa si attua, ossia il processo semiotico. La consapevolezza di quali siano le criticità, i rischi, le variabili da considerare e i limiti tanto della produzione segnica quanto dell’interpretazione dei segni stessi, sono quantomeno una delle materie principali di studio a cui il grafico deve fare riferimento, affinché possa effettivamente attribuirsi la capacità di progettare una comunicazione buona ed efficace. Il progettista grafico è semiotico proprio perché la produzione di segni, volta a essere interpretata e ad attuare il processo comunicativo, deve ovviamente essere sviluppata in maniera consapevole. La mancanza di questa consapevolezza e di questo tipo di conoscenza degrada il progettista a semplice comunicatore, facoltà che, abbiamo visto, è propria di ogni essere vivente. Da questa concisa deduzione che abbiamo svolto emerge un altro aspetto interessante da sviluppare: poco sopra abbiamo definito il mestiere del progettista come una sorta di traduzione da un contenuto astratto a un messaggio concreto, progettare la forma di un messaggio. Benché questa definizione possa sembrare mutilata e riduttiva nel circoscrivere il campo d’azione del grafico, riteniamo in realtà sia molto più ampia di quanto possa sembrare apparentemente. Definire il grafico un comunicatore può, sotto certi aspetti, non essere propriamente corretto. Il progettista in effetti non compie la comunicazione nella sua completezza benché la preveda, ma si limita esclusivamente a progettarla affinché si compia in maniera efficace: potremmo dire che il grafico focalizza i suoi sforzi su tutto quello che viene prima del comunicare, dando una forma a un messaggio che tendenzialmente – ma non sempre – esiste, progettando le modalità entro cui la funzione fatica si attuerà, e via dicendo. Il lavoro del designer della comunicazione, allora, consiste nel mediare e ottimizzare tutto quello che sta tra un

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MIT TENTE

CON TESTO F U N Z I ON E R EF ER EN Z I A L E

MESSAG G I O F U N Z I ON E P OETI CA

CON TAT TO F U N Z I ON E FÀTI CA

CODI CE F U NZI ON E META L I N G U I STI CA

D E S T I N ATARI O

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FIG. 1.

Modello della comunicazione di Roman Jakobson, 1960.


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M E S S AG G I O e

ESECU TOR E

S T R AT E G IA C O MU N I CATI VA

SEG N A L E e

CAN AL E

SEG N A L E i

I N TERP R ETE

STR ATEG I A I N TERPRETATIVA

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FIG. 2.

Modello della comunicazione di Janos Petöfi, 1998. Da notare l’introduzione dei termini Strategia comunicativa e Strategia interpretativa.

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VOCAB OLARIO ETIM OLOGICO P IANIGIANI: «TRAD URRE »

messaggio ancora intangibile – o addirittura informe nell’accezione hjelmsleviana del termine – e il destinatario dello stesso: tradurre un messaggio e, secondariamente, assicurarsi che raggiunga entro determinate modalità il destinatario della comunicazione. Tradurre dunque, trans-ducere, portare oltre: sia nell’accezione di portare da un mittente a un destinatario, se vogliamo, ma principalmente nell’accezione di condurre, interpretare ed esplicare. La traduzione Bada al senso e s’ingegna di renderlo nel modo più conveniente all’indole della lingua nella quale si traduce, e questa definizione rende giustizia della difficoltà e della natura profondamente progettuale della traduzione: non trasposizione fedele ma interpretazione del senso, modellazione di una forma espressiva che nel modo più conveniente della lingua nella quale si traduce si presta a veicolare un contenuto. Curioso notare, peraltro, come la definizione etimologica del termine non faccia alcun riferimento specifico al tipo di linguaggio entro cui la traduzione prende luogo. Non c’è alcun indizio a suggerirci in che senso interpretare la parola “lingua” riportata nella definizione: potremmo sottintendere il riferimento alla lingua verbale, per cui la pratica traduttiva si limiterebbe a volgere un testo dall’italiano al tedesco – entro uno stesso linguaggio dunque –, oppure potremmo interpretarlo in maniera più ampia considerando linguaggi di natura differente come per esempio il linguaggio grafico oltre a quello verbale – linguaggi di natura differente – e comunque la definizione si adatterebbe in maniera inequivocabile anche a questo caso. La pratica allora risulterebbe essere ben più generale di quanto comunemente si pensi. Del resto, la definizione non fa nemmeno riferimento alla necessità di avere un messaggio già formalizzato in un altro linguaggio di partenza, ma parla di “senso”. In altre parole, secondo l’etimologia del vocabolo, la traduzione non richiederebbe due termini essenzialmente uguali da mettere a confronto quali ad esempio la lingua italiana e la lingua francese, oppure la lin-


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gua italiana e il linguaggio grafico. Bensì il rapporto potrebbe instaurarsi benissimo tra un’idea non ancora completamente formalizzata e un potenziale sistema di segni che ne permetta la comunicazione. Quello che allora Jakobson chiamava atto di codifica, a cui preferiamo la terminologia di Petöfi strategia comunicativa, altro non è che un atto di traduzione da parte di un mittente/esecutore di un messaggio, che si realizza attraverso un processo di codifica/strategia comunicativa. La traduzione si compie nell’interpretazione di un messaggio e nella formalizzazione dello stesso affinché sia comunicabile in maniera la più appropriata possibile. Le competenze del grafico, come già spiegato, si realizzano principalmente proprio in questa fase del processo: nel progetto di una traduzione idonea. Assunto che il compito del grafico è quello di progettare una comunicazione, e che allo scopo di farlo necessita di essere un semiotico, potremmo concludere semplicemente che, di fatto, il designer della comunicazione è un traduttore. Quest’equazione implica necessariamente anche quanto Vignelli sosteneva rispetto al progettista comunicatore e semiotico con il vantaggio, inoltre, che ci permette di definire di conseguenza in cosa consista l’oggetto della sua disciplina: la traduzione, appunto. Alcune precisazioni vanno certamente fatte rispetto al linguaggio che si suppone il grafico prediliga per esprimere i contenuti che è chiamato a tradurre, e un’obiezione pertinente a questa sorta di definizione potrebbe senz’altro riguardare il mezzo che tendenzialmente il grafico utilizza – quello bidimensionale del foglio, della pagina web etc. –, ma lo scopo di queste righe è porre l’attenzione del lettore su cosa principalmente contraddistingue il mestiere del designer della comunicazione, oltre che suggerire l’aspetto prettamente progettuale del tradurre, e dispensarci dall’articolare in modo ulteriore questa definizione beneficia la leggerezza del discorso.

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La traduzione implica interpretazione, conoscenza dei sistemi del linguaggio entro cui attuarla. La qualità della produzione segnica dipenderà primariamente dall’atto interpretativo del segno iniziale, e la progettualità risiede proprio nel creare ¬ sulla base dell’interpretazione ¬ un modello che si adatti al contenuto da comunicare: progettare cioè una forma espressiva efficiente per tradurre uno specifico messaggio. Limitarsi alla mera trasposizione, mutila e contraddice la disciplina a livello etimologico. Non design, ma tecnica da manuale.

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pprofondiamo la nozione di traduzione per comprendere meglio l’oggetto di questo primo capitolo. Come afferma Roman Jakobson nel testo “Aspetti linguistici della traduzione”, esistono in sintesi tre forme di traduzione possibile: I. Traduzione Endolinguistica o riformulazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua;

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II. Traduzione Interlinguistica o traduzione propriamente detta consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di un’altra lingua; III. Traduzione Intersemiotica o trasmutazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici.

ZINGALE , 2 0 1 6 PAG. 9

In aggiunta a questa lista stilata dal linguista russo, Zingale – il primo a cogliere la natura prettamente traduttiva del progettista – propone un tipo di traduzione alternativa che caratterizza il design, in cui il S. L. – Source Language, o linguaggio di partenza – non è propriamente definibile come linguaggio, ma sia tale solo in potenza, virtualmente appunto. A questo scopo introduce la nozione di Purport, materia non ancora strutturata, che il progettista è in grado di testualizzare, di dargli forma – per utilizzare la terminologia hjelmsleviana –, prima sul piano del contenuto e poi, inevitabilmente, sul piano dell’espressione. Nel design non si traduce per far comprendere ciò che è “detto in un’altra lingua”, ma per volgere in una forma di espressione inedita, frutto in gradi diversi di invenzione, visuale e sensibile, ciò che in origine si presenta senza una forma né struttura testuale definita. A partire da una situazione problematica, da una mancanza, il progettista è in grado di coglierne il senso e di tradurla in linguaggio, renderla comunicabile. In questi termini, la disciplina del design diventa così inventiva nel senso di dare una forma, o meglio di progettare una forma adeguata. Tuttavia non crediamo che questa operazione sia propria esclusivamente del progettista: benché nel paragrafo precedente ci siamo presi la premura di considerare l’evenienza in cui il messaggio possa essere informe, non strutturato, questa situazione non rappre-


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senta la totalità dei casi entro cui il designer si trova ad agire. Di conseguenza, questa discriminante non ci torna utile per determinare quale sia un processo di design da un qualsiasi altro procedimento. Sosteniamo, in queste righe, che la capacità di tradurre in forma una materia inizialmente amorfa – Purport – sia sì requisito essenziale e distintivo del progettista, ma sia anche prerogativa di uno scienziato, di uno scrittore, di un’intellettuale, di un filosofo, e di chiunque si accinga, con i relativi mezzi, a testualizzare una porzione di materia non ancora strutturata. Pare essere, dunque, una caratteristica piuttosto generica che necessita di essere ulteriormente precisata. Portiamo un esempio: il responsabile delle ferrovie svizzere, postosi il problema di quale immagine adoperare per comunicarsi ai suoi utenti, sceglie di consultare un professionista. Il committente, sebbene incapace di disegnare, sa chiaramente il messaggio che vuole trasmettere all’utenza: il logo deve principalmente veicolare l’idea di connessione e dinamicità all’interno dei confini nazionali. Il designer, in questo caso, parte già da un contenuto testualizzato nella forma di linguaggio verbale, non da una materia ancora amorfa – quello che viene comunemente chiamato riassunto, direttive, per gli anglofili Brief – e si appresta ad effettuare quella che Jakobson chiama una traduzione inter-semiotica: dal testo verbale a quello grafico. Possiamo ancora chiamarlo, oltre che traduzione, progetto? Invenzione? Certamente. Le lingue differiscono per ciò che devono esprimere, non per ciò che possono esprimere. E questa considerazione non si limita alla traduzione del secondo tipo, ma soprattutto al terzo. Riproponiamo l’esempio di Jakobson per chiarire questa affermazione: I hired a worker è un asserto che porta con sé un minor valore informazionale rispetto, invece, al corrispettivo enunciato in una lingua come il russo o l’italiano. La parola worker, per esempio, non esprime alcuna indicazione rispetto al sesso del

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JA KOB S O N, 19 5 9 - in FA B BR I, MARRONE , 2 000 PAG. 21 1

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lavoratore assunto mentre la lingua russa, come del resto quella italiana, prevede la specificazione di questa caratteristica del dipendente – rabotnika, rabotnicu; lavoratore, lavoratrice –. Nella traduzione esiste sempre uno scarto informazionale tra la S. L. e la T. L. – Target Language, o linguaggio di destinazione – che non può non essere considerato. Al contempo, questo scarto sembra crescere in maniera esponenziale dal primo al terzo tipo di traduzione. In che modo il progettista potrà tradurre il concetto di “connessione all’interno dei confini nazionali” nell’esempio posto in precedenza? Esistono n modi per effettuare questo genere di traduzione, ognuno dei quali organizza attraverso una forma espressiva il contenuto stesso del logos. Nel caso specifico delle ferrovie svizzere, il progettista ha scelto di disporre su due vettori di direzione opposta una croce elvetica: l’organizzazione è simmetrica, come del resto la croce elvetica stessa; i tratti sono sintetizzati il più possibile, sono regolari come la font bastoni utilizzata per completare l’immagine; il logo è inserito in un rettangolo rosso per richiamare ulteriormente la bandiera svizzera e via dicendo. Tutte queste caratteristiche non erano specificate nelle direttive iniziali ma è il linguaggio, il suo alto grado informazionale che ha forzato il progettista a prendere una posizione: la scelta di sviluppare il logo in maniera simmetrica è significativa tanto quanto quella di svilupparla in modo asimmetrico. 1 In questo caso, la simmetria, la linearità del carattere bastoni, la semplicità attraverso cui viene veicolata l’idea di nazione sono funzionali alla comunicazione perché suggeriscono un’idea di efficienza e autorevolezza a livello stesso di contenuto. Potremmo sbilanciarci ancora e leggere la scelta del registro espressivo come altro richiamo all’idea di Svizzera: la rigidità

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Esattamente come il non parlare è comunicativamente rilevante come il proferire parola. “Impossibilità di non comunicare” è il primo assioma della comunicazione di Paul Watzlawick.


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della griglia grafica, le forme geometriche estremamente sintetiche, la scelta di utilizzare solo tre colori – rosso, bianco e nero – potrebbe richiamare, per una porzione definita di destinatari certo, il classico stile svizzero che caratterizzò la produzione grafica elvetica del secolo scorso. Lo scarto tra i linguaggi, come detto precedentemente, è la materia ancora da progettare, da inventare e da creare. E declinate in questi termini le osservazioni di Zingale sono ancora più interessanti: dare forma alla materia non ancora strutturata, che incorre nello scarto tra il linguaggio di partenza e quello di arrivo della traduzione. Sarebbe comunque limitato e miope riconoscere esclusivamente in questo scarto tra linguaggi la materia che il progettista ha da plasmare. Senza addentrarci eccessivamente nel discorso, considerato peraltro che lo riprenderemo più avanti, poniamo l’attenzione su come gli stessi segni verbali di partenza, che pare definiscano in modo così univoco i significati estrapolabili dal logo, presentino un alto grado di vaghezza. L’espressione “connessione” tanto quanto quella di “nazione” fanno riferimento a un insieme di significati i cui confini possono essere più o meno netti, meglio, più o meno vaghi: “nazione” può significare un territorio entro certi confini, una bandiera, gli aspetti di una cultura che accomunano un insieme di persone o le persone stesse che la compongono etc. etc. Questa peculiarità del segno linguistico viene spesso trascurata nel progetto di una comunicazione, dimenticandosi come sia il destinatario stesso a completare, a interpretare definitivamente quella che si presenta come entità instabile, aperta: il segno. Per motivi di natura religiosa, si è discussa a Berna la scelta di rimuovere la croce dalla bandiera svizzera, in quanto non più rappresentativa della comunità multi-culturale e multi-religiosa costituitasi nel paese. Questo dimostra come, se per un gruppo specifico di destinatari del logo, la scelta di introdurre la croce possa essere il modo più esplicito e chiaro per veicolare l’idea di nazione, per

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altri invece possa significare esclusione e arretratezza, simbolo divenuto inadeguato per rappresentare la nazione costituitasi. Anche questo aspetto della traduzione necessita chiaramente di essere preso in considerazione, ideato, creato, progettato. Sebbene il segno delimiti approssimativamente la sua area di significato, questa viene completata dal destinatario stesso. Implica cioè che a ogni livello d’interpretazione segnica persista un alto grado di vaghezza che necessita di essere interpretato, completato, e talvolta, nel caso del designer, riproposto e progettato, in maniera idonea. Di nuovo, anche in questo caso, le osservazioni di Zingale sono qui pertinenti e ben si conciliano al tema della vaghezza del segno: è l’apertura del segno, la sua percentuale informe che il designer interpreta e formalizza al fine di renderla comunicabile. 2 Se le intenzioni del committente sono quelle di privilegiare i messaggi di “connessione”, “nazione” e “dinamicità” attraverso il logo, e se è vero quanto abbiamo discusso sopra, cioè che immancabilmente il segno grafico veicolerà messaggi ulteriori oltre a quelli verbali – quali autorevolezza ed efficienza attraverso la simmetria del disegno –, questo significa che il designer deve altresì considerare una sorta di gerarchia di contenuti da trasmettere. Benché il disegno della croce elvetica posta al centro dei due vettori sia costruita simmetricamente, questo oggetto grafico è posizionato a sua volta alla destra di un rettangolo rosso orizzontale – contenitore –, rompendo l’equilibrio inizialmente generato. Potrebbe sembrare una scelta deliberatamente estetica questa, ma la lettura che noi proponiamo prova il contrario: qualora posta centralmente la croce, all’interno del suo contenitore, la simmetria risulterebbe esasperata e

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Il processo è reiterativo: il segno interpretato dal progettista sarà a sua volta interpretabile dall’utenza. E i confini entro cui un segno è effettivamente interpretabile, devono essere, per quanto più possibile, accuratamente previsti.


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FIG. 3.

FIG. 4.

Logo per SBB – Ferrovie federali svizzere –. Disegnato da Josef Müller Brockmann e Uli Huber nel 1982.

Nella pagina successiva sono presentati il logo completo e lo specimen del carattere Helvetica utilizzato per la composizione tipografica della sigla affianco al disegno – Ferrovie federali svizzere nelle tre lingua ufficiali svizzere –.

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SBB CFF FFS Helvetica typeface

SPECIMEN

ABCDEFGHIJKLM NOPQRSTUVWXYZ

abcdefghijklm nopqrstuvwxyz 1234567890


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questo a scapito dell’idea di dinamicità. I vettori entro i quali è inquadrato il simbolo della Svizzera e i loro connotati di movimento verrebbero surclassati dalla rigidità dell’oggetto grafico complessivo, comunicando, più che dinamicità, un senso di stabilità e di staticità che è l’antitesi stessa della ferrovia. Possiamo decostruire il logo in più livelli, il primo del quale presenta una forte idea di asimmetria, quindi d’instabilità, movimento e dinamicità, e un secondo livello annidato al suo interno, costruito al fine di comunicare valori di autorevolezza, rigore ed efficienza senza entrare in contrasto – perché gerarchicamente sottoposto – con il livello grafico che lo contiene. Gerarchizzando gli oggetti grafici che compongono il logo, il progettista è riuscito a garantire l’idea di dinamicità senza che la simmetria della croce la potesse annichilire, quindi a ricalcare la stessa gerarchia di contenuti che il committente intendeva comunicare. Efficienza e rigore certo, ma non a scapito delle direttive inizialmente poste: “connessione all’interno dei confini nazionali e dinamicità”. Tra l’altro è importante notare, come abbiamo accennato poco sopra, come ogni scelta espressiva sia necessariamente in rapporto con un contenuto. Concludiamo questo paragrafo introducendo quanto abbiamo lasciato in sospeso in quello precedente, arricchendo e concludendo la definizione di cosa è un progettista grafico. Il progettista grafico è un traduttore del terzo tipo, colui cioè che attua una traduzione a partire da un S. L. diverso da quello di destinazione. Ciononostante, è necessario porre alcuni vincoli rispetto al T. L. proprio del designer perché, se fossimo indifferenti a questa precisazione, la definizione includerebbe pratiche che design non sono: Vivaldi nella Tempesta di mare, Beethoven nella Pastorale o tutti quei musicisti che hanno sviluppato il tema della musica a programma hanno messo in atto una traduzione inter-semiotica, eppure definirli designer è alquanto stridente. Quanto differenziava Josef Muller Brock-

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mann da Ludwig van Beethoven è la materia che si trovarono a plasmare quando l’uno disegnò, e l’altro scrisse l’overture del Coriolano. Potremmo dire che il T. L. del designer è necessariamente un “linguaggio grafico pluri-forme”, che comprende cioè ogni segno grafico nell’accezione di scrittura e di disegno. Come del resto Perondi sostiene, anche il testo scritto che compone queste righe è grafia, i geroglifici, la croce elvetica etc etc. Con linguaggio grafico pluri-forme vogliamo fare riferimento alla totalità di linguaggi di natura grafica, indipendentemente dal fatto che una grafia volga a rappresentare iconicamente o simbolicamente un contenuto. Immaginiamo la totalità dei linguaggi grafici come un vasto insieme al cui interno sono contenuti sotto-sistemi come per esempio quello del testo scritto, quello geroglifico, quello numerico, quello di natura puramente iconica e via dicendo, ognuno con la propria sintassi di riferimento. E la materia che il progettista grafico si trova a plasmare, il suo linguaggio di riferimento, o T. L., corrisponde nient’altro che a questa macro categoria che accomuna tutti i linguaggi di natura grafica. Un logotipo, dunque, potrà legittimamente essere sottoposto alla cura del grafico tanto quanto una pagina web contraddistinta dal solo uso della tipografia, diagrammi o illustrazioni. Abbiamo dimostrato come la traduzione non sia un atto di mera trasposizione, – che mutila a livello etimologico la pratica del design –, ma sia una vera e propria pratica progettuale, di creazione sia nello scarto informazionale dei linguaggi, sia nei limiti di vaghezza che contraddistinguono il segno. 3

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Definiamo allora come “trasposizione grafica” non tanto la possibilità di tradurre per equivalenze entro linguaggi di natura semiotica differente, cosa che abbiamo provato impossibile dato il livello informazionale differente dei diversi Ï


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Questa osservazione ci permette, come osservato precedentemente, di riconnetterci a quanto Zingale ha individuato, in rapporto alla traduzione: dalla materia non ancora strutturata, a messaggio formalizzato e comunicabile. Naturalmente, quanto detto in queste righe, presuppone che il designer conosca approfonditamente il linguaggio nel quale tradurre un messaggio e, al pari di ciò, sia consapevole di quali siano le criticità della traduzione, cioè del comunicare, attraverso forme espressive grafiche.

sistemi linguistici, ma la traduzione non ponderata, non progettata: ingannarsi che a un dato segno o testo verbale possa corrispondere inevitabilmente e univocamente un corrispettivo segno o testo grafico.

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Confini del design

Il progettista incorre troppo spesso nell’errore di limitare il proprio campo d’azione esclusivamente alla pratica tipografica ed estetizzante di un contenuto, rivendicando la propria capacità progettuale in altri campi scientifici che vanno ben oltre i confini del design visivo. Il problema dunque non è posto nei termini corretti, e sussiste il rischio concreto di focalizzarsi su questioni che non competono al progettista.

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lla luce di quanto evinto a proposito di quelle che, secondo noi, dovrebbero essere le mansioni del progettista grafico, e appurata la natura prettamente progettuale della pratica traduttiva, portiamoci ora su un piano più concreto. Questo capitolo cercherà di riposizionare la figura del grafico nella pratica della visualizzazione dati, dell’info-design, senza che il suo ruolo e le sue competenze si sovrappongano a quelle di altre figure professionali coinvolte nel processo. Il vantaggio che ne deriva è quello di rimarcare il suo campo d’azione allo scopo di definirne, di conseguenza, le sue problematiche.

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Una breve premessa è qui necessaria per affrontare con maggior chiarezza possibile la questione che analizzeremo: se nelle pagine precedenti abbiamo dimostrato come il grafico si possa considerare a tutti gli effetti un traduttore – tutelando la sua attitudine progettuale –, ne concludiamo che colui che si occupa di tradurre in forma grafica il contenuto di una tabella è esso stesso un traduttore. Potremmo sintetizzare, a grandi linee forse, che il progettista di grafici è un sottoinsieme di quella più vasta categoria che comprende ogni sorta di traduzione inter-semiotica – progettista grafico –, il cui linguaggio di destinazione – T. L. – è sempre un linguaggio grafico pluri-forme. Naturalmente la pratica della rappresentazione dati ha una sua sintassi di riferimento relativamente definita, e quanto si richiede alla figura dell’info-designer è una conoscenza approfondita della stessa. Per questo motivo ci siamo presi la premura di sottolineare la limitatezza della sintesi proposta poco sopra: il progettista di grafici, benché sottocategoria di un soprainsieme ben più ampio, in realtà rivendica conoscenze ben specifiche che non necessariamente fanno parte del dominio del suddetto soprainsieme. Infatti, affinché il dialogo tra le diverse figure coinvolte sia garantito, è inutile negare la necessità del progettista di grafici di apprendere alcune nozioni basilari della statistica su cui, tra l’altro, buona parte del lavoro di Jacques Bertin si costruisce. Proponiamo un esempio per spiegare il nostro punto: poniamo che la componente di una tabella si chiami “anni scolastici” e che questa si relazioni al numero di studenti che frequentano le relative classi; la cosiddetta invariante. Assumiamo ora che i dati si articolino in una gamma di valori che vanno da uno a cinque per quanto riguarda la componente “anni scolastici” e da quindici a trenta per quanto riguarda la componente “numero di studenti”. Benché il dato sia espresso in entrambi i casi in caratteri numerici, le due categorie di dati sono sostanzialmente diverse: la prima è un tipo di dato ordinale, mentre il secondo quan-


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titativo assoluto. In virtù di questa distinzione, che trova una spiegazione nella natura del dato e quindi nella statistica, le variabili visive si applicheranno di conseguenza. L’incapacità di riconoscere cosa è una componente piuttosto che un’invariante, come quella di differenziare i dati per loro natura può dare origine a palesi errori di traduzione del dato in forma grafica. Chiarito questo concetto, analizziamo qual è il ruolo che il grafico abitualmente ricopre nella pratica della visualizzazione dati. Sosteniamo in queste righe che la concezione del grafico nel processo di visualizzazione dati sia piuttosto marginale, considerate le competenze che il designer dovrebbe avere: sia nella pratica quotidianamente svolta, sia in alcuni dei testi di riferimento della disciplina, infatti, il focus della disciplina coincide spesso con il mero perfezionamento estetico del prodotto della visualizzazione: sia che lo si svolga in funzione di ottimizzarne la lettura, sia che, al contrario, si tenda a una decorazione più superficiale del grafico. L’apporto di Edward Tufte, per esempio, è stato fondamentale alla disciplina della visualizzazione dati, promuovendo un approccio il più minimale possibile alla pratica: la nozione di data-ink ratio infatti va ben oltre essere un superficiale contributo stilistico alla pratica, ma costituisce uno dei fondamenti attraverso cui tendere il più possibile a un risultato oggettivo, corretto e fedele al dato in ingresso. Da questa ratio che propone di utilizzare per valutare la buona riuscita di un grafico, ne consegue la nozione di chartjunk. Questa è naturalmente inversamente proporzionale al rapporto tra dato e inchiostro utilizzato nella visualizzazione dei dati. Queste riflessioni, tuttavia, vertono l’attenzione esclusivamente su una fase di rifinitura del prodotto della visualizzazione, problemi di natura tecnica invece che sul progetto o, meglio, sulla fase di traduzione dalla tabella al grafico. L’aspetto progettuale che dovrebbe contraddistinguere il designer risulta essere piuttosto carente nel suo modo di approcciarsi alla

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disciplina. Nonostante il contributo di Tufte sia sostanziale per formalizzare il processo che porta a un buon design e a un buon prodotto comunicativo, non mira al fulcro della questione, a quello per cui il designer principalmente si contraddistingue. In direzione completamente opposta a quella di Tufte, troviamo un numero sempre più crescente di progettisti che focalizzano i loro sforzi nel rendere più seducente il prodotto della visualizzazione: dato un grafico – diagramma, rete o mappa –, l’azione del progettista consiste nel compiere scelte di natura esclusivamente decorativa e, poiché tali, non funzionali alla lettura dell’artefatto. Esempio tra i molti i report annuali di Nicholas Feltron. La cura tipografica e sensibilità estetica dei suoi artefatti è senz’altro eccelsa; allo stesso tempo emerge un’intelligenza particolare nella fase di raccolta dei dati e nella natura degli stessi: appare innovativo il modo in cui utilizza dati e sistemi di rappresentazione tendenzialmente utili al sociologo per visualizzare fenomeni relativi a “gruppi sociali”, per rappresentare invece le vicissitudini e la quotidianità di un singolo individuo. La forza e l’incisività dei suoi lavori sono da riconoscere in questo genere di proprietà che contraddistinguono la sua produzione, non nell’atto di traduzione – quindi di progetto della forma comunicativa – attraverso cui rendere concreto un contenuto. Un ultimo caso vede il progettista della comunicazione situato in maniera diametralmente opposta alle interpretazioni della disciplina elencate poco sopra: colto il limite che Tufte pone alla fase di progetto – promuovendo un approccio più tecnico alla disciplina –, e riconosciuta la sostanziale assenza di design nel dedicarsi al mero estetizzare i prodotti della visualizzazione, questa categoria di grafici rivendica la propria capacità progettuale in altri campi disciplinari, sovrapponendosi così ad altre figure professionali. Accade spesso che il designer si trovi


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lui stesso a dover raccogliere i dati, processarli ed analizzarli, affinché possano venir poi tradotti, concretizzati e resi accessibili alle diverse tipologie di utenti. Naturalmente, come detto all’inizio di questo capitolo, è fondamentale che le figure coinvolte nella pratica della visualizzazione parlino un linguaggio comune, e che comprendano difficoltà e possibilità di sviluppo del progetto nella sua complessità e interezza. Non si sostiene di certo il convalidare un approccio a compartimenti stagni che vuole ridurre il processo a catena di montaggio forzatamente lineare, dove la comunicazione tra le diverse fasi si riduce all’essenziale. Ciononostante, al fine di legittimare la propria partecipazione allo sviluppo di un prodotto di visualizzazione, è fondamentale identificare le competenze di ogni professionista coinvolto e capire in che modo possa migliorare la realizzazione di un grafico. Il titolo di questo paragrafo vuole suggerire come il designer della comunicazione abbia un campo di azione ben preciso che legittima la sua partecipazione alla pratica della visualizzazione: questa non consiste nell’improvvisarsi uno statistico piuttosto che focalizzarsi su tecnicismi relativi al supporto su cui la traduzione si realizzerà – indipendentemente che sia una pagina web o un mezzo cartaceo –, ma si tratta di volgere i propri sforzi durante la fase di “formalizzazione”: dal carattere alfanumerico che contraddistingue il linguaggio della tabella, a quello visuale. L’incapacità di riconoscere in questa fase la vera natura del progettista sfocia inevitabilmente in questo genere di conseguenze e di frustrazione, dove il designer è solamente un esteta, o dove il designer non progetta quanto gli compete progettare. Conseguenza ancora più rilevante evinta da questa riflessione, è dedurre come la confusione e l’incapacità di definire un vero oggetto della disciplina da parte del designer della comunicazione – e dell’info-designer –, comporti parimenti un’incapacità a identificare quali siano le problematiche e le que-

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stioni su cui vertere la propria attenzione. Fin quando non si comprenderà che la traduzione è la caratteristica principale che qualifica il design della comunicazione come pratica progettuale e autonoma, buona parte degli sforzi devoluti allo sviluppo della disciplina della visualizzazione dati rischieranno di essere inconsistenti e non pertinenti. ARNHEIM, 1 969 t r. it . PAG . 3 48

Concludiamo il capitolo con le parole di Rudolf Arnheim a sostegno della nostra tesi: Lo scienziato o il filosofo potranno esortare i propri allievi a guardarsi dalle pure parole, ed insistere su modelli appropriati e chiaramente organizzati. Ma non dovrebbero farlo senza l’aiuto dell’artista, che è l’esperto del modo di organizzare un pattern visivo. L’artista conosce la varietà di forme e di tecniche disponibili, e possiede i mezzi per sviluppare l’immaginazione. È avvezzo a visualizzare la complessità e a concepire i fenomeni ed i problemi in termini visuali. Artista, in questo contesto, è da leggersi come sinonimo di designer. Nella visione di Arnheim, che peraltro noi stessi condividiamo, la divisione tra arte e scienza è infondata dal momento in cui la sussistenza dell’una si trova a dipendere dall’altra: si evince da queste parole come per lo psicologo tedesco il compito dell’artista, del traduttore, sia assolutamente necessario. Per questo motivo, tra l’altro, non dovremmo imbarazzarci a utilizzare la parola artefatto come sinonimo di grafico, né tantomeno la parola artista per parlare di un designer. Ma in cosa consiste, allora, la traduzione? Dopo averla definita come proprietà distintiva del design della comunicazione, addentriamoci più nello specifico nell’analisi della pratica della traduzione. Questo ci consentirà di comprendere appieno


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in cosa consista, quali sono le difficoltà che la caratterizza per capire, quindi, su cosa il progettista deve vertere i propri sforzi d’indagine.

Ristabilire l’oggetto della disciplina è necessario al fine di problematizzare le questioni unicamente inerenti all’ambito della visualizzazione e a indirizzare gli sforzi nella direzione corretta: rinnovare ed evolvere il linguaggio visivo nell’ottica che pone il progettista nelle vesti di un “linguista visivo”.

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Date le conclusioni del sotto-capitolo precedente ne consegue la necessitĂ , da parte del progettista, di conoscere le nozioni basilari relative alla struttura del linguaggio. Trattare queste tematiche evidenzia le difficoltĂ della traduzione e i limiti della lingua tanto nel descrivere un fenomeno, quanto nel comprenderlo appieno. Problematizzare un aspetto tanto legato alla pratica quanto trascurato.

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Le forme del linguaggio

Introduzione alla glossematica di Hjelmslev: gli strata del linguaggio. Le forme del contenuto sono eterogenee e differiscono sia tra lingue appartenenti allo stesso sistema di segni, sia tra linguaggi di natura differente. “La lingua è la forma di cui si veste il pensiero.”

el capitolo precedente, abbiamo fatto uso di una terminologia specifica: purport, forma dell’espressione e forma del contenuto, che ora cercheremo di contestualizzare al fine di I. conferirgli un significato più preciso e II. osservare la pratica della traduzione attraverso il filtro di un modello specifico, elaborato dal linguista danese Louis Trolle Hjelmslev. Introduciamolo con le parole di Barthes: Il segno è quindi composto di un significante e di un significato. Il piano dei significanti costituisce il piano d’espressione e quello dei significati il piano di contenuto. In ognuno di essi Hjelmslev ha introdotto una distinzione che può essere importante per lo studio del segno semiologico (e non più solamente linguistico); per Hjelmslev ogni piano comporta infatti due strata: la forma e la sostanza. (…) Poiché questi due strata si ritrovano nel piano dell’espressione e nel piano del contenuto, si avrà quindi: I.

B AR TH ES , 1 9 6 4 t r. it . PAG. 3 0

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una sostanza dell’espressione: per esempio, la sostanza fonica, articolatoria, non funzionale, di cui si occupa la fonetica e non la fonologia; II. una forma dell’espressione, costituita dalle regole paradigmatiche e sintattiche; III. una sostanza del contenuto: sono, per esempio, gli aspetti emotivi, ideologici o semplicemente nozionali del significato, il suo senso “positivo”; IV. una forma del contenuto: è l’organizzazione formale dei significati, per assenza o presenza di una marca semantica.

HJ ELM SLEV, 1 943 - in FAB B R I, MA RRON E, 20 00 PAG. 6 9

Nonostante questa lettura di Hjelmslev faccia riferimento esplicito ed esclusivo al linguaggio verbale, Caputo precisa in un’attenta e approfondita disamina del lavoro del linguista danese, come la sua teoria sia in realtà applicabile al linguaggio generalmente inteso. 4 Spieghiamo in termini un po’ più accessibili il modello di Hjelmslev: la dicotomia espressione e contenuto, si rifà a quella proposta da Saussure all’inizio del XX secolo, il quale spiegava il rapporto diadico tra significante e significato – segno – come il recto e il verso di uno stesso foglio di carta. Entità quindi inscindibili e, anzi, implicate vicendevolmente. Allo stesso modo, nel modello del danese, espressione e contenuto vengono descritti come funtivi di una stessa funzione che sussistono l’uno in virtù dell’altro: Un’espressione è espressione solo grazie al fatto che è espressione di un contenuto, e un contenuto è un contenuto solo grazie al fatto che è contenuto di un’espressione.

Ma l’intuizione che caratterizza principalmente la scoperta di Hjelmslev, è l’introduzione della classificazione di forma e di sostanza per entrambi i funtivi – espressione e contenuto appunto –. Ma cosa sono precisamente forma e sostanza

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“Il metodo glossematico, in altre parole, è valido per ogni sistema di segni di cui si cerchi di esplicitare la struttura o la forma.” Caputo, 2010 | Pag. 72


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P U R POR T / MATER I A

SOSTA N Z A

F O R MA

E =

PI A N O DEL L’ES PR ESSI ON E

C =

PI A N O DEL CON TEN U TO

F O RMA

SOSTA N Z A

P U R POR T / MATER I A

FIG. 5.

FIG. 6.

Schema dell’organizzazione degli strata del linguaggio secondo Hjelmslev, 1943. Analogamente con lo schema saussuriano si ripresenta qui la stessa dicotomia tra espressione e contenuto – significante e significato –, ma ulteriormente articolata, in modo speculare su ambedue i piani, con l’introduzione di forma e sostanza.

Nella pagina successiva una rappresentazione grafica volta a chiarire l’entità dei due strata – forma e sostanza –. Si tenga presente, peraltro, che lo schema è valido sia sul piano espressivo, sia sul piano del contenuto. L’unica differenza sostanziale sono le qualità della materia, le proprietà del Purport.

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FOR M A

S OS TA NZ A

MAT E R I A


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DA N E S E

TEDESCO

B AU M

F R A N CESE

A RB R E

T RA E

H OL Z BOI S

SKOV WA L D

→

F OR ĂŠT

FIG. 7.

Celebre esempio di Hjelmslev qui riproposto per chiarire il modo in cui la forma della lingua segmenti/organizzi i contenuti nelle diverse lingue. In Italiano avremmo: Albero, Bosco e Foresta, dove una porzione di Bosco sarebbe ulteriormente articolabile con i lemmi Legno e Legna, contenuto che in francese viene espresso attraverso la medesima parola Bois.

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dell’espressione, e forma e sostanza del contenuto? La forma, indipendentemente associata all’uno piuttosto che all’altro funtivo, possiamo descriverla come entità astratta, una griglia vuota descrivibile solo nella sua topologia e nella sola organizzazione delle sue maglie che ne definiscono la trama stessa, il sistema della lingua, la forma che struttura il pensiero; mentre la sostanza è l’attuazione, la concretizzazione di questa forma su una materia altrimenti amorfa. Riportiamo un esempio chiarificatore ispiratoci dallo stesso Hjelmslev: immaginiamo di avere tra le mani una manciata di sabbia che, attraverso l’uso di una matrice, possiamo formare e realizzare una molteplicità di stampi. La matrice, in questo caso, svolge la funzione di forma e lo stampo realizzato ne è la sostanza concreta e tangibile. Chiariremo poi cosa è la sabbia. In quest’ottica, la nozione di linguaggio coincide esattamente con quella di forma, e la sostanza è il mezzo attraverso cui la forma stessa si manifesta, quanto di sondabile e concreto ci è dato per testare la morfologia del sistema che ne sta a monte. 5 Caputo si serve del Calvino delle Lezioni Americane per elogiare la scoperta di Hjelmslev: il modello elaborato è leggero, si presta a descrivere ogni forma di linguaggio. Differenze e somiglianze tra i linguaggi esistono entro i confini del modello lasciandone cogliere, solo in lontananza, la pesantezza degli stessi attraverso ciò cui ci si presentano. Per questo motivo, in precedenza, abbiamo usato il termine linguaggio grafico pluri-forme, per far riferimento a quei linguaggi-forme che convivono nel denominatore comune che è il segno grafico. Il linguaggio-forma, allora, è il sistema sintattico, la grammatica che regola il nostro modo di scrivere, la pertinentizzazione di determinate differenze grafiche che de-

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Inutile precisare la necessità di declinare il meccanismo dell’esempio in un ambiente ben più complesso quale quello delle lingue naturali: al posto di una semplice matrice, dunque, ci sarà un sistema altamente articolato a costituire la struttura di un linguaggio.


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La somiglianza delle lingue è il loro stesso principio strutturale; la differenza delle lingue è l’estrinsecarsi, in concreto, di tale principio. Sia la somiglianza che la differenza fra le lingue si trovano dunque nel linguaggio, e nelle lingue stesse, nella loro struttura interna, e non ci sono somiglianze e differenze di lingue che dipendano da fattori esterni al linguaggio.

H JELM SLEV, 1 9 43 t r. it . PAG . 8 2

finiscono la scrittura geroglifica piuttosto che quella numerica o quella attraverso cui organizziamo un diagramma.

In altre parole, le lingue soggiacciono allo stesso principio formale, e si differenziano proprio all’interno di quest’ultimo. Allo stesso modo in cui la lingua italiana suddivide lo spettro cromatico in unità discrete, così fa l’inglese. Tuttavia, dove un italiano vede azzurro, un inglese vedrà blue, e dove un italiano vede blu, l’inglese vedrà nuovamente blue. Questo non significa ovviamente che gli inglesi non siano in grado di distinguere le due tonalità del colore, ma vuole dire che dovrà ricorrere a un sintagma articolato per comunicare una differenza che la sua lingua non ha reso pertinente: lighter or darker blue. Vuole dire, quindi, che l’inglese ha una forma del contenuto, e quindi dell’espressione, eterogena rispetto a quella della lingua italiana. Ugualmente, riprendendo l’esempio di Jakobson, dove in italiano ci sarà un lavoratore o una lavoratrice, in inglese ci sarà solo un worker generico. Tutte le lingue hanno una forma, e nella morfologia di quest’ultima sussistono le differenze tra i linguaggi. 6

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Inoltre, ci sembra legittimo supporre che un’altra evidenza attraverso cui la forma della lingua ci si palesa, è nel modo attraverso cui ci accorgiamo di interpretare il mondo, il reale: in maniera discontinua, discreta anziché “continua”.


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Possiamo dire, in sostanza, che le difficoltà e i rischi che un traduttore si trova a fronteggiare, risiedono proprio a livello formale della lingua: benché, come ricorda anche Zingale, apparentemente la pratica della traduzione verta principalmente sul piano espressivo, è a livello del contenuto che la traduzione è inevitabilmente condizionata. Del resto, Hjelmslev ha dedotto che, essendoci relazione reciproca, biunivoca tra espressione e contenuto, inevitabilmente le forme che definiscono i due funtivi sono omogenei tra loro: il termine blue, per l’inglese, copre una porzione di contenuto che include quello che un italiano chiamerebbe azzurro. Infatti, ci sono in questo caso incompatibilità formali tra i due linguaggi che rendono la traduzione un processo complesso, e attraverso questa teoria abbiamo potuto formalizzarne le ragioni. In che modo potremmo tradurre questo enunciato in italiano “She has got blue eyes”? Il lemma blue, che intensivamente non ci dice nulla rispetto alla sua tonalità, è associato al colore degli occhi di questa misteriosa she, e in italiano converrà, forse, tradurlo con “azzurro” dal momento in cui l’uso – meglio, la norma – della nostra lingua prevede che gli occhi siano azzurri, non blu. Tuttavia, ammettendo che si stia parlando di una persona amata, nei cui “profondi occhi blu ci perdiamo”, allora sarà più appropriato effettuare la scelta opposta. La traduzione necessita, a livello preliminare, di essere interpretata, contestualizzata e colta sia nelle sue peculiarità espressive – quali per esempio i giochi di parole, la coerenza di una palette colori scelta per un’identità aziendale … –; sia in quelle del contenuto più strettamente connesse al significato. Queste incompatibilità formali, di cui abbiamo appena spiegato, negano per principio la possibilità di ottenere, tramite traduzione, un messaggio esattamente equivalente tra un S. L. e un T. L. diversi, e questo è evidente sia nella traduzione inter-linguistica quanto, specialmente, in quella inter-semiotica, la cui maggiore articolazione, il maggiore grado informaziona-


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le del linguaggio grafico – nel nostro caso specifico –, obbliga a prendere posizioni a cui l’eventuale autore del testo di partenza non può averci predisposto. Se la matrice che usiamo per dare una struttura alla sabbia altrimenti amorfa è forma, e lo stampo realizzato ne è sostanza, cos’è la sabbia? Barthes, nella sua sintesi non accenna a questa parte della teoria che in realtà Hjelmslev prevede. Purport così chiamata da Hjelmslev, viene tradotto in italiano come “materia”, “continuum” ed è tutto quanto è potenzialmente intellegibile ma non è ancora stato formato sul piano del contenuto, e tutto quanto è a disposizione dell’espressione per corrispondere a un significato. La materia è la sabbia che è presente, necessaria e comune in ogni linguaggio, ma che ogni lingua organizza in maniera differente: rendendo pertinenti certe differenze del purport, o viceversa tralasciandole. Ed è esattamente questo purport non formato che secondo Zingale richiede di essere reso sostanza semantica, strutturato allo scopo di essere comunicabile; ed è, al contempo, la stessa materia amorfa progettabile che sosteniamo esistere tanto nello scarto informazionale tra linguaggi semioticamente diversi, quanto nella vaghezza del segno. Del resto, ci sembra di poter sostenere che sia questa vaghezza stessa del segno a condurci, attraverso il sistema della lingua, verso ciò che è amorfo, verso ciò che ancora necessita di essere detto, spiegato. Il segno diviene allora una molecola instabile, ciò per cui energeticamente satura. E questa energia è il carburante del processo inferenziale, un movimento permesso dal segno che ci conduce verso l’esplorazione del sistema linguistico già strutturato, e verso la nuova formalizzazione di materia, verso la creazione di testi, verbali, grafici o sonori che siano.

