Il correttore di bozze francesco recami (1)

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Francesco Recami

Il correttore di bozze

Sellerio editore Palermo


Ringrazio molto chi ha letto le varie stesure di questo libro (in ordine di lettura): Emanuela Del Signore (che è la mia amatissima moglie), Paola Barbato, Giovanni Maccari, Francesco Bonami, Anna Buia, Paolo Maccari, Fulvio Ceroni e Paolo Grassini

Dedico questo libro a Olmo e Teresa, che mi hanno sopportato mentre lo scrivevo e stavo per diventare matto


Una mattina, Dario volle andare da lui; perchĂŠ si decidesse a presentarlo a qualche giornale; dove si sarebbe adattato anche a fare il cronista. Non era stato sul punto di accettare un posto di correttore di bozze, che una signora gli aveva trovato ad una tipografia? FEDERIGO TOZZI, Gli egoisti Non mi prenderanno mai, perchĂŠ non hanno la piĂš pallida idea di chi io sia. Quando la luna le dette una lezione, dalla legatura ne venne un piovasco tanto che le mosche il maledetto rene in sciami; scelsi l'inconveniente e ancora un'altra delazione: vuole le candele di Sion, del tutto naturale, Vasco rilascia l'armadietto a Turandot.


La signora rimase sorpresa dalla profferta di quel ragazzo moro nel supermercato, perchè mai, mai, si sarebbe aspettata di essere abbordata in quel modo e che alle dieci del mattino, in mezzo a carrelli metallici legati l'uno all'altro da catenine che si liberano con una moneta, le venisse esplicitamente offerta una prestazione sessuale da un giovanotto che aveva qualche anno meno di suo figlio, uno sguardo un po' perso nel vuoto e la pelle arrossata da venti minuti di lampada, e che mostrava l'aria di quello che si sta facendo una sega. «Lasci perdere, lasci perdere» aveva rapidamente replicato la signora, che si chiamava Lucilla, in realtà toccata, superficialmente compiaciuta da una situazione non priva di motivi di eccitamento. Mentre era in coda alla cassa n° 6, passando in rassegna le lamette da barba singole, doppie, triple, scuoteva la testa, teneva gli occhi fissi e un pochino sbarrati, come fa chi sa di essere osservato. Non poteva fare a meno di accorgersi che quel ragazzo non demordeva, la fissava dalla distanza e sperava in una marchetta con lei. Dopo aver disposto la barretta con scritto sopra «cliente successivo» sul tapis roulant la nostra signora fece seguire bottiglie e scatole, concentrandosi sul mostrare una finta distrazione. Mentre teneva fra due dita un taglio di girello che trasudava qualche gocciolina di sangue dal cellophane, orientò uno sguardo laggiù, goffamente, verso quell'angolo dove lui traccheggiava, spalle alla parete. E questa volta, lui notò, non lo ritrasse. Il ragazzo cercava di esibire un'espressione disarmata e irresistibile. Conosceva i rudimenti del mestiere e puntava quella signora fra i cinquanta e i sessanta, ben tenuta, fumatrice, non


casalinga, una cui puoi chiedere 200 euro e lei li prende col bancomat, senza andare in crisi per questo. La marchetta si stava chiedendo se per quella signora fosse la prima volta, e propendeva per il si. Era vero e la signora stava arrossendo, non di vergogna, ma di turbamento, il collo di pelliccia ora le faceva un gran caldo, la sua mente corse involontariamente alla sua situazione di igiene e biancheria intime. Mentre infilava nei sacchetti gialli del supermercato il taleggio Cademartori, il panetto di burro Sterzing–Vipiteno, la salsiccia piccante calabrese, la ricarica del Dash, cercava di fermare la mente che le turbinava un pochettino, e non era del tutto spiacevole. Come funzionava? L'avrebbe portata in macchina? O in un angolo squallido dietro il supermercato? O nella sua stanzetta di studente fuori sede? Allora chissà quanto sarebbe costato? O in casa sua, sarebbe stato così sfacciato da proporglielo… Rapidamente cercava di immaginarsi tutti gli scenari possibili. Ma i pacchi di pasta stavano per finire, ed era vicino il momento dello scontrino e delle decisioni. No, in macchina no, figuriamoci… E in una lercia stanzetta da studente? No, il no era definitivo. Quello che rivolse alla famiglia non fu un pensiero articolato, ma in qualche modo davanti ai suoi occhi passò qualcosa che non era il contenuto della sua vita affettivo–familiare, ma assomigliava a un sommario. Indicò alla cassiera sei bottiglie di acqua minerale e questa avviò il conto. E quella battuta sul tasto più grosso in qualche modo le suscitò il pensiero di una pensioncina, una


pensioncina che sapeva lui, dignitosa, fuori mano, magari di un parente, di un amico. E al pensiero della pensioncina le sue difese nei confronti di quel ragazzo che simulava di essere arrapato vacillarono, pencolarono, si aprirono. Lo guardò di nuovo, e questa volta con più intensità. Lui colse la differenza, e fece cenno di avvicinarsi a lei, lei cui ormai la testa ronzava, architettando un gesto di assenso, di complicità, di sesso. Porse la carta di credito alla cassiera, che le fece una domanda cui non fece caso. Il moretto si era avvicinato alla cassa, e accennava uno spostamento verso l'uscita dal super in modo tale che lei potesse sbrigare le operazioni in tutta tranquillità e senza imbarazzi. La aspettava fuori, la seguì fino alla Megane Scenique, la aiutò a caricare la spesa nel vano posteriore, e quando quella si era già seduta al posto di guida, prese posto anche lui sul sedile anteriore, senza dire niente. La marchetta, come tutti coloro che si prostituiscono, aveva fretta, pensava alla possibilità di un secondo turno mattinale al super, però questa era una signora alla prima volta, lui pensava, almeno con lui di sicuro, e magari ci sarebbe voluto un po' di più. Lucilla era una persona intelligente. Si trattenne dal dire anche «cioè», e accese il motore, il suo cervello girava già a vuoto, se in quel momento gli avessero chiesto il nome dei re magi non gli sarebbe venuto alla mente. Queste macchine che fanno adesso sembrano grandi viste da fuori, ma dentro sono imbottite di plastica e di air bag, non c'è posto, si suda. Lucilla non era grassa, ma occupava, come si dice, molto posto, e quella giacca a vento maxi imbottita


la faceva sentire goffa e imbalsamata. Uscì dal parcheggio azionando lo spannatore e urtò involontariamente il comando del settore CD, e nell'abitacolo si diffuse Noi due nel modo e nell'anima, che Lucilla ascoltava per scherzo, ma che il ragazzo interpretò con semplicità. «Guardi, qui c'è un bancomat, se ha bisogno, sono cento Euro». Lucilla scese dalla macchina, ed eseguì. Il ragazzo raccolse dal tappetino una fotocopia che era arrivata fin lì, ne lesse distrattamente le prime tre parole «Dietro la porta…». Lucilla rientrò in macchina, ripartì. Allo stop Lucilla si accese una sigaretta. Il ragazzo traguardò l'accendino, non valeva niente, l'orologio invece era bello, da famiglia, il cinturino era un doppio filo d'oro, e si intonava con le lentiggini di vecchiaia sul dorso delle mani di Lucilla, la quale, non avendo mai abbandonato l'uso pesante dell'ombretto blu, si era ritrovata alla moda, come spesso succede. Una bella tirata di Marlboro le dette il fiato per guardarlo in faccia. Era carino, aveva un aspetto indifeso e freddoloso, in quanto era vestito poco, una giacca quasi estiva su una camicia Oxford col collo voluminoso, che lasciava aperta la vista su di una catena, diciamo catenina, d'oro. Il ragazzo le mise una mano sulla fica, senza perdere tempo, e le disse, con un accento talmente pugliese da sembrare una macchietta, di girare a destra, prendendo un vicolo cieco, all'inizio del quale dondolava un cartello giallo con scritto «Tipolitografia Santi». La tipolitografia Santi doveva essere fallita da un bel po', e Lucilla si sentì di meda, con quella mano addosso che cominciava a muoversi, il ragazzo che le dava


indicazioni precise su dove posteggiare, i vetri appannati, il tergicristallo a velocità 2, la testa proprio da un'altra parte, una bella caldana fuori tempo massimo, i pensieri sulla pensioncina del tutto superati dagli eventi, tanto che dalla bocca non potè non uscirle un: «Lasciamo perdere… qui… ti pago lo stesso ma…». Lui come tutte le puttane sapeva che senza coito non si incassa. Pertanto certe dichiarazioni non valevano niente, accelerò il massaggio e sbottonò il primo bottone, durissimo, dei pantaloni. Ma era duro solo quello, non erano dei jeans di cartapecora, erano dei morbidi pantaloni di cotone che scivolarono via senza difficoltà: il problema erano i collant che la signora portava sotto i pantaloni, che o si strappano, ma dove siamo?, o vanno sfilati tutti fino in fondo, il che è quello che fece Andrea, riappallottolò le calze e le buttò sul sedile posteriore. Lucilla fece un calcolo e un sogno, e lasciò fare, sentiva il corpo di quel ragazzo ben fatto fra le mani, e smise di pensare… L'ultima volta era stata una vera e propria rogna. Quella scema non voleva andare nello scalo merci della stazione Nord e aveva guidato per chilometri prima di trovare un posto che le andasse bene. Li avevo dovuti seguire per tutta la città. Ogni tanto si fermavano e discutevano. Pareva che lei non ne volesse più sapere. «Vi prego, ma per paciere…» diceva, poi ripartiva, e dopo qualche chilometro era la stessa storia. Seguirli era stato difficile, e a un certo momento li avevo persi. Per fortuna a un certo punto ci doveva aver pensato il ragazzo, e l'aveva fatta fermare lui, a quel punto, dicendo che non aveva tutto quel tempo da perdere. Quando li raggiunsi con la Punto stavano ripartendo, e finalmente,


dopo altri chilometri, avevano parcheggiato la macchina in una stradina secondaria vicino… dove non passava nessuno, e le si era disteso accanto, tirandolo fuori. Io stavo per inquadrare, ma la tizia si è calata giù, non si vedeva più niente, non si riconosceva. Ieri invece sembrava una passeggiata. La signora si era prima fatta fermare a un Bancomat, poi il ragazzo l'aveva fatta guidare fino al deposito delle ferrovie. Poi erano entrati nel cancello della tipografia. Le foto verrebbero meglio dal parabrezza, codesto lo so, ma era tutto appannato e non vedevo un cazzo. Dal finestrino laterale andava un po' meglio. La mia Coolpix non ha bisogno di molta luce, e in qualche istante avevo già preso una decina di inquadrature. Mi hanno detto cento volte che si deve vedere l'eiaculazione, e io l'ho documentata, stando rannicchiato sotto l'altezza della portiera e tenendo la Canon al finestrino come un periscopio, uttilizzando il monitor snodabile. Queste cose qui però secondo me vanno fatte solo quando tutto fila liscio, se no si lascia stare, e te la raccatto dopo. Invece quella lì era più sveglia di quello che si poteva capire, e da lì son nati tutti i problemi. Lucilla si accorse che qualcosa non andava quando capì che lui voleva a tutti i costi venire fuori. Che motivo ci poteva essere? «Resta, resta… che fai…», ma lui usciva, la allontanava da sé e le veniva addosso, sulla pancia, impiastricciandole una camicia che valeva più della marchetta, chiudendo gli occhi appena appena. Lucilla ansimava, non aveva goduto neanche un po', e mentre cercava di scuotere quel cretino che aveva sotto scorse un ombra fuori dal finestrino, un obiettivo, una macchina fotografica quasi uguale a quella che aveva regalato a


Sebastiano per il diciannovesimo e ultimo esame. Allora si staccò violentemente da quel ragazzo, che ruotava gli occhi da tutte le parti, si buttò sul posto di guida, così com'era, girò la chiave di avviamento e partì… «Scendi» gli disse, «testa di carro» - e mentre quello si tirava su i pantaloni in mezzo a una pioggerella nebbiosa, decise di andare dietro a due lumini rossi che si trovava davanti, una FIAT Punto grigio metallizzata, targata AC 412.. La testa le ronzava e girava, avrebbe voluto ricominciare dal giorno prima alla stessa ora. L'avevano fregata bene bene, lo sperma di quel ragazzo le si stava congelando sulla camicia a contatto della pelle. Nella sua stanza fredda il correttore di bozze rabbrividì di disgusto e di indignazione. Sul piano scuro del tavolo di noce, dove non c'erano tracce di polvere, erano disposte una accanto all'altra, nell'ordine, una penna Staedtler, dalla forma simile a quella di un lapis con rigature nere e gialle, col cappuccio rosso; una penna dello stesso tipo col cappuccio blu; una penna biro Bic trasparente con il cappuccio verde e il refil a due terzi del consumo; tre lapis neri Fila di durezza diversa: quello HB, lungo circa 14 centimetri, quello 2B, lungo un po' meno, e quello B, lungo 15 cm, tutti e tre con una piccola gomma da cancellare all'estremità opposta a quella della punta. La gomma del 2B non era consumata quasi per niente. A occhio nudo i tre lapis parevano perfettamente allineati, anche se a guardare bene si sarebbe visto che c'era qualche frazione di grado fra di loro. A fianco trovava posto un appuntalapis anonimo di alluminio, due gomme


Pelikan bianche, una lievemente consumata, alloggiata in una scatolina a forma di parallelepipedo senza le basi, di cartoncino patinato opaco, dalla quale la gomma spuntava per circa un centimetro, da una parte sola. L'altra gomma era identica alla prima, ma nuova, ancora incellofanata. Nei pressi delle gomme erano disposti due compatti blocchetti di foglietti gialli, adesivi. Misuravano rispettivamente 3,5 per 5 cm, e 5 per 7 cm. A destra dei Post–it tre evidenziatori Stabilo Boss, uno giallo, uno rosa e uno verde fosforescente. Avevano l'aria di non essere mai stati usati. In fondo, quasi sull'angolo del piano del tavolo, era appoggiata una grossa matita, mezza rossa e mezza blu, spuntata. Il correttore impugnò la penna blu e con essa disegnò una specie di cancelletto, un ostacolo di un concorso ippico, sulla è della parola «perchè», al secondo rigo, e replicò lo stesso disegno a margine, seguito da una é con l'accento acuto. Poi siglò al dodicesimo rigo, nello spazio bianco fra la parola «sega» e il punto, un simbolo che lontanamente somigliava a una forca, quella dell'impiccato, e anche questo segno lo riprodusse nel vasto spazio bianco a fianco del testo, facendolo seguire da una parentesi aperta, una barra verticale, e una parentesi chiusa. Questo simbolino assomigliava a quello che fanno i maschi in età di scuola media inferiore per raffigurare sbrigativamente la vulva (che chiamano vagina), ed è quello che i correttori utilizzano per indicare di riavvicinare, unire, togliere insomma lo spazio bianco prima del segno di interpunzione, che non ci va. Continuando a «leggere», pose una specie di freccia sulla i della parola «si» e


a margine, dopo lo stesso segno, scrisse «ì». La risposta affermativa richiede l'accento. Evidenziò con una sorta di acca allargata la parola «cioè» e, a margine, replicò lo stesso segno seguito dalla parola «ciao». Poi coprì la parola «settore» con un segno a forma di staccionata, e accanto al testo lo rifece identico, seguito dalla parola «lettore». Stiamo parlando di un lettore CD, non di un settore CD. Dove si faceva menzione dell'orologio, sostituì il «da» posto davanti alla parola «famiglia» con un «di», secondo le consuete e dovute procedure. Arrivato alla parola «meda», capì che uno non si sente «di meda» ma «di merda» e applicò tale correzione. Per farlo, anziché limitarsi a porre un segnale in mezzo fra la e e la d, e a indicare che in corrispondenza di quel segno andava aggiunta una erre, evidenziò l'intera parola «meda» con un cancelletto allargato, perché gli sembrava molto più chiaro riscrivere per intero la parola giusta, cioè «merda». Fu un po' incerto affrontando la particella pronominale «vi» al rigo 24. Si decise a sovrapporci una sorta di barrage e corresse il «vi» in «ti». Che senso aveva che quella signora desse del voi? Era un refuso puro e semplice. E quel «paciere»? A parte che si scrive senza «i», era evidente che andasse sostituito con «piacere». Si limitò a evidenziare la porzione «parie» e a sostituirla con la versione «piace» accompagnata da due parentesette messe per orizzontale, che indicano di mantenere la parola sostitutiva attaccata alla parte che rimane (che vive).


Poco sotto avvistò la parola «codesto». Appoggiò ora la penna blu sul tavolo, afferrò in vece il lapis, e disegnò un circoletto attorno alla parola «codesto». Disegnò a margine un circoletto il più simile possibile al precedente seguito dalla correzione «questo» seguita da un punto interrogativo. Si trattava di una scelta stilistica? Non si giustificava un simile uso improprio, anche ammesso che il testo fosse una simulazione, e il secondo narratore volesse volontariamente confondere le acque, scimmiottando una parlata toscana, quando lui, si capisce, è lombardo. Tuttavia fece tale correzione a lapis, come una doverosa osservazione, non vincolante, da verificarsi. «Raccatto», che ci sta a fare qui la parola «raccatto»? Il correttore soprascrisse la parola «raccatto», segnalando di sostituirla con «racconto». «Fuori dal finestrino». Sospirando il correttore si alzò dal tavolo, pareva infastidito e persino disgustato. Raggiunse la libreria grigia, prese in mano un volumetto sbiadito, e lo aprì alla prima pagina. Consultò l'indice, sfogliò le pagine fino a trovare quella che cercava. Poi appoggiò il libro sul suo tavolo da lavoro, e con una smorfia fra la soddisfazione e lo sconforto bisbigliò: «fuori del finestrino». Obliterò il «dal» e lo sostituì con il «del», che in questo caso non significava deleatur, non c'era possibilità di fraintendimento. Ancora cinque righi (si dice righi e non righe) e il correttore giunse alla locuzione «testa di carro». Con tutta la buona volontà, e in relazione al contesto, stabilì che andasse corretto in «cazzo». E così fece, neutralmente, ma con


sicurezza. Infine pose sul secondo punto alla fine del periodo un segno a forma di forca, lo reiterò a margine accompagnato da una croce. La croce è il segno che per i correttori vuol dire togliere, eliminare, mandare via, deleatur, appunto. Non è un caso che i correttori quando vogliono che un brano, una parola, una lettera, rimangano così come sono usino l'espressione «vive». Il correttore rilesse le otto pagine indispettito e confuso. Erano le prime pagine, e c'erano 14 refusi. Di solito nelle prime pagine non ce ne sono tanti. E neanche nelle ultime, dove tendono a sparire. I refusi si trovano nascosti nel bosco più fitto, su dei piccoli pianori soleggiati, e come i funghi non vanno mai soli. Come si fa a scrivere perchè? Oggi come oggi anche volendo il correttore automatico te lo cambia da solo. E poi quel turpiloquio gratuito e cafone. Il correttore detestava il turpiloquio sulla carta stampata, per non parlare delle bestemmie. Ma me lo fanno apposta? Pensò il correttore. C'è qualcuno che mi vuole mettere alla prova? Perché questa roba la fanno leggere a me? La faccenda puzzava e non piaceva. E che dire del testo? L'alternanza obsoleta di due, tre narratori lo estenuava, ma pensieri di questo tipo sono l'esatto contrario di quello che si richiede al correttore, il quale si scosse, cercando di tornare in sé. «Al correttore è richiesto di leggere il testo sotto un aspetto rigidamente formale», e questo lavoro diventa impossibile facendosi distrarre o coinvolgere dal contenuto del testo. Il correttore deve comprendere, conoscere, correggere il testo, ma non lo deve apprezzare,


giudicare, né tantomeno utilizzare a scopo ricreativo, lasciando correre i pensieri, come fa un lettore comune, un profano, che può pensare ad altro per una trentina di righi, e poi tornare nel binario della lettura, riallacciandosi al nastro del testo come fa un segmento di DNA grazie alla DNA ligasi, per esempio distraendosi dal momento in cui si dice che Lucilla è una persona intelligente fino a quando lui non la tocca. Il correttore invece deve leggere tutte le parti del testo con lo stesso grado di attenzione, siano esse avvincenti o inutili. Per paradosso il suo lavoro è più facile se il testo è noiosissimo, o tecnicamente incomprensibile. Il suo normale orario di lavoro prevedeva di cominciare alle otto, tutta una tirata fino ad arrivare alla pausa delle dodici e quarantacinque. E vero che da qualche tempo preferiva iniziare un pochino prima. La stessa cosa che fanno certi impiegati, quelli che vanno in ufficio con un po' di anticipo per avere qualche minuto tranquillo a disposizione, senza rumori e telefonate, per organizzare il lavoro della giornata e per controllare che sia tutto a posto, o per leggere il giornale. Il correttore anni addietro era stato impiegato, e gli era capitato anche questo. Fra l'altro aveva anche una decina di minuti di lavoro da recuperare sul giorno prima. Circa 2800 battute da leggere, che non aveva fatto in tempo a terminare. La sua intenzione era di recuperare quelle 2800 battute proprio in quel quarto d'ora in più. In realtà gli potevano bastare cinque minuti, per leggerle, un quarto d'ora era anche troppo. Se dunque gli fosse avanzato qualche minuto si sarebbe potuto avvantaggiare sul lavoro del pomeriggio, beh, avrebbe visto al momento. Programmava di lavorare fino alle 13.00. Cinque ore filate per


terminare la correzione di quel racconto lungo. Poi sarebbe uscito, per andare in casa editrice a consegnare le bozze e ritirare quelle nuove. Al correttore il materiale arrivava in maniera indiscriminata e spesso caotica. Potevano essere testi di narrativa contemporanea come quello che aveva davanti, o di biologia molecolare, o di trigonometria, per loro faceva lo stesso. Per negligenza o, più probabilmente, con intenzione gli veniva consegnato il lavoro senza neanche specificare di che si trattasse. L'abitudine era quella di non far sapere al correttore di bozze neanche il titolo del libro che stava rivedendo. Non gli veniva detto neanche l'autore. Ma in un caso come quello… Perché ostinarsi in questo rituale? Il correttore sapeva perfettamente su quale libro stava lavorando, ne conosceva gli autori, e conosceva molto bene il curatore, anzi la curatrice, e ne riconosceva agevolmente il modo di lavorare. Eppure l'editore trattava gli elaborati come se venissero dal cielo, e soprattutto come se ci fossero spie dappertutto. Il correttore lottava duramente, da sempre, per dimostrare che la sua professionalità era irreprensibile, che non commetteva errori, che non perdeva un refuso. Il tutto per uno stipendio da fame, e nella totale mancanza di garanzie sul lavoro. Il correttore di bozze è l'ultima ruota del carro della catena produttiva di un libro. Svolge un lavoro misero e mal pagato, spesso al nero, nella migliore delle situazioni è un precario corrisposto a notula per prestazione occasionale. Eppure si è molto esigenti nei suoi confronti e da lui si pretende molto. Ed è facile


coglierlo in castagna e sostituirlo. Può aver individuato centinaia di refusi, ma se malauguratamente ne sono rimasti alcuni, eccoli lì, molto visibili, evidenti. Chi desidera al giorno d'oggi svolgere questa professione? Chi è disposto a sacrificare anni e anni di praticantato, perché il mestiere si impara solo facendolo, e ci vuole tanto, per dei compensi minimi, veramente minimi, senza nessuna certezza? Ogni casa editrice è assediata da persone, qualificatissime, che si offrono per scrivere testi di ogni tipo, migliaia di autori promettenti, migliaia di redattori "fatti", migliaia di illustratori, grafici, impaginatori, "editor", esperti di pubbliche relazioni nell'editoria, esperti di ipertesti, eccetera eccetera eccetera, ma chi vuol fare il correttore di bozze? E poi c'è il computer, che, come dicono loro, gli errori se li trova da sé. E come… E il correttore è una figura professionale che non esiste più… D'accordo… Una volta le case editrici avevano dei correttori di bozze interni, che per trenta o quarantanni facevano solo quello. Era anche diffusa l'usanza che durante l'università, soprattutto gli studenti di lettere, cercassero di integrare i loro bilanci anorettici (sì, anorettici: dite forse epilessici? O dislessici?) correggendo delle bozze. Ma ormai da anni non era più così. Centinaia di presunti correttori lavorano in modo improvvisato e provvisoriamente, per qualche anno. Per un tempo insufficiente a imparare il mestiere, ma sufficiente a farsi strada a gomitate, sperando in un contratto a progetto, per non parlare dell'assunzione. Il correttore era terrorizzato, quando era al lavoro. Perché per due lire era continuamente obbligato a dimostrare di essere professionalmente inattaccabile,


e che se una bozza passava per le sue mani si potesse dire che era stata letta con attenzione. Naturalmente «letta» in senso tecnico. Si sa che con il valore letterario o scientifico del testo lui non aveva niente a che fare. Lui si occupava della forma, che è cosa difficile da definire. In primo luogo non doveva esserci alcun errore, che un correttore di bozze chiama refuso. Cos'è (che cos'è) un errore? Di quanti tipi può essere un errore? Chi lo ha commesso, l'errore? Di chi è la colpa? Gli errori sono infiniti, e non esiste un computer che li possa elencare, trovare, correggere, e il correttore temeva di non averli visti tutti. Un errore non è soltanto scrivere «essicare» invece di «essiccare», oppure «poiché» invece di «poiché», oppure «culto» invece di «culo». Un errore è mettere due spazi bianchi invece di uno fra una parola e un'altra, un errore è scrivere Mar Mediterraneo invece che mar Mediterraneo, un errore è scrivere E' invece di È. Ma dov'è sulla tastiera il tasto per scrivere E? Questo lo sa il tipografo, o almeno lo sapeva una volta. Ma chi glielo segnala? Tutti sanno leggere un libro, ma quanti sanno le regole per scriverlo? Il correttore, almeno a quanto risultava a lui, deve sapere a perfezione l'Italiano, le regole grammaticali, le grafie corrette, le parole straniere, la costruzione del periodo, la sintassi, la grammatica, la consecutio, anche se questo non gli viene minimamente riconosciuto. Ma in più, deve conoscere la storia, le biografie, i toponimi, le date. Chi altri controllerà che tutto ciò che è


riportato in un rigo sia esatto, e se non esatto affidabile, e se non affidabile, corrispondente alle intenzioni e al testo dell'Autore? Un buon correttore dovrebbe sapere il latino, e anche un po' di greco. Ma anche di scienza, padroneggiare almeno i lessici. Però, soprattutto, deve fare una malattia delle uniformità del testo. Se mar Mediterraneo è scritto così, deve sempre essere scritto così. Se Pianura Padana è scritto così, deve sempre essere scritto così. Lo stesso vale per Primo Ministro invece che primo Ministro, al posto di Primo ministro. Qualcuno bada ancora a queste cose? Sì, il correttore di bozze. Era il suo lavoro. Esiste una locuzione più brutta di «correttore di bozze»? No. Basterebbe questa espressione a gettare su tale professione un'aura di mediocrità, un'ombra di lavoro di ripiego, di ultimo grado della scala sociale. Che lavoro fai? Il correttore di bozze. Ah. Forse peggio di questa c'è solo «rettificatore di convergenze», ma almeno ha un che di tecnico, e si fa pagare bene. Il correttore era obbligato a non lasciare alcuna ripetizione, alcuna interpolazione, alcuna allitterazione involontaria e cacofonica. Una data di morte sospetta lo doveva mettere subito in movimento. Se a distanza di cento pagine lo stesso oscuro e sconosciuto paesino della Francia meridionale veniva scritto Crodolek invece di Crodoleck, lui se ne doveva accorgere. Era il suo mestiere. Si può stare a sindacare su un mestiere? In teoria no. Quanti stanno a sindacare se un tornitore meccanico passa il suo tempo su una vite che ha passo 8,5 invece che 8,7? Oppure chi si permette di


sostenere che è insignificante se un olio ha una determinata viscosità invece che un'altra? Invece sul fatto che «essiccare» si scriva così in molti pensano di saperla lunga. E che, comunque, si tratta di questione tutto sommato insignificante. Il suo lavoro si basava su strumenti molto semplici. Il suo compito era quello di segnalare sulle bozze tutto ciò che andava corretto, secondo le consuete convenzioni tipografiche. Su tutto ciò che atteneva il (al?) suo lavoro non comunicava mai se non per iscritto. Quello che aveva da dire lo annotava sinteticamente ed efficacemente sulle bozze. Apponeva le sue correzioni, sottoponeva i suoi dubbi, rimandava a quel repertorio o a quel dizionario, utilizzando penne a sfera di due colori diversi, e il lapis. Con la penna blu segnava il refuso puro e semplice. Con la penna rossa segnava la correzione dovuta a motivi di uniformità. Col lapis segnalava con il massimo, proprio il massimo rispetto, una correzione ipotetica, un dubbio, un elemento da controllare sul quale solo l'Editore o l'Autore stesso potevano prendere una decisione. Il correttore trattava qualsiasi testo alla stessa maniera. Con la stessa necessaria pignoleria, attenzione, e una porzione di spirito vendicativo. Si trattasse di testi madornalmente copiati da qualche enciclopedia, o testi scritti senza alcuna cognizione grammaticale o sintattica, anche se c'erano errori che non avrebbe fatto un bambino di terza elementare (e capitava spesso) il correttore li trattava gelidamente, asetticamente, come testi che la Direzione