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Peraltro, la forma che modella la materia è immaginabile sia come griglia, lo abbiamo detto, ma anche come grafo composto di archi e nodi: Lingua equivale a forma, rete di dipendenze e indipendenze, svuotata di ogni sostanza. E in quanto tale presenta particolari proprietà topologiche che ci permettono di ripercorrerla nelle sue connessioni, nella sua complessità. Un nodo è connesso, come direbbe Eco con Deleuze e Guattari a proposito dell’enciclopedia, con qualsiasi altro nodo della rete, creando una fitta trama di collegamenti che ne impediscono persino la riproduzione della stessa in uno spazio tridimensionale. Il colore blu dell’esempio precedente non è circoscrivibile esclusivamente rispetto alla sua tonalità, ma anche alla sua lucentezza, alla sua saturazione o alla natura dei suoi pigmenti e alle sue proprietà costitutive; ai significati che simbolicamente una cultura vi associa, all’impiego che ne viene fatto a livello più strettamente funzionale e tecnologico, e via dicendo. Questa complessità, che è ontologica del sistema semiotico, emerge inevitabilmente a livello più complessivo del segno e oltre, nella pragmatica. Si riflette sul piano dell’espressione, e cioè, su quanto è a disposizione del progettista per concretizzare e realizzare una comunicazione: il concetto di “Svizzera” è esprimibile, lo dicevamo, attraverso un numero pressoché illimitato di espressioni: il disegno dei confini che delimitano la confederazione, un corno alpino, una croce elvetica, il palazzo federale di Berna, le persone che fanno parte di questa nazione … , e ognuna di queste eventuali espressioni, appropriate o meno, pongono l’accento su particolari aspetti e pertinenze relative alla nozione di “Svizzera”, la cui scelta non può essere trascurata, giacché la scelta condiziona il contenuto stesso in quello che dicevamo essere un rapporto biunivoco, reciproco tra funtivi. Sarebbe del resto assurdo


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dire che c’è equivalenza tra le diverse possibilità di rappresentazione che abbiamo proposto qui sopra a titolo di esempio. È evidente allora, come il progetto del piano dell’espressione sia in realtà una pratica altamente complessa, che coinvolge, oltre che al piano del contenuto cui esso è associato, anche una serie di aspetti relativi alla comunicazione, alla pragmatica, all’antropologia e alla psicologia, articolando ulteriormente un processo che già sotto il profilo semantico appare molto intricato. Il progettista grafico, in quest’ottica, si qualifica come esperto: nella scelta delle forme espressive idonee per una certa comunicazione ma, soprattutto, nella creazione di nuove forme espressive che arricchiscono un contenuto di partenza vago e interpretabile, testualizzando nuove porzioni di materia e aggiungendo, così, sempre qualcosa a quanto già era stato formalizzato. Del resto, come scritto da Garroni, l’onniformatività della lingua, il dicibile, dipende dalla struttura della mente, dalla capacità semiotica, dalla capacità di trovare nuove forme espressive e cognitive.

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Pertinenze

Un qualsiasi oggetto è descrivibile in rispetto a infinite proprietà. Cosa ci permette di privilegiare un aspetto piuttosto di un altro? Sperber e Wilson suggeriscono l’ipotesi che la mente umana sia pertinentemente orientata.

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l regista danese Carl Dreyer, riportato ne Il pensiero visivo di Arnheim, esprimeva nelle parole che seguono le modalità che intendeva adottare per ricreare una certa atmosfera nel suo film Il vampiro: Immaginiamo di starcene seduti in una stanza qualsiasi. Improvvisamente ci dicono che c’è un cadavere dietro la porta. In un istante la stanza in cui ci troviamo è completamente alterata: tutto ha assunto un altro aspetto; la luce, l’atmosfera sono mutate, sebbene fisicamente siano le stesse.

A RNHE IM, 1 9 6 9 t r. it . PAG. 1 07

La pertinenza ci permette, in base alla lettura del contesto, di privilegiare una certa traduzione piuttosto che un’altra, rendendola efficace e corretta.


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Appena entrato nella stanza della locanda, Allan Grey si appresta ad accendere una candela e abbassa la tenda della finestra. Momentaneamente, la camera è illuminata da una luce soffusa, lieve, morbida e per certi aspetti introversa, intima. Ma gli archi che accompagnano la scena in chiave minore, e il macabro quadro appeso al muro ispezionato dallo stesso Grey conferiscono una tutt’altra sembianza alla luce di questa candela, benché come dice Dreyer, sia fisicamente identica. Niente è stato ancora detto, niente è ancora accaduto, ma i suggerimenti del regista ci lasciano intendere che quanto è rilevante di quella luce, non è la sua morbidezza bensì la sua precarietà: è la ragione che lotta nell’oscurità, che si perde negli angoli bui della stanza, che genera mostri – Allan Grey følte, at uhyggen bemægtigede sig ham for gæves søgte han at værge sig imod den sitrende angst, og rædslen for det uhaandgribelige fulgte ham ind i hans urolige søvn –. 7 Il regista, attraverso la costruzione di un contesto adeguato, è riuscito a pertinentizzare una peculiarità specifica di questa luce, producendo un uguale sentimento di precarietà e di pericolo nella mente di chi fruisce il film. Ma dimentichiamo per un istante la musica inquieta che accompagna i movimenti del protagonista nella stanza e il quadro appeso al muro raffigurante una morte. Immaginiamo di fruire questa scena escludendo quegli indizi che ci suggeriscono che qualcosa d’inaspettato e terribile possa succedere. Noteremmo come la luce prodotta dalla candela sia aperta a diversi tipi di interpretazione, tra cui quella che ci predispone ad uno stato di ansia, e un’altra, invece, a uno stato di calma e tranquillità. L’osservazione di Dreyer ci torna utile allora per comprendere come ogni oggetto sia aperto a interpretazioni talvolta sostanzialmente opposte, e come, abitualmente, la nostra mente si impegni affinché questa vastità di letture possibili non prenda

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Grey felt that the unbelievable had taken possession of him. He tried to deny the impending fear and horror ... but it touched him even in his restless sleep.


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il sopravvento sulla comprensione di quanto ci circonda. Ma in che modo privilegiamo una lettura piuttosto che un’altra? La lettura di un contesto attentamente costruito e coerente, come quello in cui si trova ad agire Allan Grey, ci ha permesso di leggere in maniera univoca e con continuità la scena che si svolgeva nella stanza della locanda: attraverso un meccanismo automatico che non si pone, almeno consciamente, nei termini di un problema, abbiamo letto quella situazione allo stesso modo in cui il regista aveva previsto – e progettato – senza perciò passare al vaglio l’insieme di letture possibili nella loro pluralità. Riprendiamo il tema sviluppato nel capitolo precedente sulla possibilità di interpretare un segno in rispetto a un numero pressoché infinito di modi. È chiaro che entro la soglia della semiotica, la comprensione di un segno non è un procedimento meramente meccanico e prevedibile con certezza nei suoi esiti: l’idea di un codice di riferimento definibile e adoperabile per spiegare ogni processo semantico in modo univoco, sfuma I. nell’incapacità di Hjelmslev di identificare, sul piano del contenuto, gli stessi primitivi semantici che erano facilmente individuabili su quello dell’espressione: nel linguaggio parlato, la catena fonica utilizzata per comporre parole, frasi e discorsi è l’insieme di primitivi semantici dell’espressione – A, B, C, D, ... –. Al contrario, sul piano del contenuto, non si può sostenere che il primitivo semantico di “sedia” sia “elemento di arredo”, poiché queste stesse unità sono a loro volta reinterpretabili attraverso altri segni del sistema a loro connesse; e II. nella scoperta di Eco di quella che chiamerà conoscenza enciclopedia. La nozione di enciclopedia si contrappone a quella di dizionario ed è l’insieme di tutte le interpretazioni possibili derivate dall’esperienza del reale. Se la conoscenza dizionariale, sviluppata soprattutto nel contesto strutturalista, si pone l’obiettivo di individuare le condizioni necessarie sufficienti – CNS – per definire inequivocabilmente un’unità culturale, quella di tipo enciclopedica spazia e si articola nell’e-

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sperito e nelle credenze che caratterizzano una cultura. In questo senso, la rete di significati, di contenuti a cui ogni espressione può fare riferimento si allarga enormemente e coinvolge, inoltre, variabili culturali ed extra-semiotiche – come del resto culturale è il confine che ogni società traccia tra una conoscenza di tipo dizionariale e una enciclopedica –. Se la parola “leone”, insomma, denota le proprietà di animale, felino, mammifero e quadrupede secondo le semantiche a dizionario, per una certa cultura, e quindi per una certa enciclopedia, può significare fierezza, forza e ferocia, ma può significare anche cattività qualora il leone fosse rinchiuso in uno zoo, o può essere considerato segno di buon auspicio se una tribù considerasse la visione dello stesso come simbolo di buona ventura. Stabilito come il sistema semantico, cui facciamo riferimento quotidianamente nella pratica della produzione e interpretazione dei segni, sia strutturalmente articolato e inaccessibile, cerchiamo di capire in che modo, allora, la nostra mente sia in grado di scongiurare questa complessità permettendocene l’uso. Sperber e Wilson formulano l’ipotesi che la nostra mente sia pertinentemente orientata. La difficoltà alla base di questa scoperta, nasce dal fatto che questo meccanismo di pertinentizzazione delle informazioni agisce in maniera inconscia: abbiamo visto, nell’esempio del film Il vampiro di Dreyer, come inconsapevolmente, attraverso la lettura della variabile del contesto, si sia stabilita una porzione precisa di senso da interpretare. Un altro esempio: se un interlocutore pronunciasse la parola “corre” il destinatario dell’enunciato si predispone a una serie di eventualità in cui il termine in questione può essere utilizzato – dunque a un blocco di istruzioni contestuali –. Da cui: “Corre voce che ...”, “Corre forte il nostro campione ...”, “Corre Luigi nella prossima gara?”, “Corre verso la rovina” – esempio di Eco –. L’enciclopedia prevede una serie di contesti e circo-


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The greater the contextual effects, the greater the relevance. The smaller the processing effort, the greater the relevance.

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stanze entro le quali il termine “corre” assume un significato semanticamente corretto e specifico. Allo stesso modo, il principio di pertinenza rende rilevanti il contesto 8 e le circostanze di enunciazione per spiegare in che modo, a livello cognitivo, viene privilegiata una certa interpretazione rispetto a un’altra. Considerare queste variabili – contesto e circostanza –, e rapportarle al contempo con l’informazione che emettiamo o riceviamo ci permettono, nella complessa dinamica della produzione segnica, di sottintendere una rilevante percentuale di contenuto. D’altro lato, a livello interpretativo, di selezionare quanto l’emittente effettivamente intendeva trasmettere al fine di mutare il nostro ambiente cognitivo. Lo stridente sorriso di Lèone, riavutasi dopo essere caduta vittima del vampiro nel film di Dreyer, non dà adito a interpretazioni quali la benevolenza o la compassione: proprio perché si è a conoscenza delle vicende svoltesi nella pellicola – e quindi del co-testo – si riconosce una tale discordanza tra il suo stato psico-fisico e l’atto di sorridere, che quel gesto non può che apparire inquietante. Il principio di pertinenza, si definisce sinteticamente con queste parole:

Cognitivamente quindi, viene privilegiata quella interpretazione che richiede il minor sforzo processuale economizzando il più possibile le energie necessarie per cogliere un’informazione.

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Secondo Givon esistono tre modi di intendere il contesto: il contesto generico, cioè la condivisione del mondo e della cultura descritti da una determinata lingua; il contesto deittico, cioè la condivisone della semplice situazione enunciativa; e infine il contesto del discorso, o co-testo, cioè la condivisione della conoscenza del discorso immediatamente precedente al proferimento stesso.


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Potremmo dire che l’interprete di una comunicazione passa in rassegna una pluralità di significati possibili in maniera gerarchizzata e ordinata attendendo le variabili del contesto e delle circostanze. E questo processo reitera sino quando non si raggiunge un’interpretazione accettabile, sino quando non viene circoscritto una porzione di senso adeguata. Una sorta di funzione if-then-else dove un calcolatore, data una condizione da rispettare, esegue delle istruzioni, se al contrario il valore di input non rispetta la condizione, produce un’istruzione alternativa. 9 In virtù del principio di pertinenza quindi è inevitabile che si privilegi una soluzione di senso rispetto alle altre che vengono completamente ignorate. Sentendo gridare “Corri!” a una gara di centometristi, è evidente che il contesto mi permette di ricollocare quanto udito in una data posizione dello spazio del contenuto, escludendone in toto le altre. Un sistema cognitivo reale, in altre parole, visto che le sue capacità computazionali sono limitate, non tende ad ottimizzare o massimizzare l’utilità di attesa, bensì interrompe la sua ricerca di alternative interpretative non appena trova un’interpretazione che oltrepassa una certa soglia di accettabilità.

Questa elegante teoria ci permette di comprendere come la complessità del campo semiotico sia scongiurata a livello cognitivo, e come ci sia consentito farne uso in modo agile e senza sforzi particolari. Ciononostante, come abbiamo spiegato, la natura rizomatica del sistema dei segni è reale, e l’essenza di

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Lo stesso sistema logico sembra essere ripreso da Agostino nel tentativo di reinterpretare la teoria del segno degli stoici: prevedeva infatti che il segno linguistico giacesse su una relazione di equivalenza fra espressione e contenuto – valore di input – che, a sua volta, reggesse un secondo rapporto tra espressione e contenuto la cui relazione era definita da una implicazione, e quindi da un movimento inferenziale – condizione da verificare –.


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questo principio dovrebbe farci riflettere I. su come ogni interpretazione sia potenzialmente molto più vasta di quella che superficialmente possa sembrare e II., in qualità di progettisti, della pluralità di “sensi” attraverso cui è possibile descrivere un dato messaggio, quali pertinenze rendere rilevanti dello stesso agli occhi di un potenziale destinatario. Se la pertinenza è principio della pragmatica che ben si presta a spiegare l’interpretazione, è ugualmente utile per comprendere, dal punto di vista della produzione segnica, come un qualsiasi oggetto sia descrivibile sotto infiniti punti di vista, pertinenze appunto. E proprio in questi termini si può parlare nuovamente di traduzione – e quindi di design –, evidenziando ancora una volta, come la pratica della traduzione non sia mera trasposizione tra forme espressive, bensì interpretazione e progetto delle pertinenze più rilevanti, dati un contesto e una circostanza di riferimento. Parlare del viadotto di Garabit progettato da Eiffel, come un “qualche cosa” per raggiungere un punto reso inaccessibile da un fiume, e non come un lampante esempio di architettura di fine diciannovesimo secolo, è un ulteriore riprova che proponiamo a titolo esemplificativo su come le diverse interpretazioni di un oggetto siano condizionate anche dalle nostre conoscenze pregresse. Conseguentemente, che tra le tante interpretazioni plausibili, quella privilegiata in un certo contesto non sia necessariamente quella più pertinente in un’altra situazione: 10 uno studente di architettura, durante la lezione di storia, si aspetta una lettura formale-estetica del ponte di Eif-

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Precisiamo peraltro, che il principio di pertinenza giace nella struttura del piano del contenuto, ma si attua per mezzo dell’espressione, attraverso la quale gerarchizziamo e organizziamo le modalità di rappresentazione di “messaggio”, inficiando il contenuto stesso. Come previsto dalla teoria hjelmsleviana, il rapporto che incorre tra l’espressione e il contenuto è biunivoco, e il progetto di una forma espressiva è perciò determinante essa stessa nei confronti del contenuto cui è associabile.

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fel, mentre un viandante che deve raggiungere Montpellier in macchina, necessita sapere che non è adibito al passaggio delle autovetture. Comprendere nella sua completezza il principio postulato da Sperber e Wilson è per un progettista di fondamentale importanza per capire i limiti e le difficoltà di una traduzione, quindi per considerare con maggior cautela la fase di studio e di analisi di un fenomeno, di un testo o di una componente di un data-base che abbisognano di essere tradotti. Inoltre, utilizzare un lessico appropriato per descrivere le dinamiche della comunicazione comporta, indirettamente, la capacità sia di analizzare quest’ultima adeguatamente, sia di adoperare questa terminologia in maniera funzionale per progettare in modo consapevole. Essere a conoscenza della rilevanza della variabile “contesto” nell’interpretazione, significa conoscere quali sono alcuni criteri attraverso cui mutare le interpretazioni possibili di un dato oggetto: alterare il contesto potrebbe diventare, per esempio, una pratica proficua, un gioco di ri-contestualizzazioni per far emergere il maggior numero di pertinenze che definiscono l’oggetto della comunicazione. Pensando a un martello, la prima cosa a cui pensiamo è il suo carattere di utensile appunto, da adoperare qualora dovessimo battere un chiodo nel muro; ma se lo vedessimo esposto in un museo, lo considereremmo non più per la funzione che assolve ma per la sua forma – da cui potremmo classificare, date differenti manifatture o strutture dell’oggetto, una serie di epoche di produzione, le diverse variazioni possibili dalla forma archetipica, magari rispetto alla loro provenienza geografica –, per il materiale


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che ne costituisce le diverse parti, per il suo valore storico, il suo design e via dicendo. Arnheim nota come l’opera di alcuni artisti contemporanei, ad esempio, consista esclusivamente nell’alienare oggetti di uso comune, ponendoli nelle condizioni di essere solamente contemplati. Ci sbaglieremmo a dire che la forza di queste opere d’arte, maestro tra tutti Marcel Duchamp, è dovuta sostanzialmente a quello che è stato una semplice ma geniale alterazione di una variabile della comunicazione?

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Linguaggio ostracizzante

Linguaggio è sistema ¬ nell’accezione hjelmsleviana del termine ¬ e il sistema si compone nella forma. Le forme espressive della lingua, in funzione determinante con le forme del contenuto, divengono modelli rigidi e standardizzati da cui è difficile emanciparsi: riposando nella convenzione del linguaggio, vengono eletti a uniche soluzioni formali per esprimere una data caratteristica di un certo fenomeno, quindi di comprenderlo.

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pecialmente per quanto concerne il linguaggio grafico, e in particolar modo quello della visualizzazione dati che analizzeremo nel capitolo successivo, emerge come a livello sintattico il piano dell’espressione sia notevolmente elaborato e talvolta vincolante. Circoscrivendo questa considerazione a quest’ultimo linguaggio, cercheremo di dimostrare come sussista, in una certa misura, una sorta di tirannia dei mezzi espressivi nelle modalità di intendere un certo contenuto, e quindi di rappresentarlo e di comunicarlo. Abbiamo provato, con Hjelmslev, come le scelte relative al progetto dell’espressione inficino inevitabilmente il contenu-

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to stesso, e questo principio si mostra in maniera lampante soprattutto nella pratica della rappresentazione dati: nel corso del suo sviluppo questa pratica ha elaborato, in sintesi, una serie di modelli, di strumenti la cui generalità e astrattezza si traducono, in termini pratici, in duttilità, universalità, che a loro volta hanno consentito un largo utilizzo di questi modelli, e quindi una sorta di fisiologica convenzionalizzazione degli stessi. Concretamente parlando, un esempio tra i tanti potrebbe essere l’istogramma, il diagramma a bolle, il diagramma ad albero, che sono stati progettati sulla base di una prestabilita organizzazione dei contenuti: un banale istogramma riportante un trend economico prevede che lo stesso si esprima esclusivamente sotto forma di linea, e l’unica pertinenza rilevante dello stesso non sarebbe altro che il suo abbassarsi o alzarsi in relazione alle due componenti posti in ascissa e in ordinata. Allo stesso modo, la componente “tempo” viene tendenzialmente forzata ad adattarsi all’andamento lineare di un asse cartesiano, precludendoci letture alternative di questa grandezza fisica: alcune culture avrebbero difficoltà ad accettare la rappresentazione lineare del tempo, dal momento in cui ciò che pertinentizzano di passato, presente e futuro non è la loro sequenza temporale – prima, ora, dopo –, bensì la più semplice opposizione binaria “quanto è percepibile ora” e “quanto non lo è”. Ma senza scomodarci troppo, già entro la nostra cultura è possibile rendere rilevanti altre caratteristiche del tempo, che difficilmente trovano rappresentazione idonea nella retta: basti pensare al tempo in quanto grandezza fisica deformabile, oppure alla sua ciclicità anno per anno che, intuitivamente, si potrebbe rappresentare attraverso una forma spiroidale – esempio che vedremo sviluppato nell’ultimo capitolo –. Dimostreremo poi come queste osservazioni vadano ben oltre il mero vezzo teorico ed espressivo. Per il momento focalizziamo la nostra attenzione su come questa libreria di modelli, di strumenti offerta ai progettisti sia vincolante sì, sul piano espressivo ma anche, e conseguentemente, su quello del contenuto.


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Come abbiamo detto, quanto caratterizza questi modelli di visualizzazione è la loro flessibilità a rappresentare, allo stesso modo, fenomeni molto diversi tra loro – vedremo poi come questo sia reso possibile attraverso il principio di classificazione statistica del dato –. Questa peculiarità, che contraddistingue buona parte del repertorio grafico a disposizione del progettista, ha consentito al linguaggio di essere largamente utilizzato e compreso dai più: i modelli sono parte del linguaggio, e il loro funzionamento, la loro modalità di fruizione è convenzionalmente accettata, permettendo all’utente una più agevole interazione con il prodotto. Al di là del sempre più crescente interesse verso i big data, e le potenzialità di utilizzo che scaturiscono dall’elaborazione degli stessi, bisogna comunque riconoscere che il crescente impiego di questi strumenti di visualizzazione è stato reso possibile anche grazie alla formalizzazione di un linguaggio grafico che ne ha permesso la divulgazione. Tuttavia, se da un lato questo linguaggio standardizzato ne ha consentito la diffusione e l’ampio utilizzo, dall’altro rischia di ostracizzare le possibilità di rappresentazione – e quindi la comprensione stessa – di un fenomeno: i modelli diagrammatici si sono imposti come chiave di lettura, di decodifica se vogliamo, per rappresentare e interpretare un contenuto che necessita di essere riadattato e predisposto a un tipo di rappresentazione predefinito – motivo per cui, in seguito, parleremo di “modelli rigidi” –. La flessibilità di questi modelli, che li abilita a rappresentare qualsivoglia fenomeno, dipende in realtà da una rigidità costitutiva di fondo che forza un contenuto entro una forma espressiva predefinita: la composizione e la struttura del diagramma costringono entro la sua forma ed entro i suoi meccanismi di fruizione l’interpretazione del contenuto che comunicano. In questi termini la forma dell’espressione diventa ostacolo e vincolo alla traduzione. Del resto, non siamo nemmeno più convinti che si possa chiamare traduzione quanto, piuttosto, trasposizione.

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L’immagine della griglia che abbiamo suggerito per descrivere il sistema del linguaggio si presta bene anche per rappresentare la rigidità della forma rispetto alla comprensione che possiamo avere di un’unità culturale. Hank Ketcham rappresenta in una delle sue vignette un bambino che, guardando i cassetti di un armadio, li reinterpreta nella loro possibilità di costituire una scala. Osservando questo disegno Arnheim riconosce, in maniera molto acuta, in che modo l’atteggiamento del monello possa essere considerato intelligente: L’immagine dei cassetti resiste a farsi considerare una serie di scalini, ma l’immagine finalistica del salire lassù induce alla ingegnosa scoperta dei gradini in base alle potenzialità della risorsa data.

Il bambino, infatti, si è svincolato dalla funzione che la lingua impone al cassetto – quale oggetto dove riporre indumenti o oggetti di altra natura – privilegiando le modalità e le caratteristiche costitutive attraverso cui quell’oggetto poteva provvedere al suo scopo. I cassetti sono diventati gradini, o meglio, è stata privilegiata una proprietà inusuale degli stessi rispetto quella che la lingua ci impone abitualmente: quella di poter sottrarli in misura variabile dal vano entro cui sono riposti, ed eventualmente allinearli diagonalmente. La definizione di cassetti, 11 tanto quanto la loro immagine, costringe a vederli come tali opponendo resistenza a eventuali alternative interpretazioni dell’oggetto. In maniera riflessa ma pressoché identica, la rappresentazione del tempo difficilmente differirà da quella rettilinea in virtù della stessa convenzione che attribuisce al cassetto una certa funzione, una modalità

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“La nascita di un concetto nuovo – dice Sapir – è invariabilmente offuscata da un uso più o meno ristretto o esteso dell’antico materiale linguistico.” Arnheim, 1969 | tr. it. Pag. 289


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di utilizzo, e al tempo una certa forma di rappresentazione. La difficoltà del progettista allora risiede proprio nell’emanciparsi dalla rigidità di questa griglia, cogliere le relazioni che il linguaggio non rende rilevanti, oscura: definire un oggetto all’interno di un sistema, saperlo considerare da diversi punti di vista in modo da scoprirne le relazioni con altri oggetti. E se, come scrive Hjelmslev, la lingua è la forma di cui si veste il pensiero, potremmo spingerci a dire, allora, che queste forme d’espressione standardizzate, questi modelli predefiniti di cui abbiamo parlato, diventano il modo stesso di pensare quanto veicolano, s’impongono come unica chiave di lettura possibile di un fenomeno. Il tempo non potrà essere altro che una linea nonostante, lo abbiamo provato, può comunque essere rappresentato molto diversamente. Analizzare le diverse pertinenze che caratterizzano un’unità culturale diventa un primo passo, non solo importante ma essenziale, che ogni progettista dovrebbe compiere preliminarmente. Questo per svincolarsi tanto dalla tirannia del linguaggio, quindi da una visione stereotipata e sterile di un oggetto, quanto dalle tendenze superficialmente estetizzanti che condizionano ed emergono troppo spesso e in maniera preponderante nella fase di progetto di un artefatto. È parte imprescindibile di un processo che volge a indagare le diverse proprietà che definiscono un oggetto, che ne permette una conoscenza più profonda, completa, e da cui dipende l’appropriatezza, la pertinenza e il buon esito di una traduzione che, abbiamo detto, dovrebbe essere l’essenza della disciplina del design. Riportiamo all’attenzione le parole di Garroni – già citate nel capitolo sulle forme del linguaggio – su come, al fine di ampliare il linguaggio stesso, sia necessario fare affidamento sulla capacità semiotica della mente, sulla capacità di trovare nuove forme espressive e cognitive. Conseguentemente, nell’estensione della forma espressiva, si realizza un uguale e corrispondente sviluppo anche sul piano del pensiero, sul piano dei contenuti, dei significati.

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Conoscere i mezzi formali a disposizione, sia a livello del contenuto, sia a livello dell’espressione, è prerogativa per creare una correlazione stabile e corretta – in rapporto al principio di pertinenza – tra l’espressione e il contenuto del messaggio. È necessario definire una metodologia che ci permetta di svincolarci da quelli che sono i limiti linguistici, e di analizzare più approfonditamente le unità culturali in esame. Questa prima sezione della ricerca tornerà utile, in un’ottica più generale, al fine di comprendere meglio le argomentazioni che si svolgeranno nei capitoli successivi.


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DIAG R A MMI

Sémiologie graphique

P r o p r i e t à e g r a m m at i c a d e i g r a f i c i

Introduzione sulle proprietà dei diagrammi. Quali sono i loro princìpi costitutivi? Quali le loro potenzialità? Questa sezione introduttiva fornisce una descrizione utile sulla funzione dei diagrammi. Nozione da tener presente durante la formalizzazione del problema.

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Diagrammi

Definizioni e identificazione di cosa è un diagramma. Analogia come M. C. D. di ogni rappresentazione diagrammatica.

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l pittore Kandinskij, in un’intervista, spiegava come dipingere fosse a lui necessario per comunicare ed esprimere concetti altrimenti impossibili da illustrare attraverso le parole. I linguaggi hanno potenzialità differenti tra loro e in questo capitolo proveremo a capire in che modo l’impiego del linguaggio grafico – e più precisamente di quello diagrammatico – possa dimostrarsi utile e proficuo. La rappresentazione grafica generalmente intesa è per Bertin un sistema basilare di segni concepito allo scopo di raccontare, capire e comunicare informazioni. Ma benché queste siano proprietà comuni alla maggior parte dei linguaggi, quello grafico e quello diagrammatico rivendicano altre caratteristiche esclusive. Il progettista grafico, o più specificamente l’info-designer, si trova a operare su elaborati la cui lettura considererà come rilevanti e pertinenti un elevato numero di variabili. Spieghiamo con un esempio: scrivere una parola in una certa grafia non è significativo se non su un livello prettamente connotativo, e non inficia – ad un primo livello di significazione – il contenuto che veicola. Se al nostro arrivo in un ufficio trovassimo una nota scritta a mano, sulla nostra scrivania, con riportate le istruzioni

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su come procedere sul nuovo progetto, quanto riterremmo rilevante non è la calligrafia con cui è stata scritta, il tratto dello strumento utilizzato, il suo colore e la tipologia di carta usata, ma il contenuto di quelle indicazioni. E, fuorché qualcosa di particolarmente insolito non si faccia cogliere per la sua ambiguità, questo è quanto, in maniera assoluta, riterremo pertinente in quella data situazione. In maniera opposta, invece, quando un destinatario di una comunicazione si trovi a interpretare un diagramma, un grafo o una cartina, ogni peculiarità dell’artefatto è pertinente alla lettura: la scelta di variare la dimensione di una serie di diagrammi a torta, quella di assegnare un colore o una forma particolare a una determinata classe di simboli e via dicendo. Tutte queste sono variabili da cui non può prescindere la comprensione di un testo grafico. Notiamo, comunque, che se il testo della nota fosse caratterizzato dall’impiego di più di un colore, ad esempio il rosso e il nero, potremmo evincere dal testo che una certa mansione possa avere una priorità più alta rispetto alle altre, ma questo non contrasta con quanto abbiamo dimostrato qui sopra. Al contrario, prova solamente quanto abbiamo già sostenuto nel capitolo precedente: cioè che il linguaggio scritto, utilizzato anche in queste righe, è sottocategoria di quella più ampia macro-categoria che abbiamo chiamato linguaggio grafico pluri-forme. Diciamo allora che dati certi contesti di fruizione, e intesa la tipologia di linguaggio utilizzato – cioè del sistema segnico in uso – l’interprete della comunicazione sarà più incline a ritenere rilevanti alcune variabili del segno. Nel caso estremo di una cartina geografica, il posizionamento di una città su un dato punto della mappa non può essere approssimato, dal momento in cui la stretta analogia tra spazio cartaceo e spazio reale forzano il progettista a mantenere costanti le relazioni di distanza tra i diversi punti della carta. In questo caso, la variabile della posizione è molto rilevante, e maggiore sarà il grado di approssimazione,


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maggiore sarà il grado di “errore”. Ne consegue come il “livello informazionale” di questo genere di artefatti sia, appunto, “altamente informativo”. Indagheremo in seguito quali sono secondo Bertin – e quindi secondo noi – le variabili visive attraverso cui ogni rappresentazione grafica è descrivibile, in altre parole, i mezzi che il designer ha a disposizione per progettare un grafico. Per il momento ci basti sapere quanto il linguaggio grafico-diagrammatico sia altamente informativo – e della possibilità dello stesso di veicolare un considerevole numero di contenuti – in virtù sia di quanto è riportato qui sopra, sia rispetto alle motivazioni indagate attraverso Roman Jakobson. Proseguiamo ora la nostra argomentazione individuando cosa implichi la scelta di utilizzare questo linguaggio, e proviamo a circoscrivere il concetto di diagramma e di linguaggio grafico-diagrammatico. Secondo Bertin, i grafici materializzano il concetto di dato, rendendolo più accessibile rispetto alla sua forma tendenzialmente matematica, danno una forma visibile al concetto di discussione, ragionamento e comprensione che trova attuazione attraverso l’indagine del data-set. Questo atto di concretizzare dei dati altrimenti riportati esclusivamente in linguaggio alfa-numerico – che noi chiameremmo traduzione –, risulta particolarmente utile sotto più aspetti conseguenti l’un l’altro: prediligere la rappresentazione grafica di un’informazione contenuta in una tabella consente di visualizzare, oltre al dato stesso, anche la relazione che quest’ultimo intrattiene con le altre informazioni visualizzate. Rappresentare il numero di lavoratori del settore terziario, in un dato lasso di tempo, ci permette di relazionare una specifica invariante – numero di lavoratori terziario, in un determinato momento – con le altre invarianti precedenti o successive a quel dato momento; ugualmente, di relazionare quest’ultima componente con un’altra

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eventuale componente della tabella, la quale, invece dei lavoratori del terziario, potrebbe presentare il dato corrispondente ai lavoratori del settore secondario nello stesso arco temporale.

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Quanto la rappresentazione grafica ci offre, in più della tabella, è il collegamento diretto, analogico che l’immagine esplicita rispetto a quello numerico – simbolico –, la possibilità di leggere in maniera sintetica e sincronica il diagramma, cogliendo essenzialmente le relazioni che esistono tra le due quantità. Il linguaggio grafico permette al progettista di palesare, di rendere esplicite le relazioni, altrimenti taciute, tra le componenti e tra i dati numerici riportati nella tabella di partenza. È indubbio come questa sorta di rappresentazione si faccia cogliere più facilmente, se tradotta graficamente, piuttosto che attraverso i numeri di una tabella, e questo anche perché siamo cognitivamente predisposti, orientati a cogliere principalmente le relazioni tra le cose piuttosto che le quantità assolute, precise – azione permessaci, appunto, dalla rappresentazione grafica –. Le dinamiche attraverso cui percepiamo prediligono il riconoscimento delle peculiarità topologiche rispetto a quelle quantitative e metriche che definiscono una forma: le relazioni topologiche si prestano a essere colte più facilmente rispetto a quelle puramente metriche. Informano l’organismo del carattere tipico delle cose, anziché delle loro misure particolari. Del resto, quando percepiamo un poligono regolare quadrato, siamo in grado di definirlo tale ben prima di aver constatato, attraverso misurazione, l’effettiva uguaglianza tra i quattro lati che lo compongono: siamo subito in grado di stabilire che i quattro segmenti che definiscono la forma siano di lunghezza uguale, come anche i quattro angoli avranno aperture omologhe. Più difficile sarà stabilire se questi misurano 7 o 8 cm.


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Allo stesso modo, l’andamento di una linea – in questo caso di un trend che mostra il numero dei lavoratori nei due settori di produzione – si presta a essere osservata in rapporto alle sue relazioni: una salita repentina, un incremento lineare oppure, magari, una curva a incremento esponenziale rispetto a una “norma” che potremmo dire essere l’ortogonalità degli assi. Si mostra cioè nei suoi tratti essenziali e si offre per una facile sintesi a livello percettivo. La topologia è stata scoperta dai poteri percettivi del cervello, sui quali appunto si fonda, e non sul contare e misurare, ricorda ancora Arnheim. Da questa osservazione ne consegue che, in primo luogo, l’immagine è più facilmente memorizzabile rispetto al formato in cui si presenta una tabella inizialmente: cioè è facilmente economizzabile, sintetizzabile, memorizzabile appunto. 12

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Non è nostra intenzione addentrarci in questioni troppo complesse e che, peraltro, escono dai limiti della nostra competenza. Tuttavia, chiariamo ulteriormente come si caratterizzano queste immagini memorizzabili, che divengono perciò immagini mentali, soprattutto per comprendere come la loro natura ne favorisca la sintesi e la comprensione ai nostri processi cognitivi. Lo psicologo tedesco Arnheim, a proposito delle immagini mentali, metteva in dubbio alcune considerazioni del suo collega Titchener, il quale vedeva in un quadro impressionista un buon esempio per descrivere la natura delle immagini mentali: paragonare quest’ultime alla matericità della pennellata che delinea una ninfea è infatti un atteggiamento errato, dal momento in cui, questa registrazione implica una precisione che non appartiene ai nostri processi cognitivi; piuttosto, del

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Questa è una prerogativa e funzione della rappresentazione grafica che anche secondo Bertin è fondamentale: “Communicating information: creating a memorizable image which will inscribe the information in the viewer’s mind.” Bertin, 1967 | tr. en. Pag. 12


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quadro di Monet, è rilevante l’idea di approssimazione, di reinterpretazione che si distacca considerevolmente da quanto il suo occhio registra, ma che ben rappresenta quanto impressiona la sua percezione. Assunto, questo, che è sondabile del resto in quello che è il procedimento inverso: quello che parte da un’immagine mentale per produrre un elaborato esplicativo di un fenomeno, o la rappresentazione di un oggetto. Quanto emerge negli esperimenti di Arnheim e colleghi, è come nella rappresentazione delle immagini mentali vi siano somiglianze “strutturali”, distintive di quanto raffigurano, tralasciando informazioni di tipo quantitativo. Questa serie di esperimenti porteranno alla formulazione di ipotesi di portata ben più ampia, ma a questo punto è irrilevante trattarli nella loro completezza. Ad ogni modo, per quel che concerne quanto invece rilevante lo è, è necessario comprendere come il mezzo grafico impiegato nella rappresentazione diagrammatica si presti per natura a essere memorizzato – in qualità di immagine – nei suoi tratti strutturali, nel rilevamento delle sue relazioni topologiche con gli altri segni che compongono l’artefatto, coglierne cioè una sua proprietà distintiva, essenziale. E comprendere quale sia una proprietà distintiva di un certo fenomeno ci consente di finalizzare la visualizzazione, di processarla e di produrre, a partire dalla stessa immagine, una serie di inferenze, di ragionamenti e di interpretazioni possibili su quanto in analisi. In altre parole, la rappresentazione può, per mezzo del linguaggio grafico, divenire testo. Come accennato poco sopra, la rappresentazione grafica-diagrammatica ci permette di leggere un grafico in maniera sincronica, di approcciarci a una visualizzazione a qualsiasi punto della stessa. La rappresentazione grafica – intendendo quella statica, escludendo quindi quei casi particolari che si servono di un supporto digitale per visualizzare in maniera sequenziale una serie di informazioni – può concretizzare nello stesso me-


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FIG. 8.

Esempio ripreso da Arnheim che evidenzia come, nel disegno delle due Americhe, la memoria abbia registrato una serie di proprietà relazionali semplici tra i due continenti rispetto a qualità meramente quantitative.

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dium, quello visuale appunto, entrambe le componenti tempo e spazio attraverso, per esempio, la più comune analogia della “coesistenza” per lo spazio, e della “sequenzialità” per il tempo. Quest’osservazione diventa rilevante soprattutto in funzione di quanto lo stesso Arnheim sosterrà poi: lo spazio polidimensionale del medium visuale presenta “isomorficamente” le dimensioni che occorrono al ragionamento teorico, qualificando la rappresentazione grafica come mezzo per il ragionamento. Come se lo spazio grafico divenisse una sorta di spazio mentale entro cui condurre dei veri e propri movimenti inferenziali. 13 Anche Bertin, a introduzione del suo testo magistrale Sémiologie Graphique, riconosce come il linguaggio grafico si differenzi da quello musicale, da quello verbale e da quello matematico in rispetto al loro sviluppo sequenziale, alla loro linearità. Ritiene che, al contrario, il linguaggio grafico, attraverso l’impiego della variabile spaziale e delle sue tre dimensioni – due più una simulata –, possa svincolarsi dalla necessità di inserire la sequenzialità temporale come premessa necessaria per dover esprimere un qualsivoglia messaggio. Il grafico è un’immagine statica che condensa in uno spazio limitato informazioni le quali, altrimenti, potrebbero venire tradotte, supponiamo in linguaggio verbale, solo tramite l’impiego della sequenzialità temporale.

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“La virtù principale del medium visuale è quella di rappresentare le forme in uno spazio bidimensionale e tridimensionale, in confronto con la sequenza monodimensionale del linguaggio verbale. Questo spazio polidimensionale non soltanto offre al pensiero efficaci modelli di oggetti fisici o di eventi, ma rappresenta pure isomorficamente le dimensioni che occorrono al ragionamento teorico.” Arnheim, 1969 | tr. it. Pag. 273


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In an instant of perception, linear systems communicate only a single sound or sign, whereas spatial systems, graphics among them, communicate in the same instant the relationships among three variables. Langer scriverà delle parole come organizzate secondo un ordine lineare, discreto e successivo. Dirà: “Sono infilate l’una dentro l’altra come i grani di un rosario”, e propone un esempio calzante per mostrare quanto si sta qui discutendo, dove l’asserto “A ha ucciso B” presenta una successione di fatti che relazionano due entità – A e B – attraverso l’atto criminoso di uccidere. Ma benché questo enunciato verbale presenti in una successione lineare gli attori e l’azione di quest’asserto, cioè A + uccidere + B, Langer evidenzia come, in realtà, A, B e l’azione di uccidere siano simultanei tra loro. E quest’aspetto di simultaneità che caratterizza la scena non può essere espresso altrimenti se non tramite il ricorso a un altro mezzo espressivo: quello che Arnheim chiama “immagine pittorica”. Quest’ultimo preciserà poi come un’immagine letteraria, a differenza da quella pittorica, che è fruibile nella sua totalità in maniera simultanea, cresca attraverso aggiustamenti successivi, gradualmente, aggiungendo in maniera sequenziale, nel tempo, nuovi dettagli, nuove caratteristiche che la specificano. Il linguaggio verbale trasposto graficamente, come quello impiegato per scrivere queste righe, potremmo descriverlo come ibrido tra l’immagine pittorica e quella letteraria: nonostante lo scritto di un’intera pagina si possa cogliere nella sua totalità – come testura appunto da cui deriva il termine “testo” –, e sia di fatto parte della macro-categoria dei linguaggi grafici pluri-forme, prende a prestito la linearità tipica del linguaggio parlato. E questa ambiguità è stata motore di una serie di interessanti riflessioni condotte da Perondi e dai docenti dell’isia di Urbino, sulla possibilità di svincolare il linguaggio scritto

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dalla mono-linearità tipica del linguaggio parlato, inventando un nuovo sistema di scritture nominato sin-semie. Peraltro, ci fa riflettere su come sia possibile, da progettisti, imporre una sorta di sequenzialità di lettura a un diagramma, strutturandone i contenuti, organizzandone la lettura e quindi la chiarezza espressiva, ma ciò non toglie che, potenzialmente, questo ideale artefatto sia comunque percepibile nella sua totalità in maniera simultanea. Sarà poi l’interprete del diagramma che, a sua discrezione, deciderà in che modo approcciarcisi, leggerlo e comprenderlo. Possiamo dire con Bertin che, la scelta di esprimere un concetto attraverso un’immagine, consente al lettore di poter approcciare il “discorso”, il grafico, a qualsiasi punto, e di condensare in un’immagine percepibile simultaneamente quanto, attraverso un altro linguaggio, necessita di essere espresso in un lasso di tempo x. Alla luce delle riflessioni svolte sino ad ora, e discusse alcune delle caratteristiche che contraddistinguono il linguaggio grafico-diagrammatico, diventa necessario trovare una definizione precisa che stabilisca cosa intendiamo con il termine “diagramma” e con il termine linguaggio “grafico- diagrammatico”. BER TIN, 19 6 7 t r. e n . PAG. 50 ← IVI, PAG. 5

Bertin definisce cosa è un “diagramma” all’interno della sua stessa teoria, finalizzando la nozione di “componente” per classificare quattro categorie di grafici. Il diagramma è disegno, rappresentazione le cui relazioni sul piano vengono stabiliti tra: All the divisions of one component and all the divisions of another component, the construction is a diagram. La “componente” di cui parla Bertin, prendiamo a prestito la sua definizione, è the variational concept involved nella rappresentazione dell’informazione: nell’esempio proposto poco sopra una componente, o variante, è il numero di lavoratori del settore terziario, un’altra quelli del secondario e un’altra ancora il tempo. La


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corrispondenza tra due varianti – lavoratori e tempo – concretizza, rende visibile l’informazione nell’invariante, definita tale perché costante rispetto a specifici valori delle componenti. La scelta di impiegare questo criterio, cioè la relazione tra le componenti in un certo grafico, permette a Bertin di classificare in maniera rigorosa ed efficiente le diverse tipologie di rappresentazioni. Oltre ai diagrammi, anche le reti – relazioni tra all the divisions of the same component – e le mappe – relazioni tra all the divisions of the same component arranged according to a geographic order –. 14 I diagrammi possono essere a loro volta caratterizzati da uno sviluppo rettilineo, circolare, ortogonale o polare ma di fatto restano vincolati al criterio delle relazioni tra le componenti perché, secondo Bertin, si possano definire tali. Eco, ad esempio, riconosce come unica differenza tra un diagramma e un disegno, il fatto che il primo soggiaccia a regole molto codificate di produzione mentre il secondo no, e non pare porre alcuna differenza sostanziale tra un diagramma e un grafo. Il diagramma inteso in questi termini sembra quasi essere sinonimo di quello che Bertin invece aveva chiamato “grafico”, e che si è preso la premura di articolare nelle quattro categorie sopra riportate. Del resto, potremmo dire che, in accordo con Eco, ci sarebbe lo stesso Peirce, il quale parlava di diagrammi-icone per comprendere anche quelle rappresentazioni che il cartografo francese Bertin ha così distintamente diviso. Per giunta, anche nel linguaggio comunemente utilizzato, non avremmo alcun timore a chiamare, per esempio, la rappresentazione della rete autostradale nazionale come diagramma – e non necessariamente come grafo –, riconoscendo al termine “diagramma” non tanto le caratteristiche individuate da Bertin, piuttosto, associandovi l’idea di una sorta di rappresentazione sintetica che riporti, in maniera isomorfica, alcuni elementi

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Bertin inserisce anche una quarta categoria denominata “simboli” che abbiamo volontariamente deciso di tralasciare.

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strutturali caratterizzanti un determinato fenomeno od oggetto. Eco osserva la danza delle api per capire la relazione tra codice e rappresentazione. Noi lo riportiamo qui per dedurre in che modo quest’ultima può essere diagramma, e in che modo invece no, al fine di indurre poi una definizione appropriata del termine. Ecco l’esempio come presentato da Eco: Un’ape esploratrice informa le compagne sulla posizione del cibo grazie a una danza in cui l’orientamento del proprio corpo rispetto all’alveare è proporzionale all’orientamento del cibo rispetto all’alveare e al sole.

La danza dell’ape è diagramma nel senso che sintetizza un’informazione rilevante riguardo al cibo: “che si trova in una determinata direzione”. E il rapporto tra la danza e quello per cui sta è di tipo analogico. Ma il segno prodotto si articola nel tempo – dovendo mostrare in che relazione il cibo è rispetto all’alveare e al sole – e abbiamo visto che un diagramma, salvo alcune eccezioni, si può leggere simultaneamente nella sua completezza. Inoltre, il segno prodotto dall’insetto, non è grafico: non implica la scrittura, il disegno come mezzo, e questo stride a livello etimologico con la parola dia-gramma. “Attraverso il disegno, attraverso la scrittura” è possibile privilegiare nella sintesi un aspetto essenziale del fenomeno e mostrarne nel segno la sua struttura essenziale, le sue relazioni. 15 Il diagramma è inoltre rappresentazione, e quest’aspetto lo

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Per quanto riguarda questa affermazione, rimandiamo all’idea di Arnheim di come l’astrazione operi nella funzione di rappresentazione dell’immagine, dove “L’astrazione è tutto ciò che si può considerare un distillato di qualche cosa di più complesso” Arnheim, 1969 | tr. it. Pag. 197. Maggiore sarà l’astrazione, maggiormente la visualizzazione tenderà a una rappresentazione schematica, non-mimetica.


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spieghiamo con le parole di Mackay – che peraltro, osserva Eco, spiega le rappresentazioni come già Peirce aveva fatto spiegando la classe dei segni iconici –: By representation is meant any structure (pattern, picture, and model) whether abstract or concrete, of which the features purport to symbolize or correspond in some sense with those of some other structure. Da queste osservazioni proviamo a derivare una definizione che, secondo noi, riesca a circoscrivere cosa può legittimamente rimandare il termine diagramma: I. Il diagramma è una rappresentazione grafica che, in quanto tale, esiste nella bidimensionalità di un supporto piatto – come direbbe Tufte vive in flatland –. II. I suoi tratti intendono corrispondere in qualche senso a quelli di qualche altra struttura, e la relazione tra esso e il suo referente è di tipo analogico. III. Il disegno di un diagramma è caratterizzato da una rappresentazione schematica, spogliata dagli aspetti mimetici-realistici ritenuti irrilevanti e superflui allo scopo di quanto si vuole comunicare. Questo, al fine di produrre un oggetto sintetico, facilmente memorizzabile e processabile dalle capacità cognitive del destinatario. IV. E per quanto concerne invece ciò cui ci riferiamo con il termine “linguaggio grafico-diagrammatico”, questo è quell’insieme di mezzi espressivi, codici di produzione/interpretazione e di regole sintattiche finalizzate alla realizzazione di un diagramma.

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Da l pa rt i c o l a r e a l g e n e r a l e

Il diagramma è il risultato fisiologico dei processi cognitivi, che astraggono e privilegiano alcuni tratti pertinenti di un problema.

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arl Lashley nota come i caratteri distintivi sono sempre astrazioni di relazioni generali che sussistono tra figure. Lo psicologo statunitense effettua una serie di esperimenti sugli animali i quali vengono posti dinanzi una scelta di carattere percettivo che prevede, in caso di risoluzione del problema, una ricompensa. Nella fattispecie, Lashley educa un ratto a distinguere le strisce orizzontali da quelle verticali, scoprendo come l’animale risponda non solo agli stimoli che presentino orizzontalità o verticalità attraverso l’uso esclusivo di linee – stimolo a cui sono stati addestrati a rispondere –, ma anche quando questi due caratteri siano espressi con l’uso di punti conseguentemente allineati in verticale e in orizzontale. Nel contesto entro cui il ratto si è trovato ad agire, gli sono stati presentati stimoli molto semplici tra cui discriminare, limitandoli unicamente alla scelta binaria verticalità vs orizzontalità, facilitando in maniera considerevole il processo di astrazione e di risposta dell’animale. Secondo Arnheim, il risultato sorprendente sta proprio nell’individuare nel comportamento della cavia un atteggiamento che gli ha permesso di estrapolare, da un’occorrenza concreta, un elemento strutturale, astratto dalla

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pienezza, dalla densità dell’oggetto reale. Seppure la variazione negli stimoli proposti alla cavia sia stato di entità minima, l’animale ha mostrato come alla base delle sue scelte soggiacesse quella che Arnheim chiama un’intelligenza percettiva. L’esito dell’esperimento mostra come, durante la fase di tirocinio imposta dallo sperimentatore, la cavia sia stata in grado di astrarre alcuni elementi strutturali, generali, dagli stimoli presentati e di riconoscerle in occorrenze diverse: si può forse sostenere che l’animale abbia, a un livello inconscio e pressoché immediato, risolto una semplice analogia riconoscendo in due occorrenze diverse gli elementi tra loro analoghi? Benché non possiamo rispondere con certezza a questa domanda, forse la questione non è così banale come può apparentemente sembrare. Del resto Arnheim stesso scrive: Nei test d’intelligenza, s’impiegano i problemi di analogia, poiché le operazioni conoscitive che si svolgono nella percezione visiva, quando una persona scopre analogia fra diversi pattern, significano sicuramente comportamento intelligente. Oltre a questa questione che approfondiremo in seguito, quello che è interessante negli esperimenti di Lashley, è proprio il sopracitato processo di astrazione dell’orientamento dei segni: elemento critico e strutturale degli stimoli che determina o meno una ricompensa – posta in questi termini, l’astrazione sembra essere prerogativa e punto di partenza di un pensiero analogico, che si basa cioè sul riconoscimento di caratteri analoghi in sistemi più o meno distanti –. Segmenti o serie di punti verticali e orizzontali sono segni già estremamente stilizzati, i cui caratteri strutturali sono facilmente percepibili. Tuttavia, se sottoponessimo animali dalle capacità cognitive più elevate a discernere tra segni più complessi e articolati, il livello di astrazione necessario affinché riescano ad ottenere la ricompensa dovrebbe ovviamente essere maggio-


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re. All’accrescere della complessità del segno, o del fenomeno da comprendere, c’è quindi un corrispettivo incremento della capacità astrattiva necessaria allo svolgimento del compito. Ad ogni modo, da un punto di vista logico, più che psicologico, è evidente come tra lo stimolo iniziale – le linee orizzontali e verticali – e quello successivo di riconoscere alcune proprietà analoghe in segni oggettivamente diversi da quelli iniziali – l’allineamento dei punti a sottintendere un andamento orizzontale o verticale – vi sia un passaggio intermedio permesso dall’astrazione. Questo passaggio intermedio deve essere caratterizzato da un’immagine più o meno sfocata, che riporti i tratti essenziali e pertinenti, un diagramma di quanto abbiamo registrato e da cui attingere, altrimenti non si spiegherebbe come il topo fosse in grado di risolvere la soluzione problematica. È interessante a questo proposito notare come alcune ricerche parlino di internal ed external diagrams, implicando, al di là di alcune evidenti differenze, come vi possa essere una natura comune tra una rappresentazione mentale e una rappresentazione diagrammatica constructed by the agent in a medium in the external world. Sulla base di questo sosteniamo che il diagramma, le sue proprietà distintive, sono un esempio tangibile e concreto della natura sintetica delle immagini mentali che processiamo. Immagini che suggeriscono esse stesse la formulazione di nuove ipotesi, che si fanno completare e che suggeriscono nuove possibilità interpretative di un fenomeno. 16

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C HAND RASE K ARAN, 1 995 PAG. 1 7

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Così Arnheim spiega che la soluzione dei problemi teorici “Esige configurazioni altamente astratte, rappresentate da figure topologiche e spesso geometriche nello spazio mentale. Tali immagini non-mimetiche (…) possono essere comunissime, e anzi indispensabili per qualsiasi mente pensi pensieri generici ed abbia bisogno della generalità di forme pure per poterli pensare. “Sono incline a credere che la logica delle immagini sia il motore primo dell’immaginazione costruttiva”, ammise Ribot.” Arnheim, 1969 | tr. it. Pag. 137.


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Arnheim suggerisce che questo processo di astrazione sia presente sin dal più immediato stimolo ricevuto, e benché tratti questo tema adducendo esempi dove quanto veniva astratto era direttamente esperibile attraverso i sensi, ciò non toglie che alla base del pensiero teorico soggiaccia comunque lo stesso procedimento astrattivo. L’astrazione produttiva si occupa della descrizione di proprietà strutturali, attraverso la quale otteniamo i “tipi” di oggetti: è un movimento comune a ogni processo cognitivo, che prescinde, in una certa misura, dalla natura sensibile o meno dell’oggetto. Del resto, come nota anche Democrito, ogni sorta di inferenza, di ragionamento ha origine a partire dalla sensazione più grezza da cui la mente, poi, “trarrà le sue testimonianze”: partendo dal processo di uno stimolo tra i più elementari, sino a giungere all’elaborazione di un concetto inaccessibile per mezzo dei sensi, il passaggio è continuo, graduale, permesso dallo stesso processo di astrazione. 17 Anzi, possiamo sostenere che una percezione, l’astrazione di uno stimolo pone già la questione su un piano teorico distante dal meccanico rilevamento di una sensazione: l’interpretazione di quest’ultima, in quanto astratta nei suoi caratteri essenziali, ha già gli attributi di un “tipo” che per definizione si oppone all’occorrenza concreta ed esperibile nella sua unicità attraverso i sensi. Ma cos’è che la nostra percezione astrae? Sebbene lo psicologo tedesco non si sia preso l’onere di formalizzare quanto aveva ipotizzato, pare avesse già compreso come la mente in generale fosse orientata verso ciò che è rilevante in un certo contesto:

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Così Arnheim: “Il pensiero visuale esige, su scala più vasta, la capacità di vedere le forme visive come immagini dei pattern di forze che sottendono la nostra esistenza: il funzionamento della mente, del corpo o delle macchine, la struttura delle società o delle idee. (…) pensiamo mediante ciò che vediamo” Arnheim, 1969 | tr. it. Pag. 369.


pertinentemente orientata. Quanto viene astratto, nella generalità degli stimoli ricevuti, sono essenzialmente gli aspetti che in una data situazione sono a noi funzionali: i cani di Pavlov astraggono le diverse occorrenze dei suoni prodotti dallo sperimentatore allo scopo di mettere in atto un certo abito comportamentale e ottenere la ricompensa. Allo stesso modo, in una situazione problematica, astraiamo gli elementi ritenuti pertinenti alla risoluzione di quest’ultima, affinché possano venire abilmente processati e correlati in due direzioni opposte: all’interno, verso gli elementi che compongono la rappresentazione stessa, e all’esterno verso altre rappresentazioni strutturalmente simili ma di natura differente. L’uomo, percependo le forme complesse della natura, si crea forme semplici, facili per i sensi e comprensibili per la mente. La funzione di tali forme è quella di produrre equivalenti fisici delle immagini non-mimetiche che hanno asilo nella mente: pitture ‘astratte’, diagrammi scientifici, concetti aritmetici. Il generale è ciò verso cui l’astrazione conduce, ed è l’idea centrale, fulcro entro il quale si organizzano eventi apparentemente differenti tra loro. Ma è tuttavia necessario precisare ulteriormente come un tipo non si presenti come entità assoluta e completa a descrizione di un oggetto, o di un evento. Ogni connotazione che quest’ultimo assume sotto l’influenza di diversi contesti, altera ciò che è rilevante astrarre dell’oggetto, quale proprietà. Ed è quindi necessario saper estendere i concetti al di là di quanto suggerisce l’evidenza primaria. “Per cogliere completamente le Idee che si esprimono nell’acqua, non basta vederle nel quieto stagno o nella corrente che scorre maestosa; ma quelle Idee si dispiegano completamente soltanto quando l’acqua appare in qualsiasi circostanza malgrado qualsiasi ostacolo”. L’astrazione, allora, è sì un processo, un movimento che ci permette di giungere a modelli, pattern di forme semplici che descrivono in maniera esaustiva, illuminante e produttiva i diversi

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fenomeni osservabili, ma questo entro i limiti della poliedricità, della complessità e della conflittualità degli attributi che descrivono tanto un oggetto determinato quanto una pluralità di questi. La ricerca di un’immagine generale, ideale che descriva al contempo ogni peculiarità di quella che abbiamo già chiamato “unità culturale” è vana. Ontologicamente irraggiungibile: in che modo un’immagine può allo stesso tempo mostrare lo spumeggiare allegro dell’acqua che fuoriesce da una fontana a Versailles e al contempo mostrarne l’andamento calmo e perentorio di un fiume? E, nella stessa misura, le proprietà dell’acqua legate alla vita – nel caso della necessità fisica dell’uomo di berla – o legate alla morte – nel caso di un’alluvione –? Potremmo descrivere lo scorrere di un torrente come la giovinezza di un fanciullo, allegra e spensierata, talvolta irruenta, una linea sottile, dinamica, veloce e dai cambi di direzioni repentini, come repentini potrebbero essere i cambi d’umore di un bimbo che dopo un istante d’infelicità, si trova inspiegabilmente a sorridere e a divertirsi; e lo scorrere del fiume, dell’acqua giunta a valle, come la stabilità e la maturità dell’età adulta, caratterizzata da una linea ispessita rispetto alla precedente, forte e meno malleabile di quella che fu, sino a perdersi nel mare, fondersi nel tutto e scomparire, così come ogni uomo muore. Ma se per mezzo dell’astrazione siamo stati in grado di individuare un’essenza dell’oggetto-acqua, e di leggerla analogamente a qualche cosa d’altro caratterizzato da un simile movimento – l’andamento di una linea che muta di spessore sino a scomparire nel tutto, e della vita di un essere umano –, non possiamo di certo sostenere di averla descritta nella sua totalità, avendo tralasciato, ad esempio, gli altri aspetti elencati poco sopra che sono comunque propri dell’acqua. Per quanto ci si sforzi, la generalità dell’immagine ottenuta nell’astrazione sarà comunque incompleta rispetto ciò che descrive. Questa verità implica, nel processo astrattivo, una scelta che presuppone parzialità. L’immagine schematica della linea che muta in dimensioni e in direzione è un diagramma – in accordo con la nostra defini-


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zione – che rappresenta una proprietà dell’acqua che dapprima torrente si trasforma in fiume e infine si perde nel mare. Un’espressione, una rappresentazione che si è realizzata tramite il fisiologico e fondamentale processo astrattivo, attraverso cui è possibile visualizzare un tratto essenziale dell’acqua, una sua generalità. E in questa generalità ci siamo accorti di poter riconoscerci fenomeni di natura assolutamente diversa, di confrontarli e di coglierci somiglianze e differenze – vedremo nei capitoli successivi come il diagramma possa essere inteso come strumento di conoscenza –, oltre che poter visualizzare in tutta la sua sintesi, le relazioni tra lo stato dell’acqua in momenti differenti. Quindi, benché un’immagine sia parziale rispetto all’oggetto che astrae, la generalità della sua rappresentazione apre quest’ultima a una molteplicità d’interpretazioni e a confronti, rispettivamente verso l’interno – nelle relazioni della cosa in sé – e verso l’esterno di essa – nelle relazioni con altri fenomeni che rientrano nella generalità prodotta dall’astrazione –, e che dal punto di vista conoscitivo sono molto fertili. 18 L’astrazione è un movimento innato, naturale, fisiologico come abbiamo scritto sopra, che compiamo abitualmente. Potremmo dire che la rappresentazione diagrammatica sia espressione diretta dei nostri processi cognitivi, che sia conseguenza concreta, realizzazione tangibile delle modalità attraverso cui cognitivamente processiamo un’informazione, risolviamo un problema. Il diagramma in quanto tale diviene allora un supporto euristico alla comprensione del mondo, e il suo utilizzo e lo sviluppo del suo linguaggio potrebbero portare, ci si augura, a risultati fino a ora insperati.

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Arnheim porta ad esempio il cono di Poncelet, che si propone come nuova forma espressiva che mette in relazione il punto, la linea, l’iperbole, la parabola, il triangolo, l’ellissi e il cerchio come variazioni di uno stesso continuum: risultati, concetti estrapolabili dallo stesso procedimento che prevede l’intersezione in modi diversi di un piano con un cono.

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Leggerezza dei diagrammi

La rappresentazione diagrammatica, in virtù dell’astrazione e sintesi che le soggiace, è strumento fondamentale per concretizzare non esclusivamente un problema, bensì anche per trovarvi soluzioni: consente un distacco, talvolta necessario, dalla “questione problematica” da risolvere. Sintetizza le proprietà rilevanti di un fenomeno e ne fornisce un’osservazione a distanza variabile.

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bbiamo ritenuto opportuno parlare di questo valore perché, come Calvino auspicava che questo valore persistesse nella letteratura futura, riteniamo che sia lo stesso principio che caratterizza un diagramma. Che cos’è la leggerezza? Proviamo a spiegare questo principio servendoci del materiale che Calvino stese per la prima lezione americana, il primo valore che lo scrittore avrebbe voluto la letteratura incarnasse nel nuovo millennio. Ossimorico parlare di “leggerezza incarnata”, quando ciò che permette quest’ultima è proprio quello di liberarsi dalla zavorra del concreto, del

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tangibile, del superfluo, per innalzarsi su un piano più alto, generale, astratto. Ma la leggerezza nasce dalla pesantezza, esiste più sotto le sembianze di una forza, di un’energia piuttosto che nella solidità e nella concretezza del mondo, ma in essa – e grazie a essa – si manifesta e si rende intellegibile. Abbiamo parlato di astrazione per introdurre il tema della leggerezza, e in effetti le due cose ci sembrano correlate, conseguenti: astrarre conduce alla leggerezza del modello, del disegno disancorato dalla sua occorrenza e che si apre a letture differenti. Nell’ultima lezione sulla molteplicità, Calvino passa in rassegna una serie di testi tra cui L’amour absolu di Jarry. Un romanzo che può essere letto come tre storie differenti, costruita cioè su un modello la cui leggerezza si presta a essere riadattabile, perché raffinata dalle particolarità che costringono un evento, un oggetto a essere in un certo modo, ad avere una certa forma. Ritorniamo su un piano più raffigurativo, iconico. Lo stesso Arnheim, analizzando il quadro della Cena di Emmaus di Rembrandt, fa notare come anche la più figurativa delle opere d’arte dipenda da un più elementare modello che condensa le basilari relazioni tra le parti dell’opera. La sintesi di un dialogo espressa in pochi segni, una struttura che è essa stessa portatrice di un significato aperto, interpretabile che domanda di essere completato. E la leggerezza che caratterizza questa raffigurazione, come quella descritta da Calvino nell’ambito letterario, è la stessa che soggiace alla rappresentazione diagrammatica: considerate le proprietà necessarie al fine di riconoscere un diagramma come tale, non ci pare vi sia alcuna differenza rilevante tra il disegno schematico che coglie le relazioni tra Cristo e i suoi discepoli nel quadro di Rembrandt, e un generico grafo che connette nodi per mezzo di archi. Certo, nello studio della Cena di Emmaus è importante far emergere le coordinate spaziali, la posizione precisa dei personaggi e dei fulcri dell’immagine, ma non è questa una ragione sufficiente


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Leggerezza in questo senso è quanto caratterizza il linguaggio diagrammatico: è il principio che consente di evidenziare, di distillare alcune proprietà essenziali dell’immagine. Esattamente come un chimico isola un elemento rispetto alle impurità che impediscono di vederne la natura e gli effetti, così l’opera d’arte, [cioè l’artefatto, e quindi anche il grafico] purifica l’apparenza significante. L’esplicita simmetria nel dipinto della Città ideale di Piero della Francesca, la posa triangolare di Cristo ne L’ultima cena di Leonardo, ma anche gli elementi appena suggeriti dalla tela, e che l’interprete deve costruire, come gli sguardi che i discepoli si scambiano vicendevolmente nel quadro di Rembrandt. Strutture spogliate della complessità del reale, della pesantezza del vivere direbbe Calvino, economia del cervello diremmo noi, che permettono la comprensione di un fenomeno a un livello più schematico e semplice. Sintesi, economia appunto, che ci permette di privilegiare gli aspetti rilevanti per un determinato fine. Portiamo un esempio: il quadrato proiettivo utilizzato per visualizzare un qualunque omeomorfismo topologico è abitualmente impiegato per mostrare la costruzione di oggetti complessi – come il nastro di Möbius, ad esempio –. Il diagramma in questione si costituisce di quattro lati, o vettori, A; A’; B; B’ che indicano in qual modo i diversi vertici del poligono debbano incollarsi tra loro per generare un determinato oggetto. Da questo semplice disegno, costituito semplicemente da quattro

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per classificare questa rappresentazione in una categoria diversa da quella dei diagrammi. Bertin sarebbe in disaccordo rispetto questa scelta solo a livello terminologico: quello che noi abbiamo chiamato diagramma, lui l’avrebbe chiamato mappa – o rete geo-localizzata –, ma non avrebbe avuto dubbi sul classificarlo come grafico.


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vettori, e da due semplici variabili – direzione e appartenenza ad A o B – è possibile generare strutture di un’elevatissima complessità come la bottiglia di Klein: un oggetto la cui rappresentazione in uno spazio tridimensionale non è che un’approssimazione. La bellezza di questo diagramma sta nell’aver individuato, per mezzo di astrazione, un processo di generazione comune degli oggetti di cui abbiamo parlato. E sebbene non è nostra intenzione sostenere che Klein sia partito da quel diagramma per giungere poi ai risultati che ha dovuto dimostrare matematicamente, resta comunque curioso come virtualmente, nelle limitate combinazioni logiche possibili tra le variabili di quella rappresentazione, ci fosse già il suggerimento a procedere verso una determinata direzione. 19 Indipendentemente dal fatto che il quadrato proiettivo sia stato uno strumento di ausilio alla comprensione o alla generazione di nuovi oggetti topologici – proprietà questa della generazione che crediamo distintiva dei diagrammi – è evidente come questo diagramma provi la leggerezza del suddetto: tanto nel ragionamento che ne ha permesso il disegno, quanto nell’adattabilità del quadrato a rappresentare oggetti così differenti l’uno dall’altro. Potremmo dire che il diagramma, per le proprietà che gli abbiamo attribuito, permette una visione distaccata rispetto al

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“È pure del tutto chiaro che queste astrazioni vanno al cuore stesso dei temi. (…) E la ragione principale per la quale queste forme astratte possono risultare tanto utili è che il pensiero non si occupa della pura materia o del sostrato delle cose, ma soltanto della struttura di esse. Le qualità elementari di un particolare rosso o di un suono particolare sono fornite dai sensi ma non sono né rappresentate nel pensiero, né trasmissibili per suo mezzo (…). Gli elementi percettivi accessibili al pensiero sono puramente strutturali, ad esempio l’espansività di quel tale rosso, l’aggressività di quel tale suono, o la natura centrica e compatta di qualcosa di rotondo.” Arnheim, 1969 | tr. it. Pag. 155.


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fenomeno che rappresenta. Questo abbiamo detto essere un vantaggio, dal momento in cui ci permette di focalizzarci sugli aspetti che, in un certo contesto, risultano essere rilevanti, quindi di rielaborarli, ristrutturarli, compararli. Ma non sempre questa astrazione è auspicabile nella sua forma più pura, sintetica. È senz’altro condivisibile quanto Arnheim dice rispetto ai disegni illustrativi, i quali potrebbero essere sì realistici, ma inadeguati a mostrare gli elementi che in una certa situazione sono rilevanti, e imputa alla loro ambiguità e al loro essere svianti la causa del loro fallimento. Questo è, del resto, quanto abbiamo detto essere un problema cui il diagramma ovvia attraverso la sua natura schematica, sintetica: la sua leggerezza. Tuttavia lo stesso autore ci mette in guardia rispetto a un altro rischio dell’astrazione, una sorta di degenerazione della leggerezza che giunge a privarsi di caratteri in realtà fondamentali alla comprensione di un fenomeno. Galton pone la questione in questi termini: È difficile comprendere perché gli statistici comunemente limitino le proprie ricerche alle medie, e non trovino piacere in concezioni più generali. Le loro anime sembrano sorde al fascino della varietà (…) Le forme pure – così chiamate dallo psicologo tedesco – sono immagini relativamente semplici il cui utilizzo incede spesso nel rischio di trascurare la loro relazione con il mondo da cui hanno origine. Vengono citati da Arnheim a titolo di esempio i concetti matematici, i quali permettono di essere maneggiati indipendentemente dalla loro possibile applicazione concreta. Ugualmente, in una certa misura, anche buona parte dei diagrammi per la rappresentazione dati è soggetta a questo rischio, dove l’informazione che emerge dal grafico è generata da un numero ridotto di componenti che talvolta semplifica eccessivamente l’analisi di un fenomeno. Una serie di bar-chart

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può mostrare diverse situazioni di come l’entità della spesa vari in rapporto alla frequenza: alcune rappresentazioni disegnano una realtà dove la spesa è piuttosto condensata su un determinato valore, altre invece dove la spesa ha un’estensione maggiore e, in un ultimo caso, dove la spesa è caratterizzata da due curve separate. Ma di per sé queste rappresentazioni non sono particolarmente significative quanto, al contrario, significative sono le loro implicazioni: si è notato a posteriori che esiste una stretta relazione tra l’entità della spesa nelle diverse classi sociali rispetto alla qualità della democrazia in una data situazione. Se il diagramma ha permesso attraverso i suoi mezzi di formalizzare, confermare l’esistenza di questa relazione, non si può altrettanto dire che venga esplicitata o suggerita entro il disegno. Il diagramma forza l’informazione entro un modello che non le consente di realizzarsi altrimenti, se non dall’interazione tra la componente “spesa” e “frequenza”. E se quanto è necessario comunicare sono le implicazioni indirette del diagramma, allora questa forma espressiva appare decisamente inappropriata: la traduzione non è efficacemente riuscita. È senz’altro vero che, questa rappresentazione, dovutamente integrata a una descrizione testuale riesce ugualmente nel fine di comunicare il messaggio in questione, ma la nostra obiezione verte sostanzialmente sulle modalità attraverso cui quest’ultimo prende forma e viene trasmesso. La sintesi imposta dal modello di rappresentazione ha indebolito la relazione con quanto rappresentava, compromettendone la comprensione stessa del fenomeno e delle sue conseguenze. E non sempre si può privilegiare la duttilità e la convenzionalità di queste rappresentazioni a scapito della loro correttezza semantica. Riportiamo un’illuminante citazione di Arnheim a proposito: I concetti matematici si maneggiano indipendentemente dalle situazioni pratiche. Il che pone il problema del tipo di modello percettivo più adatto a sostenerli a livello più astratto. Significa


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pure che corrono il rischio di trascurare aspetti di relazione, che in certe condizioni culturali sono considerati vitali (…) Quando si tratta una situazione soltanto nei termini delle quantità che essa contiene, può risultarne sventatezza e comportamento inadeguato. Una famiglia, una squadra, un gregge, non sono pensati come somme in cui ciascun elemento può assumere il posto di un altro, o che muta soltanto quantitativamente se si aggiungono o si tolgono certe unità. Ogni membro possiede una sua funzione particolare entro l’insieme. Tale funzione muta quando il numero del gruppo totale muta e dipende dal membro che viene perduto o acquistato. Ogni mutamento numerico altera la struttura del gruppo. Pertanto l’asserzione 5 - 1 = 4 non si riferisce a situazioni identiche quando in una famiglia muore il padre e nell’altra un bambino. Ancora: Patrocinando un uso più consapevole dell’astrazione percettiva nell’insegnamento si deve però tenere presente che l’astrazione conduce facilmente al distacco, se non si mantiene la connessione con la realtà empirica. (…) Separati dai propri referenti, le immagini stilizzate, i concetti stereotipi, i dati statistici conducono a un vuoto gioco di forme, esattamente come la pura esposizione all’esperienza personale non ne assicura la comprensione profonda. Il faut être léger comme l’oiseau et non comme la plume, diceva Valery: non una semplificazione casuale degli elementi di una rappresentazione, di un’immagine, di un pensiero, ma astrazione ponderata. La leggerezza è precisione e determinazione in grado di descrivere il particolare attraverso il generale, svincolarsi dalla pesantezza del mondo senza però travisarne le caratteristiche essenziali. È proprietà, prima di tutto, del ragionamento. Che si traduce nella capacità di comprendere quali aspetti possano essere rilevanti in una certa argomentazione – pertinenze per rimanere coerenti con quanto scritto nei capito-


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li precedenti –, e quindi di emanciparsi da una formalizzazione convenzionale di un problema, da una rappresentazione statica che impone a un fenomeno di essere rappresentato rispetto a determinate e limitate caratteristiche: una visione a volo d’uccello su una città – una cartina, metodo di rappresentazione tipicamente utilizzato nel tempo – ci permetterà di vedere la sua conformazione urbanistica, ma non ci consentirà di capire, attraverso i diversi stili architettonici visibili negli edifici che la costituiscono, la stratificazione e l’evoluzione della città nei secoli, la successione delle dinastie, delle popolazioni che si sono susseguite a governo della stessa e via dicendo. La capacità e l’intelligenza nell’astrarre è leggerezza: una visione vergine e incondizionata sul mondo che, al di sopra di ogni modello convenzionale, trova e progetta una forma espressiva coerente e illuminante a spiegazione di un fenomeno.

Le potenzialità del diagramma sono enormi: I. raffina la comprensione di un fenomeno analizzandolo rispetto nuove prospettive; II. si presenta come strumento generativo di conoscenza. Svilupparne il linguaggio significa perciò evolvere, raffinare il diagramma stesso: accrescerne la sua flessibilità rispetto alle diverse esigenze progettuali.

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Il linguaggio dei grafici

Lo stato attuale della disciplina: teorie pregresse e tentativi “troppo riusciti� di stabilire la grammatica e la sintassi dei grafici. Riferimento preciso al lavoro di Bertin.

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Terminologia e classificazione

Quello di Bertin è il più completo lavoro che si pone l’obiettivo di stabilire una grammatica del linguaggio della rappresentazione dei dati. Riprende quelli che potremmo definire una sorta di “primitivi semantici” della statistica – quantitativo, nominale e ordinale – su cui basa e integra un linguaggio visivo articolato – forma dell’espressione – e chiuso. Il suo contributo ha permesso di velocizzare la pratica e di portarla su un piano scientifico. émiologie graphique nasce come studio dei fondamenti della cartografia, una decostruzione del linguaggio dei grafici al fine di definire in maniera inequivocabile il significato di quanto espresso in una rappresentazione diagrammatica. Bertin, noto cartografo e teorico francese, arriva persino a definire “sistema monosemico” quello dei segni disegnati in un diagramma, dal momento in cui la relazione segnica è definita a priori, non interpretabili altrimenti se non nella maniera in cui il progettista stabilisce nella legenda: Each element is defined beforehand. The reading operation takes place among the given meanings.

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Dispensandoci dal discutere la correttezza o meno di questa affermazione, almeno momentaneamente, proseguiamo la disamina del lavoro di Bertin per comprendere meglio quale sia stato il suo contributo alla disciplina. È opportuno dire, prima di tutto, che Sémiologie Graphique ha portato su un piano scientifico e logico la discussione sulla progettazione di un grafico: ne ha identificato gli utilizzi possibili, gli elementi, la costruzione e alcuni processi utili per migliorarne la leggibilità e l’interazione con questi oggetti. La rappresentazione grafica è per lui il più elementare sistema segnico utilizzato al fine di raccontare, capire e comunicare informazioni essenziali, la cui efficacia risiede nella possibilità di utilizzo delle due dimensioni dell’immagine: quest’ultime rendono la percezione visiva il più importante sistema di percezione, e i grafici un efficace strumento pedagogico che consente la concretizzazione di concetti altrimenti astratti. Al contempo, la rappresentazione grafica costituisce un importante strumento per il ragionamento, per l’elaborazione e per l’immagazzinamento di informazioni. I grafici materializzano il concetto di dato, rendendolo più accessibile rispetto alla sua forma tendenzialmente matematica facilitandone e soprattutto velocizzandone la comprensione: It would take at least 20.000 successive instants of perception to compare two data tables of 100 rows by 100 columns. If the data are transcribed graphically, comparison becomes easy; it can even be instantaneous. Il testo che andremo sintetizzando nei suoi punti salienti, potrebbe esser letto come una sorta di grammatica, di sintassi del linguaggio grafico, la quale prevede, sulla base di alcune osservazioni sulle variabili visive, un utilizzo specifico delle stesse in funzione anche della natura del dato e della quantità di componenti presenti in una tabella. Il ragionamento di Bertin si basa su un semplice assunto statistico relativo alle possibili manifestazioni del fenomeno, la tipologia di valori che il dato può assumere. Nella statistica de-


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scrittiva il dato è classificato come nominale: il genere di una persona, le specie vegetali … ; ordinale: i giorni della settimana, il tempo … ; numerico: numero di abitanti per città, il reddito … . 20 Questa stessa distinzione viene utilizzata per classificare le componenti del grafico, variabili che consentiranno attraverso la loro relazione, di generare un’invariante, un’informazione. Un esempio: si supponga di voler rappresentare il valore di un titolo azionario durante una settimana per mezzo di un istogramma. Le variabili – o componenti – associate all’ascissa e all’ordinata saranno allora I. il valore espresso in euro, II. i giorni – o le ore dei giorni a seconda della lunghezza della componente – della settimana. Mentre l’invariante altro non è che l’informazione relativa al valore del titolo in un dato momento: la relazione specifica delle due componenti. A partire da questo postulato statistico, e dalla consapevolezza che il piano di rappresentazione possa visualizzare something other than visible – motivo per cui ha introdotto, forse un po’ ingenuamente, il termine “semiologia” –, sviluppa lo studio di come queste categorie di componenti possano essere visualizzate attraverso il mezzo grafico, in che modo possono coesistere e a quali tipologie di grafici danno vita. Rispettando la terminologia di Bertin, leggiamo le componenti di natura nominale come associative o selettive; ordinale come ordinate; numerica come quantitative, assolute o relative – distinzione che peraltro esiste anche sul piano statistico –. Il motivo per cui abbiamo scelto di riportare fedelmente il dizionario utilizzato nel testo del cartografo è semplice: associativo, selettivo, ordinato e quantitativo sono termini che implicano già, rispetto alla nomenclatura della statistica, le qualità del dato che le variabili visive dovranno

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Come se, a livello del contenuto, fossero stati identificati i M. C. D. presenti in qualsivoglia fenomeno descrivibile e, sulla base di questo comune denominatore, si basa la corrispettiva classificazione che i diversi elementi grafici dovranno rappresentare.

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visualizzare. Una componente associativa dovrà infatti essere disegnata considerando la priorità e la necessità di raggruppare, associare appunto, tutte le corrispondenze espresse da questa variabile: tutti i quadrati o tutti i triangolo a titolo di quella categoria di dati; una componente selettiva dovrà essere rappresentata affinché tutte le corrispondenze che appartengono alla stessa categoria – o variabile – siano tra loro distinguibili: l’insieme di segni rappresentati in una certa area del piano è selezionabile, distinguibile da quelli che giacciono altrove; una componente ordinata dovrà visivamente rappresentare la sequenza universalmente ordinata di un dato: una scala di grigio consente di mostrare diversi gradi di intensità, coerentemente organizzati tra loro, entro cui inserire una successione di valori linearmente ordinati; una componente quantitativa dovrà rappresentare visivamente una differenza, ugualmente esprimibile in relazioni numeriche, tra due elementi di una stessa variabile: la dimensione di una forma, l’area della sua superficie, rappresenta in una relazione n/x il rapporto tra la stessa e un’altra forma permettendo di comprendere la quantità espressa dall’invariante della stessa componente. Ecco allora come a determinate tipologie di dati sia necessario identificare quali variabili visive il progettista ha a disposizione per organizzare il contenuto allo scopo di renderlo trasmissibile, comunicabile. La grandezza di Sémiologie Graphique risiede, a nostro avviso, proprio nell’avere identificato gli elementi primari del linguaggio grafico: nonostante il materiale di ricerca del cartografo si limitasse a considerare esclusivamente le forme di rappresentazione diagrammatica e cartografica, le variabili visive sono sufficienti a definire in maniera esaustiva ogni sorta di segno grafico. Le variabili visive hanno una generalità tale da trovare applicazione all’altezza della macro-categoria che abbiamo chiamato linguaggio grafico pluri-forme, e non solamente a livello del linguaggio diagrammatico.


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Le variabili visive sono le seguenti: forma, orientamento, colore, testura, valore, dimensione e gli assi spaziali x e y da cui è possibile, tra l’altro, simularne il terzo, l’asse z. Sono, queste variabili, specifiche della rappresentazione bidimensionale e ognuna di queste è stata analizzata in funzione di quanto, in un diagramma, possa significare. Ma come è già stato accennato, è importante ribadirlo, queste variabili sono ben più generali di quanto stabilito da Bertin, e sarebbero ugualmente sufficienti a descrivere una qualsiasi rappresentazione figurativa come potrebbe essere un affresco di Michelangelo. Assumendo che l’elenco delle variabili sia completo, è interessante notare come quest’ultimo non basterebbe però a descrivere Il grande rosso di Burri. Questo non per l’inadeguatezza delle variabili, ma per l’importanza che il pittore attribuiva alla matericità dei segni sulla tela, la quale sfugge alla definizione di linguaggio grafico ritrovandosi in un dominio ibrido tra il segno bidimensionale e quello tridimensionale. Questo ci obbligherebbe a osservare l’opera come quadro ma anche come scultura a seconda della distanza da cui lo osserviamo, e mettendone in risalto caratteristiche che verrebbero altrimenti ignorate qualora lo guardassimo solamente come rappresentazione piana. L’intelligenza di uno spazialista come Fontana, che fa breccia nella tela svincolandosi dalla bidimensionalità della rappresentazione, sta anche nella capacità di porsi su un terreno fino ad allora inesplorato: un ibrido tra il disegno bidimensionale esaustivamente descrivibile con quanto individuato da Bertin, e la scultura. Potremmo spingerci sino a paragonare, con le dovute proporzioni, le variabili visive a quelli che Jakobson chiamò tratti distintivi della lingua. Ma invece di ridursi al binarismo della presenza o dell’assenza dei diversi tratti distintivi per identificare un certo sistema fonologico, le variabili visive assomigliano piuttosto a una scala continua molto articolata che prevede un elevatissimo numero di possibilità: tra nero e bianco ci sono infinite gradazioni di grigio, dal più chiaro al più scuro.

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Variabili Visive. A partire da sinistra: Dimensione, Valore, Testura, Colore, Orientamento, Forma. Da aggiungere le due variabili dello spazio 2d.

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Chiudiamo questa parantesi volta a chiarire l’importanza del lavoro del cartografo francese e torniamo a discutere, concretamente, in che modo le variabili siano funzionali alla rappresentazione diagrammatica. Ognuna di queste si presta, per natura, a rappresentare, in un rapporto analogico che approfondiremo in seguito, le categorie dei dati che abbiamo specificato sopra: I. Forma Ï associativa – tutti i segni accomunati da una stessa forma –; II. Orientamento Ï associativa – tutti i segni accomunati da uno stesso orientamento – e, nel caso in cui questa variabile si applichi a un punto o a una linea, selettiva – i segni accomunati da un certo orientamento divergono da quelli con un orientamento differente –; III. Colore Ï associativa – tutti i segni accomunati dallo stesso colore –, selettiva – i segni accomunati da un certo colore divergono da quelli con colore differente –; IV. Testura Ï associativa – tutti i segni accomunati da una stessa dimensione della testura –, selettiva – i segni accomunati da una certa dimensione della testura divergono da quelli con una dimensione differente –, ordinata – la dimensione della testura si presta a rappresentare, dalla più ridotta alla più espansa, un ordine lineare –; V. Valore Ï selettiva – i segni accomunati da un certo valore in lucentezza divergono da quelli con un valore differente –, ordinata – il valore si presta a rappresentare, dal più scuro al più chiaro, un ordine lineare –;


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VI. Dimensione Ï selettiva – i segni accomunati da una certa dimensione divergono da quelli con una dimensione differente –, ordinata – la dimensione si presta a rappresentare, dal più piccolo al più grande, un ordine lineare –, quantitativa – il valore si presta a rappresentare, nei rapporti matematici continui tra le sue variazioni, un dato di tipo quantitativo –. A queste sei variabili sono da aggiungersi quelle dello spazio che Bertin tratta separatamente attribuendo loro un’importanza particolare: quella di essere supporto, base su cui elevare le altre sei variabili appena trattate. In forza delle caratteristiche del piano, si possono derivare tre tipi di impianto di cui parleremo a breve. Definita questa trasposizione in linguaggio grafico delle diverse categorie di dato, Bertin avverte come queste si possano combinare tra loro aumentando il numero di componenti coinvolte in un grafico e, quindi, il grado informazionale di una rappresentazione: l’attribuzione della variabile forma, per esempio, a una determinata componente, ci permette di associare tutte le rappresentazioni con la medesima forma in un unico gruppo. Ma combinando quest’ultima alla componente testura, è possibile effettuare una distinzione all’interno del già esistente gruppo. Si supponga di voler rappresentare i corsi d’acqua, in una carta geografica, utilizzando una determinata forma. Ugualmente, è possibile differenziare per mezzo della variabile testura i segni grafici riferiti a un piccolo torrente o a un fiume di grossa portata. Ovviamente, nonostante le combinazioni possibili tra le variabili visive siano molto alte, il numero di componenti visualizzabili in un grafico si riducono drasticamente considerati quelli che sono i fisiologici limiti di lettura degli stessi. In ogni caso, questa trasposizione in segni grafici delle diverse categorie del dato, è indubbiamente efficiente considerato come la natura delle diverse variabili si presti a visualizzare così fedelmente le diverse classi statistiche.