Editoriale aveva deciso di pubblicare, e quindi meritevoli dei migliori riguardi. Fosse l'autore un famoso letterato o nessuno, il correttore faceva a margine le osservazioni del caso. Se per esempio il testo era evidentemente scopiazzato, ne citava puntualmente le fonti (italiane o straniere), e riferiva il grado di copiatura in percentuale: «copiato al 1oo%», «parafrasato all'8o%», «ben copiato e mimetizzato», «probabilmente tradotto da un qualche testo in lingua inglese» e via di seguito. Nonostante queste segnalazioni costassero al correttore notevoli perdite di tempo, la casa editrice solo raramente prendeva in considerazione le annotazioni che riguardavano copiature inferiori all'80%. D'altra parte il correttore di solito dava qualche suggerimento semplice per rendere la copiatura meno evidente, e per renderla esplicita e quindi citazione, a meno che non fosse tratta da volumi della concorrenza. Il correttore doveva possedere anche senso della misura. Si limitava a segnalare il problema e a indicare soluzioni praticabili. Era abile in questo, anche se, qualora avesse potuto pronunciarsi in merito, avrebbe affermato che lo faceva con sdegno e disgusto. Davanti a frasi indecifrabili trovava il modo di capire le intenzioni dell'Autore e di riscrivere il brano in modo disteso e comprensibile (sempre in tono dubitativo, come se le sue fossero soltanto delle proposte). Se c'era un dato statistico che contraddiceva un altro presente nel testo, oppure universalmente noto, oppure riportato su pubblicazioni recenti, il correttore lo faceva notare con zelo e umiltà, come se allargasse le braccia e sospirasse: «Bisogna avere pazienza…». «Io non


avrei voluto accorgermene…. ma sono pagato per questo…». Il suo lavoro era enorme e complesso, assolutamente difficile, ma era solo un correttore. I redattori si prendevano i meriti di tutto il suo lavoro di fino… mostravano le sue notazioni come se le avessero fatte loro. E se per ventura c'era rimasto un refuso… «Ormai non esistono più correttori bravi… è un vero disastro…». Conosceva con estrema esattezza, per ogni lavoro, preventivamente, il tempo necessario che avrebbe impiegato, per una correzione o una rilettura. Sapeva che se gli arrivava un testo a correre di 50 000 (e non 50.000, né tantomeno 50000, o all'inglese, 50,000) battute avrebbe impiegato X minuti, 100 000 battute = 2 X minuti. In caso di testi un po' particolari, che potevano richiedere più consultazioni di vario materiale, aggiungeva una porzione di tempo precisa, per gli imprevisti. Ma X, nel senso della variabile, ricordatevelo, si scrive x, cioè ics basso corsivo. È una sensazione che chi legge per piacere non conosce quella di trovarsi di fronte, sempre e comunque, un oggetto fatto di carta e inchiostro. Chi legge per suo diletto, del fatto che un libro sia un oggetto se ne dimentica, e si immerge, come si dice, nella lettura, sia essa per informarsi e conoscere, sia essa un racconto, un romanzo, una favola. Anzi, delle contingenze grafiche non deve proprio accorgersi. Il correttore invece che un libro era solo un libro non se ne dimenticava mai, era un oggetto al quale, se si vuole, guardava solo in superficie, come se avesse


una pistola alla tempia. Lo ispezionava da tutte le angolazioni, lo squadrava, lo visionava in trasparenza, ma dentro non ci entrava mai. Certo quando aveva cominciato a fare quel lavoro la pensava diversamente. La lettura gli piaceva, era la sua passione, e la sola idea di leggere libri per mestiere gli sembrava un sogno, un completamento ideale, la quadratura del cerchio. Forse tutti quelli che cominciano a fare i correttori di bozze credono questo. Ma in seguito, col passare degli anni, si era reso conto che lui quei libri non li leggeva. Li guardava, li scrutava, li scorreva, li analizzava con il lentino, ma non li leggeva, ed era meglio cosĂŹ, perchĂŠ tanta parte di quello che gli passava sotto gli occhi non valeva la pena di essere letto, in ogni caso non aveva un interesse per lui. Leggere in quel modo era come parlare con qualcuno stando attento agli errori grammaticali che fa, o all'inflessione dialettale, o alle e strette e a quelle aperte, e non a quello che dice. E vero che anche le cose che vengono dette spesso non vale la pena di ascoltarle. Ma andando avanti di questo passo‌ se tutti quelli che hanno un libro di fronte pensassero a quante righe ha ogni pagina, quante battute ha ogni riga, se la prima riga della pagina è completa. E l'ultima? E il rimando alla figura 2 è nelle immediate vicinanze della figura 2? La precede? Leggendo una bozza di genetica, al correttore una volta era capitato di appassionarcisi un po', e si era reso conto che se si metteva a pensare, come uno che studia e si immerge in quello che legge, i refusi, le imperfezioni formali, e altre cose di cui si occupa la redazione, non avevano molta importanza, e non si


vedevano più, non si notavano. Quindi il correttore deve stare distaccato dalla dinamica nella quale il libro cerca di attrarlo: il redattore sta sempre al di fuori, altrimenti non vede la forma. D'altronde è così ininfluente se uno ione 2 + diventa uno ione 2 -? O se hedgehog, che è un gene, diventa Hedgehog, che è una proteina? O se una sintasi diventa una sintetasi? E chi paga un correttore per avere gli strumenti per saperlo? Una volta si era accorto che il protossido di azoto era confuso con il perossido di azoto. Ma nessuno lo aveva premiato per questo. Si trattava di una «svista». Il bello è che se non se ne fosse accorto avrebbero commentato sommessamente: «Beh, certo, come faceva ad accorgersene?». La sua deformazione professionale lo portava a tenere presente che la signora si chiamava Lucilla, che usava l'ombretto blu, che possedeva una Renault Scenic (Scenique?), perché se qualche pagina dopo veniva fuori che aveva un'altra macchina bisognava segnalarlo. Avrebbe dovuto tenere a mente il maggior numero di particolari, ma dopo avrebbe dovuto rapidamente dimenticarli. Qualcosa gli sarebbe rimasto in mente, ma solo qualche dettaglio, magari la notizia più strana ed eccentrica, il particolare buffo, il refuso marchiano, le trivialità. C'era del rimpianto nel correttore, che nasceva dalla consapevolezza di non ritenere granché di quello che leggeva: se solo si fosse ricordato un decimo di quello che aveva letto avrebbe avuto una cultura infinita, avrebbe saputo di scienza, di diritto, di mistica, di filosofia, di geografia, di storia. Invece non


padroneggiava alcun sapere in particolare, non avrebbe saputo esporre una teoria, articoli di legge, fatti storici: solo una volta messo di fronte al testo doveva farsi venire i dubbi, quelli giusti. Lui non disponeva di un corpo di conoscenze, e si limitava ad applicare una massa di norme e di nozioni disposte senza nessun ordine e gerarchia, che gli si erano sedimentate nella testa. Per esempio si ricordava che la polimerasi I e la polimerasi III lavorano come «correttrici di bozze», eliminando le basi male appaiate. Il problema più grosso del correttore era quello di far quadrare i bilanci. Veniva pagato a battuta, normalmente 0,0005 centesimi di euro l'una, per cui una pagina di 2300 battute significava un guadagno di 1,15 euro, lordo ben si intende. Lavorando sette otto ore al giorno poteva fare approssimativamente una cinquantina di pagine, per cui i suoi introiti mensili ammontavano a circa 1265 euro lordi al mese, che al netto delle tasse diventavano 1012 euro. Lavorando anche il sabato e talvolta la domenica, cosa che gli succedeva spesso, il guadagno aumentava in proporzione. Ma l'afflusso di bozze non era così continuo da potergli garantire un lavoro regolare. Talvolta gli capitava di dover lavorare anche dieci ore al giorno, ci si può immaginare con quale concentrazione, talaltra passava delle giornate senza lavoro. Nel complesso il suo bilancio mensile consisteva in un migliaio di euro, e doveva anche ringraziare, perché una simile quantità di lavoro gli spettava solo per la sua abnegazione e la sua esperienza. Ma sapeva che c'era gente in giro pronta ad accontentarsi di 0,0004 a battuta.


Il correttore tentò di riprendere il suo lavoro. 39 Andrea si tirò su i pantaloni, nel freddo, ci era abituato, si alzò il bavero della giacchetta da mezza stagione, e si avviò alla fermata dell'autobus. Non era la prima volta che lo scaricavano così, senza riaccompagnarlo perlomeno al punto di partenza. Erano le undici e un quarto. La mattinata forse era finita. Prese il 44 e alle dodici era di nuovo nel supermercato. Era pulito abbastanza, e poi alle donne piace l'odore di una eiaculazione recente. L'importante era non aver sporcato i pantaloni. «Ma perché sei venuto qui pezzo di imbecille? Ma sei diventato completamente imbecille?» Ho fatto una cazzata ad andare subito dal professore, e il professore si è incazzato moltissimo. Soprattutto quando gli ho detto che la signora aveva reagito. «Fammi vedere le foto e lasciamele». Guardammo le foto nel display della macchina fotografica. Le foto non erano venute granché. «Non si vede bene che è venuto» ha commentato il professore. «E poi lei in faccia non si vede mai per intero». «Ma la macchina si vede benissimo, fra un po' si vede anche la targa». «Guardiamole al computer» disse, «dammi il dischetto, se no non se ne fa di niente». Il professore ha scaricato le foto sul computer, e le ha ingrandite a tutto schermo. «E questo che cazzo è?» ha detto il professore, quando ha visto la foto di mio nipote che dormiva sotto il tavolo. Si era nascosto 11 quando la Lorena lo


cercava perché aveva pisciato nel letto. E lui c'era rimasto due ore, finché non si era addormentato. «E roba mia, lasci stare, la cancelli». Le foto buone erano otto, delle quali solo un paio utilizzabili, ma potevano anche bastare. Il professore le guardò con attenzione una per una, ingrandendo i particolari. «Dovresti usare una risoluzione maggiore…». Il professore osservava la faccia della signora e disse: «Mah». «Come mah?» Ho detto io. «Non è che siano venute peggio di altre volte». Il professore era poco convinto. «Ti do 150 e non uno di più! E poi questa signora secondo me non è adatta. E poi sarebbe stato meglio un filmino, col sonoro». «Ma come? Non sono mica venute male. Non sono granché ma qualcosa ci si può cavare. Ho la targa, ho tutto, cosa c'è che non va?» Il professore ha tirato fuori il portafoglio e mi ha dato centocinquanta. Io gli ho detto che se non mi dava almeno duecentocinquanta non se ne faceva di niente. Ma ormai le aveva scaricate. Lo sapevo che non dovevo fargliele scaricare nel computer. Lucilla guidava come una furia. «Che stronzi». A un semaforo si rinfilò i pantaloni e le scarpe. La Punto viaggiava tranquilla, quello lì non doveva essersi accorto di niente. Stargli dietro sui viali di circonvallazione non era difficile, attraversarono la città da Nord a Sud. Poi la Punto svoltò a destra, e ancora a destra. Un furgoncino che era nel mezzo si fermò, cercando di posteggiare, e quando Lucilla era riuscita a imboccare la seconda traversa, la Punto non si vedeva più. «Pezzo di merda» pensava, guardandosi intorno, a destra e a sinistra. La Punto era ferma in una


piazzola, sotto un platano. Il tipo era appena sceso dalla macchina e con qualcosa in mano era entrato al numero 14. Ci entrò anche lei, dopo un po'. L'ascensore era fermo al quinto piano, il tipo doveva essere lì. Al quinto piano c'erano due appartamenti. Suonò al campanello del portoncino di sinistra sulla targhetta c'era scritto Pesenti. Aspettando che le aprissero ebbe qualche istante per pensare. Ma non avrò fatto una scemata? Pensò Lucilla. Le venne in mente che essere andata lì potesse essere pericoloso. In una mano teneva il crick della Scenic, nell'altra il telefonino come se fosse una pistola, pronta a usarlo. Si era preparata un discorso breve. Aveva pensato di arrivare a 1000 euro per la scheda con le foto. Altro che mille euro. Sopra i mille euro li avrebbe denunciati, avrebbe chiamato i carabinieri. Dopo due minuti aprì una badante filippina che chiese, «Chi è?…». Manteneva la porta quasi chiusa, con la catenella. Vide una signora molto alterata che teneva un arnese in mano. Da dietro si sentì anche la voce di una signora che doveva essere piuttosto anziana e che chiese anche lei: «Chi è?». «Scusate se vi disturbo, è venuto da voi un signore, un uomo, vi ha suonato qualcuno?» «Chi?» «Un uomo?» «No, non venuto uomo» rispose la filippina. «Nessuno uomo». «Chi è?» Ripeteva la voce anziana. «Scusatemi, ho sbagliato… scusatemi». Lucilla si avvicinò alla porta dell'altro appartamento. Si sentivano le voci di due persone che parlavano. Suonò il campanello. «Chi cazzo è adesso?»


Non avevo mai visto il professore così nervoso. «E ora chi cazzo è?» Il campanello suonava a martello, e chi poteva essere? «Signora Eleonora, è lei?» «No, mi apre per favore? E una cosa della massima importanza…». «Ma chi è?» «Mi vuole aprire?» Il professore staccò la macchina digitale dal computer e me la mise in mano. «Vai in cucina, sparisci, esci solo quando ti chiamo!» Sentivo che il professore apriva la porta. «Mi vuole aprire per favore?» «Venga signora, è successo qualcosa?» Lucilla si introdusse nell'appartamento, frenetica, guardandosi intorno a 360 gradi. Era un appartamento dignitoso, con ampie finestre nascoste da un doppio tendaggio, uno pesante di panno scuro, e uno leggero di sintetico bianco. In mezzo al soffitto nerastro era istallato un grosso lampadario di Strass, che oscillava appena. Il signore che le aveva aperto era un uomo di una sessantina d'anni, quasi calvo, con gli occhiali cerchiati di metallo, un cardigan pesante da casa, e le pantofole di vacchetta. Guardava lei e il crick con occhi allibiti. «Lei è stravolta, signora, è successo qualcosa?» «E successo qualcosa sì…». «Mi dica, venga…». «E salito da lei un uomo, con una macchina fotografica?» Mentre pronunciava queste parole cominciava a pensare che poteva essersi sbagliata. L'uomo sembrava sorpreso, turbato, e assicurava che non era salito nessuno. Su un carrello da televisione c'era un computer acceso, il salvaschermo


mostrava una sequenza di galassie e pianeti in dissolvenza. Lucilla spiegò che aveva visto entrare la persona che cercava in quel palazzo, e che l'ascensore era fermo a quel piano. «Mah, signora, qui non è venuto, non è venuto nessuno» replicava l'uomo con un aria del tutto raccomandabile. «Si accomodi… è sicura che…». Lucilla stava tornando un po' in sé, e pur continuando a guardarsi intorno alla ricerca di qualche segnale, temeva di aver preso una cantonata. Forse l'ascensore era fermo a quel piano già da prima, il fotografo poteva essere salito a piedi, magari al primo piano. «Se posso aiutarla in qualche modo… le è successo qualcosa? Vuole fare una telefonata? Vuole un bicchier d'acqua?» Mi ero nascosto in cucina. Sul gas c'era una zuppa marroncina. L'avevo assaggiata, e faceva abbastanza schifo. Non sapevo che fare, e rimasi lì, come un pirla, ad aspettare. Magari il professore aspettava qualcuno, o era qualche faccia di merda che rompeva le balle. Volevo portar via i coglioni, ma di là non si sentiva niente. In cucina c'era poca luce, l'unica finestra era piccola e ovale, c'era una bella vista sui canali, passavano lentamente delle chiatte cariche di sabbia. Aprii il frigorifero. C'era una lattina di birra aperta. L'assaggiai e la sputai nel lavandino. Presi la bottiglia di limoncello e me ne versai un po' in una tazzina da caffè. La cella frigorífica ha lo sbrinamento automatico che si effettua durante i tempi in cui il compressore non funziona, nel corso di questo ciclo le gocce


d'acqua che si formano per lo scioglimento della brina si posano nell'apposita bacinella posta sotto il compressore che con il calore generato le provoca l'evaporazione. Non disporre i cibi e il contenitore in contatto con la parete di fondo. Per lo sbrinamento compartimento congelatore agire come segue: a) 24 ore prima dello sbrinamento ruotare la manetta del termostato verso le posizioni le più fredde o inserire l'interruttore di congelamento rapido, per portare i cibi alla temperatura più bassa. b) Avviluppare gli alimenti congelati in fogli di carta per alimenti sistemandoli in frigorifero o in un ambiente fresco, sorvegliando che non si scongelino. c) Mettere il termostato su «0» oppure se è previsto spegnere l'interruttore verde. d) Lasciare la porta aperta. e) A sbrinamento effettuato asciugare l'interno e rimpiazzare il cibo che era stato rimosso. f) Mettere il frigorifero nelle condizioni precedenti e lasciare funzionare l'apparecchio con il termostato sui numeri più freddi. Importante: il congelatore è dotato di un sistema di evaquazione d'accqua di sbrinamento costituito da uno sgocciolatoio pieghevole in gomma posizionato sul bordo inferiore della cella. Arrivò il professore che mi guardava con un'espressione furibonda. Senza dirmi niente prese un bicchiere e lo riempì con l'acqua del rubinetto. Mi fece il gesto di fare silenzio e se ne riuscì.


Lucilla non sapeva che fare. La pesante tenda scura si muoveva appena. E se quello stronzo era nascosto lì dietro? Mentre il signore era in cucina, passò davanti al computer, le galassie roteavano ancora, brandendo il crick si avvicinò alla tenda e la scostò. Non c'era nessuno. «Ha bisogno di un po' d'aria?» le chiese il gentile signore, mentre lei stazionava fra la finestra e il computer. Lucilla sussultò, andando a sbattere contro il mobiletto dove era appoggiata la tastiera. Il computer si svegliò, comparì una foto, la prima, quella con un bambino che dormiva sotto un tavolo. «E il mio nipotino, sa, era così buffo addormentato sotto il tavolo…». Mentre beveva l'acqua a piccoli sorsi Lucilla rifletteva e si guardava ancora un po' attorno, alla ricerca di un indizio, ma ormai stava valutando l'ipotesi di andarsene. Valeva la pena cercare quel tipo al primo piano? E poi, ragionevolmente, che avrebbe fatto se lo trovava? Gli avrebbe veramente offerto dei soldi? Quanti soldi occorrono per sistemare una cosa del genere? E per cosa poi? La rabbia e la voglia di rompere il muso a quei maiali si stavano stemperando, e si vergognava del suo abbigliamento sporco. Si sedette un attimo, appoggiando il crick sul tavolo. «Scusi sa, ma mi è successa una cosa terribile». «Si vede», disse quel signore. «Vieni, fai in fretta, esci di lì». Mi disse il professore, era verde e incazzato più di prima. «Esci di qui e non farti vedere mai più». «Ma chi era?»


«Nessuno. Non era nessuno». Esco dal portone, con prudenza, non vedo nessuno. Ma, cazzo, che ci fa qui la Scenic? Quella troia è qui intorno? Si sarà mica nascosta ad aspettarmi? Mi ha visto salire? Mi era venuta dietro? Bisognava informare il professore. Sul sedile posteriore c'era una fotocopia spiegazzata: Dietro la porta nulla, dietro la tenda, l'impronta impressa sulla parete, sotto, l'auto, la finestra, si ferma, dietro la tenda, un vento che la scuote, sul soffitto nero 5 una macchia più oscura, impronta della mano, alzandosi si è appoggiato, nulla, premendo, un fazzoletto di seta, il lampadario oscilla, un nodo, la luce, macchia d'inchiostro, sul pavimento, sopra la tenda, la paglietta che [raschia, Ma come cazzo si mette in moto questa Scenic, come? 1o sul pavimento gocce di sudore, alzandosi, la macchia non scompare, dietro la tenda, la seta nera del fazzoletto, luccica sul soffitto, la mano si appoggia, il fuoco nella mano, sulla poltrona un nodo di seta, luccica, 15 ferita, ora il sangue sulla parete, la seta del fazzoletto agita in mano. La Scenic non voleva mettersi in moto in nessun modo. Ma come cazzo funzionava l'antifurto? Andrea era già salito su un Mercedes classe A, con una signora piccolina piccolina, che di sicuro nel giro di un'ora aveva da andare a parlare con un professore di suo figlio. Proprio mentre uscivano dal parcheggio vide passare la Scenic. Che era tornata a fare?


«Vieni, fai in fretta, esci di lì». Pronto professore? «Sì, chi è?» «Sono io professore, sono io». «Pronto? Non sento bene…». «Professore, ma alla porta era lei?» «Lei chi? Di che sta parlando?» «Professore, ho fatto una cazzata…». «Ma chi parla?» «Ho fatto una cazzata grande come una casa». «Ma chi parla, io non la conosco…». «Ma professore…». Uscendo dalla cabina mi accorsi che non avevo la macchina fotografica. Dove cazzo l'avevo lasciata? Il correttore era sempre più convinto che volessero la sua testa. Con calma pose dei tratti verticali allato ai periodi composti a bandiera, affiancandoli con la parola «blocchetto», ripetuta meticolosamente ogni volta. Queste bandiere erano veramente stravaganti, e non potevano essere frutto del caso, come se qualcuno avesse voluto prodursi in un esercizio di poesia visiva, quei calligrammi fatti con la macchina da scrivere che usavano tanto negli anni settanta. O erano versi? Al correttore era sì venuto in mente che fosse un'iniziativa dell'Autore, ma se era così era proprio un'iniziativa del cazzo, per usare il registro stilistico dell'Autore stesso. E poi cosa avrebbero voluto raffigurare quelle scalinate? E come questa operazione andava a integrarsi con il testo? E in ogni caso se così fosse stato avrebbero dovuto avvertirlo. Il correttore impugnò il lapis telescopico, premette con delicatezza la gommina che ne delimitava l'estremità posteriore, in modo da far uscire la


quantità di mina desiderata dall'estremità anteriore, passò una mano sulla bozza dall'esterno verso l'interno, per nettarla, anche se sulla sua superficie non c'erano né polvere né residui di gomma consumata. Squadrò la pagina al fine di intravedere meglio se c'erano delle sagome riconoscibili. Una assomigliava a un pugnale, ma non era un pugnale. Perché? Era un messaggio subliminale? O era uno scherzo? O era, eufemisticamente, una invenzione estemporanea? Il correttore era estenuato di questi romanzetti infarciti di testi di canzoni, di ricette, di cambi di narratore, di regolamenti del Risiko, di nomi dei personaggi dei fumetti. E quella poesia? Dietro la porta nulla, il sangue sulla parete. La poesia aveva tutte le carte in regola per essere… Se la ricordava vagamente, forse l'aveva già letta. Chi poteva essere? Si alzò per avvicinarsi allo scaffale della letteratura italiana, che era sotto quello della letteratura francese, e sopra quello dei dizionari, vocabolari, repertori lessicografici. La memoria non era più quella di una volta, ma era sicuro di averla già corretta quella poesia. Mentre faceva scorrere un dito sulle costole, cercava una qualche associazione. L'aveva lavorata tanti anni prima, in qualche maniera collegava quella sensazione di noir anni cinquanta a una tirata frettolosa estiva, a dei tagli indispensabili, quale lavoro poteva essere? Fretta, lavoro grosso, c'erano le note al piede, era un libro scolastico, era una letteratura. Estrasse dallo scaffale un volume di una orribile storia della letteratura


italiana che aveva corretto sei o sette anni prima, e trovò rapidamente la poesia che cercava, di Antonio Porta, al secolo Leo Paolazzi. Ai suoi tempi era all'ordine del giorno, per usare un termine che a quei tempi era, appunto, all'ordine del giorno. Ma certo Aprire, Porta, c'è una porta da aprire, e questa porta è lui, Paolazzi, porta dietro la quale si celano indefinibili orrori. Dietro la porta nulla, dietro la tenda, l'impronta impressa sulla parete, sotto, l'auto, la finestra, si ferma, dietro la tenda, un vento che la scuote, sul soffitto nero una macchia più oscura, impronta della mano… A distanza di quarant'anni quella poesia che ora gli si trovava davanti gli sembrava un gelido giallo francese in bianco e nero. Rilesse un paio di volte il poemetto. Certo quarant'anni sono tanti. E poi questa storia della macchia che non scompare dietro la tenda, non era possibile. Il correttore aveva fatto uno sgorbio sul foglio, simile a una macchia, una via di mezzo fra un'iscrizione cuneiforme e un'impronta digitale. E cominciò pericolosamente a vagare nei suoi pensieri, appoggiando la penna sul tavolo e la testa sul braccio, con gli occhi chiusi. Una macchia che non scompare. Perché quell'Autore, bontà sua, aveva inserito quei versi nel suo elaborato (si fa per dire)? La tenda. La macchia non scompare… Un interessante accorgimento, pensava il correttore. Prendi una poesia, una poesia intrigante, sufficientemente colta, così fai vedere che non sei mica un ignorante, e intanto ti sei fatto una pagina e mezzo, senza fatica. E il lettore penserà che quella poesia è messa lì per un motivo, per disseminare indizi, per


creare un clima, alla fine si sarebbe capito tutto. Il correttore tornò al suo tavolo, e sfogliò il piccolo plico di bozze di una settantina di pagine. Vide che di citazioni di quella poesia nel testo ce n'erano altre. Ma il racconto era tutto lì, in quelle pagine, o era solo un pezzo? Forse che, per via della premura, avevano distribuito le bozze a più correttori? Bel modo di lavorare. E se lo stesso personaggio a pagina uno si chiama Marcus e a pagina centoventi si chiama Markus chi se ne sarebbe accorto? Mentre fissava le righe stampate pensava a qualcos'altro, tanto che doveva leggerle e rileggerle, ma era come se non le vedesse. Guardando ai versi con gli occhi fissi, come per avere una visione d'insieme, o d'assieme, se si preferisce, nei bagliori, aveva una strana sensazione. Certe lettere erano più grandi delle altre. Possibile? Doveva trattarsi, per quello che significa, di un effetto ottico. In particolare la frase «Quanti soldi occorrono per sistemare una cosa del genere?». Si chiese se era il caso di segnalarlo. Il correttore non amava quel carattere rotondetto e accomodante scelto per la collana, l'avrebbe visto meglio per racconti umoristici o per un volume di ricette della cucina marchigiana. Per un testo noir ci vuole un altro romano di transizione, che fa anglosassone, perché «non è azzardato considerare, che, in modo indipendente dalla leggibilità ottica, il carattere riesce a trasmettere al lettore reazioni positive o negative rispetto al contenuto stesso». Le reazioni del correttore erano tutte negative. La giornata lavorativa era cominciata male. Era passata più di un'ora, aveva la testa da un'altra parte e letto diciotto paginette soltanto. Appoggiò ancora una