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CAP. 2

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SÉMIO LO G IE GRA P HIQUE

DI AG R A MMI

D I S T R IB U ITO

R E T T I L INE O

C I RCOL A RE

OR TOG O NA L E

P OL AR E


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MA P PE

FIG. 11.

RETI

Tipi di imposizione. Colonne: grafico. Righe: imposizione.

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Le variabili visive si realizzano in tre differenti tipi di “impianto”, resi possibili dalla bidimensionalità del piano di rappresentazione: punto, linea e area. Queste tre entità, la cui scelta non può essere arbitraria ma, al contrario, connessa al tipo di informazione da visualizzare, si dispongono entro le variabili spaziali in una pluralità di soluzioni dispositive: I. Il punto non ha lunghezza o area teorica, serve per esprimere una determinata posizione sul piano. A questo tipo di impianto si possono associare le variabili di dimensione, valore, testura, forma, orientamento, colore. II. La linea è essenzialmente considerata come soglia tra due aree: non ha area teorica ma la lunghezza è significativa. Anche in questo caso, tutte le variabili visive sono associabili al segno che la definisce ad esclusione di quelle spaziali. III. L’area invece è misurabile come tutto quello che è incluso entro determinati confini. A differenza degli altri due tipi di impianti, quest’ultimo non può variare in dimensione, forma od orientamento senza inficiare il significato del segno, tuttavia, il tratto che la definisce può mutare in valore, testura e colore. I diversi modi di utilizzo dello spazio verranno definiti da Bertin “tipi di imposizione”. Come abbiamo già accennato nei capitoli precedenti, la relazione tra le componenti, e la scelta del tipo di imposizione determinano la forma e le categorie di rappresentazione possibili. Secondo Bertin si potrà perciò avere: un diagramma, assegnando agli assi dello spazio due componenti differenti. Questo grafico potrà svilupparsi in modo rettilineo, circolare, ortogonale o polare; una rete, instaurando una corrispondenza tra gli elementi di una stessa componete. Questo grafico potrà svilupparsi in modo distribuito, rettilineo,


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P U N TO

L I N EA

SU PER F I CI E

FIG. 12.

Tre tipi di impianti identificati da Bertin. Quest’ultimi, associati con le variabili visive, offrono un’ulteriore possibilità al progettista di articolare la rappresentazione.

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circolare; 2 1 una mappa, instaurando una corrispondenza tra gli elementi di una stessa componete disposta, a differenza della rete, rispetto a un ordine geografico. Questo grafico potrà svilupparsi, spazialmente, solo in accordo con le coordinate geografiche già parte del dato. Un simbolo, nel caso particolare in cui la relazione tra gli elementi della componente non giaccia sul piano, bensì tra il lettore e l’elemento stesso. Abbiamo deciso di riportare per completezza tutte e quattro le categorie di grafici identificate da Bertin, nonostante si sia già detto che i criteri da lui utilizzate per delinearne i confini e le ragioni da lui addotte, non siano da noi condivisi. Emerge, in questa breve sintesi di Sémiologie Graphique e riflessione sulle variabili visive, come lo scopo di Bertin fosse quello di sistematizzare la pratica, definirne una grammatica, una sintassi che automatizzasse la produzione grafica e che definisse i criteri – non certo arbitrari – attraverso cui giudicare la correttezza e l’efficacia di una visualizzazione. 22 Del resto, sulle basi di questa teoria, si sono sviluppati strumenti dalle potenzialità entusiasmanti come la piattaforma online RAW, la possibilità di servirsi dell’alta convenzionalità ottenuta, prerequisito fondamentale di un linguaggio, per rendere universale l’utilizzo e la lettura dei grafici. Ha altresì avuto modo di formalizzare l’approccio, l’analisi dei grafici, stabilire quali informazioni e a quali domande una rappresentazione di questo tipo

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Nella versione originale in francese, “distribuito” è stato tradotto da “en semis” – letteralmente “in pianta” –, mentre da quella in inglese “arrangement”.

22

“Efficiency is defined by the following proposition: If, in order to obtain a correct and complete answer to a given question, all other things being equal, one construction requires a shorter period of perception than another construction, we can say that it is more efficient for this question.” Bertin, 1967 | tr. en. Pag. 9


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possa rispondere. Insomma, lo sforzo di Bertin ha apportato enormi vantaggi, sia a livello pratico, sia a livello didattico per quanto concerne l’insegnamento della disciplina della visualizzazione dati. Tuttavia, riteniamo che l’approccio del cartografo francese sia stato, allo stesso tempo, causa di conseguenze non del tutto auspicabili in ambito progettuale. Vedremo, nelle righe che seguono, come la volontà di descrivere compiutamente in un sistema chiuso le intere possibilità di rappresentazione dei dati, abbia limitato le possibilità progettuali a fronte di un linguaggio divenuto troppo rigido e vincolato, tanto da domandarci se lo svolgimento della pratica dell’info-design si possa ancora considerare progettuale – cioè traduttiva – o, all’opposto, trasposizione meccanica.

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Applicazioni e limiti

Conseguenza di quanto discusso sino ad ora è un linguaggio altamente formalizzato su entrambi i piani – espressione e contenuto –. Iper-codificato, comunicabile, duttile – ogni dato ricade in una categoria della triade; il sistema visivo, esclusi limiti percettivi, si presta a rappresentare ogni concetto descrivibile attraverso quella forma del contenuto – e universale – a una certa forma del contenuto corrisponde un limitato numero di forme dell’espressione utilizzabili –. E le mansioni del progettista si riducono a estetizzare la rappresentazione, renderla leggibile e considerare i problemi relativi al supporto su cui verrà posto.

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émiologie graphique, nonostante i vantaggi di avere formalizzato un linguaggio, ha la pretesa di conchiudere quest’ultimo in un sistema circoscritto e dalle possibilità limitate. Vittima forse di un’utopia strutturalista che intendeva il sistema di segni come indipendente dalla realtà e autosufficiente, stabile e definito, Bertin spiega ogni relazione tra dato e variabili, com-

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ponenti, impianti e imposizioni limitandone drasticamente le possibilità di sviluppo del linguaggio. Quasi paradossale per un linguaggio l’impossibilità di evolversi e di riadattarsi a quanto deve esprimere, giacché è per definizione un sistema aperto, la cui semantica poggia sulla nostra mutevole esperienza del mondo (Violi 1997). Riprendendo l’idea hjelmsleviana di linguaggio come forma, come sistema, potremmo dire che quello diagrammatico non è sufficientemente articolato: sia a livello dell’espressione sia, quindi, su quello del contenuto. Secondo Bertin, infatti, un grafico dovrebbe essere adattabile a qualsiasi set di dati, quindi duttile, universale, rappresentare fenomeni diversi per mezzo della stessa forma espressiva. Ma se a livello sintattico, questa semplicità è apprezzabile, da un punto di vista semiotico implica grossi compromessi. Privilegiando gli aspetti in comune tra i diversi fenomeni rappresentabili, la teoria non prende in considerazione le differenze tra gli stessi, le loro relazioni e le loro conseguenze, quanto insomma è significativo e rilevante per un analista o per chiunque si accinga a leggere un diagramma. Si è posta come priorità la necessità di sintetizzare il rappresentabile per renderlo governabile, gestibile e comunicabile, in maniera meccanica e più semplice possibile, ma questo ha comportato uno schematismo forzato, che ha come conseguenza una visione troppo ristretta delle possibilità di rappresentazione di un dato, e vincoli troppo serrati per consentire al progettista di trovare e ideare nuovi sistemi di visualizzazione per una comunicazione corretta. Come abbiamo già scritto, nel primo capitolo, la capacità di una lingua di dire sempre qualche cosa di più, esiste nella sua potenzialità di creare nuove forme espressive, di ristrutturare il contenuto in maniera inedita e di osservarlo da punti di vista sino a ora trascurati. L’illusione di Bertin sta proprio nel concepire e nel definire il linguaggio diagrammatico come monosemico e significativo a


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priori, definendo nella legenda il rispettivo significato di ogni elemento – ragione per cui differenzia le prime tre categorie di grafici dalla quarta, quella del simbolo –. Le parti costitutive del grafico non assumono altri significati se non quelli stabiliti nella legenda, senza considerare che attraverso il progetto consapevole di un grafico e dei suoi elementi costitutivi, è possibile costruire delle forme di rappresentazioni che sono interpretabili al di fuori del disegno che giace sul piano: la linea dell’ascissa che sta per il tempo è appropriata perché ci consente, attraverso il senso di lettura, di organizzare una grandezza ordinata per mezzo di quella determinata forma di espressione – questo, secondo Bertin, è possibile esclusivamente definendo il rapporto di significazione nella legenda –. Ma quanto ci permette di leggerla come tale, di considerarla appropriata, è la nostra capacità cognitiva di cogliere la somiglianza tra la sequenzialità del tempo e la forma della linea – punto dopo punto –. Il processo semiotico implica un interprete che completi il segno, che lo interpreti appunto, e che lo elabori rispetto a quelle che sono le sue conoscenze, la sua enciclopedia di riferimento e i processi percettivi fisiologici innati in ogni essere umano. Bertin limita all’esclusivo rapporto simbolico e arbitrario sancito nella legenda, le possibilità significative di un grafico. Discuteremo, in seguito, come quelle che Bertin aveva considerato “felici coincidenze” che soddisfacevano i principi gestaltici percettivi, propensioni essenziali delle variabili visive a rappresentare una certa tipologia di dato, altro non siano che rapporti iconici, analogici tra il fenomeno da rappresentare e il significante grafico, a riprova di come parte del processo semiotico sia compiuto in maniera indipendente all’esterno della legenda. 2 3 Nessun segno grafico può prescindere dalle variabili

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Come del resto già diceva della quarta categoria di grafici, dove la relazione semiotica era posta tra il segno e l’interprete dello stesso.

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visive da lui identificate, ma la disposizione di quest’ultime in una struttura organizzata, svincolata dalla rigidità dei tipi di imposizione da lui elencati, possono, per mezzo del rapporto analogico, veicolare informazioni inedite sul tema trattato. La psicologa Angell propose ai suoi soggetti di disegnare alcuni concetti astratti tra cui quello di matrimonio, e attraverso questi schizzi emersero interpretazioni interessanti dell’oggetto della rappresentazione: l’idea di matrimonio veniva visualizzata attraverso due forme geometriche poste simmetricamente tra loro a significare l’unione, la stabilità e l’equilibrio tra una coppia di persone. Ora, se analizzassimo questo schema con gli strumenti fornitici dal cartografo, quanto emergerebbe sarebbe esclusivamente una posizione x, y delle due figure sul piano e una ugual forma e dimensione. Si evincerebbe che le due forme appartengono a una stessa categoria associativa, per esempio, ma non emergerebbe il rapporto fondamentale di simmetria e di complementarietà ottenute dalla riflessione e dalla sovrapposizione delle stesse – quanto cioè caratterizza in maniera sostanziale il rapporto tra due coniugi –. Le proprietà quantitative quali la larghezza, la lunghezza, il numero dei lati e l’apertura degli angoli assumono un valore prioritario al fine di poterle considerare parte di uno stesso gruppo associativo, a dispetto di altre relazioni non meno rilevanti che descrivono il concetto rappresentato. Se i soggetti della Angell avessero messo in relazione asimmetrica le due figure, questo avrebbe significato molto di più che una semplice variazione di forma o di disposizione: avrebbe potuto significare, dal punto di vista di un partner, l’estensione dello stesso nell’altra figura, piuttosto che di complementarietà e di sostegno reciproco. 24

24

Allo stesso modo, come suggerisce Arnheim, la facciata di un tempio, con sette colonne, hanno un elemento centrale, che un numero pari di componenti non offrirebbe.


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Questa sorta di riflessioni, di interpretazioni, non giacciono esclusivamente nel sistema monosemico della rappresentazione, ma escono dalla stessa e, nella realizzazione di un rapporto iconico, si prestano ad essere interpretate, completate da un eventuale fruitore. Comprovato come, nella visione di Bertin, il linguaggio si esprima in un sistema chiuso e non rinnovabile di modelli di rappresentazione, in che modo la traduzione tra diversi sistemi segnici, tra cui quest’ultimo, può attuarsi? Se, presi alcuni requisiti del dato, si sa già a priori quale forma espressiva associarvi, in che modo si può definire quest’ultima come pratica traduttiva, progettuale? Sémiologie Graphique prevede una serie di corrispondenze, funzioni di determinazione da una variabile statistica a una costante grafica, che non consente altro se non una superficiale scelta di forme espressive convenzionali, banale corrispondenza e mera trasposizione. E questo allo scopo di poter agilmente rappresentare, indipendentemente dalla diversità degli oggetti da visualizzare, fenomeni sintetizzati in limitate classi di dati, cui corrispondono determinati modelli di rappresentazione e determinate variabili. In questa visione della disciplina, si preclude al designer la possibilità di esercitare la sua capacità creativa di progettare forme espressive che, non solo si predispongano a rappresentare un certo fenomeno, ma abbiano la possibilità di farlo in rispetto a una specifica pertinenza, la quale si accorda con la coerenza del messaggio della comunicazione sottesa. Ci sembra, piuttosto, che questa visione della pratica non sia più classificabile come progettuale ma come pratica meccanica, tecnica. Ecco spiegata la causa che porta il designer a progettare quanto non gli compete, a focalizzarsi su vuoti estetismi dettati dalla superficialità delle tendenze e alle conseguenze che abbiamo elencato in apertura di questa tesi. Il progettista dovrebbe mirare i suoi sforzi nel

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progettare – e talvolta inventare – forme espressive eloquenti e appropriate. Quanto ci interessa mantenere dello studio di Bertin, è la decostruzione che ha svolto sui grafici: la distinzione e la terminologia adottata per identificare le otto variabili visive, i tipi di impianto e la nozione di imposizione come utilizzo dello spazio. Questo allo scopo di capire quale sia la materia espressiva a disposizione dell’info-designer per poter progettare nuove rappresentazioni semanticamente appropriate. Conoscere quali siano gli elementi, i nodi da organizzare e tessere, al fine di poter tradurre pertinentemente un certo messaggio.

ARNHEIM, 1 9 6 9 t r. it . PAG . 24 7

È necessario, quantomeno, provare a svincolarsi dai limitati usi delle variabili, degli impianti e dello spazio, che conducono a forme espressive standardizzate e troppo distaccate dal fenomeno che devono rappresentare: Chi pensa deve controllare sottilmente le relazioni fra i suoi concetti e la materia che essi rappresentano. Senza necessariamente privilegiare a priori un sistema di espressione che garantisce il più alto grado di astrazione, considerato, per giunta, che quest’ultima non è ponderata, progettata, ma derivata da una convenzione d’utilizzo di quel suddetto linguaggio. Sia ben chiaro che i modelli di visualizzazione individuati da Bertin sono di fondamentale importanza per i motivi di cui abbiamo già parlato, relativi, per esempio, alla convenzionalità di un linguaggio, e non è nostra intenzione metterlo in dubbio. Tuttavia, è comunque importante spendersi nel tentativo di trovare nuove soluzioni espressive, inedite, e non per puro vezzo estetico, ma per il principio, già illustrato, secondo


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cui a una nuova forma espressiva corrisponde un nuovo modo di osservare un fenomeno: nelle nuove forme espressive, che ci costringono a riformulare un contenuto ormai a riposo e statico vive il germe della scoperta.

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CAP. 2 SÉMIO LO G IE GRA P HIQUE

Nonostante il lavoro di Bertin sia considerato a pieno titolo il testo di riferimento principale della pratica della visualizzazione dei dati, la sua analisi ha portato a staticizzare il linguaggio, addormentarlo nella quiete raggiunta. Nonostante piccoli margini di scelta, il progettista è relegato a essere una figura secondaria nella pratica, quando invece è più che mai necessario. Dato quanto affermato precedentemente, è sua mansione analizzare una forma del contenuto per progettare una forma espressiva adeguata e coerente. Tradurre appunto.


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CAP. 3 IL DIAG R A M M A D I P EIRC E

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Il diagramma di peirce

Inferenza e somiglianza

Testo introduttivo e spiegazione di cosa è l’analogia: Tema e Foro, un rapporto a quattro termini. Analogia come base del ragionamento, materia dell’inferenza. Questo capitolo predispone a cogliere appieno quanto verrà sostenuto nei capitoletti successivi.

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CAP. 3 IL DIAG R A M M A D I P EIRC E

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L’A NA LO G IA

L’a n a l o g i a

Definizione dell’analogia. Testo introduttivo sulla sua logica: il tema e il foro, un rapporto a quattro termini.

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elle righe precedenti abbiamo ricorso frequentemente al termine “analogia” per descrivere la relazione che sussisteva tra gli elementi del diagramma e quanto rappresentava. In questo capitolo che andiamo introducendo, verrà analizzato più in particolare questo rapporto analogico e la sua logica, reputando questa nozione essenziale al fine di comprendere il principio semantico che soggiace alle rappresentazioni diagrammatiche. Molto semplicemente, come suggerisce peraltro l’etimologia della parola, analogia la possiamo tradurre come proporzione, rapporto di uguaglianza tra più termini. Aristotele, tra i primi, sintetizzò la forma dell’analogia in un rapporto a quattro termini da cui, peraltro, è derivato lo stesso nome che la caratterizza. Tuttavia, come dice Eco, questa equazione addotta a spiegazione dell’analogia illustra esaustivamente il principio che s’instaura tra le simmetrie delle due coppie di termini, ma non spiega in che modo, da un punto di vista semantico, questa equazione si attui. Anche in questi termini, l’immagine che Aristotele usa per tradurre l’analogia ci pare appropriata. Supponiamo un caso dove si dia che 1 è a 2, come 2 è a 4: l’avverbio

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CAP. 3 IL DIAG R A M M A D I P EIRC E

che congiunge la prima parte della relazione con la seconda esplicita una similarità, ma ne sottintende solamente l’entità di quest’ultima. 1 è a 2, come 2 è a 4, dove il secondo termine è doppio del primo, e in virtù del principio di doppio, l’equazione sussiste. Nonostante l’uguaglianza venga resa nota nel segno “=”, la relazione tra le due coppie che permette l’analogia viene sotteso. Allo stesso modo, su un piano semiotico, è arduo comprendere il processo attraverso cui si scoprano analogie tra le cose senza ricorrere a nozioni extra-disciplinari. E questo nonostante, a livello cognitivo, la sua interpretazione come la sua produzione, ci sia data in maniera diretta. In che modo ci può essere relazione, analogia tra un fulmine e un pugile? Eco la descrive come una sorta di cortocircuito della semiosi, un fatto neurologico che è dimostrabile solo al di fuori dei confini della semiotica: la spiegazione va ricercata nella circostanza dell’enunciazione, nella pragmatica, nelle figure convenzionalmente poste da un linguaggio etc. etc., ma è pressoché impossibile, in termini esclusivamente semiotici e logici, spiegare nella sua completezza in che modo si riesca a estrarre così agilmente dalla relazione di uguaglianza, il rapporto di doppio che accomuna uno e due a due e quattro. Infatti, benché ci appaia scontato come un pugile sia associato a un fulmine, da un punto di vista della semiotica il nesso non è altrettanto chiaro: oltre alla proprietà della velocità nel colpire o nel muoversi condivisa dai due, convenzionalmente posta, un pugile e un fulmine potrebbero condividere gli effetti devastanti che una loro azione causerebbe sulla faccia – di un suo avversario o della terra –. Il rapporto di doppio, unica relazione plausibile che accomuna le due sezioni divise dall’uguale, si moltiplica allora in un’intrecciata trama di interpretazioni possibili ed equivalenti che non trovano altra soluzione se non nelle convenzioni comunicative, nella pragmatica e nei processi fisiologici.


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Al di là della complessità logica attraverso cui descrivere il meccanismo dell’analogia – motivo per cui, secondo i più, non è mai stata studiata in funzione di una eventuale finalizzazione della stessa – in più frangenti della nostra ricerca ci siamo resi conto di come questa nozione, divenuta teoria in Peirce, si presentasse elegantemente come chiave di lettura, spiegazione, fulcro e origine di ogni sorta di rappresentazione diagrammatica e, più in generale, della nostra attività inferenziale. Si è rivelato dunque essenziale dedicarvi un’ampia sezione del nostro lavoro, illustrando in che modo il rapporto di analogia si presenti di per sé finalizzato alla visualizzazione dei fenomeni per mezzo di diagrammi. Come dice Hofstadter, pensiamo per schemi astratti che possono stilizzare il moto di una persona, l’improvviso apparire di un fulmine e l’altrettanto rapida velocità con cui scompare, il movimento di una foglia in caduta e la rotondità della luna. Insomma qualsiasi cosa si presti a essere percepibile, e quindi astraibile. Su questa premessa, che vede ogni oggetto riconducibile a elementi più semplici e generali, più “leggeri” diremmo per collegarci a quanto già argomentato precedentemente, si fonda ad esempio una basilare distinzione di Freud che accomunava, nell’immagine onirica, tutti gli oggetti concavi da un lato, e tutti gli oggetti convessi da un’altra in riferimento agli organi riproduttivi. Quelle che, secondo lui, si presentavano come immagini nei suoi pazienti, erano icone nell’accezione peirciana del termine, espressioni generate per mezzo di un soggiacente rapporto di analogia tra le stesse e alcune proprietà del contenuto per cui stavano. Emerge, allora, che nei casi qui proposti come nella rappresentazione diagrammatica, la leggerezza è funzionale all’attuazione dell’analogia, meglio, l’analogia si attua nella leggerezza dell’astrazione: affinché si possa giungere a formulare la frase “quel pugile è un fulmine”, è logicamente implicito che, di queste due entità, siano state prelevate, distillate, sintetizzate alcune caratteristiche analoghe tra loro, ugualmente, nella rappresentazione dia-

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grammatica che si pone come obiettivo quello di rappresentare determinate caratteristiche di un fenomeno, il disegno viene spogliato di quanto è ritenuto superfluo alla comunicazione dello stesso. A ben vedere, tutti gli elementi dei grafici e la loro natura segnica si rifanno a una relazione di tipo analogica con quanto corrispondono nonostante, in apparenza, il rapporto tra espressione e contenuto sembri posto arbitrariamente, simbolicamente. Approfondiremo questo aspetto dei grafici nei capitoli successivi.

ZINGALE , 2 006 PAG . 68

Riprendiamo la chiara spiegazione proposta da Zingale per definire con chiarezza cosa sia l’analogia. Come già accennato poco sopra, l’analogia è una proporzione tra quattro termini a : b = c : d dove la prima coppia è chiamata da Perelman tema, mentre la seconda foro. Il tema non è uguale al foro, ma ha alcune proprietà in comune con il foro. Sulla scia di altri studiosi, Perelman precisa poi che fra tema e foro non vi è una relazione di somiglianza bensì una somiglianza di relazioni. Fra tema e foro deve così crearsi una tensione segnica che va ben oltre la somiglianza. Relazione tra relazioni, esattamente come nell’esempio matematico proposto a inizio capitolo, dove la relazione di doppio è quanto analogo, quanto accomuna la relazione tra 1 e 2, e tra 2 e 4. Ugualmente, nel caso del “pugile fulmineo”, come si comporta il fulmine in una certa circostanza, allo stesso modo lo sportivo: formalizzando la proporzione avremmo pugile : colpire l’avversario = fulmine : scaricare al suolo. Il foro svolge la funzione di illuminare, interpretare ed esaltare la peculiare velocità, fulmineità appunto, del pugile: ne diviene segno. Ma non solo: l’analogia tra lo sportivo e il fulmine appare appropriata per quelle che sono altre caratteristiche, secondariamente poste, che le due entità condividono ma che non erano, almeno


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L’A NA LO G IA

A : B = C : D F ORO

TEMA

FIG. 13.

Modello aristotelico della proporzione analogica.

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CAP. 3

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inizialmente, state prese in considerazione. La caratteristica di avere effetti devastanti su chi subisce un’azione da parte del fulmine, o del pugile, è “scoperta” a posteriori nell’apertura dell’analogia, del confronto solo apparentemente concluso. La molteplicità di somiglianze e di dissomiglianze messe a confronto nell’asserto “quel pugile è un fulmine” si esemplificano nella forma della proporzione a quattro termini, sebbene la “relazione tra relazioni” si instauri, potremmo dire, tra un array, una matrice di significati connessi ai due sostantivi: l’incredibile quantità di energia sprigionata dal fulmine – e dal pugile –, le qualità fisiche che descrivono il lampo, e quelle che descrivono il contrarsi dei muscoli dello sportivo e via discorrendo. Inevitabilmente, in questa complessità di proprietà, di caratteristiche a confronto, si crea un’instabilità che chiede di essere risolta, acquietata, che attiva l’interpretazione. 25 L’analogia è motore d’inferenza, di ragionamento, almeno fin quando non diviene accettata, convenzionalizzata e perciò sedata come, forse, direbbe Eco. Chiusa a ogni sorta di interpretazione, come nel caso delle catacresi risolte da un’analogia: “profondità del pensiero”, “gamba del tavolo”, “filo del discorso”, … . Sosterremo, nei capitoli che seguono, come la comprensione del rapporto analogico non solo ci permetterà di comprendere

25

Quando Munari sosteneva che “Il più grande ostacolo alla comprensione di un’opera d’arte è quello di voler capire” sbagliava: è l’apertura alla lettura, alle diverse interpretazioni, la sua “densa instabilità” che la rende opera d’arte. È quanto stimola una volontà a comprenderla e a leggerla, è quanto attiva un processo semiotico che la eleva ad arte. Esattamente come un’analogia chiede di essere risolta, sviscerata, interpretata nelle diverse soluzioni possibili, dando adito a conflitti – dissomiglianze – e armonie – somiglianze – tra i termini a confronto. Come una serie di file di magneti, alcuni dei quali, avvicinatisi, si richiamano, mentre altri si respingono a seconda della loro polarità. E l’energia sprigionata è carburante semiosico.


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meglio la relazione e la natura segnica degli elementi dei grafici, ma ci consentirà, in egual misura, di capire in qual modo un ripensamento dell’analogia su cui si costruisce un diagramma possa apportare un vantaggio alla rappresentazione stessa, ai messaggi che pone in evidenza e alla possibilità di strutturare una comunicazione coerente con il messaggio da tradurre. Assodata la natura analogica tra i diagrammi e quanto rappresentano proveremo come, per conseguenza diretta, il diagramma possa sostanzialmente incorporare gli stessi vantaggi che l’analogia, posta nella sua forma più astratta, nella sua essenza di relazione, di somiglianza, comporta.

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Il pensiero analogico

L’Analogia è motore di conoscenza, di visualizzazione, quindi di comprensione. Quello qui definito “pensiero analogico”, si sostiene, è presente in maniera preponderante nei processi inferenziali, in ogni pratica del quotidiano che ci pone dinanzi a un problema.

na tesi proposta recentemente da Hofstadter suggerisce come, abitualmente, risolviamo situazioni problematiche interpretandole in funzione di quanto abbiamo già vissuto. Parla esplicitamente di “pensiero analogico” nel senso che, in differenti situazioni in cui ci troviamo ad agire, rileviamo gli elementi analoghi tra quest’ultime e quanto abbiamo già esperito, già risolto, al fine di ottimizzare le risorse mentali impiegate nell’interpretare e nell’analizzare un nuovo ostacolo che la quotidianità ci pone dinanzi. Il vantaggio è evidente. Ma già Arnheim prima di lui sembrava aver intuito in cosa consisteva questo “pensiero analogico”, nonostante non lo abbia mai trattato nei termini di un chiaro e definibile movimento dell’intelletto. Proponiamo una sua osservazione: Quando non vi sono oggetti presenti, essi sono sostituiti da una qualche forma di immaginazione. Tali immagini non occorre sia-

A RNHE IM, 1 9 6 9 t r. it . PAG. 13 4

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no repliche fedeli del mondo fisico. Si consideri l’esempio seguente tratto dai sogni ad occhi aperti di Silberer. Nello stato crepuscolare di assopimento, egli riflette sui giudizi “transoggettivamente validi”: possono i giudizi essere validi per tutti? Ve ne sono alcuni che non lo siano? E in quali condizioni? Ovviamente non vi è altro modo di cercare le risposte che quello di esplorare pertinenti situazioni di verifica. Nella mente del pensatore appisolato ciò suscita subitamente l’immagine di un grande cerchio o di una sfera trasparente nell’aria, circondati da persone le cui teste penetrano entro il cerchio. Si tratta di una visualizzazione notevolmente schematica dell’idea sottoposta a ricerca, ma di una visualizzazione che ne rende pure metaforicamente tangibile il tema strutturale fondamentale: il fatto che tutte le teste si trovino in un campo comune, l’esclusione dei corpi da tale comunità, e così via. Si tratta, in un certo senso, di un modello di lavoro. (…) La simmetria concentrica delle figure convergenti è una rappresentazione semplice, chiara ed estremamente economica dei giudizi condivisi, e viene prodotta senza la minima preoccupazione di quanto sia fattibile nello spazio concreto. (…) Questa immagine è strettamente funzionale nei confronti dell’idea che incarna. Già il fatto che utilizzi il termine “metafora” è abbastanza indicativo di come stesse pensando a un rapporto analogico tra quanto Silberer stesse pensando e la forma che questa sua idea abbia preso. Inoltre, lo psicologo tedesco, nello stesso testo da cui abbiamo estrapolato la citazione sopra riportata, propone una serie di esempi, di situazioni, il cui rapporto analogico tra le immagini mentali e ciò per cui stanno è crescente e sempre più lampante. Cita, prima di tutti, un esperimento svolto da Galton il quale, intervistando un membro della Royal Society, constata che l’immagine mentale prodotta dal test quando pensa alla sequenza di numeri da zero a cento, è una struttura a ferro di cavallo sulla quale viene ordinata la suddetta sequenza; a seguire porta ad esempio l’immagine che Titchener associa alla


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parola “ma” – tra l’altro ripresa a esempio anche da Hofstadter –, attribuendola ai tratti che caratterizzavano una persona che a una conferenza ne faceva largo uso. Successivamente, passa ad analizzare altre situazioni dove Silberer sintetizza attraverso l’immagine di piallare un pezzo di legno, quella di migliorare un passo di un brano che stava scrivendo e, per finire, riporta quella sopracitata sperimentata dallo stesso Silberer. Se, nel primo caso, il parallelismo tra la forma a ferro di cavallo e la sequenza di numeri da zero a cento pare non sussistere, nel terzo esempio proposto, “la metafora” – così da lui chiamata – appare più giustificata: piallare il legno, renderlo piacevole al tatto come ripensare il passo di un brano per renderlo più orecchiabile. E nell’ultimo caso, proposto nella citazione iniziale, oltre a mostrare una spiccata analogia strutturale tra il fenomeno e la rappresentazione, l’immagine mentale offre una descrizione che è addirittura funzionale: base da cui partire per formulare nuove inferenze, scoprire nuove congruenze tra il “diagramma” e la questione che si stava svolgendo. Ci sembra legittimo leggervi, in questa catena di esempi, il principio secondo cui, in una certa misura, alla generazione di un’immagine mentale soggiaccia un rapporto di analogia tra la stessa e il fenomeno in oggetto. Benché nel primo caso non sia identificabile alcun rapporto di somiglianza tra la sequenza di numeri da zero a cento e una sua disposizione su una forma a ferro di cavallo, questo non toglie che esso possa comunque sussistere più intimamente: non è da escludere, infatti, che rappresenti la sequenza di numeri nel tal modo perché al momento in cui l’ha appresa, i numeri siano stati pronunciati con tono ascendente fino alla metà della serie, e con tono discendente fino a cento, questo per enfatizzare l’idea di “metà”, “il giro di boa”, “il picco ormai raggiunto di una montagna che ora è da discendere”. Da qui una configurazione topologica crescente che ordina i numeri fino a cinquanta, per poi discendere simmetricamente presentando allo stesso modo i restanti numeri fino a cento.

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Non potremmo mai sapere se questo sia realmente accaduto, e probabilmente riguarderà un’esperienza che non fa più parte dei suoi ricordi accessibili. Comunque, come riportato nell’esempio di Titchener, la sua esperienza legata alla parola “ma” presenta dei rapporti di somiglianza tra il carattere di barriera rivestito da “ma”, e quello del parlatore visto di spalle, con la sua massiccia schiena nera, cioè rapporti che fanno riferimento a una esperienza vissuta singolarmente e non di certo di dominio comune, nonostante la parola “ma” si possa dire veicoli un significato condiviso di opposizione, di contraddizione. Infatti, in questo caso come eventualmente in quello precedente, resta comunque presente il rapporto di analogia sotteso da questa associazione, seppur non sia collettivamente condivisibile e comprensibile. Per quanto riguarda invece gli ultimi due casi presentati, i rapporti che s’instaurano tra il fenomeno e l’immagine che veicolano sono evidenti e presentano una relazione analogica piuttosto chiara. Secondo Hofstadter il pensiero analogico si attua costantemente. Potremmo definirlo come un algoritmo che ci permette di ottimizzare gli sforzi nel risolvere le questioni che quotidianamente ci si presentano:

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← H OFS TADTER , 2 01 3 PAG. 1 0 ← 26

Se si va alla loro ricerca, le analogie saltano fuori in ogni dove. Questo vale specialmente per l’uso di parole che etichettano nuove situazioni, 2 6 poiché l’etichettare qualcosa implica l’ignorare i suoi dettagli, che sono senza fine, e il rimpiazzarlo con una cosa analoga astratta.

La “profondità del pensiero” non fa riferimento a una vera e propria profondità fisica dello stesso ma, riprendendo un concetto basilare quale la tridimensionalità dello spazio, e quindi la sua derivata caratteristica di essere molto o poco “profondo”, si presta a divenire interpretante di una particolare proprietà del pensiero che, di fatto, non è descrivibile in altri termini.


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Indipendentemente dal fatto che un’analogia possa essere largamente comprensibile – come nel caso del legno piallato –, piuttosto che realizzabile dal singolo cui vi associa un’esperienza soggettiva – come nel caso di Titchener e della parola “ma” –, resta uno tra i principali strumenti di conoscenza dell’uomo: l’analogia è processo per cui si rende possibile il dare forma a un concetto altrimenti amorfo. La rappresentazione diagrammatica è l’espressione più genuina, più “tipica” di questa sorta di sintesi che è alla base di questo pensiero analogico: ciò che l’abilita e ciò che la realizza. Abbiamo già ribadito come alla base dell’analogia ci sia un’astrazione che permetta di privilegiare quanto necessario in una data situazione. E quest’astrazione, nel diagramma, procede in due direzioni: nel contenuto da visualizzarsi, certo, ma anche nei mezzi espressivi a esso corrisposto. Area, linea, punto sono, nel linguaggio diagrammatico, forme espressive teoriche, pure: sono entità astratte appunto – il punto, nella realtà sensibile, avrà sempre una certa superficie, allo stesso modo la linea avrà un certo spessore e una certa irregolarità –. Al contempo, uno stesso processo di astrazione coinvolge i contenuti i quali, in una corrispondenza isomorfica, si rendono accessibili nei diversi impianti, nei diversi tipi di imposizione, nelle diverse variabili visive, in una corrispondenza diadica indissolubile che costituisce l’essenza del segno. La rappresentazione risultante è essa stessa soggetta a confronto, a paragone verso ciò che gli è consimile – o dissimile –, in una ricorsività per cui il risultato di un processo diventa a sua volta il punto di partenza per una nuova ipotesi di analogia, di comparazione. L’analogia è quanto ci consente di strutturare un pensiero, un modello, e anche quanto ci permette di leggerlo, di interpretarlo e di confrontar-

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lo. Questo processo è, dunque, sia antecedente, sia posteriore alla rappresentazione stessa. 27

ARNHEIM, 1 969 t r. it . PAG . 1 3 7 ← M AR IA NI, 2 0 1 0 PAG . 10 5 ← 27

Arnheim osserva come ci sia stata molta diffidenza nell’accettare come l’immagine potesse essere il medium attraverso cui il pensiero si attuasse, tuttavia, riconosce anche come questa diatriba sia in parte imputabile a un fraintendimento di base, a livello terminologico, del termine “immagine”. Il livello di astrazione che caratterizza le immagini non è discriminante nel definirle tali, eventualmente lo sarà nel riconoscerle come schematiche – non-mimetiche – o realistiche – mimetiche – ma pur sempre immagini restano. Le immagini evocate da parole come cappello o bandiera possono essere ragionevolmente concrete, mentre la soluzione di problemi teorici, nella maggior parte dei casi, esige configurazioni altamente astratte, rappresentate da figure topologiche e spesso geometriche nello spazio mentale. (…) Queste immagini possono essere comunissime, e anzi indispensabili per qualsiasi mente pensi pensieri generici ed abbia bisogno della generalità di forme pure per poterli pensare. “Sono incline a credere – ammise Ribot – che la logica delle immagini sia il motore primo dell’immaginazione costruttiva”. E proprio in queste immagini, in questa tipologia di rappresentazione che si rifà alle forme pure, astratte, schematiche, diagrammatiche, si mostrano nel modo più esemplare gli strumenti del pensiero costruttivo, del ragionamento: quanto libera la razionalità dalla cancrena che consegue al mantenimento acritico di ogni status quo.

L’analogia si attua perciò per mezzo della – e nella – leggerezza, nell’astrazione sia delle forme espressive utilizzate, sia del contenuto su cui volgiamo la nostra attenzione.


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In questo affascinante scenario dove i contenuti domandano, necessitano un’icona, una rappresentazione analogica per poterli visualizzare, comprendere, e costituiscono le basi su cui appoggiarsi per formulare un’ulteriore inferenza, una nuova ipotesi, si radica la legittimità del designer – o dell’artista come direbbe Arnheim – a prendere parte nel processo traduttivo dei concetti astratti. L’analogia diviene strumento per eccellenza del progettista-traduttore, quindi dell’info-designer.

Il diagramma, come vedremo, è frutto di questo processo cognitivo che sintetizza/economizza caratteristiche pertinenti e le relaziona in rapporto di somiglianza con il referente.

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Le analogie dei grafici

Progettare nuovi diagrammi significa progettare nuove analogie: ristabilire nel disegno un nuovo rapporto di somiglianza tra il fenomeno rappresentato e il diagramma stesso.

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Diagrammi icona

Ogni diagramma si fonda su un rapporto analogico. L’analogia è quindi il M. C. D. tra i grafici, in quanto vero e proprio fulcro e motore della rappresentazione diagrammatica. Peirce classificò i diagrammi nella classe dei segni iconici, accomunati da un rapporto di somiglianza, e questa sua categorizzazione è per noi garanzia della legittimità a considerare l’analogia come elemento principale dei diagrammi.

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ertin, lo abbiamo già visto nel secondo capitolo, stabilisce che la relazione che si instaura tra i segni di un grafico e ciò per cui stanno è simbolica, arbitraria. Il rapporto che lega le due facce del segno, secondo il cartografo, è definito unicamente nella legenda, precludendo la possibilità di indagare ulteriormente la natura del segno nella rappresentazione grafica. Riconosce un momento storico preciso in cui la rappresentazione si emancipa da quanto l’occhio percepisce per disegnare quanto è più astratto, pura relazione: sino al diciottesimo secolo, le rappresentazioni si basavano su un’analogia piuttosto intuitiva da comprendere e, di questo, è conseguenza il fatto

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B ERTIN, 1 9 6 7 t r. en . PAG. 58

che la cartografia e le rappresentazioni figurative fossero largamente impiegate rispetto invece ai diagrammi – almeno secondo Bertin –. Lo spazio di una mappa geografica sta al foglio, come lo spazio rappresentato sta a quello reale:

← IVI, PAG . 2 86

The reader is invited to perceive the sheet of paper, not as a medium, but as a geographic space. The surface of the paper signifies the surface of the earth; an excellent analogy, since space is utilized to signify space. Ancora: The transcription of a space – geographic – onto a space – sheet of paper –, has made the map the simplest, the most comprehensible – and thus the most ancient – of graphic representation.

← I VI, PAG . 5 8

Con De fourcroy, nel ‘700, si scoprono nuove potenzialità di utilizzo dello spazio, laddove la sua bidimensionalità consente di concretizzare concetti astratti, “non appartenenti allo spazio visibile”. Il Tableau Poléométrique fa capo a un elevato livello di astrazione del fenomeno che rappresenta, e i suoi elementi costitutivi sembrano di fatto avere natura prettamente simbolica, a differenza del precedente stato della cartografia il quale, invece, faceva riferimento a un più semplice rapporto di somiglianza: in che modo la superficie di Napoli assomiglia a un rettangolo regolare, di determinate dimensioni e di determinato colore? Il grafico è effettivamente comprensibile per mezzo della legenda posta a spiegazione del diagramma. Tuttavia, in un passo di Sémiologie Graphique si accorge lui stesso di come, alla base di una rappresentazione diagrammatica soggiaccia, come nel caso delle mappe, una ugual relazione analogica solo più difficilmente accessibile, più astratta: Perhaps this explains why figurative representation and cartography were used several millenia earlier than the diagram, whose analogies imply a higher degree of abstraction.


M O NS NA PO L I

MIL ANO

CA L A I S

ROMA

B O RD E AU X

V E NE Z IA

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S . P IETRO BU RGO

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B OLOGNA

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V IE NNA

PA R I G I

LO NDRA

FIG. 14.

Semplificazione del più complesso lavoro di Charles de Fourcroy: Le Tableau Poléométrique. In questo diagramma le città sono rappresentate per mezzo della variabile dimensione che corrisponde all’area coperta dai relativi centri abitati: maggiore la dimensione della superficie del poligono = maggiore la superficie della città.


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P EIRC E , 19 0 6 - in S TJE RN FE LT, 2 0 0 0 PAG. 36 5

Sostenere che i grafici siano “monosemici”, simbolici pur affermando che hanno natura analogica è contraddittorio: il rapporto analogico è distintivo del segno iconico, della somiglianza tra lo stesso e quanto per cui sta, e non a quello della regola, dell’idea convenzionalmente posta, del simbolo. In realtà la questione è più complessa, e come vedremo, una rappresentazione diagrammatica si compone, per certi aspetti, di caratteristiche più tipicamente simboliche mentre, per altre ragioni, è più associabile al segno iconico. Peirce, dal canto suo, non esita a parlare di diagramma-icona collocandolo come sottocategoria di questa classe di segno assieme alle immagini – primo gruppo – e alle metafore – terzo gruppo –. Tutte queste sub-categorie dell’icona sono accomunate dal rappresentare “similmente” alcune particolarità dell’oggetto per cui stanno, ma se le immagini si caratterizzano per mostrare solo alcune qualità di esso, le metafore per rappresentarlo per mezzo di similarità riscontrate “altrove”, il diagramma, invece, è quanto si limita a mostrare in una rappresentazione schematica – skeleton-like – le sue relazioni. Approfondiamo la questione, così cruciale ai fine della nostra argomentazione. Il diagramma, dunque, è quanto ci consente, attraverso una rappresentazione schematica, di mostrare le pure relazioni che sussistono entro e al di fuori di un oggetto: The diagram represents a definite form of relation. This relation is usually one of which actually exists, as in a map, or is intended to exist, as in a plan. (…) If details are added to represent existential or experimental peculiarities, such additions are distinctly of an un-diagrammatic nature. The pure diagram is designed to represent and to render intelligible, the form of relation merely. Un diagramma ad albero mostra, nella sua forma espressiva, una relazione reale altrimenti difficilmente accessibile che sus-


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siste, supponiamo, tra un padre e un figlio, tra un individuo e i suoi fratelli, i suoi zii, i suoi avi. Il disegno è costruito, strutturato in maniera isomorfica rispetto al contenuto che rappresenta, evidenziando in un rapporto di similarità le relazioni di parentela, di discendenza che esistono nella stirpe di ogni essere vivente: la forma della visualizzazione si è costituita in un rapporto analogico con ciò per cui stava, indipendentemente dalle convenzioni stabilite a posteriori per vincolare la lettura del grafico a uno specifico fenomeno, e sugli elementi grafici utilizzati per realizzare il diagramma. Il momento aurorale di qualsivoglia diagramma è iconico. La superficie di Napoli espressa dal poligono regolare, non pertinentizza di certo la morfologia della città campana, ma si trova comunque in rapporto analogico con l’area delimitata dai suoi confini: tanto vasta la superficie di quest’ultima, tanto grande la dimensione del rettangolo. La linea di un istogramma che esprime la densità della popolazione in una certa regione si fonda su un semplice rapporto di analogia: all’accrescere della densità, un equivalente incremento nell’altezza y della linea gli sarà corrisposto. Da questi esempi proposti emerge, allora, come le stesse variabili visive elencate da Bertin si articolino in realtà sullo stesso rapporto di analogia – al pari della struttura del modello, come quello ad albero sopra proposta a titolo d’esempio – : dimensione, posizione sul piano fanno infatti parte delle otto variabili visive. Un altro esempio: immaginiamo di dover distinguere sulla mappa di una città gli istituti professionali e i licei. In accordo con le direttive proposteci dal cartografo francese, scegliamo di utilizzare la variabile del colore per distinguere queste due categorie di scuole, l’una verde e l’altra rossa: nonostante questi due colori possano essere stati scelti a pura discrezione del progettista, la relazione analogica in questo caso sussiste nel valore opposizionale che i colori, al pari delle diverse scuole, condividono. Rosso, non verde; istituto professionale, non liceo. Quanto sancisce il fatto che il rosso significhi un istituto professionale è

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stabilito da una regola, certo, che poco condivide con un’icona. Ugualmente, il diagramma ad albero è un modello versatile che potrebbe rappresentare benissimo l’evoluzione e la frammentazione delle lingue inizialmente appartenute a un più limitato numero di ceppi, ma alcuni elementi para-testuali e le indicazioni della legenda non lasciano adito a confusione: il simbolo fissa le regole d’interpretazione dell’artefatto. Nonostante ciò, lo abbiamo detto, riteniamo che l’origine di ogni diagramma sia sostanzialmente analogica. In accordo con un’altra osservazione di Peirce, il diagramma è segno iconico nella misura in cui quest’ultimo si predispone – e ci predispone – a effettuare una serie di modificazioni sullo stesso, allo scopo di ipotizzare configurazioni alternative di un fenomeno, allargarne la comprensione, adoperarlo finalizzandolo alla risoluzione di una nostra situazione problematica, semplicemente “manipolando” gli elementi fornitici dallo stesso. 2 8 Stjernfelt, sull’ipotesi secondo cui, appunto, le icone, i diagrammi permettono e inducono una serie di sperimentazioni sulle loro sub-parti, si spiega in maniera molto pragmatica illustrando, attraverso un esempio, cosa Peirce abbia voluto dire in concreto: nella celeberrima mappa della tube di Londra progettata da Beck, riconosce un diagramma iniziale – schema, transformand – che comprende l’intera rete metropolitana sotterranea, le relazioni tra le varie linee, il numero di fermate e l’orientamento delle diverse linee i cui punti costitutivi potevano trovarsi al di sopra o al di sotto del Tamigi: il diagramma nella sua completezza che include e prevede una relativa gamma di utilizzi. E proprio da questa serie di utilizzi possibili si possono non solo rilevare informazioni concernenti l’architettura della rete o l’estensione della me-

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Anche in questo senso il diagramma è uno strumento euristico, strumento di conoscenza.


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tropoli, ma anche dedurre conclusioni di altra natura: la manipolazione del diagramma rende quest’ultimo uno strumento fondamentale per permettere l’uso stesso della rete metropolitana – transformate –. Comprendere quale possa essere la via più breve tra due fermate, per esempio, ipotizzare la via più veloce tra due stazioni considerando il numero di fermate tra un punto A e un punto B. Può persino prestarsi a supporto per il progetto di una nuova linea metropolitana che connette due punti periferici e poco collegati della rete, arrivando a prendere in considerazione qualche cosa che il diagramma ancora non esprimeva, se non sotto forma di mancanza. Ogni diagramma, nella sua forma, nel suo progetto, mette a disposizione di chi ne farà uso, sia esso un lettore relativamente disinteressato o un’analista, una serie limitata di strumenti per comprendere e interpretare ciò per cui sta. 29 Lungi da noi l’idea che una visualizzazione possa rappresentare oggettivamente un fenomeno, e assodato, nei capitoli precedenti, che questo fenomeno possa essere descritto rispetto a infinite caratteristiche che lo contraddistinguono, deduciamo, allora, che quanto muove il designer a prediligere una certa soluzione rappresentativa, una certa forma espressiva, è l’intenzione d’uso che un utente tipo potrà avere, il messaggio che quel diagramma dovrà veicolare. Un grafico rende pertinenti certi aspetti di un fenomeno – gli stessi che si presume saranno rilevanti a un eventuale fruitore – e la scelta di queste proprietà influenzerà inevitabilmente anche le azioni che sarà possibile svolgere sul grafico, oltre che inficiare la sua possibilità di suggerire nuove configurazioni della realtà. Il progetto della forma espressiva è la variabile che maggiormente determinerà la buona riuscita di una traduzione visuale, e questa è a sua volta determinata

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“Different map types may be described simply with reference to which types of experiments they allow.” Stjernfelt, 2000 | Pag. 374

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da un’analogia iniziale tra il disegno e il fenomeno che rappresenta. L’astrazione che caratterizza il linguaggio diagrammatico – ma che comunque sussiste in ogni sorta di icona, più o meno mimetica: La differenza tra le forme mimetiche e quelle non mimetiche, per quanto plausibile a prima vista, non è che una differenza di grado. – è quanto ci consente di manipolare un insieme limitato, accessibile e assimilabile di variabili a descrizione del fenomeno. Ciò che un diagramma ci permette di fare, di estrapolare a livello informativo è rilevante se visto in virtù dei ragionamenti e delle scoperte che può generare. L’intenzione iniziale condiziona la forma, l’analogia su cui un diagramma deve costruirsi. Rispetto a quale pertinenza si deve pensare un diagramma affinché ne esprima quanto davvero è rilevante ai fini del discorso? Quale pertinenza, proprietà consente a un’analista di leggere nella rappresentazione del fenomeno quanto ancora non è stato detto o scoperto? Quale forma espressiva permette un certo tipo di sperimentazione, di manipolazione del diagramma affinché quest’ultimo possa evolvere e articolare la percezione che si ha dello stesso? Quale aspetto del fenomeno necessita di essere visivamente privilegiato affinché venga letto, interpretato rispetto a una sua specifica peculiarità? Lo ribadiamo ancora una volta: l’analogia è fulcro iniziale del diagramma – quanto realizza un concetto in una forma e quindi in una sostanza espressiva –, quanto lo rende efficiente e lo finalizza ai diversi usi sopra proposti, quanto interpreta in una certa accezione e concretizza un certo contenuto. E proprio su questo momento embrionale della visualizzazione il progettista deve focalizzarsi: nessun segno grafico può prescindere dalle variabili visive di Bertin, ma la comprensione della relazione iconica che sussiste tra il disegno e il fenomeno che si realizza fuori dal foglio, non solo tutela la correttezza semantica della visualizzazione, ma diventa materia su cui nuove inferenze prenderanno avvio. Indagare l’analogia alla base di ogni diagramma può rappresentare una priorità distintiva di


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una nuova metodologia nel progetto dei grafici: per garantire una certa coerenza tra il disegno e ciò che si vuol comunicare, per assolvere le funzioni per cui il diagramma è stato realizzato e anche per svincolarsi da modelli standardizzata che determinano a priori una forma di rappresentazione generica per un particolare contenuto. Il designer deve focalizzare i suoi sforzi nel progettare le nuove forme espressive di Garroni, nuove traduzioni, e la fertilità dell’analogia può dimostrarsi un buono strumento per emanciparsi dalla sterilità della trasposizione visiva in modelli rigidi e standardizzati.

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Diagramma e convenzione

Il diagramma si basa, come detto precedentemente, su un rapporto analogico. Ma molti linguaggi, diagrammatici e non, presentano comunque tratti che giacciono piuttosto sulla relazione che Peirce chiamerà simbolica – quindi convenzionale –. Ogni diagramma si riconosce, in percentuali diverse, sia nella classe del segno simbolico, sia nella classe del segno iconico.

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i sembra opportuno, per certi versi, paragonare l’analogia che regge i modelli diagrammatici tipicamente usati con quella che, nei capitoli precedenti, è stata descritta come un’analogia che risolveva casi di catacresi – Eco, 1984 –, nella fattispecie: “gamba del tavolo”. L’equazione è proposta da Eco come segue: la gamba sta al corpo come un oggetto innominato sta al tavolo. Evidentemente, nel caso in cui l’analogia ha colmato la mancanza linguistica, è stata trovata un’affinità, una somiglianza tra la gamba del tavolo e il nostro arto inferiore le quali, entrambi, assolvono la funzione di sostegno. Ma se nel momento in cui il rapporto è stato scoperto il confronto era vivo, fertile, nel contrasto generato dal paragone di due oggetti appartenenti a due campi semantici differenti e nelle somi-

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glianze che accomunavano e attraevano questi due oggetti, oggi che il sintagma è divenuto linguaggio, associazione convenzionalizzata, non lo si può considerare ugualmente aperto, inconcluso, instabile. Prerogative che abbiamo sostenuto essere motore della semiosi. L’analogia non è più percepita come tale, ma si è spenta nella convenzione, nella norma del linguaggio. Ci piacerebbe pensare che Aulenti, mentre disegnava il suo Tavolo con ruote avesse indagato preliminarmente, a livello puramente verbale, i semi che potenzialmente una gamba del tavolo avrebbe potuto condividere con quelli dell’arto, riscoprendo come, oltre alla qualità di “sostegno”, anche la qualità “dinamico” era incorporabile nella gamba del tavolo, progettando un tavolo dai sostegni mobili, al pari dei nostri arti. Certo, sarebbe ideologico ritenere che il successo del Tavolo con ruote nasca dalla reinterpretazione funzionale dei sostegni e non dalla maestria della progettista di rivisitare un oggetto industriale in modo così elegante ma, come vedremo poi, il rapporto analogico è proficuo soprattutto dal punto di vista della scoperta, dell’invenzione. Comunque, lo stesso processo che ha sedimentato quella che fu analogia, ci pare sia in qualche modo uguale a quello che ha reso convenzione del relativo linguaggio buona parte dei modelli diagrammatici abitualmente usati quali dot chart, diagrammi a bolle, a torta e via dicendo. Ipotizziamo che l’istituzione di una specifica soluzione formale possa in qualche modo aver addormentato, mascherato la relazione analogica che agli albori della loro invenzione era così evidente: sia nella struttura del modello, che nell’impiego di impianti differenti o anche, più semplicemente, delle variabili visive. Osservazione questa, che resta da verificare in maniera più rigorosa. Tuttavia, crediamo di poter affermare con fermezza, che la convenzione, nel linguaggio diagrammatico, agisca nello stabilire la forma attraverso cui un concetto, altrimenti astratto, debba concretizzarsi: il diagramma è pura relazione, simile a


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quello significato dal linguaggio algebrico, che per ovvia necessità si esprime attraverso dei segni grafici i più sintetici possibili. Immaginiamo un movimento ascensionale che dalla complessità del reale tenda, nella produzione di un grafico, verso la sintesi astratta più estrema, leggera, spogliata di ogni sorta di pesantezza del sensibile ma che, necessariamente, per essere comunicata e trasmessa si debba vestire di un qualche cosa che ne consenta di essere prima percepita, e poi manipolata e compresa. Così Eco si pronuncia al riguardo: Il diagramma risponde a regole precise e codificatissime di produzione. La convenzione sancisce il funzionamento di un diagramma, l’organizzazione dei diversi elementi che lo compongono rendendolo accessibile anche agli utenti che non hanno particolare familiarità con questo genere di linguaggio, codifica l’analogia da cui il grafico ha avuto origine, la istituzionalizza. Definisce i mezzi, la sintassi che il linguaggio ha reso rilevanti sul piano espressivo per veicolare una certa informazione, prescrive i modelli che dal livello più astratto e puro del diagramma si offrono come soluzioni formali per realizzarli, concretizzarli, e inevitabilmente, da questa grammatica si deriva una classificazione rigida dei diversi tipi di modelli cui ricorrere per dar forma a un concetto ancora da tradurre. 30 Considerare il piano cartesiano come uno spazio unico e continuo, cui associare due componenti alle dimensioni x e y al fine di derivare un’invariante, è un esempio di come il disegno del modello sia vincolato a una regola che ne determini l’utilizzo: niente ci impedisce, per esempio, di considerare lo spazio come frammentabile in unità discrete e gerarchicamente organizzate, dove solo all’interno di quest’ultime lo spazio è invece continuo. Ancora: è possibile

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Vedi la classificazione dei tipi di imposizione di Bertin.

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strutturare lo spazio in analogia con il fenomeno che si vuole rappresentare, articolando le parti del piano nella maniera che riteniamo più consona ad esprimere un certo messaggio, a evidenziare una certa peculiarità di quanto stiamo traducendo visivamente. Le possibilità sono molto vaste, ma l’esplorazione di quest’ultime è premessa da una notevole capacità inventiva in grado di raggirare ed emanciparsi dalla convenzione che regola il funzionamento dei modelli di rappresentazione. Riproponiamo un paio di esempi proposti da Eco allo scopo di fare ulteriore chiarezza sulla natura segnica del linguaggio diagrammatico. Il primo – già in Cassirer – sulle correnti alternati sinusoidali:

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Il metodo [di rappresentazione] si fonda sulla possibilità di introdurre una corrispondenza biunivoca tra l’insieme delle funzioni sinusoidali della stessa frequenza esprimibili attraverso ‘simboli’ assai convenzionati e per nulla analogici, e l’insieme dei punti del piano di Arnaud e Gauss, dove è questione di vettori rotanti. Una rotazione di vettore implica una diversa funzione sinusoidale. Ma proprio esempi del genere suggeriscono che non tutti questi rapporti fondati su ratio difficilis possono essere chiamati simboli nel senso stretto che si sta cercando di definire: qui il rapporto è comunque codificato in base a regole proiettive, strettamente codificato, e il contenuto a cui l’espressione rinvia non è mai vago o nebuloso, né esiste la possibilità di interpretazioni conflittuali o alternative. E ancora: In tutti questi casi i rapporti che sussistono sul piano del contenuto vengono proiettati (…) sul piano dell’espressione. Che questo rapporto di ratio difficilis ritraduca il tradizionale rapporto di “iconismo” è evidente: ma non lo ritraduce ritenendo che vi sia solo iconismo visuale. Un diagramma di organizzazione aziendale costruito ad albero proietta sotto forma di rapporti


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spaziali – alto/basso – quelle che nel contenuto sono relazioni gerarchiche o flussi di informazioni o prescrizioni. Purché la regola di proiezione sia costante, i risultati ottenuti manipolando l’espressione risultano diagnostici o prognostici rispetto all’assetto passato o futuro del contenuto. Isomorfismo realizzato intensionalmente. Il sistema simbolico, dunque, costruisce una serie di regole su quella che è un’analogia, dove le facce della relazione sono da un lato I. la rappresentazione, il suo funzionamento, ciò che rimane costante e ciò che invece è variabile in accordo con ciò che visualizza, e dall’altro II. il fenomeno nella sua essenza, nel suo manifestarsi. È stato istituzionalizzato il sistema di segni – espressione – che sta per il suo contenuto e che, a riprova della natura analogica della relazione, sono complanari: una modificazione, di qualsiasi entità, sul piano espressivo comporta un egual mutamento su quello del contenuto. Il secondo esempio sul linguaggio musicale: la melodia leggibile su un pentagramma è in rapporto analogico con la frequenza acustica di un suono, secondo cui più una frequenza è alta, più la nota occuperà la parte superiore del pentagramma. All’incremento di frequenza – altezza fonica – corrisponde un incremento del valore in ordinata – altezza dimensionale –. La convenzione sancisce dunque l’analogia su cui poggia la rappresentazione: stabilisce le modalità di lettura che diventa linguaggio condiviso, iper-codificato, e ciò che è dato al destinatario conoscere è solamente un sistema di segni sintatticamente regolato, oscurando il rapporto analogico su cui il linguaggio stesso si è generato. Inoltre, se è vero che un oggetto si può rappresentare in infiniti modi, è anche vero che una specifica forma espressiva può stare per altrettanti oggetti. Oltre a sancire il rapporto

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analogico su cui il diagramma si costruisce, la regola definisce, allora, anche le modalità d’interpretazione del disegno. Così scrive Stjernfelt: The sinsign ˚ may be read as a token of the type circle, as a token of the type circular disk (including its interior), of the type circular hole (excluding its interior), of the type conic section (any other conic section, a point, an ellipse, a parabola, etc. would do as well as token), of the type Jourdan-curve (a closed curve; here any other closed curve, e. g. a rectangle, would fulfill the purpose), of the type hole in a two dimensional surface (a hole of any other shape would do as well), of the type topological sphere in two dimensions, of the type closed and connected manifold, etc., etc., - each of the choices, in turn, yields different possibilities of which content the diagram type may be used to signify. In the language of hjelmslevian semiotics, we could say that the diagram token is a unit of the expression substance referring to different types at the form-of- expression-level – all prerequisite to any reference to types in the content plane. Questa serie di regole potrebbe essere implicita o espressa negli elementi para-testuali del diagramma – e questo spiegherebbe la particolare attenzione che anche Bertin dedica al progetto del titolo, del sottotitolo e della legenda di un grafico – fermo restando, però, che la natura di ogni rappresentazione diagrammatica si componga anche di un aspetto prettamente simbolico. Del resto, anche nell’esempio proposto nel capitolo precedente, l’albero adoperato per disegnare la stirpe di una famiglia è un modello che potrebbe flessibilmente adoperarsi per rappresentare fenomeni di natura completamente differente – leggerezza –.


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Sebbene Bertin abbia definito monosemico il sistema segnico adottato nei grafici, e come l’utilizzo di forme semplici, pure possano indurci a considerare la natura dei diagrammi come esclusivamente simbolica, appare chiaro da queste righe come i grafici si caratterizzano in maniera ben più complessa: nonostante, lo abbiamo riconosciuto, molti elementi di convenzione subentrino nel disegno a garanzia della comprensione dello stesso – ciò che ci permette, tra l’altro, di parlare di linguaggio (?) –, non è in alcun modo trascurabile l’appartenenza dei grafici alla classe dei segni iconici, e i motivi li abbiamo sopra discussi. Anzi, aver sostenuto che la relazione analogica sia centrale nella realizzazione di un diagramma è, ai fini della nostra tesi, centrale, dal momento in cui questa proporzione diviene non solo una nuova modalità attraverso cui leggere e interpretare un grafico, ma anche strumento del designer-traduttore per generare nuove soluzioni espressive o, più semplicemente, di progettare grafici in maniera coerente con il messaggio della comunicazione.

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Modelli rigidi

Supporre il diagramma come associabile esclusivamente al simbolo è un atteggiamento che porta il progettista a trascurare il più basilare rapporto analogico. L’analogia, così, si addormenta. Non dirà mai più di quanto si è già a conoscenza: il trend economico, per molti individui, altro non è che una linea che sale e che scende.

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l linguaggio diagrammatico si compone dunque di aspetti talvolta propri della relazione iconica, talvolta propri del rapporto simbolico. Questi si presentano come aspetti fondamentali e complementari dello stesso linguaggio, caratteri che lo rendono adoperabile e “leggibile”. Ma come già detto, una conseguenza di questa complementarietà ci pare possa andare a scapito della visibilità del rapporto analogico alla base del diagramma: quest’ultimo appare addormentato, oscurato nella convenzione che lo determina, nell’imposizione di regole di costruzione particolarmente rigide e vincolanti. Potremmo spiegare questo passaggio come una sorta di cortocircuito che, nella fase interpretativa, invece di ripercorrere l’intero iter di percezione, astrazione e produzione di un artefatto iconico

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– che ne ha caratterizzato la realizzazione –, si limita ora ad una mera associazione tra quello che potremmo dire essere un oggetto e il simbolo finale che lo rappresenta. L’istituzione di una serie limitata e predefinita di forme espressive al servizio del progettista ha preso il sopravvento su quanto di generativo c’era nella realizzazione dei modelli grafici. Certamente, come abbiamo già più volte ribadito, questa classificazione e questa fissazione dei diagrammi in una lista pressoché conclusa ha permesso di universalizzare il linguaggio, di far si che fosse largamente compreso, questo però, a svantaggio della flessibilità e della dipendenza tipica che un’icona dovrebbe avere nei confronti di quanto per cui sta. Parliamo, in questo capitolo, degli inconvenienti relativi all’impiego imponderato di modelli rigidi determinati da quella che potremmo chiamare una iper-codifica formale nella produzione degli stessi. Il largo impiego di questi modelli rigidi si è imposto come soluzione formale-espressiva standardizzata, e questo stato di fatto costringe – in virtù di quanto abbiamo discusso nel primo capitolo di questa tesi – anche il contenuto corrisposto ad adattarsi alla suddetta forma: le diverse componenti, invarianti che prendono forma nei grafici che abitualmente vediamo impiegati in artefatti di visualizzazioni dati, dashboard, divengono le uniche forme che possibilmente quest’ultime possono assumere: se una componente tempo viene costretta, a livello di convenzione, a essere rappresentata in maniera lineare, anche l’immagine stereotipica che abbiamo di questa grandezza fisica non potrà essere che lineare. Un grosso limite questo, specialmente considerato che un fenomeno può, all’occorrenza, concretizzarsi in maniera drasticamente diversa, e talvolta contradditoria, a seconda di quale sia lo scopo comunicativo. Potremmo azzardare l’ipotesi che questo limite si ripercuota persino a livello di ragionamento? Pensare che una qualsiasi grandezza sia rappresentabile in maniera univoca e completa-


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mente dissociata da quella che è il suo contesto di riferimento, potrebbe in qualche modo inficiare la percezione che si ha della stessa? In che termini muta il modo in cui la prendiamo in considerazione? Il modo in cui realizziamo le vere conseguenze e significati che una determinata configurazione di un fenomeno comporta quando visualizzato secondo norme prestabilite e generali? 31 Il rapporto analogico alla base dei più comuni modelli di rappresentazione è staticizzato nell’iper-codifica, si presenta come forma espressiva standard, o meglio, come una sorta di espressioni pre-formate, piuttosto che generiche o inarticolate. Ripresentiamo le parole spese nel primo capitolo, a proposito del linguaggio ostracizzante: “se da un lato questo linguaggio standardizzato ne ha consentito la diffusione e l’ampio utilizzo, dall’altro rischia di ostracizzare le possibilità di rappresentazione, e quindi la comprensione stessa, di un fenomeno: i modelli diagrammatici si sono imposti come chiave di lettura, di decodifica se vogliamo, per rappresentare e interpretare un contenuto che necessita di essere riadattato e predisposto a un tipo di rappresentazione predefinito. La flessibilità di questi modelli, che li abilita a rappresentare qualsivoglia fenomeno, dipende in realtà da una rigidità costitutiva di fondo che forza un contenuto entro una forma espressiva predefinita: la composizione e la struttura del diagramma, costringono entro la sua forma ed entro i suoi meccanismi di fruizione l’interpretazione del contenuto che comunicano. In questi ter-

31

Lo stesso Arnheim ci mette in guardia rispetto a questo rischio: “Patrocinando un uso più consapevole dell’astrazione percettiva nell’insegnamento si deve però tenere presente che l’astrazione conduce facilmente al distacco, se non si mantiene la connessione con la realtà empirica. (…) Separati dai propri referenti, le immagini stilizzate, i concetti stereotipi, i dati statistici conducono a un vuoto gioco di forme, esattamente come la pura esposizione all’esperienza personale non ne assicura la comprensione profonda.” Arnheim, 1969 | tr. it. Pag. 361

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mini la forma dell’espressione diventa ostacolo e vincolo alla traduzione. Del resto, non siamo nemmeno più convinti che si possa chiamare traduzione quanto, piuttosto, trasposizione.”. Il diagramma, allora, non è più – solo – ausilio alla lettura distaccata di un fenomeno ma anche, negativamente, costrizione nel rappresentare e interpretare un qualche cosa nelle modalità attraverso cui la convenzione ci predispone a vederlo, a visualizzarlo. Peraltro, il metodo suggerito da Bertin che propone di considerare le componenti esclusivamente in funzione della loro classificazione statistica – ordinale, quantitativo, nominale –, sulla cui base determinare una limitata gamma di grafici e di variabili da adoperare, favorisce senz’altro una certa efficienza produttiva, soprattutto in termini di sveltimento del processo progettuale, ma dall’altro, è evidente come questa soluzione operativa precluda all’info-designer la possibilità di indagare ulteriori rapporti analogici tra la struttura del grafico e il manifestarsi del fenomeno. Di fatto viene limitato il lato progettuale, traduttivo della disciplina. I modelli rigidi di cui parliamo si possono riconoscere nei predefiniti tipi di imposizione elencati da Bertin, per esempio, in quei grafici tendenzialmente utilizzati per monitorare un parametro specifico – pensiamo alla visualizzazione dell’andamento di un business rispetto al fatturato annuo – e che fanno affidamento su una pregressa e indipendente conoscenza dell’utente delle implicazioni che le informazioni espresse nel diagramma comportano. Dispensandoci dal considerare, ancora una volta, l’effettiva utilità di questi grafici in specifiche situazioni, cerchiamo di portare avanti un ragionamento più ampio che metta in luce come la cristallizzazione di un linguaggio possa essere controproducente nel rinnovarlo, nell’evolverlo, dal momento in cui i mezzi messici a disposizione da quest’ultimo, sono gli stessi che utilizziamo per dar forma a quanto pensiamo. L’elevata astrattezza di questi diagrammi li predispone a essere altamente versatili, ma questo non giustifica come le forme espressive sottomettano in


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maniera così radicale e incontrollata i relativi contenuti. Svincolarsi dalla convenzione che irrigidisce le soluzioni espressive dei diagrammi è compito che spetta al progettista in quanto traduttore, e a questo fine abbiamo suggerito la soluzione di rivisitare l’analogia che vi soggiace, di reinventare quanto costituisce la base su cui l’intero linguaggio diagrammatico germoglia. È evidente come i grafici, i diagrammi di cui abbiamo parlato altro non siano che strumenti, mezzi che conducono alla visualizzazione di un qualche cosa che altrimenti resterebbe astratto, incomunicabile, ma ciò non toglie come anche lo strumento necessiti di essere studiato e sviluppato in quanto tale. Allo stesso modo in cui un qualsiasi mezzo di trasporto ci permetta di spostarci da un punto A a un punto B, questo non preclude a un ingegnere di svolgere studi e modifiche allo scopo di agevolarne l’utilizzo, favorire una migliore esperienza tra l’utente e l’oggetto. Le applicazioni e i vantaggi che lo sviluppo della pratica della visualizzazione dati apporterà alle altre discipline è una questione secondaria. Per il momento rimarchiamo solamente a chi, secondo noi, competa il compito di lavorare su questo strumento quale la traduzione visuale diagrammatica, di ristabilirne capacità e limiti espressivi.

Per risolvere i problemi stilati nei capitoli precedenti, bisogna reinventare il rapporto analogico tra il significante e il suo significato. Questo ci permetterà di svincolarci da forme d’espressione preconcette.

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Le analogie come strumenti

Cosa comporta servirsi dell’analogia come strumento? In che termini focalizzarsi sul rapporto analogico può essere proficuo? I vantaggi dell’analogia nella sua forma essenziale e declinata nel linguaggio della visualizzazione dati.

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Un mezzo di conoscenza

L’analogia è strumento di conoscenza: se la relazione viene istituita su quelli che sono riconosciuti come tratti comuni, uno sguardo a posteriori può mostrare o, meglio, far suppore che sussistano altre proprietà comuni fra i due termini di paragone. Ancora più vantaggioso l’utilizzo di questo strumento nella produzione di oggetti ex novo, o nel miglioramento di quelli già esistenti, dove “la mancanza è tangibile”.

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ostenere che l’analogia sia strumento di conoscenza è affermazione abbastanza vaga che necessita di essere chiarita. Innanzitutto, ricordiamo quanto Aristotele aveva già detto – e quanto noi abbiamo già riportato – rispetto all’analogia, considerandola in termini matematici come una proporzione, un’equazione a quattro termini, e cerchiamo di capire in quali modi questo rapporto possa essere considerato rilevante in termini conoscitivi. Tema e foro sono le due coppie della relazione analogica tra cui sussiste, come dice Zingale con Perelman, una somiglianza di relazioni: 2 è in relazione con 4, allo stesso modo in cui 8 è in relazione con 16. Ma se nell’equazione matema-

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tica, il rapporto di doppio – k – è tanto visibile nel tema – 2 : 4 – come nel foro – 8 : 16 –, in un’analogia verbale questo non è altrettanto vero. Perelman sostiene che il foro è sempre più conosciuto rispetto al tema che, nel confronto, viene illuminato, chiarito, interpretato. S’istituisce una relazione – che come vedremo poi, è essenza della conoscenza – tra qualcosa di più facilmente accessibile quale è il foro, e qualche cosa di meno evidente, il tema. Un’ipotesi forse troppo azzardata – che tale resterà e che non discuteremo oltre il necessario – si basa sostanzialmente sulla proprietà di base che potrebbe distinguere gli elementi del foro rispetto a quelli del tema e che dipende dal fatto che siano percepibili o meno. Una breve digressione. Il nostro modo di conoscere gli oggetti è influenzato dalle dinamiche percettive che fisicamente ci permettono di avere conoscenza del reale. Assunto banale e scontato questo. Meno trascurabili sono i risvolti che questa premessa comporta: la dipendenza che si instaura tra uomo e il suo modo di percepire compromette anche il modo in cui vengono elaborate e privilegiate le informazioni rispetto a un certo oggetto. Se per esercizio domandassimo a un gruppo di studenti di rappresentare una coppa, le proprietà che ritroveremmo in ogni disegno sarebbero quelle di concavità e stabilità. Eventualmente qualche studente un po’ più preciso e meticoloso potrebbe rappresentarne la testura che caratterizza il materiale o qualche ammaccatura dovuta all’usura, a seconda di qual è il tipo coppa a cui ogni test fa riferimento. Quello che invece più difficilmente riusciremmo a trovare nei disegni in esame, sarebbero altre informazioni relative alla coppa: le cause, i suoi fini o funzioni. Il percepibile si impone su altri aspetti del conoscibile, ma questo rapporto di supremazia e sudditanza tra il primo e il secondo termine non sembra essere giustificato da un punto di vista gnoseologico. Ipotizziamo che, in una terra


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remota, una popolazione abbia a disposizione come unico materiale costruttivo l’argilla, il quale conferisce a ogni oggetto un colore rossastro: in che modo il colore rosso della coppa argillosa è più rilevante – supponendo che ci sia una proprietà più importante di un’altra – rispetto alla sua funzione di raccogliere liquido, di essere un manufatto prodotto dall’uomo e non un fortuito risultato del perenne modellare della natura? 32 Curioso come in realtà il problema sembra porsi in maniera contraria qualora si debbano rappresentare concetti più astratti rispetto agli oggetti. Se provassimo a rappresentare la funzione di rifugio, con buona probabilità la tradurremmo graficamente in casa, tetto, grotta etc. L’idea di rifugio ci si presenta sotto la forma di occorrenze concrete e percepibili, e le occorrenze stesse divengono simboli della funzione che assolvono, in una sorta di meccanismo che Barthes aveva ben esplicitato nel 1964, portando ad esempio l’ombrello e la pioggia. Allora, la questione potrebbe presentarsi non più come opposta, ma come sottomessa a una regola più generale che pretende il ricorso a rappresentazioni concrete per parlare di un oggetto, indipendentemente dalla sua proprietà di concretezza o astrattezza. Il concetto di quantità si esprimerebbe quindi attraverso l’immagine di un gruppo di persone o di un sacco ricolmo di patate, l’idea di dolore attraverso una lacrima o una smorfia. Dunque, secondo questa idea, nel momento aurorale della conoscenza e come tendenza privilegiata nei successivi processi inferenziali, il foro dell’analogia sarebbe prettamente percepibile, esperibile

32

Eco spiega il perché la sineddoche si sia imposta sulla metonimia proprio attraverso questo ragionamento: “La sineddoche particolarizzante – che si basa sul rapporto fra un ‘oggetto’ e le sue parti – ha ottenuto uno status privilegiato: che è lo status privilegiato della percezione rispetto ad altri tipi di conoscenza, che si possono pure chiamare ‘giudizi’, che si basano su inferenze successive e che, a prima vista paiono trasportare fuori della cosa stessa, verso la sua origine o il suo destino”.

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=

K3

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K3

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K2

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=

K1

A : B = C : D C O S TA NT E

TEMA

F ORO

VA RIA B I L E

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Modello della proporzione analogica dettagliato.


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attraverso i sensi. E dall’osservazione di ciò che è direttamente accessibile è possibile estrapolare, astrarre quelli che saranno i principi costitutivi del pensiero teorico e distaccato, in un gioco di confronti ed equazioni attraverso il quale quanto è osservabile è mezzo di conoscenza rispetto a quanto è sensorialmente distante. Indipendentemente da questa considerazione, la cui veridicità è tutta da comprovare, la considerazione di Perelman rispetto a una sorta di asimmetria della proporzione è del tutto condivisibile, e questo scompenso che cerca un equilibrio più stabile è, di fatto, accrescimento conoscitivo. La coppia che definisce il tema la potremmo definire come una costante all’interno della relazione mentre, il foro, una variabile. Spieghiamoci: costruire un’analogia presuppone che un qualche cosa debba necessariamente essere spiegato, una costante appunto, la quale dà origine al confronto e che per mezzo di cui si risolve. L’incapacità di capire il funzionamento, la natura di un fenomeno è quanto ci muove a ricercare in quanto già conosciamo dei modelli efficaci che ne permettano una interpretazione esaustiva, appropriata. Il tema allora è premessa che ci muove a produrre e a svolgere un’analogia, quanto si fa indagare. Questo non toglie, tuttavia, che temporalmente parlando, un individuo possa partire inferenzialmente dal foro per riconoscervi, nella sua relazione, la chiave di lettura di un fenomeno più complesso, che necessita di essere interpretato. Ciononostante, da un punto di vista logico, la situazione problematica è posta nel tema, che è ancora relativamente sconosciuto, motivo per cui la suddetta coppia è costante nell’equazione. Al contrario, per quanto riguarda il foro, la sua entità è variabile: 2 : 4 = x : y, dove le due incognite sono tutti i valori possibili la cui relazione assomiglia a quella espressa dal tema – il rapporto di doppio –. 8 : 16 ma anche 4 : 8, 1.5 : 3 e via dicendo. È inoltre necessario precisare che la variabile è da considerarsi deter-

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minante della costante non solamente rispetto al k della proporzione matematica rimarcandolo ulteriormente, ma in modo più complesso, privilegiando la pluralità degli aspetti che tema e foro condividono nella zona positiva e neutra dell’analogia –. Interessa come strumento di conoscenza additiva, e non sostitutiva. La variabile quindi, è quanto necessita di essere progettata, la cui mutevolezza permette di comprendere in modo più completo la costante tema, di osservarla diversamente da altri punti di vista. Abbiamo trovato tre possibilità operative più una che il modello consente. Presentiamole: I. La prima consiste nel sostituire un elemento del foro a favore di un altro differente. Prendiamo l’esempio della catacresi “collo di bottiglia” dove, sintetizzando, avremmo collo di bottiglia : bottiglia = collo : busto – il modello spiega altrettanto bene come la lingua abbia colmato l’assenza del termine utilizzando gli interni dell’equazione: bottiglia + collo –. Ora, se cambiassimo il termine del foro rispetto al tema, vedremmo come le opportunità di ripensare un oggetto si amplino, anche in favore di praticità e funzionalità. L’equazione precedente, lo abbiamo visto, mette in risalto come l’oggetto del tema sia stato antropomorfizzato, e come gli elementi, di conseguenza, corrispondano per analogia a quelle di collo e del corpo umano; collo umano che è il termine della proporzione che proveremo a sostituire. Introduciamo come possibile sostituente del paragone il mostro della mitologia classica Idra di Lerna. A differenza dell’uomo, Idra ha ben nove teste, di cui, per sintesi, la proprietà “nove teste” si può riassumere in “più teste”. Il termine metaforizzante è quindi cambiato, ne consegue che il k su cui il rapporto tra tema e foro giacevano è cambiata, allo


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stesso modo l’elemento “collo di bottiglia” non può avere una valenza uguale a quella che aveva precedentemente: x : bottiglia = più teste : busto. Deduciamo che, perché l’equazione sia corretta, l’incognita deve presentare la proprietà “più colli-teste” da cui deriva una bottiglia a più fori. Nonostante possa sembrare un oggetto inutilmente articolato, i vantaggi che comporterebbe, se ben pensato, sarebbero almeno due e tutto sommato non trascurabili: velocizza l’erogazione del contenuto in più bicchieri, con buona probabilità i bicchieri avranno la stessa quantità di liquido al loro interno, senza che il barista vi porga particolare attenzione. Immaginiamoci un locale affollato, un sabato sera piuttosto movimentato e giovani clienti che domandano cocktails e bevande al bancone del bar: la bottiglia di Idra sarebbe una semplice e, forse, efficace soluzione per smaltire velocemente il flusso di clienti. Del resto, se applicato un tappo per estremità, la bottiglia può essere utilizzata allo stesso modo di un qualsiasi altro recipiente, in situazioni meno concitate o, ancora, inclinando la bottiglia in un certo modo, permettere all’aria di riempire la bottiglia quando il liquido fuoriesce. Naturalmente, niente ci impedirebbe di considerare come possibilità di sostituzione anche l’altro termine del foro: se invece del busto di un umano avessimo posto come elemento della proporzione il corpo di un insetto – che come suggerisce il suo etimo, è appunto divisibile, segmentabile –, allora otterremmo una bottiglia magari scomponibile, e perciò facilmente pulibile, quindi riutilizzabile infinite volte, magari riadattabile in dimensione affinché all’occasione possa stare in una borsetta da signora piuttosto che in uno zaino da trekking. II. La seconda possibilità che abbiamo ipotizzato è la sostituzione dell’intera coppia del foro. Questo caso è ricco di esempi, il più celebre tra tutti quello di Keplero citato prima da tutti da

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Peirce ma poi riletto in maniera entusiasmante anche da Arnheim. Sue sono le parole che seguono: Lo scienziato, come l’artista, interpreta il mondo intorno a sé e dentro di sé costruendo immagini. (…) Scoprire e spiegare esigono modelli percettivi. E proprio il cambio del modello percettivo di cui parla lo psicologo tedesco è alla base della rivoluzione scientifica dell’astronomo. Keplero si può dire abbia sostituito il modello percettivo del cerchio con quello dell’ellissi scoprendo come il moto dei pianeti fosse differente da quello immaginato: invece di quella che all’epoca era la consolidata proporzione traiettoria terrestre : al sole = circonferenza : al centro – dove il k è in sostanza il raggio costante –, ha mutato la coppia del foro nella sua interezza così riformulandola: traiettoria terrestre : sole = curva ellittica : uno dei due fuochi. Ha ristrutturato così una situazione problematica semplicemente applicando un’altra immagine percettiva, un altro modello, cioè sostituendo la coppia del foro rispetto a un determinato tema. Arnheim sostiene inoltre che l’intera storia degli studi umani offre esempi su come venissero usati i modelli percettivi per descrivere dinamiche e funzionamento di sistemi non direttamente percepibili, come nel campo astronomico per esempio, teologico e filosofico. E il modello della proporzione aristotelica bene si presta a mostrare il cambio logico che gli soggiace. III. La terza ipotesi prevede il cambio di un sema di un elemento del foro. Allo scopo di spiegare meglio questa possibilità ripresentiamo l’esempio già illustrato nel capitolo precedente: quello del Tavolo con ruote disegnato da Aulenti. La relazione analogica è: sostegno del tavolo : tavolo = gamba : corpo umano. In questo caso, l’equazione rimane inalterata, almeno a livello


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della sua rappresentazione grafica. Abbiamo già detto, infatti, che a differenza della proporzione matematica, quella verbale è più da considerarsi come un confronto tra matrici comprese entro il significato dei relativi elementi: la gamba dell’essere umano è un’estensione di “sostegno”, ma anche di “dinamico”, di “movimento”. La codifica ha privilegiato il sema di sostegno escludendo tutte le altre possibili. Potremmo dire che l’iper-codifica ha spento l’analogia che è divenuta palude semiotica, immobilità del pensiero. Infatti, quando generalmente si pensa alla gamba di un tavolo, tendenzialmente si immagina quest’ultima come stabile, forte a sufficienza per supportare il peso del piano e degli oggetti che verranno su di esso riposti, ma solo di rado si riesce ad emanciparsi da questa lettura forzata mettendo in risalto altre possibili caratteristiche del foro. Il tratto semantico “dinamico” interpreta – nell’accezione peirciana – la relazione tra gli elementi del foro e quindi necessariamente anche quella del tema che viene così ristrutturata, apportando al progetto i conseguenti vantaggi di un’indagine e un ripensamento del rapporto analogico. Nel caso terzo delle alterazioni possibili dell’analogia, introduciamo quanto già precedentemente accennato riguardo alla zona positiva e neutra dell’analogia, questo allo scopo di chiarire meglio quanto avviene in questa possibile alterazione del sema interpretante. Zingale, nel suo testo, cita l’interessante lavoro della Hesse che propone un modello visuale alla comprensione del rapporto analogico tra le due coppie di termini. Stabilisce come la produzione di un’analogia si basi sul riconoscimento iniziale di una somiglianza dei tratti comuni tra tema e foro: questi costituiscono la zona positiva dell’analogia; ciò avviene pur essendo consapevoli dell’esistenza di tratti non condivisi tra la coppia: questi definiscono la zona negativa; ma esiste tra le due zone una terza zona intermedia e neutra dove

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esistono i tratti neutri dell’analogia, cioè quelli che non erano stati inizialmente considerati né come simili né come dissimili ma che, se sottoposti ad analisi, possono portare alla luce nuovi possibili tratti comuni che sono di fatto suggerimenti alla sperimentazione, ipotesi da convalidare, soluzioni progettuali inedite. Il diagramma della Hesse, oltre al suo scopo principale che è quello di categorizzare le zone dei tratti semantici, ha il pregio di mettere in evidenza come l’equazione che è sempre stata proposta in maniera lineare, in modo conforme con la formula matematica, in realtà sia molto più complessa e articolata. E in questa complessità di tratti semantici a confronto giacciono scoperta e invenzione. Nella zona neutra si trova quanto di potenzialmente comune esiste nella relazione, cioè quanto c’è di progettabile, come il Tavolo con ruote che, oltre a sostenere, è anche mobile. IV. Il quarto caso lo abbiamo tenuto separato dai primi tre perché invece di essere un’azione applicabile al foro si focalizza sul tema. Consiste nel porre come incognita un elemento del tema e di derivarlo, all’incirca, come nel modello matematico: 2 : 4 = 8 : x, per cui 4 * 8 / 2 = 16. Ovviamente, per rimanere coerente con quanto espresso fino a ora, dovremmo trattare con cautela il rapporto matematico, e così faremo. Ecco un esempio ripreso da Zingale: x : Marte = terrestri : Terra. In questo caso l’incognita del tema è definita dalla copia del foro per mezzo di un interpretante che è “coloro che abitano” – o “abitanti” –: l’interpretante è sotteso, come nella maggior parte delle analogie codificate, ma comunque presente. 33 Per un fenomeno di riflessione della relazione tra i termini del foro si deduce la x del tema: marziani appunto, la cui entità è virtuale e non reale.