volta la penna sulla scrivania. Oramai erano quasi le nove e il tempo passava senza costrutto. Ancora quell'impressione che alcune lettere fossero di un corpo diverso. Possibile? Gli avevano effettivamente fatto uno scherzo? • Il correttore segnalò trionfalmente al verso 16 che la lezione corretta era «agita una mano» e non «agita in mano». Per farlo appose un simboletto su «in», affiancando il suo gemello a margine con «una». A meno che l'autore non avesse sostituito apposta «una» con «in», per motivi del tutto insondabili. Più che alla dimensione dell'aprire il correttore era interessato a quella del chiudere. Aprire che cosa? Per uscire, per vedere? E invece di cose da chiudere ce n'erano parecchie. Prima di tutto questo infame racconto, chiudere la porta per uscire e non vedere mai più. Ma non era questo il messaggio che l'Autore voleva inviare. Gelidamente immobile, nel più assoluto silenzio, osservava quella bozza, e meditava furiosamente, malediceva quelle persone che senz'altro si stavano prendendo gioco di lui, secondo una geometria molto precisa grazie alla quale si mirava a fargli perdere il controllo della situazione. Bene, pensò. Molto bene. E si tolse gli occhiali per ripulirli. Il correttore pensò in quel momento a molte cose, ma era come se non volesse muoversi perché ogni minimo movimento lo avrebbe potuto tradire, come se qualcuno lo stesse osservando da dietro la schiena. Allora lui stava fermo, irrigidito, ingobbito su quella bozza, il cui semplicissimo


significato a lui non era nascosto. Senza occhiali i contorni della bozza erano sfumati, innocui. Respirò profondamente, e si rimise gli occhiali. Prese a osservare la manica destra del suo maglione. Mentre lavorava portava sempre il solito maglione pesante, consunto: stando fermi e seduti si prende freddo, la temperatura nella sua stanza di lavoro era attorno ai 18 gradi, 18 gradi e mezzo, sempre troppo poco se si deve restare anche quattro, cinque ore seduti. D'altronde, con quello che costa il riscaldamento. Ma mi prendono in giro? Cosa vogliono? Allora sono io il paranoico? Come si fa a lavorare in queste condizioni? Un «professore» casalingo che ricatta le signore che vanno con le marchette. Ma come si fa. Forse il giovane Autore, nel suo ricco passato, ha fatto anche il marchettaro? Che ne sa lui di queste cose? Il correttore in vita sua non era mai stato con una prostituta, chissà se Leo Paolazzi ci andava, se negli anni cinquanta era un habitué dello strip-tease. Sollevò la penna blu e… Ma che lo prendevano per scemo? Pensò il correttore in una specie di indiretto libero. Da pagina 9 a pagina 15 non aveva trovato refusi, il che gli pareva sospetto. Le rilesse, anche se ormai i suoi tempi stavano saltando completamente. Ma se ne rendono conto, loro, un cattivo con un nome come «il professore»? Il correttore riprese in mano le istruzioni del congelatore. Il congelatore, volendo, era per lui una buona metafora della asepsi tipografica perché ogni schifezza, anche la più puzzolente, una volta congelata è bianca, inodore, pulita,


disinfettata. E sarebbe stato pericolosissimo, pericolosissimo, se il congelatore in qualche modo si spengeva, perché quello lì, lui, se ne usciva, insieme a tutti i cattivi odori, per esprimersi con un eufemismo, tutta quella porcheria viscosa e marrone che sporcava il rigo, si insinuava fra un rigo e l'altro, fra un carattere e l'altro, prima delle virgole, in mezzo ai due punti. Per ripulirlo con uno straccetto gli ci era voluta una giornata intera di cesello. La macchia sul muro. Ma la bozza, pur ripulita, era ancora lontana dall'essere candida, linda, era ingiallita come una vecchia tovaglia di plastica che si tiene vicino alla stufa. Lasciare la porta del congelatore aperta. Ma non c'era pericolo che questo accadesse. Le istruzioni del congelatore erano piene di refusi. Il correttore non sapeva più che fare. Un caffè? Il correttore non era per niente tranquillo, di quella tranquillità agognata che gli sfaccendati attribuiscono al bracciante a giornata sulla via del ritorno a casa, all'imbrunire: una giornata guadagnata. Una sensazione che non era familiare al correttore, pur lavorando anche lui a cottimo. Nel pomeriggio avrebbe pur sempre riportato in casa editrice il lavoro della mattinata, accurato, come se nulla fosse stato, e avrebbe ritirato altre bozze. Nelle poche occasioni in cui aveva l'opportunità di esprimere il suo parere forzava la mano e dichiarava di non essere minimamente interessato in ciò che leggeva. Sosteneva ironicamente che difficilmente si sarebbe ricordato il giorno dopo di che cosa aveva letto. Diceva che leggeva i testi che gli venivano affidati come lettera morta. Avrebbe potuto leggerne prima la seconda parte e poi la prima. Anzi, l'avrebbe preferito.


Tanto tempo prima, quando fare un libro era una cosa seria, gli avevano insegnato che certe volte, alla ricerca di un refuso, si poteva leggere un testo alla rovescia, parola per parola, in modo da essere sicuri di non capire e di non farsi trasportare dalla lettura del testo. Si scrive ecc. o si scrive etc.? Oppure etc senza punto? Si scrive princìpi o principi, quando si vuole distinguere da prìncipi? Si scrive più o più? Si scrive sé stesso o se stesso? Si scrive danno o danno? Entrambe si declina? La maggior parte sono o è? Si dice gli effetti paradosso o gli effetti paradossi? Si scrive per cento o %? E il pallino ° dei gradi va attaccato o staccato dalla cifra? E quand'è che un rigo in testa si può considerare una vedova? E quand'è che un rigo al piede si può considerare un orfano? E perché si scrive qual è e non qual'è? Il correttore cercava di non domandarsi quale importanza potessero avere queste cose. Che senso poteva avere spendere energie, tempo e soldi perché in un libro fossero disposte uniformemente le virgolette? Quante battute gli erano passate sotto gli occhi nel corso degli anni? Che differenza c'è tra ibidem e ivi, oppure ibid.? Oppure fra op. cit. e semplicemente cit.? Il correttore sapeva che l'attenzione a queste cose era molto diminuita nel corso degli anni. E al tempo stesso era diminuito il prestigio sociale di chi faceva quel mestiere. Una volta, un giorno che era di umore veramente nero, era arrivato a inveire, fra sé e sé, contro coloro che esigono che si scriva a se stante, invece che a sé stante. «Ma chi se ne frega?» Pensava a proposito della


questione. Oppure «chissene frega»? e perché no «chissenefrega»? Ma doveva tirare avanti e applicare il suo ingegno e la sua professionalità. E in ogni caso, ogni volta che si trovava di fronte un «sé stesso» o un «a sé stante», senza che la mente gli tornasse al pensiero dell'utilità del tutto, si affrettava a togliere l'accento dalla lettera e di sé, e andava oltre. Se loro avessero saputo quanto poco, quanto poco lui fosse interessato al tutto, come lo può essere un impiegato del catasto, o un restauratore di francobolli. Ma doveva dimostrarsi interessato, contento, anche se lavorava come un irregolare, e lo pagavano poco. Certo il correttore sapeva che se su un libro perché era scritto sempre perchè non succedeva niente. • Eppure anche quando il correttore leggeva un libro per diletto, un libro qualsiasi che prendeva in prestito in biblioteca, perché di comprarli non se ne parlava, sono carissimi, carissimi, non resisteva alla tentazione di prendere nota di refusi, errori e inesattezze che ci trovava. Quando lo riteneva necessario scriveva una lettera di questo genere all'editore… «Egregio… non posso fare a meno di evidenziarle che nel volume a stampa uscito presso i vostri tipi ho riscontrato 53 refusi e circa un'ottantina fra errori e inesattezze (vedi lista allegata). Considerando che il prezzo del volume in questione non era affatto economico, tendo a considerare inammissibile un così alto tenore di errori, un'offesa per il lettore e una vergogna per l'editore…».


Qualcuno gli rispondeva, soprattutto piccoli editori a gestione familiare. Gli editori più grossi di rado lo prendevano in considerazione. Probabilmente nelle strutture gerarchiche di quelle grandi industrie, pensava il correttore, nessuno aveva interesse a dimostrare che i libri erano fatti senza cura, e le sue lettere venivano accuratamente cestinate dal redattore, intimorito dalla possibilità che si venisse a sapere «più in alto». Quelli che gli rispondevano davano delle giustificazioni, attribuendo la colpa a redattori o redazioni. E il correttore rispondeva per le rime: «… la responsabilità degli errori è esclusivamente dell'Editore, e doppia responsabilità è la sua se affida il lavoro a operatori inefficaci e sottopagati, per poi affrettarsi a dare loro 'la colpa' dell'accaduto». In alcuni casi gli editori mandavano al correttore qualche copia omaggio di loro volumi, pensando in qualche modo di indennizzarlo, e di fargli cosa gradita. Ma lui, a breve giro, inviava all'editore una nota nella quale segnalava le inesattezze, veniali o mortali, presenti anche su questi volumi. Il correttore di bozze aveva eccezionalmente comprato e letto qualche anno prima un romanzo che si chiamava II correttore, e il cui protagonista era proprio un correttore di bozze come lui, molto bravo, di mezza età, che aveva fatto della correzione dei refusi una fissazione, e che siccome stava sveglio di notte a lavorare veniva chiamato il Gufo. La copertina lo aveva attirato, c'era una mise en abîme che raffigurava una bozza dello stesso romanzo in questione, con apportate delle correzioni in rosso. Ma si sa che poi in fotocopia non vengono.


Per fare quella copertina avevano preso una bozza del testo, a pagina 77, per l'appunto quella dove si ricorda che secondo la Cabala tutti gli errori del mondo sono da attribuirsi a un errore originario di uno scrivano che aveva sbagliato a copiare una lettera, «un'unica e sola lettera, nel Testo sacro». In questa bozza in copertina avevano inserito degli errori ad hoc, come si fa in quelle bozze finte utilizzate per sottoporre un aspirante correttore a un test, disseminate di refusi. E poi a penna rossa tali refusi erano stati segnalati. Fra l'altro con poca precisione: al rigo 14 si indicava di togliere la lettera ics dalla parola «xsegno», ma in modo tale da unire la parola segno alla precedente, così che, ad applicare la correzione alla lettera, ne sarebbe venuto fuori un «èsegno». E alla terzultima riga «u pianeta del futuro» veniva corretto in «n pianeta del futuro», a dar retta a loro. Forse perché già maldisposto per la faccenda della copertina, fu deluso dal libro, perché non parlava del correttore di bozze, della sua miserevole frustrazione, ma del crollo delle ideologie, del tramonto dell'utopia comunista, dell'abbattimento del muro di Berlino. C'era una metafora semplice, il Gufo voleva correggere gli errori del mondo, da quelli ortografici a quelli politici, credeva in un modello di esattezza, di correttezza, e a quello avrebbe voluto che tutto si conformasse. Il mondo secondo lui era tutto un refuso. Poi il Gufo si accorgeva che stava diventando cieco, altra metafora epocale, e alla fine si ri-iscriveva al Partito comunista, dal quale era stato emarginato perché trozkista. Insomma, i comunisti sono dei pignoli, e che oltretutto per guardare all'errore microscopico non vedono quello macroscopico. E inoltre Dio deve esistere, perché nel mondo


indubbiamente di errori ce ne sono, e qualcuno deve averli pur fatti. Gli rivenne in mente quando, una sera di qualche anno prima, a casa di amici, un traduttore di professione sosteneva che non riusciva a leggere i testi se non in lingua originale, pur lui sopravvivendo col tradurre i libri. Stava comunicando di essere inutile? O era solo un cretino? Si capiva che colui che aveva scritto quel libro non aveva mai fatto il correttore, non ne conosceva le condizioni materiali. E poi nel testo c'erano anche dei refusi. Avrebbe voluto scrivere alla casa editrice per farlo presente, ma decise di non farlo, perché l'irritazione aveva preso altre strade. Rifletteva sulla prospettiva di inserire volutamente degli errori in una bozza, per poi correggerli, come aveva fatto il grafico per realizzare la copertina. Quella sì che era una soluzione interessante, e in quel momento, di fronte a quella trappola che gli avevano teso, di una evidente attualità. E poi c'era stata quella volta che il correttore aveva trovato in un poliziesco una Geneviève evidentemente sbagliata al posto di Thérésa. A pagina 190. «Col piatto in mano, Geneviève uscì nel corridoio mansardato, buio e deserto». No, quella non poteva essere Geneviève, che ci incastrava? Si era a casa di Thérésa, si badi bene agli accenti sulle e, lì c'erano solo loro due, lei e Fred, nella squallida mansardina sui tetti di Parigi. E lei, Thérésa, aveva preso una decisione, quella di bruciare le banconote e poi di aprire il gas, dovevano morire tutti e due. E che c'entra Geneviève? E soprattutto, quella si tocca la pancia, dice al suo bambino:


«Sei proprio sfortunato…» è Thérésa, non può essere Geneviève. A meno che… erano anni strani, gli anni cinquanta. Magari nessuno se ne era mai accorto, ma quello che si voleva far capire era che anche Geneviève fosse incinta, ed ecco il perché del suo comportamento. Magari nell'edizione originale era saltato un rigo di bianco di intercalato, e di conseguenza la costruzione a intarsio, era sfuggito tutto di mano. Il correttore si era preso la briga di andare in biblioteca, per controllare nell'edizione originale di Ascenseur pour l'échafaud. Ma lì, a pagina 202 di quel consunto librino Fayard il testo non dava scampo: «L'assiette à la main, elle sortit dans le couloir mansarde», era lei, era Thérésa. Forse l'equivoco veniva da una traduzione precedente, del 1959, ma anche lì, a pagina 145 «Con il piatto in mano, ella uscì nel corridoio oscuro e deserto». Beh, perché avevano tolto il «mansardato»? Per curiosità il correttore dette un'occhiata a quella vecchia traduzione. Lì Geneviève diventava Genoveffa, che per un personaggio di un noir fa un po' ridere. Il massimo era però a pagina 144 dove di Teresa si diceva che «Era in combinazione» per dire che era in sottoveste. Mah. A meno che. A meno che nella nuova edizione quel Geneviève non fosse stato inserito a posta. Uno scherzo, o qualcosa di peggio. Magari la traduttrice, o un correttore di bozze, o un redattore, o un tipografo invelenito, o chissà chi, avevano messo Geneviève, pensando che tanto non se ne sarebbe accorto mai nessuno. Per economizzare al massimo il correttore mangiava sempre in casa, e si


preparava da solo. Cucinava due volte la settimana, in modo tale da ottimizzare il risparmio, e l'utilizzo. Per esempio… preparava una minestra di verdure che doveva durare quattro giorni. La mangiava la mattina del primo giorno, la sera del secondo, la mattina del quarto, se ne avanzava e non aveva preso di acido. Preparava un arrosto o uno spezzatino una volta la settimana. Ci ricavava, senza che andasse quasi nulla sprecato, tre pasti. Con gli avanzi del manzo ci faceva naturalmente le polpette, o il ragout. Negli ultimi tempi poi, da che aveva il congelatore gigante, la sua riserva di tagli di carne già selezionati, imbustati e porzionati era infinita. Sapeva che mangiava troppa carne. • Se le cose continuavano così quella sera con quelle altre bozze che aveva da terminare avrebbe dovuto fare lo straordinario. Lui lo chiamava così, anche se di fatto quelle ore gli venivano pagate come le altre. Cioè a cottimo. Ma per lui erano come ore di lavoro extra, fatte fuori dell'orario stabilito. Che cosa avrebbe mangiato? Ancora carne? Ancora spezzatino? Gli venne un rigurgito di acidità di stomaco, e una bocca terribile. In fondo non era scontento di presentarsi in casa editrice con l'alito cattivo. E se fosse un testo falso, scritto per scherzo, per mettermi alla prova? Chi potrebbe aver manipolato queste bozze? Perché avrebbero scelto questa strada? Come sarebbe possibile altrimenti? Non può essere veramente un testo da pubblicare, eppure ci riconosco una mano, ci riconosco una mano. Soprattutto nel


motto. Ci riconosco lo stile di quelli che mi hanno mandato la cartolina. A letto non leggeva. Leggeva tutto il giorno. Tutte le notti, verso le tre meno un quarto si svegliava. In quel momento, nel buio della sua camera, c'era un gran silenzio. Dalla finestra filtrava solo un po' di luce giallastra e fioca dei lampioni del viale. Molto spesso i suoi sogni, deformati da ore e ore di lettura, erano come un libro che non finisce mai, con un numero infinito di pagine, dopo l'ultima riiniziava la prima… Le immagini, gli istanti, erano pagine, una dietro l'altra, fatte di un impaginato, di margini bianchi, un testo nero, didascalie, facciate, che si susseguivano come i fogli dei calendari che usavano una volta, a numeri neri e rossi per i festivi. Spesso le pagine finivano di scorrere, si incantavano, tornava sempre la stessa. Dopo un po' si svegliava completamente e tornava in sé. Aveva letto da qualche parte che così sognano gli alcolizzati. E si sentono come prigionieri di una scatola caotica, piena di torme di immagini ripetitive, sempre le stesse, come un disco incantato. titolo corrente pari = La caccia alle streghe titolo corrente dispari = Varietà titolo corrente pari = La caccia alle streghe titolo corrente dispari = Varietà titolo corrente pari = La caccia alle streghe Finalmente riprendeva coscienza, e cessava gradatamente il sogno da sveglio.


Prendeva il suo posto una morsa di angoscia priva di nome e di etichetta. Un riassunto astratto dei pensieri quotidiani. L'unica cosa che poteva fare era quella di alzarsi. Subito. Meglio farlo appena si svegliava e capiva di essere sveglio. Così quello stato d'animo si nascondeva, come la nebbia nelle valli strette. 11 correttore di bozze aveva calcolato che trovava in media quattro refusi in una pagina di 2300 battute. Vale a dire uno ogni 575 battute. Quanti refusi aveva trovato in vita sua? Il correttore si ricordava bene di come una volta l'originale dell'Autore fosse considerato sacro. Se sull'originale c'era un errore macroscopico, anche una svista evidente, lui segnalava che sull'originale era così (sic). L'Autore era un'entità tanto distante quanto intoccabile, una autorità assoluta. Nel mestiere si era conformato all'assunto che l'Autore fosse infallibile, e che ciò che usciva dalla sua penna, o macchina da scrivere, fosse il risultato di un tale lavoro di affinamento, di limatura, di correzione, iper-correzione e relativo sfrondamento, revisione, che il testo definito «originale» doveva essere perfetto. Ogni errore era da attribuirsi alla tipografia, o alla dattilografa, o alla redazione… E questo, naturalmente, non valeva solo per i libri di narrativa, ma, se si vuole, e a maggior ragione, per quelli didattici, scientifici, divulgativi, scolastici, turistici, d'arte. Poteva essere accettabile un errore in un saggio scientifico? Poteva esserci una data sbagliata, un nome proprio errato, un corsivo messo nel posto sbagliato, una virgola dove ci voleva un punto e virgola? Poteva


un saggio filosofico seguire criteri non uniformi nelle note bibliografiche? Nei primi anni del suo lavoro il correttore di bozze pensava che tutto ciò fosse impossibile. Non aveva mai conosciuto un autore, un traduttore, un revisore. Le bozze gli arrivavano dalla tipografia intonse e pulite, ben squadrate, profumate di carta buona e di inchiostro fresco, e l'apporre la prima correzione, anche se piccola, con un lieve ma preciso segno nero a margine, gli costava fatica e sofferenza. Gli sembrava di bruttare, quasi di violentare, quella bozza immacolata. Il correttore aveva nostalgia della stampa a piombo per un gran numero di motivi. E uno era quello che le stampate in bozza, che prima avevano la stessa nitidezza, risoluzione e importanza di una impressione di macchina, ora erano ridotte a quelle fotocopie sbiadite e inaffidabili risultato delle stampanti laser da poco prezzo, o addirittura a getto d'inchiostro. Quello che oggi si trovava davanti era qualcosa che a lui sembrava un ciclostilato rudimentale, in cui non si riconoscevano le grazie del carattere, le differenze di interlinea, la percentuale del nero. Con la bozza a piombo, oltre al profumo, c'era la nettezza dell'impressione, che manteneva profondità e spessore, come un bassorilievo. Un tempo il compositore impiegava a comporre il testo molto ma molto di più di quanto non ci mettesse il correttore a correggerlo… Certo, occorreva non lasciare alcun refuso. L'impaginato non si poteva più toccare. Costringere l'impaginatore a spaginare e rimpaginare era un'eresia.


Pertanto la bozza andava rispettata il più possibile, sia in riguardo all'autore, e a coloro che si sarebbero ritrovati davanti quel foglio in seguito, sia in riguardo alla bozza stessa. Le correzioni dovevano essere visibili, ma dovevano occupare meno spazio possibile. Detestava trovarsi in mano bozze corrette da altri, una manica di incompetenti, che scrivevano i loro interventi a caratteri cubitali, sopra il testo, attraverso di esso, scarabocchiando sopra i caratteri, tanto per far vedere che dominavano quel pezzo di testo stampato, devastandolo. A volte gli era capitato di scrivere un appunto polemico sulla bozza che doveva controllare: «Testo reso illeggibile da correzioni a penna» oppure «correz. prec. non decifrabile», o semplicemente, beffardo: «correzione non chiara. Vedi originale bozza pag. XXX». C'era una correttrice in particolare che il correttore aveva imparato a conoscere attraverso le bozze che gli arrivavano da verificare. Questa aveva una grafia insopportabile, da ragazzina delle scuole medie, con le vocali tonde tonde, la n fatta come una u, il puntino sulla i che diventa un pallino vuoto. Questa (in realtà al correttore nessuno aveva comunicato che fosse una donna, ma la cosa era così evidente, così evidente) riempiva i margini bianchi accanto alla strisciata di testo con parole gigantesche e infantili, goffe, ridondanti, quasi sempre inutili. Come gli studenti quando vogliono allungare il tema in classe, e scrivono grosso. Così «lei» scriveva grosso per far vedere che aveva lavorato parecchio. Oppure riportava delle notazioni assolutamente superflue, zelanti, tanto per far vedere


che c'era stato del lavoro sulle bozze, che il testo era stato trattato con cura, che si aveva a che fare con una persona di cultura. Per lo più pignolerie ipocrite, false, strumentali. E quante volte invece non si accorgeva di errori gravi? Quante volte era toccato a lui metterci una pezza, rimediare ad una correzione fatta senza cura e professionalità? i2 Aveva imparato a riconoscere da chi provenivano le bozze a seconda dell'odore che emanavano. Se le aveva trattate la redattrice Bellodi sapevano orrendamente di fumo, di cicca spenta, di portacenere di taxi. Certe bozze sapevano di un profumo dolciastro, nauseante, che misto all'odore della carta e dell'inchiostro faceva l'effetto di quei vomitevoli campioni di profumo che mettono dentro le riviste, in un risvolto pieghevole. Talvolta le bozze provenivano da un'altra correttrice (poteva anche essere un uomo, ma ne dubitava) che aveva una grafia impossibile perché incomprensibile. Graffiti da etilista, parole che sembravano la firma di un medico della mutua sulle ricette. Segni indecifrabili, punti interrogativi che non si sapeva a cosa si riferissero, rigate di lapis che attraversavano tutta la bozza, cancellature incomplete, oppure segni incerti, mezzi fatti e mezzi no. Non si capiva niente. Ecco che in questi casi era necessario un «Sic?» oppure un «vive così?». Il correttore giudicava quel modo di lavorare impreciso e approssimativo, veramente offensivo nei suoi confronti, e di tutta la catena lavorativa. Pensava che una grafia di quel tipo, incomprensibile, non fosse accettabile neanche se era


quella di un autore famoso, o di un direttore editoriale di quelli che «non sbagliano mai». Figuriamoci se era quella di un oscuro redattore o di un correttore di bozze neolaureato. Non si mettono gli altri nella condizione di dover perdere tempo nel cercare di capire ciò che si è scritto. E poi le correzioni erano fatte tutte a lapis, si sbiadivano, non si capiva quali erano cancellate e quali no, naturalmente un B, almeno un 2B. Usare il lapis era in quel caso il segno della massima strafottenza e insicurezza. E poi ci sono delle controindicazioni professionali a usare il lapis, e lui lo sapeva bene. A lapis si facevano le correzioni da far approvare all'autore, i timorosi suggerimenti migliorativi. Ma cosa succedeva? Spesso l'autore cancellava il 90% delle proposte a lapis, invelenito e irritato. E cancellava insieme anche correzioni «obbligatorie». Se le vedeva a lapis le giudicava già di per sé non necessarie. In altri casi il correttore si era trovato di fronte ad autori che cancellavano con la gomma le sue correzioni, e poi le riscrivevano pari pari a penna, come se non fossero correzioni altrui accolte, ma come se fossero modifiche d'autore. Era una pratica corrente… Così gli autori, o i redattori, o chi altro, riscrivevano autograficamente, e a penna, la correzione che mostrava che avevano fatto un bel lavoro, e si facevano belli con l'editore o chi per lui. Per questo nel tempo aveva ridotto le correzioni a lapis e le faceva sempre a penna. Ma il problema non era risolto, perché esiste il bianchetto. Quante volte le sue correzioni, date di nascita esatte, grafie corrette,


titoli di opere modificati, e ancor più le correzioni nel merito, le bufale, gli strafalcioni, venivano cancellate col bianchetto e riproposte in colore diverso? Questo accadeva soprattutto con autori che si accorgevano di aver fatto un errore madornale (perché, sì, ne facevano). Si ostinavano a voler dimostrare che l'errore non l'avevano fatto loro, e che, comunque, se ne erano accorti. Il correttore di bozze era preso da un senso di amarezza e di frustrazione quando pensava alla considerazione in cui veniva tenuto il lavoro di correzione. Loro, gli autori, si sentono giudicati dal correttore di bozze come se il loro fosse un tema in classe, che alla fine si merita la sufficienza o l'insufficienza. L'autore non capisce che ogni correzione è qualcosa che migliora la sua opera. Fosse anche un «3» al posto di un «tre», o una maiuscola nella sigla di un ente locale. Lui invece se la prende come se l'errore valesse mezzo punto di voto, e lo nega, oppure si inviperisce, e non riconosce al correttore l'autorità di trovare un errore. Ma perché? Colui che individua l'errore deve avere per forza una maggiore competenza di quello che lo commette? Il correttore sapeva che questa era una questione spinosa, alla base del suo mestiere. E gradatamente, nel corso degli anni, si era reso conto che uno può individuare un errore, un difetto, anche se in prima persona non sarebbe in grado di fare meglio. Per evidenziare che un testo è privo di contenuto non occorre conoscere quel contenuto che manca, e avrebbe dovuto esserci. In altri termini, per dire che un testo è scritto male non occorre esser capaci di scriverlo bene, come per affermare che un divano è scomodo non occorre affatto essere in grado


di fabbricarne uno. Il correttore sapeva che questo principio era imprescindibile, ma che era anche origine di tanti fraintendimenti e tante presunzioni. Quante persone, solo perché si sentivano in grado di fare degli appunti a un testo altrui, pensavano di saperne scrivere uno buono? Quanti giovani aspiranti letterati che gli erano stati mandati perché imparassero a correggere le bozze ritenevano, solo perché avevano scoperto due frasi che utilizzavano locuzioni identiche a distanza di trenta righi, di essere esenti dal rischio di fare lo stesso errore? Eppure la grande maggioranza degli autori, traduttori, revisori, responsabili di un qualche testo, tendevano a non riconoscere a un correttore la possibilità, il diritto, la competenza, di applicare correzioni ai loro elaborati. Come se vi fosse una gerarchia da rispettare, e come se questa gerarchia di ruoli sancisse di per sé chi poteva commettere un errore e chi no. Solo in casi rarissimi l'autore mostrava gentilezza nei confronti di chi lo correggeva. C'era un professore di storia che ringraziava personalmente per ogni correzione che veniva apportata. «Grazie», «Osservazione assai opportuna», «ottimo!». Per non parlare delle correzioni che apponeva lui: «Per favore, correggere 'particolare' con 'specifico'», oppure «si prega di sostituire 'per sempre' con 'indefinitamente'». Il correttore si sentiva rinascere quando aveva a che fare con quel professore gentile e beneducato che chiedeva le correzioni come un favore. E il bello è che tale cortesia la mostrava anche in caso di errori tipografici, «per favore correggere l'iniziale di berlino in Berlino». Ma normalmente era il contrario. Una volta in un testo di sociologia il


correttore aveva uniformato un «etc.» facendolo diventare «ecc.», si era visto ritornare la bozza per il riscontro che riportava la seguente annotazione: «La vita è troppo breve per occuparsi di queste cose…». Ma vai a fare in culo, aveva pensato il correttore. Poche pagine dopo, nello stesso libro, si era accorto di un errore che nel mondo editoriale è considerato serio. L'autore, in un intercalato, aveva fatto una citazione da H. G. Wells, e invece era di J. Verne. Una bella cazzata! E si capiva anche che l'errore nasceva dal fatto che l'autore aveva maldestramente interpretato e scopiazzato una citazione da un volume francese non tradotto in italiano, che il correttore aveva rintracciato. Ebbe la tentazione di lasciare quell'errore così com'era. Così imparava, quell'idiota! «La vita è troppo breve…». Avrebbe voluto lasciare tutto com'era, l'errore grave; ma la colpa a chi l'avrebbero data? L'avrebbero data a lui, che non se n'era accorto, e l'autore si sarebbe lamentato del fatto che il mestiere del redattore ormai era morto. Allora decise di comportarsi diversamente. Scrisse a macchina un biglietto che diceva: «Urgente. Volume XX. Bozza YY. Segnalo a rigo 25 citazione erroneamente attribuita a H. G. Wells, che è invece da attribuire a J. Verne. Si prega di informare a breve giro su decisione di autore se effettuare modifica come suggerito». Andò alla cartoleria sotto casa e inviò questo fax all'editore. Dette così alla faccenda un tono di ufficialità e di importanza, in modo che nessuno, dico nessuno, potesse far finta di nulla. Dopo una mezzora gli arrivò una telefonata dalla caporedattrice che si occupava del volume: «Grazie della solerzia, ma non c'era bisogno di un


fax. Bastava segnalare sulle bozze. Se tutte le volte che l'autore (l'autore, capito?, lei non si prendeva nessuna responsabilità) prende una cantonata dovessero scorrere i fax. Comunque la prossima volta, non stia a mandare un fax, sa, è una cosa che non è piaciuta al direttore. Che vuole, qui arriva un fax con scritto urgente e vanno tutti in paranoia». Si era cacata sotto, quella deficiente. Eppure, anche lei, a cosa era ricorsa? A una piccola minaccia. Come al solito. Riga diritto, se no, di lavoro non te ne arriva più… Che pezzo di… Il caso limite si era verificato poco più di un anno prima. Quella volta era entrato nel portone della casa editrice che già si era fatto buio. Era salito al primo piano, e si era fatto annunciare dalla portiera alla dottoressa Nori, la caporedattrice del settore narrativa, che essendo fra le altre cose addetta al rapporto con i collaboratori esterni, si trovava a gestire una piccola, misera ma effettiva fetta di potere, essendo nella condizione di distribuire lavoro a un esercito di precari. Nessuno dei collaboratori esterni, tranne il correttore, si faceva annunciare. Lui lo aveva sempre fatto. «Si accomodi…». Il correttore aveva tentato di dissimulare la gigantesca diffidenza che provava per quella donna. La caporedattrice mostrava con una certa ostentazione che stava terminando un lavoro, e che non poteva sospenderlo per nessun motivo finché non lo aveva terminato. Così il correttore - Le dispiace, è una questione di


un minuto - senza essersi tolto il soprabito, se ne stava lì con le bozze fra le mani, aspettando che quella terminasse di fare finta di applicare la sua intelligenza… Il correttore non aveva digerito per niente il suo pranzo. Sbuffi pestilenziali gli affioravano, e avrebbe voluto farne parte quella signora, allora si era seduto, e rapidamente aveva estratto una bozza di tutt'altro tenore che aveva in lettura, approfittando di un tavolino libero per leggerne qualche riga. Lui non aveva tempo da perdere: Vi sono diversi motivi che inducono a trattare la biosintesi degli amminoacidi insieme a quella dei nucleotidi, non solo perché entrambi contengono azoto (che deriva da una fonte biologica comune, ma soprattutto per il fatto che queste vie metaboliche presentano numerosi punti di contatto. Mancava una parentesi. Quella caporedattrice aveva sostituito da un paio di anni la signorina Antizzani, ma non le legava neanche le scarpe. Qualche giorno dopo essersi insediata, aveva convocato il correttore come si dice «per conoscersi». Questa ultraquarantenne raccomandata, probabilmente separata, gli era stata antipatica fin da quel momento, quando aveva esordito asserendo che: «Lei sicuramente sa che ormai i refusi non esistono più. Con i nuovi programmi di videoscrittura ormai non è più concepibile fare errori di ortografia o di sintassi. Guardi… Glieli segnala immediatamente… Lei non fa uso di questi programmi?» Il correttore tentava di esibire un'espressione di indifferenza (per carità,


d'indifferenza, come pontifica il correttore automatico), avrebbe voluto avere gli occhi liquidi e persi, ma sapeva che invece dimostravano nervosismo, un forte, fortissimo, già irrefrenabile nervosismo. Ma quella continuava: «Ormai arrivano dagli autori, dai traduttori, dei testi assolutamente puliti, privi di qualsiasi errore. Ma lei… Lei sarà contento di non dover più passare le sue ore a cercare refusi, a stabilire se l'accento sulla copula è giusto o sbagliato. E contento o no?» «Copula», lo diceva con quel tono disinvolto, ma l'aveva fatto apposta. E poi, stronza di merda, mi stai dicendo: «la figura professionale del correttore sta andando a scomparire, lei ne sarà contento, no?» Ma che cosa stai dicendo? Aveva pensato il correttore. Che cosa cazzo stai dicendo? Ma che vuoi da me? Pensi che perda la pazienza e che ti salti alla gola, qui, davanti a tutti? Ma chi ti ha mandato a te? «Adesso anche un correttore di bozze può tornare a leggere un testo per diletto, senza l'angoscia di trovarci il refuso, perché il refuso è morto. Non trova?» Queste erano state le prime parole che la caporedattrice aveva graziosamente proposto al correttore. Lei i testi li «lavorava» direttamente al video, il «cartaceo» era obsoleto. Ora quella deficiente era lì a fare finta di essere indaffarata, e non lo degnava di uno sguardo. C'era qualcosa di strano, però. La funzione dell'ATP in questo processo è interessante, in quanto appare essere più catalitica che termodinamica. Ricordate che l'ATP può forniire non solo l'energia chimica che deriva dall'idrolisi di uno o più dei suoi legami fosfoanidrilici,


ma anche l'energia di legame (pp. oo, oo) attraverso interazioni non covalenti… Aveva tolto la parola «essere» e una i a «forniire». Erano più di venti minuti che aspettava. La caporedattrice si era avvicinata al correttore e aveva detto «Attenda un attimo». Attenda un attimo? «Si accomodi pure nella mia stanza» disse, mentre chiamava al telefono il fattorino, in tono agitato. Quando ebbero terminato di discutere su una questione di orari, la caporedattrice attaccò. Poi chiuse la porta. Non aveva mai fatto una cosa del genere. Si sedette sulla sua poltroncina. «Solo un secondo…» come se dovesse sistemare alcune pratiche. In realtà stava raccogliendo le idee. Poi estrasse dal cassetto un fascicolo. Erano le bozze che il correttore aveva lavorato qualche tempo prima, la prima parte di un romanzo di autore ignoto, piena di errori, scritta con i piedi, un lavoraccio infame. «C'è qualcosa che volevo dirle… a proposito di un fatto che è avvenuto… Un fatto del tutto inaspettato. Soprattutto da parte di uno come lei…». Il correttore era nervoso, si guardava intorno, la sua sicurezza vacillava. La signora o signorina voleva prendere tutto il suo tempo per affondare il coltello. «Vede, oggi mi sono tornate indietro le bozze d'autore di quel romanzo che lei aveva corretto, quelle delle Storie di caramelle e di sangue». «Sì, ho capito a quali si riferisce». «Eccole qua, questa è la bozza dove ci sono le correzioni che aveva fatto lei, e i commenti dell'autore». Il correttore prese in mano i fogli di carta. Erano tutti vergati con un fortissimo pennarello rosso: una infinità di rigacci e di cancellature, sempre accompagnati


da un secco «NO», oppure «NO!», o anche «NO!!!!» scritti con tale violenza che l'inchiostro passava dall'altra parte. «Veda un po' lei» disse la caporedattrice. «E successo un vero e proprio incidente diplomatico. L'Autore ha fatto una telefonata al direttore generale. Mi sono presa una lavata di capo spaventosa. Ma che cosa le viene in mente di fare delle correzioni "di gusto"? E forse compito suo correggere lo stile di un autore?» «Ma io correzioni stilistiche non ne faccio, lei lo sa» si limitò a replicare il correttore. Dentro di lui saliva una rabbia disperata. Teneva gli occhi fissi sulla bozza incriminata, le sue correzioni non erano state accettate, ma violentemente rigettate. «Lei qui mi corregge: "Andrea scaracchiò uno sputo nel piattino di ottone" e mi toglie "uno sputo". Perché?» «Perché scaracchiare è intransitivo, e poi così è pleonastico». «E allora? E se l'autore ha voluto così? E poi senta, non è mica un compito di grammatica». 'Senta', a me, pensava il correttore, e disse: «Credevo che quella dell'autore fosse stata una svista». «E poi guardi qui, al rigo sotto. La bozza dice "Per Santino farsi infilare un nodoso dito nel buco del culo non era un problema, ma non era neanche il massimo. Però c'erano delle signorine che lo facevano non si sa se per piacere loro o pensando di fare piacere a lui, in modo che raggiunga un orgasmo più possente"». Per la caporedattrice doveva essere una bella soddisfazione leggere quelle parole di sesso con la massima serietà, con lo stesso tono impassibile con cui avrebbe letto una relazione scientifica. La copula! Che


enorme idiota! «Perché mi cancella "nodoso", riferito al dito? Perché mi mette "signore" al posto di "signorine"? E perché mi sostituisce "raggiunga" con "raggiungesse"? Io veramente sono incredula. Un correttore della sua esperienza. Lei lo sa bene che non deve fare interventi di stile, in base al gusto suo». «Se ben mi ricordo il termine "signore" l'ho messo perché prima si parlava di signore, non più giovani. E il "raggiungesse" per una questione di consecutio. E il "nodoso" l'ho tolto proprio perché si tratta di signore». «Ma lei non deve farsi carico di questi problemi. Se l'autore ha deciso di definire quel dito "nodoso" avrà avuto i suoi motivi». La caporedattrice estrasse da un cassetto una lettera. «Non le sto a leggere la lettera che ha scritto l'autore a proposito dei suoi interventi, ma le assicuro che si è veramente alterato. Ha minacciato di non firmare il volume se anche una di quelle correzioni verrà eseguita». «No, no, me la faccia leggere…» Ho ricevuto le bozze del mio romanzo e fin dal primo rigo non ho potuto che trasecolare di fronte alle correzioni che erano state apportate al mio testo. E assolutamente inammissibile che un testo di narrativa sia sottoposto a una sorta di operazione di editing, fatta non si sa da chi e con quali criteri, perentoriamente e senza alcuna cautela. Se poi si va a vedere il tono e il merito delle correzioni questi sono a dir poco offensivi, stupidi, banali, irrisori, nel senso che irridono. Mi sorprende enormemente che una casa editrice come la Vostra… Un oscuro e strafottente redattore… mi riservo di adire… se tali correzioni saranno… Il correttore restituì la lettera alla caporedattrice, e riprese a sfogliare le


bozze. «Si era scofanato una cofana…». «Mentre era assiso sul vater». L'autore voleva che tali frasi rimanessero com'erano. Quello che doveva aver definitivamente fatto uscire dai gangheri l'autore probabilmente era che le correzioni erano fatte in rosso (errori veniali) e in blu (errori gravi), ed erano quasi tutte in blu. Il correttore non poteva negare di averlo fatto apposta, dopo che aveva letto quella porcheria. Ma questo piccolo vezzo non toglieva niente al fatto che le correzioni erano tutte necessarie e migliorative. La caporedattrice aveva infierito un altro po', poi si era accontentata. Aveva scaricato tutta la responsabilità sul correttore - ma lei non le aveva viste le correzioni prima di mandarle all'autore? Sicuramente no, le aveva spedite e via e si sentiva un po' meglio, si calmò. «Io non so con che coraggio le affido queste altre bozze… Mi raccomando… Solo gli errori». Il correttore non aveva aggiunto più niente, e consegnando il plico di bozze che aveva con sé, aveva ritirato quelle nuove e giurato vendetta a quell'idiota di Autore e a quell'imbecille lì, che chiamava errori i refusi. Ora, col problema di Lucilla, con quelle bozze davanti, che in fondo non erano tanto migliori di quelle delle «Storie di caramelle e di sangue», pensava che se lui stesso fosse sparito dalla circolazione non sarebbero mutati radicalmente molti casi di vita. Questo perché viveva solo, i suoi genitori erano morti e non ne avrebbero sofferto. Non aveva moglie né figli, insomma non aveva costruito una famiglia. Aveva qualche amico e conoscente, ma la cosa era diversa. Avrebbero


forse sofferto, ma il corso della loro vita non sarebbe mutato, né in tutto né in parte. E quindi pensavano di estorcergli del denaro? Quanti soldi occorrono per sistemare una cosa del genere? E poi quanti soldi pensavano che avesse da parte? Erano le dieci e dieci, e il tempo passava inesorabilmente. Riprese a lavorare, leggendo le prime righe a voce alta: «Lucilla era di corporatura robusta…». Lucilla era di corporatura robusta, ma non per quanto riguardava le spalle, che erano abbastanza strette, comunque poco arrotondate, e ricurve solo di alcuni gradi. La consistenza della groppa rendeva poco distinguibili le scapole. I rilevanti eccessi adiposi degli avambracci, questi ultimi pertanto un po' flaccidi, contrastavano con l'esiguo diametro delle braccia, dovuto alla finezza dell'ossatura, evidentissima ai polsi. I seni erano cospicui e rispetto all'età sufficientemente sodi, ma in termini generali, soprattutto in posizione supina, si afflosciavano sul tronco come un soufflé tolto dal forno troppo presto. La superficie delle areole dei capezzoli era ampia, scura, circondando due pispoli rugosi e consumati. La pelle, su tutta la superficie del corpo era costellata da nei di tutte le dimensioni, il colorito del carnato era abbastanza chiaro ad eccezione del volto, la cui abbronzatura, probabilmente ottenuta con lampada UVA, contrastava con il pallore del collo, un po' floscio e vizzo sul fronte anteriore, robusto e tirato su quello posteriore. All'altezza dello sterno la carnagione era più invecchiata, quasi eritematosa. Scendendo verso il basso il torace si faceva un po' scavato, per poi riemergere nel rilievo pronunciato della pancia, sul bordo


inferiore della quale alcune pliche rilevate segnavano il confine con la zona pubica, ove la peluria si distendeva non del tutto omogenea, risaliva piuttosto in alto, dove diveniva rada, oltre ad assumere un colorito più biondastro rispetto al folto del triangolo in cui la colorazione era ancora piuttosto scura. Il culo era la parte più provata dall'età, sformato e appiattito, era il proseguimento diretto dei lombi che si allargavano sulla schiena imponente. La linea di demarcazione del sedere rispetto alle cosce, sopramisura e non risparmiate da rime di cellulite, era una fessura incisa, che spezzava la rotondità, a favore delle cosce e a sfavore delle chiappe, confinate in alto, ma non nel senso buono. Le cosce erano molto voluminose nella parte esterna, e invece scarne all'interno, il che lasciava libera una ampia intercapedine in mezzo alle gambe, motivata anche dalla larghezza fisiologica del bacino. Dal ginocchio in giù l'aspetto era più tonico e proporzionato, il polpaccio era snello ma ben definito. I piedi, pur tozzi, non presentavano deformazioni rimarchevoli, ad eccezione di una asimmetrica patata sull'alluce del piede destro. Anche le mani erano curate, lo smalto non aveva più di tre giorni, Lucilla evidentemente curava solo le parti in vista. Fatta a pezzi non si sarebbe pensato che le parti curate e quelle no facessero parte della stessa persona. «Ma chi è Lucilla Salvestroni?» Si chiedeva retoricamente Daniela Poggi. «Lucilla è nata a Vigevano nel 1950, figlia di Giacomo e di Maria». Scorrono le foto messe a disposizione dalla famiglia. «Di corporatura medio-robusta, è alta 1 metro e 68, ha i capelli castani scuri


ma da sempre li tiene biondi, con colpi di sole. Occhi verdi, ben curata, il suo aspetto esprime ottimismo. E sposata con Giovanni Maria, e ha un figlio, Sebastiano, di 23 anni. Laureata in Lettere e Filosofia, è affermata e rispettata nel suo lavoro, per una importante azienda di marketing e comunicazione di Milano. Si interessa di poesia, e negli anni ha anche scritto alcuni interventi critici. Nulla nella sua vita familiare e professionale può far pensare a una situazione drammatica e di rottura. La sua vita è nella piena normalità: un carattere solido e solare, che ne faceva sul lavoro un punto di riferimento per tutti i colleghi… Non se ne hanno più notizie dalla mattina di martedì 12, giorno in cui si è recata a fare la spesa presso il supermercato di Largo Colombo. La sua automobile è stata ritrovata nel posteggio del supermercato, scorrono immagini della Renault Scenic blu di Prussia, nel posteggio del supermercato con la spesa fatta e caricata nel baule. Nelle buste c'era anche lo scontrino, che riporta anche l'ora, le dieci e dodici, in cui è stato emesso. Lucilla non aveva molti soldi con sé, solo una carta di credito. Risulta che alle dieci e ventotto abbia fatto un prelevamento Bancomat presso l'agenzia 14 della Banca popolare di Lodi di corso Magellano… Questa è l'ultima traccia che si ha di Lucilla. Come è arrivata Lucilla fino in corso Magellano? Ci è andata da sola, o con qualcuno? Perché ha lasciato la macchina nel posteggio del supermercato, con la spesa dentro? (c'erano anche dei surgelati). Non c'è alcun motivo che possa far ritenere che fosse coinvolta in qualche


vicenda che la potesse portare a volersi allontanare così bruscamente dalla sua famiglia e dal suo lavoro, senza alcun progetto. La famiglia si chiede se possa essere stata avvicinata da qualcuno, rapita, sviata, o comunque condotta, la ragione è difficile da immaginare, in una situazione di reclusione. Lucilla è una persona in salute, equilibrata, serena. Da anni conviveva senza troppi traumi con il problema dell'insonnia, e per questo ha fatto uso di farmaci ansiolitici e blandi antidepressivi. L'ipotesi che possa averne assunto una dose massiccia e che ciò l'abbia messa in condizioni di pericolo non è da scartare al 100 per 100, ma appare estremamente improbabile. Non ha nemici, una vita specchiata, che nemici si possono avere lavorando in una azienda di marketing?, e non risulta che, né in passato né di recente, abbia frequentato persone diverse dal suo normale ambito di amicizie e professionale. Chiunque pensi di averla vista o abbia qualche notizia o informazione che possa essere d'aiuto chiami…». Lui fissava lo schermo del televisore con sguardo assente… erano le ventuno e quarantacinque, e aveva ancora un sacco di lavoro da fare, almeno un paio d'ore ed era stanco, poco lucido, che senso aveva mettersi a quell'ora a lavorare? Eppure l'indomani mattina doveva consegnare il lavoro alle nove, era tutta colpa sua, aveva perso tempo. «Pronto?» «Si?» «Buonasera, chiamo per la scomparsa della signora di Milano, la signora Salvestroni». «Buonasera… dica, dica pure, signora. La chiamerò signora Anna. Dica, dica pure…». «Bène, io non è che ho visto la signora Salvestroni, non l'ho


mai vista…». «E cosa ha visto signora Anna, lei ci chiama perché ha visto…». «Ho visto la macchina, quella che avete fatto vedere, l'altro giorno, nel posteggio del supermercato». «Bene, signora Anna, ci dica. Quella macchina l'hanno vista in molti, a dire il vero, nel posteggio del supermercato. E rimasta lì a lungo, dopo la scomparsa…». «Sì, veda, il fatto è che io ho visto che quella mattina, quella macchina lì, c'era un uomo che l'ha posteggiata, in quel posto lì». Silenzio. «Questo che ci dice è veramente importante, signora Anna. Dica, dica pure…». «Eh, l'ho già détto, io stavo cercando un posto per parcheggiare, pioveva anche, e, insomma, avevo visto un posto libero, e quel tipo lì ce l'ha méssa proprio mentre stavo per entrarci io. Avrei voluto anche dirci qualche cosa, a quell'uomo lì, ma quello ha lasciato la macchina lì e se ne è andato in frétta, sotto l'acqua». «E che ore erano, signora Anna, quando ha visto quell'uomo che posteggiava l'auto, se lo ricorda?» «Ma sì, saranno state le dodici, le dodici e un quarto, non più tardi…». «E quell'uomo, quello che ha posteggiato la Renault, se lo ricorda? Potrebbe descriverlo?» «Mah, non tanto bène». «Ma lei, signora Anna, ha informato qualcuno di quello che ha visto? Ne ha parlato con nessuno?» «No, veramente no, e con chi dovevo parlarne?» Si sente una voce dietro e cade la linea. Era l'ora di uscire. Quell'idiota l'aveva fatta grossa. Era diventato pazzo? Che


ne aveva fatto? Comunque, a pensarci con calma, non avevano niente in mano, non sapevano un cazzo, non sarebbero mai risaliti a lui perché non avevano la più pallida idea di chi lui fosse, di perché lo avesse fatto, come, dove, eccetera. Andrea era molto incazzato. «Si era detto ottanta, e ottanta hai preso» aveva replicato quella signora risoluta. «Ottanta a casa», mentre si stava rivestendo. Era una pratica, non era la prima volta, e non sembrava neanche troppo soddisfatta. «E l'extra, non me lo paghi l'extra?» «Ma quale extra di merda, lo chiami extra te quello lì. E poi non fai che entrare e uscire, non mi è parso né di cominciare né di finire». La signora era in quella tipica fase di disgusto che capitava a molte. Andrea pensava di essere stato un coglione, l'extra se lo doveva far pagare prima. Si allacciò le scarpe, «Dammi almeno altri venti», disse accendendosi una sigaretta. «Qui non si fuma, stronzo» fece lei «e ora levati dalle balle». Erano quasi le una, i bambini stavano per tornare da scuola. Andrea uscì dall'appartamento. Che giornata di merda. Doveva studiare e prese il 27 per tornare nella sua stanza. In casa non c'era nessuno. Andò al frigorifero, estrasse una scatola di plastica per alimenti con sopra scritto a pennarello «Andrea» e vide che lo stracchino non c'era più. «Che stronzi» pensava, mentre apriva le altre scatole vuote e un sacchetto del supermercato avvoltolato che conteneva mezza verza muffita. Premette disc.


Tutto si muove, non riesco a stare fermo Tremando ti cerco in tutti i canali Alta tensione, ma senza orientamento Sbandando tu sapevi tutti i segnali Riempì la pentola di mezzo d'acqua fredda e la mise sul gas, ondeggiando la testa a ritmo. Fuori controllo, ormai mi pulsi dentro Sento il contagio di un infezione Senza ragione ti spezzo ogni argomento Ogni contatto, ogni connessione Trovò un pacco di pennette rigate, una mezza cipolla, ne tagliò la metà della metà e la triturò con la mezzaluna. Ti cerco perché sei la disfunzione La macchia sporca, la mia distrazione La superfice liscia delle cose La pace armata, la mia ostinazione Mentre l'olio friggeva, aprì la scatola dei pelati, e si mise anche lui a cantare. Nuova ossessione, che bruci ogni silenzio Dammi solo anestetici sorrisi ancora Nuova ossessione, corrodi ogni momento Sei la visione, tra facce da dimenticare Nuova ossessione, e ormai ci sono dentro Dammi solo anestetici sorrisi ancora Nuova ossessione, perché mi trovo spento Senza illusioni, tra facce da dimenticare Quando entrò in bagno ebbe solo il tempo di tirarsi giù i pantaloni insieme alle mutande e di sedersi sul vater. Se c'era una cosa impossibile per lui era quella di andare al cesso senza niente da leggere: ora l'unica cosa che trovò nelle vicinanze era una fotocopia ripiegata che gli era rimasta nella tasca posteriore dei pantaloni:


Perché la tenda scuote, si è alzato, il vento, nello spiraglio di luce, il buio, dietro la tenda c'è, la notte, il giorno, nei canali le barche, in gruppo, i quieti canali, 30 navigano cariche di sabbia, sotto i ponti, è mattina, il ferro dei passi, remi e motori, i passi sulla sabbia, il vento sulla sabbia, le tende sollevano i lembi, perché è notte, giorno di vento, di pioggia sul mare, 35 dietro la porta il mare, la tenda si riempie di [sabbia, di calze, di pioggia, appese, sporche di sangue. La punta, la finestra alta, c'è vento, si è alzato adagio, stride, in un istante, ovale, un foro nella parete, con la mano, 40 in frantumi, l'ovale del vetro, sulle foglie, è notte, mattina, fitta densa chiara, di sabbia, di diamante, corre sulla spiaggia, alzato e corso, la mano premuta, a lungo, fermo, contro il vetro, la fronte, sul, 45 il vetro sulla mattina, premette, oscura, la mano affonda, nella terra, nel vetro, nel ventre, la fronte di vetro, nubi di sabbia, nella tenda, ventre lacerato, dietro la porta. Ma che cazzo voleva dire? Ventre lacerato? Andrea rimase qualche minuto seduto sul cesso a pensare. Quel foglio era di quella signora che se n'era accorta. Però lui il cinquantino lo voleva lo stesso. Un rumore nel corridoio. «Allora, ciccos' iè? Sei tu, pezz' di stronz'? Hai finit' di


fòttermi la robba dal frigorifr'? Sei tu o no?». La porta di casa era aperta, non ci voleva niente ad entrare. La musica poi rese tutto più facile, nessuno sentì. Giovane studente pugliese trovato morto nella sua camera. G. M. studente iscritto al quarto anno di Architettura presso la facoltà di… è stato ritrovato morto nella mattina di ieri nella, sua stanza… A ritrovarlo è stato un suo compagno di studi, anch'esso pugliese, con cui divideva un piccolo appartamento, di ritomo a Milano dopo qualche giorno passato presso i parenti. La morte con tutta probabilità risale a due giorni fa. La causa del decesso è sconosciuta. Il magistrato ha ordinato l'esecuzione dell'autopsia. Apparentemente il giovane non faceva uso di stupefacenti e godeva di buona salute. Accanto all'articolo c'era la foto di un ragazzo, ma non era un ragazzo qualsiasi, era quel ragazzo. L'edicolante rilesse l'articolo. «Il Corriere, per favore». «Dello Sport o della Sera?». «Il Corriere della Sera, per favore». «Ah, è lei». «Bisogna parlare, subito». «Professore, qui siamo nella merda». «Tu, sei nella merda». «Ma io non ho fatto niente, professore». «Ti hanno anche visto». «Dove mi hanno visto?» «Al supermercato no? E dove».