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Questa precisazione è necessaria al fine di formulare correttamente il quarto caso, di precisare in che modo l’analogia verbale diverga da quella numerica.


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UN MEZZO DI CO NO SCEN Z A

La scelta di mantenere scissi i primi tre gruppi di sostituzioni dal quarto deriva dal fatto che cambiare il tema di un’analogia si tradurrebbe, di fatto, nel sostituire l’oggetto iniziale che ci ha spinto a svolgere una proporzione, la situazione problematica che necessita di essere chiarita. È quindi un caso particolare che abbiamo presentato a beneficio della completezza, considerato peraltro che, in questo caso, non si parla di sostituzione ma di completamento dell’equazione. È comunque necessario precisare che non solo l’identificazione dell’incognita, ma in generale lo strumento dell’analogia si dimostra così essere supporto euristico nella formulazione di ipotesi, nel pensare nuove configurazioni della realtà. Queste soluzioni operative che abbiamo proposto presuppongono una capacita inventiva notevole, creativa ma anche pragmatica e progettuale, quella tipicamente richiesta e attesa da un designer, il solo capace di tradurre in forma una funzione, un senso, considerando quali siano i vincoli e gli obiettivi di un progetto. 34 L’analogia è spinta conoscitiva esattamente nella misura in cui ci permette di creare delle relazioni tra relazioni, accomunare due rapporti sulla base di un più generale rapporto di somiglianza. E cosa altro può essere la conoscenza se non un reticolato che rende i nodi descrivibili solo per mezzo delle relazioni che intrattengono con gli altri nodi? A dire il vero, è proprio il concetto di nodo che entra definitivamente in crisi:

34

Inoltre, ricordiamo che il creare analogie abbiamo detto essere alla base di ogni processo inferenziale. È un procedimento alla base dell’abduzione, della formulazione di ipotesi, movimento distintivo degli esseri umani che “Per natura sono consapevoli della rassomiglianza strutturale che lega oggetti ed eventi fisici e non-fisici.” Arnheim, 1969 | tr. it. Pag. 140

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un nodo, nella rete della conoscenza, non è altro che un insieme di archi che lo definisce in rapporto agli altri archi della rete. Come sosteneva Peirce, la conoscenza di un oggetto non è a noi accessibile nella sua essenza, ma ci avviciniamo in maniera asintotica a descriverlo nella sua completezza per mezzo di segni che sono a loro volta definibili attraverso altri segni: una matita è quell’oggetto longilineo, composto da legno e graffite; il legno è quel tessuto vegetale che costituisce il tronco di un albero; l’albero è una pianta perenne con fusto eretto, che a una certa altezza ramifica; … . Accrescere le relazioni che stabiliscono, circoscrivono un elemento all’interno di una rete complessa, potremmo dire essere definizione di “conoscere”, e in questo l’analogia sembra essere lo strumento prediletto. Il linguaggio diagrammatico, avendo provato nei capitoli precedenti essere fondato sullo stesso rapporto iconico, contraddistinto a sua volta dalla relazione analogica, ne diviene per estensione un mezzo dalle stesse potenzialità. Il progetto di una forma espressiva è l’interpretante che giustifica una certa conformazione del contenuto da veicolare, e il risultato suggerisce o evidenzia dinamiche del fenomeno che potrebbero altrimenti rimanere nascosti, oscurati dalle regole che stabiliscono le produzione di un modello. L’idea di modello, dice Zingale, è fondata sull’analogia, 35 e lo dimostra adducendo esempi noti nello scenario scientifico: primo tra tutti il caso di Darwin, il quale propone, come modello interpretante dell’evoluzione, quello dell’albero.

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Del resto, lo stesso Peirce, fonda sul rapporto analogico la discriminante che classificherà alcuni segni come iconici, e proprio l’icona “detiene il primato nel processo conoscitivo”, motore dei movimenti abduttivi, nella formulazione delle ipotesi, nelle invenzioni e nelle scoperte.


Un altro caso esemplare citato nello stesso testo, è che racconta della descrizione che Cartesio diede a proposito del moto dei corpi celesti: Definì il moto dei pianeti come analogo a quello delle pagliuzze intrappolate in un mulinello d’acqua in un fiume. O, ancora, quello di Rutherford che stabilisce un’analogia tra l’architettura del sistema solare e la conformazione dell’atomo. È evidente, in tutti questi casi, come il modello “albero” impiegato dal biologo, quello del “mulinello e delle pagliuzze” e quello del “sistema solare” altro non siano che fori dell’analogia. Una rappresentazione diagrammatica, un’immagine che illumina un tema altrimenti inaccessibile interpretandolo in rispetto alla struttura, alla sua possibile conformazione: l’applicazione di quanto ci è già noto nella comprensione, o nella supposizione ipotetica, di quanto ancora non conosciamo. Il ruolo dell’immagine nel processo di scoperta e di conoscenza è centrale nel pensiero di molti intellettuali: L’intendimento intelligente ha luogo entro il dominio dell’immagine in se stessa, ma soltanto se essa è configurata in modo tale da interpretare visivamente gli elementi importanti: L’educazione visiva si deve fondare sulla premessa che qualsiasi quadro è un’ipotesi. Il quadro non presenta l’oggetto in se stesso, ma un insieme di proposizioni circa l’oggetto; o, se preferite, presenta l’oggetto come una serie di proposizioni. E proprio queste immagini-modello, queste ipotesi visive, generate, generabili e modificabili attraverso lo strumento dell’analogia non sono esclusivamente strumento supplementare alla comprensione di un fenomeno, bensì fulcro stesso della scoperta dove:

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Ogni oggetto di conoscenza, prima ancora di essere qualcosa, assomiglia a qualcosa. Invenzione e conoscenza, insomma, nella scienza così come nell’arte, sono mosse dal riconoscimento di una somiglianza tra forme o di una somiglianza di relazioni. Nel flusso e nel continuum dell’esperienza, l’analogia trova e organizza connessioni che poi offre alla conoscenza.

← ARNHEIM, 1 9 74 t r. it . PAG. 56

La scelta di lavorare sulle forme espressive – riprogettandole o anche semplicemente sostituendole, sperimentando nell’applicazione di quest’ultime attraverso le modalità che abbiamo elencato in apertura del capitolo – nel tentativo di trovare nuove e inedite conformazioni possibili del fenomeno, non è allora un superficiale vezzo estetico, ma pratica euristica: accrescimento delle conoscenze che si hanno rispetto a un certo fenomeno. Innovare e focalizzarsi sul mezzo espressivo significa porre l’oggetto della rappresentazione sotto luci sempre differenti, significa metterne in dubbio ogni volta la sua apparenza, il modo in cui ci si presenta, esattamente come farebbe uno scienziato nel suo laboratorio: Proprio come le montagne lunari si possono vedere soltanto quando la luce solare le illumina lateralmente, producendone in tal modo le ombre, così lo scienziato è costantemente alla ricerca di situazioni nuove, non perché vi sia qualche vantaggio nella raccolta di esempi in quanto tali, ma perché essi possono rivelargli informazioni inedite. Questo aspetto del mestiere del progettista deve essere per lui centrale: focalizzarsi sullo strumento della visualizzazione che, se posto in questi termini, non è più solamente strumento ma obiettivo cui tendere nel tentativo di riconoscere la struttura soggiacente alle dinamiche di un fenomeno. Dovere di notevole importanza questo, che pone il designer sullo stesso piano


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di uno scienziato, di un filosofo o di un’artista, dove quanto gli compete, al di là dei mezzi attraverso cui le diverse discipline lo dimostrano, è quello di ipotizzare nuove conformazioni del reale, articolarlo, metterlo in luce, e cioè comprendere e comunicare quanto ancora non è stato detto.

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I m o d e l l i c o m e i n t e r p r eta n t i

L’analogia sancisce la relazione che soggiace tra la rappresentazione e un preciso aspetto del fenomeno, quindi il termine del tema. In altre parole interpreta, attraverso e nel modello, una proprietà o pertinenza del fenomeno in analisi. Il modello è interpretante.

I

ntroduciamo in questo capitolo la nozione di “interpretante” riconosciuta da Peirce per illustrare il funzionamento del modello da lui elaborato: il triangolo semiotico. La relazione triadica implicita nel triangolo che definisce il processo di semiosi per Peirce si compone di un oggetto dinamico, un segno o representamen e, appunto, un interpretante. Per spiegarne brevemente il funzionamento diremmo che il segno sta all’oggetto sotto qualche rispetto o capacità, senza mai rappresentarlo nella sua completezza, mentre l’interpretante è un segno secondo che traduce la natura del primo segno: il representamen appunto. L’oggetto – dinamico – è il referente, una mela tangibile e osservabile; il segno è quanto ne rappresenta una sua peculiarità, quale potrebbe essere il suo profumo, il disegno della sua forma, la parola scritta o udita “mela” etc. etc.; e l’interpretante è ciò che stabilisce, nella forma di un segno secondo, un contenuto suggerito dal segno primo: quel frutto rosso

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e croccante. Le differenze che incorrono tra i diversi elementi, specialmente tra il segno e l’interpretante, sono piuttosto sottili. Proviamo a spiegarlo con un esempio ancora. I. La carrozzeria della mia vettura è stata danneggiata e la vernice rigata: questo è un fatto reale, indipendentemente che vi sia un interprete che lo colga oppure no. Chiamiamo questo un oggetto dinamico; II. Riconosco nella superficie uniforme della vernice una certa irregolarità su cui verto la mia attenzione – da notare che l’irregolarità nell’uniformità del colore è solo una delle caratteristiche che definiscono l’oggetto, tant’è che non si parla per esempio della sua forma, né della sua profondità. 3 6 Inoltre, è importante notare, che se avessimo già riconosciuto quest’ultimo come “graffio”, il segno già sarebbe stato interpretato dal segno secondo del triangolo –. Siamo qui nel segno, o representamen; III. Il “graffio”, l’irregolarità già notata nel primo segno è qui interpretata, appunto, dal lessema-segno “graffio”. Questa interpretazione completa il processo semiosico e lo amplia per mezzo delle sue stesse qualità di segno: queste si prestano, a loro volta, a essere nuovamente interpretate da nuovi segni, dando adito a quella che Peirce chiamerà semiosi illimitata e che è garanzia della conoscenza asintotica accennata sopra: segno interpretato da un segno – il segno “graffio” ci porta verso quello di “incidente” o di “vandalismo”, che divengono successivamente, ancora, segni interpretabili –.

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Pisanty e Zijno suggeriscono come questo fatto che implica una selezione delle qualità dell’oggetto dinamico, abbia già intrinsecamente colto il principio della teoria della pertinenza che abbiamo spiegato nel primo capitolo.


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I N TERP R ETA N TE

SE

GN

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O T T CO GE MI OG INA D

FIG. 16.

Schema semplificato del triangolo semiotico di Peirce. Così disegnato da Bonfantini il segno si potrebbe dettagliare a sua volta come composto da un representamen e da un oggetto immediato. Da notare, inoltre, come le connessioni siano tra loro direzionate: dall’oggetto dinamico al segno e inevitabilmente all’interpretante, e dal segno all’interpretante.


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L’interpretante è a sua volta segno, lo abbiamo detto, ma Peirce precisa come questa categoria possa essere molto più vasta – e vaga dice Eco – comprendendo sotto la classe degli interpretanti qualsiasi cosa che, appunto, interpreti, traduca. 3 7 Il segno iniziale: il testo di un libro potrà a pieno titolo fare parte della classe degli interpretanti per esempio, un’immagine, un modello visivo e così via. Ma in che modo il modello si può considerare interpretante? Se provassimo a conciliare la teoria peirciana dell’interpretante con il modello dell’analogia presentato sopra, potremmo dire che il foro è segno, mentre il k corrisponderebbe all’interpretante. La coppia del foro è illuminata, letta in funzione di un determinato interpretante in equilibrio tra le due coppie dell’equazione: intelletto umano : evidenza = occhi del pipistrello : luce è la proporzione della metafora aristotelica schematizzata da Zingale. Il k è la cecità, reale o figurata, che mette in comune le due parti dell’equazione e che la rende semioticamente accettabile, che completa il segno in virtù di una sua certa caratteristica – o tratto semantico – che emerge preponderante e che dà adito a successive e possibili interpretazioni, interpretandola. Negli esempi presentati nel capitolo precedente, i k-interpretanti che illuminavano la relazione analogica sono: la pluralità o l’unicità delle estremità nell’esempio della bottiglia di Idra; le regole matematiche che stabilivano il rapporto prima tra la circonferenza e il suo centro, poi tra curva ellittica e il suo fuoco nell’esempio della legge di Keplero; prima il sema di sostegno e poi quello di dinamicità nell’esempio del tavolo con ruote – dove, a differenza degli altri casi, qui l’interpretante è cambiato all’interno del segno –. 3 8 Il foro,

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Il termine “tradurre” non è qui usato impropriamente: alcuni autori ritengono infatti che l’interpretante di Peirce si possa ugualmente chiamare “traducente”.

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Ovviamente, al mutare del foro, l’interpretante cambia di conseguenza.


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invece, è segno che sotto qualche rispetto o capacità sta per il tema, ma che necessita inevitabilmente di un interpretante che ne regoli il rapporto, sia fra i due elementi interni al foro, sia tra le coppie. Un modello visuale, una rappresentazione schematica, un diagramma è segno costruito analogicamente sul fenomeno che rappresenta, la cui struttura, conformazione e qualità sono interpretanti della relazione analogica: il diagramma ad albero utilizzato per mostrare l’organizzazione dei dipendenti di un’azienda è interpretato dall’elevata gerarchizzazione dei lavoratori che contraddistingue il modello visivo scelto, dalle differenze dei ruoli o del sesso espressi per mezzo di una variabile colore, etc. etc.. Caratteristiche queste, analogamente presenti nel segno e nella reale organizzazione aziendale, o meglio, analogamente presenti nel tema e nel foro. Ma le forme schematiche impiegate nei diagrammi, i diagrammi stessi, sono anche, a loro volta, interpretanti: sono forme espressive, tipi, modelli visivi che permettono di tradurre la realtà intellegibile. L’immagine della luna, infatti, può essere interpretata, per esempio, dall’idea di rotondità – che è, tra l’altro, intensione dell’oggetto stesso –, come la linea di un istogramma è interpretante rispetto al fenomeno che rappresenta. I modelli visivi sono allora anche mezzi dell’interpretazione. E questo è in accordo con quanto Peirce sosteneva rispetto alla natura sostanzialmente segnica degli interpretanti. La natura sensibile o meno dell’oggetto della rappresentazione è una questione che, per gli obiettivi di questo testo, resta marginale: allo stesso modo in cui il cerchio può interpretare l’immagine della luna, il diagramma ad albero interpreta la struttura aziendale vista sopra. Il processo è molto più generale e trova applicazione anche nella comprensione di concetti meno conoscibili attraverso la semplice osservazione: la dottoressa Angell, come la dottoressa Caplan, come già accennato in

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precedenza, hanno svolto esperimenti sulla rappresentazione di concetti come buono e cattivo matrimonio, giovinezza, e anche in questi casi, la rappresentazione schematica interpreta, attraverso le stesse dinamiche, il fenomeno in oggetto. 3 9

ZINGALE , 2 006 PAG . 79 ← IB ID EM ← I BID EM ← I BID EM ← I BID EM ← 39

Il modello può allora essere interpretante di un fenomeno, ma in che modo? Per risponderci riprendiamo una distinzione fatta da Zingale che identifica i modelli in tre categorie: modello come prefigurazione; modello come rispecchiamento; modello come tipo. Vediamoli brevemente: I. Il modello come prefigurazione è quanto intendiamo quando parliamo di costruire un modello. Il k è creato nella sperimentazione, nella costruzione di un modello ad hoc, dove la relazione tra gli elementi del foro è opportunamente realizzata per spiegare il tema; i miti raccontati da Platone sono un buon esempio di modello teorico come artefatto segnico rappresentativo. II. Il modello come rispecchiamento è ciò che intendiamo quando parliamo di prendere qualcosa a modello. Il k qui è riconosciuto in un campo semantico diverso da quello di riferimento. Questo è, fra i tre, il caso più limpido di analogia; le palle da biliardo – analoghe alle molecole della cinetica dei gas – e l’uroborus o serpente che si morde la coda – analogo all’anello del benzene –. III. Il modello come tipo è ciò che intendiamo quando parliamo di seguire un modello. Il k in questo caso è istituzionalizzato, o oscurato dalla convenzione che lo regola.

Consapevoli di come, del resto, ogni immagine, mimetica o non-mimetica che sia “differisce in linea di principio dall’oggetto fisico. ” Arnheim, 1969 | tr. it. Pag. 129


In questa categoria rientrano tutti i tipi di imposizione standard tipicamente usati ed elencati da Bertin; le immagini fissate, in quanto abiti e codici già tracciati, che guidano e orientano le azioni. Se nei primi due casi si può effettivamente riconoscere una sorta di ragionamento creativo e progettuale, che ricerca e indaga con occhio critico i modelli possibilmente interpretanti di un determinato fenomeno, di certo non si può dire lo stesso del modello come tipo, che istituisce e addormenta la relazione tra un oggetto e il modello che lo rappresenta. Certo, abbiamo spiegato l’importanza e l’essenzialità del modello come tipo, dove quest’ultimo s’impone come rapporto analogico standardizzato a rappresentazione di eventi radicalmente differenti – in forza di un elevato grado di astrattezza –, né tantomeno si vuole sostenere l’inadeguatezza del loro impiego. Uno dei nostri obiettivi è quello di riconoscere e provare come nella pratica della visualizzazione le soluzioni siano indefinite e vastissime, nonostante la regola ci possa far supporre il contrario. Una tesi a spiegazione di quanto asserito qui sembra fornircela, ancora una volta, Arnheim. La discutiamo qui brevemente, consapevoli però – e tale dovrà essere il lettore – del rischio di incorrere nella strumentalizzazione e nella superficialità di questa rilettura. Procediamo. Osservando la questione dal punto di vista della psicologia, la lettura che ne da lo psicologo tedesco, ci sembra spiegare come la rigidità dei tipi, dei concetti visivi, fondamentali sul piano dell’interpretazione, si pongano sul piano della produzione segnica come vincoli. A proposito della percezione, dell’interpretazione del sensibile, Arnheim argomenta come quest’ultima consista nell’adattare il materiale di stimolo a stampi di forma relativamente semplice, che io chiamo concetti visivi o categorie visive, e la memoria assegnerà all’oggetto concreto un posto entro un sistema di segni che costituisce la nostra visione totale del mondo. Così quasi ogni

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A RNHE IM, 1 9 6 9 t r. it . PAG. 3 5

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atto percettivo coinvolge la classificazione di un dato fenomeno particolare sotto un qualche concetto visuale; Sul piano dell’interpretazione del reale, i vantaggi sono evidenti: queste forme sono concetti, operano a livello conoscitivo interpretando il sensibile e valutandolo. Da un punto di vista biologico, questo processo cognitivo è di evidente importanza – ed è curioso, oltretutto, osservare come per certi versi questa tesi sembri avallare quella semiotica di Hjelmslev, o quella dell’interpretante di Peirce –. Ma se dal lato dell’interpretazione sembra esserci un movimento ascensionale, da un continuum informe verso un sistema segnico organizzato e rigido, per quanto riguarda quello della produzione, invece, il movimento è opposto, cioè discensionale: da una griglia organizzata di contenuti e di espressioni verso la concretezza del segno. Ma cosa vuol dire in sostanza? Immaginiamo ci chiedano di visualizzare la temperatura atmosferica nell’arco di una settimana: la forma espressiva convenzionale, radicata nell’immaginario di ognuno di noi è quella che la contempla come una linea di mercurio che sale e scende in maniera lineare, la trasposizione scritta del grado su una scala Celsius o Fahrenheit, o attraverso l’impiego di una variabile colore dove il rosso sta per caldo e il blu per freddo. Queste, che sono forme espressive imposte per convenzione, interpretano rigidamente il fenomeno rispetto a semplici analogie: l’abbassarsi o l’innalzarsi di una forma nello spazio al relativo incremento o decremento della temperatura; mutare della tonalità del colore in rapporto a quanto freddo, o quanto caldo ci sia. La temperatura atmosferica è comunicata, cioè percepita, esclusivamente come grandezza che si alza e si abbassa, o che muta di colore, precludendo al destinatario una qualsiasi altra interpretazione possibile del fenomeno, di leggerlo rispetto a una sua altra pertinenza – una tra tutte potrebbe essere, ad esempio, il rapporto tra calore e livello di energia –. L’interpretazione di un qualsiasi fenomeno è ancorata alla regola che gli attribuisce una convenzionale forma di rappre-


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sentazione, espressiva, limitando non solo la rappresentazione stessa, ma anche e di conseguenza, l’intera gamma di interpretazioni possibili che sono il diagramma, il disegno stesso. In questo capitolo abbiamo visto come il modello si possa considerare interpretante di un fenomeno, cercando di integrare la teoria del triangolo della semiosi di Peirce sul modello dell’analogia. Questo ci ha permesso, prima di tutto, di godere indirettamente di un’ampia trattazione sul tema dell’interpretante attraverso cui rileggere la proporzione aristotelica e il k della relazione; e in secondo luogo di nominare e circoscrivere con maggior accuratezza gli elementi che costituiscono la proporzione, già eletta a fondamentale strumento euristico e di progetto. Concludendo, quindi, potremmo dire che un diagramma, una rappresentazione schematica, un modello visivo, è foro nel quale leggere l’oggetto di cui è segno: il tema. E in virtù di un interpretante che accomuna i due lati della proporzione, quest’ultimo lo chiarisce, lo traduce, lo interpreta appunto.

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D i c h i a r ata m e n t e s o g g e t t i vo

Scelta di una pertinenza del fenomeno, progetto della forma dell’espressione: la rappresentazione dati risulta essere una pratica piuttosto arbitraria il cui risultato non è una verità assoluta, ma materiale parziale da essere interpretato a sua volta.

I

n quell’Impero, l’arte della Cartografia raggiunse tale Perfezione che la mappa d’una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era Inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degl’Inverni. Nei deserti dell’Ovest rimangono lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non è altra reliquia delle Discipline Geografiche.

B ORGES , 1 9 3 5 t r. it. PAG. 1 25 3

Costatazione di come l’analogia metta in evidenza il carattere soggettivo dei diagrammi, troppo a lungo pensati essere strumenti di verità oggettiva e non dibattibile.


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L’unico caso, limite, ideale, irrealizzabile dove si possa rappresentare quanto ci circonda è, nel caso di una mappa geografica, quella di eleggere a rappresentazione l’oggetto della stessa, e forse nemmeno in quel caso. E nonostante Borges parli specificamente di una carta geografica, questo principio vale non solo per ogni artefatto grafico ma in generale per ogni segno – ecco come la definizione del segno peirciano acquisisce valore –. Una cartina geografica, come scrive Bertin, è un’eccellente analogia dove il foro si serve dello spazio per rappresentare lo spazio: il tema. Ma indipendentemente dalla natura del tema, o del mezzo impiegato nel foro, il principio di parzialità della rappresentazione rispetto al suo oggetto è indiscutibile. Se ci immaginassimo, allora, un diagramma o un qualsiasi grafico come una sorta di cartina geografica di un fenomeno, dell’oggetto che rappresenta, non saremmo in errore. Anzi, si giustifica qui la nostra scelta di non differenziare ulteriormente le diverse categorie dei grafici. La parzialità della rappresentazione, però, implica una scelta di cosa rappresentare dell’oggetto, di cosa rendere pertinente nella visualizzazione, di quali aspetti e caratteristiche privilegiare del referente. In questi capitoli abbiamo visto come la traduzione di un fenomeno nel linguaggio diagrammatico sia pratica complessa e assolutamente non scontata o meccanica. All’opposto, abbiamo cercato di capire in che modo la disciplina della visualizzazione sia effettivamente progettuale, e di legittimare il ruolo del designer all’interno della pratica. E questo si è reso evidente nel chiarire la serie di variabili da considerare nella relazione analogica – che è alla base della rappresentazione stessa – e nella traduzione inter-semiotica. Sono variabili, queste, che necessitano di essere progettate rispetto a vincoli comunicativi, a quelli dell’analisi da portare avanti, di scoperta, insomma, rispetto alle funzioni preliminarmente poste che l’artefatto dovrà assolvere.


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DICHIA R ATA MENTE SO G G ET TIVO

Raggiungere l’oggettività nella rappresentazione resta un’illusione Ottocentesca, questo anche qualora certi autori la rivendichino, più o meno esplicitamente, dietro un linguaggio altamente formalizzato e codificato. Il linguaggio diagrammatico, consapevole del suo limite, che è ontologico, deve essere guardato dal progettista allo stesso modo con cui lo sperimentatore guarda l’oggetto della sua ricerca, allo stesso modo dell’innovatore. Sicuro del fatto che evolverlo significa accrescere il mezzo attraverso cui osservare una certa cosa. Ogni sorta di artefatto grafico è vincolato ad alcune scelte di sintesi e comunque, come nella mappa di Borges, il paradosso di rappresentare un’area geografica in scala 1 : 1 si traduce nel non privilegiare alcun aspetto del suo oggetto: disegnare il tutto, quindi il niente. Motivo per cui la cartina non ha alcuna utilità. Non esiste alcuna astrazione, non emerge nulla di rilevante e non si presta a essere utilizzata né dal cercatore d’oro, né dall’urbanista, che su una mappa cercherebbero cose precise e visibilmente privilegiate. È un limite questo che deve necessariamente appartenere all’info-designer. Essere a conoscenza del fatto che il prodotto dei suoi sforzi non sarà mai in grado di descrivere un qualche cosa nella sua complessità e che, al contrario, ogni artefatto che realizzerà sarà una arbitraria, soggettiva e parziale interpretazione di un fenomeno.

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Vertere l’attenzione sull’analogia è necessario perché, da quanto evinto nei capitoli precedenti, è il principio da cui si origina il diagramma. Ma è egualmente importante leggerla come strumento di grande utilità in se stessa. Strumento che ci permette di riflettere sul diagramma gli stessi vantaggi che, nella sua forma più pura di rapporto di somiglianza, la relazione analogica offre.


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CAP. 4 LAB ORATORIO

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TE M A

BEATITUDINE IN UNA TA BELLA

L a b o r at o r i o

Tema

Sul modello dell’analogia, che si costituisce in un rapporto a quattro termini tra un tema e un foro, attribuiamo alla prima diade la funzione di porre in relazione due incognite del fenomeno in analisi; dall’altra parte dell’uguale, invece, i mezzi a disposizione del designer affinché possa progettare un modello adeguato alla traduzione che vuole attuare. La prima coppia della proporzione: il tema, o “studio della forma del contenuto”. Strumenti, avvertenze e una leggera implementazione a quelli che sono i mezzi utilizzati per circoscrivere una unità culturale.

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CAP. 4 LAB ORATORIO

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TEMA

B EATITUDINE IN UNA TA BELLA

B e at i t u d i n e i n u na ta b e l l a

Leggere oltre lo scritto. Se la tabella è tendenzialmente il formato da cui il progettista parte per disegnare un grafico, l’invito allora sta proprio nel testualizzarla, tessere relazioni, contestualizzarla, ipotizzare. In altre parole andare oltre a quanto ci è dato vedere.

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bbiamo affrontato il modello dell’analogia principalmente per comprendere in che modo quest’ultimo possa essere utilizzato come strumento – soprattutto in rispetto alla produzione di rappresentazioni diagrammatiche –. Tuttavia, nonostante il nostro tentativo di spiegarne le dinamiche, il funzionamento e le variabili da manipolare al fine di alterare i risultati della proporzione, restano ignoti dal punto di vista semantico i criteri attraverso cui effettuare quelle che abbiamo visto essere, di fatto, delle “sostituzioni”. In virtù di quale motivo, nel caso della bottiglia di Idra, abbiamo introdotto la variabile “pluralità di teste” rispetto alla singolarità di quella dell’uomo? Potremmo cavarcela sostenendo che i motivi alla base di quella sostituzione siano stati di natura progettuale, funzionali rispetto allo scenario di applicazione che avevamo previsto nell’esempio, ma non basta: se il bisogno alla base del progetto fosse stato quello di erogare liquido più velocemente avremmo tranquillamente potuto optare per una soluzione progettuale differente, che ampliasse il collo della bottiglia e

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quindi l’apertura della stessa. Forse, in ambito progettuale, il modello dell’analogia non è attendibile come strumento per identificare una precisa soluzione formale a un problema specifico. Ma è possibile che trovi una certa utilità nel creare, attraverso un utilizzo reiterato e naïve della stessa, dei bisogni non ancora previsti per mezzo della scoperta di nuove relazioni tra tema e foro, cioè di nuove soluzioni formali: il processo s’inverte, si autoalimenta, dove prima viene pensata una nuova conformazione dell’oggetto rispetto alla relazione tra tema e foro, e poi, di conseguenza, se ne identificano le possibili applicazioni, le eventuali funzioni che assolve, i bisogni che soddisfa, e se ne valuta a posteriori la praticità e l’effettiva realizzabilità. Questo punto lo approfondiremo meglio nel capitolo sul foro. Il problema è che, indipendentemente dalle necessità imposteci dal progetto, il criterio di scelta tra le infinite soluzioni operative resta sempre arbitrario, o meglio, determinato da fattori extra-semiotici che non possono essere descritti sinteticamente in una teoria. Le analogie si compiono in maniera spontanea: sono alla base del nostro ragionare più comune, quotidiano, e questo, dal punto di vista della nostra teoria, non è di alcun aiuto. Al contrario, è un grosso problema. Ciononostante, affinché questo lavoro possa ritenersi autonomo e completo, è necessario fornire quantomeno i mezzi per monitorare, controllare ed eventualmente catalizzare la scoperta di somiglianze tra il tema e il foro di una proporzione. Data questa premessa iniziale, proviamo a capire come il progetto di una rappresentazione diagrammatica possa essere osservato rispetto al modello dell’analogia. Le due coppie della proporzione, tema e foro, possono essere osservate, con Hjelmslev, rispettivamente come contenuto ed espressione. Il tema corrisponderebbe cioè al fenomeno da visualizzare, formattato in una tabella più o meno complessa, che prevede l’impiego di caratteri alfanumerici – organizzati in righe e colonne – e di componenti. Questo potremmo dire


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TEMA

B EATITUDINE IN UNA TA BELLA

essere il S. L. – testo sorgente – di base da cui iniziare il processo traduttivo, d’interpretazione. Dall’altro lato c’è il foro, un segno grafico, un’espressione, un significante che visualizza, per mezzo di una relazione analogica, quanto riportato nella tabella. Focalizziamoci momentaneamente sul tema, cercando di capire in che modo si possa allargare il contenuto della tabella, averne una visione più generale, articolata pur partendo dallo stesso linguaggio di formattazione tabellare. Lo abbiamo spiegato nel secondo capitolo, come i grafici di Bertin rendano pertinenti nella traduzione solamente proprietà molto generali relative alla natura del dato, tralasciando aspetti non meno rilevanti che caratterizzano il fenomeno. Una componente non è di certo descrivibile esclusivamente rispetto alle sue peculiarità statistiche, ma anche in rispetto a quelle proprietà che lo definiscono all’interno di un sistema semantico più generale, quello della nostra conoscenza ordinaria e condivisa. In questo senso, sembra esserci una mera trasposizione, una sorta di decodifica dalla tabella al disegno, dove ogni segno sembra giacere su un rapporto di superficiale equivalenza. Al contrario, le componenti hanno una portata significativa ben più ampia che va investigata: ispirandoci a un celebre esempio proposto da Eco nel Trattato di semiotica generale, supponiamo di dover monitorare il livello dell’acqua in un bacino. Un modello di rappresentazione tendenzialmente utilizzato renderebbe rilevanti solamente l’altezza dell’acqua al suo interno, e chi ne debba controllare l’invariante sarà istruito rispetto al punto limite oltre il quale è necessario espellere acqua. Tuttavia, l’altezza dell’acqua comporta una serie di connotazioni conseguenti: la pressione esercitata sulla muratura della diga, la quale aumenta in maniera esponenziale all’innalzarsi dell’acqua; il rischio sempre più concreto di un’alluvione con i relativi danni; … . Nel disastro del Vajont, per esempio, un indicatore dell’altezza dell’acqua non solo non sarebbe stato sufficiente per scongiurare la tragedia, al contrario sarebbe stato deviante. E forse lo è stato veramente: se intuitivamente, l’abbassamento del livello

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dell’acqua nel bacino avrebbe potuto limitare i danni nel caso di uno straripamento o di cedimento della diga, in realtà, proprio la decisione di fare fuoriuscire liquido ha contribuito allo scivolamento della parete della montagna, la cui mole ha poi generato la devastante onda distruttrice. Scegliere di far defluire l’acqua, infatti, ha aumentato il peso della zolla instabile vincendo così l’esile forza di attrito che la teneva ancorata al lato della montagna. In quello specifico caso, il livello dell’acqua era pertinente rispetto alla sua funzione di sostegno, magari rispetto alla pressione che esercitava sulla diga, e non solamente rispetto alla sua altezza all’interno del bacino. Purtroppo le cause del disastro sono ben più profonde di una deficienza informativa nel quadro di controllo, considerato, peraltro, che il rendere pertinenti la funzione di sostegno dell’acqua, forse, avrebbe già voluto significare l’impossibilità di realizzare un così imponente impianto idroelettrico in una zona non consona. Vero è, tuttavia, che una componente, gli stati dell’acqua come qualsiasi altro, è leggibile da più punti di vista. La componente di una tabella è un segno basato su un rapporto inferenziale: è interpretabile, re-interpretabile e infinitamente significante. Il segno è aperto e visualizzabile in rispetto a una pluralità di pertinenze che lo definiscono nelle relazioni che tesse sia con componenti già presenti nella tabella, sia con componenti potenzialmente parte della tabella: il calore di cui abbiamo parlato precedentemente può essere osservato in relazione con il tempo, la temperatura, ma anche in relazione con la quantità di energia sprigionata – fotovoltaica o termica che sia –. Potremmo dire, che gli elementi di una tabella necessitano, prima di tutto, di essere testualizzati e solo in seguito di essere osservati come semplici categorie statistiche. Il segno è interpretabile rispetto a una serie di implicazioni, conseguenze, connotazioni che aprono la lettura dello stesso rispetto a nuove conformazioni espressive di un fenomeno. La componente “tempo” viene abitualmente rappresentata in


BEATITUDINE IN UNA TA BELLA

uno spazio bidimensionale e non deformabile – immaginiamo precisamente sull’ascissa –, ma supponiamo di usare, per una certa rappresentazione, uno spazio tridimensionale soggetto a deformazione prospettica, e di apporre sull’asse z il valore “tempo”. A seconda dell’altezza della linea di orizzonte avremmo una condensazione più o meno elevata degli eventi situati nel passato – prossimo o remoto –, introducendo, visivamente, concretamente, un’ulteriore componente così determinante nella storia dell’uomo: l’oblio. L’indagine del tema nelle sue svariate sfaccettature è lo zoccolo, il sostegno necessario su cui basare i movimenti abduttivi del processo creativo, è il campo dell’invenzione, dell’ipotesi. A questo scopo, nelle righe seguenti, discuteremo la possibilità di un metodo d’indagine e alcune nozioni funzionali a questo processo, per poter sviluppare, in maniera più o meno sistematica, i diversi aspetti di un’unità culturale. Per il momento, è necessario fissare l’idea di come un testo, sebbene formattato in una tabella, presenti implicitamente significati ulteriori, ben più profondi rispetto a quelli meramente statistici, e che è importante, a fini progettuali, l’investigazione di quest’ultimi. Proponiamo di seguito una riflessione sulla simbologia della Cabala: Se l’uomo pronuncia parole della Torah, genera continuamente potenze spirituali e nuove luci che escono come farmaci da combinazioni quotidianamente nuove degli elementi e delle consonanti. E quindi persino se per tutto il giorno legge soltanto questo unico verso raggiunge la beatitudine eterna, perché in ogni tempo, anzi in ogni attimo, cambia la composizione [degli elementi interni del linguaggio] secondo lo stato e l’ordine gerarchico di quell’attimo, e secondo i nomi che sfavillano in questo attimo. Seguono a questo capitolo alcuni strumenti di ausilio per reinterpretare le componenti di un data-base, l’estensione di una sequenza ordinale di dati e gli altri elementi costitutivi di una tabella.

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TE M A

S C HO LEM, 19 6 0 - in EC O, 1 9 8 4 PAG. 23 2

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TR AT TI DEL TEMA

T r at t i d e l t e m a

Strumenti per approcciarsi allo studio di una unità culturale. Il sistema che circoscrive un significante, nei rispettivi significati dizionariali, enciclopedici, contestuali, leggendo, con Eco, i diversi approcci all’analisi componenziale. È possibile definire un processo sistematico all’indagine del tema?

C

ome è analizzabile il tema? Meglio, come identificare la coppia costitutrice il tema nell’equazione? Come riportato nel paragrafo precedente, abbiamo stabilito che nel rapporto analogico fondativo del diagramma, il tema si possa associare al contenuto, al fenomeno nelle sue diverse manifestazioni socialmente riconosciute, mentre il foro ne sia il segno, il mezzo attraverso cui è reso comunicabile, accessibile e che lo interpreta. Con Bertin, tuttavia, abbiamo ricordato come la pratica della visualizzazione dati abbia reso rilevanti solo alcune proprietà di questo contenuto: gli aspetti relativi alla classe statistica di appartenenza delle sue componenti, della sua invariante – oltre alla peculiarità del dato di poter esprimere informazioni spaziali, nel qual caso si avrebbe una “mappa” –. Insomma, sembra che la porzione di linguaggio statistico, reso rilevante nella pratica della traduzione grafica, sia assai limitato nella sua artico-

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latezza, nella sua forma, e non sia predisposto a identificare altre unità di significato al di fuori di quelle discusse nel secondo capitolo. In realtà, è evidente, la componente di una qualsiasi tabella veicola uno – o più – significato/i ben più complessi e articolati rispetto a quelli che lo definiscono esclusivamente in rispetto alla sua categoria statistica. Ma come investigarli? Come approfondirne il significato, il suo contenuto più ampio? Esiste un modello d’uso consolidato e versatile che permetta, di un semema, di analizzarne i diversi aspetti, i diversi sensi, le diverse pertinenze che permettono di un segno una lettura poliedrica e completa?

E C O, 19 7 5 PAG . 1 22

Innanzitutto è importante stabilire cosa, a partire dalla tabella, dal S. L. da cui prende avvio la pratica traduttiva, sia estrapolabile e sviluppabile in termini di analisi del contenuto. Quanto dovrà e potrà essere posto nella prima coppia dell’equazione, quanto dovrà essere espresso e interpretato dal foro: in altre parole, lo – o gli – oggetti/contenuti della comunicazione. A ben vedere, gli unici elementi che si prestano a essere analizzati e ampliati nei loro significati sono le componenti del data-base, l’invariante ed eventualmente gli elementi para-testuali del grafico – come il titolo, o il sottotitolo –. In secondo luogo è necessario stabilire, seppur approssimativamente, cosa s’intende per significato di un segno. Per fornire una risposta la più adeguata possibile, ci serviremo di una deduzione di Eco rispetto a ciò cui il significante deve riferirsi a una rete di posizioni all’interno dello stesso campo semantico e a una rete di posizioni all’interno di diversi campi semantici. Secondo la concezione strutturalista, il significato era circoscrivibile e identificabile all’interno di un preciso spazio di un sistema semantico. Ecco allora che autori come Katz e Fodor, per esempio, svilupparono un modello ad albero bidimensionale di analisi componenziale del significato, il cui scopo era quello di identificare in maniera univoca, precisa ed essenziale i tratti semantici – unità minime di significato non ulteriormente analizzabili – che definivano,


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nel loro complesso, il significato di un semema: “scapolo” è, allora, un “essere umano” + “maschio” + “adulto” + “mai sposato”. Tuttavia, oltre a problemi relativi al protocollo di analisi che non è coerente nella distinzione fra i tratti semantici e l’unità culturale in esame – questo per ragioni che Eco proverà essere imprescindibili e ontologiche –, è evidente come questo sistema non adempia all’identificazioni di tutti i significati implicati dalla parola “scapolo”. Il modello si basa sostanzialmente sulla divisione binaria di un genere in specie, in funzione di una differenza specifica che caratterizza la sottoclasse del genere. Inizialmente pensata da Platone, raffinata da Aristotele, di nuovo da Porfirio, Tesauro e altri ancora, questo modello si basa sulla premessa che vi sia solamente un sistema semantico, un asse di riferimento. Ma proprio questa premessa, così fondamentale per il modello strutturalista, è quanto è inconciliabile con la definizione di significato fornita da Eco. Il “Solanum lycopersicum” – comunemente conosciuto come “pomodoro” – è, secondo la classificazione botanica, frutto della famiglia delle solanacee, ma è al contempo, secondo una classificazione gastronomica, appartenente alla classe delle verdure, e questo in virtù di un principio completamente differente da quello che lo descriveva come frutto. Il significato del semema “pomodoro” acquista valenze diverse a seconda dei contesti, delle culture, che lo classificano in rispetto ad alcune e specifiche proprietà dello stesso: quanto è, o quanto non è rilevante. Ma c’è di più. Il termine “pomodoro” può riferirsi, lo abbiamo detto, al suo significato convenzionalmente definito secondo la classificazione botanica, a quello associatogli dalla gastronomia, ma anche rispetto a quei tratti semantici connotativi che costituiranno una sorta di “conoscenza enciclopedica” del semema. “Fonte di sostentamento delle popolazioni precolombiane dell’America centrale”, “il dono che Walter Raleigh fece alla regina Elisabetta”, “ingrediente indicato per condire pietanze di ogni genere e che macchia facilmente”, “alimento di colore rosso o verde”, “vivanda o bene importato nel vecchio continente a partire dal

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E S SER E U MA N O

A N I MA L E

MA SCH I O

F EMMI N A

A DU LTO

G I OVA N E

M A I SP OSATO

S P OSATO

SCA P OLO

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FIG. 17.

Modello Katz e Fodor. L’esempio qui proposto – Scapolo – è il medesimo sviluppato dai due studiosi – benché qui estremamente semplificato –. Quanto è importante sottolineare qui è la presenza, a ogni biforcazione del tracciato, di una discriminante differenza specifica: Essere umano o Animale? Maschio o Femmnina? … Secondo Katz e Fodor questo modello dovrebbe descrivere in maniera esaustiva e univoca i tratti semantici di qualsivoglia parola.


sedicesimo secolo” … anche queste sono “indicazioni” che circoscrivono i nuclei di significato del semema in analisi. Sono tratti semantici che, alla stregua dell’oggetto in esame, si prestano a loro volta a essere reinterpretati da altri segni, da altri tratti semantici, dando così adito a un sistema di contenuti rizomatico, la cui analisi non può che essere parziale e incompleta. È proprio Eco ad attuare questa distinzione fra i tratti semantici da lui chiamati “denotativi”, rispetto a quelli “connotativi” che abbiamo appena visto. I primi vengono definiti come marche la cui somma – o gerarchia – costituisce e identifica l’unità culturale a cui il significato corrisponde in prima istanza e su cui si basano connotazioni successive, quei tratti cioè che determinano le condizioni necessarie sufficienti – CNS – affinché un qualche cosa sia definibile come tale. I secondi, invece, sono definiti come marche che contribuiscono alla costituzione di una o più unità culturali espresse dalla funzione segnica precedentemente costituitasi, cioè quei tratti la cui presenza o assenza non inficia in maniera sostanziale sull’associazione del significato al suo significante – è assolutamente accettabile dire che una tigre sia una tigre, benché docile, nonostante sia enciclopedicamente registrato che quella specie di felini sia particolarmente feroce, aggressiva –. 4 0 La nozione di significato, è chiaro allora, è molto più complessa di quanto possa inizialmente sembrare. Potremmo sintetizzare, riprendendo la definizione di Eco, che il significato di un segno si determina per mezzo di una serie di interpretanti volti a circoscrivere le molteplici aree di contenuto all’interno di un sistema semantico articolato, topologicamente inimmaginabile, la cui esplorazione non può né realizzarsi nella sua completezza, né essere sistematizzabile in

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I B ID EM

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A questo proposito Quine precisa come anche la distinzione tra marche denotative e marche connotative sia di fatto basata su una convenzione culturalmente posta, e non si riferisca a una presunta reale gerarchia delle marche attraverso cui si interpreta il referente.