«Ah, al supermercato». «E uscito Meridiani Montagna?» fece un tipetto rasato superginnico. «Faccia vedere… no, ancora no». «Grazie, buonasera». «Mi dà Repubblica?» «Oggi sono uno e venti». «Ah, sì…, ecco…». «Ha le venti?» «Aspetti che ci guardo…». «Mi da Repubblica?» «Oggi sono uno e venti». «Ah, sì…, ecco…». «Ha le venti?» «Aspetti che guardo…». «Bisogna che parliamo, bisogna mettersi d'accordo». «Sarà il caso che parliamo». «Vengo a casa sua?» «Ma sei scemo?» «Allora dove?» «Vengo io da te». Il correttore alzò la testa, si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi, gli venne il desiderio di accendersi una sigaretta. Con quello che costano le sigarette… aveva smesso di fumare ormai da sette anni, ma qualche volta la tentazione riaffiorava ancora. Ma dove li avevano cacciati i refusi? Era indeciso se segnalare la correzione di bène con bene, détto con detto, méssa con messa, eccetera. Era chiaro che l'autore l'aveva fatto apposta (a posta?), nel suo piccolo voleva dare l'idea di un accento «milanès». Una cosa che si commentava da sé. E il turpiloquio? Una scelta stilistica veramente coraggiosa. Se in questo testo avessero introdotto dei puntini, o degli asterischi, al posto delle parolacce


l'effetto sarebbe stato quello di un albero di Natale. Secondo il correttore l'uso degli asterischi doveva essere limitato, in modo da permettere, a colpo d'occhio, di individuare i siti meritevoli di un viaggio, sulle guide turistiche. Da non perdere ***, come questo testo che aveva davanti. Anche certe sequenze geniche sono contraddistinte da asterischi, ma in merito il correttore non aveva responsabilità: non poteva controllare anche quelle. IOO Mentre pensava a questo rifletteva ancora un altro pochino sulla questione delle correzioni «di gusto». La definizione era del tutto impropria, lui correzioni «di gusto» non ne faceva. Se le avesse dovute fare avrebbe riscritto da capo una bella quota di quello che gli passava sotto gli occhi. «Fare correzioni di gusto»: una frase ambigua, pensava. Credevano che lui ci provasse gusto a segnalare correzioni? Secondo loro un professore delle medie ci prova gusto a correggere i temi in classe? Più correzioni fa e meglio si sente? Per il correttore c'era una sola analogia fra la correzione di bozze e quella di un tema: il disgusto e la noia che si provano a farle. Credono che l'insegnante la domenica pomeriggio si diverta a scarabocchiare di rosso e di blu quei fogli protocollo (a protocollo?)? Sette minuti a tema, per quarantadue temi, fanno 294 minuti, cinque ore nette, che poi diventano assai di più. Orribili temi scritti a zampa di gallina dai maschi e con una stucchevole grafia infantilizzata dalle femmine. Ma almeno il suo lavoro finisce lì. Un tema in classe si corregge una volta sola e poi si dà il voto. La faccenda è conclusa. E vero, ci saranno polemiche: perché il Giannetti ha lo stesso numero di


correzioni blu che ho io e gli ha dato cinque più, e invece a me mi ha dato cinque meno meno? Ma il tema deve essere corretto non per essere migliorato. Invece la bozza la si corregge perché sia perfetta, una volta fatte le correzioni occorre riscontrare che siano state correttamente applicate, e poi ancora rilette, in teoria un libro può essere corretto infinite IOI volte. E poi quattro occhi vedono meglio di due, e poi può sempre sfuggire qualcosa. L'autore prima di liberare un testo lo corregge continuamente, lo lima, come si dice. Ma può un individuo correggere quello che ha prodotto lui stesso? E lo può fare indefinitamente? L'attenzione del correttore cadde proprio in quel momento sul verso 43: «alzato e corso, la mano premuta, a lungo», «corso»? Il correttore si era spesso chiesto che senso avesse che un autore rivedesse le sue bozze, di un testo che aveva scritto lui, e poi visto e rivisto. Come faceva a trovarci degli errori? A parte il fatto che se qualcuno commette un errore non si vede perché non debba commetterlo un'altra volta, o accorgersi di averlo commesso. Inoltre chi produce qualcosa ci si affeziona e tende a essere molto, eccessivamente, conservativo. Ma soprattutto nell'atto del correggere non ha quello stimolo, quell'istinto di caccia che muove un bravo correttore, come se fosse tenuto, obbligato a trovare degli errori anche dove non ci sono, e la soddisfazione di trovarne, come quella di un cane che fiuta e rintraccia la preda, o meglio, un tartufo. Soddisfazione poi di mostrare la propria raccolta, a tutti. Il


cane la mostra al padrone, che gliela sottrae prima che lui se la mangi. E cosĂŹ la spinta propulsiva del correttore deve essere quella di trovare gli errori, come se lo pagassero un tanto al chilo, a refusi. Una volta il correttore aveva lavorato per una piccola casa editrice che aveva come abitudine di detrarre dai compensi una cifra per ogni refuso non visto, esattamente come fa un insegnante, che per determinare il voto di un compito, scala dal voto massimo una quota (mezzo voto errore rosso, un voto errore blu) per ogni errore. Senza questo istinto di caccia un po' brutale, non esente da una certa perfidia e spirito di rivalsa, il correttore non ha stimoli per andare avanti e svolgere correttamente il suo mestiere. Il correttore non riusciva a liberarsi di tutti quei pensieri accavallati, uno sopra l'altro, mentre, comunque, continuava a leggere con attenzione inconscia le bozze. Si immedesimava nel professore, che sicuramente aveva accuratamente confezionato il corpo di Lucilla (a pezzi o intero) e che comunque pensava che fosse necessario liberarsi rapidamente di quel cadavere, perchĂŠ prima o poi ci sarebbero arrivati, e avrebbero messo qualcuno a sorvegliare il suo appartamento - pensava a un furgoncino da intercettatori - fino al momento in cui lui si sarebbe tradito. Bisogna che mi liberi di quel corpo. Prima o poi ci arriveranno. In qualche modo riusciranno ad entrare. Mi faranno diventare scemo. Occorre che porti quel corpo fuori da casa mia. Oppure lo potrei fare a pezzettini piccoli e liberarmene un po' alla volta, facendo spezzatini minuti per i gatti del quartiere. Ecco, questa, se l'Autore l'avesse avuta, sarebbe stata un'ottima idea.


Quando, all'ultima pagina, incocciò nella ripetizione del paragrafo ebbe un sussulto, e la sua immaginazione lasciò per un istante il posto a una riflessione lucida e astiosa. Copia, incolla, ed ecco scritte altre cinque righe completamente gratuite, perché a un certo punto quello che conta è arrivare alle duecentocinquantamila battute, a lui lo venivano a raccontare. Poteva segnalare «ripete righe precedenti», ma ormai era avvertito, voleva proprio vedere come le cose sarebbero andate a finire, e poi se uno chiede Repubblica lo chiede sempre allo stesso modo, e cerca di favorire l'edicolante con gli spiccioli. • Sull'estremo margine destro del piano del tavolo era appoggiata una cartolina illustrata, riproducente a colori un panorama della costa amalfitana. Sul retro c'era un breve saluto: Ciao lettore, dimenticati i mesi e ricordati degli anni, senza firma. Il correttore la utilizzava come segnalibro, o anche come righello, quando doveva disegnare una linea particolarmente lunga e dritta, un tirante, col rischio che venisse malfatto, incerto, senza l'aiuto di una guida. La cartolina funzionava meglio di una squadra, perché, essendo di cartoncino, assorbiva l'inchiostro in eccesso sulla sfera della penna, evitando che questo si depositasse sul foglio, col pericolo di sbaffi. Con l'aiuto della cartolina tracciò con la penna rossa un riquadro attorno alle cinque righe ripetute, e garbatamente segnalò: «ripetizione voluta?» Era una trappola o una vendetta? Troppe coincidenze. Il mistero della professionista scomparsa? Mi prendono in giro? Un professore che fa il guardone. E la marchetta. Perché questo racconto è


una marchetta da poco, ma diventa qualcos'altro se l'autore lo ammette programmaticamente? No, il correttore credeva di no. E la faccenda del supermercato, qual era il significato della metafora? Che la cultura è un supermercato, o che la cultura si trova in vendita al supermercato, al pari di una marchetta? Non se ne poteva più di tutti questi supermercati, paginate sui supermercati dappertutto. Ma contrariamente a quanto pensassero loro al correttore piaceva, era sempre piaciuta, l'immagine del supermercato, perché aveva su di lui un effetto rassicurante. Con estrema probabilità l'autore aveva utilizzato l'ambientazione del supermercato per ben altri motivi, del tutto inconsapevole del valore simbolico che il supermercato aveva per il correttore, e per estensione, per l'umanità. Con tutta probabilità l'autore si era liberamente ispirato a una vicenda di cronaca, raccontata in un breve trafiletto che era comparso sul giornale. «Milanese scompare dopo aver fatto la spesa al supermercato». Per il correttore il supermercato era un luogo ordinato, secondo vari e stratificati livelli. Per questo la spesa la faceva sempre e volentieri lì. Il supermercato era come un libro assai ben progettato con un'accuratissima divisione in capitoli e sottocapitoli, ciascuno dei quali a sua volta organizzato in paragrafi ben distinti e riconoscibili. Questa ripartizione era con chiarezza evidenziata nell'indice dettagliato, dettagliatissimo, che nel caso del supermercato sono dei tabelloni merceologici in bella mostra, corredati anche di mappe topografiche che indicano percorsi, localizzazioni, offerte speciali. Non c'è


la possibilità di perdersi in un supermercato. La merce è disposta in scaffali rettilinei che vanno a costituire corsie, vie e piazzette, ciascuna con un nome che assomiglia a un titolo. Esiste un percorso principale di lettura, che va dalle verdure alle lamette o alle caramelle, disposte nei pressi delle casse, che si può seguire metodicamente. Una trama solida alla quale ci si può affidare, un flusso al quale abbandonarsi. Ma si possono prendere scorciatoie, tagliare dal corridoio delle paste 00, allungare passando per i distillati, obliquare dagli insaccati direttamente alle carni bianche, tralasciando di costeggiare l'intero bancone delle carni rosse. Dunque se il primo livello di ordine era quello del progressivo avanzare del carrello in un percorso sequenziale, gli altri erano rappresentati dalle caratteristiche del prodotto, le gamme di qualità, la tipologia, la provenienza. Un terzo livello sono le fasce di prezzo: e questi livelli diversi sono incrociati mirabilmente: negli scaffali dei vini, si va dal basso in alto in relazione alla fascia di prezzi, mentre muovendosi in orizzontale cambiano le tipologie di vino, all'interno delle quali c'è il sottordine delle denominazioni d'origine, fino al singolo marchio o etichetta. Viceversa quando il correttore aveva certi libri per le mani li associava a un supermercato senza ordine, senza scaffali, senza tabelloni orientativi, senza etichette e prezzi, come se tutte le merci venissero accatastate senza criterio dove capitava, in terra lungo le pareti, e i dentifrici, come il riso superano arborio si potessero trovare in ogni angolo dello stanzone. Nessun percorso per l'utente,


nessun inizio e fine, nessuna indicazione merceologica. Un labirinto in mezzo agli scatoloni, fra i quali la gente si affolla e si accatasta, e i flussi si vanno a scontrare l'uno contro l'altro. Che può fare un cliente in un supermercato del genere? Buttarsi nella mischia, lasciarsi trasportare dalla massa, arraffare qualcosa a caso fino a che non si trova alla cassa. Questi libri senza indice, senza capitoli, senza paragrafi, gli sembravano solo un ammasso caotico di ripetizioni, di giustapposizioni, roba vecchia lasciata lì, in terra, insieme a scatole mezze aperte, a bottiglie rotte, il cui liquido andava a impiastricciare e corrompere il fondo degli scatoloni appena arrivati. Le pagine che aveva davanti gli facevano più o meno questo effetto, se non quello di un mercatino di oggetti ricordo, dove ti fregano con articoli brutti e che sono sempre i soliti, e che vengono continuamente cambiati di posto. Si sarebbe potuto ricostruire il percorso di Lucilla a partire dallo scontrino? Volendo, in parte. Perché il carrello si riempie, in teoria, nell'ordine temporale in cui avvengono gli acquisti, che vanno a formare lo strato più basso nel carrello. Ma quest'ordine viene a rivoluzionarsi quando si estraggono le merci dal carrello alla cassa, per disporle sul tapis roulant e poi nei sacchetti. Per cui l'ordine dovrebbe essere più o meno invertito. Senza contare che chiunque riempiendo il carrello usa delle precauzioni, perché certi articoli più fragili o leggeri non possono essere messi in basso, ne risulterebbero schiacciati, come l'insalata, le fragole, le uova. Perché, pensava il correttore, molti degli articoli più delicati, per esempio l'insalata, erano posti all'inizio del percorso? Perché non si cominciava


dalle confezioni solide e resistenti, per esempio detersivi, scatolame, bottiglieria? Ci saranno ben stati dei motivi, tanto più che, come si è visto, l'ordine con cui si prepara il caricamento del carrello viene comunque ribaltato alle casse. Altri cinque minuti perduti in fantasie. C'erano dei testi di storia dell'arte, di filologia, di patristica, con delle note sterminate, e delle bibliografie ancor più sterminate, che facevano pensare a un numero infinito di testi inutili come quello, pieni di note altrettanto sterminate, bibliografie sterminate, nelle quali si giudicava utile citare… Al correttore piaceva evidentemente la parola «sterminate». Quelle bibliografie davano al correttore il senso di una perfezione inutile, un esercizio da tesi di laurea umanistica, ma nonostante questo si accaniva a trovarci delle inesattezze formali, soprattutto nel gioco delle virgolette interne ed esterne, e nell'uso del corsivo per i titoli degli atti dei convegni. Invece il correttore provava la sensazione di fare qualcosa di utile quando correggeva cartine geografiche, tematiche, storiche, ricche di informazioni utili e ben visibili, toponimi gerarchizzati per corpo e carattere, strade, laghi, battaglie. Come dicono di Tokyo - pensava il correttore -dove non ci sono i nomi delle vie, e per muoversi si ricorre a punti di riferimento come il tal palazzo, il tal magazzino? Sarebbe come se per indicare a quale pagina si parla del congresso di Vienna si rimandasse alla pagina che si trova poco dopo quella su Napoleone, e un po' prima di quella sulla Restaurazione. Ma a Tokyo, aveva letto il correttore, le vie delle strade esistono, almeno in parte.


Un carattere solido e solare, questa è buona, pensava il correttore, fingendo di sorridere. Quella capo-redattrice era poco più di un pezzo di merda. Si dice che una volta abbia affermato: «qui se non cade uno di quei begli aerei che vanno alla fiera di Francoforte, pieni di direttori editoriali, non c'è possibilità di carriera». Eccolo lì, il punto di riferimento per tutti i colleghi, ma certamente, degli accidenti che le mandano. Per la prima volta dopo 22 pagine il correttore provò un senso di complicità con l'Autore. «Non ti preoccupare, ci ho già pensato io». Erano passati poco più di sei mesi da quando il romanzo «Storia di caramelle e di sangue» era uscito col titolo «Il sangue nelle caramelle». Il correttore ne aveva subito acquistati tre esemplari. Ne aveva fatte due fotocopie integrali, e su una delle due si era messo a lavorare. Aveva segnalato tutti gli strafalcioni che erano stati indicati la prima volta, oltre ai refusi, alle inesattezze, alle discordanze e agli anacoluti. Poi aveva scritto una relazione dettagliata sul romanzo, non una recensione, non c'erano commenti, ma una tomografia ad alta risoluzione. Nel romanzo trovò anche un personaggio che prima era cieco e poi ci vedeva, una scena assolutamente copiata da un gialletto francese che era uscito una decina di anni prima, alcune frasi di un antisemitismo feroce. Dato che il romanzo alla fine era uscito, in fretta e furia, così come l'aveva voluto l'autore, non erano stati presi in considerazione neanche gli errori tipografici più banali, soprattutto quelli


11O dovuti al correttore ortografico automatico, per cui una «cascata di acque cristalline» era diventata una «cacata di acque cristalline». O era voluto? Il correttore aveva rifotocopiato la sua bozza lavorata, in due copie, e le aveva spedite. Scelse due critici di cui aveva stima, gente ancora pronta a fare delle stroncature, e che non aveva in simpatia l'autore in questione, né il direttore editoriale della casa editrice, né la proprietà. Uno dei due recensori aveva preso in considerazione quella strana delazione (anonima) e ne aveva fatto buon uso, scrivendo una recensione dal titolo BRAA braccia rubate all'agricoltura, sulla falsariga della trasmissione televisiva, una stroncatura irridente piena di ironia greve e di considerazioni sull'editoria italiana: la stessa casa editrice che ha in catalogo le «Operette morali»… Il correttore non aveva provato una sensazione di così intensa soddisfazione da chissà quando. La faccenda, comunque, avrebbe avuto strascichi, il primo dei quali era stato che l'editore ritirò le cinquemila copie in circolazione… Il correttore scosse la testa, come per rimescolare, o rimettere a posto, i pensieri. Riprese in mano le ultime pagine delle bozze. Vengo io da te. Era una minaccia? Venivano da lui, magari con un furgoncino. Potevano averci provato col trucco dei tre righi sì e uno no, e cominciò a contraddistinguerli con un pallino.


Ma loro sapevano benissimo che era stato lui a combinare il casino. E si sarebbero vendicati. Ma non sapevano con chi avevano a che fare. La macchia sporca la mia distrazione, la superficie liscia delle cose. Ma che avranno voluto dire? La macchia sporca, d'accordo, è quella sul muro, ormai mi hanno sfinito con questa macchia. Lo so che non va via. La distrazione: distrarre, trarre da tutte le parti. Da dove? E per dove? Dalla porta che si apre? La superficie delle cose, a parte che non è liscia, è quella che nasconde la loro vera essenza, quella del mondo reale, dove tutto è impiastricciato, imporrito, sporco. Non si lavano più. Il nuovo («nuova ossessione») sembra liscio, poi diventa poroso, screpolato, crettato. Macché. Era tutto incollato, appiccicato lì. Solo le risorse del rigo stampato facevano stare insieme quelle stronzate, come se fossero nate per abbinarsi. Era un campo minato. La avevano organizzata proprio bene. Per esempio quelle «mani curate». E allora le lentiggini di vecchiaia a pagina 5? Lo dovevo segnalare? E poi mi volevano incastrare anche su questa storia delle gambe, che io le guardavo sempre, lo so che dicevano così. Ma io non guardavo le gambe, era lei che lo pensava, e le accavallava apposta come per rimproverarmi, ma io guardavo semplicemente in basso. Dice la signora al telefono che «pioveva». Ma se non pioveva affatto. Hanno disseminato questo testo di incongruenze per farmi uscire allo scoperto. Le iniziali dello studente sono G. M. anche se si chiamava Andrea. Ma io non ci casco. Le iniziali le avevano cambiate apposta, volevano che io segnalassi


l'incongruenza per poi farmi notare che era voluta. E se non l'avessi segnalata mi avrebbero invece fatto notare che non me ne ero accorto. Una trappola ben congegnata per liberarsi di me. Tornò a pagina 31 e ripensò la correzione sulla ripetizione voluta. La cancellò con un frego, come per far vedere che gli era tutto chiaro. Poi indicò il mostruoso refuso nella seconda occorrenza. Credevano che fosse un coglione? Riprese a leggere, questa volta con una idea precisa. Rimarranno delusi. Il commissario Grimaldi fece entrare l'ispettore Maitani. Stava guardando al video lke fotografie che ritraevano Lucilla e Andrea nella Scenic. Sulla scrivania c'era una fotocopia gualcita: Di là, stringe la maniglia, verso, non c'è, né certezza, né uscita, sulla parete, l'orecchio, poi aprire, un'incerta, non si apre, risposta, le chiavi tra le dita, il ventre aperto, 60 la mano sul ventre, trema sulle foglie, di corsa, sulla sabbia, punta della lama, il figlio, sotto la scrivania, dorme nella stanza. Grimaldi sghignazzava, indicando il monitor. - Guardi qui, la signora. - Guarda come balla. - Sì, ma non mi pare proprio nell'estasi. - Non mi quadra niente. -Ehh… - Qui non capisce nessuno un cazzo. Una signora va al supermercato e fa la spesa. Spende 84 euro, e mette le borse di plastica nel bagagliaio della sua macchina. Poi sappiamo di lei che prende col bancomat 200 euro dall'altra parte


della città. E poi sparisce. E questo è quello che sanno tutti. Parenti, familiari, e mezza Italia che ha visto la trasmissione o che ha letto i giornali. C'è una denuncia del marito, che fin da poche ore dopo ha denunciato la scomparsa della signora. Ecco qua. La macchina della signora è sempre lì, al supermercato. E allora come ha fatto ad arrivare in Corso Magellano, al bancomat? Qualcuno ce l'ha portata. - Sì, però… - Ma noi cosa troviamo nella macchina? Diverse cosette. Le sue calze, rappallottolate sul sedile posteriore. E le sue mutande. Un fascicolo di fotocopie. E poi una macchina fotografica, dove c'è un rullino con dentro delle immagini di lei che scopa nella stessa macchina. E queste foto, è facile saperlo con le macchine digitali, sono state scattate una mezzoretta dopo di quando ha ritirato i soldi col Bancomat. Allora, la signora la sua macchina dopo aver fatto la spesa l'ha spostata, e con tutta probabilità è con quella che è arrivata in corso Magellano. E dunque, secondo questi orari, poi la signora, dopo aver scopato ed essere stata immortalata, è tornata con la macchina al supermercato, ed è sparita. - A meno che l'orologio della macchina fotografica non sia stato regolato diversamente per farcelo credere. Magari le foto sono state scattate qualche giorno prima. - Potrebbe darsi. Potrebbe anche darsi, ma ora, se non ti dispiace, vorrei avere un quadro. Il fatto è che c'è chi sostiene che la macchina non ce l'ha


riportata lei al supermercato. - E' affidabile? - Boh? Comunque andiamo avanti. Con chi scopa la signora nella sua macchina? Scopa, ammesso e non concesso, alle ore 10,56, con un ragazzo, che fa le marchette. Niente di male, ma se qualcuno ha ripreso la scena, otto scatti, vuol dire che c'è di più. Pensiamola semplice: il marito manda qualcuno a fotografare la moglie che scopa con la marchetta. - Ma quello che non quadra è che le foto sono nella macchina della signora. Perché chi le ha fatte poi le ha messe lì? O le ha date a lei? - Sarebbe più semplice così: lei va con la marchetta, ma paga qualcuno per farsi fotografare. Poi, dopo poco, si fa consegnare la macchina, perché le foto le servono a uno scopo. Ma poi qualcosa va storto. - Molto storto. - Potrebbe anche essere una messa in scena, ma fammi andare avanti. Siamo stati dei giorni a cercare quel ragazzo, la marchetta, il problema è che quando l'abbiamo trovato, a casa sua, era seduto sul cesso, ed era morto, ucciso con una martellata sulla testa, o qualcosa del genere, e una fotocopia in mano. E che cosa c'è su quella fotocopia? Una poesia. Una poesia lunga. Un pezzzo. E la cosa migliore è che l'altro pezzo di quella poesia è nella macchina della signora. E allora? - Allora… - Allora te lo dico io come sono andate le cose: diciamo dramma passionale: il


marito ha seguito la moglie, per fotografare i suoi tradimenti più o meno occasionali. E allora cosa fa? Uccide la moglie e la fa sparire. Poi, dopo qualche giorno, uccide anche il ragazzo. Diciamo per gelosia. Potrebbe anche tornare. Ma perché la macchina fotografica ce l'aveva lei in macchina? Ma sappiamo un'altra cosa. La Scenic al supermercato ce l'ha riportata lui. Diciamo che l'ha fatta fuori, sul posto, dopo aver preso le foto. Poi il ragazzo è scappato, lui ha visto tutto, e il marito è salito sulla Scenic, ha posteggiato il cadavere della moglie da qualche parte, e poi ha riportato la Scenic al Super. Perché? Per far credere che lei sia sparita lì, per qualche strano motivo. E poi è lui che ne denuncia la scomparsa, e anche contatta la trasmissione televisiva Chi l'ha visto, come per far credere che lui non ne sa niente. Ma cosa non ti fa? Lascia, si dimentica?, la macchina fotografica con le foto dentro, in macchina? E poi, sapendo che quelle foto ce le abbiamo noi, va a far fuori il ragazzo? Non quadra un cazzo. - E se le foto le avesse fatte scattare lei? E poi, dopo aver pagato, si fosse fatta consegnare la macchina fotografica? - Per farne che cosa? Per farle vedere a chi? Mettiamo che la signora fosse innamorata di quel ragazzo, che andava anche con altre, magari con sua figlia? E le volesse mostrare a quest'altra? Allo scopo di… boh? E che sia stato il ragazzo a farla sparire? Guarda che non quadra un cazzo. - La figlia non ce l'ha. - Vabbè, non c'entra un cazzo. Ricominciamo da capo. Ci sono le foto di sesso nella Scenic, c'è un morto, uno dei due che facevano sesso, e la padrona della


Scenic è svanita, l'altra che faceva sesso. E almeno una terza persona che ha riportato la Scenic al supermercato. Potrebbe anche essere stato il ragazzo, in fondo ci era sopra. E poi se ne torna a casa… come se non sapesse degli scatti fotografici. O qualcun altro ha messo la macchina fotografica dentro la Scenic, senza che il ragazzo lo sapesse? Mah? Te l'ho detto, non quadra un cazzo. Avete lavorato sulla macchina fotografica? - Non è facile. La Coolpix, è stata comprata all'Euronics di Cesano Boscone, pagata in contanti. - Ma chi è che oggi paga 450 euro in contanti? - Ce n'è. - E se c'entrassero altre persone, che hanno fatto casino? Oppure che erano d'accordo col ragazzo per portare le signore fuori e poi fotografarle e ricattarle? Solo che le cose non vanno come devono andare e allora la signora fa una brutta fine, non si sa perché. Comunque che fanno, lasciano la macchina fotografica lì? E perché? Oppure ci sono di mezzo due organizzazioni, e la seconda recupera la macchina fotografica e la lascia apposta dentro la Scenic, per mettere nei guai la prima? Non quadra un beneamato cazzo. - Quella macchina fotografica non è finita lì per caso… - Bisogna fare le cose più semplici di quelle che possono sembrare, alla fine la soluzione è sempre semplice. - Ma lei ce l'ha in testa un quadro semplice? - Non è semplice, fosse facile. «E allora che cazzo dici?», lo so che lo stai


pensando. Diciamo che la signora ha visto le foto, perché le ha viste, e ha deciso di far fuori il ragazzo, dandogli tutte le colpe. E ti credo che poi è scomparsa. - Ma veramente è scomparsa prima. - Non influisce. - Sì, ma le foto le ha fatte qualcun altro. - Potrebbe averle fatte la figlia di lei. - Ma la figlia non ce l'ha. - E questo tu lo chiami semplificare? Non quadra proprio un cazzo. In qualche modo deve essere andata. C'è una sola versione corretta dei fatti, e ci si avviva trovando gli errori in quelle che non sono corrette. - Ci sarebbero anche le calze. - Ma le calze quadrano, evidentemente se le è tolte per scopare. Al computer scorrevano le nove foto nel dischetto, compresa quella che riprendeva un bambino addormentato sotto un tavolo. - Del bambino si sa niente? - No, per ora no. - Come ti sei mosso? - Abbiamo lavorato sulla famiglia della signora, parenti, amici. Il bambino non lo conoscono, e la stanza non è familiare a nessuno. Niente neanche dalla parte del ragazzo, gli amici, i parenti, stanno tutti in Puglia. Quella foto è stata scattata lunedì alle 18 e 14, quindi il giorno prima delle


altre. Quindi qui, in città. Poi abbiamo girato per qualche scuola, per ora nulla. Prima o poi ci daranno il permesso di farla vedere in televisione. - E la stanza, che cosa hanno detto? - E un appartamento anni settanta, coi pavimenti di graniglia comunissima, infissi di alluminio, tapparelle a listelle. Nulla di speciale. La stanza è abbastanza dimessa ma ordinata, un salotto di legno lucidato a spirito, una poltrona Clippan. Guardava la foto sul monitor, più di tanto non si poteva ingrandire perché era a bassa risoluzione. - Quella lampada è Tunica cosa nuova, è dell' IKEA, ci siamo informati - Ma il bambino non sarà mica morto? - Mah, sembra che dorma. Dice il dottore che dorme. E troppo rilassato. - Potrebbe fare anche finta. - Eh sì, non è escluso. - Ma cos'è secondo te, un avvertimento, un simbolo? L'hanno fatto apposta, o era una foto di famiglia che è rimasta per caso nel rullino, o come cazzo si chiama? - E una strana foto, anche questa sembra un po' artificiale, sembra fatta apposta perché noi non ci si capisca niente, e chi deve capire capisca. - Ma secondo te quel ragazzo era d'accordo con quelli che hanno scattato la foto? Vedi che viene fuori? Secondo te perché lo fa? Gliel'avrà detto lei, guarda, non ha mica il preservativo. - Quello farebbe pensare che erano amanti, una marchetta se lo mette.


- Se lo mette per via del contagio, mica per non lasciarla incinta. A parte che questa qui la menopausa l'ha già passata. - Non saprei. Sa, a volte da una relazione meretricia viene fuori altro. - Il che mi dà ragione. Lei si è innamorata e fra loro c'era una relazione. E il marito se n'è accorto, li ha seguiti e via. No, secondo me lui viene fuori apposta perché sa che gli fanno la fotografia, per far vedere che scopano davvero. Perché nessuno mi toglie dalla testa che le foto le ha commissionate lei. Quando è tornata al supermercato si è fatta dare la macchina fotografica, che magari è sua, o l'ha comprata apposta (il che spiegherebbe perché l'ha pagata in contanti), e il problema da risolvere è perché poi qualcuno l'ha fatta fuori, magari dopo che ha visto le foto. E perché poi lo stesso qualcuno, oppure un altro^ ha fatto secco anche il ragazzo. - Ce ne vuole per… - Secondo me ci pigliano per il culo. E un trappolone. • - Fammi vedere quella fotocopia. - Eccola qui. - Ma secondo te ha attinenza? - Boh? Non credo. «Ogni segmento pare proporre un 'apertura verso la realtà, e il concatenarsi di tratti di narrazione accosta gli oggetti, compone e frantuma il quadro con reiterata azione, in una ricerca di penetrazione continua e ossessiva. Le cose, lo


svolgersi degli eventi, non sono ordinati secondo una precisa gerarchizzazione, ma si fanno tutti ugualmente disponibili allo sguardo del poeta, che li organizza, li presenta, li fa ritornare, li fissa con accanito lavoro di montaggio, in un insieme disarticolato e abnorme… un mosaico le cui tessere appaiono volutamente mescolate, quasi a fame scaturire gli ipotetici segreti che nascondono». Ma che roba è? È roba della signora. E che cazzo significa? Credo abbia a che vedere con quella poesia che il ragazzo si stava leggendo sul cesso. Mah… Questa è gente strana. Dammi qua. - Proviamo a dar retta loro. Ecco le carte in gioco, proviamo a metterle giù a caso, non si sa mai, magari da giustapposizioni casuali viene fuori una nuova prospettiva. - In che senso? - Marchetta morta, foto di sesso con marchetta, donna scomparsa, supermercato, macchina riportata al supermercato, un bambino sotto il tavolo, bancomat, e perché non un bambino sotto il tavolo, supermercato, bancomat, foto di sesso con marchetta, marchetta morta, donna scomparsa, macchina riportata al supermercato oppure


supermercato, bancomat, un bambino sotto il tavolo, foto di sesso con marchetta, donna scomparsa, macchina riportata al supermercato, marchetta morta o anche un bambino sotto il tavolo, supermercato, bancomat, foto di sesso con marchetta, donna scomparsa, macchina riportata al supermercato, marchetta morta, bambino sotto il tavolo - Tutto sta a trovare quel bambino. - Ecco, datti un po' da fare. Per vedere Lucilla sarebbe bastato aprire una porta. Una volta aperta, e percorso un corridoio stretto e lungo, si trattava di aprire un'altra porta. Poi bastava scendere tre rampe di scale di otto scalini l'una, ecco un'altra porta ancora, più robusta delle altre, di ferro. Lì dentro Lucilla era coricata su un pancale, a faccia in su. Però per vederla sarebbe stato necessario portarsi dietro una torcia elettrica, o una lampada, o insomma una fonte di illuminazione, perché lì dentro era buio pesto, e non si sarebbe riusciti a capire se avesse gli occhi chiusi o aperti. Se respirasse più o meno sarebbe stato difficile capirlo, perché ogni suono era coperto dal rumore del compressore del congelatore del ristorante. Lucilla era veramente a pezzi. Dlin dlon. Hanno suonato alla porta. «E ora chi cazzo è?» «Sono io, dobbiamo parlare» «Mah…» «Aprimi, sei solo?»


Il campanello risuonò un'altra volta. «Mi vuoi aprire la porta?» «Non sono solo, non posso» «Aprimi, non fare l'idiota, o è peggio per te». Dlin dlon, dlin dlon, dlin dlon. Mi guardai intorno, non c'era niente che faceva al caso mio. «Apri questa porta, coglione». «Scendo io». «Apri». Il correttore era inferocito. Non quadra. Come non quadra? Mi inventi una sequenza che non quadra e poi dici che non quadra. Ma che senso ha? Te lo dico io cosa quadra. Una sequenza del DNA, trascritta in mRNA, viene letta secondo un certo schema di lettura e tradotta dal tRNA in sequenza amminoacidica. Un errore nella trascrizione, o nella traduzione, può essere riparato. E la proteina sintetizzata è quella necessaria, al momento giusto. Questo quadra. Perché Lucilla è scomparsa? Perché Andrea è stato ucciso? E chi se ne frega? Vogliamo parlare di mutazioni? Mutazioni rispetto a che? All'ordine regolare dei fatti della vita? Ma per l'amor del cielo. Le sequenze non quadrano più nello schema di lettura perché ci può essere stata una delezione, una traslazione, una duplicazione, una inversione. Se la mutazione è letale il soma non sopravvive. Semplice. Se no la mutazione in qualche modo viene riparata. Se no la mutazione dà luogo ad un adattamento evolutivo. Tutto quadra. Un bambino sotto il tavolo,


supermercato, bancomat, foto di sesso con marchetta, donna scomparsa, macchina riportata al supermercato, marchetta morta, bambino sotto il tavolo, certo che non quadra, è un frutto della tua testa bacata. Le sequenze del DNA quadrano tutte semplicemente perché esistono. Quelle che non quadrano non esistono, perché la selezione evolutiva le ha fatte fuori. Non è viceversa. Non c'è un creatore che ha fatto sequenze e poi le ha fatte quadrare: le sequenze si sono evolute da sole, e solo se quadravano. Ecco perché quadrano tutte. E credete che non me ne sia accorto che una Canon diventa una Coolpix, che è Nikon? Il correttore pensava alla categoria di dispetto. Che cos'è un dispetto? Le forme di simbiosi sono principalmente di quattro tipi, a seconda di chi ottiene dalla forma simbiotica un vantaggio o uno svantaggio: nella forma più nota, il parassitismo, il parassita ottiene un vantaggio evidente, mentre l'ospite ne ha uno svantaggio. Fra le forme di comportamento sociale il correttore aveva incontrato, in un testo di ecologia, la curiosa interazione fra due soggetti, un donatore e un ricevente, i quali ottengono dall'interazione entrambi uno svantaggio. Tale relazione simbiotica si definisce «dispetto». C'è un'unica altra relazione possibile fra le specie in cui entrambi i partecipanti hanno uno svantaggio, ed è la competizione. I due si tolgono l'un l'altro le risorse. No, non possono farmi questo dispetto. Un vantaggio ci deve essere per loro. Mi pare che quadri proprio tutto. Qual era quel romanzo che aveva letto tanti anni prima nel quale l'autore aveva omesso un capitolo, la narrazione di quei venti minuti decisivi in cui il protagonista aveva torturato e ucciso la ragazzina?


Non se lo ricordava più. Forse anche qui c'era un capitolo fantasma. Una gigantesca ellissi per torturare, o prendere in giro, il lettore. A meno che la gigantesca ellissi non fosse nel cervello dell'autore. O forse il capitolo esisteva, e l'avevano affidato a qualcun altro in correzione. Non aveva gli strumenti per esserne certo. Pensassero ai fatti loro. E allora in caso di plagio qual è la forma di simbiosi? Il plagiatore ha un vantaggio, ma il plagiato che svantaggio ha? Dove non c'è il guadagno, la rimessa è manifesta. Allora, me ne sono accorto benissimo che qui è tutto un plagio. Che devo fare? Mi devo fare impallinare? E poi come diavolo fa uno che si chiama Leo Paolazzi (il suo nome nella realtà da disvelare) a parlare di aprire un varco nella realtà quando si fa chiamare Antonio Porta (il velo da sollevare, la porta da aprire dietro la quale c'è Leo Paolazzi)? E la cruda realtà chi sarebbe, il macabro collo vizzo di Lucilla, rimasto separato dal resto del corpo? Il correttore di bozze era nello stato d'animo di quello che voleva farsi prestare la bicicletta dal suo amico. Allora c'è uno che ha bisogno di una bicieletta e immediatamente pensa al suo amico per farsela prestare. S'incammina verso la casa dell'amico ma strada facendo comincia a pensare. Io gli chiedo la bici, ma se lui comincia a fare storie? No, non può essere, è il mio amico, farebbe tutto per me. E se cominciasse a dire che è rotta, che è in riparazione, o qualche altra scusa? Ma no, figurati se il mio amico mi dice delle balle. Certo che sarebbe proprio uno stronzo a non prestarmela, e oltretutto


inventando delle scuse. Scuse a me, che lo conosco da quando siamo bambini, non è possibile. E se mi dice che serve a lui? Insomma, mi nega il favore. Ma no, ma no, me la presta e basta, figuriamoci. Certo che sarebbe proprio uno stronzo, a non prestarmela, dopo tutti i favori che gli ho fatto. Un bello stronzo, se penso a quella volta della radio, che me l'ha riportata indietro che non funzionava più. Per non parlare della volta che gli ho prestato quei soldi… chi li ha più rivisti. Certo non sarò io a richiederglieli, ma proprio per questo come fa a non prestarmi la bici? E proprio un bello stronzo. «Lo sai che ti dico?» Dice all'amico appena lo incontra «Vaffanculo te e la tua bicicletta». Per il correttore l'unico soggetto di tutta questa vicenda a non essere un parassita era proprio lui stesso. «C'è una sola versione corretta dei fatti, e ci si arriva trovando gli errori in quelle che non sono corrette». Ma che dici, pensava il correttore. Stai parlando con me? Una sola versione corretta? Sei tu che te la stai inventando, la puoi cambiare mentre scrivi. Se no la racconti tutta prima, com'è andata, e poi vediamo se questi due imbecilli ci azzeccano. Una mutazione produttiva può cambiare il DNA con acquisto di funzione, cambiare i fatti. Un filamento come Aprire e come quella canzonetta, non è più soggetto a mutazioni, ma mentre scrivi (o correggi, prima della stampa: filamento stampo?) il filamento viene mutato e si autocorregge. Il filamento di DNA si autocorregge a cottimo. E la macchia? Cos'è questa macchia che ritorna? La colpa? Il peccato? Ma per l'amor del cielo. Ma che colpa poteva avere il correttore degli errori altrui? Poteva essere incolpato semplicemente per il fatto di non averli visti?


Sarebbe stato come se la colpa della sparizione di Lucilla fosse stata data all'ispettore Maitani, o peggio ancora a un testimone oculare. Il testimone oculare ha tanta colpa quanto l'omicida, o lo stupratore? Da un certo punto di vista sì, pensava. Uno legge cinquanta pagine che descrivono un efferato omicidio, e perché continua? Potrebbe smettere, altrimenti è connivente, però a lui trent'anni non glieli danno, anzi, gli fanno pure la corte. Il correttore leggeva sempre con molto interesse gli articoli di cronaca nera che riportavano di fatti criminosi avvenuti di fronte a testimoni impassibili. La loro colpa era ancora più grave di quella dei criminali. Diciamo che se volevano sorvegliare il professore dovevano pur avere un furgoncino. Per sorvegliare qualcuno che sta sempre in casa o si trova un appartamento prospiciente, e in questo caso non era possibile, oppure ci si piazza per strada chiusi dentro un furgoncino, con tanto di vetri oscurati e dispositivi di registrazione. Il correttore queste cose le sapeva, e passava molto tempo alla finestra, protetto dalle veneziane, a sbirciare la strada per vedere se questo furgoncino c'era o non c'era. Il professore avrebbe sorvegliato la strada, che aveva l'aspetto di sempre, congestionata di macchine posteggiate, che si bloccavano l'una con l'altra, ma poco traffico, poco movimento, niente di sospetto. Eppure un furgoncino c'era. Il professore non sarebbe riuscito a ricordare di aver già visto quel Ducato là sotto. Magari c'era sempre stato, da anni. Ma non avrebbe potuto giurarlo, come invece


sul fatto che la vecchia SAAB turbo apparteneva a un restauratore di mobili che abitava al terzo piano del blocco C, oppure che una Lancia Dedra ben tenuta era mobilitata regolarmente dal proprietario, il ragionier Pini. Dopo un giorno di pensieri non era arrivato a niente su quel Ducato. Era fermo lì e non gli veniva in mente niente: non l'aveva mai visto prima… Sul Ducato c'era una scritta decorata: BAEGNOV Io non posso, non posso, non posso farmi vedere intorno a quel furgoncino. Sarebbe come se… BAEGNOV? Certamente non ci poteva andare lui, lì, a dare un'occhiata. E allora? Il correttore sapeva che quella scritta l'avrebbe potuta decifrare solo lui: chi altri poteva essere familiare a quella sigla, BAEGNOV? Diciamo il professore fa una telefonata anonima alla polizia e chiarisce i suoi sospetti su quel furgoncino: loro arrivano e lui guarda tutto dalla finestra. Loro che fanno? Danno qualche colpetto al furgone, ci girano intorno, ma non lo fanno, non 10 fanno. Diciamo allora che lui trova il sistema di far colare un 5-6 litri di benzina sotto le ruote del furgone, e poi trova il sistema di buttarci da lontano un bel fiammifero… E allora vediamo se escono come topi da quel cazzo di furgoncino, vediamo se si muovono, vediamo se restano lì dentro per convincermi che non esistono. Il correttore quella sera stessa avrebbe facilmente escogitato un sistema abbastanza ingegnoso per allagare di benzina l'ombra del furgoncino… Quante


volte il correttore aveva pensato di inserire dentro una bozza qualsiasi un corpo estraneo. Cosa sarebbe potuto mai succedere? Se ne sarebbero accorti mai? Se ne sarebbero accorti a libro uscito, con tutte le conseguenze del caso. Cercò nella bozza un punto adatto e lo trovò, al rigo 2 di pagina 42 dopo che il più stronzo dei due aveva detto a quell'altro di darsi un po' da fare. Prese la penna nera e tratteggiò un cancellino lungo lungo sotto il rigo, dove c'era uno spazio bianco, e a margine replicò un bel cancellino uguale al precedente e lo fece seguire da «Quando la luna le dette una lezione, dalla legatura ne venne un piovasco tanto che le mosche il maledetto rene in sciami» senza però le virgolette. E per avvalorare la correzione la fece seguire dalla sigla SIC, dentro un circoletto incompleto. Tanto per mettere le cose in chiaro, non era una correzione di gusto. Esiste un artigiano specializzato nel trovare gli errori che fa un tappezziere che fodera i divani? Guarda qui, c'è una piega, o qui, il motivo della stoffa non torna, ci sono due righe rosse una accanto all'altra. E inoltre qui il tessuto fa una sacca, e qui il bottone del capitonné non è sufficientemente affossato, almeno in relazione agli altri. No, non esiste un correttore dei tappezzieri. E se ci fosse il tappezziere gli direbbe, ma fallo te il divano, che cos'hai da rompere i coglioni? Ma era il suo lavoro, e di questo si trattava. Volevano le correzioni formali? Il campo si prestava all'offensiva, ed era venuto il momento di scatenarla, perché fin da subito c'era un errore marchiano, i discorsi diretti erano resi con i trattini, anziché con le virgolette, come in tutto il resto del volume, anzi, delle bozze. Il correttore stilò una breve legenda, in testa


a bozza 32, dove indicò: sostituire con virgolette basse aperte, senza spazio, in corrispondenza della evidenziazione verde. Sostituire con virgolette basse chiuse, non precedute da spazio, in corrispondenza dell'evidenziazione blu. Inserire virgolette basse chiuse, contigue, in corrispondenza dell'evidenziazione arancione. Questo perché quando i discorsi diretti si rendono coi trattini, non ci vuole quello di chiusura, il che, secondo il correttore, rendeva quella scelta preferibile. Ma c'è anche chi i discorsi diretti li imposta, in modo spigliato, senza nessuna particolare punteggiatura, basta una virgola. Come a bozza 40, dove il discorso diretto non prevede né trattini né virgolette, ma qui la scelta non era voluta, era un errore. Pazientemente cominciò a costellare tutte le pagine di quadratini colorati ripetitivi. Poi ebbe fortuna, alcuni apostrofi erano sbagliati, al loro posto c'erano delle virgolette semplici aperte. Allora la bozza poté arricchirsi del colore giallo: sostituire le virgolette semplici, ove segnalato con evidenziazione gialla, con apostrofi. E poi sotto a chi tocca. In questo rigo ridurre tracking a valori accettabili, max meno 2. Qui recuperare stringendo, si ottiene un meno uno e risale il righino in testa a bozza 35. Bozza 34: al rigo 1 attenzione a crenatura. Vale anche per il rigo 18 e il rigo 22. Qui controllare, la discendente si avvicina troppo all'ascendente del rigo sotto. Eliminare mozzino in testa con track +1,5 max. Attenzione a m.tto sigla IKEA. Il punto dopo "informati". Controllare pseudo corsivo, utilizzare corsivo di font e non


di palette, non rubricare il blocchetto. Attenzione a estensione: mai spezzare prima sillaba se composta da una unica vocale, neanche se preceduta da elle apostrofo. Ridurre kerning a bozza 39. Spazieggiare la parola "organizzazioni". Qui no restringimento, "lke" diventa "le", ridurre il corpo del numero del verso 60 e spostarlo due versi sopra, "pezzo" e non "pezzzo", eliminare uno dei duepunti consecutivi, "arriva" e non "avviva". Inserire il punto fermo ove segnalato. Quelle pagine si stavano talmente intasando di correzioni e avvertenze che il testo ci stava affogando dentro. Alla fine erano diventate un vero e proprio cimitero. Con vedove e orfani, a proposito, Sebastiano era diventato tale? E ancora… E' diventa È. Qui virgola tondo, no corsivo. Qui no rigo solo in chiusura pagina. Tre punti di sospensione fermi, no tre punti compatti. Eliminare mozzino. Accento tonico, bancomat a bozza 33 diventa Bancomat (v. anche bozza 2 e 4). Coolpix non è Canon (v. bozza 7). Blocchetto con spezzature. Ora sì che la bozza aveva un bell'aspetto, sembrava… L'esempio più tipico di una reazione a feed-back negativo era quello del termostato, quello del feed-back positivo era l'alcolismo, l'aveva letto su un testo di fisiologia. In un impianto di riscaldamento il bruciatore rimane acceso finché l'ambiente non raggiunge una certa temperatura; a quel punto il termostato blocca il bruciatore. La temperatura scende di un po' e allora l'impianto si rimette in movimento. Nel caso del feed-back positivo invece sarebbe come se l'impianto di riscaldamento, più si scalda l'ambiente, più procede col riscaldarlo. Un fatto del genere non succede, mentre accade che un alcolizzato più beve e più berrà: la


quantità di alcol che assume genera il bisogno di una assunzione sempre maggiore. In fondo quel racconto sembrava appartenere più, nelle intenzioni, a questa seconda specie. Suonò il campanello, proprio alle dodici e trenta. Il correttore sussultò, e tornò in se stesso, abbandonando questo genere di riflessioni. Si chiese se andare ad aprire. Un seccatore, pubblicità in cassetta, testimoni di Geova. Erano le stesse cose che aveva pensato quella mattina, eppure aveva aperto. Questa volta però pensò anche che potessero essere loro. Si affacciò alla finestra, sporgendosi il più possibile per vedere chi c'era al portone. Ma il terrazzino di sotto impediva la vista. Decise di non aprire. Riprese dal corsivo Ogni segmento pare proporre… un mosaico le cui tessere… ipotetici segreti. Chi poteva essere che lo teneva per le palle? E perché scegliere una strada così complicata? Perché offendermi se quello che vogliono sono i soldi? La faccenda non tornava per niente. Se l'edicolante ha paura di essere coinvolto, perché è sicuro che è stato il professore a far sparire la signora, probabilmente a farla fuori, e non vuole avere a che fare con una faccenda in cui c'è scappato il morto, allora come è possibile che alla fine si scopra che è stato lui a fare fuori Andrea? Ma il racconto è «aperto», è il lettore che deve far tornare i conti, io non glieli faccio tornare di sicuro. Chi ha ucciso Andrea? Il professore? Parrebbe così, a un certo punto, ma se Lucilla fosse ancora viva? In effetti non era da escludere che il correttore potesse dare una sbirciata alle pagine finali, per vedere come andava a finire, d'altronde, per mestiere, era


autorizzato a farlo, anzi, in qualche modo era tenuto a farlo. E poi poteva non essere vero che era stato il professore ad eliminarla, e allora che motivo avrebbe avuto lui di uccidere Andrea? E l'edicolante? Vuole tirarsene veramente fuori, oppure è lui che vorrebbe eliminare tutti, da Andrea al professore, perché non lo tirino dentro l'omicidio della signora? E per questo che dà un appuntamento al professore? E Lucilla? Perché scompare dopo l'inseguimento? Che motivo ha? Una crisi di amnesia? Perché non va a denunciare tutto alla polizia, oppure fa finta di niente, una volta in possesso del disc con le foto? O forse la Scenic l'ha rimessa a posto il professore? E se il manualetto segreto esoterico fosse a sua volta leggibile in modo tale da rivelare segreti militari? Per non parlare di un libretto di istruzioni di un congelatore professionale. • Forse era tutta colpa del copia-incolla, che permette di riposizionare i brani una volta composti. Quando si digitava il testo con la macchina da scrivere allora sì che un testo sembrava un tessuto, e lo scrittore dando un colpo alla levetta di ritorno assomigliava al tessitore che dà il colpo alla navetta per farla tornare indietro. Con la Lettera 22 i testi erano tappeti, il cui disegno stava nella testa del tessitore, tutti i numeri a mente. Ora i testi erano come dei tappeti finti, in cui l'ordito e la trama non erano intrecciati al telaio, ma appiccicati con la colla. Lucilla avrebbe avuto un bel pensare che il mondo elegantemente diviso in


pagine, ordinatamente scandito da spazi bianchi e puliti, e pulito voleva dire sgombro, vuoto, che non c'era niente. Non voleva certo dire uno sfondo ripulito, slavato, voleva dire uno spazio dove non c'è niente, che dà agio alle cose, ai pieni, ai caratteri, all'inchiostro, di non affogare in un magma senza prospettive gerarchiche. Perché quella stanza buia era buia? Ora la professionista del marketing, pessima trovata, fra l'altro, aveva modo di ricredersi. Stare negli interlinea era un inferno. Ora sì che poteva godersi gli sterlineati, che le impedivano ogni via d'uscita. Le strade di Lucilla erano intasate, come le pagine dei libri di patologia medica sottolineate all'infinito dai poveri studenti, che fanno diventare un netto e ben tagliato volume spesso trenta trentaduesimi una massa informe e sudaticcia, maleodorante di evidenziatori esauriti, e calcata di penna biro che lascia un solco profondo venti pagine. Coloro che sottolineano o evidenziano i libri, siano essi presi a prestito, i libri, ma io direi anche se sono di loro proprietà, dovrebbero essere arrestati, puniti severamente. E pene severe ci dovrebbero essere per quelli che i libri li spiegazzano, li scartabellano, li ungono. Dopo che li toccano sembrano carta igienica. In relazione alla vicenda de «Il sangue nelle caramelle» erano saltate delle teste. Per un certo periodo il correttore non aveva più ricevuto bozze di narrativa dalla caporedattrice. Aveva letto un manuale di storia moderna di ottocentocinquanta pagine (manuale?), e un pezzo di una antologia per le scuole


medie. Sempre in fretta, sempre con l'acqua alla gola. Come al solito era passato in casa editrice più o meno una volta ogni due giorni, per consegnare e ritirare. La caporedattrice non era più al suo posto. Con malcelata soddisfazione il correttore ne aveva chiesto notizie, ma le risposte erano abbastanza elusive. Per uno era in ferie, per l'altro era in malattia, o semplicemente sparita. Un giorno era stato convocato dal direttore in persona. Era il nuovo direttore, ma i direttori sono sempre nuovi perché cambiano ogni due-tre anni. Questo non lo aveva mai incontrato. In realtà le volte che aveva incontrato un direttore si contavano, negli anni, sulla punta delle dita. «…Guardi, qui non si parla di dare la colpa a qualcuno, non ci interessa dire di chi è colpa, incolpare qualcuno di un errore o di più errori, anzi di molti errori… cosa ci guadagneremmo a dare la colpa a qualcuno degli errori che vengono fatti? Forse che gli errori non ci sono più, se se ne dà la colpa a qualcuno? Non è incolpare di colpe che ci danneggiano che risolve il problema. Il problema dell'errore non si risolve con le colpe. Qualcuno le ha parlato di colpa? Lei non si deve sentire in colpa; qui il problema era quello di trovare il modo di evitare tutti quegli errori. Ecco il vero problema. Perché questo è veramente da evitare: errori così evitabili. Mi scusi il gioco di parole. Certo io non sono uno che si accontenta di una frase come "la colpa non è di nessuno". Qualità, qualità, qualità: queste sono per me le parole chiave. Qualità ed errore sono due cose che non si combinano…». Chissà se quel cretino aveva mai sentito parlare di…, pensava il correttore. Quel cretino aveva usato, da sola o in un composto, la parola «colpa»