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maniera efficace. Tuttavia, possiamo ugualmente proporre un modello di indagine del significato di un semema, che tenga in considerazione sia delle conoscenze di tipo denotativo – dizionariale –, sia delle conoscenze di tipo connotativo – enciclopedico –. Uno strumento di ausilio cioè che permetta, nell’identificazione dei plurimi significati di un segno, di esplorare le diverse proprietà, pertinenze, conoscenze che definiscono un’unità culturale: nel nostro caso, quanto circoscrive le aree di contenuto di ciò che è costitutivo del tema dell’analogia. Eco propone, sulla base delle critiche apportate al modello di Katz e Fodor, Il MSR, o modello semantico rivisitato, che si costruisce sulle osservazioni riproposte sinteticamente in questo capitolo: dato un significante, vengono identificati i diversi contesti e circostanze entro cui il potenziale significato del semema si può articolare – nel caso del pomodoro, quello botanico, gastronomico ... –; identificati i rispettivi tratti denotativi – frutto delle solanacee ... –; e, infine, identificati i tratti connotativi – dal colore rosso, dalla polpa tenera ... –, prendendo così in considerazione sia le porzioni di contenuto denotativo, sia quelle di stampo connotativo. Seguendo questo modello di organizzazione dei tratti semantici, è perciò possibile sviluppare in maniera controllata l’identificazione delle diverse aree di contenuto del semema in esame. Ciononostante, al di là della struttura rigorosa delle diverse marche impiegate, che può effettivamente fungere da ausilio all’individuazione dei contenuti, non vi è alcun ulteriore suggerimento su come identificare, in maniera sistematica, i relativi tratti semantici. Come estrapolarli? Un sistema collaudato e preciso per riconoscere, identificare i vari contesti e tratti semantici entro i quali un significante viene associato a un contenuto non è ancora stato proposto, del resto, sarebbe impossibile garantire al contempo sia la precisione necessaria del modello nel descrivere il caso specifico, sia la generalità che ne permetta un utilizzo duttile e universale. I tentativi di Petöfi, per esempio, di proporre un


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modello di conoscenza enciclopedica, si sono rivelati essere poco flessibili e utilizzabili esclusivamente per determinate porzioni di enciclopedia – risultato che per altro è coerente con quelle che erano gli scopi prefissati –, altri invece, si sono rivelati troppo generici e imprecisi. Questa riflessione ci è sì servita per ridefinire il concetto di significato nelle sue diverse sfumature, ma anche per capire come la conoscenza si serva principalmente delle marche enciclopediche, empiricamente esperite, per stabilire il contenuto di un dato semema. Un efficace – ma non meglio definibile – sistema per la consultazione dei significati è, banalmente, quello di consultare librerie ipertestuali che consentano una preliminare cernita del contesto di riferimento, svolgano i tratti denotativi e riportino, come parte essenziale del contenuto, le connotazioni enciclopediche. Significante Ï contesti e circostanze Ï tratti denotativi Ï tratti enciclopedici, coerentemente con le modalità attraverso cui Eco suggerisce di procedere. In aggiunta a ciò, si possono inoltre seguire alcuni accorgimenti generici per muovere l’identificazione di nuovi interpretanti, di nuovi tratti semantici a definizione delle diverse porzioni di significato. Per esempio, una soluzione operativa potrebbe essere quella di riconoscere, per i rispettivi significanti in analisi, una causa o un agente generatore; una materia costitutiva; una forma; e un fine [o effetto] a cui indirizzare l’oggetto. Prendendo a modello questo “indice” di stampo aristotelico, che Eco propone per generare metafore, si possono intuire, per suggerimento, alcuni aspetti del contenuto che altrimenti rimarrebbero inediti. 4 1 Proviamo ad applicare il metodo al caso concreto. Indaghiamo il contenuto di alcuni dei sopracitati elementi della tabella che possono occupare il tema dell’equazione. Ecco una serie di esempi che svilupperemo a mano a mano che approfondiremo i punti di questo quarto capitolo:

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Sia chiaro che gli strumenti qui proposti, nell’ambito della semiotica odierna, sono ormai superati in favore di una Ï

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I. Titolo: Temperature estive in Lombardia. Componenti: calore espresso in gradi; tempo. Invariante: temperatura x in un momento x. Sviluppiamo, per esempio, il contenuto della componente “calore” e cerchiamo di capire in che modo l’analisi del suo significato possa suggerirci nuove forme espressive visive per rappresentare il fenomeno. Contesti: Emotivo; Biologico; Chimico-Fisico; … . Escluso il primo contesto emotivo dove il termine è usato nella sua accezione figurativa, potremmo dire che per i due rimanenti, la marca denotativa principale che le contraddistingue è quella di forma di “energia”. Da questo tratto semantico è possibile ampliare ulteriormente il significato della componente “calore” in più numerose marche connotative: Moto di particelle microscopiche, con effetti conseguenti di diversa natura: dilatazione dei materiali, e questo anche nei casi medici, biologici quindi, dove un’eccessiva esposizione al calore determina vaso dilatazione, quindi abbassamento della pressione. Ma, anche, è indice di una possibile infezione per cui l’organismo innalza il calore corporeo per eliminare la minaccia: calore come strumento immunitario. Ancora, dal punto di vista fisico, il calore si definisce per quelli che sono gli effetti di una sua azione su materie di diversa composizione: evaporazione dei liquidi e quindi, talvolta, forma di energia iniziale convertibile in energia meccanica – come l’energia elettrica prodotta nelle centrali nucleari – e più genericamente come

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teoria più orientata a considerare i cosiddetti fuzzy concepts di stampo prettamente psicologico – dove l’analisi del significato prende avvio dalla nozione di prototipo: l’aquila o il passero sono più uccelli della gallina o del pinguino in conformità dell’immagine prototipica che si ha di una classe di elementi –. Ma considerate le finalità del nostro lavoro e la solidità “meccanica” necessaria a uno strumento per poter essere utilizzato in un ambiente progettuale, il MSR ci è parsa la soluzione più idonea.


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catalizzatore di ulteriori reazioni chimiche o fenomeni fisici. Calore è anche forma di conservazione dell’energia prodotta per mezzo dell’attrito o di lavoro meccanico, come enunciato da Joule nel XIX secolo, etc. etc. Questi sono solo una limitatissima parte delle pertinenze relative a questa specifica componente, ma già da una breve analisi dei suoi contenuti emergono interessanti spunti sulle infinite possibilità di forme espressive adoperabili per rappresentare il “calore”. Lo studio qui presentato è preliminare alla fase di progettazione grafica, espressiva, e si presume potrà essere un ausilio importante nel concepire un artefatto adeguato agli intenti comunicativi: le parole scritte in corsivo suggeriscono già in questa fase iniziale del processo, forme di rappresentazione che vanno ben al di là del semplice innalzarsi o abbassarsi di una colonnina di mercurio, al convenzionale rapporto analogico che prevede il colore rosso associato al caldo e il blu al freddo, alla trasposizione numerica dei gradi o all’andamento irregolare di un istogramma organizzato in ascissa – tempo – e ordinata – temperatura –, indicando, implicando una gamma di forme di rappresentazioni possibili che permettono una maggiore flessibilità espressiva all’info-designer. Tra i suggerimenti in corsivo qui riportati formalizziamo, secondo il modello aristotelico dell’analogia, una pertinenza del calore: Variazioni calore : materiale = x : y. Dove il k è la dilatazione. II. Titolo: Produzione dei rifiuti in Piemonte. Componenti: rifiuti diff./indifferenziati; tempo – 5 annu. Invariante: quantità x di rifiuti diff./indiff. in un momento x. In questo caso proviamo a ricostruire i possibili significati della componente “tempo”: contesto atmosferico; fisico; filosofico; … . 4 2 Escludiamo il primo caso e vediamo i rimanenti: molto si è dibattuto su cosa fosse il tempo nella sua essenza,

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Secondo e terzo contesto, per molti aspetti, coincidono.

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nella ricerca di una definizione precisa, ma con esiti dal successo parziale e talvolta conflittuali tra loro. In effetti, il contesto filosofico andrebbe segmentato ulteriormente perché troppo generico: secondo i pitagorici, per esempio, il tempo è scansione ritmica, ciclica del divenire del cosmo, eterna. Il suo tratto semantico denotativo potrebbe essere, secondo questa interpretazione del “tempo”, quello di “misura” del divenire, della sequenzialità, mentre le marche connotative sono quelle legate alla ciclicità biologica e astronomica: tutto quanto è soggetto agli effetti di questa misura che scandisce il cosmo. Nascere, poi morire e rinascere di nuovo, giorno che diventa notte e giorno ancora. Secondo il pensiero occidentale elaborato principalmente da Sant’Agostino, invece, il tempo è estensione dell’anima: viene interiorizzato e scandisce gli stati di coscienza dove il presente è passaggio, soglia, tensione lineare piuttosto che ciclica, organizzata in passato, presente e futuro. Sulla base di questo pensiero il filosofo francese Bergson svilupperà la sua filosofia, evidenziando le differenze tra il tempo percepito e il tempo reale: il primo che riconosce ogni attimo come qualitativamente diverso dal suo precedente, e il secondo rigorosamente misurabile. Forse ispirata dal pensiero kantiano dove il tempo, come “senso interno”, è quanto organizza gli oggetti dello spazio in una sequenza soggettiva: è perciò determinato dall’esperienza individuale e si scosta dall’idea di un “tempo unico” e partecipato. Immaginiamoci allora il tempo non come mono-lineare ma come multi-lineare, molteplice: tanti “tempi” quanti ne sono gli individui, i gruppi, le società. Linee che s’incontrano, s’intrecciano, si contaminano, condividendo o imponendo il proprio passato a culture diverse, e condividendo, alterando mutuamente le proprie aspettative sul futuro. Le denotazioni di questa idea di tempo potrebbero essere quelle di “grandezza ordinatrice e soggettiva” mentre, le connotazioni, sono la soggettività dell’esperienza individuale, determinata da un diverso tempo di scoperta dello spazio, la pluralità di vissuti caratterizzati da una differente sequenzia-


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TR AT TI DEL TEMA

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CHIMICO FISICO

ENERGIA; “ATTIVITÀ”

ENERGIA; “FLUIDO”

DIFESA ASPECIFICA

MALATTIA

CAUSA ABBASSAMENTO PRESSIONE

EFFETTO ATTRITO

D ENOTATA

BIOLOGICO

CAUSA PASSAGGIO DILATAZIONE DI STATO

FIG. 18.

Schema del modello semantico rivisitato pensato da Eco e qui adoperato allo scopo di analizzare la componente calore. Di questa brevissima indagine dei contenuti associati alla relativa componente in esame prestiamo particolare attenzione al tratto semantico causa di dilatazione.

C O NNOTATA

EMOTIVO

CO NT EST I

CA LOR E


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lità ordinatrice degli eventi, 4 3 etc, etc.. Anche per il contesto fisico sarebbe necessaria una distinzione più raffinata: Galileo e Newton differenziarono tempo assoluto e tempo relativo, il primo è parametro misurabile al pari dello spazio, mentre il secondo no. Per Galileo, in linea con il pensiero filosofico occidentale, il tempo è lineare e garante della successione tra una causa e relativo effetto – binomio che è alla base del metodo sperimentale –. Il tempo diviene parametro misurabile al pari dello spazio. Secondo Einstein, invece, il tempo diviene grandezza deformabile: non più lineare, né ciclica ma alterabile, coerentemente con quanto da lui postulato nella teoria della relatività. Osservando la teoria einsteiniana, potremmo associare la marca denotativa al tempo come “grandezza misurabile”; “distanza tra gli eventi relativi a specifici sistemi spazio-tempo”. E le marche connotative potrebbero essere le conseguenti applicazioni della teoria alla realtà, la relatività della – presunta assoluta – linearità del tempo in sistemi differenti, alle studiabili implicazioni della teoria constatabili per mezzo di esempi – o anche esperibili, nel caso limite del laboratorio –, la deformabilità del tempo, l’ideale esperienza di vivere su un mezzo che viaggia a una velocità simile a quella della luce e riscontrare che, al proprio ritorno, il nostro ipotetico fratello gemello è oramai scomparso da tempo, … . Anche in questo caso, le parole che di per sé suggeriscono una possibile soluzione formale-visiva sono riportate in corsivo. Nonostante la nostra disamina delle molteplici interpretazioni della componente “tempo” sia indiscutibilmente approssimativa e superficiale, emergo-

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In ambito filosofico, innumerevoli sono le altre interpretazioni che verranno date a questa componente. Per alcune culture, come riportato nei primi capitoli, il tempo è interpretato secondo la distinzione di assente vs percepibile: rispettivamente passato e futuro vs presente. Ma, come abbiamo già ribadito più volte, è impossibile vagliare la totalità dei significati associati a questo semema e il rischio è quello di dilungarsi eccessivamente.


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no già, come nell’esempio precedente, interessanti possibilità espressive. Del resto è stupefacente constatare come, data l’innumerevole quantità di significati associati alla componente, quest’ultima venga quasi sempre visualizzata attraverso la medesima forma espressiva: la linea. E questo indipendentemente dalle finalità comunicative. Formalizziamo nuovamente il tema dell’equazione rispetto alla componente “tempo”: Istante : struttura tempo = x : y. Dove il k è la ciclicità del divenire. Oppure: Percezione del tempo : numero di individui = x : y. Dove il k è molteplicità. III. Titolo: Evasione fiscale in Italia. Componenti: denaro evaso espresso in ¤; controlli effettuati in un anno. Invariante: denaro evaso da un individuo x. In quest’ultimo caso focalizziamo la nostra attenzione su invariante e titolo: sceglieremo perciò di considerare il termine “evasione fiscale” come sintagma unico. Questa scelta di sottoporre ad analisi “Evasione fiscale” come unico semema che, lo riconosciamo, può precluderci la possibilità di scoprire interessanti contenuti rispetto al termine “evadere”, limita in maniera consistente il numero dei contesti entro cui il sintagma assume significato. Ne elenchiamo tre: giuridico; economico-finanziario; civico-etico; … . Nel primo caso si circoscriverà il fenomeno in rispetto al codice penale o civile che lo regola: si definirà rispetto al suo essere “reato”, “violazione”, significando di conseguenza tutte le pene concernenti il comportamento criminoso, l’entità del reato, ma anche uno stereotipo di fuorilegge, o di “parassita” dello stato, più che di ladro, come riporta la campagna anti-evasione del ministero dell’economia italiano. Nel contesto Economico-finanziario, invece, incorrono una serie di significati che sfociano anche nelle spiegazioni di natura sociologica: le osservazioni, le teorie che illustrano quali siano

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LAB ORATORIO

TEM PO

FILOSOFICO ATMOSFERICO

FISICO

D ENOTATA C ONNOTATA

SENSO INTERNO

SCANSIONE RITMICA; MISURA DEL DIVENIRE

DISTANZA EVENTI*

MULTI LINEARE

LINEARE; SOGLIA

CICLICO

GRANDEZZA DEFORMABILE

C O NT EST I

FIG. 19.

Secondo esempio di impiego del modello di Eco di analisi componenziale. Qui è stata presa in esame la componente tempo. Di questo studio consideriamo le proprietà di multi-linearità e quella di ciclicità. * La distanza tra eventi in riferimento a un preciso quadrante spazio temporale.


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TEMA

TR AT TI DEL TEMA

le condizioni sociali e storiche che rendono fertile il terreno all’evasione, per esempio. La scelta di analizzare i termini “evasione” e “fiscale” come associati potrebbe rivelarsi vantaggiosa nella misura in cui, la limitata vaghezza del sintagma, possa essere stimolante nell’analisi enciclopedica del fenomeno: cosa lo causi e cosa lo promuova, le diverse modalità di evasione – elusione fiscale, lavoro nero etc. etc. –, gli effetti che avrà a livello economico e, inevitabilmente, anche a livello sociale. Le denotazioni che definiscono l’evasione fiscale potrebbero essere quelle di “atteggiamento volto a contrastare il prelievo tributario”, mentre le marche connotative saranno necessariamente più ampie e anche conflittuali e controverse. Talvolta l’evasione è stata persino definita come atteggiamento patriottico, legittimo che contrastando uno stato inefficiente e corrotto si elegge a vero motore finanziario del paese (Milton Friedman 1994, intervista), mutando in maniera radicale il paradigma attraverso cui il fenomeno è visto: positivo, costruttivo e non più negativo e degenerativo; in altre circostanze, invece, il fenomeno dell’evasione è stato definito come economicamente deleterio, specialmente per quanto riguarda la concorrenza sleale derivata dal fatto che alcuni cittadini evadono più facilmente di altri. Le considerazioni a riguardo sono innumerevoli. Focalizziamoci brevemente sulle tracce semantiche del semema relative agli effetti economici di questo “atteggiamento volto a contrastare il prelievo tributario”: evadere significa privare la collettività del proprio contributo economico, quindi dei servizi pubblici che lo stato dovrebbe garantire. Ma, oltre ciò, sembra innescare una sorta di reazione a catena che, di fatto, pare essere una proprietà piuttosto distintiva e caratteristica del fenomeno: sottrarsi al prelievo tributario è un atto che incide sui restanti individui che dovranno farsi carico dei fondi mancanti. Ogni evasione equivale a un incentivo, per chi corrisponde regolarmente il proprio tributo economico, a evadere a sua volta. Non solo. Qualora l’atteggiamento fosse diffuso, la norma che san-

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cisce l’illecito si delegittima – tant’è che, lo abbiamo visto, si discute molto vivacemente se considerare l’evasore come ladro o come vittima –, l’evasione diventa pratica comune, e si rinuncia a stigmatizzarla. Questo evento è, dunque, circolare, ma rispetto a due movimenti diversi, seppur collegati: multi-circolare allora, dove il primo circolo autoalimenta in primo luogo sé stesso e, al contempo, un altro fenomeno a esso parallelo con il quale si confonde, e la cui dipendenza è reciproca. Un altro aspetto che può rivelarsi interessante nell’indagine delle marche connotative dell’evasione fiscale, concerne le possibili cause che lo permettono. La mancanza di un’idea di collettività, per esempio, di un gruppo che concordemente contribuisce economicamente per garantire la maggior parte dei servizi di cui quotidianamente usufruiamo. In altre parole, una disunità degli individui. Formalizzando l’equazione avremmo, allora: Evasore x : evasore y = x : y. Dove il k è la consequenzialità autoalimentata, reiterazione multi-circolare. Oppure: Evasore x : comunità di appartenenza = x : y. Dove il k è la dis-unità, la distanza tra gli individui che costituiscono il gruppo. Nel capitolo sul foro completeremo le equazioni qui riportate, creando cioè il corrispettivo espressivo al contenuto qui indagato nelle sue diverse sfaccettature. Per il momento, riflettiamo su come, per mezzo dell’indagine del tema, del contenuto e delle sue pertinenze, sia stato possibile comprendere le infinite soluzioni di visualizzazione di un certo semema, di una certa componente o di un certo elemento della tabella. Questa fase del processo, in accordo con quanto sostenuto nel primo capitolo, è preliminare e fondamentale al progettista-traduttore che si appresta a tradurre, appunto, nel linguaggio grafico pluri-forme un testo altrimenti espresso in un altro sistema segnico.


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TEMA

TR AT TI DEL TEMA

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CONTRASTO PAGAMENTO TRIBUTARIO

CIVICO ETICO

GIURIDICO

LESIONE COLLETTIVITÀ

REATO

PRATICA RISANATORIA

DISUNITÀ

LADRO; PARASSITA; PENA

CONSEQUENZIALITÀ CAUSA-EFFETTO

PRATICA DELETERIA

FIG. 20.

Ultimo esempio di utilizzo del modello semantico rivisitato. In questo caso è stato analizzato un elemento del titolo, non più una componente. Di questo studio consideriamo i tratti di disunità e di consequenzialità causa-effetto. Il MSR è stato qui adoperato come modello di ausilio per l’indagine dei tratti semantici del contenuto in esame.

D ENOTATA

ECONOMICO

CONNOTATA

CO NT EST I

E VA S IO NE F I SCA L E


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TE M A

SCA LA CO ME VARIA BILE

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S c a l a c o m e va r i a b i l e

La scala, oltre a contesto e circostanza, potrebbe essere un’ulteriore variabile utile a descrivere un oggetto. Suggerisce di considerare, durante l’analisi, un maggior numero di distanze attraverso cui osservare un fenomeno. In rispetto alla variabile della scala, per esempio, possiamo descrivere un fiume come una linea o come una superficie a seconda dell’altezza da cui l’osserviamo, cambiando radicalmente la descrizione che otterremmo dell’oggetto.

n questa sezione presentiamo un’altra “traccia”, a titolo di approfondimento, per sviluppare ulteriormente il contenuto di un semema. Lo proponiamo qui esclusivamente come ipotesi, possibile soluzione, variazione o implementazione operativa al metodo già discusso nel paragrafo precedente. Introduciamolo con le parole di Arnheim: In quale misura ha importanza il dettaglio? Quale distanza occorre per far risaltare le strutturazioni maggiori, altrimenti nascoste dall’eccesso di dettaglio? Quanta parte del contesto è pertinente per intendere ciò che si sta esaminando? Qui, ancora,

A RNHE IM, 1 9 6 9 t r. it . PAG. 35

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la selezione corretta a livello percettivo elementare ha un ruolo importante e riflette una strategia conoscitiva più ampia. Scoprire la scala appropriata di un problema equivale quasi a trovarne la soluzione. Secondo lo psicologo tedesco il contesto, o meglio, la porzione di contesto coinvolta nella percezione è una variabile estremamente rilevante nella comprensione di un oggetto, di una situazione. Variabile che viene considerata più o meno consapevolmente, più o meno intelligentemente, al fine di risolvere un problema nel modo più opportuno e proficuo. Includere il contesto entro cui un certo oggetto è posto significa relazionarlo alla realtà stessa che lo circonda, conferirgli una chiave di lettura attraverso cui decifrarlo nel modo corretto. C’è un rapporto di dipendenza tra l’oggetto e il suo contesto: in un certo senso quest’ultimo è una serie di interpretanti, segni ulteriori per poter cogliere il senso, il significato di un oggetto. Il contesto, per esempio, è quell’elemento necessario a Duchamp per chiarire le sue intenzioni riguardo a un orinatoio, e la scala è fondamentale affinché lo si possa interpretare come opera d’arte e non come una semplice componente dell’impianto igienico. Si intuisce una sorta di gioco di rinvii che soggiace alla comprensione di un oggetto, dove gli elementi presenti nella scena riflettono sugli altri oggetti una serie di interpretazioni più o meno plausibili: un pavimento piastrellato e facilmente pulibile, una stanza piuttosto angusta e stretta con una finestra opaca per garantire intimità a chi si trova al suo interno legittimeranno, nel loro insieme, una sola possibile soluzione interpretativa; allo stesso modo, un ambiente sterile, vuoto, un sistema di piedistalli e di supporti espositivi permetteranno un’altra possibile soluzione interpretativa benché assolutamente diversa dalla prima. Effettivamente “scala” e “contesto” sono due nozioni fondamentalmente indistricabili se visti in quest’ottica. Tuttavia è bene differenziarle e analizzarle separatamente:


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TEMA

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questa distinzione ci permetterà, a livello teorico, di descrivere l’oggetto in analisi in maniera più completa e precisa. Arnheim non pone particolare attenzione a distinguere in maniera appropriata i due termini. Al contrario sembra esclusivamente subordinare l’uno all’altro: all’accrescere o al diminuire della scala, si potrà includere o escludere una porzione di contesto. Se invece provassimo a svincolare i due concetti, noteremmo che alterare più o meno considerevolmente la scala comporterebbe un cambiamento dell’oggetto non solo nelle relazioni che intrattiene con ciò che lo circonda, bensì muterebbe anche le proprietà intensive che lo caratterizzano: osservare un fiume dall’argine che lo costeggia ci permette di definirlo attraverso certe peculiarità, tra cui la sua larghezza per esempio, la velocità dell’acqua e il suo colore, il quale potrebbe essere tendente al marrone nel caso in cui il fondo fosse a prevalenza sabbioso piuttosto che azzurro cristallino, la presenza di vortici sulla superficie dell’acqua, e così via; osservarlo a volo d’uccello dal finestrino di un aereo, invece, ci permetterebbe di rivalutare il modello percettivo che avevamo inizialmente associato a quell’oggetto, prediligendo di considerarlo per il suo scorrere rettilineo piuttosto che sinuoso, per avere un letto di larghezza più o meno costante. Alterare la scala non ci permette esclusivamente di contestualizzare un oggetto in un certo ambiente definendone il senso o il potenziale significato attribuitogli, ma ci consente di rivalutarlo nei suoi stessi caratteri costitutivi. Comprendere nella sua completezza un fenomeno, evento o oggetto che sia è cosa ardua e impossibile, come abbiamo già affermato più volte, ciononostante provare a descriverlo e a capirlo nelle sue diverse sfaccettature può facilitare il processo di rappresentazione dello stesso. In questa direzione, l’idea di “scala” diventa ben presto sinonimo di “punto di osservazio-

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ARNHEIM, 1 969 t r. it . PAG. 3 5

ne”, soggettivo e parziale, certo, ma è soprattutto strumento per studiare un fenomeno in tutte le sue sfaccettature. Del resto, ci sembra legittimo pensare che maggiori mezzi e criteri si hanno a disposizione durante questo processo di de-costruzione e re-interpretazione di un concetto, maggiori probabilità si avranno di essere ricompensati con fecondi suggerimenti per la loro rappresentazione, o meglio, proprietà su cui basare una possibile analogia visuale.

← IVI, PAG . 46

Dato che il ragionamento intorno ad un oggetto comincia con il modo in cui l’oggetto viene percepito, un percetto inadeguato può sconvolgere l’intera trama di pensiero che ne consegue. E nuovamente: La dimensione della distanza distorce l’informazione. Considerare perciò un punto di vista specifico, di osservazione, una “scala” nell’analisi componenziale di un semema può divenire buona prassi per approfondire, di una componente, una pertinenza possibilmente utile. E questo in virtù della potenzialità, insita in questa discriminante, di alterare a livello strutturale il modello percettivo attraverso cui definiamo un oggetto, direttamente accessibile attraverso i sensi oppure no. Nel caso dell’evasione fiscale, per esempio, abbiamo detto che il fenomeno può essere considerato reiterativo, multi-circolare, ma questo rispetto a un punto di osservazione piuttosto distante, che sacrifica il dettaglio in favore di una rappresentazione generale. Ma qualora scegliessimo di visualizzare da un punto di vista più ravvicinato le dinamiche attraverso cui si compie l’atto di evasione, questo aspetto di circolarità del fenomeno verrebbe a mancare, non sarebbe più visibile. Quanto emergerebbe sarebbero aspetti completamenti diversi a definizione dell’evasione fiscale, quale, tra tutti, il doppio vantaggio che si crea tra un acquirente e un venditore – che vede il costo di un


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TEMA

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bene abbassarsi per uno sconto applicatogli –, o tra un datore di lavoro e un dipendente in nero. Win-win situation si direbbe, che assomiglia più a una complicità, a un aiuto reciproco, alla riflessione del guadagno dell’uno sul guadagno dell’altro.

Queste indicazioni dovrebbero fornire degli strumenti efficiente per descrivere in maniera appropriata un’unità culturale. La stessa fase di analisi ci ha costretto a interrogarci sul tema trattato, e benché sia impossibile descrivere un oggetto nella sua interezza, accresce la consapevolezza di come il campo semantico sia complesso, articolato e contraddittorio. È inoltre rilevante, ai nostri fini, constatare come questo processo possa suggerire innumerevoli spunti per la fase successiva.

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Foro

O studio della forma dell’espressione. Quale la materia – matter – da modellare, ripensare e riprogettare, i mezzi a disposizione del designer per produrre, sulla base dell’analisi componenziale, una traduzione corretta ed efficace.

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S t r u t t u r a , p a t t e r n , va r i a b i l i v i s i v e

Struttura: distanza elevata; pattern: distanza intermedia; variabile visiva: distanza ravvicinata. Sono categorie della forma dell’espressione che richiedono, nel progettarle, uno sforzo diverso l’una dall’altra.

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n questo capitolo ci occuperemo del foro, di quanto abbiamo detto corrispondere all’espressione, al T. L. della traduzione inter-semiotica che, in associazione con il contenuto già sviluppato, indagato nel tema, dev’essere progettato coerentemente con quest’ultimo. La capacità di garantire una coesione semiotica tra il contenuto da comunicare e i mezzi espressivi idonei allo scopo è competenza del progettista-traduttore, e questo lo abbiamo già discusso nel primo capitolo. Potremmo altrimenti dire che in questa sezione verranno ridefiniti i mezzi a disposizione del designer per disegnare una forma espressiva appropriata. Decostruendo un artefatto di natura grafica, iconica, quale il diagramma, abbiamo riconosciuto tre categorie della forma dell’espressione che un designer deve necessariamente saper progettare e gestire: I. Una struttura. Organizzazione generale dello spazio, definizione del sistema di elementi e di relazioni tra gli stessi.

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Esempio di strutture sono i modelli di rappresentazione riconosciuti da Bertin come “tipi di imposizione”. La struttura è il sistema principale, gerarchicamente superiore, che stabilisce in che rapporto gli elementi del diagramma dovranno trovarsi. Secondo la terminologia impiegata da Engelhardt, quanto noi abbiamo nominato “struttura” potrebbe corrispondere al suo composite graphic object, che è definibile nei termini di uno spazio grafico occupato dalla rappresentazione, un insieme di oggetti grafici contenuti entro i limiti del suddetto spazio e una serie di relazioni che incorrono tra questi oggetti. La scelta di decostruire in classi relative e non assolute gli elementi del grafico, permettono la ricorsività che Engelhardt stesso ricercava nello studio della sintassi dei grafici. Un composite graphic object non è un oggetto definito a priori, ma dipende dal focus dell’osservazione rivolta all’artefatto e può talvolta riferirsi all’oggetto grafico generale, o a un suo sotto-elemento. Ma il termine “struttura” è stato scelto in riferimento alla definizione che anche Carnap diede della stessa, nei termini cioè di un fatto puramente formale e puramente relazionale: la struttura si rende visibile, sostanza, nell’utilizzo di un certo pattern che la concretizza, e per mezzo di altri segni, supplementari al grafico, che identificano i suoi elementi compositivi, come per esempio il disegno degli assi cartesiani. 4 4 Struttura è la forma – dell’espressione – hjelmsleviana. Un insieme di norme che definisce come impiegare, e quindi come interpretare, lo spazio della rappresentazione; al contempo, definisce le relazioni esterne del pattern. Dalla struttura si deriva perciò

Il tratto grafico che significa gli assi può, potenzialmente, essere omesso – a scapito della leggibilità, certo –, ma potremmo idealmente, ed esclusivamente riportare nella legenda la dimensione dello spazio a cui corrisponde una certa componente, e dispensarci così dal disegnare le due semirette, senza inficiare l’informazione espressa dall’impianto, dal pattern impiegato per visualizzarla.


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il cosiddetto “modello” di rappresentazione: una sintassi condivisa e statica che istituisce fisiologicamente la tipologia, i tipi di imposizione di Bertin. In altre parole, la struttura, potrebbe essere vista come un “fascio di regole”. Osservando da questa prospettiva la nozione di struttura, emergono due variabili, due aspetti che il progetto richiede necessariamente di considerare e di pensare. Il primo riguarda l’impiego dello spazio: come organizzarlo, come strutturarlo: la dimensione bidimensionale del piano infatti si presta a essere segmentabile, gerarchizzabile, come del resto ci spiega anche Perondi in Sinsemie. A differenza di quanto il modello cartesiano ci imponga di pensarlo – come unico e continuo – il foglio non ci vincola in nessun modo ad adoperarlo come tale, se non a causa del modo in cui lo percepiamo: unico e continuo appunto. Ma le possibilità di impiego di queste due variabili visive – x e y – sono infinite, e la loro organizzazione in uno spazio gerarchizzato conferisce al progettista nuove possibilità espressive. In secondo luogo, si tratta di capire in che modo è possibile ristabilire le relazioni tra gli oggetti compresi nello spazio della rappresentazione: definire in quale relazione di analogia quest’ultimi assumano significato rispetto allo spazio e perciò anche tra loro. II. Un pattern. È la concretizzazione di una relazione tra le variabili visive impiegate in un grafico. È già segno, definito da una norma di utilizzo rispetto allo spazio – esternamente cioè, nella struttura – e, internamente, stabilisce l’uso delle variabili visive che lo costituiscono. Un esempio di pattern è, in un diagramma a bolle, il cerchio contraddistinto da una certa forma, da un certo colore e, soprattutto, da una certa dimensione. In altre parole, per mezzo del pattern si sostanzializza la forma-struttura e, a sua volta, il pattern è visibile per mezzo delle variabili visive in esso impiegate. A differenza della struttura dunque, che era forma, questa è sostanza: è l’unità informazionale di un grafico. Certamente, anche in questo caso, il rapporto

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analogico è alla base della sua costituzione e proprio in questi termini è progettabile, ripensabile. Al di là del rapporto che esiste tra pattern e struttura, già basato su una relazione iconica, dove gli oggetti assumono un significato preciso in rispetto alla loro disposizione nello spazio, anche le regole interne al pattern, quelle che stabiliscono l’impiego di una piuttosto che di un’altra variabile è analogico: non solo nelle modalità che abbiamo spiegato nei capitoli precedenti, per cui la differenza ordinale tra due dati è analogicamente rappresentabile attraverso lo stesso valore opposizionale che incorre nella variabile colore – esempio della differenziazione tra istituti professionali e licei ai quali corrispondevano i colori rosso e verde –; ma anche a un più elaborato livello semiotico, dove il pattern è costruito “mimeticamente” rispetto al fenomeno che rappresenta, in un più riconoscibile rapporto iconico, più facilmente comprensibile da parte dell’interprete. Chiariremo poi quanto qui affermato svolgendo gli esempi presentati pocanzi nella sezione del tema. III. Variabili Visive. È il “decimale” del segno: la proprietà minima potenzialmente significativa ma che non può esistere se non sotto forma di pattern, nella relazione di una variabile con un’altra all’interno del segno. 4 5 Come abbiamo spiegato nel secondo capitolo, nessuna rappresentazione grafica bidimensionale può prescindere dalle otto variabili identificate da Bertin: se il pattern è unità di significazione, l’a-tomo inscindibile, le variabili ne sono le sue parti costitutive, i protoni, i neutroni, gli elettroni. Le variabili potrebbero essere altresì paragonati, in una certa misura, ai tratti distintivi di Jakobson della fonetica, o i primitivi espressivi identificati da Hjelmslev del linguaggio

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Una campitura di colore avrà pur sempre una forma, come una forma sarà pur sempre contraddistinta da un colore, o da un certo spessore dei suoi contorni. La loro interazione realizza il pattern.


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verbale. Le variabili caratterizzano il segno dal punto di vista della significazione. La categorizzazione degli elementi diagrammatici qui proposta – struttura; pattern; variabili visive – è da leggersi come una classificazione della materia espressiva. Un supporto volto a chiarire quali siano le possibilità operative nel disegno di una rappresentazione, quali variabili espressive prendere in considerazione durante la fase di progetto: si pone, insomma, lo scopo di rendere il designer consapevole di come ogni suo tentativo di reinventare un modello di rappresentazione passi necessariamente attraverso il riesame, la rivisitazione di una o più di queste categorie espressive del linguaggio diagrammatico. Di un diagramma è possibile ristabilire quale sia il rapporto analogico a livello strutturale tra gli elementi compresi entro un certo spazio, le loro relazioni. Un esempio. L’idea del surriscaldamento globale, delle sue cause e dei suoi possibili effetti catastrofici sono sempre più condivise e accettate dall’intera comunità scientifica: a dimostrazione – e a fondamento – di questa ipotesi sono spesso esposti dati relativi alle temperature medie registrate in tutto il globo e, rilevate le anomalie, le conseguenti considerazioni rispetto allo stato del fenomeno vengono fatte. La forma di rappresentazione tendenzialmente utilizzata per rappresentare quest’ultimi è quella dell’istogramma, del bar-chart o della heat- map, 4 6 ma nessuna di queste ripropone visivamente una proprietà fondamentale e non trascurabile del fenomeno: la sua irreversibilità. 4 7 In effetti, persino chi si possa dire esterno al dibattito scientifico è me-

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Riferimento ai primi cento risultati di una ricerca svolta su Google Images alla query “rising temperature global warming”.

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Pertinenza del fenomeno che giace nel tema della proporzione analogica.

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diamente consapevole della possibile esistenza di un “punto di non ritorno”. Ebbene, una tipologia di rappresentazione come quelle abitualmente impiegate non implicano questo limite invalicabile, oltre il quale ogni sforzo di contenere gli effetti sarà vano: l’impianto lineare dell’istogramma che disegna l’innalzarsi o il decrescere entro una soglia accettabile delle temperature globali è graficamente sempre consentito, ugualmente per la mutevole altezza di una barra di un bar-chart o della tonalità della variabile colore di una heat-map. Niente ci impedisce di pensare che, nonostante un evidente incremento delle temperature, quest’ultime possano un giorno tornare a discendere e a normalizzarsi. Del resto, questa è la tesi – permessa dai modelli di rappresentazione impiegati – di chi sostiene l’inconsistenza scientifica del riscaldamento globale: che quest’ultimo sia, cioè, un fisiologico mutamento delle temperature terrestri che si ripete nei secoli, indipendente dall’uomo e non necessariamente pericoloso. Le relazioni tra gli oggetti grafici impiegati nei diagrammi sono convenzionalmente posti e universalmente leggibili – non ci stancheremo di ribadirlo – ma sono comunque, da un certo punto di vista semantico e analogico, stridenti. Proviamo, allora, a ripensare, a riprogettare a livello strutturale, il rapporto entro cui gli oggetti grafici compresi nello spazio della rappresentazione si relazionano, tenendo però presente questa pertinenza di irreversibilità caratteristica del fenomeno. Immaginiamo una sfera, un pallone realizzato in un materiale più o meno elastico e di una certa dimensione – cioè con una quantità di materiale variabile –. All’incrementare della temperatura corrisponde un incremento delle dimensioni della sfera con relativo grado di allungamento del materiale che la compone. Giunti a una certa situazione limite, la sfera collassa, si danneggia ed esplode, come un palloncino: l’indice di elasticità dell’oggetto non è sufficiente a reggere lo stress applicatogli e, dopo una preannunciata e sempre più evidente situazione di precarietà, il pallone si rompe irreversibilmente. Evidente-


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mente, le relazioni e gli oggetti stessi dell’artefatto sono cambiati, soprattutto a livello strutturale: la regola che sancisce la correlazione tra incremento della temperatura e l’incremento – dimensionale – dell’oggetto; prevedere la possibilità che quest’ultimo possa irrimediabilmente rompersi, analogamente come quando si oltrepassa un “punto di non ritorno”. Indipendentemente dalla scelta della forma sferica che si dilata e restringe secondo il variare delle temperature, questa peculiarità del fenomeno è visualizzabile per mezzo di tutte quelle strutture diagrammatiche il cui modello prevede la rappresentazione di un mutamento irreversibile. Immaginiamo per esempio di stressare un qualsiasi materiale, una lastra di plastica, per esempio, e di allungarla in direzioni opposte: questa inizialmente sopporterà la trazione stendendosi e stringendosi nel mezzo sino a quando, quello che prima era un unico agglomerato di materiale, ora è diviso in due porzioni separate e non più ricongiungibili. 4 8 Sulla base di questo esempio, è evidente come sia altrettanto possibile rivedere un grafico non solo nei suoi aspetti strutturali generali, ma anche rispetto al suo pattern, alle variabili visive che lo costituiscono e alle relazioni tra le stesse: qualora rappresentassimo visivamente un fenomeno – quale il surriscaldamento globale – nella forma espressiva ispirata all’allungamento di un materiale come la plastica, il segno del grafico, il pattern si concretizza in una certa forma mutevole – variabile della forma – e rispetto a un certo spessore, anch’esso mutevole, – variabile dello spessore – che cambia rispetto alla precarietà del fenomeno visualizzato. La combinazione delle variabili visive definisce il pattern in uno specifico

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In questo modello, per giunta, incorrono una serie di variabili – quali la quantità di materiale, la resistenza di quest’ultimo alla trazione in virtù di un indice di viscosità o di elasticità … – che possono trovarsi in un interessante rapporto analogico con un certo fenomeno, con le componenti dei dati che lo descrivono.

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FIG. 21.

Primo esempio di potenziale rappresentazione del Global Warming come fenomeno irreversibile. All’incrementare della dimensione della sfera corrisponde un assotigliamento dell’ossatura che la costituisce sino a quando, raggiunto il punto di non ritorno, la sfera collassa. Il modello offre una serie di indici cui far corrispondere analogamente gli aspetti distintivi del fenomeno: un grado di elasticità della superficie per esempio, che consente al solido, entro un certo grado di stress quale potrebbe essere il livello di co2, di tornare alla condizione iniziale.

FIG. 22.

Nella pagina successiva un altro esempio di modello funzionale a rappresentare un fenomeno che includa la proprietà di irreversibilità, tra cui appunto il Global Warming.