dieci volte, «errore» nove volte, «problema» quante volte? E ora stava cominciando con la qualità, l'efficacia, l'efficienza, che come tutti sanno sono due cose marcatamente diverse. Una volta il correttore aveva corretto gli atti di un convegno su «Efficienza ed efficacia», del quale l'assunto era che si aveva a che fare con due scuole di pensiero diverse. Ma quel cretino continuava con la sua litania di generici «efficacia, efficienza, qualità, controllo» che secondo il correttore applicati ai libri consistevano in un gigantesco niente. Eppure quello portò a termine il suo discorsino, inserendo qualche altra occorrenza delle parole colpa, errore, efficacia, qualità. «Ma chi glielo fa fare a continuare questo lavoro, perché non cambia mestiere? Si sarà stufato di correggere le bozze?» Quella riunione portò il correttore all'esasperazione. Se quello era il suo destino, se quello era ciò che si stava configurando, che ne sarebbe stato di lui? Uno che fa il «controllo di qualità» sulla lingua italiana, mentre ce n'è un altro che la fa sul lavoro del litografo? Sullavoro, vuole le candele di Sion, del tutto naturale, Vasco rilascia l'armadietto a Turandot. Il direttore stava continuando a parlare ma il correttore non decifrava più il contenuto di quello che diceva, che percepiva come un sottofondo ovattato ai suoi pensieri. Quante volte si era divertito a comporre acrostici con le sue correzioni: «Il proto è uno stronzo», «La signora Morosini è una troia…». Ma ora questo cretino si meritava un trattamento superiore. Questo immenso, immenso, cretino si meritava quello che il correttore si immaginava. Ma forse la «colpa», come avrebbe detto il direttore, non era sua, la colpa è nella


faccia di merda che ho davanti. «Le procedure della casa editrice stanno cambiando, e saremmo contenti se lei si adeguasse, perché teniamo molto alla sua eventuale collaborazione. Vede, la procedura tradizionale, correggere le bozze sulla carta, passarle in tipografia per eseguire le correzioni, il riscontro, ecc. ecc., è diventata anacronistica…». Eventuale? Dopo averla incontrata al supermercato, scambiandosi soltanto un saluto freddissimo, il correttore aveva preso informazioni su quella caporedattrice. Era figlia d'arte. Suo padre aveva lavorato lungamente per il gruppo editoriale, nel settore commerciale. E questa era stata assunta giovanissima, appena laureata, con una tesi su Aspetti e problemi del teatro goldoniano a Pavia e con una forte raccomandazione. Nelle case editrici quelli del commerciale dettano legge. Non era sposata, non aveva figli, aveva quarantasei anni, e una autovettura giovanile, una Micra rossa, nuovo modello. Il correttore cercava di capire se c'era una materia, anche all'interno del solo comparto umanistico, in cui questa signorina avesse qualche competenza. Come esperienze di lavoro ella aveva seguito dei corsi di storia, e qualche antologia per il biennio. Non aveva pubblicazioni, ma aveva partecipato a molti seminari e forum sulle frontiere dell'editoria scolastica. Aveva però tradotto dal francese un saggio, peraltro non pubblicato, di un autore canadese, che aveva per argomento la mobilità sociale nel continente nordamericano, cioè la mobilità verso il basso. Però, nonostante fosse una nullità completa, si permetteva atteggiamenti da capetta, anche perché aveva un fisico


molto snello e nervoso, i capelli corti, l'atteggiamento dello sportivo, praticava lo sci invernale e lo scialpinismo. Insomma non c'era un aspetto a lui conosciuto per cui potesse risultare simpatica. Se l'avessero intervistata alla televisione, magari per chiederle cosa pensava dell'obesità infantile, avrebbe risposto che lei a casa mangiava quello che c'era in tavola, e che tutte queste merendine, tutte queste bibite gassate… e che lei amava viaggiare e la montagna. Ma lui sapeva che lei non aveva mai superato, sempre ben s'intende da secondo, il quarto grado +, e che un suo ex fidanzato, se così si può dire, non la sopportava per vari motivi. E poi tutta questa enfasi sul fisico andava considerata meglio. E vero, su questo ci avevano azzeccato, i polpacci li aveva ben definiti, però aveva dei fianchi da maschio, e anche una pancia incavata, ma non tonica, che strepitava a fronte dei seni assenti. Non è che il correttore queste notizie le avesse trovate su internet, ma era un attento osservatore. Il correttore si immaginava che Lucilla fosse stata legata per le mani e per i piedi, come in trazione, sopra un materassino, completamente nuda, a pancia in giù, costretta per via della sospensione a tenere le chiappe serrate, ma una posizione estremamente favorevole per chiunque dei tre glielo volesse appoggiare dentro. Si chiedeva se ci fosse un'alternativa. Se no che motivo c'era di tenerla segregata. Mangiarla in forma di spezzatino? A questo punto si era imboccata una via di non ritorno. A meno che quell'imbecille di Autore non pensasse che aveva avuto un incidente stradale, che aveva perso la memoria, era finita in un pronto soccorso defilato, e che nessuno fosse stato in grado di


risalire alla sua identità nonostante la trasmissione Chi l'ha visto, le indagini, le denunce, ecc. No, non poteva essere diventata la smemorata, a quel punto uno prende il libro e lo tira contro il muro, nel punto esatto" dove ha scagliato tutti quegli altri. Lucilla non poteva che essere in quello scantinato, e così imparava a tenersi bene, quegli stronzi si arrapavano lo stesso, anche se fresca non era. Ma era troia, e ora ne aveva a volontà. Il correttore ritornò con la mente a quando era piccolo, quando pensava che la locuzione «a voli 44 lontà» volesse significare «più che se ne vuole» o «più che si può». «Zucchero a volontà». Allora mentre lei era legata come un pollo si meritava quel trattamento, e le sarebbe passata la voglia e la necessità di andare con quella marchetta di merda. A meno che… a meno che… Lucilla tutto questo trattamento occasionale non se lo sia risparmiato, perché, come dice il buon Leo Paolazzi, «il ventre aperto» e tanti saluti a tutti. Ma possiamo, noi, cascare in questo primo piccolo ed elementare tranello? Basta con tutte queste interrogative. Il correttore afferrò la gomma e prese a cancellare forsennatamente tutte le sue correzioni per due minuti. La bozza dopo tutte le cancellature sembrava un antico palinsesto. L'offensiva doveva essere più radicale, più offensiva. Era ormai quasi ora di pranzo. Il correttore aveva appetito lo stesso nonostante, non ostante quello che gli avevano fatto, però si era dimenticato di


scongelare lo spezzatino. Avrebbe aperto il portellone del congelatore (non lasciare mai aperta la porta del congelatore) e tirato fuori uno dei sacchettini preparati con lo spezzatino. Spez-za-ti-no. Spezza Tino. Lo avrebbe messo su un piattino di coccio, e lo avrebbe infilato nel forno a microonde (o micro-onde?) che dopo un po' avrebbe fatto dinn. Erano mesi che mangiava solo spezzatino e non ne poteva più di quella carne dolciastra. In bianco, in fricassea, al pomodoro, al barolo, e in mille altri modi. Si era anche comprato un volumetto di ricette (pieno di refusi) su come cucinare i bocconcini. Tutta quella carne lo rendeva nervoso. Era forse quello il motivo della sua distrazione? Era per quello che non era più attento sulle bozze? E la memoria? Come si chiamava quel romanzo cui mancava un capitolo? Dove se ne stava andando la sua memoria? Troppa carne e poca verdura. Il modo più rapido era ripassare i bocconcini infarinati nell'olio, e poi aggiungere un po' di salsa di soia. E anche un bel po' di peperoncino, per fargli mascherare un po' quel sapore (due volte po'?), quel sapore di che? Era un sapore che lo metteva in uno stato di agitazione incontrollabile, gli trasmetteva una frenesia, ma una frenesia, con la esse dolce, una furia, due furie, tutte le furie. Qual era il nome delle furie? Aletto me la ricordo, Megera era un'altra? Ah sì, ecco chi era la terza, Tisifone, ecco chi era. Ma il correttore, come fanno tutti, era dovuto andare a controllarlo sul libro, mica ci si può ricordare tutto. Fare finta di ricordare a mente, o peggio ancora di non ricordare, sulla carta stampata, era proprio un atteggiamento ignobile, che


faceva innervosire il correttore come farebbe innervosire qualsiasi lettore. In effetti il correttore era andato a controllare su un libretto che aveva sullo scaffale sui miti e le leggende della Grecia, e poi aveva fatto anche altre cose. Sicuramente lo aveva anche fatto l'autore di quel racconto e aveva pensato che lo poteva fare finché gli pareva, tanto nessuno se ne sarebbe potuto accorgere. In fondo anche il lavoro del correttore aveva dei tempi morti, e nessuno avrebbe mai saputo che cosa lui faceva in quelli. Magari si preparava un altro piatto di spezzatino, di cui, chi lo sa, forse non poteva fare a meno. E risparmiava un sacco di soldi alla settimana, da quando aveva il congelatore pieno. Questo spezzatino mi fa schifo. Non ne voglio più. Lo darò al gatto. Un gatto bello rosso, pasciuto. Quando la luna le dette una lezione, dalla legatura ne venne un piovasco. Ma non era questo che intendeva per inserire un corpo estraneo. In fondo in questa porzione dei suoi pensieri era quasi pertinente. Lui lo voleva inserire in un modo non pertinente, cioè impertinente, cioè insomma, come nel mezzo di due terzine della Divina Commedia. Se avesse voluto lo avrebbe fatto. E come avrebbero reagito loro? Lì per lì non se ne sarebbero neanche accorti, poi avrebbero mandato tutto al macero, ma non sarebbe bastato. Lo spezzatino era quello che a Milano chiamano risottino e a Firenze una pappardella. Una noia mortale, ecco il senso di questo spezzatino. Nel senso etimologico di noia e di mortale. E questo, pensava il correttore, non ve lo spiego, ve lo andate a vedere da soli, io non ve lo dico, oltretutto mi girano le


palle per quell'idiota, cui ho fatto un pensierino, ma sinceramente di spezzatino non ne posso più. Vorrei pesce, verdure e cereali. E un po' di polvere di ossa. A proposito, a quel gatto l'osteoporosi non gli (deleatur) viene di sicuro. Il correttore non poteva fare a meno di pensare a chi avrebbe letto quel racconto, appassionandosi alle vicende di Lucilla. Anzi, pensava più che altro alla lettrice, quella lettrice che aveva comprato o che avrebbe in futuro comprato questo libro così così, che era andata in libreria, aveva trovato questo libro, le era piaciuta la copertina, aveva pensato ai libri che aveva detto di aver letto e invece non aveva mai letto, oppure ai libri che non aveva letto ma che già sapeva che non le sarebbero piaciuti, oppure ai libri che aveva già letto e che si riprometteva di rileggere, o a quelli che erano impilati per esser letti nell'estate successiva. Ma andate tutti a fare in culo, pensò il correttore. Lui, che leggeva per lavoro, aveva in antipatia queste sbavature, queste sbavate. Andate tutti a lavorare. Lui leggeva per lavoro, e non lo faceva seduto su una sdraio al bagno Onda marina di Forte dei Marmi. E doveva lavorare su queste pagine così irrilevanti, e che magari a quei due, lettore e lettrice, piacevano anche, perché… perché… Poveri lettori di professione. Redattori, critici, filtri di qualche casa editrice, recensori. Che si trovassero anche loro a leggere questa vicenda della porta che si apre, del bambino sotto il tavolo. Buona fortuna. O erano addirittura correttori di bozze come lui? E come si fa a correggere questa roba? C'è da grattarsi la testa. Prima di tutto mettiamo a punto una sigla di abbreviazione, invece di


ripetere sempre la solita domanda = autore conferma refuso? ACR, oppure AIC, che è meglio, o perché no BAEGNOV. La bozza si sarebbe popolata necessariamente di una moltitudine di AIC, con pieno merito. Non mi prenderanno mai, perché non hanno la più pallida idea di chi io sia. Quando la luna le dette una lezione, dalla legatura ne venne un piovasco tanto che le mosche il maledetto rene in sciami; scelsi l'inconveniente e ancora un'altra delazione: vuole le candele di Sion, del tutto naturale, Vasco rilascia l'armadietto a Turandot. Dopo aver visto che fine aveva realmente fatto Lucilla il correttore rimase molto perplesso, quasi sbalordito. Ma che motivo c'è che Lucilla dopo tutto quello che le era già capitato, sprofondasse in quella massa di guai? Per le leggi del climax e dell'anticlimax? Ma povera Lucilla. Di solito i testi scientifici non ti fanno girare i coglioni, se non in qualche caso raro, come quello della sociobiologia di Wilson. Al correttore era capitato di correggere un testo didattico che riassumeva sinteticamente e anche abbastanza brutalmente le teorie adattazioniste applicate al comportamento umano. In poche parole tutto il comportamento di maschi e femmine è determinato dal raggiungimento della maggiore fitness riproduttiva. Così per esempio uno stupratore ricorre a questo comportamento perché probabilmente non ha altre maniere efficaci, cioè risorse, ricchezza, da barattare con le femmine contro occasioni riproduttive, e quindi ricorre alla violenza sessuale per intensificare le occasioni e accelerare i tempi. Secondo il punto di vista sociobiologico la femmina potrebbe avere interesse ad essere violentata,


perché se fecondata da uno stupratore, individuo quindi in possesso dei geni della violenza sessuale, potrebbe presumere che anche la sua prole sia in possesso di questi geni, che, come dimostra la loro propagazione, sono geni buoni, in quanto portano alla riproduzione e alla nascita di una prole con buona probabilità di propagare ulteriormente i propri geni violentatori. Questi ragionamenti applicati ai babbuini o ai capodogli di solito tornano, applicati agli esseri umani fanno uno strano effetto. Soprattutto se la donna stuprata è in menopausa, come Lucilla. Perché la società civile ha impiegato tanto tempo a costruire un tabù sulla violenza sessuale, quando potrebbe essere la migliore delle soluzioni? Nello stesso capitolo si dimostrava che la violenza sessuale non è, come asseriscono studiose femministe, il tentativo di affermare il potere maschile, perché se così fosse la violenza maschile dovrebbe concentrarsi su donne ricche e di potere, e invece si focalizza su donne povere e giovani. Davvero, sul quel testo, addirittura un manuale, c'era un argomento del genere. E anche altri. Per esempio che nelle società molto stratificate, come quella di Chicago, i maschi si trovano ad avere aspettative di vita molto diverse. Alcuni hanno aspettative di vita molto brevi, e siccome sanno che non hanno una vita lunga davanti a sé temono per la loro fitness riproduttiva, e allora, adottando una strategia riproduttiva condizionale, si dedicano allo stupro, per questioni di tempo, e al crimine, sempre per questioni di tempo, perché il crimine è una strada più rapida per acquisire quelle risorse materiali che servono ad assicurarsi una femmina, la quale non sarebbe sessualmente recettiva di fronte a un partner privo delle risorse materiali per


assicurare le necessarie cure parentali a che la prole raggiungesse l'età e le occasioni riproduttive. E lo sapete perché negli Stati Uniti ci sono tante adolescenti che rimangono incinte? Perché sono povere, e quindi prive di quelle risorse materiali con cui potrebbero procacciarsi, sotto forma di dote, un marito in questa società monogama. Dunque sono costrette, per ottenere fitness riproduttiva, a rimanere incinte, aggirando, più o meno volontariamente, i sistemi anticoncezionali, allo scopo di propagare i propri geni, che altrimenti sarebbero negletti dai maschi, disponibili sì allo stupro, ma solo se altrettanto poveri. Come l'avrebbero messa con le sevizie sessuali a Lucilla i sociobiologi? E la masturbazione? Che esiti può avere per la fitness riproduttiva maschile e femminile? Allenamento? E i rapporti omosessuali? Secondo un'ottica rigidamente evoluzionistica, l'evoluzione si sarebbe dovuta sbarazzare velocemente dei geni tendenzialmente omosessuali: non portando a riproduzione si sarebbero dovuti estinguere da un bel pezzo. A meno che non si tratti di un comportamento socialmente utile a che si riproducano solo i geni forti, quelli degli stupratori, mentre quelli meno forti sarebbero destinati a comportamenti ausiliari, come quelli dei religiosi celibi, o appunto degli omosessuali. E come si spiegava che alcuni individui riprendessero immagini pornografiche di un atto sessuale destinato a non avere esiti riproduttivi, per ricattare la partner coinvolta? Per aumentare, tramite il denaro, la fitness riproduttiva dei ricattatori? Ma forse era tutto più semplice di così: l'autore che si era inventato la storia di Lucilla agiva esclusivamente per aumentare la sua di fitness riproduttiva. In termini di soldi, o


magari, chissà, dopo una presentazione in una libreria di Grosseto una studentessa di lettere gliela avrebbe data. Un piccolo recinto, una croce, un cancelletto, una forca, un altro cancelletto, un'altra forca, una piccola vulva, un arco doppio, uno spillo con la capocchia in alto, uno spillo con la capocchia in basso, uno spillo con la capocchia da tutte e due le parti; un chiodo da falegname, un'altra forca, una punta di freccia messa per orizzontale, una specie di parentesi tonda, grande, una specie di greca, la metà di una svastica, il segno di percentuale che però vuol dire un'altra cosa, vuol dire di andare alla pagina successiva… La croce era un po' come un colpo esploso di battaglia navale: ho dieci croci a disposizione, e le devo utilizzare nella maniera migliore, senza sprecarne una. Il correttore vedeva ingarbugliarsi il campo di battaglia di simbolini, ammonticchiati uno sull'altro, disordinatamente: si affollavano come fanno i pesci in banco quando stanno arrivando i predatori. Credono che starsene raccolti e ammassati in grandi comunità aumenti la loro probabilità di salvezza. Un po' come se una famigliola che parte con la sua automobile per la vacanza decidesse che muoversi il giorno di maggior traffico è meno rischioso, poiché in circolazione ci sono assai più macchine, e quindi le probabilità che l'incidente tocchi a qualcun altro sono di più. O come fanno gli allocchi e gli assioli, che in assenza di un fondale di legno e corteccia col quale mimetizzarsi, si mimetizzano l'uno con l'altro. I feriti cercavano di raggiungere a zoppino il margine della pagina, le zone bianche in basso a sinistra, le meno frequentate. La mattina morivano, la sera


venivano rimpiazzati. Piace una fichetta sbrindellata, sbudellata, o una poppona pugnalata, che ora giace freddata dietro il divano, che anzi è stata fatta a pezzi, riposti accuratamente incellofanati in un freezer. Ma ormai di quei pezzi nel frigorifero non ne sono rimasti quasi più. Non ce ne sono più. Il suo nome sarebbe comparso a Chi l'ha visto, se non lo era già. Non lo so. Non guardo quelle trasmissioni dove cercano le persone scomparse. Il correttore si riscosse mentre la sua mente era invischiata in questi pensieri rancorosi. La sua mattinata di lavoro era ormai trascorsa, era stata pesante, dopotutto. E umiliante sotto diversi aspetti. E alla sua età non era facile inghiottire certi bocconi. Bocconi… gli veniva in mente, reiteratamente, insistentemente, questa parola, bocconi…, ma non sapeva neanche lui con chi ce l'aveva. Bocconi… è iterativa di per sé, due bocconi… Il correttore teneva nel cassetto alcuni raccontini, ispirati, per usare un eufemismo, a quelli dello scrittore russo Michail Zoschenko. Erano una dozzina, e le copie erano ingiallite. Estrasse il fascicoletto, e da quello il racconto dal titolo «Il figlio grasso», che era forse il suo preferito. Il figlio grasso La storia che segue qui non è molto interessante per certi versi, e nemmeno per gli altri. Per entrare nel vivo dei fatti, comincerò dall'inizio. Una madre di famiglia appartenente al popolo, cioè alla stragrande maggioranza delle persone, aveva un figlio molto magro. Questo è in contrasto con il titolo, ma, come


capirete, solo per il momento. Essa si faceva un gran problema della magrezza del figlio. Tutte le sue vicine e conoscenti le esibivano i loro grassissimi figli con gote rubizze e cosce arrotolate, mentre suo figlio era magro magro e gli occhi sembravano grandi palle sullo sfondo del piccolo volto, scusate il termine. Il bambino mangiava poco e controvoglia. Ma la madre si convinse che suo figlio doveva ingrassare a tutti i costi e cominciò a ingozzarlo di semolino e farinata. Non si dica - essa pensava - che faccio mancare qualcosa a mio figlio. Il piccolo recalcitrava e si rifiutava disgustato. Piangeva e diventava tutto rosso. Ma alla fine era costretto a cedere. E giù con pastine, polenta, e pappe pesantissime, nel senso stretto. Come si sa si fa abitudine a tutto, e il bambino la fece a mangiare. Così prese ad ingrassare. Prima raggiunse un peso decente. Poi normale. Poi un po' abbondante. Più ingrassava e più la madre gioiva ed aumentava la dose. E riempiva il sangue del suo sangue fino all'orlo, e questo, dopo ciò, giaceva stremato e annebbiato fino al pasto successivo. Ed ecco che anche lei cominciò a esibire orgogliosa il figlioletto. E arrivò a volersi misurare con le altre madri, con aria di sfida. In non molto tempo il bambino diventò grasso come un otre pieno, come si dice. Tuttavia un giorno il pediatra comunale disse alla madre che suo figlio era troppo grasso e troppo pesante rispetto alla sua ossatura. «Il piccolo - diceva rischia di diventare deforme, obeso e scoliotico, ossia gobbo, più o meno», ha madre si sentì oltraggiata e incompresa. «Come, con tutti i sacrifici che ho fatto»,


rifletteva. Siccome le madri non hanno mezzi termini e inoltre prendono tutto come un offesa personale, essa cominciò a tenere il bambino a stecchetto. «Così impara» pensava - riferendosi al pediatra. E il piccolo, che ormai aveva appetiti sproporzionati, sì chiedeva nei momenti lucidi il senso di quella tortura, e del cosmo. Spento, famelico ma depresso, il figlio prese a dimagrire. E come dice la parola tornò rapidamente magro, avendo soltanto grassi da smaltire. E la madre si chiuse, insieme col pargolo, in un orgoglioso isolamento, vittima delle circostanze. Ma il piccolo ora deperiva. Pallido e smunto, era uno dei bambini più tristi del rione. Ed era cagionevole, come si capisce. Ecco che un giorno egli si ammalò, ed anche i seguenti. Porte febbre, vomito, nausea. La madre, educata al fatto che non bisogna fidarsi dei medici perché guarda quel Piccolino come te lo avevano ridotto, non si sognava nemmeno di dare al malatino le medicine prescritte. Lei, è vero, non ci cascava. E il figlio via via peggiorava, e lei ormai odiava tutti; sotto sotto anche il bambino, che le dava solo grattacapi e nessuna soddisfazione. Forse il fatto vi sembrerà esagerato per una vicenda del genere, ma il bambino, ebbene, morì. La madre, come succede, venne incriminata per non aver curato il piccino. «Voi me l'avete ucciso! - dichiarò al processo - Era bello grasso e voi avete voluto metterlo a dieta. Chi mi ridarà mio figlio? - singhiozzava - Chi me lo ridarà? - ripeteva.


Il pubblico e il giudice erano pieni di compassione per quella donna, povera madre afflitta, privata della prole, accusata, infamata. Fu così che la madre fu assolta. Ma non la si può certo considerare un personaggio vincitore dato che il figlioletto ce l'ha rimesso lei. Attualmente però la signora possiede un gatto. Esso supera in tutto il ricordo del figlio dato che mangia di buon appetito e non rischia la scoliosi. E se è triste non lo dà troppo a vedere. Dato che un autore che voglia essere contemporaneo deve essere anche critico di sé stesso, anch'io produrrò qui di seguito un breve commento sul racconto precedente. Esso è certamente manchevole: per esempio trascura la figura del padre, e non definisce meglio lo stato psichico del figlio in genere. Inoltre tralascia l'aspetto sociale della madre in sé. Eccetera. Di lati positivi nel racconto effettivamente non ne vedo. Esso - direte - deve il suo interesse solo al fatto che c'è un morto. E la morte, si sa, fa sempre cronaca, tranne il caso in cui il morto sia introvabile e privo di identità. Era diverso tempo che il correttore non rileggeva Il figlio grasso. Quando si ingrassa velocemente si mettono su soltanto grassi, ma quando si dimagrisce altrettanto velocemente, si perdono invece anche tessuti muscolari. Tutto sommato probabilmente il correttore aveva ragione, non occorre essere un provetto tappezziere per capire che un divano è scomodo. Alla caporedattrice non era piaciuto, lo aveva detto esplicitamente, ed era l'unica professionista del


settore che l'aveva letto. «Scrivere fa bene alla mente, come le parole incrociate» era stato il suo commento, oltre al «Mah» che aveva annotato sulla bozza, anzi, sul dattiloscritto. Ma perché perdeva tutto quel tempo? Erano ormai le tredici e trenta e aveva combinato un pasticcio. L'aveva fatta fuori lui o quell'altro, e lo avrebbero preso, e ne avrebbe fatte fuori delle altre? Ma il correttore sapeva come andava a finire, e perciò il tutto gli pareva paradossale. Lui sapeva che fine avrebbe fatto Lucilla, se per esempio avrebbero avuto il coraggio di farla finire tagliata a pezzetti dentro un congelatore. C'era magari anche da sapere se qualcuno se la stava mangiando un po' alla volta, o se la davano al gatto? Quale gatto? Risultava dalle pagine lette che ci fosse un gatto? E se ci fosse stato, ma tralasciato apposta? Anche un poeta si doveva ridurre, per farsi ascoltare, a mettere in versi il massacro di una donna nuda, una spogliarellista (allora si andava un po' più per il sottile) per essere sicuro che la poesia venisse letta fino alla fine? Il correttore avrebbe voluto che l'autore stesso avesse messo a disposizione qualche riga di puntinato, a quel punto, perché il lettore potesse registrare le sue osservazioni, pensieri, insulti. Magari come nei librigame: «Scrivimi qui cosa pensi che accadrà a Lucilla nelle prossime pagine, e come andrà a finire». Un puntinato come questo: ……………………………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………


………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………… Naturalmente non è corretto andare alle ultime pagine per rispondere. Il puntinato svanì e il correttore dovette ricominciare sempre dallo stesso rigo, perché non riusciva assolutamente a concentrarsi, si ritrovava venti righe sotto senza ricordarsi minimamente che cosa c'era scritto. Tutte le volte era come leggerle di nuovo. Aveva la nausea, si sentiva lo stomaco paralizzato da tutta quella carne dolciastra, ne aveva mangiata troppa; ma d'altronde occorreva accelerare il ritmo, altrimenti di quel passo quanto mai ci avrebbe messo a smaltirla? E al canile gli facevano un sacco di storie, sembrava che un regalo come quello che lui offriva, tutti quei sacchetti ben preparati di spezzatino congelato, a loro facesse schifo. Andò via, improvvisamente, la corrente elettrica. Oh santo cielo - si struggeva il correttore - del computer chi se ne frega, del computer chi se ne frega - ma il congelatore? Che succede se resto senza elettricità per qualche ora? La carne non


la posso ricongelare un'altra volta. Nonn afiso covilar Parol delabo attraco Il correttore vedeva se stesso come un uomo bollito, che mangiava spezzatino decongelato, e che si inacidiva sempre di più col suo lavoro, con i suoi datori di lavoro, col computer, e con le bozze che aveva davanti…. nonn afiso covilar Parol delabo attraco. Gli sarebbe piaciuto avere un segreto da raccontare, e riuscire a tirarlo fuori prima che fosse troppo tardi, prima che un bel giorno suonasse il campanello e una voce impostata gli comunicasse che avevano scoperto tutto. Ma lui un segreto non lo possedeva, nonn afiso covilar Parol delabo attraco. Il correttore si lasciava andare sempre più alle sue immaginazioni. Potrei scrivere qualsiasi schifezza - pensava. - Potrei dire che ho ucciso io le professioniste del marketing e che le ho fatte a pezzettini - tutto quello spezzatino - messe nel congelatore, e che le mangio un po' alla volta. Ma che senso ha una storia del genere? E che ci vuole a inventarla? Allora, visto che ci siamo, diciamo che nel congelatore ci ho messo anche mia madre, e che il modo in cui l'ho fatta fuori è raccapricciante, l'ho fritta da viva in padella, una enorme pentolona da caserma con dentro olio e acqua che schiocchettava, oppure l'ho cucinata come si cucina il polpo affogato. O ancora? Qualche suggerimento? Magari mentre la friggevo costringevo mio padre a guardare: e io lo sodomizzavo, proprio in quel momento che la mamma moriva fritta. Ma che ci vuole a spararle grosse? Ve ne vengono in mente senz'altro più a voi che a me. Avevo dodici anni quando ho creato un dispositivo grazie al quale il sangue che colava da mio padre


(gli avevo tagliato le arterie, ma non moltissimo) si raccoglieva in una grondaia che


avevo realizzato tagliando a metà un tubo di plastica. Dalla grondaia finiva direttamente nell'olio in cui friggevo mia madre, e il sangue nell'olio si rapprendeva, si fondeva, questo mentre io lo inculavo, questo mentre io lo inculavo. Chi altri ci devo mettere dentro, una bambina piccola che si tocca il clitoride, un animale domestico vivisezionato (un cucciolo, un coniglietto), il fante di picche, l'ectoplasma di san Pietro Martire con una scure conficcata nella testa? Non tutti hanno fantasia, ma tutti si sanno immaginare queste cose. E allora la differenza dove sta? Ma, c'era un ma. Per quanto il correttore potesse immaginare delle schifezze, che aveva leccato il vomito di suo padre mentre lo inculava e il sangue finiva nella padella piena di olio e sangue, o chissà cosa, fra rigo e rigo c'era sempre una enorme, rassicurante pulizia. Guardatela, pensava il correttore, guardate la pagina con le zozzerie, una di quelle cose che si notano sfogliando il volume, di primo acchito. Vedeva questa pagina come uno scatto fotografico, tutta insieme. Potrei scrivere qualsiasi schifezza - pensava. Potrei dirvi che ho ucciso io le professioniste del marketing e che le ho fatte a pezzettini - tutto quello spezzatino -messe nel congelatore, e che le mangio un po' alla volta. Ma che senso ha una storia del genere? E che ci vuole a inventarla? Allora, visto che ci siamo, diciamo che nel congelatore ci ho messo anche mia madre, e che il modo in cui l'ho fatta fuori è raccapricciante, l'ho fritta da viva in padella, una enorme pentolona da caserma con dentro olio e acqua che schiocchettava, oppure l'ho cucinata come si cucina il polpo affogato. O ancora? Qualche suggerimento?


Magari mentre la friggevo costringevo mio padre a guardare: e io lo sodomizzavo, proprio in quel momento che la mamma moriva fritta. Ma che ci vuole a spararle grosse? Ve ne vengono in mente senz'altro più a voi che a me. Avevo dodici anni quando ho creato un dispositivo grazie al quale il sangue che colava da mio padre (gli avevo tagliato le arterie, ma non moltissimo) si raccoglieva in una grondaia che avevo realizzato tagliando a metà un tubo di plastica. Dalla grondaia finiva direttamente nell'olio in cui friggevo mia madre, e il sangue nell'olio si rapprendeva, si fondeva, questo mentre io lo inculavo, questo mentre io lo inculavo. Chi altri ci devo mettere dentro, una bambina piccola che si tocca il clitoride, un animale domestico vivisezionato (un cucciolo, un coniglietto), il fante di picche, l'ectoplasma di san Pietro Martire con una scure conficcata nella testa? E se qualcuno si fosse letto anche questa paginetta copiata, incollata e ripetuta in corpo minore, difficile a credersi, ma si meriterebbe un premio, per esempio quello di sapere che Lucilla sarà condannata. Non tutti hanno fantasia, ma tutti si sanno immaginare queste cose. E allora la differenza dove sta? Non era una pagina perfetta? Non era carina? Cosa c'era di più inoffensivo di una cosa così pulita? I margini erano rettilinei, la distribuzione delle masse di nero e di bianco era regolare, come in una parabola del Vangelo. 2000 battute. Una paglietta perfetta. Forse alla fine si sfrangiava un po'. C'erano maggiori spazi bianchi fra le parole, ma sempre entro limiti accettabili. Una volta in certi libri di filosofia per evidenziare un concetto o


una parola si allargavano gli spazi fra una lettera e un'altra, e testi già difficili di per sé, magari anche mal tradotti, diventavano ancora meno leggibili, come se uno scrivesse meno leggibili. Aumentava il negativo, attorno alle parole si spianavano strade e passaggi larghissimi, vuoti, senza auto posteggiate, nemmeno in prima fila. Non c'erano spezzature, il testo era giustificato, detto senza ironia. Il primo computer che il correttore aveva acquistato era un Olivetti M24. Non aveva maturato nessuna inimicizia verso quello e gli altri. Ma non avrebbe mai messo, fra un paragrafo e un altro, un intercalare di episodi di qualcuno che cerca qualcun altro, un commissario smagato e cattivo, una poliziotta incinta, un cieco, che alla fine lo avrebbe rintracciato. Lui ci avrebbe messo il furgoncino, ma quello c'era davvero, se si affacciava alla finestra lo poteva vedere. A proposito, che cosa è successo a Lucilla, quando è uscita dal palazzo e ha visto che la Scenic non c'era più? Ha avuto un momento di disperazione. Ha fermato una macchina, ha urlato che era una situazione di emergenza. Era una Ford, di più non si ricordava, e due signori sulla trentina si erano dimostrati gentili. Diciamo che, nella situazione in cui era, con lo sperma ormai secco sulla sua camicetta, stravolta, l'avevano fatta accomodare sul sedile posteriore. Però, quando uno dice ironia della sorte, quei due non avevano nessuna intenzione di portarla dove lei voleva, che fra l'altro non aveva neanche le idee chiare. E le avevano preso il telefonino, che però non valeva un cazzo. Come abbiano fatto a raggiungere quel capannone, ad entrarci con lei che si ribellava e tentava di


urlare ma non ci riusciva, neanche lei se lo ricorda più. E neanche dove fosse questo capannone, che al suo interno era pieno di scatoloni vuoti di cartone. Due mezze rampe di scale ed ecco la sua alcova. Poi hanno chiuso la porta a chiave, e se la sono messa in tasca. E poi siccome lei aveva intenzione di urlare le hanno tappato la bocca con una mela, e poi l'hanno portata in una stanzetta in basso, dopo quel corridoio, e l'hanno spogliata tutta, e hanno pensato che doveva essere una bella troia per andare in giro così, senza calze e senza mutande, con quel freddo. E poi le hanno legato le braccia a una ringhiera e l'hanno ripassata bene bene per quattro giorni e per quattro notti. Per il correttore non valeva la pena di entrare nei particolari di tutte le sevizie che le avevano fatto. Ma era quello che si meritava, almeno secondo l'autore. Non c'era refuso che non si potesse eliminare, se non a questo giro di bozze al prossimo, e se no alla prossima ristampa, o alla prossima edizione. Mi devo forse preoccupare di questo? - pensava il correttore. Per esempio, che cosa gli diceva il correttore automatico? Che non si dice fare gli errori, è più corretto «commettere gli errori». Allora va bene anche «commettere» un refuso. Mettiamo che uno scrivesse che non cè una Parola inquesto modo che no contenca un'refuso, o che nonn nonn cè una Parola inquesto modo modo che no contenca un'refuso, e che nonn nonn cè una Parola nonn nonn afiso covilar Parol delabo attraco un Kaiser sanitari fricolasti, axolutamore cacca piscia merda culo. Asa nisi masa.


E lo sapete cosa proponeva l'imbecille? «Come se io scrivessi che nonna tè una Parola incesto modo cha no scontenta un refuso, o che nonna nonni cu una Parola incesto modo modi cha no condensa una refuso, e che nonno nonne cu una Parola nonno nonna riso Sparo delibo astaco Kaiser sanitari africo, cacca piscia menda culto. Osa visi basa». Ecco, secondo lui nella frase precedente non c'erano errori. A lui quella gli andava bene. Capito? Lui che indicava di mettere «menda» al posto di «merda», e questo gli andava bene. E secondo lui «riso Sparo delibo astaco Kaiser» aveva un senso… Era una fatica immane per il correttore concentrarsi di nuovo nella lettura, ma la riprese. Quando entrò in chiesa aveva in mano un pezzetto di quella fotocopia: 65 II corpo sullo scoglio, l'occhio cieco, il sole, il muro, dormiva, il capo sul libro, la notte sul [mare, dietro la finestra gli uccelli, il sole nella tenda, l'occhio più oscuro, il taglio nel ventre, sotto [l'impronta, dietro la tenda, la fine, aprire, nel muro, 70 un foro, ventre disseccato, la porta chiusa, la porta si apre, si chiude, ventre premuto, che apre, muro, notte, porta. Avvistò il confessionale. Su una targa di ferro smaltato c'era scritto in caratteri antichi: «Confessioni ore 17.30-19.00».


«Quanto tempo è che non ti confessi?» «Ah, padre, non me lo ricordo. Sono tanti anni». «Quanti anni?» «Venti? Trenta? Non me lo ricordo». Padre Siro fece un lungo sospiro. «Sono tanti anni. E una vita intera…». «Eh sì, padre». «E come mai così tanto tempo?» «Padre, ho un peccato gravissimo sulla coscienza». Padre Siro si accostò alla finestrina traforata. Respirava profondamente. «Ho ucciso un ragazzo…. Padre, mi creda, ho ucciso un ragazzo». «E perché hai sentito il bisogno di confessarti?» «Perché è un peso troppo grosso». «E come ti senti?» «E come vuole che mi senta?» «Sei tu che devi dirlo a me». «Non so come dire…». «Il Signore sa come ti senti». «Lo so». «E cosa c'è di più?» «C'è che sentivo il bisogno di dirlo a qualcuno». «Tu chiedi il perdono?» «Non lo so. E che…». «Non è a me che devi chiedere l'assoluzione. E al Signore che la devi chiedere. Ma tu di questo hai convinzione?» «Io…».


«La tua colpa è grande, e la strada per il pentimento è lunga. Devi lavorare sul pentimento, costruirlo, soffrirlo, e su questa strada il Signore ti verrà incontro. Mettiti nei panni del Signore. Lui aspetta che tu torni da lui. Ha tanta pazienza. Ma se tu lo inganni, lui lo sa. Lui si fida di te, ma tu ti devi fidare di lui». Ma mentre padre Siro diceva questo dall'altra parte non c'era più nessuno. Nel capannone c'era buio e silenzio. Accese una piccola torcia elettrica, muovendosi in mezzo a pile di scatoloni e di casse, alte più di una persona. Tese l'orecchio, non si sentiva niente. Era solo, e non aveva da fare la coda. Si infilò negli ex spogliatoi, e aprì il grosso chiavistello della porta che conduceva al seminterrato. Due mezze rampe di scale, ma la chiave della porta al chiodo non c'era più. Perché quella porta era aperta, e dentro non c'era più nessuno. Nello stesso momento il professore si era messo al volante. Per lui due ore di macchina erano tante. Arrivò a Genova Pegli che erano le otto e venti. Trovò il ristorante sulla litoranea e posteggiò la macchina a circa trecento metri dal parcheggio privato, che raggiunse a piedi. Lì si mise ad aspettare, dietro la Punto che aveva riconosciuto. Era freddo, ma soprattutto umido. Alle dieci e un quarto vide che quello usciva dal ristorante e approfittò dell'attimo in cui quello apriva la portiera.


Me lo vedo davanti e gli chiedo: «Cosa dice di fare lei?» «E tu cosa dici di fare? Pensi che abbia paura di te?» Cazzo! Quello tira fuori una verga di ferro lunga quaranta centimetri, dove cazzo la teneva?» «Io non la faccio la fine di quel cretino, hai capito?» «Ahi! Ahi!» Da terra lo vedo che salta sulla mia testa. «Ough!» E un morso nei coglioni di quel bastardo, e un calcio nel culo che lo faccio rivoltare. «Ahi! Ahi!» Mi spacca la schiena, è più forte di quello che si direbbe questo stronzo! Spack. Tieni, pezzo di merda. Oh, ahi! Cazzo! Il ginocchio! Figlio di puttana… I due uomini sono abbracciati, si stringono, immobili, in un contrasto di forze. Nella fitta colluttazione sono finiti sul ciglio della strada, a precipizio sulla scogliera. Ora, oltrepassata la banchina non transitabile, sono proprio sul bordo, su roccette friabili, sotto di loro ci sono quindici metri di strapiombo. Ora, precipitano tutti e due sotto, insultandosi. Ora sono spiaccicati su uno scoglio affiorante. Stanno fermi, così, inerti, finché scivolano in acqua. Il mare, lentamente, li risucchia e li porta qualche metro al largo. Uno va a fondo, l'altro resta a galla, in un blando riflesso di luci lontane. Ecco, ora, tutti e due sono immersi, appena, e la corrente li porta fuori.


Lo scoglio, ecco lo scoglio affiorante. Il correttore ne aveva fin sopra i capelli di quella sperimentazione light, anzi, mild, e dei tre o quattro narratori, o magari anche cinque o sei meta, iper mega. Pensava che si era arrivati alla disperata ricerca dell'indizio che fa tornare i conti, sennò è troppo facile, è troppo facile, uno legge e rilegge quello che c'è scritto per risolvere la sciarada. Il ventre lacerato, la nuova ossessione, la Scenic, l'edicola, in fondo anche l'edicolante è uno che maneggia paccate di carta stampata, eppure di quello che c'è scritto non ne sa niente. Così come la signora Lucilla, e l'addetto al controllo qualità. Che ci fosse qualche altro simbolismo da indagare? Ma lì di sciarade non ce n'erano, secondo il correttore non c'era la soluzione, il tutto assomigliava ad una presa in giro. E poi lui non leggeva per trovare la soluzione, la sua non era una lettura indiziaria, per lui non esisteva una fattispecie concreta da commisurare ad una fattispecie astratta. Il fatto singolare è che nella prima i fatti devono pur tornare, nella seconda anche no, perché è un'invenzione. Ma era un'invenzione anche la fattispecie concreta, nel suo caso. Erano entrambe le cose costruzioni intellettuali, e ovviamente nessuna delle due poteva funzionare da paradigma. Allora mi metto - pensava - a correggere a caso, prima o poi lo farò. Le parole sono pietre, ma chi l'ha detto? Le parole non contano. E dove stanno scritte le norme? Esistevano centinaia di pubblicazioni, alcune in commercio, altre ad uso interno, sulle norme redazionali, sull'uso delle virgolette doppie o semplici, su quale tipo di accento utilizzare sulle u e sulle i, una sequela di indicazioni pseudo normative, che erano oggetto di irrisione da parte del correttore. Per passare il


tempo si metteva a correggere tali volumetti o dispense di «Norme redazionali» e li trovava pieni di arbìtri, errori, refusi. E comunque da me non avranno una lira. E che c'entrava la confessione? La confessione provoca una cancellazione, cioè una delezione. Quando il refuso è una delezione, deleatur, allora scorre lo schema di lettura e non si capisce più niente. Cioè: Quando ilèuna de lezione, de leatura llorasco rrelosche madilettu raenon sicapi scepi ùniente e ancora un'altra delezione: doilè nadele zionedele aturallo rascor relosch emadilet turaenon sicap iscep iùnien te. Quando una delezione simile avviene nel nostro genoma allora ci viene il cancro. Quando una delezione o una inversione avviene nel nastro del rigo stampato si chiama refuso (un trasferimento di caratteri). Sapete che cosa proponeva lui? Di mettere «deiezione» al posto di delezione. Al correttore sarebbe andato anche bene. Il refuso è una deiezione. Erano ore che lo stava pensando. Anche tu sei una deiezione, pensava. Refuso puro e semplice è quando viene scritto «fica» al posto di «foca», gli aveva intimato il direttore del commerciale. Quelli dicono le parolacce, secondo loro perché così si trombano le insegnanti. Che effetto fa a una donna il suono della parola «fica»? Le suona bene o male? Questa era una domanda che il correttore si era posto tanti anni prima. In nessun libro aveva trovato una risposta adeguata. Tutto sommato avrebbe potuto chiederlo alla caporedattrice: «Allora, cosa ne


pensi della parola fica?» «Ti piace?» «No?» «Quale usi al suo posto?» Quando il refuso è un'inversione basta mettere una sorta di semplice greca, una esse squadrata e sdraiata in orizzontale che definisca quale parola o lettera deve essere anteposta o posposta. Quando il refuso è una traslocazione occorre invece andare a ritrovare il pezzo di testo che è andato fuori posto e gentilmente riaccompagnarlo dove gli compete: occorrerà tagliarlo alle sue estremità a monte e a valle, scorporarlo dalla sua locazione, ricollocarlo all'interno della sequenza di appartenenza. Il tentativo sarebbe stato quello di rifondere una persona, cioè di refundere, fondere un'altra volta il suo lavoro. Ma a forza di rifondere cosa ne veniva fuori? Lo spezzatino. Quando ilèuna de lezione, Quando ilèuna de lezione, de legatura llorasco rrelosche madilettu raenon sciapi scesi veniente e ancora un'altra delazione: doilè candele zionedele aturallo rascor relosch emadilet turaenon soap iscep iùnien te. Quando una defezione simile avvince nel nostro menoma allora ci viene il cancro. Quando una deiezione o una inversione si verificava nel nastro del rigo, sembrava che magari Lui potesse intendere che lo si stesse chiamando, no, nessuno lo stava chiamando, ma Lui poteva anche pensare… La tentazione di chiamarlo qualche volta c'è. E quando gli facevano leggere le parole alla rovescia, anche senza volere, lui poteva credere di essere invocato. Ma non era comunque mai venuto. Quando luna de lezione, de legatura piovasco le mosche maledetto


(L'aggettivo plurale «maledetto» non concorda in genere con i termini che lo circondano. Lo circondano? Ma che cazzo dici? Controllare de legatura piovasco le mosche maledetto) rene sciapi scesi veniente e ancora un'altra delazione: duole candele Sion del naturale Vasco rilascia armadietto Turandot soap pesci Giugno te. Quando una defezione simile avviene nel nostro menoma allora ci viene il cancro. Quando una deiezione o una inversione avviene nel nastro del rigo è un lucido destino. Queste righe erano destinate a non esser lette da nessuno, chi l'avrebbe mai detto? Quando (non è consigliabile iniziare una frase con una congiunzione. Controllare quando.) una defezione simile avvince nel nostro menoma allora ci viene il cancro. Quando una (l'articolo «una» davanti a parole femminili che iniziano con vocale è quasi sempre apostrofato. Sostituire una con un'. E pazzo, sapete cosa mi dice? Si consiglia di evitare questo termine - quasi sempre -, non perché errato, ma perché logoro e abusato. Sostituire quasi sempre con di solito, spesso, comunemente.) Ma l'hai scritto te cretino, super cretino, una deiezione o una inversione avviene nel nastro del rigo. «Pronto. Commissariato di San Maurizio. Dica pure». «Buonasera. Mi chiamo Lucilla Salvestroni». «Sì, dica». «Volevo dire che sono qui, insomma, sono viva». «Prego?» «Volevo dire che sono qui, a Milano…». «Vuole essere più specifica signora, è successo qualcosa? C'è qualcuno con lei? Non può parlare?» «No no, sono sola. Non sono in pericolo, adesso». «Allora mi spieghi, non è


che abbiamo tempo da perdere». «Ma io sono Lucilla Salvestroni. Quella di Chi l'ha visto». «Mi ripete il nome per favore?» «Lucilla Salvestroni». «Può restare un attimo in linea?» «Sì». «Pronto, signora Salvestroni?» «Pronto». «Dove si trova in questo momento?» «Qui, a Milano». «Può dirmi l'indirizzo? Sta bene?» «Sì, insomma, sì». «Può parlare liberamente?» «Sì». «E per una confessione?» «Confessione?» «Se ci dice dove si trova veniamo da lei». «Ma perché mi parla di confessione? Io non ho fatto niente». «Da dove chiama?» «Da una cabina». «E perché da una cabina?» «Perché il telefonino me lo hanno rubato». «Qualcuno la sta inseguendo? Ci dica, per favore, subito, dove si trova». «Sono in via Verdi, davanti alla Standa». «Può recarsi al più vicino commissariato di polizia? Oppure preferisce che la veniamo a prendere?» «Una confessione?» Il commissario tentava di mantenere nei confronti di Lucilla un atteggiamento amichevole e conciliante.


«Ora, signora Salvestroni, lei capisce che noi ci troviamo in una situazione difficile. Lei sostiene un sacco di cose delle quali non c'è nessun riscontro. Per esempio sostiene di essere stata sequestrata per quattro giorni e per quattro notti da un numero indecifrato di persone, di nazionalità non italiana, slavi? Albanesi? Dice lei, e che questi l'avrebbero rapita dopo che lei avrebbe chiesto loro un passaggio, dopo che le avevano rubato la macchina. Lei ci lascia intuire che in quei giorni è stata sottoposta a qualsiasi tipo di abuso sessuale. Poi sarebbe accaduto che uno dei suoi sequestratori si sarebbe impietosito, e l'avrebbe rivestita, mentre lei era in totale stato di prostrazione, bendata, ricaricata sulla macchina, e scaricata in centro. E che lei a questo punto avrebbe deciso di chiedere aiuto ad una sua amica, e di questo c'è riscontro, amica che l'avrebbe ospitata per i due giorni seguenti, prima che lei si decidesse a farsi viva con il Commissariato di Polizia, quindi dopo sei giorni che era scomparsa. E questo senza avvisare la famiglia, i parenti, tutti quelli che la cercavano. Lo sa che è finita anche a Chi l'ha visto?» «Sì. Sì che lo so». «Ora vede, per quanto una situazione del genere, ove si fosse verificata, stiamo aspettando il referto medico, sia raccapricciante, in qualche modo dobbiamo capire come fanno tutte le circostanze a stare insieme. Soprattutto il fatto che quel ragazzo col quale lei si era intrattenuta il 12 mattina, e lei questo lo conferma, sia stato trovato morto qualche giorno dopo. Come facciamo noi a non pensare che quella circostanza non sia connessa alla sua sparizione? Ci dica lei, possiamo noi pensare che sia tutto un caso?» «Voi siete pazzi».


«E la sua macchina? Lei sostiene che gliel'hanno rubata, mentre cercava quelli che le hanno fatto le foto, per ricattarla, o per qualche altro motivo. Ma la macchina è stata riportata subito al supermercato, con tutta probabilità da quel ragazzo stesso, la marchetta, e con la macchina fotografica dentro. Che senso ha? Perché aveva commissionato delle foto che documentassero il suo adulterio? E poi, perché nella sua macchina non c'è più il crick?» «Quello l'ho preso io, l'ho preso io». «E dove l'ha portato, dov'è adesso?» La signora era veramente sfinita, o recitava molto bene, e l'aria era irrespirabile, sapeva di acetone. «Non me lo ricordo, vi giuro che non me lo ricordo». Il commissario Grimaldi aveva esaurito la sua pazienza. «Signora Salvestroni, tanto vale che glielo dica, ma forse lei lo sa meglio di me, con quel crick hanno sfondato la testa di quella marchetta. E sul crick ci sono le sue impronte, e soltanto quelle. Signora Salvestroni, vogliamo parlarne?» Lucilla cercava di raccogliere lem idee, di dire quella frase che avrebbe risolto tutto. Ma pensava a Sebastiano, a suo marito, alla figura che avrebbe fatto. Lucilla non disse niente. «Vabbene, signora, lasciamo stare, per il momento. Vedremo… Ma una cosa me la deve dire, signora Salvestroni. Fra tutte le cose che non tornano in questa faccenda, ce n'è una che proprio mi intriga, non ci dormo la notte. Mi dice qual è il significato di quel dattiloscritto di sua proprietà che abbiamo trovato in mano al ragazzo, sul vater, una specie di poesia criminale che parla di una porta, una porta da aprire… lei sa di cosa parlo». «Aprire?»


«Sì, quella lì. Mi spiega la faccenda del bambino che dorme sotto il tavolo?» «Un bambino sotto il tavolo?» «Sì, quello della fotografia. Che strani giochetti facevate lei, il ragazzo e il fotografo?» Lucilla non si ricordava dei versi della poesia di Antonio Porta, non era arrivata a leggerla fino in fondo, ma si ricordava benissimo, improvvisamente, di quella foto vista sullo schermo del computer. E vero, che c'entrava un bambino che dorme sotto il tavolo? «Allora, signora mia, me lo spiega come funziona? Per quanto mi riguarda sulla fotografia del bambino sotto il tavolo che è stata scattata prima di quelle che ritraggono lei con il ragazzo io ho due ipotesi. La prima è la più semplice e cioè che quella foto sia stata fatta su commissione, ispirata dalla poesia, cioè da lei. E in questo caso anche le foto successive sarebbero ispirate da lei. Provi a pensare alle conseguenze di questa ipotesi. La seconda è che la poesia sia stata trovata da lei dopo che ha visto la foto. Diciamo, lei ha visto la foto, e poi ha pensato, ma io questa storia di un bambino che dorme sotto il tavolo l'ho già sentita. E si è procurata la fotocopia. Oppure ci sono altre possibilità, ma su queste mi deve aiutare lei. Per esempio che la foto e la poesia sono messaggi cifrati, un codice che lei ed altri conoscono. Allora la foto vuol dire qualcosa e la poesia qualcos'altro. Magari sono una parola d'ordine. Ma lei, signora, non mi dica che non ne sa niente. Non si ammazza un ragazzo perché ha fatto una marchetta. Né una signora rispettabile sparisce perché ci è andata insieme. Mi dà una mano, signora Lucilla?» Ma semoil samileni detrecan cobituale kefrege, misto matuboleines attivs


frecuolimi: innovatavi sami colbiqueo dentrandi lisurere. Vodiudam dato tutto sedimentare assogimando tripolux. Conosci attimita boluida infatima dela S trita sapulamena. (Non è consigliabile iniziare una frase con una congiunzione. Controllare Ma). Il correttore era in gravissimo ritardo, erano già le due passate. Appose un segno della forma di un cancellino sulla m di lem per obliterarla, poi segnalò che la grafia corretta di vater era water. Infine raccolse il fascicolo di bozze fra le mani e lo percosse sul tavolo, per smazzettarlo e pareggiarlo. C'era un foglio di dimensioni diverse in mezzo a quelle bozze. Era la copia delle istruzioni del frigorifero. La tolse via e quando il plico fu perfettamente squadrato lo appoggiò sul tavolo. Come era sua abitudine, riordinò il piano di lavoro: ripose gli evidenziatori, le penne e le matite, rimise nel cassetto la copia del Figlio grasso e la cartolina che usava come righello. Quella mattina aveva guadagnato 37 euro lordi. La grafia con la quale era stato lapidariamente scritto un «Mah» sulla fotocopia era la stessa della cartolina. Sul tavolo erano rimaste da leggere ancora venti pagine di quel racconto, aveva perso troppo tempo, le avrebbe lette nel pomeriggio.


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