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rapporto di analogia con il fenomeno stesso: l’assottigliamento della lastra di plastica allungata mostra la precarietà della connessione tra le due parti, che si stanno irrimediabilmente scindendo. Analogamente, come nel caso del fenomeno rappresentato, il punto di non ritorno si raggiunge per una continua scala di degradazioni, di peggioramenti. Stabilite le categorie espressive a disposizione del progettista, svolgiamo gli esempi proposti nel capitolo precedente, e proviamo a capire in che modo la proporzione analogica si possa completare nel foro. In che modo è possibile rappresentare il rapporto, il k tra i due elementi del tema, reso pertinente nell’analisi componenziale? Quale forma espressiva, quale modello si presta a rappresentare le proprietà rilevanti della coppia del tema? La proporzione, ancora incompleta, ma già esplicitata nella parte del contenuto, è perciò da introdursi come una domanda che, tuttavia, non può trovare una risposta esaustiva, soddisfacente e completa. La produzione, l’automatizzazione della produzione metaforica – e quindi analogica – non è descrivibile entro il sistema semiotico, ma poggia probabilmente su principi di natura psicologica, sull’enciclopedia propria di ogni individuo, principi che, quindi, non possono essere formalizzati al fine di derivarne una metodologia – e proprio in questo senso la pratica della traduzione inter-semiotica è da considerarsi creativa e distintiva del mestiere del progettista –. D’altra parte, come sostiene anche Zingale, il modello dell’analogia è un buon ausilio per “monitorare”, verificare a posteriori l’efficacia o la debolezza di una proporzione analogica. Vedremo poi in che modo. Ma torniamo agli esempi iniziati nel capitolo del tema. Durante l’analisi dei significati basata sul MSR di Eco, abbiamo scritto in corsivo alcuni termini che “suggerivano” una certa conformazione visiva degli stessi: multi-linearità, dilatazione, etc. etc.. E in effetti, rileggendo quanto Peirce intendesse con il termine “interpretante”, scopriamo come per

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il semiotico americano un interpretante può assumere diverse conformazioni, anche di natura completamente differente. Si parla talvolta di un interpretante come un libro, una parafrasi di una poesia, un quadro, un’immagine, un suono etc. etc. e ci rendiamo conto di come, in realtà, la pratica di trovare un foro adeguato a espressione di una certa pertinenza del tema non sia poi così distante dallo scoprire, di quest’ultimo, una gamma di significati a esso associati: il foro, la coppia della proporzione che sta per l’espressione, esiste già nell’insieme di significati “sgrovigliati” dal semema preso in analisi, sia esso una componente o il titolo di un grafico. In altre parole, i significati sviluppati nel tema, implicano già, a livello di contenuto, i modelli visivi che verranno impiegati per rappresentarli. 4 9 Queste parole riportate in corsivo hanno un significato – o interpretante – visivo estremamente forte di cui non ci resta altro che coglierlo e trasporlo iconicamente, graficamente. I. Titolo: Temperature estive in Lombardia. Componenti: calore espresso in gradi; tempo. Invariante: temperatura x in un momento x. Proporzione analogica: Variazioni calore : materiale = x : y. Scelto di sviluppare la componente “calore” sulla base del suo effetto di dilatazione dei materiali – il k della relazione –, la seconda parte della proporzione è suggerita dagli interpretanti visivi di quest’ultima. Potremmo perciò formulare la proporzione nel modo seguente: Variazioni calore : materiale = Va-

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La genealogia è quella cosa strutturata ad albero; il fenomeno dell’universo in espansione è quella cosa per cui, se prendessimo un palloncino con trama a pois e ci soffiassimo dentro, noteremmo come ogni punto sulla superficie del suddetto potrebbe essere illusoriamente eletto a centro dell’universo, fulcro dal quale tutto si allontana in maniera costante - Esempio di Fred Hoyle.


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FIG. 23.

FIG. 24 / 25.

Schematizzazione degli effetti del calore sulla struttura molecolare di un materiale: da sinistra verso destra c’è un incremento di temperatura.

Nelle pagine seguenti un possibile modello di rappresentazione del calore: servendosi di una semplice variazione di testura è possibile visualizzare le variazione di calore in rapporto al suo effetto di dilatazione identificato nell’analisi del tema. Il pattern si trova in un rapporto analogico evidente con il fenomeno rappresentato, e nonostante sia qui posto come immagine statica e singola, nulla ci vieterebbe di organizzare la testura in maniera lineare facendo corrispondere alla variazione continua di temperatura, una relativa continua variazione di testura come fosse un diagramma di flusso.

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riazione di dimensione : rete a maglie regolari, da cui deriva un possibile modello visivo per rappresentare il calore, dove vengono impiegate, di fatto, due variabili visive: una variabile di forma che stabilisce la struttura della rete – supponiamo sia quadrata – in rapporto analogico con la struttura reticolare atomica di un materiale; e una variabile testura il cui incremento o decremento è in rapporto analogico con l’effetto del calore su un materiale, la dilatazione appunto. Questa analogia rivisita il modello di rappresentazione a livello del pattern, delle regole interne al segno che si concretizza per mezzo delle variabili visive riportate sopra. Ma che vantaggi può avere prediligere questa rappresentazione rispetto a una più convenzionale? Sebbene non sia nostro intento quello di proporre modelli necessariamente “più efficaci”, 5 0 ma quello di mostrare come un fenomeno possa essere rappresentato rispetto a infinite proprietà che lo descrivono, è comunque possibile prevedere alcuni contesti di utilizzo di questa forma di rappresentazione del calore. Immaginiamo, per esempio, di dover provvedere una visualizzazione del calore rispetto al monitoraggio della stabilità fisica di un certo materiale, magari nell’ambito della costruzione di infrastrutture: la componente del calore è fondamentale, per esempio, nel progetto di un ponte dove l’asfalto è intermezzato dai giunti di dilatazione per non comprometterne la stabilità. Può altresì essere impiegato in ambito didattico, nella spiegazione degli effetti del calore su una specifica categoria di materiali: plastico, ceramico, metallico, o altri ancora. Oppure in relazione agli effetti che ha sul corpo umano, dove una dilatazione eccessiva della maglia corrisponde a una corrispettiva dilatazione dei vasi sanguigni e un incremento continuo – non

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Del resto, come si potrà dedurre dalla nostra argomentazione generale, non esistono modelli “più efficaci” in assoluto, ma modelli adeguati o inadeguati in relazione ai fini comunicativi.


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discreto – del pericolo di un collasso da calore sugli individui che vivono in Lombardia nell’arco di tempo monitorato dell’esempio qui proposto. In tutte queste applicazioni ipotizzate, benché non siano convenzionalmente riconosciute e quindi più criptiche, più difficili da leggere, il rapporto iconico che si instaura tra espressione e contenuto è sicuramente più diretto e intuitivo. II. Titolo: Produzione dei rifiuti in Piemonte. Componenti: rifiuti diff./indifferenziati; tempo - un lustro. Invariante: quantità x di rifiuti diff. o indiff. in un momento x. Proporzione analogica I. Istante : struttura tempo = x : y; Proporzione analogica II. Percezione del tempo : numero di individui = x : y. Sviluppiamo la prima proporzione. Un istante sta a quello che lo precede e a quello che lo succede – alla sua struttura – nel rapporto sancito dal k della ciclicità del divenire, allo stesso modo in cui il punto di una spirale sta al punto che lo precede e a quello che lo succede: nel modello di rappresentazione della spirale, infatti, ripercorrendone visivamente il suo sviluppo, noteremmo che i valori di ascissa si reiterano costantemente, mentre quelli dell’ordinata crescono linearmente. E questa relazione, che incorre tra i punti costitutivi di una spirale, è analoga a quello che sussiste tra gli istanti che si susseguono nella struttura temporale ipotizzata dai pitagorici: un divenire che si reitera. Questo modello di rappresentazione rivede l’organizzazione del diagramma a livello strutturale: gli elementi del pattern, cioè, si dispongono nello spazio della rappresentazione in accordo con la forma spiroidale del tempo, rendendola peraltro visibile. Ipotizziamo ora di impiegare questa forma espressiva per visualizzare una cumulativa disegnata in flussi variabili in spessore – quantità dei rifiuti –: nell’esempio qui proposto, buona parte dei rifiuti non differenziati non viene re-

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cuperata, e viene accatastata nelle discariche sommandosi, di anno in anno, a quella precedente. Se adottassimo il modello visuale spiroidale del tempo per organizzare, secondo una certa struttura, i dati relativi ai rifiuti non differenziati, emergerebbe come gli spazi tra i fasci della spirale – che rappresentano il tempo e la quantità di spazzatura – non siano sconfinati, ma delimitino uno spazio ben preciso. Facendo una cumulativa dei rifiuti non differenziati, di anno in anno, e rappresentandone la quantità per mezzo della variabile visiva dello spessore, è evidente come, ad un certo punto, a meno che non si trovi un modo alternativo di recuperare i rifiuti della discarica, lo spessore del fascio raggiunga un ingombro tale da non essere più nemmeno rappresentabile. Oltre a permettere una lettura organizzata in anni del fenomeno, questa rappresentazione sottende al contempo una forte idea di “limite”, limite della capienza massima raggiungibile da un impianto di deposito della spazzatura. 51 Passiamo alla seconda proporzione. La percezione del tempo – lineare in questo caso, progressiva – sta al numero di individui, classi sociali che lo esperiscono nel k della molteplicità, come la linea sta a una pluralità di linee. Immaginiamo allora una serie di linee del tempo scandite, per esempio, da intersezioni che significano l’incontro tra culture diverse; da andature differen-

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Progetto che, peraltro, è osservabile anche dal punto di vista dell’organizzazione e gerarchizzazione dello spazio: alcune aree dello spazio grafico “significano” infatti uno specifico trattamento dei rifiuti, verso cui il flusso relativo converge. In questo modo è stato possibile aggiungere una componente in più della tabella alla stessa rappresentazione. Potrebbe essere interpretato, questo diagramma, come un “assemblaggio di diagrammi” o “super-diagramma”, composto cioè da una serie di visualizzazioni indipendenti collegate tra loro secondo uno sviluppo narrativo che ripercorre i vari processi di stoccaggio e recupero dei rifiuti. La questione, benché interessante, non è ancora stata approfondita adeguatamente. www.behance.net/gallery/16212047/Piemonte-visual-contest


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y = 20 y = 19 y = 18 y = 17 x = 1

x = 2

x = 3

x = 4

y = 12 y = 11 y = 10 y = 9

y = 4 y = 3 y = 2 y = 1

x = 2

x = 3

FIG. 26.

x = 4

x = 1

Rappresentazione del tempo rispetto alla sua pertinenza di ciclicità.


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ti in rapporto alle scoperte tecnologiche che ne caratterizzano l’evoluzione; da spessori diversi o da ostruzioni, qualora una popolazione avesse prevalso su un’altra o si fossero contaminate vicendevolmente, sfumando per addizione la tonalità di colore che distingueva le due linee. Un esempio di questo modello di rappresentazione è proposto da Sebastian Adams: un missionario presbiteriano che disegnò nel 1881 un diagramma dell’ascesa e della caduta degli imperi dal 4000 A. C. sino ai suoi giorni. E benché, in apparenza, associ alla sola ascissa la componente del tempo, in realtà, la moltiplica tante volte quanti sono i flussi, tante volte quante sono le linee visualizzate. Un altro esempio interessante che avremmo potuto sviluppare al pari degli altri due qui svolti è quello che si costruisce sul tratto semantico della deformabilità del tempo: pensiamo allora a questa componente come rappresentabile per mezzo di una scala logaritmica che amplia o restringe un valore altrimenti espresso in maniera costante, e ipotiziamo di adoperarlo per spiegare, per esempio, in quale modo una certa scoperta tecnologica “restringa” il tempo necessario per raggiungere un certo obiettivo il quale, senza l’ausilio della nuova scoperta, sarebbe più arduo da conseguire. Pensiamo a come questo modello di rappresentazione si sarebbe prestato benissimo a visualizzare la corsa agli armamenti durante la guerra fredda, dove le scoperte tecnologiche in campo bellico diminuivano, di volta in volta, la “distanza temporale” che incorreva tra gli scienziati e la scoperta/progettazione di altri nuovi armamenti. Oppure, molto più semplicemente, a come l’innovazione nel campo delle comunicazioni abbia velocizzato il progresso tecnologico – o dimunito la distanza temporale tra la ricerca scientifica e gli obiettivi postisi –. III. Titolo: Evasione fiscale in Italia. Componenti: denaro evaso in ¤; controlli effettuati – 1 anno. Invariante: denaro evaso da un individuo x.


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Proporzione analogica I. Evasore x : evasore y = x : y; Proporzione analogica II. Evasore x : comunità di appartenenza = x : y. L’atto di evasione fiscale compiuto da un individuo/evasore x si relazione all’evasione di un individuo/evasore y rispetto al k della consequenzialità autoalimentata, della reiterazione multi-circolare. Ma in che senso? In quale accezione? In effetti, in questo caso, si presenta il problema che abbiamo già affrontato nel capitolo sull’analogia: la proporzione abbiamo detto non essere lineare. Ciascuna coppia è in una relazione di somiglianza rispetto a una matrice di tratti semantici, e non a un singolo sema. 2 : 4 = 8 : 16 sono in proporzione tra loro in virtù del k di doppio, ed esclusivamente in funzione di quest’ultimo, diversamente, la gamba del tavolo : piano = gamba di un umano : al busto rispetto una possibile gamma di sema, quali il sostegno ma anche, per esempio la dinamicità. Nel caso specifico dell’evasione fiscale, abbiamo scoperto nell’analisi del tema come, la scelta di evadere, gravi sulla collettività sia da un punto di vista economico – dal momento in cui i restanti contribuenti dovranno farsi carico del mancato pagamento tributario –, sia dal punto di vista della delegittimazione della norma che gli fa corrispondere una pena. Da qui abbiamo riconosciuto nel k la sua proprietà multi-circolare: autoalimentato su due piani diversi ma dipendenti, conseguenti tra loro. Il foro della proporzione potrebbe perciò completarla come segue: evasore x : evasore y = punto x di una circonferenza a : punto y di una circonferenza a, ma anche e contemporaneamente evasore x : evasore y = punto x di una circonferenza b : punto y di una circonferenza b. Spieghiamoci. Il fenomeno essendo “unico” – l’evasione fiscale – ma articolabile, descrivibile rispetto a due movimenti che sono comunque conseguenti l’uno all’altro richiede, nel foro, di provvedere un modello visivo costituito da due movimenti circolari collegati tra loro. Il nastro di Möbius,

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Schema logico di dipendenze di causalità ed effetto nel fenomeno dell’evasione fiscale.


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è una rappresentazione eccellente su cui basare strutturalmente la rappresentazione di un simile fenomeno: visto in pianta è percepibile come una circonferenza, ma il nastro, allo stesso tempo, compie sul piano perpendicolare alla pianta una seconda rotazione del fascio. L’avanzamento circolare in pianta implica una rotazione anche su un altro piano suggerendo, per analogia, la consequenzialità dei due movimenti che descrivono l’evasione fiscale: l’inizio diviene fine, poi nuovamente inizio; l’interno del fascio diviene esterno, e di nuovo interno; la causa diviene conseguenza, e ancora causa. Quanto si potrebbe rendere rilevante di questo modello di rappresentazione sono, in sostanza, le variabili di trasformazione del fascio – i suoi due movimenti circolari – e attribuire a ciascuno una delle componenti dati che contraddistinguono il fatto in esame. In questo modo si otterrebbe un modello di rappresentazione flessibile, capace di visualizzare fenomeni caratterizzati dalla stessa natura duplicemente reiterativa. 5 2 Svolgiamo l’altra proporzione. Il comportamento di un evasore sta alla comunità di appartenenza rispetto a un “indice di unità”, di consapevolezza di essere parte di una collettività. Il k relazionale della proporzione sarà, perciò dis-unità, distanza. Il foro potrà sostituirsi alle incognite x e y con un modello che preveda, nel caso ideale in cui nessuno evadesse, la corrispondenza spaziale di tutti i punti nell’origine di un disegno a sviluppo radiale/polare – cerchio – e, nel caso limite opposto, l’allontanamento graduale dei punti da questo centro, facendo emergere l’aspetto più individualista del gruppo. La propor-

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In questo modello, per giunta, incorrono una serie di variabili – quali la quantità di materiale, la resistenza di quest’ultimo alla trazione in virtù di un indice di viscosità o di elasticità – che possono trovarsi in un interessante rapporto analogico con un certo fenomeno, con le componenti dei dati che lo descrivono.

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FIG. 28.

Potenziale modello di rappresentazione di un fenomeno doppiamente reiterativo come nel caso dell’evasione fiscale. Nel caso del nastro di Möbius abbiamo due rotazioni su due assi separati ma comunque conseguenti l’una all’altra.


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FIG. 29.

Nelle pagine successive l’applicazione del modello qui presentato alla variabilità di un fenomeno reiterativo su due assi. Sono stati resi rilevanti, presi a modello, i parametri distintivi e variabili del nastro di Möbius: le due rotazioni. E ognuna di esse si presta a rappresentare una componente dati che descrive il suddetto fenomeno.

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E N T I TÀ D E LL’ EVA S IO NE

INDICE DI DEL EG I T TI MA Z I ON E

Raggio di rotazione in pianta: denaro evaso da una collettività in un tempo x.

Angolo di rotazione del fascio in prospetto: grado di delegittimazione della norma – o indice di percezione del grado di delegittimazione –.

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zione completa sarà: Evasore x : comunità = punto : a un insieme di punti. Cerchiamo di essere più precisi e di descrivere adeguatamente il funzionamento di questo modello di rappresentazione. La tabella dell’esempio qui proposto consiste di un numero preciso di controlli effettuati in un anno su artigiani e aziende cui corrisponde la componente relativa all’evasione dei singoli. Immaginiamo di disporre radialmente gli individui e di avvicinarli o allontanarli dal centro in funzione della quantità di denaro evaso, quindi, qualora nessuno si fosse sottratto al prelievo tributario, avremmo un unico grande punto centrale; nella situazione opposta, avremmo i punti sparsi a distanze differenti dal fulcro. 5 3 Alcune precisazioni su questo modello di rappresentazione che, tutto sommato, non è molto distante da quelli che vengono impiegati comunemente. I. Disporre i punti sequenzialmente su una linea e innalzarli rispetto a un punto zero non sarebbe altrettanto eloquente rispetto a quanto si vuole mostrare: il grado di unità di un gruppo. II. Se dovessimo seguire le indicazioni di Bertin, essendo l’ordine di disposizione degli individui arbitrario, dovremmo organizzarli, dopo una prima visualizzazione, dal tasso di evasione più alto a quello più basso – o viceversa – al fine di allineare i punti e creare un’immagine lineare “meno caotica” e più memorizzabile, descrivibile nella sua pendenza e nel suo picco più alto. Ma in questo modo l’immagine si presenterebbe sotto le sembianze di un comune dot-chart, privando la rappresentazione del suo carattere distintivo: l’entropia della disunità vs l’unione di una collettività. 54 Benché il modello non sembri così distante da quelli previsti dal cartografo francese nei tipi di imposizione,

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Nulla ci impedisce, peraltro, di utilizzare lo stesso modello raggruppando gli individui nelle rispettive città o regioni di provenienza, identificando così il grado di evasione rispetto alle zone d’Italia e non sui singoli.

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Sarebbe interessante, perciò, disporre i diversi individui in un ordine non particolarmente significativo rispetto al Ï


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ENTITÀ DELL’E VAS IONE

FIG. 30.

I N D I V ID U I C ON T ROLL AT I I N UN AN NO

Modello radar che mostra in successione polare gli individui esaminati rispetto al fenomeno dell’evasione: più un’individuo sarà distante dal centro, maggiore sarà l’entità della sua evasione generando, nell’insieme, un pattern visivo più o meno caotico, più o meno unito nell’origine del cerchio.


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FIG. 31.

Secondo Bertin, essendo la sequenza degli individui riordinabile, i “punti” dovrebbero essere disposti dal più alto al più basso grado di evasione – o viceversa – al fine di generare una linea facilmente memorizzabile. Ma in questo caso, è proprio il parametro di unità che è rilevante nella visualizzazione: quanto dovrebbe emergere, quanto dovrebbe essere comunicato.


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quanto è differente qui è l’approccio alla visualizzazione che si costruisce a partire dal messaggio, da un contenuto – il che non significa vincolare l’esito della rappresentazione a quanto si suppone esso sia, ma basare la visualizzazione su una premessa argomentativa: un evasore, salvo alcuni casi statisticamente irrilevanti, sarà prevedibile essere privo del senso di collettività –. Privilegia consapevolmente certi aspetti del fenomeno e piega l’utilizzo delle variabili visive – nel pattern – e della struttura ai propri fini comunicativi: il grado di unità, che abbiamo detto essere qui pertinente, è visibile in questo tipo di imposizione ma non in altri. Questa considerazione, da un punto di vista del design, del progetto di un diagramma, non è mai stata formalizzata ma è evidente, come l’impiego di un certo modello rispetto a un altro, abbia conseguenze rilevanti da un punto di vista semiotico, dal punto di vista del significato che una visualizzazione dovrebbe poter veicolare, dal punto di vista di come, quest’ultima, si ponga nei confronti di un destinatario e della sua predisposizione/propensione a semiotizzare un simile artefatto comunicativo. Il k relazionale e condiviso dalle due coppie della proporzione, è quel significato ulteriore che deve essere visibile, leggibile da un destinatario. Quanto il progettista dovrebbe far emergere durante il processo traduttivo. Inoltre, le forme espressive che si prestano a riportare coerentemente il k dell’unità sono innumerevoli: basti rivedere il foro della proporzione analogica lasciando inalterata la coppia del tema. Supponiamo di applicare il k della relazione a una fotografia che simboleggi l’Italia – per riferirsi alla collettività, al gruppo di riferimento dove si svolge lo studio – come potrebbero esserlo un ritratto di Mazzini o il Tricolore, dove

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Ï fenomeno ma, per esempio, rispetto all’ordine cronologico in cui i diversi individui sono passati al vaglio dei controllo

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FIG. 32.

Modello di rappresentazione per cui, all’accrescere del grado di evasione fiscale in un determinato paese – in questo caso l’Italia –, l’immagine che la simboleggia – in questo caso la figura di Mazzini – svanisce a significare l’assenza di unità, la mancanza di collettività tra gli individui che la costituiscono, venendo a mancare – e l’assenza è rilevante – l’idea stessa di paese.

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l’unità o la disunità dell’immagine scelta si potrebbero esprimere analogamente alterando la variabile colore dei pixel che la compongono, più precisamente, il loro grado di saturazione. Ecco la proporzione conseguentemente riformulata: Evasore x : comunità = pixel di una fotografia : immagine fotografica. Nel caso, quindi, in cui nessun individuo evadesse, l’immagine apparirà a fuoco e chiara, nel caso opposto l’immagine sarà a malapena visibile. Rivedendo questa serie di esempi, si evince tra l’altro come un diagramma si basi non solo su una specifica analogia, ma su una serie di queste: ci sarà una proporzione che sancisce in che modo la struttura sia analoga al fenomeno che rappresenta, una seconda che definisce il rapporto tra il pattern, il segno e la componente che esprime, e altre ancora. La trama della rete che significa le diverse variazioni del calore può a sua volta essere disposta, organizzata strutturalmente, sul modello del tempo ciclico svolto nel secondo esempio. E ognuna di queste relazioni che incorrono tra il tema e il foro dovranno essere prese in considerazione, progettate, pena sarà l’inaccuratezza della visualizzazione. Inoltre, è necessario precisare, che talvolta può rivelarsi più semplice percorrere il processo nel senso opposto: partire dal foro, da una forma espressiva per poi capire, a posteriori, se la sua conformazione, le sue caratteristiche si prestano a visualizzare un certo aspetto del tema. Del resto, come abbiamo già scritto, il foro inteso come modello di rappresentazione è interpretante del tema, e investigare, attraverso il confronto di una potenziale forma espressiva con il suo contenuto, può rivelarsi essere una guida di notevole aiuto nella scoperta di nuove peculiarità del fenomeno. Applicare cioè, in un gioco di ipotesi e confutazioni, trial and error, uno schema – che è già ipotesi – a un determinato fenomeno e capire in che modo, rispettando la


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struttura dello schema, l’oggetto in analisi si riadatti, si riconfiguri. Così scrive Zingale: Per molti secoli la natura fu vista prima come una scala, fondata sul principio della continuità, dell’ascesa, del progredire dal semplice al complesso secondo un ordine gerarchico. Poi verso la metà del Settecento la presunta linearità di questa gerarchia entrò in crisi, e alla figura della scala si sostituì prima quella della mappa – dove la natura è vista come territorio variegato e complesso, quasi un labirinto – poi infine quella dell’albero – dove la natura segue più percorsi, più ramificazioni possibili, e di tanto in tanto getta lateralmente nuovi rami. Ma se a questa immagine dell’albero sostituissimo quella di un corallo, dove una diramazione non sempre si moltiplica, ma talvolta converge fondendosi con un altro ramo, in che modo la nostra idea di natura e di evoluzione cambia in accordo col nuovo interpretante ipotizzato? Questa ipotesi più o meno fondata, più o meno confutabile nasce nel foro e riflette le sue relazioni sul tema supponendone nuove configurazioni. Tuttavia, sebbene la soluzione di partire dall’espressione piuttosto che dal contenuto possa essere pratica particolarmente fertile, è difficilmente formalizzabile in un metodo utilizzabile: non seguendo un preciso procedimento logico, descrivibile nella sua generalità, non è pertanto possibile proporlo come soluzione progettuale.

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A conclusione di questo capitolo si svolgono una serie di riflessioni sulle infinite formalizzazioni possibili del foro, sull’importanza di ampliare la propria “libreria espressiva” accennando, tra l’altro, a dove sia possibile ricercare nuove soluzioni relazionali, strutturali di ridefinizione della forma espressiva, del modello di rappresentazione: accrescere cioè l’articolatezza di un linguaggio spesso troppo limitato dal suo utilizzo e dalla teoria che lo descrive.

I

n accordo con la riflessione conclusiva del paragrafo precedente, sarebbe interessante volgere uno sguardo disinteressato alle pure forme e relazioni espressive utilizzabili a descrizione di un fenomeno: focalizzarsi su una serie di trasformazioni geometriche da adoperarsi all’occorrenza come modello di rappresentazione di un tema. In altre parole, creare e arricchire una sorta di “libreria espressiva” attraverso cui articolare in maniera precisa un’eventuale configurazione del contenuto. In questo senso ci si potrebbe spendere nella scoperta dei diversi tipi di trasformazione geometrica per ca-

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pire, poi, in quale ipotetico rapporto di analogia, quest’ultimi, si potrebbero trovare con un eventuale fenomeno. Procedendo in questa direzione, elenchiamo quelle che potrebbero essere degli interessanti spunti su cui ridisegnare un diagramma: Traslazione, scalatura, rotazione, riflessione o simmetria assiale/ centrali, glissometria, deformazione e proiezioni sono le trasformazioni geometriche che possono essere impiegate come variabili alla base della ricostruzione di un modello di rappresentazione. Oltre alle trasformazioni geometriche, inoltre, sarebbe interessante investigare anche le trasformazioni topologiche come l’intersezione, il circondare, ma anche trasformazioni meccaniche come potrebbe essere quella di piegare o di torcere, le proprietà dei materiali quali potrebbero essere la malleabilità, la flessibilità vs rigidità allo scopo di adoperarle come variabili di significazione in un grafico – si riveda l’esempio della rappresentazione del surriscaldamento globale –. Si potrebbe certamente obiettare che la variabile di traslazione non è altro che, nella visione di Bertin, un mutamento della variabile dello spazio, che la scalatura è descrivibile rispetto alla variabile della dimensione, quella di rotazione rispetto a quella di orientamento, quella di riflessione è un’alterazione della variabile forma e via dicendo, tuttavia, le variabili trasformazionali qui proposte non intendono sostituirsi a quelle del cartografo ma, al più, dettagliarle. Se la riflessione e la proiezione sono trasformazioni geometriche riconducibili alla variabile bertiniana della forma, è anche vero che una simmetria assiale che esiste tra due figure specchiate è decisamente riconoscibile in quanto tale: le due forme non sono viste, semplicemente, come “formalmente” differenti, ma come riflesse, specchiate e dipendenti. Secondo le variabili visive convenzionali, la differenza formale tra un triangolo e un quadrato è qualitativamente identica a quella generata da una riflessione. Allo stesso modo, una scalatura non uniforme è descrivibile esclusivamente nei termini di una variazione della forma, ma se stirassimo il


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profilo di una casa saremmo comunque concordi sul fatto che sempre del disegno di una casa si tratti, nonostante la forma sia comunque stata alterata – magari, il secondo disegno avrà le falde più pendenti ma, comunque, condividerebbe con il segno principale delle proprietà rilevanti ed essenziali –. 5 5 Nella teoria delle ombre, per esempio, si applica una trasformazione di deformazione secondo parametri scientificamente posti, dove l’altezza della sorgente luminosa determina in maniera variabile l’angolo delle proiezioni a terra del punto di ombra. Ecco che il foro, l’espressione, suggerisce una possibilità di visualizzazione che rende rilevante la deformazione di una figura – che sia questa prospettica o parallela/assonometrica –, e il processo progettuale si svolge nella direzione opposta: x : y = figura x : figura x proiettata, in virtù di un k relazionale di deformazione, distorsione. Naturalmente, in termini operativi, questa soluzione non è funzionale dal momento in cui, in uno scenario professionale, il progettista partirà sempre da un brief che specifica il tema della proporzione, il contenuto da tradurre. Ciononostante, questo potrebbe essere un buon esercizio didattico e preliminare alla pratica della visualizzazione dati. Un altro studio sul foro, sulle modalità d’espressione utilizzabili, dovrebbe essere svolto sulle nuove possibilità di rappresentazione concesse dallo sviluppo tecnologico. Blur e Blinking per esempio, come variabili visive aggiuntive, ma non solo: sebbene Bertin rifiuti di riconoscere la variabile della sequenzialità temporale come visiva – e questo ragionevolmente, argomentando come la suddetta non sia proprietà dell’immagine

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Abbiamo già accennato nei capitoli precedenti alla possibilità di impiegare la deformazione prospettica per riprodurre visivamente la lontananza temporale dai fatti storici, di come il fenomeno dell’evasione fiscale, a scala ridotta, si presenti sotto forma di riflessione: un doppio vantaggio tra acquirente e venditore.

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quanto, piuttosto, proprietà del linguaggio cinematografico – è comunque vero che la dinamicità del pixel rispetto a quella della carta ha permesso al progetto dei diagrammi e delle visualizzazioni dati di incorporare in uno stesso grafico un numero di componenti molto elevato, e questo considerando peraltro la possibilità di interazione con quest’ultimi. Interazione che ci abilita a prediligere, di una visualizzazione complessa, solamente quanto si desidera esaminare, ma anche di sfruttare uno spazio tridimensionale simulato che apre nuove frontiere alla possibilità, per esempio, di pensare i grafici come solidi non più piatti, esplorabili da più punti di vista, ruotabili, zoomabili e magari esplodibili per mezzo di un’interazione condotta dal destinatario dello stesso. La sequenzialità del tempo oggi può essere rappresentata, come già lo spazio della carta stava per lo spazio reale, attraverso la medesima variabile, sia quest’ultima visiva oppure no: innumerevoli sono le visualizzazioni che mostrano l’evoluzione nel tempo di un certo fenomeno impiegando un mezzo di rappresentazione che consenta di visualizzarne il suo mutamento sequenziale. Pensiamo inoltre a tutte le possibilità consentite dal web, di inserire dati sincronicamente in un relativo sistema di rappresentazione. Le possibilità espressive offerteci nel foro sono davvero illimitate a dispetto da quanto possa apparire. La vera difficoltà consiste nella capacità del progettista di emanciparsi da una convenzione troppo vincolante rispetto alle modalità di rappresentazione per progettare soluzioni visive coerenti con il loro contenuto. Oltre alle indicazioni date in queste righe su come completare una proporzione analogica proponiamo, a conclusione di quest’ultimo capitolo, un’altra possibile soluzione metodologica per tradurre visivamente un elemento – para-testuale o componente – della tabella: il disegno. Alcuni esperimenti svolti dalla psicologa Angell, consistevano nel sottoporre i suoi studenti alla rappresentazione di concetti astratti in una serie illimitata di disegni, nella fattispecie, il concetto di matrimo-


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nio – esempio già presentato nei capitoli precedenti –. Non avendo a disposizione alcuna proprietà sensibile attraverso cui trasporre l’oggetto del disegno, gli studenti si focalizzavano su aspetti strutturali di quest’ultimi: disegno dopo disegno emergevano aspetti diversi e caratterizzanti del matrimonio, come per esempio l’equilibrio tra due figure talvolta diverse, talvolta complementari, altre volte, invece, la figura era unica e altre ancora l’una prevaleva sull’altra. Osservando i risultati del test emergeva come ognuno avesse tradotto graficamente la propria idea di matrimonio, facendo prevalere pertinenze, aspetti differenti. Il disegno diretto, corretto e ripetuto più volte si rilevava essere esso stesso un efficace strumento di comprensione del fenomeno che faceva emergere iconicamente, analogicamente aspetti altrimenti invisibili. Questa soluzione di analisi, di fatto, riassume quanto dicevamo pocanzi riguardo al foro come interpretante del tema: è un’indagine che si realizza nel foro, che si lascia guidare dalla capacità espressiva e che identifica, per mezzo dell’intelligenza della mano, nuovi modelli di rappresentazione di una componente, nuove pertinenze del concetto in esame. Naturalmente, a questa prima fase “istintiva” di scoperta del tema nel foro, è necessario sottoporre l’esito del disegno, del modello identificato a una più rigorosa verifica. E a questo scopo si potrebbe eventualmente impiegare lo schema ideato dalla Hesse – discusso nel capitolo terzo – come sistema di monitoraggio della proporzione: identificati i tratti positivi che hanno dato origine all’analogia – tra tema/contenuto e foro/espressione –, e preso atto di quei tratti negativi, si indagano i tratti neutri: quelli che ancora non erano passati al vaglio del designer ma che lo faranno propendere verso l’utilizzo o lo scarto del risultato raggiunto durante il disegno. Per esempio, un soggetto visualizzò il concetto di matrimonio differenziandone uno “buono”, riuscito, da uno “cattivo”: il primo si costituiva di una figura simile al Tao, dove due immagini complementari si incastravano tra loro grazie a una

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Esempio di buono – sinistra – e di cattivo matrimonio – destra – secondo i test della psicologa Angell. Interessante notare, oltre alle proprietà di solidità meccanica del primo rispetto al secondo, anche la lunghezza della linea, nel primo caso spezzata e nel secondo continua, che le due parti dei rispettivi poligoni condividono.

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serie di estrusioni e rientranze. L’analogia qui è evidente. La solidità fisica di un oggetto costruito in questo modo, la capacità di resistere a uno stress meccanico applicatogli sta alla solidità della coppia, alla capacità di affrontare situazioni problematiche senza dividersi. Nel caso opposto, le due figure sono solamente affiancate tra loro: sono due rettangoli che condividono uno dei rispettivi lati lunghi senza incastrarsi. Il rapporto di analogia qui si basa sul k relazionale della solidità che definisce un tratto positivo della proporzione. Un altro tratto positivo, per esempio, potrebbe essere la distinzione delle due figure all’interno di una comprensiva di entrambe: analogamente, come prevede il matrimonio monogamo, l’unione consiste di due individui; un tratto negativo, invece potrebbe essere, per esempio, il non visualizzare la disuguaglianza o l’uguaglianza dei due sessi, le differenze caratteriali che esistono tra due individui, le differenze morfologiche, anatomiche, e via dicendo. Ma rivedendo, secondo il modello della Hesse, la relazione instaurata tra il tema e il foro, noteremmo che ci sono altri tratti neutri che probabilmente non sono stati inizialmente previsti dal disegnatore. Rappresentando il buono e il cattivo matrimonio attraverso l’analogia della solidità meccanica – espressa per mezzo della presenza o assenza di incastri – il modello implica, nel primo caso, che le due figure condividano, in percentuale rispetto al perimetro delle due forme, una lunghezza maggiore di lati in comune. Al contrario, nel secondo disegno, le due figure condividono una lunghezza minima dei lati dei rettangoli essendo segmenti lineari da un vertice A a un vertice B. Questo parametro potrebbe indicare, significare gli aspetti in comune tra le due persone; le estrusioni di una figura che si innestano nelle rientranze dell’altra potrebbero stare per la compensazione delle mancanze dell’uno attraverso le propensioni, le attitudini dell’altro, implicando, tra l’altro, come a una determinato al-


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ternarsi di protuberanze e rientranze del profilo del rettangolo possa corrispondere, incastrarsi uno, e un soltanto profilo a esso negativo: a rientranza dell’uno dovrà corrispondere un’estrusione di ugual misura dell’altro, e viceversa. Come abbiamo già più volte ribadito – e come anche Zingale sostiene – pensare a un sistema di automatizzazione della produzione analogica è cosa ambiziosa, ciononostante ci siamo comunque spesi, in questo capitolo, nel proporre una serie di procedimenti di ausilio alla sua generazione. Ma quanto invece si presta ottimamente a essere formalizzato a fini progettuali, è la verifica a posteriori della qualità della proporzione analogica attraverso lo schema proposto dalla Hesse. Sulla base di quanto discusso nel capitolo terzo, in rapporto alla relazione matriciale dei tratti semantici che sussiste tra tema e foro, il modello della filosofa inglese risulta essere un ottimo ed efficace strumento di monitoraggio.

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La lista di come ampliare le possibilità espressive del foro è certamente incompleta e queste osservazioni vogliono solo suggerire le potenzialità espressive a disposizione. Ma l’obiettivo di questo testo non è fornire un elenco chiuso di operazioni da svolgere durante l’atto di progettazione – assumendo fosse possibile stilare tale lista –, ma quello di argomentare la possibilità di progettare nuovi modelli visuali e di presentare i vantaggi che potrebbero arrecare a livello conoscitivo e pragmatico – comunicativo –, sulla base di uno specifico approccio al progetto del diagramma.


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l metodo di progetto proposto nell’ultimo capitolo, e sostenuto dall’argomentazione antecedente a esso, non implica necessariamente l’invenzione, il disegno di nuovi modelli di rappresentazione – benché lo preveda e lo catalizzi –: lo abbiamo visto per esempio nel caso dell’evasione fiscale, dove un comunissimo diagramma a imposizione polare si prestava a visualizzare in maniera efficace il k stabilito nell’analogia di dis-unità. Quanto si è voluto teorizzare, proporre e sostenere, invece, è un nuovo approccio, un nuovo modo di interpretare la disciplina e il progetto dei diagrammi. E come abbiamo ripetuto già più volte nello svolgimento della nostra tesi, questo alternativo punto di vista sulla pratica, questo metodo, non si vuole sostituire a quello di impronta bertiniana, ma ne è parallelo – assolvendo quest’ultimo a funzioni radicalmente differenti da quello da noi sviluppato –. In questa tesi abbiamo proposto un

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approccio differente che tutelasse e considerasse il diagramma da un punto di vista prettamente semiotico, che garantisse una certa coerenza comunicativa tra l’espressione – il contenitore – e il contenuto da veicolare, trascurando i valori di universalità, di convenzione e di codifica insiti in un linguaggio. Siamo del resto consapevoli di come la soluzione operativa qui presentata sia ancora acerba e incompleta, e come necessiti di essere analizzata ulteriormente e con maggior zelo e rigore. Basti pensare, per esempio, alle considerazioni fatte rispetto alla materia espressiva da adoperarsi nel foro della proporzione analogica, la cui vastità è stimolo a scoprirla, a indagarla, e con essa le potenziali e conseguenti forme espressive a spiegazione di un tema. Tuttavia, è senz’altro vero che senza avere problematizzato la questione, e in mancanza di una teoria del diagramma che considerasse quest’ultimo in maniera più flessibile e da un punto di vista più ampio, non sarebbe stato possibile ipotizzare approcci alternativi al progetto dei grafici. Abbiamo discusso di come considerare la rappresentazione diagrammatica esclusivamente come mezzo ne mutili ogni possibilità di evoluzione del linguaggio, considerato del resto, come questo atteggiamento entri in aperto conflitto con quelle che a nostro avviso dovrebbero essere le finalità didattiche di una scuola del design focalizzata sulla suddetta pratica. Chi meglio di un progettista, di un traduttore grafico può rinnovare e ridefinire i limiti del linguaggio di cui è esperto massimo? Il percorso formativo di un progettista è l’unico che preveda l’apprendimento delle variabili visive, del tipo di impianti. E la consapevolezza di quali siano gli atomi, i primitivi di questo linguaggio grafico, la conoscenza di come adoperarli e gestirli costituiscono quelle basi di competenza e di esperienza necessaria per poter ipotizzare e testare soluzioni espressive innovative e talvolta, si spera, rivoluzionarie. Nella riflessione svolta in queste pagine, quindi, ci siamo sottratti dal considerare la


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rappresentazione diagrammatica come strumento, o meglio, consapevoli di ciò, ci siamo volontariamente spesi nell’esaminare quest’ultimo in quanto tale, dispensandoci cioè dal valutare, in maniera attenta, in che modo la teoria qui proposta possa inficiare i possibili utilizzi di questo strumento. Questo è un problema secondo che troverà – forse – una risposta durante la pratica. Inoltre procedere in questa direzione, svincolandoci, alleggerendoci cioè dalla necessità di trovare precisi contesti applicativi per questi “nuovi diagrammi” che abbiamo ipotizzato, ci ha permesso di scoprire altri vantaggi che inizialmente non erano stati presi in considerazione e che garantiscono per una – seppur minima – legittimità del lavoro. Il linguaggio diagrammatico, osservato attraverso l’ottica qui proposta, si presta non solo a essere strumento euristico e di scoperta – scoperta che potrebbe anche coincidere esclusivamente con la proposta di un inedito punto di vista su un fenomeno: una forma espressiva che lo riscopra cioè, che lo visualizzi evidenziandone pertinenze, proprietà altrimenti taciute dalla sua visualizzazione stereotipata –, ma anche linguaggio relativamente articolato che ben si adatta a quelle che sono le esigenze comunicative e semiotiche. I. in questi due valori – tutt’altro che trascurabili –; II. nell’ipotesi secondo cui ogni diagrammi si fonda su un rapporto analogico-iconico, il cui ripensamento si presta a divenire base di rinnovamento del linguaggio; III. nell’aver formalizzato i limiti della teoria di Bertin in relazione alle nozioni di linguistica e di semiotica forniteci da Hjelmslev, dove i vincoli imposti da una sintassi troppo rigida del linguaggio diventano ostacoli al progetto, e non più tracce da seguire, stimolo alla creazione e all’invenzione; IV. e nella possibilità di ridefinire, in funzione di questa nuova rilettura della disciplina, il ruolo del designer specificamente nella pratica dell’info-design e più in generale nel suo essere traduttore, abbiamo trovato le ragioni e gli incentivi che ci hanno spinto a

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intraprendere questo faticoso ma entusiasmante lavoro di ricerca. Nostro unico augurio è quello di poter sviluppare ulteriormente questo abbozzo di teoria – ancora a uno stato embrionale sotto certi aspetti – in un futuro prossimo, potendone sondare gli effetti nella pratica vera, quotidiana, al di fuori di un laboratorio che, per quanto ben progettato, sarà sempre limitato nei suoi risultati.


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FIG. 1 Modello comunicazione Jakobson, 1960 FIG. 2 Modello comunicazione Petöfi, 1998 FIG. 3 Logo ferrovie svizzere, Brockmann & Huber, 1982 FIG. 4 Logo ferrovie svizzere - Specimen font Helvetica FIG. 5 Espressione e Contento. Hjelmslev, 1943 FIG. 6 Rappresentazione grafica strata del linguaggio FIG. 7 Esempio Hjelmslev, forma del contenuto FIG. 8 Rappresentazione schematica Americhe, già in Arnheim pag. 99 FIG. 9 Bar-chart. Spesa su frequenza come indice del grado di democrazia. FIG. 10 Variabili visive, Bertin FIG. 11 Tipi di imposizione, Bertin FIG. 12 Tipi di impianto, Bertin


FIG. 13 Modello aristotelico della proporzione analogica

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FIG. 14 Semplificazione Tableau Poléométrique.

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Charles de Fourcroy FIG. 15 Modello proporzione analogica dettagliato FIG. 16 Triangolo semiotico di Peirce FIG. 17 Modello Katz & Fodor FIG. 18 MSR modello semantico rivisitato 1. Calore FIG. 19 MSR modello semantico rivisitato 2. Tempo FIG. 20 MSR modello semantico rivisitato 3. Evasione fiscale FIG. 21 Modello rappresentazione Global Warming 1 FIG. 22 Modello rappresentazione Global Warming 2 FIG. 23 Schema effetti dilatazione del calore FIG. 24 / 25 Esempio modello rappresentazione del calore FIG. 26 Modello rappresentazione del tempo ciclico FIG. 27 Schema logico causalità-effetto dell’evasione fiscale FIG. 28 Esempio modello rappresentazione di un fenomeno doppiamente reiterativo FIG. 29 Applicazione modello nastro di Möbius al fenomeno dell’evasione fiscale FIG. 30 Modello rappresentazione radar applicato al fenomeno dell’evasione fiscale FIG. 31 Modello di rappresentazione radar applicato al fenomeno dell’evasione fiscale secondo Bertin FIG. 32 Esempio modello rappresentazione del fenomeno

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dell’evasione fiscale in Italia FIG. 33 Rappresentazione buono e cattivo matrimonio. Angell

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Stampato a Milano Settembre, 2016






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